Azione 15 del 11 aprile 2022

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Anno LXXXV 11 aprile 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

Pagine 4 – 5 ●

SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Famiglie monoparentali e ricostituite, si amplia l’offerta di sostegno, consulenza e ascolto

La fotografia di strada esalta soprattutto urbanità e umanità mettendole in stretta relazione

Orbán e Vucic guardano a Putin mentre il gruppo di Visegrad si è spezzato e il futuro resta incerto

Amalia Ulman, artista e regista argentina che si occupa di questioni di classe, di genere e di sessualità

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Se l’Europa piange Le artiste del Novecento protagoniste nei musei svizzeri il Sud si dispera Dal giorno dell’invasione russa dell’Ucraina la nostra attenzione è rivolta alla guerra in Europa, al pericolo che si scateni una terza guerra mondiale, alle ricadute che avrà sulla sicurezza e sulle economie europee. Tuttavia, credo che non venga ancora ben capito quanto devastante questa guerra è per il sud del mondo, considerato che la maggior parte di quei paesi vive fragilità istituzionali, politiche, economiche fin da prima, aggravate dai mutamenti climatici e da due anni di pandemia. Due esempi possono aiutare a capire quanto anche una sola di queste tre grandi crisi planetarie in corso contemporaneamente – clima, covid, guerra – possa destabilizzare nazioni apparentemente solide, ma in realtà fragili e mal governate: Egitto e Sri Lanka. Leggo sulla Nzz del 2 aprile che a causa della guerra in Ucraina e le turbolenze sui mercati, cui è seguita una svalutazione della moneta nazionale, l’Egitto ha chiesto, e ricevuto, aiuti urgenti per 5 miliardi di dollari dall’Arabia Saudita, 5 miliardi in investimenti dal Qatar e altri fondi dagli Emirati arabi. Per tappare le falle, una volta di più. Infatti, l’economista australiano Robert Springborn citato nell’articolo, definisce l’Egitto uno «Stato mendicante», che da tempo vive di crediti. Le importazioni superano largamente le esportazioni, un terzo delle entrate statali serve per pagare gli interessi sui debiti, mentre il governo del generale al Sisi investe cifre astronomiche in progetti di prestigio di poca utilità (per una nuova capitale e per creare un nuovo canale a Suez), molti settori economici sono in mano ai militari e, fra corruzione e inefficienza, sono poco produttivi. La pandemia, con il crollo del turismo, ha aggravato le cose. Allo stesso tempo, un terzo della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, il prezzo del pane deve quindi essere sovvenzionato, per evitare rivolte popolari. Ora però i prezzi del grano stanno aumentando e l’Egitto, che compra l’80 per cento del grano da Russia e Ucraina, rischia di non riuscire a procurasene a sufficienza. Inoltre, le casse dello Stato sono talmente vuote che il governo ha deciso di tagliare le sovvenzioni al prezzo del pane, pur consapevole del pericolo di tensioni interne. Tuttavia, l’Egitto è considerato un paese too big to fail, quindi è probabile che continuerà a ricevere crediti, nel tentativo di evita-

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re il collasso di una nazione che nella regione ha un’importanza strategica. Lo Sri Lanka non ha questa rilevanza, anche se la sua posizione nelle rotte marittime dell’Oceano indiano lo rendono appetibile per Cina, India e Stati Uniti. Ma quello che sta succedendo ci mostra l’impatto che la pandemia e altri fattori, uniti a fragilità istituzionale, corruzione, incompetenza, hanno su un paese apparentemente solido. Dopo una protesta finita con auto incendiate, botte e arresti davanti alla casa del presidente Gotabaya Rajahpaksa a Colombo, il governo ha decretato due giorni di Stato d’emergenza e coprifuoco, fermando anche treni e autobus. Il clan Rajahpaksa – presidente, il fratello Mahinda già presidente e oggi primo ministro, due altri fratelli ministri e un figlio ministro pure lui – ha preso paura e ha pensato di risolvere il problema al solito modo, con il pugno di ferro. Ma questa volta la protesta si è allargata a tutto il paese e la situazione è rapidamente precipitata, persino i più alti prelati del clero buddista hanno invitato il governo a dimettersi. Non ce n’è stato bisogno: uno dopo l’altro i ministri se ne sono andati e alla fine il governo si è dissolto, qualcuno è partito per l’estero. Ma popolazione e opposizione vogliono anche le dimissioni del presidente, che crede ancora di poter conservare il potere. Come si è arrivati a questo? Gli attentati di Pasqua, con quasi 300 morti, e poi la pandemia hanno fatto crollare il turismo, importante fonte di valuta estera, i lockdown hanno soffocato l’economia. Poi c’ha messo del suo il governo: indebitandosi per progetti faraonici (porti, un aeroporto inutilizzato, autostrade) che hanno favorito soprattutto la Cina, le riserve si sono assottigliate pericolosamente, si rischiava il default, per cui ha tentato di ridurre le importazioni. Decisione catastrofica, lo scorso maggio ha vietato da un giorno all’altro i fertilizzanti, creando un forte calo della produzione agricola e una crisi alimentare. Inoltre, per mancanza di fondi da mesi scarseggiano gas e petrolio, ogni giorno l’energia elettrica viene tagliata per ore, a volte anche l’acqua. Ciò nonostante, il governo è rimasto sordo alle richieste di una popolazione letteralmente affamata. Ora si è al punto di non ritorno, e nessuno sa come andare avanti. Come in tanti paesi del Sud, manca una classe politica capace, onesta, lungimirante e una classe media solida.

© 2021, ProLitteris, Zürich

Peter Schiesser


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SOCIETÀ ●

La cura della disfagia Il recupero della deglutizione e della funzione respiratoria serve a migliorare la qualità di vita

Un ricordo di Paolo Brenni È scomparso lo scorso dicembre il grande studioso e restauratore di antichi strumenti scientifici

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L’architettura di Tessenow A Mendrisio una mostra ripercorre il pensiero dell’architetto tedesco famoso per le sue «piccole case»

Vegetazione, suolo e neve La forte attività valangaria negli ultimi decenni in tutte le Alpi ha sollecitato molti studi puntuali

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Per il benessere della famiglia

Socialità ◆ Ascolto, consulenza, sostegno: l’impegno dell’Associazione ticinese delle famiglie monoparentali e ricostituite continua e si amplia Stefania Hubmann

Una nuova coordinatrice e lo sviluppo dell’offerta di ascolto con uno sportello a Locarno offrono nel 2022 all’Associazione ticinese delle famiglie monoparentali e ricostituite (ATFMR) l’opportunità di adeguare la propria impostazione ai cambiamenti sociali più recenti – dall’uso dei social media alla pandemia – senza comunque perdere di vista il suo obiettivo principale: il sostegno e la consulenza destinati in primo luogo al genitore affidatario, ossia nella maggior parte dei casi alla madre. L’associazione, fondata a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, ha nel frattempo sviluppato anche riflessioni più ampie. Sempre all’inizio di quest’anno ha preso posizione sul potenziamento dei Punti d’incontro per i diritti di visita, realtà pure sollecitata ad affrontare nuove tematiche legate a separazioni e divorzi in presenza di figli. Il benessere di questi ultimi resta centrale e passa anche dal congedo parentale, altro tema di attualità che l’associazione ha affrontato in una tavola rotonda organizzata lo scorso 5 aprile a Mendrisio. Se da un lato la rete sociale digitale ha permesso alle famiglie monoparentali di sentirsi meno sole, colmando l’isolamento che diversi decenni fa percepivano a livello sociale, dall’altro la pandemia ha evidenziato la necessità di un contatto personale, di un incontro in presenza che faciliti la discussione come pure l’esame di pratiche e documenti. Incontriamo quindi Alessia Di Dio, coordinatrice dell’ATFMR dallo scorso agosto, nella sede dello Sportello d’ascolto in via delle Aziende 3 a Locarno presso l’associazione Il Tragitto. La collaborazione fra le due organizzazioni non intende limitarsi a una questione logistica. Per Alessia Di Dio è importante sfruttare le sinergie visto che nei suoi spazi Il Tragitto accoglie famiglie e bambini a scopo di socializzazione e formazione. «Ascoltare e fornire consulenza resta la nostra prima risposta al bisogno immediato e concreto di chi si rivolge a noi – spiega Alessia Di Dio – Nella maggior parte dei casi, oltre 200 consulenze nel 2021, si tratta di madri affidatarie, ma riceviamo richieste anche da parte di genitori non affidatari, nuovi partner chiamati ad assumere ruoli educativi, nonne e altri familiari preoccupati per il benessere dei bambini che vivono in un nucleo monoparentale. Sovente si tende a identificare questo nucleo con la donna separata o divorziata con uno o più figli, ma non bisogna dimenticare i casi derivanti da un lutto e le madri sole. In Ticino le famiglie monoparentali o ricostituite sono una su quattro». Quali domande vengono rivolte

In Ticino le famiglie monoparentali o ricostituite sono una su quattro.

allo Sportello d’ascolto? Risponde la coordinatrice: «Il servizio, attivo telefonicamente dal 1991, è confrontato con interrogativi e dubbi su tutti gli aspetti della vita. Sono ricorrenti i problemi relazionali, le prestazioni sociali, gli aiuti finanziari, le questioni legate alla conciliazione. Nel caso di aspetti prettamente giuridici che richiedono una consulenza di natura legale, ci appoggiamo all’associazione Equi-Lab. Siamo inoltre in contatto con numerosi servizi sul territorio verso i quali indirizziamo in modo mirato le persone che vengono da noi a dipendenza delle loro esigenze». Un evento che ha sicuramente avuto ripercussioni accentuate sulle famiglie monoparentali è la pandemia. «È proprio così – afferma Alessia Di Dio – perché conciliare telelavoro, scuola a casa e gestione dell’economia domestica è ancora più complesso quando in casa il genitore è uno solo. Pure i diritti di visita hanno costituito un’ulteriore difficoltà nei periodi in cui erano in vigore restrizioni sugli spostamenti, in particolare quelli transfrontalieri». Questo per quanto riguarda la vita quotidiana, ma le conseguenze della lunga emergenza sanitaria si ripercuotono parimenti in ambito finanziario. Ambito che per le famiglie monoparentali è spes-

so un tasto dolente. «Il tema dei contributi di mantenimento è quasi sempre presente nelle nostre consulenze – afferma l’intervistata – e si spiega con il fatto che una parte dei genitori tenuti a pagarli non li versa o non lo fa con regolarità. La problematica è complessa e le situazioni variano a dipendenza dei Cantoni». Sandra Killer, presidente dell’associazione con una lunga esperienza sul campo, essendo stata lei stessa coordinatrice dal 2007 al 2016, conferma che l’aspetto finanziario è uno dei nodi centrali per le famiglie monoparentali unitamente alle relazioni con l’ex partner. «Gli effetti del primo dipendono in gran parte dal tipo di politica sociale applicata. In Ticino abbiamo notato maggiore fragilità a partire dal 2005 quando l’anticipo degli alimenti da parte del Cantone si è ridotto a 5 anni. Per chi deve ricorrervi sin dalla nascita della figlia o del figlio, la prestazione si ferma quando quest’ultimo è ancora molto piccolo. Altri elementi quali i servizi di custodia, quelli extrascolastici o ancora le condizioni di lavoro e la formazione del genitore affidatario giocano pure un ruolo». Il nucleo monoparentale va tutelato anche nell’ambito relazionale. Il diritto dei bambini di incontrare il genitore non affidatario in un am-

biente neutrale e protetto in caso di tensioni fra i genitori è assicurato tramite i Punti d’incontro per i diritti di visita. Il loro potenziamento è tema di discussione a livello cantonale a seguito di una mozione. L’ATFMR ha preso posizione per sottolineare che tale potenziamento non deve essere solo quantitativo (evitare le attuali liste d’attesa), ma anche qualitativo. Il sovraccarico del servizio e la necessità di un accompagnamento adeguato sono riconosciuti dall’ufficio cantonale competente. Per l’associazione l’obiettivo è lavorare insieme ripensando l’organizzazione dei Punti d’incontro, così che possano garantire maggiore sicurezza a tutti i presenti, supporto psicologico in caso di necessità e un buon coordinamento. «Le procedure sono dal nostro punto di vista il concetto chiave», precisa Alessia Di Dio. «Devono essere chiare e uniformi soprattutto per far fronte ai casi di violenza domestica. Quest’ultima non va confusa con la conflittualità genitoriale, bensì riconosciuta da personale formato e trattata ad hoc». La famiglia monoparentale non è però solo l’immagine di una serie di problemi da affrontare. Per entrambe le nostre interlocutrici è un’esperienza vissuta in prima persona – condizione di tutte le coordinatrici dell’ATFMR – che favorisce una maggiore autono-

mia dei figli, riduce le differenze di genere e offre un modello genitoriale positivo in grado di superare le difficoltà. In caso di conflitti persistenti fra i genitori prima della separazione, nella famiglia monoparentale si riesce a ritrovare serenità. Il tema delle scelte educative diventa inoltre centrale ed esplicito, poiché va instaurata una collaborazione fra i due genitori. Sandra Killer ricorda al proposito il corso-vacanze che l’associazione ha organizzato per un decennio dall’inizio degli anni Duemila. Sull’arco di un paio di giorni approfondiva per i genitori i temi dell’educazione e dell’evoluzione personale mentre i figli si godevano momenti spensierati. «Oggi il bisogno di aggregarsi si fa sentire meno – conclude la presidente – per cui dobbiamo ripensare il modo di interessare le famiglie facendo loro riscoprire un senso di appartenenza. I social media sono una forma di contatto, ma non bastano. Con la nuova coordinatrice desideriamo quindi capire come coinvolgere le famiglie monoparentali che diventano tali nel presente». Il bisogno, soprattutto delle madri, di essere ascoltate e capite in una fase delicata della vita rimane, le risposte si adeguano ai tempi. Informazioni www.famigliemonoparentali.ch


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Tremare fa bene

Corpo Umano ◆ Esiste una tecnica per attivare il tremore e scaricare la tensione dovuta a traumi e stress: la spiega David Berceli nel suo libro dedicato al Metodo TRE

Tremare è una reazione naturale del corpo umano. Tremare è utile, ma non lo facciamo quasi più. Negli ultimi decenni un gruppo di esperti in scienze biologiche e umane hanno ideato un metodo per indurci a provocare vibrazioni muscolari estremamente benefiche per rilasciare stress o per guarire da un trauma subito. Questo metodo si chiama TRE (Trauma Releasing Exercises), si può effettuare in solitudine o in comunità. Il sociologo David Berceli è uno dei massimi esperti internazionali di traumi e delle loro conseguenze. Da una quarantina d’anni conduce programmi di recupero da esperienze traumatiche in paesi afflitti dalla guerra, soprattutto in Africa e Medio Oriente. Collabora con le forze armate di varie nazioni nel mondo per offrire a soldati e veterani un metodo per rilasciare i traumi. È grazie all’incontro tra lui e Riccardo Cassiani Ingoni, biologo specializzato in neurofisiologia, che il metodo TRE oggi è applicato in tutto il mondo anche per lo stress cronico di cui soffre il mondo occidentale. Quando si sono incontrati, hanno scoperto che Berceli usava il tremore per curare le persone che avevano subito un trauma pesante, mentre Cassiani Ingoni aveva studiato biologia e la sua tesi di dottorato verteva su come il cervello degli animali rispondeva a situazioni di forte stress. Insieme con altri esperti di psicologia e altre discipline hanno iniziato un percorso che li ha portati a creare seminari e corsi di formazione, affinché il metodo TRE potesse essere usato da psicoterapeuti, dottori, massaggiatori e altri terapisti supportandoli con una parte teorica scientificamente fondata. Per «trauma» si intende infatti ciò che subiscono le popolazioni dei paesi in guerra, ma anche gli eserciti, i corpi di pompieri, chi subisce violenza di ogni tipo e in fondo anche tutti noi, in misura minore, quando siamo sottoposti a pressioni che qualifichiamo come stressanti. «Il tremore affascina da sempre gli studiosi dei riti delle popolazioni indigene», spiega e Riccardo Cassiani Ingoni, che oggi è insegnante e formatore del metodo TRE a Milano. «Si osservano danze e rituali in cui le vibrazioni muscolari, o tremori continui e a tratti convulsi, diventano strumento di un certo potere di guarigione». Ma davvero tremare può essere un modo di guarire? E da che cosa? Tremano le persone ferite, quelle sotto shock, trema chi ha la febbre e spesso tremano le donne dopo il parto; si può tremare di gioia, ripugnanza, terrore, emozione; le gazzelle tremano dopo essersi messe in salvo dal leone e tremiamo anche noi quando

Mike Lewinski/Unsplash

Sara Rossi Guidicelli

abbiamo paura o di rabbia, perché facciamo parte del regno animale, che ci piaccia o no. Il pericolo in natura fa scappare o aggredire la maggior parte delle creature: due attività fisiche che mettono in moto scariche energetiche; se invece rimaniamo fermi accumuliamo stress sotto forma di ormoni che in qualche modo vanno eliminati. Il meccanismo preposto dal nostro sistema nervoso è per l’appunto il tremore.

Tremare è una reazione naturale molto utile per superare traumi fisici e psichici, un vero e proprio «meccanismo di guarigione», eppure l’uomo non lo fa quasi più Il tremore è uno dei meccanismi più antichi e primitivi di guarigione di un trauma, sia esso fisico (colpi) o psichico (paura). Quello che succede quando viviamo una situazione di pericolo è che entrano in circolo nel nostro sangue ormoni quali l’adrenalina. Se scappassimo o aggredissimo il nemico, riusciremmo a smaltirli, ma oggi noi esseri umani viviamo situazioni

di stress in cui di solito non fuggiamo né attacchiamo fisicamente chi ci sta davanti: per esempio ci arrabbiamo sul lavoro, in famiglia, nel traffico e così via. Il nostro corpo però reagisce come se avessimo davanti a noi un predatore: produciamo adrenalina, cortisolo e serotonina, contraiamo i muscoli per proteggere i nostri organi viscerali più sensibili e ci prepariamo alla fuga o all’attacco. E per tornare allo stato normale di rilassamento dovremmo metterci a tremare. Uno dei problemi, scrive David Berceli nel suo libro Metodo TRE. Esercizi per rilasciare stress e traumi (ed. Spazio Interiore), è che noi esseri umani siamo in parte animali istintivi e in parte umani riflessivi. Quando subiamo un trauma, il nostro corpo vorrebbe disfarsene con i suoi mezzi naturali, uno dei quali è appunto il tremore. Ma la nostra psiche si rifiuta di affrontare la guarigione e in un certo senso di lasciar andare il passato «per paura di rivivere una seconda ferita», dice l’esperto. Oppure perché pensiamo che se tremiamo ci mostriamo deboli o preoccupati e non vogliamo farci vedere così; sicuramente ci impediamo di tremare perché non sappiamo quanto

bene può farci. «Il corpo vuole tremare per rilasciare gli eccessi di energia, ma la mente gli impedisce di farlo», scrive Berceli. E la mente vince spesso sul corpo. Ecco perché lo studioso ha ideato il metodo TRE, che è un processo terapeutico che non fa rivivere il trauma, bensì permette di liberarsi dalla tensione senza passare dalla mente, tremando come il nostro corpo farebbe in modo naturale. Terminato infatti l’evento traumatico, «il sistema nervoso dovrebbe attivarsi naturalmente e scaricare la tensione residua attraverso il tremore, mandando così un segnale al cervello, informandolo che il pericolo è passato e che è possibile “disattivare” la modalità di emergenza. Se il sistema nervoso non si attiva, il corpo permane in una sorta di circolo vizioso: il cervello continua a credere di trovarsi in pericolo e quindi ordina al corpo di rimanere in un continuo stato di allerta e contrazione». La maggior parte dei programmi di ricerca su traumi e disturbi post-traumatici sono stati condotti nel campo della psicologia, mentre Berceli, insieme con Riccardo Cassiani Ingoni e altri esperti, hanno spostato i loro studi sul piano fi-

sico, nel campo della psicobiologia e della neurofisiologia. Sono stati tra i primi a dire: ciò che colpisce il corpo colpisce anche la mente e viceversa. Dobbiamo dunque trovare il modo per rilasciare le sostanze e distendere i muscoli che si attivano in nostro aiuto durante i momenti di pressione. Un bagno caldo o un massaggio possono sicuramente aiutare a ritrovare la normale condizione di rilassamento, ma a volte non bastano. Inoltre ai nostri giorni viviamo nell’era del rimuginio: rimuginare mentalmente è una delle attività più deleterie del genere umano, ammonisce l’autore, perché «alla fine, questo processo neurologico trasformerà il caos mentale in pensieri di odio, vendetta, vergogna, suicidio o depressione». David Berceli racconta di come lui una volta sia entrato in un negozio, abbia visto la fila alla cassa e si sia messo a urlare di rabbia. Era estremamente stressato e non ce la faceva più. Altri disturbi possono essere mancanza di sonno, ansia, perdita della capacità di concentrarsi, incubi, perdita di memoria o disturbi fisici di origine psicosomatica. E come funziona il metodo TRE nel concreto? Nel libro di Berceli sono esposti in modo approfondito tutti i concetti teorici che riguardano la nostra natura, la sua anatomia e il suo modo di funzionare rispetto al tremore. Alla fine del libro, inoltre, sono indicati gli esercizi fisici da effettuare prima di tremare: si tratta di semplici esercizi che vanno a smuovere in maniera profonda i muscoli delle gambe, della zona pelvica e del bacino. Poi ci si sdraia, si alzano le ginocchia piano piano e si raggiunge una posizione in cui le gambe prima e tutto il corpo dopo si mettono a tremare. Naturalmente è consigliato almeno per le prime volte essere seguiti da uno specialista, perché, come spiega Riccardo Cassiani Ingoni, «se c’è qualcosa che ci blocca difficilmente riusciamo ad andare oltre quel blocco. All’inizio quando proviamo a tremare per le prime volte siamo molto in osservazione di ciò che succede e quindi in generale non riusciamo a “spegnere davvero la testa”. In una terapia ci vuole sempre qualcuno che funga da specchio e che guidi il processo. Ci sono poi anche persone che tremano molto e subito, e bisogna in qualche modo capire cosa sta succedendo e creare un contenitore per tutta quella energia che esce. Il metodo TRE si attiva in modo diverso in ognuno di noi e una sessione non è mai uguale alle altre; è forse questa la cosa che mi affascina più di tutte di questa pratica». Informazioni metodotreitalia.com

azione

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MONDO MIGROS

Un capretto pasquale coi fiocchi

Attualità ◆ Tra i piatti tipici della Pasqua, vi è sicuramente il capretto al forno. Nelle macellerie Migros potete trovare non solo la migliore carne, ma anche i consigli personalizzati degli esperti per la buona riuscita del piatto

Capretto, Francia, al banco, per 100 g Fr. 2.70 invece di 3.60 dal 12.4 al 16.4.2022

Il capretto cotto lentamente al forno è una vera prelibatezza che per molti ticinesi rappresenta la pietanza per eccellenza del pranzo di Pasqua. Quella del capretto è una carne dal colore rosa chiaro, molto tenera, che non si sfalda in cottura, dal sapore delicato e leggermente nocciolato. Inoltre, risulta essere più magra e facilmente digeribile rispetto ad altri tipi di carne. Per le preparazioni a base di capretto, in linea di massima, si può far riferimento alle ricette utilizzate per l’agnello, ma senza eccedere con i condimenti, per non comprometterne il delicato gusto. La regola «meno è meglio» è sempre un buon esempio da seguire quando si cucina il capretto: anche solo poche erbe aromatiche come rosmarino, salvia, timo e origano si armonizzano bene con la carne e donano al piatto finale quel tocco caratteristico in più. Altro aspetto importante da considerare è la breve rosolatura iniziale della carne a fuoco vivo, per poi portarla a fine cottura a fuoco medio: in questo modo rimane succosa all’interno e croccante fuori. Infine, è consigliato salare la carne prima della preparazione. La consulenza degli esperti macellai Migros

Gabriele Gatti, capo macellaio a Migros S. Antonino, con in mano un vassoio di capretto e gigôt d’agnello. (AdvAgency.ch/Däwis Pulga)

Gabriele Gatti, macellaio qualificato attivo presso la Migros da oltre 30 anni, è responsabile della macelleria del supermercato Migros di S. Antonino. Gli abbiamo chiesto cosa propone di particolare per Pasqua il bancone della carne. «Il nostro assortimento pasquale è come sempre ricco di succulente specialità: accanto al gettonatissimo capretto, di provenienza francese o, a seconda della disponibilità, anche svizzero e in minima parte ticinese, offriamo per esempio ancora il gigôt d’agnello con l’osso, l’entrecôte o il filetto di manzo black angus, il maialino da latte e l’agnello intero. Per quanto riguarda gli antipasti, al reparto gastronomia sono disponibili diversi raffinati paté, da quello di coniglio fino ai paté aromatizzati con noci, tartufo, gin Bisbino e pistacchi, senza dimenticare la vasta scelta di finissima salumeria». Oltre all’alta qualità delle carni proposte

dalle macellerie Migros, importante è naturalmente anche la consulenza alla clientela: «Sia io che il mio team di esperti macellai siamo a completa disposizione per consigliare quale tipo di carne si presta meglio per le occasioni più disparate, quali metodi e tempi di cottura sono più indicati per i differenti tagli e quali ricette valorizzano al massimo il prodotto», conclude Gabriele Gatti.

La ricetta Capretto al forno

Flavia Leuenberger Ceppi

Azione 25%

Ingredienti per 4 persone • 2 kg di capretto tagliato • 2 cucchiai d’olio d’oliva extravergine • 4 rametti di rosmarino • 2 foglie di salvia • 4 spicchi d’aglio • 100 g di burro • ½ litro vino bianco secco • sale e pepe Preparazione

1. Preriscaldare il forno a 170-180 °C. 2. In una pentola, rosolare per bene il capretto nell’olio d’oliva. 3. Dimezzate l’aglio, privatelo del germoglio verde e tagliatelo a fettine. Staccate gli aghi dai rametti di rosmarino e uniteli al capretto, assieme all’aglio. 4. Salate la carne. Unite il burro a tocchetti e mescolate il tutto. 5. Cuocete il capretto nel forno per ca. 90 minuti. 6. Bagnate con il vino e continuate la cottura per ca. 20-30 min. 7. Regolate di sale e pepe.

Il pesce del Venerdì Santo

Attualità ◆ Ai banchi del pesce fresco Migros trovate un’ampia selezione di specialità ittiche per il venerdì che precede la Pasqua. Tra queste come novità ora anche il filetto di pesce spada

Raffinato e gustoso: filetto di pesce spada con cime di rapa e salsa verde

I buongustai saranno felici di sapere che i supermercati Migros con banco del pesce fresco hanno introdotto nel loro assortimento il filetto di pesce spada. Grazie alla quasi totale assenza di lische e al delicato sapore dolce, simile a quello della carne di vitello, il pesce spada è molto apprezzato anche dai carnivori. Il filetto si prepara allo stesso modo della carne ed è molto gustoso cotto alla griglia. La ricetta più semplice è anche quella più buona: cuocete le fette di spada per qualche minuto su ogni lato (è cotto a puntino quando la carne risulta bianca) e conditele con una miscela di olio di oliva e succo limone… oppure provate l’aromatica ricetta primaverile che vi proponiamo qui di seguito, il “Pesce spada in salsa verde”. Per 4 persone, tritate finemente qualche

cappero, del dragoncello e del prezzemolo. Mescolateli con un filo d’olio di oliva e un cucchiaio di senape granulosa, unite un po’ di scorza di limone grattugiata finemente e regolate di sale. Tagliate due spicchi d’aglio a fette sottili e mondate e tagliate a pezzetti ca. 800 g di cime di rapa. Rosolate in poco olio 4 filetti di pesce spada per ca. 2 minuti per lato e mettete da parte. Nella stessa padella fate appassire l’aglio e le cime di rapa per qualche minuto. Salate, accomodate il pesce sopra la verdure e lasciate cuocere coperto per ancora 2 minuti. Servite con la salsa verde a parte. Filetto di pesce spada per 100 g Fr. 4.95 In vendita ai banchi del pesce fresco Migros


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MONDO MIGROS

Disegna il tuo momento magico in Ticino Attualità ◆ Partecipa al nostro concorso di disegno e potrai vincere fantastici premi

Come partecipare

Migros Ticino e Mini Me Explorer – portale ticinese dedicato ai viaggi per le famiglie in Svizzera e all’estero – hanno organizzato un avvincente concorso di disegno rivolto a tutti i bimbi di età compresa tra i 3 e i 10 anni. Ci sono dei posti in Ticino che ti sono piaciuti tanto durante una gita con la famiglia? Hai visto un simpatico animaletto che ti ha incuriosita/o particolarmente? Hai fatto una passeggiata nella natura e hai scoperto qualcosa di strano? Dove ti sei divertita/o di più? Dai libero sfogo alla tua fantasia e rappresenta con un bel disegno il momento più magico che hai vissuto nel nostro Cantone: con un po’ di fortuna potresti vincere una delle tre carte regalo Migros in palio, del valore, rispettivamente, di franchi 200.–, 150. – e 100.–.

Vai sul sito minimeexplorer.ch o migrosticino.ch dal 14.4.2022, scarica e stampa il pdf del foglio presente online e disegna il tuo momento magico in Ticino. Compila il foglio con i tuoi dati e imbuca il disegno nell’apposita urna che trovi nelle filiali Migros di Lugano Città, Agno, S. Antonino, Locarno o Serfontana. Alla consegna del disegno ogni bambino riceverà un simpatico gadget in omaggio. I tre disegni vincitori estratti verranno pubblicati sul settimanale Azione e sul sito di Mini Me Explorer e riceveranno in premio una carta regola Migros. Il termine di partecipazione è il 13.5.2022. I vincitori saranno informati per iscritto a partire dal 16.5.2022.

Per ulteriori informazioni minimeexplorer.ch migrosticino.ch Annuncio pubblicitario


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SOCIETÀ

Se qualcosa «va giù di traverso» Medicina

Subdoli o evidenti, i problemi della deglutizione meritano una cura adeguata

Maria Grazia Buletti

Quel momento in cui, mangiando, il cibo ci «va di traverso» è quanto di più fastidioso e sgradevole ci possa capitare. Almeno una volta ci siamo passati praticamente tutti e ricordiamo di aver provato quella terribile sensazione, spesso associata al senso di soffocamento, di non riuscire a respirare a tal punto che questa situazione a certe persone ha causato veri e propri attacchi di panico. Esistono poi alcune categorie di persone più a rischio per quanto riguarda il non riuscire a deglutire a dovere liquidi o cibo solido. Fra queste, bambini e anziani sono proprio quei soggetti che meritano particolare attenzione. In realtà, la difficoltà a deglutire (disfagia) colpisce a ogni età e può essere causata da problemi occasionali (ad esempio una masticazione scorretta) o dipendere da alcune patologie che richiedono trattamenti specifici. Alla Clinica Hildebrand – Centro di riabilitazione di Brissago – ne parliamo con il capo reparto di logopedia Yuri Gallo e col capo clinica e specialista in pneumologia Giovanni Mazzucchelli che così riassume gli obiettivi della presa a carico di pazienti con una diagnosi di questo tipo: «La cura della disfagia mira al recupero della deglutizione e della funzione respiratoria, con lo scopo di migliorare la qualità di vita del paziente». Questi disturbi «sono innanzitutto un problema frequente nelle persone che hanno subito un danno cerebrale, e si possono manifestare con movimenti involontari della muscolatura faringea, un controllo ridotto o ritardato della lingua o il singhiozzo incontrollato». Non si limita solo a questo tipo di pazienti: «La disfagia si può evidenziare anche nelle persone con una malattia neurodegenerativa, in presenza di un evento cerebrovascolare (come un ictus), nei pazienti che

hanno subito un intervento nel tratto orale-faringeo o esofageo (asportazione di un tumore), in quelli a lungo degenti nelle Cure intensive e assistiti dalla respirazione artificiale o tracheotomizzati (a causa della cannula)». Il logopedista Yuri Gallo mette in guardia: «Un disturbo della deglutizione può costituire un rischio elevato per la salute e una limitazione più o meno grave della qualità di vita: inevitabilmente possono sorgere problemi riguardanti l’alimentazione, l’assunzione di cibo, la gestione di una cannula tracheale e le idonee procedure terapeutiche». Egli ricorda che durante il giorno deglutiamo in media due volte al minuto (di notte una volta). Ciò giustifica l’importanza del deglutire: «Un atto spontaneo che mette in moto una serie di muscoli in perfetta coordinazione ed equilibrio, e funziona a fasi: preparazione del cibo, masticazione, spinta del cibo nell’esofago (cibo e liquidi non scendono per gravità ma per movimento peristaltico) che giunge al bivio fra vie respiratorie e vie digestive dove viene convogliato». Se qualcosa «va storto» e il tutto va verso i polmoni «si attivano i campanelli d’allarme come tosse, spesso violenta, che è il sintomo principale in quanto automatismo difensivo. Talvolta la disfagia è accompagnata da dolore locale, soffocamento durante la deglutizione, rigurgito, vomito, sensazione di corpo estraneo nella gola, ansia, dolore retrosternale e peggioramenti successivi come la polmonite». Attenzione però pure alle persone per cui questa disfunzione sarebbe insospettabile: «Spesso sono gli anziani: potrebbero presentare segni o sintomi anche non molto evidenti tra i quali una riduzione di peso, autonome modifiche alla consistenza dei cibi (necessità di pasta ben cotta), qualche linea di febbre non giustificata (anche

Lo pneumologo Giovanni Mazzucchelli (a ds), e il logopedista Yuri Gallo. (Vincenzo Cammarata)

qualche lineetta) e un leggero gorgoglio udibile all’orecchio attento». Gallo suggerisce una valutazione clinica preventiva anche per questi, perché è importante diagnosticare e curare la loro disfagia, sebbene non particolarmente evidente: «Uno screening orientato a valutare lo stato cognitivo, la postura e altri parametri può permettere di guidare i curanti verso approfondimenti ed esami ancora più approfonditi». Ce ne parla il dottor Mazzucchelli: «Con una corretta anamnesi, e al manifestarsi di un’importante disfagia, ci si orienta verso un esame diagnostico (TAC, RMI) a dipendenza del quadro clinico; mentre di grande importanza sono gli esami endoscopici la cui scelta compete al medico o all’équipe curante». Ad ogni modo, per le persone a domicilio, nel caso in cui si sospettasse una lieve disfagia, il consiglio dei

due specialisti è quello di indirizzarsi al proprio medico curante che a sua volta valuterà la visita di un otorino o di un foniatra. Questo a causa dei rischi – come spiega il medico – «legati soprattutto all’impegno delle vie aeree con conseguenze talora gravi di soffocamento». Mentre il logopedista ricorda che «bisogna inoltre contrastare la malnutrizione che la disfagia può comportare, ed eventuali infezioni bronco-polmonari o delle vie aeree alte». Mazzucchelli indica che la presa a carico di questi pazienti varia considerevolmente in base alla gravità della patologia stessa: «Se parliamo di tumori del cavo orale, faringeo, laringeo o dell’esofago, la cura sarà mirata a risolvere queste patologie e potrà anche essere chirurgica, radiante o chemioterapica (in multidisciplinarietà o meno), e comunque porrà talora pro-

blemi di recupero il cui percorso sarà seguito dall’équipe di logopedia e da fisioterapisti specializzati». Dal canto suo, il logopedista parla delle cure nella disfagia funzionale e motoria: «Si cercherà di migliorare la funzione con terapie riabilitative ad hoc: attività multidisciplinare neuro riabilitativa e di logopedia con rieducazione graduale della deglutizione, del linguaggio, della parola e della voce. Questo, modificando ad esempio consistenza e frequenza dei pasti, con l’uso di diete specifiche e personalizzate, finché i pazienti riescano a raggiungere una “nuova normalità” del nutrirsi per bocca, subordinata comunque alla nuova condizione dopo l’evento che, fra le altre cose, ha causato la disfagia». Di fatto, bisogna considerare quella che egli definisce: «una nuova normalità dopo una malattia, in cui bisogna considerare un residuo di problematiche e menomazione». Un percorso, ricorda, non privo di difficoltà: «Anche l’assunzione di liquidi e delle pastiglie necessarie alle terapie può rappresentare un problema di deglutizione che siamo chiamati a valutare e a risolvere al meglio». Importante è la sintonia del paziente coi curanti: «Ci accordiamo, spiegandogli la sua nuova normalità e portandolo al risultato con lui concordato lungo il percorso di recupero. Qualcosa è cambiato, magari non potrà più mangiare la pastina in brodo, ma quando è arrivato da noi forse aveva un sondino e non si alimentava affatto in modo naturale». È comunque appurato che «gli esercizi della terapia della deglutizione sono efficaci ed è difficile che il paziente non risponda alla terapia che, alla dimissione dalla Clinica, lo porterà verso un nuovo equilibrio impossibile da raggiungere senza la riabilitazione: una condizione molto migliore rispetto al punto di partenza».

Liquirizia, non solo dissetante Fitoterapia

Da Tutankhamon ai testi babelici, fino a noi, molti hanno già approfittato delle proprietà di questa straordinaria radice

Eliana Bernasconi

dano pazzi: è il paese dove il suo consumo è maggiore. La Liquirizia è disponibile anche nella forma di piccoli tronchetti o bastoncini ottenuti dal fusto e dalle radici del terzo anno, che vengono ripulite dalla corteccia ed essiccate al sole su dei graticci. Così come, la si trova anche in polvere e in estratto fluido e sciroppo. Tutti prodotti che profumano l’alito. Negli anni Ottanta e Novanta era pure diffusa l’abitudine di masticare i pezzetti di legno di liquirizia per pulire i denti e vincere il vizio del fumo, dato che richiama alla memoria e sostituisce la sigaretta anche nella gestualità; del resto molti prodotti a base di tabacco vengono aromatizzati con la liquirizia. Resti di liquirizia sono stati trovati nella tomba di Tutankhamon: gli egizi la masticavano per placare la sete. Fra le proprietà della liquirizia vi è infatti quella di essere dissetante; si racconta che in Medio oriente gli Sciiti camminassero per ore nel deserto senza soffrire la sete grazie alla liquirizia che sazierebbe rapidamente anche la fame. Tracce di questa straordinaria radice si trovano nei testi medici babilonesi, greci, latini e induisti, inoltre è presente nella medicina ayurvedica e nella medicina tradizio-

nale cinese è conosciuta con il nome di «gan cao». In India, con il suo succo si aspergeva la statua del Buddha nell’ottavo giorno di ogni ottavo mese dell’anno. E infine arriviamo in Europa, dove venne introdotta nel Quattrocento per opera dei domenicani, quando, dopo la caduta dell’Impero romano d’occidente e le invasioni dei barbari, i monasteri divennero centri fondamentali di conservazione e diffusione della cultura, e di conseguenza dell’uso terapeutico delle specie vegetali. E

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Il nome scientifico della liquirizia è Glycyrrhiza glabra L, dal greco «glycys» dolce, e «riza» radice. Tipica pianta mediterranea che fa parte delle Leguminose, la liquirizia cresce nei prati e nelle siepi, nei luoghi incolti e argillosi, raggiunge un metro di altezza, ha fusto eretto e piccoli fiori color lilla. È diffusa in Asia e nel sud Europa; la migliore del mondo cresce lungo la costa ionica, a Rossano in provincia di Cosenza, dove ha sede un Museo della liquirizia che è detta anche «oro nero della Calabria» perché proprio il clima di questa terra esalta il suo contenuto di glicirrizina, il principio attivo che dona a questa radice un sapore unico, inizialmente dolce ma molto intenso, dove l’associazione di più funzionalità chimiche interagiscono con i recettori linguali e del palato. A parecchie persone il nome ricorda le caramelle di colore nero intenso e lucido che si succhiavano da bambini ma sono ancora oggi apprezzate dagli adulti di ogni età, anche se non contengono soltanto liquirizia pura. Scopriamo inoltre che sarebbe odiata dai giapponesi (chissà mai perché), mentre in Egitto, in Siria e in Finlandia è una bevanda molto consumata. In Olanda, addirittura, sembra ne va-

come non citare la patrona degli erboristi, la grande monaca benedettina Ildegarda di Bingen che scrisse: «la liquirizia è di calore moderato e procura all’uomo una voce chiara comunque venga mangiata, rende mite il suo umore, gli rischiara gli occhi e gli ammorbidisce lo stomaco per la digestione, ma giova molto anche al malato della mente se ne mangia spesso, perché scaccia l’ira che è nel suo cervello». Le principali qualità terapeutiche della liquirizia si esplicano sull’apparato gastrointestinale: aiuta il fegato, il mal di stomaco, le ulcere gastriche e agisce sulla digestione lenta, sulla stitichezza e sulle intossicazioni alimentari, ma è anche usata per la cura della tosse di ogni tipo e per i disturbi delle vie respiratorie perché combatte il muco. Un’altra sua notevole proprietà è quella di alzare la pressione, per questo motivo il suo consumo può avere serie controindicazioni, avvertiamo, come del resto facciamo sempre, di non farne mai un uso fai da te, senza prima consultare un medico. Gli estratti della radice sono utilizzati anche nella produzione di prodotti per la cura dell’igiene orale e molto utilizzati nell’industria dolciaria. Descriviamo qui un’ottima tisana

depurativa, rinfrescante, espettorante per il muco e indicata per le vie respiratorie, che si prepara con liquirizia e menta: si prendono 10 g di radici di liquirizia e 4 foglie di menta fresca, oppure 2 g di foglia di menta triturata ed essiccata, si lasciano dapprima in infusione le radici di liquirizia per 10 minuti e dopo 6 minuti si aggiungono anche le foglie di menta, si filtra e si beve. Si può anche preparare in casa un semplice «sciroppo della nonna» che racchiude le virtù della liquirizia e che si potrà conservare per parecchio tempo, ecco come procedere: occorrono 300 g di liquirizia pura in confetti, 1 litro di acqua e 1 kg di zucchero di canna (per poter riempire 2 bottiglie). Mettere in un pentolino la liquirizia e l’acqua, aggiungere lo zucchero, portare a bollore e poi a fuoco lento attendere per 15 minuti che lo zucchero sia completamente sciolto. Togliere dal fuoco e con un imbuto versare nelle bottiglie precedentemente sterilizzate, chiudere ermeticamente e far raffreddare; una volta aperta conservare la bottiglia in frigo. Bibliografia Gabriele Peroni, Trattato di Fitoterapia Driope, Nuova Ipsa editrice.


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Paolo Brenni.

Raccontare il contagio

Mostre ◆ Al Castelgrande, l’esposizione allestita dall’Istituto di ricerca in biomedicina e da L’Ideatorio Guido Grilli

Lutti ◆ Nato a Mendrisio era un grande studioso e restauratore di antichi strumenti scientifici Marco Beretta*

La prematura scomparsa di Paolo Brenni ha suscitato una profonda commozione nella comunità scientifica internazionale. Negli ultimi decenni la storia della scienza si è aperta allo studio delle modalità concrete di fabbricazione della conoscenza, all’analisi della sperimentazione, delle sue tecniche e dei suoi protocolli. Paolo Brenni ha dato un contributo fondamentale a questo nuovo approccio, grazie alla sua vastissima conoscenza teorica e materiale degli strumenti scientifici, e alla sua generosità. È impossibile esaurire la biografia di Paolo in un semplice commento cronologico alla pur notevole bibliografia di scritti, o in una rassegna delle numerosissime collezioni di antichi strumenti scientifici che ha contribuito a riordinare, catalogare e restaurare. Le sue qualità intellettuali non potevano essere disgiunte dalla rarissima armonia tra intelletto e destrezza manuale, che si manifestava nella maestria con cui assemblava, smontava, riparava e restaurava gli strumenti scientifici più complessi. Paolo Brenni nacque a Mendrisio il 20 marzo 1954 e, dopo la maturità classica a Lugano, ottenne una laurea in fisica sperimentale al Politecnico di Zurigo. Si avvicinò alla tecnica, alla scienza e al collezionismo anche grazie agli interessi di alcuni suoi familiari. Nel 1928 il nonno paterno aveva fondato a Melano la Tannini Ticinesi, una fabbrica di estratti tannici, essenziali per la concia delle pelli e la produzione del cuoio. Proprio qui Paolo era rimasto affascinato dai procedimenti tecnico-sperimentali. Come il nonno materno Claudio Capelli, medico chirurgo e appassionato di fotografia stereoscopica, precoce fu anche l’interesse per il collezionismo e le arti figurative dell’Ottocento. Nel 1981, in occasione della fondazione a Pavia della Società Italiana degli Storici della Fisica e dell’Astronomia venivano organizzati due convegni, al secondo dei quali partecipava anche Paolo. Qui veniva a contatto con Gerard L’Estrange Turner, allora il massimo esperto mondiale di strumenti scientifici, che Paolo considerava suo mentore. Nel biennio successivo Paolo veniva chiamato a riordinare e restaurare a Pavia tutti gli strumenti della Sezione di Fisica del Museo per la Storia dell’Università. Già in questa prima fase della carriera Paolo adottava quel suo caratteristico approccio

alle collezioni, che prevedeva l’installazione di un piccolo laboratorio di restauro nella stessa stanza che ospitava gli strumenti, dove ogni apparecchio veniva smontato, accuratamente ripulito, revisionato e rimontato. A questa disamina materiale seguiva la scheda catalografica poi confluita, nel 1990, in un lavoro scientifico più approfondito. Il lavoro a Pavia rimase fondamentale non solo per i risultati conseguiti ma anche per le durevoli amicizie intessute che sfociarono in importanti progetti scientifici, tra i quali la catalogazione della collezione Voltiana, e la collaborazione con il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano. Fu a Firenze, città rimasta per tutta la sua vita un punto di riferimento sia umano sia professionale, che la sua carriera prese una svolta decisiva. L’incontro con Mara Miniati e Paolo Galluzzi, al tempo rispettivamente curatrice e direttore dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza (ora Museo Galileo), diede vita a una serie di iniziative che contribuirono a creare una collaborazione scientifica e umana ininterrotta. Nel 1984, Paolo venne incaricato dal Museo Galileo di restaurare e catalogare la collezione di strumenti scientifici antichi conservata presso la Scuola Tecnica per geometri G. Salvemini. Questa importante collezione, per lo più riferibile alla fisica sperimentale del XIX secolo, fu per Paolo un vero e proprio laboratorio scientifico che lo vide protagonista insieme ad Anna Giatti nell’attività della catalogazione, restauro, riallestimento e in importanti iniziative innovative rivolte alla sperimentazione didattica e alla formazione. Nello stesso intensissimo periodo, collaborava alle mostre promosse dal Museo Galileo, tra le quali Dal cembalo scrivano alla scrittura elettronica e Occhiali da vedere (1985), e alla catalogazione delle lenti, prismi e giochi ottici esposti nella mostra L’età di Galileo (1987). Da questa febbrile attività gli interessi di Paolo subivano un imprinting che lo avrebbe accompagnato nei decenni successivi: l’interesse per le collezioni di strumenti e la loro valorizzazione storica; l’attenzione prosopografica per i costruttori; l’importanza attribuita al restauro; la realizzazione di cataloghi di alto profilo scientifico; l’attenzione a progetti espositivi; la contaminazione tra storia degli strumenti e storia della scienza

e, non da ultimo, la costante esigenza di condividere le competenze acquisite sul campo con colleghi e giovani studiosi. Se il soggiorno fiorentino delineò in modo preciso l’approccio storiografico e museologico maturato da Paolo nei decenni successivi, l’incarico ottenuto a Parigi presso il Centre de Recherche en Histoire des Sciences et des Techniques (1988-1991) costituì un’altra tappa fondamentale che gli permise di approfondire, tra gli altri, i suoi interessi per la storia dell’elettricità e per i costruttori francesi di strumenti di precisione. Queste importanti collaborazioni però non lo allontanarono mai dall’Italia, tanto che tra il 1992 e il 2000 ebbe un incarico di ricerca presso il Museo Galileo e nel 2001 divenne ricercatore del CNR distaccato presso la Fondazione Scienza e Tecnica di Firenze. A livello internazionale presero avvio le collaborazioni con il Musée des Arts et Métiers a Parigi, il Museum for the History of Science a Oxford, il Museum Boerhaave a Leida e il Museo de la Ciencias a Madrid e con gli osservatori astronomici di tutto il mondo. Negli ultimi anni si era generosamente prestato ad accompagnare le ricerche di giovani studiosi dell’istituto di storia e del centro di conservazione e restauro di Neuchâtel. Questa densa rete di prestigiose collaborazioni gli varrà l’incarico di Presidente della Scientific Instrument Society, di Presidente della Scientific Instrument Commission (2003-2013) e di Vicepresidente dell’International Union for History and Philosophy of Science (2009-2013). Numerosi sono i premi e riconoscimenti ottenuti, tra cui il Premio Paul Bunge della H. Jenemann Stiftung (2002), la medaglia della Scientific Instrument Society (2005) e la medaglia Marc-Auguste Pictet dal comitato della Société de Physique et d’Histoire Naturelle di Ginevra. Nonostante la sua predilezione per l’Italia, Paolo amava la Svizzera e in particolare la sua città natale, Mendrisio. Durante le nostre conversazioni ricordava con orgoglio che Mendrisio era stata, alla fine dell’Ottocento, una delle prime città ticinesi a essere elettrificate, di qui l’appellativo forse leggendario di «ville lumière» del Ticino. Nota *Professore ordinario di Storia della Scienza all’Università di Bologna.

Giochi, postazioni interattive e testimonianze video permettono di riflettere sulle molte facce del contagio L’esposizione è visitabile dal 9 aprile al 6 novembre. Artefici del progetto e dell’allestimento, l’Istituto di ricerca in biomedicina (Irb) e L’ideatorio dell’Università della Svizzera italiana, in collaborazione con la città di Bellinzona e la fondazione Sasso Corbaro. La mostra è stata concepita in tempi non sospetti – prima della pandemia – ed è pienamente interattiva. «Già attorno al 2015 volevamo organizzare un’esposizione sui vaccini» – spiega Maryse Letiembre, ricercatrice dell’Irb. «Avevamo chiesto al Fondo nazionale un finanziamento nell’ambito del programma denominato, “Agorà”. Fondo che abbiamo ottenuto e così abbiamo coinvolto L’ideatorio con cui abbiamo concepito i contenuti della mostra. L’evento si presenta interattivo sin dall’ingresso nella Sala dell’Arsenale al Castelgrande: i visitatori staccheranno da un libro pagine adesive sulle quali lungo il percorso della mostra sarà possibile scrivere le risposte a delle domande su aspetti legati alla pandemia, riflettendo sui contenuti di una approfondita

ricerca storica realizzata dall’Ideatorio sui contagi del passato, dalla peste al colera e sui passi decisivi che la scienza ha saputo compiere nella lotta alle grandi epidemie. Il pubblico sarà inoltre sollecitato da una ricerca condotta dal nostro istituto Irb su tre virus, e, attraverso un gioco, sarà messo alla prova sugli anticorpi utili a neutralizzare i virus e, una volta individuate le soluzioni esatte, si accenderà un video a carattere scientifico». La mostra, aperta a tutti (bambini accompagnati) e alle scuole, è stata voluta fortemente dall’immunologo e microbiologo dell’Irb, Santiago Gonzalez, che ha offerto il proprio contributo sia scientifico sia storico all’iniziativa. Il Castelgrande sarà in questi mesi meta di ricercatori e scienziati che si proporranno di divulgare il sapere al pubblico con parole accessibili, ma anche di rispondere alle più svariate domande, incluse quelle formulate dai visitatori stessi durante la loro visita. Le molte facce del contagio si arricchisce inoltre di conferenze dedicate con la proposta di eventi collaterali: Aperitivi al castello (a ingresso gratuito) che vedranno la presenza di esperti. Non è vero ma ci credo. Negazionismo, complottismo e credenze: dalla peste a oggi è il titolo della prima proposta in agenda il 29 aprile alle 18, alla quale interverranno Bernardino Fantini, storico della medicina e Lorenzo Montali, psicologo sociale. Fra gli altri spunti di riflessione, il dialogo fra il rettore dell’USI, Boas Erez e Samia Hurst Majno, bioetica e vice presidente della Swiss National Covid-19 Science Task Force, che il 4 maggio alle 18 cercheranno di rispondere fra l’altro a domande rimbalzate a più riprese durante la pandemia: «Fino a che punto è giusto limitare la libertà dei singoli in nome della salute pubblica?». E ancora: «Come va gestita dagli esperti la sempre presente sfiducia nella scienza?». Modererà il dibattito Giovanni Pellegri, responsabile de L’Ideatorio. Un’altra proposta riguarderà una fiaba al castello per tutte le età (dai 6 anni), L’occhio del drago, spettacolo di e con Giancarlo Sonzogni in più date. Informazioni www.contagio.ch

L’Ideatorio

In ricordo di Paolo Brenni

«Ognuno di noi è un miscuglio di contagi… quelli legati al nostro vivere quotidiano, come gli sguardi, le idee e gli abbracci, e quelli legati ai microbi, come i virus e i batteri. Ci contaminiamo di pensieri, di germi. Ricerchiamo i primi, rifuggiamo i secondi». Sono queste alcune tra le parole consegnate dagli organizzatori ai visitatori della mostra intitolata, non a caso, Le molte facce del contagio in programma nella Sala Arsenale del Castelgrande a Bellinzona. Dopo due anni di pandemia, il termine contagio ha assunto una connotazione negativa, ma l’esposizione intende mostrare come l’etimologia della parola contempli anche aspetti positivi. Le nostre relazioni sociali sono ad esempio un crocevia di contagi di idee, pensieri, soluzioni, c’è poi il contagio del sorriso di un bambino eccetera.


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Alle origini dell’architettura moderna Heinrich Tessenow

Al Teatro dell’Architettura di Mendrisio sono esposti disegni, fotografie e modelli dell’architetto tedesco

Alberto Caruso

Invitare allo studio delle opere di Heinrich Tessenow è oggi un atto di dichiarata rottura e di forte polemica contro le tendenze di maggiore successo dell’architettura contemporanea. Nato a Rostock, in Germania, nel 1876 e morto a Berlino nel 1950, Tessenow ha vissuto tutta l’esperienza della nascita della modernità architettonica tedesca e ha dialogato e polemizzato con i suoi protagonisti, come Bruno Taut, Hans Poelzig, Fritz Höger, Ernst May, Erich Mendelsohn. La sua figura si distingue, in questo importante scenario, per la semplicità e il rigore delle sue opere. Semplicità e rigore che sono stati riproposti come punto di riferimento dai movimenti culturali che, per resistere alle tentazioni storiciste o estetizzanti, si sono richiamati alle poetiche e al pensiero dei primi moderni. Tra questi movimenti certamente possiamo annoverare la modernità ticinese, che nel dopoguerra ha innovato l’architettura regionale proprio riferendosi al pensiero della modernità europea dell’inizio del secolo. La mostra esposta al Teatro dell’Architettura, intitolata «Heinrich Tessenow – Avvicinamenti e progetti iconici», curata da Martin Bösch, docente dell’Accademia e titolare di uno studio zurighese è divisa in tre sezioni, dedicate al rapporto con il paesaggio, ai progetti per la città e alle case grandi e piccole. Come ha affermato lo stesso Bösch, è una mostra curata da

un architetto praticante, non da uno storico. Non è, quindi, una descrizione sistematica e integrale del lavoro di Tessenow, ma è l’illustrazione motivata di una parte della sua opera, finalizzata alla costruzione della cultura progettuale. È una scelta che mira innanzitutto al coinvolgimento degli studenti nella loro formazione, e ciò provoca anche un maggiore interesse, in generale, dei visitatori, che possono entrare direttamente in contatto e capire il nucleo espressivo dell’architettura di Tessenow. Visitando la ricca esposizione di disegni, fotografie e modelli, il pensiero di Tessenow appare in filigrana con tutta la sua forza autenticamente radicale e ancora attualissima. La sua riscoperta, dopo un periodo postbellico di oblio, si deve, oltre che a Bruno Reichlin e a Marco De Michelis, soprattutto a Giorgio Grassi, che nei primi anni Settanta ha pubblicato una raccolta di suoi scritti nel volume Osservazioni elementari sul costruire (Franco Angeli), accompagnata da un eloquente saggio che è diventato uno dei testi fondanti della cosiddetta «tendenza» milanese di quegli anni. I numerosi progetti di piccole case per gli operai e per la piccola borghesia sono le opere più note di Tessenow, insieme alla Festspielhaus di Hellerau (1912), alla Landesschule di Klotsche (1925) e al grande progetto della colonia marina di Prora, sul Mar Baltico (1936). Le piccole case sono edifici «ele-

mentari», dimostrazioni di arte costruttiva ordinata e necessaria. «A volte – ha scritto Tessenow nel 1916 – si tende a identificare la semplicità con la povertà; è vero invece che esse non hanno praticamente nulla in comune. Infatti la semplicità cui aspiriamo può rappresentare la più grande ricchezza, così come la varietà formale di cui disponiamo può rivelarsi come la più grande povertà». La ricerca della «varietà» immotivata e irrazionale, che caratterizza buona parte dell’architettura contemporanea, è con grande evidenza l’obiettivo al quale Martin Bösch vuole contrapporre il pensiero di Tessenow. La scuola, il luogo di formazione degli architetti, è il luogo deputato per ospitare questa battaglia culturale anche per il nuovo direttore dell’Accademia Walter Angonese che, presentando la mostra, ha affermato che l’architettura contemporanea si distingue per la «feroce arbitrarietà» delle sue forme. Il valore del mestiere è un altro tema al centro del pensiero di Tessenow. Lo chiamava «lavoro artigianale» e parlava della sua necessaria lentezza, della fatica per «concentrare tutta l’attenzione sulle cose che si assomigliano per poterne cogliere le sottili differenze». L’ordine è la qualità che deriva da questa concentrazione, un ordine che si nutre di dubbi e rifugge da classificazioni, da ismi e da posizioni dogmatiche. La ragione dell’architettura, dell’adozione della soluzione

Heinrich Tessenow, Istituto per la ginnastica ritmica (oggi Festspielhaus) a Hellerau, 1912. (M. Boesch, 2019)

più semplice – e anche più scontata – del problema costruttivo, deve prevalere rispetto alle opinioni elaborate a prescindere dalla pratica del mestiere. Nella contrapposizione tra gli architetti innovatori che difendevano le ragioni del tetto piano contro quelli che difendevano il tetto a falde, Tessenow sosteneva – ha scritto Giorgio Grassi – che «l’alternativa non è tra tetto piano o a falde, ma è tra affermazione e negazione del tetto come elemento dell’architettura». Una mostra di grande interesse, alla quale manca forse una più esauriente panoramica del contesto culturale

nel quale Tessenow ha lavorato, nel corso di un secolo denso come nessun altro di rivolgimenti sociali, politici e culturali. Auspichiamo, per esempio, che il catalogo in corso di preparazione illumini il suo rapporto, più contrastato che dialogante, con lo Stato tedesco. Marco De Michelis, che nel 1991 ha dedicato a Tessenow una corposa ricerca pubblicata da Electa, racconta che il suo ex assistente Albert Speer, che lo protesse negli anni più difficili, gli chiese un parere su un suo progetto celebrativo. Tessenow rispose: «Le pare di avere creato qualcosa? È roba che fa impressione, e basta». Annuncio pubblicitario

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Cavallette, sciatori ed elicotteri Climatologia

Sono diversi i presupposti per la caduta delle valanghe

Alessandro Focarile

Dal mese di novembre al mese di febbraio di questo inverno sono cadute 20/25 nevicate oltre i 1500 metri di altitudine nelle Alpi occidentali dal Cantone Ticino alla Valle d’Aosta, e alle Alpi Marittime italo-francesi. Questi fenomeni atmosferici hanno due origini: la prima con apporti di aria umida e tiepida proveniente dall’Oceano Atlantico. La seconda altrettanto marittima ma più calda proveniente dal Mediterraneo (Mare Tirreno). Entrambe le correnti si sono incontrate con masse di aria fredda e asciutta di origine settentrionale (Scandinavia) e nord-orientale (Russia e Siberia). Dalla Norvegia alle Alpi e ai Pirenei, l’incontro di queste correnti ha dato origine a cadute di neve di varia entità e di differente qualità a seguito della presenza di molti fattori innanzitutto fisici ma anche biologici. Tra i primi il tipo di roccia e i suoli che ne derivano: rocce cristalline e rocce carbonatiche (graniti, gneiss, calcari, dolomie), l’esposizione e l’altitudine. Tra i secondi, la plurimillenaria presenza degli erbivori selvatici (camosci, stambecchi, marmotte) e quelli apportati dall’uomo a seguito della domesticazione di pecore, capre, bovini ed equini. Nel corso del tempo, gli erbivori hanno concorso alla formazione e alla dinamica della copertura vegetale (erbe, arbusti, alberi). A questo contributo macro-animale si è aggiunto quello costituito dagli insetti legati ai vegetali per la loro alimentazione: in montagna; oltre una certa quota, qualsiasi modificazione nella copertura vegetale può avere notevoli conseguenze sulla genesi e la caduta delle valanghe. Difatti, ha grande importanza il tipo di ancoraggio al suolo delle prime nevicate autunnali, se questo è gelato a seguito della già bassa temperatura notturna oppure, se è solo ancora umido. Entrano in gioco anche altri fattori fisici, quali la ripidità del pendio, l’esposizione, l’altezza e la copertura dello strato erboso: erba bassa brucata dagli erbivori e dalle cavallette; erba alta non brucata, e dai

cespugli. Al differente tipo di rugosità si aggiunge la predisposizione morfologica dei cespugli inclinati verso il basso lungo il pendio, come gli ontani verdi (Alnus viridis) ideali piani di scorrimento per la massa nevosa, che per sua natura è in permanente trasformazione e in movimento a causa dell’alterazione dei cristalli di neve. Può sembrare singolare che alcuni insetti erbivori possano entrare nel quadro grandioso della montagna oltre una certa altezza. La loro presenza e attività è stata favorita dall’uomo attraverso la trasformazione in pascolidi di molte superfici che erano un tempo boscate. Negli ultimi decenni, queste superfici scoperte sono state abbandonate e la vegetazione si è lentamente trasformata, rendendola appetita per alcuni insetti, quali sono due specie di cavallette (Ortotteri). Parliamo di Gomphocerus sibiricus e di Bohemaniella frigidus, due insetti privi di ali che popolano i pascoli alpini oltre i 1800 fino a 2500 metri di altitudine. Nella zona del Passo della Furka (Furka Pass) tra il cantone Vallese e quello di Uri è stato rilevato a 2550 metri (Körner 1999) che queste due cavallette alto-alpine sono responsabili dell’asporto (attraverso la loro alimentazione) dal 19 al 30 per cento degli steli di due graminacee, principali costituenti i pascoli: Carex curvula e Carex foetida. Inoltre, abbiamo la documentazione di analoghi episodi grazie allo scritto di Della Beffa (1961). Nelle alpi piemontesi di Susa e del Chisone, e in Valle d’Aosta, si trovano enormi assembramenti riuniti in zone determinate nelle quali l’erba viene completamente distrutta. Gli ammassi vegetali al suolo sono soggetti alla fermentazione, che genera calore. Quest’ultimo tende a formare un’intercapedine tra il suolo e la parte inferiore del primo strato di neve, facendo così venire a mancare l’ancoraggio tra neve e suolo. Le successive nevicate (nel corso della stagione fredda) possono avere differenti strutturazioni a livello di cristalli, che avranno una stabilità

La valanga sfiora nella sua caduta un impianto di risalita. (Dahu1)

molto precaria: qualora l’inclinazione dei pendii sia superiore a 30 gradi, si creano le situazioni ottimali per la formazione e la caduta di una valanga. In certe situazioni di estrema precarietà e instabilità della massa nevosa, che non dimentichiamo, è formata da più strati con differenti caratteristiche fisiche (contenuto di acqua e/o aria) sono sufficienti anche minime sollecitazioni sonore – quali le voci umane – per scatenare una valanga. Questa sensibilità alle onde sonore è utilizzata per provocarle in modo artificiale con l’impiego di esplosivi a salve, così da controllarne la caduta, soprattutto quando serve per proteggere centri abitati e vie di comunicazione. La forte attività valangaria negli ultimi decenni in tutte le Alpi ha sollecitato molti studi puntuali soprattutto in Svizzera (Davos) e in Austria (Innsbruck), tra i quali le interazioni tra la vegetazione, il suolo e il manto nevoso. Inoltre, si sono concentrati sulle misure di prevenzione ingegneristica, attraverso la progettazione e messa in opera di strutture para-valangarie più efficienti che in passa-

to. Come si può rilevare, il problema valanghe è lungi dall’essere chiarito. In quanto non tutte le cause naturali sono note all’origine della loro caduta, oppure è stata sottovalutata, per esempio, l’influenza degli erbivori, cavallette comprese. Ma è soprattutto l’accentuata presenza umana in montagna che drammatizza l’entità del problema. Negli ultimi anni i produttori di attrezzature per andare in montagna, a vario titolo, hanno sviluppato e proposto prodotti che dovrebbero aumentare la sicurezza contro il pericolo delle valanghe. Si tratta di vere protesi tecnologiche quali l’Arva (strumento per localizzare la presenza dell’infortunato nella massa nevosa dopo la caduta di una valanga). Oppure l’airbag, che dovrebbe consentire il galleggiamento sulla massa nevosa movimentata in occasione dello stesso evento. A parte i primi entusiasmi iniziali per l’impiego di questa rivoluzionaria attrezzatura, ci si è resi conto che questi arnesi – i quali hanno indubbiamente contribuito e contribuiscono a salvare molte vite umane – ten-

dono a ingenerare un’eccessiva fiducia sul loro impiego. Com’è stato scritto da un esperto («Le Alpi» periodico del Club Alpino Svizzero n. 2 2015): «Forse, una volta ancora, il punto dolente è la nostra testa: usare questi dispositivi ci espone a rischi maggiori rispetto al farne a meno?» Per programmare e realizzare un’escursione invernale, oppure la pratica dello sci fuori pista in quota, è necessario ricordare le quattro regole fondamentali: 1. consultare le previsioni del tempo; 2. definire la scelta dell’itinerario da percorrere; 3. rispettare l’epoca e gli orari di effettuazione; 4. avere conoscenza della qualità della neve sulla quale calcheremo i nostri passi: farinosa e leggera (con basse temperature), pesante e granulosa (con temperature superiori ai zero gradi). Infine, una ponderata gestione dei rischi, con o senza protesi. Per il prossimo futuro, i modellisti del clima ipotizzano un aumento della nevosità nell’emisfero settentrionale. Dunque, c’è da attendersi un parallelo aumento delle valanghe. Affaire à suivre. Annuncio pubblicitario

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 11 aprile 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

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SOCIETÀ

Approdi e derive

di Lina Bertola

Spostare i confini della vicinanza ◆

La grande disponibilità all’accoglienza dei profughi ucraini e le molteplici forme di solidarietà cui stiamo assistendo, in mezzo alla tragedia disumana, risuonano oggi come un potente sussulto della nostra umanità. Le tante manifestazioni di partecipazione e di condivisione sono un segno luminoso del bisogno di prendersi cura della vita, del desiderio di prestarle amorevole attenzione; un desiderio che questa guerra così vicina offende e soffoca, giorno dopo giorno, come peraltro accade in tutte le guerre, anche lontane. Il sentimento del legame, spesso infragilito nelle nostre attuali forme di convivenza, e la percezione di una comune appartenenza all’umanità, riemergono oggi nel calore e nella gratuità di tanti gesti spontanei. Nel bel mezzo della tragedia, tutto ciò ci permette di sperare ancora nella forza dell’etica. Penso qui all’etica nella sua versione più radicale, quella nutrita dal sentimento del valore intrinseco alla vita, quella che

abita la coscienza del mio esistere, per dirla con Kant, nell’incontro emozionante con il cielo stellato sopra di me. Questa espressione originaria dell’etica riguarda il valore in cui si fondano, o dovrebbero fondarsi, i valori, riconosciuti e condivisi in un’epoca o in una cultura. A volte però il valore può trovarsi a confliggere con i valori, come spesso la storia ci ha mostrato e come sembra stia accadendo anche oggi. Ad esempio, mentre il valore intrinseco alla vita accoglie le reciproche fragilità e vulnerabilità come nutrimento di ogni legame, i valori della nostra cultura continuano a interpretare fragilità e vulnerabilità come un ostacolo, come un limite all’affermazione di sé, e ciò in un’atmosfera competitiva che può spianare la strada a ogni forma di conflittualità. In momenti come questo, è bello allora riconoscere la forza dell’etica che abita in ciascuno di noi e che ci fa sperare nella sua capacità di resistere an-

che alle derive del nostro tempo. È bello pensare che questa spinta ideale all’accoglienza e alla condivisione, che attraversa i nostri giorni, possa riverberarsi anche su altre esperienze di incontro con l’altro. Perché diverse terribili sofferenze da tempo interpellano le nostre coscienze. Questo gran sussulto dell’etica mi porta infatti a pensare ad altre situazioni in cui questo supplemento d’anima non ha saputo, e ancora oggi non sa esprimersi con la stessa forza. Mi riferisco, ad esempio, agli atteggiamenti meno partecipi, meno attenti alle innumerevoli tragedie del mare, meno attenti al destino di tanti profughi venuti da quel mare lontano che chiedono, anche loro, riconoscimento e accoglienza. Così, questo straordinario slancio ideale verso i profughi ucraini non posso evitare di metterlo allo specchio dell’indifferenza di molti di noi di fronte a dolorose chiusure verso altri disperati.

So bene che sul tema vengono avanzati necessari e più che legittimi distinguo politici e giuridici. Ma è sulla nostra personale percezione dell’altro, su quel valore che precede i valori che desidero portare l’attenzione. Proprio su queste pagine sottolineavo tempo fa come la vicinanza e la lontananza siano un criterio interessante per comprendere il nostro agire morale e le sue inquietanti contraddizioni. I barconi di tanti naufraghi disperati, presenti sui megaschermi nei nostri salotti, continuano ad essere percepiti come lontani, lontani dal nostro mondo interiore. Ci vengono incontro, entrano direttamente nelle nostre case, ma la sofferenza dei loro sguardi sembra non riuscire a interpellare i nostri cuori come le lacrime di donne e bambini che, come loro, scappano dall’inferno. È la distanza affettiva che ci separa, quella distanza da cui troppo spesso nasce l’indifferenza. Detto con una parola in cui i filoso-

fi hanno spesso riconosciuto il legame tra gli uomini, facciamo più fatica a provare compassione. Aristotele chiama compassione «il dolore causato dalla vista di qualche male, distruttivo o penoso che colpisce uno che non lo merita», e Spinoza, nella sua Etica, aggiunge: «non solo proviamo commiserazione per una cosa che abbiamo amato, ma anche per quella per la quale prima non abbiamo provato nessun affetto, purché la giudichiamo simile a noi». I nostri simili, appunto: la vicinanza affettiva nasce da questo riconoscimento. Concludo con una domanda che è anche una speranza. La compassione ritrovata nell’accoglienza di chi oggi fugge dalle tragedie della guerra in Ucraina riuscirà a spostare i confini della vicinanza? A stretto contatto con un dolore inaudito, impareremo a riconoscere meglio anche altre sofferenze? Ad accoglierle in nuovi spazi affettivi?

Terre Rare

di Alessandro Zanoli

La guerra è anche digitale ◆

È inevitabile parlare della situazione creata dal conflitto tra Russia e Ucraina, tanto più che gli aspetti tecnologico-digitali legati alla situazione sono numerosi. Da un lato perché gli strumenti IT sono diventati vere armi, in grado di colpire sistemi e infrastrutture del nemico, infliggendo danni gravi e significativi. Molto eloquente è l’intervista rilasciata a «Repubblica» da Mykhailo Fedorov, Ministro per la trasformazione digitale dell’Ucraina (e già la definizione della sua funzione apre un universo di suggerimenti e suggestioni su cosa vuol dire gestire il futuro di una nazione). Fedorov racconta del suo impegno quotidiano per combattere la guerra in corso, un impegno in prima linea, utilizzando gli strumenti e soprattutto le persone di cui dispone. Quello che il giovane ministro tiene a sotto-

lineare è che ciò che sta avvenendo produce anche conoscenze e risorse che la sua nazione aspira a utilizzare come fattori costruttivi e determinanti per il futuro dopoguerra: «Vogliamo diventare il più grande Hub-IT in Europa. Sono sicuro che accadrà». Sul fronte digitale, comunque, la guerra può toccarci anche personalmente. La nostra abitudine all’uso del web ci fa pensare che esso sia garantito e inattaccabile. Come utilizzatori quotidiani di piattaforme enciclopediche quali Wikipedia e Internet Archive, sia come professionisti dell’informazione, come studenti, o come semplici navigatori dell’infosfera, abbiamo l’impressione che quegli aggregatori di informazione siano contenitori immanenti, intoccabili, eterni. La realtà delle cose mostra invece che la loro natura è fragile e soprattutto che la loro accessibilità e indipendenza

Le parole dei figli

può essere messa in crisi da chi non è interessato alla libertà di espressione. I fenomeni interessanti (e preoccupanti) da osservare ci sembra si muovano perlomeno in due direzioni. Da un lato sul piano dell’informazione quotidiana, della diffusione cioè di notizie che spieghino quello che sta succedendo e, soprattutto, i motivi per cui le cose prendano una certa piega. Significativa in questo senso la notizia diffusa negli scorsi giorni dalla Wikipedia Foundation in cui si denunciano i tentativi messi in atto dalle autorità russe per impedire la pubblicazione sull’enciclopedia online di contenuti che contraddicano la narrazione ufficiale con cui si giustifica l’invasione militare dell’Ucraina. I promotori della piattaforma enciclopedica lanciano l’allarme sul rischio che stanno attualmente correndo i compilatori russi delle pagine

di Wikipedia. La Russia ha annunciato di voler comminare una multa di 4 milioni di rubli se le informazioni «inaffidabili e proibite» diffuse a proposito dell’operazione in corso (è vietato ad esempio definirle «una guerra») non saranno rimosse. Inoltre, va messo in conto il rischio di 15 anni di prigione a cui vanno incontro gli estensori stessi delle notizie. Alla preoccupazione dei responsabili di Wikipedia si aggiunge, su un altro versante del conflitto digitale, quella dei promotori di un ulteriore progetto di respiro mondiale, l’«Internet Archive». Costituito anch’esso su base volontaria e non-profit, l’archivio è un mastodonte che si propone di salvare dall’oblio miliardi di contenuti pubblicati sul web ormai da oltre 20 anni. Il proposito nasce dalla convinzione che le memorie digitali siano più labili di quelle cartacee e ne-

cessitino di un enorme sforzo di conservazione per superare la prova dei secoli. L’archivio si sta appellando in queste settimane agli utenti del web, affinché salvino sui loro computer il maggior numero possibile di siti web con estensione «.ua», siti ucraini che, invece, gruppi di hacker russi stanno cancellando, per rimuovere ogni prova di esistenza digitale della regione militarmente occupata. La richiesta, che ci è arrivata via posta elettronica da Internet Foundation, è di partecipare attivamente al salvataggio (con l’uso di programmi appositi) oppure di sostenere con un piccolo contributo economico questo sforzo di civiltà e di indipendenza. Ecco quindi un altro modo concreto con cui anche noi, da qui, possiamo sentire la vicinanza di quella drammatica situazione e decidere come reagire.

di Simona Ravizza

Wattpad e AO3

«Mamma sono su Wattpad!», taglia corto la quasi 14enne quando vede dalla mia faccia mentre cerco di capire cosa stia facendo. In alternativa: «Sono su Archive of Our Own (AO3)». Queste due Parole dei figli ci fanno entrare nel mondo dei nuovi strumenti di lettura adolescenziali, dove vanno per la maggiore le fanfiction che spesso trattano di ship. Decifrare il significato di frasi che sembrano dette in arabo è utile perché l’ennesima spia del modo di essere degli Gen Z. Wattpad è un’App a cui ci si può anche abbonare, ma di base non costa nulla. Chiunque può scrivere e leggere storie in tutte le lingue. È considerata la piattaforma social di narrativa più amata, con 90 milioni di scrittori e lettori di cui la metà adolescenti. L’hanno fondata nel 2006 a Toronto l’ingegnere elettronico Allen Lau e ingegnere informatico

Ivan Yuen. Il suo successo è consacrato, però, a partire dal 2007 con il lancio dell’App sull’Iphone. Una storia può essere pubblicata subito per intero oppure inserendo un capitolo per volta alla cadenza desiderata (e annunciata via social per creare hype cioè, come ormai dovremmo sapere, per aumentare l’attesa). Fra un capitolo e l’altro c’è la pubblicità. Invece AO3 è un sito che si definisce senza scopo di lucro in cui, come su Wattpad, chiunque può scrivere e leggere una storia. Ma qui gli utenti non pagano mai e non ci sono pubblicità. Generalmente gli autori su Wattpad aggiornano le loro storie in tempi brevi/medi, mentre su AO3 i tempi di aggiornamento possono anche durare mesi. Vengono inseriti dei tag in modo che ciascuno possa facilmente individuare il genere che predilige (tra i preferiti, neanche a dirlo, i manga). Il giudi-

zio delle adolescenti che ci navigano è che su AO3 la scrittura sia più accurata. L’ha ideato un’organizzazione no profit che si chiama OTW fondata «dai fan per servire gli interessi dei fan stessi». L’Archive of Our Own, che tradotto in italiano vuol dire «Archivio tutto per noi», è dedicato infatti solo alle fanfiction. Presenti anche su Wattpad, che però contiene pure storie d’altro tipo. Eccola, allora, l’altra Parola dei figli che dobbiamo imparare. Che cos’è una fanfiction? Definizione data sempre dagli adolescenti: è un’opera scritta dai fan di un’opera originale letteraria, cinematografica o televisiva che viene presa come spunto insieme ai suoi personaggi per raccontare una storia. I libri e le saghe principali da cui trarre ispirazione sono: Harry Potter, Percy Jackson, Hunger Games, Divergent. Poi ci sono le serie TV: Teen Wolf, Stranger,

Things, Riverdale, Tredici, La Casa di Carta. La lista s’allunga di giorno in giorno. Numerose fanfiction trattano di ship: è l’abbreviazione di relationship, che vuol dire relazione. I fan, infatti, spesso desiderano che i loro personaggi preferiti formino una coppia. Così li shippano, ossia uniscono i loro nomi e s’inventano nuove avventure. Per esempio: Hinny è la fusione di Harry Potter e Ginny Weasley. Un po’ come per i Ferragnez (ossia l’influencer Chiara Ferragni e il rapper Fedez). Perché questi nuovi strumenti di lettura hanno così tanto successo tra gli adolescenti? Gli utenti possono creare profili, opere e altri contenuti, pubblicare commenti, fare complimenti, creare raccolte e segnalibri, partecipare a sfide. Tutto è accessibile a tutti. Non è necessario essere autori per pubblicare. Ci si esprime liberamente e si possono ricevere/dare

feedback. Sono spazi liberi. Non filtrati. Leggere è gratuito. Le storie sono accessibili sul cellulare, che gli adolescenti hanno sempre con sé. Il più delle volte le tematiche sono adolescenziali, come l’amore, l’amicizia, il sesso, la scuola, le paure e i conflitti, fino al racconto di esperienze di disagio e di malessere. In più le fanfiction creano comunità online. Senso di appartenenza. Interazioni con community che condividono le stesse passioni. Tutto ciò è indice di come gli adolescenti abbiano bisogno di sentirsi parte di una storia. A riprova che la vita social dei Gen Z è vita reale. Tant’è vero che alcune opere nate su Wattpad sono diventate cartacee come Il fabbricante di lacrime di Erin Doom, pseudonimo di una scrittrice italiana che ha scelto l’anonimato e che ha esordito su Wattpad con il nickname DreamsEater.


Foto: Ghislaine Heger / Caritas Svizzera

Pubbliredazionale

Libano: aiuti di emergenza e prospettive di lavoro Il Libano deve integrare 1,5 milioni di rifugiati siriani nel mercato del lavoro e dell’alloggio. Dopo la grave crisi finanziaria e politica, a cui è seguita la pandemia di coronavirus, nell’estate del 2020 un’esplosione nel porto di Beirut ha devastato la città. Negli ultimi anni il Libano ha subito una crisi dopo l’altra e ora si trova alla deriva. Oltre tre quarti della popolazione oggi vive nell’indigenza. Una spirale negativa che non sembra destinata ad arrestarsi.

«Non è la mia vita a preoccuparmi, bensì quella dei miei figli» Grazie all’aiuto di Caritas, una parte della retta scolastica dei figli di Youssef è ora assicurata.

Youssef, 43 anni: sopravvivere in un Paese alla deriva «Anche se abbiamo sempre vissuto in condizioni modeste, riuscivamo a sbarcare il lunario», racconta il tassista Youssef Ghanem* di Beirut. Ma da quando l’economia libanese è crollata, anche la famiglia Ghanem è caduta rapidamente nella spirale della povertà. Oggi lotta ogni giorno per sopravvivere. Gli aiuti in contanti di Caritas danno un po’ di respiro alla famiglia. Immaginatevi che tutto – olio, pane, medicine e benzina – costi dieci volte più di quanto costava due anni fa. E i prezzi continuano a salire, benché il vostro reddito sia rimasto uguale. È esattamente la situazione in cui si trova Youssef Ghanem. «Il mio guadagno non basta più per vivere», afferma il quarantatreenne padre di famiglia. «Persino le verdure sono diventate carissime.» Con il crollo della moneta locale dopo lo scoppio della grave crisi finanziaria nell’autunno 2019, l’inflazione ha infatti preso il sopravvento. Il reddito di Youssef come tassista non vale più nulla. E non solo: anche i clienti sono sempre di meno. «La gente utilizza i servizi di car sharing perché non può più permettersi il taxi. Oppure va a piedi», spiega Youssef. «A volte do un passaggio anche a chi non ha abbastanza denaro per pagare la tratta, perché non posso permettermi di perdere anche quei pochi clienti che mi sono rimasti.» Fare i conti ogni giorno

Il lavoro di Youssef è l’unica fonte di guadagno che deve bastare per mantenere sé stesso, la moglie, i due figli di 6 e 8 anni, la madre e la sorella. Trovare un impiego aggiuntivo è

Maggiori informazioni su Youssef: caritas.ch/youssef-i

pressoché impossibile. Il tasso di disoccupazione in Libano è di circa il 40 per cento. E anche se lo trovasse, considerando i costi per il mezzo di trasporto e la benzina, presto l’attività non sarebbe più redditizia, anche se il lavoro fosse vicino a casa. Così il padre di famiglia fa i conti ogni giorno e si chiede come riusciranno a sopravvivere. Da tempo la famiglia non può più permettersi un’alimentazione equilibrata. Youssef è anche molto preoccupato per il costo dei medicinali essenziali per la madre malata. «Per acquistarli spendo all’incirca un terzo del mio stipendio», afferma l’uomo. E poi c’è la questione della retta scolastica: lo scorso anno entrambi i figli non hanno ricevuto la pagella perché i genitori non potevano pagare la retta. Se la situazione non dovesse cambiare, i figli di Youssef non otterranno un diploma. La famiglia vive in condizioni molto precarie in un sobborgo di Beirut. «Quando vogliamo lavarci, riscaldo una pentola di acqua sul fornello a gas», racconta Suzanne, la moglie di Youssef. Per loro l’acqua calda è una rarità, perché anche l’elettricità scarseggia ed è molto cara. Da quando il Paese è vicino alla bancarotta, l’erogazione di corrente per la

Caritas Svizzera garantisce assistenza sia ai rifugiati siriani che al popolo libanese, fornendo ad esempio aiuti in contanti alle persone in difficoltà. Ristruttura anche alloggi sociali, creando così spazi abitativi economici e sicuri, e allo stesso tempo offre posti di lavoro a tempo determinato per i lavori di ristrutturazione. Attraverso il coaching, la formazione e il sostegno finanziario per i corsi pratici e la fondazione di imprese, l’ONG contribuisce a fornire ai giovani gli strumenti necessari per affermarsi nel mondo del lavoro e conseguire un reddito.

luce e il riscaldamento viene interrotta sempre più spesso. Lo Stato non può più permettersi l’importazione di carburante necessario per alimentare le centrali elettriche. Oggi chi dispone per due ore al giorno della corrente proveniente dalla rete pubblica può ritenersi fortunato. Come la maggior parte delle economie domestiche, la famiglia Ghanem – quando può permetterselo – acquista l’elettricità da fornitori privati, a prezzi esorbitanti. Procurarsi almeno i beni essenziali

La famiglia di Youssef cerca disperatamente di trovare dei modi per coprire le esigenze di base. Ad esempio vendendo gli oggetti che hanno ancora un certo valore, come l’anello d’oro della nonna, l’ultimo gioiello di famiglia. «La gente cerca di aiutarsi a vicenda, un po’ qui e un po’ là», racconta Youssef. Si chiede sostegno ai parenti e agli amici. Ma la situazione è uguale per tutti in Libano, un Paese che sta vivendo una delle crisi più profonde della sua storia. «Per ricevere lenticchie, un sacco di riso o altri generi alimentari dobbiamo rivolgerci alle organizzazioni umanitarie.» Per diversi mesi, la famiglia Ghanem ha beneficiato degli aiuti in contanti di Caritas, pagati in moneta forte, ovvero in dollari. «Abbiamo potuto comperare cibo e vestiti per i bambini», afferma Youssef con sollievo. E anche una parte delle tasse scolastiche è assicurata per quest’anno. Questo è particolarmente importante per Youssef. «Non è la mia vita a preoccuparmi, bensì quella dei miei figli. L’unica cosa che desidero è che abbiano un futuro.» * pseudonimo

Soltanto i muri dei silos di grano hanno resistito all’esplosione nel porto di Beirut nell’agosto 2020.

Conto donazioni: 60-7000-4 Per donazioni online: caritas.ch/libano

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 11 aprile 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino 13

TEMPO LIBERO ●

Liber Ruralium Commodorum È soprattutto nel IV tomo che De’ Crescenzi si sofferma sulle norme di viticoltura

La regina dello sci di fondo Bedrettese d’origine, poschiavina d’adozione, Natascia Leonardi ha un rapporto viscerale con la neve

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Dal regno di Boemia a oggi I sotterranei di Brno svelano i misteri di un labirinto storico formato da diverse ampie gallerie

Crea con noi Coniglietti, pulcini e pecorelle: un’idea semplice per la tavola pasquale o la caccia all’uovo

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Anticipare, mirare e… scattare

Fotografia ◆ Cogliere con rapidità il valore del messaggio insito in una data situazione e tradurlo in immagine sono le caratteristiche di uno street photographer Stefano Spinelli

La fotografia di strada – nota anche con l’inglese street photography – vanta una lunga e ricca tradizione. Grosso modo si può dire che nasca con l’avvento di macchine fotografiche portatili, già sul finire del XIX secolo, e con lo sviluppo di pellicole sufficientemente sensibili, e dunque veloci, per poter registrare situazioni dal vivo. Ma il suo pieno affermarsi lo si avrà solo a partire dal primo dopoguerra, quando verranno introdotti con successo i piccoli apparecchi fotografici formato 135 – quelli, per intenderci, che producono negativi di 24x36 mm di dimensione e che ancora oggi vengono largamente utilizzati dai fotoreporter e dai fotoamatori. Tra i primi apparecchi di questo tipo sul mercato troviamo le famosissime Leica, ancora oggi insuperate per le loro qualità ottiche.

Questa «corrente» fotografica prese piede in particolare negli Stati Uniti e in Francia, dove opereranno fior fiori di fotografi, pensiamo a Walker Evans, Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, Brassaï, tra i grandi maestri, e in un secondo tempo a figure come Diane Arbus, Lee Friedlander, Garry Winogrand, William Klein e il nostro Robert Frank, per citarne solo alcuni. In cosa consiste più di preciso questo tipo di fotografia? Possiamo cominciare col dire che si tratta di una fotografia eminentemente urbana, senza con questo del tutto escludere altre possibili e interessanti realtà. Ma è nelle città che il fotografo si trova di fronte a una grande varietà di accadimenti, avvolti nel loro divenire in una rete di segni, messaggi, forme, capaci attraverso i loro accostamenti di rivelare aspetti illuminanti, straordinari o meno, della nostra realtà. Sta al fotografo saper cogliere con rapidità il valore del messaggio insito in una data situazione e tradurlo in immagine componendolo adeguatamente e in modo pressoché istantaneo all’interno del proprio mirino. Parrebbe un esercizio arduo, per non dire impossibile. E invece no. Richiede tuttavia una certa sensibilità nel rilevare – magari anche solo d’intuito – il valore simbolico, evocativo, e anche poetico, di una certa configurazione di cose in divenire, il potenziale narrativo che porta con sé. Che sia d’ordine sociale, politico o più semplicemente e genericamente umano, poco importa. È l’umani-

Manuela Mazzi

Il fotografo di strada dovrebbe passare quanto più possibile inosservato, per non turbare la realtà con la sua presenza

tà, infatti, che sta al centro di questa fotografia, un’umanità rappresentata nei suoi variegati modi di relazionarsi con gli altri e con il mondo, nei valori che incarna e in cui s’identifica e che attribuisce alla realtà nella quale s’immerge. Oltre che urbana questa fotografia possiamo allora pure e innanzitutto definirla umanistica. Lo street photographer vaga per le strade, e vagando poco a poco sprofonda in uno stato che a me piace definire meditativo. In cui va a stabilirsi

una sorta di simbiosi tra il sé e l’oltre: volendo esagerare, potremmo quasi dire che queste due dimensioni a un certo punto coincidano, diventino un tutt’uno. Ed è forse nel momento in cui questa circostanza si realizza che si raggiunge il culmine della concentrazione, dell’attenzione e della reattività. In quel momento, un tutt’uno col fotografo lo diventa – dovrebbe diventarlo – pure la macchina fotografica, estensione artificiale del suo braccio, di grande utilità in partico-

lar modo proprio per questo tipo di fotografia. La sua pratica non richiede molta attrezzatura, anzi, più leggera e meno appariscente è, tanto di guadagnato: il fotografo dovrebbe passare quanto più possibile inosservato, per far sì che la realtà di fronte a lui si dipani non turbata dalla sua presenza. Piuttosto questa pratica presuppone capacità d’osservazione e velocità di reazione. Tale alla caccia, di arte predatoria e di rapina si tratta…

Osservare, dunque, anticipare la situazione, mirare e… scattare. Queste, in rapida sequenza, le fasi che si succedono fotografando per strada. Ben difficilmente avremo diritto a un secondo tentativo nel caso il primo non fosse andato a segno, ragione per cui la prontezza richiesta per questo tipo di fotografia è una qualità indispensabile, e per chi non l’avesse già di suo, il consiglio sarebbe quello di coltivarla. Come? Al solito, provando e riprovando, come si fa con qualsiasi competenza da migliorare. Oggi, col digitale, in questo siamo molto facilitati, potendo riscontrare immediatamente la validità del risultato ottenuto, tanto dal punto di vista tecnico che da quello formale e di contenuto. Ma necessario sarà lo sviluppo di altre abilità, quelle dell’osservazione e dell’intuizione in particolare, che ci permetteranno col tempo di saper anticipare l’evento – il configurarsi di una significativa costellazione di segni, forme e luci – e, al momento opportuno, di riuscire a immortalarlo. Dicevamo di attrezzatura leggera, poco appariscente, che non ci distingua ad esempio da un turista qualunque – figura, questa, spesso poco amata, ma di certo percepita come più innocua di un fotografo in azione. Per lungo tempo, praticando questo tipo di fotografia, mi sono avvalso di apparecchi instamatic usa e getta, con lenti in plastica, che riutilizzavo caricandoli da me con pellicola in bianco e nero. Riuscivo così a operare in modo quasi sempre molto libero e con risultati più che dignitosi, a parere di tanti. Ora, non è necessario raggiungere tali estremi di bassa tecnologia. Vanno benissimo anche apparecchi più sofisticati che ci permettano, ad esempio, un miglior controllo dell’esposizione nelle varie situazioni di luce che incontreremo attraversando lo spazio urbano. Ottica consigliata, il classico 35 mm, che permette di portare uno sguardo piuttosto largo senza con questo avere a che fare con eccessive distorsioni e problemi di scala. In alternativa, un qualsiasi zoom grandangolo può fare al caso. Ricordiamoci che, contenendo l’attrezzatura, godremo più a fondo di questa speciale e arricchente esperienza. Una maggior quantità di attrezzatura a nostra disposizione può, certamente, estendere il campo del possibile, ma diventa anche una pericolosa fonte di distrazione. Quando il nostro scopo, perseguendo questa pratica, sarebbe invece quello di raggiungere un completo coinvolgimento nell’istante che viviamo e di sperimentare una condizione di continua scoperta. E dunque: buone scarpinate!


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Così scrisse Pier De’ Crescenzi Vino nella storia

Molte le informazioni vitivinicole contenute nello storico Liber Ruralium Commodorum

Davide Comoli

La raccolta del Liber de Vindemiis è la riduzione dei Geoponica, collezione di venti libri compilata nel X secolo a Costantinopoli, che all’epoca si trovava sotto l’imperatore Porfirogenito Costantino VII. Questa collezione, originariamente scritta in greco, è in parte tratta dall’opera perduta di Cassiano Basso del VI secolo e in parte attribuita ad altri autori. Fu poi tradotta dal giureconsulto Burgundio da Pisa che, trovandosi nel 1172 a Costantinopoli, ebbe modo di tradurre diverse opere dal greco, tra le altre le tre che rivestirono grande importanza per il mondo vitivinicolo medievale, ovvero: il V, il VI e il VII libro dedicato alla coltivazione delle uve. Al Liber de Vindemiis attinse ampiamente anche il bolognese Pier de’ Crescenzi (nasce verso il 1233) per il suo Liber Ruralium Commodorum (Libro dei benefici agricoli), arricchendolo però di numerose osservazioni e molti consigli personali che gli derivano dalle esperienze maturate nel suo peregrinare come «magistrato» per tutta Italia. In quel periodo storico, i liberi Comuni italiani erano retti da Capitani del Popolo o da Podestà ai quali veniva affidata la gestione della giustizia e l’amministrazione civile e militare. Questi uomini di comprovata onestà si avvalevano della collaborazione di esperti magistrati, gruppo del quale faceva parte Pier De’ Crescenzi. Lo troviamo nel 1269 a Senigallia, nel 1271 ad Asti, più tardi a Ferrara, Pisa, Brescia e allo scadere del secolo rientra nella nativa Bologna, dove si ritira a vita privata nella sua tenuta di Rubizzano alle porte di Bologna, dove tra il 1304-1309 scrive, grazie alla sua esperienza nella gestione dei suoi possedimenti, il De Agricoltura: 12 libri che comporranno il Liber Ruralium Commodorum. Oltre al già citato Burgundio da Pisa, altre sue fonti furono: Plinio, Columella, Catone, Varrone, Palladio e Alberto Magno dell’ordine domenicano; per compilare il capitolo dedicato alle virtù della pianta di vite, si avvale delle cono-

scenze di Dioscoride, Galeno, e Isaac Israeli (855-955), un autore poco conosciuto alle nostre latitudini, ma importante per poter capire gli effetti psicologici del vino nell’Occidente medievale. Dopo essere passata al vaglio dell’«Imprimatur» ecclesiastico (a quel tempo scardinare dogmi antichi, credo significava porsi in conflitto con la Chiesa, vedi tre secoli più tardi Galileo Galilei), l’opera suscitò subito un vasto interesse ed ebbe una grandissima diffusione «in folio». È soprattutto nel IV tomo che De’ Crescenzi si sofferma su norme di viticoltura (De vitibus et vincis et cultu carum, ac natura et utilitate fructus ipsarum). Nell’opera, l’autore precisa subito che l’habitat prediletto dalla vite è caratterizzato da una temperatura calda, perché ivi al contrario di quelli freddi dà prodotti migliori, a condizione però che il luogo di coltura sia asciutto (IV, 5fol). I terreni da evitare (sono da privilegiare quelli vergini o che non siano mai stati coltivati a vite) devono essere duri in modo che trattenendo l’umidità, possano mitigare l’aridità estiva. Buone le terre argillose a patto che non siano composte esclusivamente dall’argilla (IV, 6fol). De’ Crescenzi introduce l’utilizzo delle talee (un argomento ancora attuale) e raccomanda che siano colte in ottobre, mese in cui il «calore» solare è ancora nei rami, prima di ritirarsi con l’irrigidirsi della stagione, nelle radici: i tralci da tagliare debbono essere scelti dalla parte mezzana della pianta, perché sono i più fecondi. Prosegue poi entrando in merito agli scassi del terreno, indugiando su importanti nozioni tecniche, quali profondità e distanza tra le fosse (IV, 7fol). Importanti pure le indicazioni che vengono date sull’utilizzo delle «talee» e di vivaismo per quanto riguarda le «barbatelle». Una volta poste a dimora in terreno grasso mescolato a letame (metodo usato ancora sino a cinquant’anni or sono), vengono posizionate nel vigneto. Sulla base di una millenaria con-

Illustrazione tratta da una delle tante edizioni tradotte del Liber ruralium commodorum.

suetudine, le viti erano piantate a stretto contatto con altre piante, talvolta alberi da frutto, in modo che queste ultime facessero da sostegno. Tra i sostegni vivi, l’autore consiglia l’olmo, considerato il migliore, a questo fanno seguito: acero, salice, pioppo, frassino, ciliegio, susino e simili; consiglia inoltre alcuni metodi di legatura, ricordando però di usare il salice e il pioppo solo in terreni umidi. Nel V «folio» intitolato De vitibus et vineis et cultu earum, sono trattate le virtù terapeutiche dell’uva e delle viti. De’ Crescenzi scrive tra l’altro che «Le foglie della vite sono molto medicamentose, perché puliscono le piaghe e le guariscono dopo averle cotte nell’acqua. Esse rinfrescano il calore dato dalle febbri e come per incanto

fanno cessare i dolori di stomaco; esse aiutano pure le donne incinta; e fortificano il cervello». Divide pure i vitigni in bianchi e neri, classificando le uve in base alla «bontà», la quale viene espressa con diversi aggettivi, sottile, chiaro, potente, serbevole, dolce, che ci danno la misura dei criteri d’apprezzamento in epoca medievale. Appoggiandosi all’autorità di Isaac, conclude confermando che il vino «dà buon nutrimento e rende la sanità al corpo: e se si prende come si deve e quando bisogna, e quanto può sostenere la natura, conforta la virtù digestiva, così nello stomaco come nel fegato: perché è impossibile che si attui il processo della digestione senza il calore che conforta la virtù naturale e accresce la forza».

All’inizio del Trecento, il nome del vino derivava solitamente dall’uva con la quale era prodotto. Quest’opera – ristampata più volte con ripetute difficoltà interpretative, talvolta insormontabili – riveste una particolare importanza come documento che presenta una panoramica interessante delle varietà di uva coltivate a cavallo tra il XIII e il XIV secolo nel nord e centro Italia. Quasi impossibile risulta però ai nostri giorni riconoscere tutti i 41 vitigni elencati dall’agronomo bolognese nel suo peregrinare lungo la penisola, perché nell’arco di sette secoli, molti sono stati i mutamenti che hanno interessato la struttura ampelografica italiana. D’altronde lo stesso De’ Crescenzi riconosce la difficoltà e il rischio a causa di sinonimie nel distinguere i vari vitigni: «multe diversis nominibus in diversis provinciis et civitatibus appellatur» («è chiamato con molti nomi diversi in diverse province e stati»). Di alcuni vitigni (una ventina), l’autore presenta una buona scheda tecnica, soprattutto per i bianchi, come la Schiava (Sclava), Albinaza (che noi pensiamo sia il Pigato) o il Trebbiano, ma ecco la lista dei vitigni elencati nell’opera: Schiava (Sclava), Trebbiano (Tribiana), Gragnolata, Malixia o Sarcula, Garganeca, Albinazza, Buranese (Buranexae), Africogna, Lividella, Verdiga, Verdecia, Moscato, Luglienga, Greca, Vernaccia, Berbigenes, Cocerina, Groposa, Fuxolana, Bansa, tra le bianche. Tra le uve nere: Grilla, Zisiga, Margigrana, Nubiola (Nebbiolo?), Maiolo, Duracla, Gimnaremo (Gunarone), Paternica, Pignuolo, Albatichi (Albarica), Vaiano, Dentina (Clentina), Portina (Porcina), Valminica, Tusca Melegono, Canatuli (Canaiolo), Canopum, uve silvestri chiamate Lambrusche e Pergole (Brumeste). A De’ Crescenzi bisogna comunque dare atto di aver dato il via, a partire dal XVI secolo, alla trasmissione scritta di conoscenze enologiche e viticole. Annuncio pubblicitario

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La regina ticinese dello sci di fondo che non ha mai abdicato

Intervista Il ricordo di Natascia Leonardi Cortesi a 20 anni dalla medaglia di bronzo olimpica conquistata con la squadra rossocrociata ◆

Mauro Giacometti

Non solo in giardino Mondoverde ◆ Simbolo della primavera, di primule ne esistono più di cinquecento specie Anita Negretti

Le prime esperienze di Natascia sulla neve, in compagnia di suo padre.

Natascia sulla vetta del Dente del Gigante, tra Italia e Francia.

sprint finale conquistando la medaglia di bronzo per l’Italia e lasciandoci la medaglia di legno. Anche a Salt Lake City c’era Stefania Belmondo ad inseguirmi insieme all’ultima frazionista della Repubblica Ceca, ma non riuscirono a prendermi. Arrivai al traguardo con un’emozione indescrivibile quando capii che questa volta la medaglia c’era e che con le mie compagne avevamo realizzato un sogno quasi impossibile. In un primo tempo non ci avevamo pensato, poi ci siamo accorte che quel risultato per noi svizzere aveva un significato particolare; eravamo una squadra confederata completa, rappresentavamo tutte le quattro realtà linguistiche svizzere: quella romancia con Andrea Huber, quella romanda con Laurence Rochat, quella tedesca con Brigitte Albrecht-Loretan e quella italiana

con la sottoscritta», ricorda. Quella di Salt Lake City è stata anche la prima medaglia vinta al femminile nello sci di fondo e tutt’ora l’unica. Il 2010 fu invece l’anno della sua esclusione dalle Olimpiadi di Vancouver. «Fu un po’ difficile. Ci avevo creduto e avevo raggiunto una buonissima forma fisica. Mi ritirai dalle competizioni in Coppa del Mondo, ma restai nell’ambiente agonistico, partecipando alle varie gare del circuito internazionale delle maratone, la Worldloppet, creata nel 1978 per promuovere lo sci di fondo nel mondo. E fu così che mi ritrovai in Russia, alla Demino Ski Marathon. Nelle prove di Coppa del Mondo ero già stata diverse volte a gareggiare in Russia, ma in quella maratona, che affrontai da sola, senza nessun supporto di squadra, mi trovai proiettata in una dimensione che mi sorprese e mi piacque molto. Sai, mi chiamo Natascia e mio padre che leggeva i classici della letteratura russa, mi diede quel nome ispirandosi a Guerra e pace di Tolstoj. Da bambina sognavo di vedere la Russia, ma solo dopo la maratona di Demino ho trovato la motivazione giusta per mettermi a studiare dapprima la lingua e poi avvicinarmi alla cultura e alla nazione», precisa. Puoi spiegarci meglio? «Innanzitutto mi è piaciuto il contatto con la gente, generosa, solidale, sempre pronta ad aiutarti. Non parlavo una parola di russo ma la gente si faceva in quattro per aiutarmi. E mentre correvo, io sconosciuta svizzera, unica straniera alla partenza, sentivo l’inco-

raggiamento degli spettatori e anche degli avversari. Un tecnico, vedendomi andare in crisi mi ha dato da bere in gara, permettendomi di riprendermi e di arrivare al traguardo nello sprint con le prime due ragazze. Insomma, le esperienze positive sono state molte», racconta. Natascia Leonardi ha poi cominciato ad organizzare viaggi nel Nord d’Europa, allenare e fare da personal trainer. Poi è arrivata la pandemia e tutto è cambiato. «Ero a Mosca nel marzo 2020 e riuscii appena in tempo a tornare in Svizzera prima del lockdown. Nella mia attività formativa organizzavo anche dei campi di allenamento dal Nord Europa alla Svizzera e all’Italia, in particolare a Livigno. In attesa di riprendere i miei contatti con l’Est e il Nord Europa, faccio la maestra di sci a Pontresina, accompagno i turisti in escursione sulla regione del Bernina e aiuto mio marito nella sua azienda. E naturalmente continuo ad allenarmi con gli sci di fondo: non posso stare senza il profumo di abeti, larici e betulle che mi avvolgono mentre attraverso i boschi e le pianure innevati. È da quando piccolissima sciavo in Valle Bedretto che questi profumi sono dentro di me e non se ne andranno mai. E non posso dimenticare di rivolgere un pensiero e un ringraziamento ad Adriano Leonardi, da poco scomparso, per quello che ha fatto per me e lo Sci Club Bedretto», dice mentre ci congeda. Un’ora in pianura, in città, nel caos e nel traffico è più che abbastanza per la regina delle nevi.

Sarebbe un vero peccato, con ben cinquecento specie differenti, considerare solo la primula più comune, ovvero la Primula vulgaris (sinonimo di P. acaulis), senza conoscere quelle coltivabili in casa. Originarie delle zone temperate di Europa, Asia e Nord America, hanno una fioritura ricca, con tantissime sfumature e foglie verde acceso. Simbolo della primavera e della giovinezza, la più classica delle piante da sottobosco, è un’erbacea poco esigente e molto resistente alle basse temperature che, se ben curata, si comporta da pianta perenne, in grado di rifiorire per molti anni, a patto di piantarla in zone semi ombreggiate per evitare di cuocerle in estate. Bisogna irrigarle con generosità durante la primavera, evitando periodi di siccità e, per garantirne una fioritura prolungata, un buon consiglio è quello di asportare regolarmente i fiori appassiti, aiutando i nuovi boccioli con una concimazione liquida scegliendo tra i prodotti per piante fiorite. Come abbiamo detto, sono così tante le varietà in commercio che vi è solo l’imbarazzo della scelta: dalla rossa «Belarina Valentine» con petali doppi, ideale per colorare anche gli inverni più cupi, all’«Amethyst Ice», viola acceso bordata di bianco, fino alle sempre allegre primuline dai colori vivaci che fanno capolino in ogni banco di vendita fiori. Queste ultime appartengono al gruppo degli ibridi polyanthus, molto probabilmente originati da P. vulgaris: alti fino a 25 cm, hanno fiori in genere bicolore, con contrasti molto forti, ideali per riempire cassette e vasi da tenere sul terrazzo o balcone. O per riempire vecchie tazze spaiate dai colori accesi da radunare in un grande vassoio, da tenere su un tavolo all’aperto. Oltre a queste primule, si trovano anche quelle che amano vivere in casa, come P. obconica, dalle foglie setose che si sviluppano a rosetta e al cui interno nascono i lunghi steli dalla consistenza carnosa, che daranno origine a fiori di cinque petali, con colori che sfumano dal bianco al viola. Sempre in appartamento è possibile coltivare anche la P. malacoides, originaria della Cina e non più alta di 25 cm, con foglie verde chiaro e nervature bianche. In fiore da gennaio fino alla fine di aprile, non tollera i raggi diretti del sole o di essere posta vicino ai termosifoni. Innaffiata regolarmente ogni 3-4 giorni, sboccerà con fiori bianchi, rosa, fucsia, rossi e lilla.

Pxhere.com

Natascia Leonardi è un essere umano un po’ contronatura. Sotto i mille metri d’altitudine va in debito d’ossigeno, sopra i 25 gradi di temperatura comincia a boccheggiare. D’altra parte lei è la regina delle nevi, la più forte e titolata sciatrice di fondo ticinese, la medaglia di bronzo a squadre delle Olimpiadi di Salt Lake City, nel 2002, al culmine di una carriera sportiva durata 25 anni e mai veramente conclusa appendendo gli sci al chiodo. «Non volevo smettere, nemmeno a 40 anni. Nel 2010 ho corso la mia ultima stagione in Coppa del Mondo. Ero in forma, volevo andare alle Olimpiadi di Vancouver, ma la Federazione svizzera di sci mi lasciò a casa», racconta al tavolo di un bar di Locarno, in uno dei rari momenti in cui si ritrova in pianura. «Pensa che quell’anno ho poi vinto i campionati svizzeri con 2 e 4 minuti di vantaggio sulle ragazze che erano andate ai Giochi», ci dice con una punta d’orgoglio. 51 anni, bedrettese d’origine, poschiavina d’adozione, Natascia ha un rapporto viscerale con quella neve che questo inverno si è fatta desiderare. Neve, freddo e sci (con pelli di foca quando si tratta di salire in alto) che fanno parte del suo DNA. «Mio padre Florino mi ha messo gli sci ai piedi non appena ho imparato a camminare e da allora non li ho più tolti. Dopo la conclusione della mia carriera agonistica mi sono dedicata per diversi anni alle maratone di sci di fondo. Inoltre, complice mio marito (Reto Cortesi, ndr), mi sono appassionata allo sci alpinismo. Nel 2005 ho vinto la Mezzalama e nel 2006, dopo i Giochi di Torino, sulle pendici del Monviso, ho conquistato il titolo mondiale di vertical-race. Di gare di vario genere ne faccio ancora, anche se dal 2016 non più molte. I miei interessi si sono spostati dall’agonismo alla formazione e alla promozione dello sci di fondo, che continuo a praticare, alle prove di resistenza di corsa e con la mountain-bike fino all’alpinismo, ma non quello estremo, che richiede alte qualità dal punto di vista tecnico. Sono salita sul Pizzo Badile, sull’Island Peak (6160 m) e altre montagne. Andavo in montagna un po’ con mio padre da ragazzina, poi con mio marito. E devo dire grazie a Romolo Nottaris, che prima della mia spedizione al Muztagh Ata (7546 m), mi spiegò come comportarmi in alto permettendomi di salire senza nessun problema fino in cima anche se non ero mai salita oltre i 5000 prima ed ero completamente senza esperienze», sottolinea. Torniamo a quella fantastica medaglia di bronzo di vent’anni fa a Salt Lake City, nella terra dei Mormoni. Abbiamo ancora tutti negli occhi quella coda di cavallo bionda che spuntava da una collinetta innevata e s’involava verso il traguardo. Natascia Leonardi, ticinese della Valle Bedretto, stava compiendo un’impresa storica per i colori rossocrociati. «Andrea Huber, Laurence Rochat, Brigitte Albrecht-Loretan e io non eravamo tra le favorite per il podio. Chissà, forse fu il destino che ci restituì quanto avevamo perso in Giappone, a Nagano, quattro anni prima, quando Stefania Belmondo mi superò nello


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I segreti della Brno sotterranea Reportage

Tra gallerie e cunicoli labirintici che serpeggiano sotto la città ceca, anche prigioni e ossari

Simona Dalla Valle, testo e foto

L’immagazzinamento delle merci, la produzione di vino e le ricche attività commerciali che fin dal XIII secolo interessarono la città di Brno (Repubblica Ceca) resero necessaria la costruzione di estese strutture sotterranee, scoperte soltanto nei secoli XX e XXI. Una parte della serie di gallerie e cunicoli è stata aperta al pubblico nel 2011, con sei diversi tour organizzati dall’amministrazione cittadina. Uno di essi è quello dedicato ai sotterranei del «Mercato dei cavoli», traduzione letterale di Zelný trh, una delle piazze più antiche di Brno frequentata nei secoli da mercanti e negozianti locali e stranieri. Per scoprire i misteri del labirinto storico occorre scendere per 6-8 metri sotto la superficie della piazza. Nel XIV secolo la città era una delle più importanti del regno di Boemia e la sua popolazione raggiungeva le 7500 unità. L’aumento di commercianti richiese spazio per immagazzinare quantità sempre maggiori di merci e generi alimentari. Gli edifici furono gradualmente ampliati e sotto di essi emersero cantine di varie dimensioni, collegate a quelle originarie da passaggi sotterranei. Con l’aumento della quantità di merci immagazzinate durante il XV secolo le cantine, costruite con metodi minerari, cessarono di rispettare i confini originali dei lotti al livello della strada e iniziarono a diramarsi sotto la piazza e le strade, disponendosi su più livelli. Nei due secoli successivi le cantine furono ulteriormente ampliate fino a oltrepassare le mura della città. Durante la notte, le merci comuni rimanevano nei mercati sotto la supervisione di guardie cittadine, mentre le merci più rare erano immagazzinate in sale municipali o edifici destinati a questo scopo. Per le merci deperibili vi erano spazi proprio sotto gli edifici affacciati sul mercato e nelle immediate vicinanze. Erano accessibili per mezzo di scale sia dalle case, sia direttamente dalla strada o dalla piazza, attraverso una botola con un tetto e doppie porte che permettevano di spostare le merci agevolmente. Uno degli alimenti conservati nelle cantine era il vino. La coltivazione della vite in Moravia risale al terzo secolo, quando i soldati della decima legione romana piantarono vigneti sotto le colline di Pálava, vicino a quello che una volta era il villaggio di Mušov, durante il regno dell’imperatore romano Marco Aurelio Probo. Da quel momento la viticoltura si diffuse gradualmente in tutta la Moravia meridionale. La prima testimonianza scritta del vigneto risale all’inizio del XIII secolo, ma l’uva era coltivata intorno a Brno già da diverso tempo. I vigneti si estendevano a Zidenice, Obrany e Černovice sui pendii meridionali delle colline ed erano gestiti secondo ordini speciali o leggi del vino che stabilivano il regolamento per la coltivazione dell’uva e il commercio nei vigneti: le regole, molto severe, stabilivano punizioni e multe per le infrazioni. Tra di esse vi era la «legge del miglio», che proibiva lo stabilimento di taverne o servizi vinicoli entro un raggio di un miglio da Brno, eliminando così ogni concorrenza indesiderata. In conformità con un decreto del 1355, il consiglio comunale concesse il diritto di servire vino solo ai borghesi che possedessero una casa in città o pagassero tasse elevate, il che escludeva tutti i ceti meno abbienti. Si poteva-

Bunker 10-Z, uno degli angusti corridoi; sotto, sotterranei di Zelný trh: strrumenti per la conservazione del vino; in basso, vista di Brno dai giardini Denis (ds); Zelný trh, il «mercato dei cavoli».

no servire solo i vini dei vigneti di Brno debitamente registrati. I vini erano esportati non solo in tutta la Moravia, ma anche nelle case nobili e altolocate di Praga, Wrocław o Cracovia. Tra i vini più famosi c’erano per esempio Moravín, Topol, Nemčina, Klenice, Bêl, poi molti altri. A metà del XIV secolo, il prezzo di un litro di vino da tavola era uguale a quello di una gallina, da dieci a venti uova o tre libbre di carne. Un litro di vino migliore era uguale al prezzo

di tre galline, ottanta uova o dieci libbre di carne. Per quanto riguarda la conservazione del cibo, le cantine sotterranee rispondevano alla necessità di proteggere gli alimenti dal calore e dalla decomposizione. Ampie camere erano collegate con alcove o altri spazi ampliati o riempiti a seconda di ciò di cui il proprietario aveva bisogno in un determinato momento. Erano rivestite con pietre, mattoni o muratura mista e di solito coperte da tavole. Le can-

tine erano sempre dotate di camini di ventilazione per estrarre l’umidità e portare aria fresca. Nella parte più bassa c’erano delle specie di congelatori, unità quadrate o rettangolari in mattoni di varie profondità riempite di cubetti di ghiaccio, che assicuravano la necessaria temperatura di 6-10°C nello spazio circostante. Il ghiaccio durava tutto l’anno ed era riempito solo in inverno. Le merci erano immagazzinate su griglie di quercia o direttamente a

terra in vari contenitori, mentre alcuni alimenti erano appesi per proteggerli dai roditori. Un’altra faccia interessante della Brno sotterranea è il bunker 10-Z, un rifugio nucleare antiaereo costruito durante la Seconda guerra mondiale come riparo dalle bombe americane e sovietiche. Completato nel 1959, il rifugio era destinato a proteggere un massimo di 500 funzionari della città per tre giorni. Per fortuna, il rifugio non è mai entrato in attività per l’uso previsto. Nel 2016 il bunker è stato aperto al pubblico come edificio storico e oggi i visitatori possono visitarne sia la parte tecnica (generatore diesel, sala di filtraggio e centrale telefonica PBX), sia una parte più descrittiva, che include anche la porta della «cella della morte» dell’ex prigione regionale di Cejl a Brno, dove i condannati a morte durante la Seconda guerra mondiale e lo stalinismo incidevano i propri messaggi prima di affrontare la pena capitale. Per i più sprezzanti, gli spazi ospitano anche un ostello. Oltre agli esempi citati, le visite ai tunnel comprendono il secondo ossario più grande d’Europa dopo Parigi, con un numero stimato di persone sepolte di oltre cinquantamila; la cantina del maestro di zecca, che offre la possibilità di una dimostrazione del mestiere ormai dimenticato della coniazione a Brno e in Moravia; e un lapidario con le prime cisterne d’acqua realizzate alla fine dell’Ottocento allo scopo di conservare l’acqua per la città.


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Personaggi pasquali trasformisti Crea con noi

Ecco una semplice idea per creare coniglietti, pulcini e pecorelle: saranno segnaposti, portatovaglioli o portaovetti

Giovanna Grimaldi Leoni

Tre dei più classici personaggi pasquali, il coniglietto, il pulcino e la pecorella creati utilizzando del semplice cartoncino diventano decorazioni trasformiste per la tavola di Pasqua. Portatovaglioli, segnaposto, o piccoli contenitori che riempiti con qualche ovetto di zucchero diventano un dono per i vostri piccoli ospiti per i qua-

di washi tape decorativo in tinta. Stampate e ritagliate i cartamodelli (li trovate su www.azione.ch). Appoggiateli sul cartoncino preparato in precedenza e ritagliate le sagome. Con i pennarelli disegnate il viso, in seguito incollate i dettagli (nasi, ciuffi, becco,…) ritagliati dai cartoncini di altri colori. Avvolgete il cartoncino attorno a un rotolo vuoto della carta igienica e con del nastro biadesivo o della colla chiudetelo ad anello, quindi sfilate il rotolo di cartone. Preparate allo stesso modo tutti i personaggi utilizzando colori in armonia tra loro. Potete anche divertirvi a creare personaggi tutti vostri! Ponete al centro di un quadrato di carta velina o di un tovagliolino alcuni ovetti di zucchero, chiudete il tutto con un nastro in tinta ed ecco pronti i vostri piccoli pacchetti da infilare all’interno dei vostri personaggi. Dei perfetti doni per la caccia al tesoro pasquale. Potete usare i nastri washi tape anche per rivestire del cartoncino da cui ritagliare i dettagli dei vostri personaggi. Il dettaglio in più? Una gonnellina a pieghe creata utilizzando gli stampini di carta per muffin. Vi basterà tagliare il fondo con una forbice per ottenere una striscia da

li organizzare una caccia all’uovo in giardino. In ogni caso crearli vi prenderà davvero pochi minuti, ma l’effetto simpatia è assicurato. Procedimento Dai cartoncini colorati ritagliate dei rettangoli da 16x10cm. Applicate sul lato inferiore una striscia

Giochi e passatempi

La leggenda narra che i pirati indossavano gli orecchini perché convinti … Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 3, 11, 2, 4, 5) 2

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ORIZZONTALI 1. Desiderio irrealizzabile 7. D’estate si coprono e d’inverno si spogliano 8. Fu l’ultimo dei giganti 9. Infossatura del polmone 10. Bagna Strasburgo

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11. Ai confini del Nepal 12. Impediscono le sfilacciature 13. Imposte ... che non si aprono 17. Una preposizione 18. L’incerto di ogni impresa 19. Un segno del passato 21. Titolo nobiliare

• Cartoncini colorati celeste/rosa/ giallo da 160 g • Washi tape colorati in tinta • Forbici, taglierino, righello • Matita, pennarello nero • Nastro biadesivo o colla vinilica • Rotolo vuoto carta igienica • Stampini di carta per muffins (I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

avvolgere e fissare all’interno del cartoncino. I vostri personaggi così vestiti a festa possono prendere posto sulla vostra tavola. Buona Pasqua! Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba

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Materiale

Sudoku

22. Consonanza gradevole di suoni 24. Compose l’Aida 26. Due spagnoli 27. Sciocche, ignoranti 28. Uguale in quantità VERTICALI 1. Utilizzato per fabbricare spazzole e pennelli 2. Atrio inglese 3. Tutt’altro che sommo 4. Una nota 5. Vivanda a base di carne ripiena 6. Ortaggi ai quali era allergico Giulio Cesare 10. Isola dell’oceano Atlantico settentrionale 12. Albero d’alto fusto 13. Si pigiano con le dita 14. Il fiabesco Babà 15. Domestici d’altri tempi 16. Il bis ... della salsa 17. Riposano in pace 19. Accozzaglie di uomini armati 20. Formazioni anatomiche tubolari 22. Arte Parigina 23. Il pupo di Mascagni 25. In fondo al corteo

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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Soluzione della settimana precedente PREZIOSA SPEZIA – Nell’antichità il pepe nero era molto pregiato veniva chiamato: ORO NERO e utilizzato: COME MERCE DI SCAMBIO.

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 11 aprile 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

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TEMPO LIBERO

Viaggiatori d’Occidente

di Claudio Visentin

Una Nigeria ancora da scoprire ◆

Siamo già stati dappertutto. Non vedremo più paesaggi nuovi e culture diverse. I Paesi ormai sono tutti uguali: dovunque guardi, l’occidentale trova soltanto il riflesso deformato del suo stesso volto… È l’eterna lamentela dei «viaggiatori», come amano definirsi per distinguersi meglio dai disprezzati «turisti». È un punto di vista decisamente snob e naturalmente non è neppure nuovo, lo sentiamo ripetere da un paio di secoli con parole quasi identiche. Ma soprattutto è falso. Certo la globalizzazione ha avvicinato tra loro le diverse culture del mondo, in un dialogo inedito per intensità (che tuttavia non cancella necessariamente le differenze, anzi a volte sembra quasi sottolinearle). Ed è altrettanto evidente che l’industria turistica, con i suoi itinerari fissati, a volte sembra proporre una rappresentazione del mondo piuttosto che

la realtà. Ma non per questo è venuta meno la possibilità (e il piacere) della scoperta. Questo pensavo leggendo l’ultimo numero delle guide The Passenger, dedicato alla Nigeria (in libreria dal 13 aprile). Queste guide, pubblicate da Iperborea, sono davvero speciali: al posto dei soliti monumenti e delle informazioni pratiche propongono un ritratto originale del Paese attraverso efficaci infografiche, un servizio fotografico inedito e soprattutto lunghi reportage affidati a giornalisti e scrittori. Per la prima volta questa collana si è occupata di un Paese africano. Certo la Nigeria non è la prima destinazione che viene in mente per una vacanza: prima di poter pensare alla vita notturna della sua città principale, Lagos, o ai meravigliosi parchi naturali, bisogna fare i conti con alcuni problemi di sicurezza e qualche

Passeggiate svizzere

rapimento di troppo. Inoltre la principale ricchezza del Paese, il petrolio, è causa di corruzione, scontri tra fazioni, conflitti con le multinazionali. Per questo qualche buon contatto locale può essere utile (come sempre del resto) prima di progettare un viaggio. Al di là di questi innegabili limiti, la Nigeria è però anche un Paese semplicemente decisivo per il futuro dell’Africa e in qualche misura anche dell’Europa. Per cominciare, nel 2050 la Nigeria raddoppierà la sua popolazione in solo trent’anni e conterà quattrocentotrenta milioni di abitanti, lo stesso numero dell’intera Unione europea (in quell’anno un bambino su tredici nel mondo sarà nigeriano). Considerando che già ora la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà, questa impetuosa crescita demografica – a fronte del nostro lento declino – avrà ovviamente conseguenze sull’immigrazione.

Oggi i nigeriani sono ben presenti nei flussi verso l’Unione europea, eppure per il momento oltre la metà viene da un’unica città, Benin City, solo la quarta del Paese, con circa quattro milioni di abitanti. Sulla carta questi migranti sono richiedenti asilo, ma in realtà le motivazioni della loro partenza sono quasi esclusivamente economiche e come tali andrebbero comprese e gestite: parliamo di politica e diritti umani quando dovremmo ragionare di lavoro e sviluppo. Le sorprese non finiscono qui. L’industria cinematografica nigeriana (scherzosamente chiamata Nollywood) è seconda solo a Bollywood (India) per numero di film prodotti, mentre sta saldamente davanti a Hollywood. Un milione di addetti lavora in questo settore sorprendentemente vivace, combinando kitsch e intrattenimento in prodotti originali, anche se ovviamente budget e proventi sono assai

minori del gigante americano. Anche l’industria musicale nigeriana sta conquistando il mondo grazie alle sue hit afrobeats. Per parte sua Lagos fa davvero poco per ingraziarsi il turista, con il suo disordine, il traffico frastornante, i continui blackout. Ma è sempre diversa e sorprendentemente vivace. Inoltre, proprio per la necessità di arrangiarsi, è la città africana con più start-up, davanti a Nairobi e Città del Capo. Potrei continuare con gli esempi, ma vengo alla conclusione. Prima di questa lettura non sapevo nulla, o quasi, di tutto questo. E pagina dopo pagina mi sono sempre più convinto che, anche nel tempo della globalizzazione, il mondo resta sorprendentemente interessante, vario, in continua trasformazione. Lo capiremmo subito se solo fossimo viaggiatori più curiosi e coraggiosi.

di Oliver Scharpf

Il tulipano brutalista di Ginevra ◆

A passo Sioux, lungo e silenzioso, per via dei miei mocassini del Minnesota, in una manciata di minuti percorro tutta rue Barthélemy-Menn (pittore paesaggista non male stile paysage intime, specialista di querce malinconiche) che sfocia sull’avenue de la Roseraie. Dove oggi ho appuntamento, in contemporanea alla presenza di tulipani vari nelle aiuole o nei vasi su alcuni balconi, con un curiosissimo edificio brutalista a forma di tulipano. La Tulipe, così, all’epoca, viene soprannominato dagli abitanti del quartiere quando nel 1976 spunta al sessantaquattro di questa strada alle spalle dell’ospedale. Sede della Fondation pour recherches médicales, oltre all’incredibile slancio tulipifero in beton, le vetrate multicolori a specchio, stupiscono non poco. Ma sono gli origami in beton, alla base dell’audace tulipano brutalista di Ginevra (382 m), a incantarmi

una tarda mattina ai primi di aprile. Imbambolato dal beton di questi frattali, rimango così, ancora un po’ dall’altra parte della strada, in bilico sul ciglio del marciapiede. Eppure, forse, tutto questo stupore si attenuerebbe senza il connubio delle finestre speciali dalle tinte pastello dove si riflette il paesaggio. Mutevoli a seconda della luce e delle angolazioni, la cui distribuzione cromatica ha quasi misteriosamente l’armonia di un Klee, provengono da Pittsburgh. La Pittsburgh Plate Glass, fondata nel 1883, è l’artefice di quel tocco scintillante-catturanubi dei primi grattacieli storici americani. Cumulonembi si specchiano ora sulla superficie rosa zucchero filato delle finestre a tutto vetro. Sei finestre giallo senape, quindici turchese, completano il quadro. I trentacinque rettangoli rosa zucchero filato o confetto, a tratti un po’ foschi dall’usura, a mo-

Sport in Azione

menti, riflettono in viola, gli squarci azzurri di cielo. Prima di perdermi nei riflessi dei rami di pruni giapponesi in fiore e in altre divagazioni paesaggistiche più intime, attraverso la strada per osservare più da vicino l’opera di Jack Vicajee Bertoli. Nato a Bombay nel 1931 e trapiantato per anni qui a Ginevra dove ha studiato architettura, si è rifugiato in Spagna per un clima più clemente. Presente sul cantiere di Chandigarh, la città utopica di Le Corbusier costruita negli anni cinquanta, questa qui è la sua unica opera degna di nota. L’idea germina negli anni sessanta, tra l’entusiasmo di Anita Oser Pauling – pronipote di Rockefeller e moglie di Linus Pauling Jr., figlio del Premio Nobel in chimica 1954 e per la pace 1962 – e quello di Gaston Zahnd, endocrinologo e cognato di Jack Bertoli che dirigerà questo centro per vent’anni. «Eccezione sculturale perduta oggi in un tessuto ur-

bano incoerente» la definisce Maïlis Favre in uno dei rari testi rintracciati a proposito della Tulipe, apparso sulla rivista semestrale di architettura «Faces». Mi avvicino al piedistallo-stelo-scultura che regge quattro piani e la cui sfaccettatura è da diamante. La porta d’entrata è d’ottone od ottonata come i bordi delle finestre. In alcuni punti, sulla facciata, il cemento scorticato dal degrado di questo materiale non eterno, svela l’armatura. Si era pensato anche a delle fioriere, però i ricercatori attuali non devono avere troppo il pollice verde; dentro ci sono solo dei tristi lauri striminziti. La superficie scultorea degli origami-frattali in beton, come spesso accade, è abbellita dal passare del tempo e le intemperie, creando così una patina emotiva che fa impazzire i fini conoscitori del brutalismo. Come la fotografa zurighese Karin Bürki che ha realizzato una mappa – chiamata

carte brute – del brutalismo in Svizzera con cinquanta costruzioni tra le quali non poteva mancare questa stravagante di Jack Bertoli, la quale riceve persino un posto d’onore: sul retro della cartina giganteggia in formato poster. E cogliendo anche, in questo capolavoro del brutalismo floreale, la sottile importanza – quasi come un lato femminile essenziale al suo equilibrio – delle vetrate colorate a specchio: «una vacanza per la retina». Ritorno sul marciapiede opposto, davanti al reparto pediatria, il punto di vista migliore per contemplare La Tulipe. «Artichaut», carciofo, ho trovato scritto in un articolo dell’epoca sul «Journal de Genève». Mentre un mio vecchio amico attore in declino, incontrato per caso passeggiando più tardi senza meta e intervistato al volo in proposito, visto che ha abitato una vita da quelle parti, mi risponde: «Ah, sì, la casa di Goldrake».

di Giancarlo Dionisio

Filippo il Pioniere

Verrebbe la tentazione di chiamarlo Filippo il Grande. Ma mi pare prematuro. Filippo Colombo un grande lo diventerà, ne sono convinto. Per ora è un potenziale campione che domenica 27 marzo è salito di un ulteriore gradino sulla scala della considerazione da parte di pubblico e avversari. Pioniere, per contro, lo è. Non ci sono dubbi, almeno per quanto concerne il Ticino. Lui è stato il primo nostro biker a conquistare un titolo nazionale nelle categorie giovanili. Il primo a salire sul podio europeo e iridato anche fra gli Under 23 e gli élite. Il primo a essere selezionato per i Giochi Olimpici. Mancava una consacrazione assoluta, anche se di gare, nella dozzina di anni di attività, ne aveva già vinte. L’ha ottenuta a casa sua, sui sentieri del Monte Ceneri, nella primissima edizione della Ökk Bike Revolution Tamaro Trophy.

La storia dello sport, quando si allea con la sorte, prende e dà. Senza guardare in faccia a nessuno. Nell’ottobre del 2020, in piena pandemia, l’esponente del Velo Club Monte Tamaro, era lanciatissimo verso una possibile medaglia agli Europei organizzati dalla sua società sportiva. Stava facendo corsa pari con un fenomeno come Nino Schurter, quando un guaio meccanico lo ha tolto dai giochi. Il contesto della manifestazione, andata in scena 15 giorni fa, era diverso rispetto a quello continentale. Ma le ambizioni di promotori e organizzatori sono sconfinate. Infatti il circuito voluto e creato da Nino Schurter e dal suo ex collega Ralph Näf, vuole proporsi sui livelli della Coppa del mondo. Se osserviamo il campo dei partecipanti non c’è ragione di dubitare. Anche se non c’era Nino Schurter. Il 9 volte campione del

Mondo, nonché campione olimpico di Rio de Janeiro, ha dovuto e voluto rispettare impegni presi in Sudafrica. A rendere tuttavia durissima la vita al ragazzo di Bironico, c’era un altro big della MTB mondiale: il bernese Mathias Flückiger, vicecampione mondiale e vicecampione olimpico. A fare da contorno dorato, a tentare di sbarrare la strada al rampante di casa nostra, c’erano, fra gli altri, Titouan Carod e Luca Braidot, due esponenti di spicco delle prestigiose scuole francese e italiana. Ebbene, Filippo Colombo se li è cucinati con classe e perizia degne di un Bocuse o di un Artusi. Il suo arrivo solitario, a braccia alzate, sul traguardo montecenerino è stato il brivido più caldo di un week end baciato da sole, passione, buona cucina, e tanto amore per la bicicletta. Chi non segue il mondo della MTB potrebbe stupirsi per tanta enfasi. Non è

facile, per uno sportivo ticinese, raggiungere i vertici nazionali, e in seguito anche quelli internazionali. Ma ancora meno facile è riuscirci nell’ambito di una disciplina in cui la Svizzera è da anni la nazione faro. Thomas Frischknecht, Christoph Sauser, Nino Schurter, Lars Forster, i fratelli Lukas e Mathias Flückiger, e altri, come le magnifiche ragazze – Jolanda Neff, Sina Frei, Linda Indergand che ai Giochi Olimpici di Tokyo hanno occupato i tre gradini del podio – hanno scritto la storia degli ultimi due decenni di questo sport in costante crescendo di seguito e di consensi. La parabola ascendente di Filippo Colombo ne esce quindi impreziosita. Lo confermo: se la buona sorte lo accompagnerà, in modo corretto, senza esagerazioni, il 24enne ticinese sarà destinato a raccogliere l’eredità dei fenomeni menzionati. Molti addetti ai

lavori hanno l’impressione che ci si stia avviando verso un passaggio delle consegne. Aggiungo che nessuno più di Filippo, può guardare con serenità e determinazione a questa evenienza. Un auspicio per la Coppa del Mondo che è scattata ieri in Brasile. Poi, si vedrà. Per ora godiamoci il suo presente e il suo immediato futuro, così come quello di altri campioni di casa nostra, come Ajla Del Ponte e Noè Ponti, che stanno esplorando e conquistando il mondo. Più avanti, in uno slancio di ottimismo, nella MTB, lo sguardo potrebbe persino andare oltre Filippo. I risultati dei nostri e delle nostre juniores continuano a essere di altissimo livello. Anche in Ticino. A conferma dell’eccellente lavoro della nostra scuola, rappresentata a sud delle Alpi da valori consolidati come il VC Monte Tamaro, e valori emergenti come il VC Capriasca.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 11 aprile 2022

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ATTUALITÀ ●

Una difesa europea? C’è chi spera che la guerra in Ucraina possa rilanciare il progetto affossato nel 1954

Contro l’ipocrisia occidentale Perché il sud del mondo non si schiera né con l’Ucraina né con la Russia che aggredisce

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Per un pugno di smeraldi A Muzo, in Colombia, c’è chi scava a mani nude ogni giorno per guadagnare (forse) pochi pesos

Chi vince e chi perde Verdi e Verdi liberali ancora in crescita nelle elezioni cantonali e comunali, partiti di governo in calo

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Da sinistra: il premier ungherese Viktor Orbán e il presidente serbo Aleksandar Vucic. (AFP)

Quell’opportunità che sa di Russia e di Cina Il punto

Orbán e Vucic continuano a strizzare l’occhio a Mosca mentre il gruppo di Visegrad si è spezzato e il futuro resta incerto

Paola Peduzzi

Vladimir Putin si è congratulato con il premier ungherese Viktor Orbán e il presidente serbo Aleksandar Vucic che hanno vinto le elezioni nei loro paesi il 3 aprile. Lo stesso giorno in cui le istantanee del massacro di Bucha, alle porte di Kiev, hanno iniziato a fare il giro del mondo. Prima erano poche, poi sono diventate tantissime, ognuna con un particolare di brutalità diverso ma ugualmente inaudito, e sono arrivate le immagini satellitari che dimostrano che questo è quel che le forze russe stanno lasciando mentre compiono quello che loro chiamano «ritiro». Due leader europei – Orbán è dentro l’Ue, Vucic alle porte – hanno ricevuto una telefonata di complimenti dal presidente russo proprio mentre si vedeva la mostruosità della sua missione militare in Ucraina, e ne sono comunque stati fieri. Perché l’iniziale allineamento contro la guerra ingiustificata di Putin è svanito, e a guidarne il declino sono stati questi politici dell’est Europa che da tempo si ribellano all’abbraccio occidentale e che vedono in questo nuovo ridisegnarsi delle alleanze un’opportunità che sa di Russia e anche di Cina. Orbán è il più problematico: è nell’Ue, ha diritto di veto nell’Unione, lo ha già esercitato più volte. Ha la possibilità

di condizionare le decisioni europee. Poi, certo, talvolta ci dimentichiamo che il rapporto di potere è in realtà invertito, perché l’Ungheria dipende dai fondi europei, perché non è il Regno Unito che può divorziare e restare indipendente (anche se oggi trovare qualcuno, anche tra i sostenitori della Brexit, che sia ancora convinto che sia stata una buona idea, quella di andarsene, è molto più complicato rispetto ad un anno fa). L’Ungheria è il classico esempio di paese che conta solo in quanto membro dell’Ue, da sola sarebbe una nazione piccola, illiberale con un enorme problema demografico. Ci dimentichiamo tutto questo perché Bruxelles decide all’unanimità e quindi l’ostruzionismo di Orbán pesa tantissimo. Lui lo sa e se ne approfitta.

Il gruppo di Visegrad – Ungheria, Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia – è diventato ostile a Bruxelles Non è detto che il calcolo del premier ungherese, che ha vinto il suo quarto mandato consecutivo (il quinto della sua carriera) il 3 aprile, si rivelerà infine fruttuoso. Orbán ha dichia-

rato, «festeggiandosi», di aver battuto la sinistra del suo paese, la sinistra internazionale, la burocrazia europea, la macchina di George Soros, il filantropo ungherese-americano, e perfino il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, che gli aveva chiesto, in uno dei suoi accorati discorsi ai leader mondiali, di chiarire da che parte sta, se con lui e l’Occidente oppure con Putin. Ma questo posizionamento ha già spaccato un’alleanza che per Orbán non è secondaria: il gruppo di Visegrad (noto anche come V4). Questo asse è nato nel 1991 nella città-castello di Visegrad, appunto, a pochi chilometri a nord di Budapest, sul Danubio. Allora si erano riunite l’Ungheria, la Polonia e la Cecoslovacchia (oggi Repubblica ceca e Slovacchia ne fanno parte). Il V4 è una cooperazione politica, militare ed energetica che promuoveva l’integrazione dei paesi aderenti all’Ue ed è diventato ancora più rilevante nel 2004, quando queste quattro nazioni hanno fatto il loro ingresso nell’Unione. Negli ultimi anni il V4 si è di nuovo trasformato ed è diventato di fatto un gruppo ostile nei confronti di Bruxelles e delle imposizioni dell’Europa dell’est. L’ostilità si è mostrata in vari modi ed è stata guidata in particola-

re dall’Ungheria e dalla Polonia, molto allineate nella loro lotta politica e culturale contro quella che loro chiamano l’ingerenza continua del mainstream liberale nei loro affari. Detto molto in sintesi: Ungheria e Polonia vorrebbero che l’Ue fosse un bancomat che dà fondi e basta. La guerra di Putin in Ucraina ha spezzato questa alleanza al punto che, all’ultima riunione del V4 organizzata da Orbán, i polacchi e i cechi hanno affermato che non sarebbero andati. La separazione della Polonia è vistosa: non è una novità che Budapest pencoli verso l’est, tra Russia e Cina, ma finora Varsavia era stata abbastanza conciliante, si turava il naso forse, perché la battaglia dentro l’Europa era più importante. Ora non più, lo strappo si è consumato e oggi sembra stato indolore, ma si stanno ridisegnando molte alleanze, equilibri e il fatto che la Repubblica ceca mandi carri armati in Ucraina quando l’Ungheria non permette nemmeno ai rifornimenti della Nato di transitare sul proprio territorio non resterà senza conseguenze. Poi c’è la scommessa su Putin. In questo momento anche chi ha per vent’anni contato sulla possibilità di dialogare con il presidente russo non è più tanto sicuro: evidentemente le

categorie di convenienza e di convivenza che abbiamo sempre applicato alla Russia putiniana non valgono più. Orbán, in controtendenza, invece pensa che costruire un ponte ideologico ed economico con Putin sia una scelta strategica vincente. Per questo ha iniziato a pagare il gas russo in rubli (alla faccia del nazionalismo ungherese!), per questo guarda goloso alla Transcarpazia, la regione ucraina che fino all’inizio del Novecento era ungherese e che è abitata dalla minoranza ungherese (se Mosca nega l’esistenza dell’Ucraina, allora la Transcarpazia può tornare all’Ungheria). In questo è molto simile alla Serbia di Vucic, che ha iniziato un gioco pericoloso di avvicinamento all’Ue e contemporaneamente a Putin, come se le due cose possano ancora coesistere. Orbán insomma crede di potersi fidare e che il Cremlino si fidi di lui. Però l’affidabilità di Putin è quantomeno compromessa, quindi o il premier ungherese ambisce a diventare il mediatore invero poco neutrale di questa crisi, o a diventare come il dittatore bielorusso Lukashenko, un alleato sottomesso e disposto a tutto per compiacere Mosca. In ogni caso il rischio di aver sbagliato i calcoli si fa per lui molto alto.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 11 aprile 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

Il sogno di un’armata europea

PRO SENECTUTE

informa

Strategia ◆ Alcuni si augurano che la crisi ucraina, rinsaldando la coesione fra i 27 stati membri dell’Ue, possa rilanciare il progetto affossato nel 1954 Alfredo Venturi

Programma vacanze 2022 Dopo due anni di pausa, possiamo finalmente riproporre un programma di soggiorni estivi al mare e un soggiorno termale in autunno: – Laigueglia, dal 25 maggio al 5 giugno – Alassio, dal 25 maggio al 5 giugno – Gabicce Mare, dal 5 al 15 giugno e dal 28 agosto al 7 settembre – Lido di Jesolo, dal 5 al 12 giugno – Torre Pedrera di Rimini, dal 31 luglio al 10 agosto – Pinarella di Cervia, dal 4 al 14 settembre – Montegrotto Terme, dal 7 al 16 ottobre I soggiorni sono rivolti a persone anziane autosufficienti che desiderano trascorrere una vacanza in compagnia, con l’accompagnamento da parte di volontari di Pro Senectute.

Incontri

Soldati dell’Eurocorps. (Shutterstock)

Atelier digitale per «over 60» in collaborazione con

– Venerdì 29 Aprile e 27 Maggio 2022 presso sala corsi GenerazionePiù, Via Lambertenghi 1, Lugano Sicurezza e truffe: consigli utili per evitarle Incontro informativo con la Polizia Cantonale e ACSI – Martedì 26 aprile alle ore 14.00 presso la portineria di quartiere «Cine ma», Via S. Gottardo 119B, Gordola Iscrizioni (obbligatorie): Tel. 091 912 17 89 (mattino), o via mail: laura.tarchini@prosenectute.org

Fatture con codice QR Pro Senectute sensibilizza la popolazione a questo importante cambiamento, che sarà definitivo dal 1° ottobre 2022. In Ticino, in collaborazione con La Posta (e Postfinance) e GenerazionePiù organizziamo i seguenti appuntamenti informativi: – Giovedì 14 aprile 2022 - ore 14.00 – Sala Consiglio comunale, Palazzo Comunale, Mendrisio – Mercoledì 27 aprile 2022 - ore 14.00 – Sala multiuso Scuole comunali, Sant’Antonino – Giovedì 12 maggio 2022 - ore 14.00 – Centro diurno «Insema» - Via D. Galli 50, Solduno – Giovedì 2 giugno 2022 - ore 14.00 – Salone OCST, via Balestra, Lugano

Contatto Pro Senectute Ticino e Moesano Via Vanoni 8/10, 6904 Lugano Tel. 091 912 17 17 – info@prosenectute.org Le nostre sedi regionali si trovano anche a: Balerna, Bellinzona, Biasca e Muralto

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Il sogno federalista di un esercito europeo tramontò a Parigi in una calda giornata di fine estate. Era il 30 agosto del 1954 quando l’Assemblea nazionale con 319 voti contro 264 negò la ratifica al trattato che proprio la Francia aveva proposto, e che poco più di due anni prima aveva istituito la Ced, Comunità europea di difesa. Era considerata un primo passo verso la fusione delle forze armate nazionali. Dei sei Paesi interessati, gli stessi che stavano creando con la Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio – l’embrione della futura Unione continentale – Belgio, Olanda, Lussemburgo, e Germania lo avevano già ratificato, l’Italia aveva rinviato il voto alla decisione parlamentare francese e poiché era richiesta l’unanimità non se ne fece nulla. Era la fine della grande aspirazione europeista: dopo la devastante guerra conclusa 9 anni prima si volevano vedere gli ex nemici riuniti sotto le stesse bandiere, pronti all’occorrenza a difendere insieme un’Europa sempre più unita. Il processo dell’integrazione continentale dovette trasferirsi dalla politica all’economia, secondo le linee del cosiddetto metodo funzionale. L’attualità della guerra ucraina, la decisione di aumentare considerevolmente le spese militari e in particolare l’annunciato riarmo tedesco riportano alla ribalta quella che appare come un’occasione storicamente mancata. Se l’Europa potesse contare su una struttura difensiva integrata, il suo ruolo nella gravissima crisi in corso sarebbe più forte e forse decisivo. In un mondo che ancora ragiona come Carl von Clausewitz, un mondo che si chiede quante divisioni abbia il Papa, la voce di chiunque si proponga di risolvere un’emergenza può farsi ascoltare soltanto se alle spalle di chi parla c’è un’adeguata forza d’urto. Negli ambienti militari è diffusa l’opinione che se esistesse una difesa europea efficiente l’Ucraina non sarebbe stata invasa. Qualcuno si augura che proprio questa crisi, rinsaldando la coesione fra i Ventisette, possa rilanciare il progetto affossato nel 1954, superando la frammentazione delle forze armate nazionali in cui si articola la difesa europea. Si confida sul fatto che sono venute meno alcune situazioni che osta-

colarono fino a vanificarlo il progetto della Ced, a cominciare dall’ossessione francese per una Germania di nuovo militarmente attrezzata. Proposto dal primo ministro René Pleven, il piano prevedeva inizialmente che ogni paese contribuisse con una divisione all’esercito comune mantenendo anche le forze armate nazionali. Con una sola eccezione in questa prima formulazione la Repubblica federale avrebbe limitato il riarmo alla sola unità sotto il comando unificato. Una clausola limitativa del resto in linea con l’atteggiamento pacifista dell’opinione pubblica e del governo tedesco, allora guidato dal cancelliere Konrad Adenauer. Ma non tutti concordavano sull’iniziativa in sé: la sinistra socialdemocratica temeva che potesse pregiudicare la possibilità della riunificazione nazionale.

L’Eurocorps ripropone in forma schematica l’armata europea che naufragò sugli scogli dell’Assemblea nazionale francese In quei primissimi anni Cinquanta il negoziato si trascinava a fatica, gli Stati Uniti premevano perché la nascente difesa continentale assumesse un ruolo di punta nell’ambito della Nato. Washington arrivò a minacciare un riarmo tedesco in piena regola se non si fosse fatto l’esercito europeo. E così finalmente si giunse al trattato, dopo che un’assemblea allargata della neonata Ceca ne ebbe perfezionati i lineamenti statutari. Nonostante le riserve francesi la Germania poté ricostituire le sue forze armate, sia pure con forti limitazioni. A questo punto non restava che la ratifica da parte dei sei parlamenti, che si protrasse stancamente per alcuni mesi fino al diniego parigino. A spiegare tante reticenze, a ridimensionare l’urgenza della difesa comune furono la fine della guerra di Corea e la morte di Stalin, che fece venir meno o almeno attenuò fortemente la temutissima minaccia sovietica. Per la Francia persisteva inoltre una diffusa avversione al riarmo tedesco, mentre un senso di profonda frustrazione nazionale era determinato dall’andamento della guerra in Indocina: la

sconfitta di Dien Bien Phu precedette di pochi mesi il fatidico voto contro la Ced. Fu necessario attendere il 1989, l’anno della caduta del Muro di Berlino, perché si costituisse in Europa una prima unità militare multinazionale, per la precisione binazionale. Voluta dal presidente François Mitterrand e dal cancelliere Helmut Kohl nel quadro della ritrovata amicizia fra i due Paesi, la Brigata franco-tedesca comprende seimila uomini schierati da una parte e dall’altra del Reno, il grande fiume che nella storia ha sempre separato due popoli nemici. Lo stato maggiore ha sede a Müllheim nel Baden-Württemberg, dove si alternano al comando un generale tedesco e uno francese. Tre anni più tardi la Brigata franco-tedesca è entrata a far parte del Corpo europeo di reazione rapida, meglio noto come Eurocorps, nel quale è la sola unità permanentemente mobilitata. Istituito nel 1992 con sede a Strasburgo, l’Eurocorps ripropone in forma schematica l’armata europea che naufragò sugli scogli dell’Assemblea nazionale francese. Si tratta di un esercito di quadri, una struttura di comando e controllo, in pratica lo stato maggiore di un corpo d’armata che in caso di necessità dovrebbe poter mobilitare fra tutti i Paesi dell’Unione una forza di cinquanta o sessantamila uomini, secondo l’obiettivo definito nel 1999 dal Consiglio europeo di Helsinki. Dell’Eurocorps fanno parte in servizio permanente un migliaio di uomini provenienti da cinque Paesi (Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo e Spagna) mentre sei Paesi associati (Austria, Grecia, Italia, Polonia, Turchia e Romania) sono rappresentati a livello di comando. La finalità del Corpo di reazione rapida riguarda non soltanto la difesa comune, ma anche operazioni umanitarie e missioni di imposizione e mantenimento della pace per conto dell’Onu, dell’Osce, della Nato. Finora è stato attivo in Bosnia, Kosovo e Afghanistan. Incaricato fra l’altro di tutelare la sicurezza delle istituzioni comunitarie di Strasburgo, l’Eurocorps non è certo l’esercito europeo cui aspira il movimento federalista, ma delinea una struttura che in tempi di crisi potrebbe rivelarsi essenziale.


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ATTUALITÀ

Un nuovo movimento dei non allineati? L’analisi

Perché il sud del mondo rifiuta di prendere partito tra i sostenitori dell’Ucraina e quelli dei loro invasori russi

Pietro Veronese

Intervistato dal «Guardian» davanti alla merce esposta nella sua bottega del Cairo, il fruttivendolo Yousef si dice preoccupato dalla guerra in Ucraina. «Se la Russia userà le bombe atomiche», ragiona Yousef, «il clima del pianeta ne risulterà ancora più perturbato».

La guerra nello Yemen, le atrocità in Sud Sudan, nell’est della Repubblica democratica del Congo o in Tigré non tolgono il sonno a nessuno in Europa Queste parole, raccolte da una cronista nelle vie della capitale egiziana, riassumono a meraviglia l’atteggiamento che sembra accomunare quell’ampia parte di mondo a sud della nostra, molto più lontana di noi dagli orrori dell’invasione russa. La distanza geografica è anche distanza emotiva, ci spiegano esperti e osservatori internazionali come il camerunese Paul-Simon Handy. Lo spettro di un’escalation nucleare, più volte evocata da Vladimir Putin e dai suoi ministri, attanaglia le opinioni pubbliche europee; ma all’uomo della strada del Cairo quel fantasma non fa pensare in primo luogo all’olocausto delle città, all’ecatombe di milioni di cittadini, bensì alla possibile alterazione delle precipitazioni che potrebbe mandare in malora il raccolto dei suoi pomodori. E se accusassimo Yousef di indifferenza, probabilmente ci risponderebbe che la guerra nello Yemen, con le sue stragi di bambini, le atrocità in Sud Sudan, nell’est della Repubblica democratica del Congo o in Tigré non hanno tolto il sonno a nessuno in Europa. Quando esplosero le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, nel 1945, c’erano due miliardi e mezzo di umani sulla Terra e uno su cinque era un europeo. Oggi siamo circa otto miliardi e meno di uno ogni

dieci abita nel nostro continente. Numeri, rapporti, dislocazione geografica sono enormemente cambiati e con essi sono cambiati i punti di vista. L’economista David Adler, coordinatore della coalizione progressista internazionale Progressive international, ipotizza addirittura la nascita di un nuovo movimento dei non allineati. Come nei decenni della Guerra Fredda, quando numerosi Paesi dell’Asia e dell’Africa non vollero schierarsi né con gli Stati Uniti né con l’Unione Sovietica, anche davanti alla guerra in Ucraina numerosi governi del sud del mondo, in sintonia con le loro opinioni pubbliche, rifiutano di prendere partito tra i sostenitori dell’Ucraina e quelli dei loro invasori. Lo si è visto con luminosa chiarezza il 2 marzo, quando l’Assemblea generale delle Nazioni unite è stata chiamata a votare una mozione di condanna dell’invasione russa. Il risultato è stato 141 a favore, 35 astenuti, 12 che sono usciti dall’aula e soltanto 5 contrari (Russia, Bielorussia, Siria, Corea del Nord, Eritrea). Questo risultato è stato giustamente definito straordinario, una condanna senza appello del Paese aggressore. Anche Paesi oggi filorussi come la Serbia o l’Ungheria hanno votato a favore della mozione. Ma se guardiamo alla distribuzione geografica, il quadro cambia radicalmente. L’Africa appare spaccata: 28 favorevoli contro 25 astenuti e uno contrario. L’Asia, al seguito della Cina, si è astenuta in proporzione schiacciante. Se poi andiamo oltre la condanna generica e osserviamo chi è favorevole alle sanzioni, cioè ad azioni concrete, il risultato è che, al di là del consenso euro-americano più un pugno di altri Paesi, tra cui l’Australia, il Giappone, la Corea del Sud, il resto del pianeta è un coro di no. La maggior parte, compresa l’America Latina, ha optato per una decisa neutralità. C’è dietro questo schieramento

Uomini di origine africana che cercano di scappare da Leopoli, Ucraina. (Keystone)

un insieme di ragioni, composito e complesso. In primo luogo, un diffuso sentimento di fastidio per quella che viene vista come un’ipocrisia dell’Occidente: pronto a condannare le aggressioni altrui e a giustificare le proprie, come la guerra in Iraq o in Afghanistan. Poi la percezione che l’invasione dell’Ucraina sia in realtà uno scontro tra le superpotenze russa e americana, «il che», afferma Paul-Simon Handy in un’intervista a «Le Monde», «provoca spesso in Africa un riflesso di non allineamento». C’è anche, in certi gruppi dirigenti, un tradizionale riflesso filo-russo che risale ai tempi della lotta di liberazione e al sostegno sovietico di quell’epoca: è il caso per esempio del Sudafrica, ma non solo. E ci sono dinamiche più recenti, come in Mali, dove le manifestazioni contro i francesi (che hanno finito per ritirare il loro contingente militare, sostituito

dai mercenari russi del Gruppo Wagner), sono state punteggiate da slogan in favore di Vladimir Putin. «Ma questa putinofilia», dice ancora Handy, «esprime meno un’adesione alla politica russa che un rifiuto dell’Europa e dell’Occidente». Sta di fatto che la guerra in Ucraina sembra aver creato – o forse solo rivelato – un solco tra il sud e il nord del mondo. Solo i mesi futuri ci riveleranno se esso sia destinato ad approfondirsi, oppure ad attenuarsi. Per adesso, i nostri media si compiacciono della ritrovata compattezza occidentale, o lamentano le dissonanze che provengono dalle minoranze filorusse tra gli intellettuali e i politici di casa nostra, e sembrano del tutto indifferenti alla silenziosa distanza del mondo più lontano. Distanza che non ha contribuito a ridurre il trattamento ferocemente discriminatorio, per non dire francamente razzista, ri-

servato alle migliaia di studenti universitari (e non solo) africani e asiatici sorpresi dalla guerra nelle città ucraine. Sono state numerosissime le testimonianze di queste persone, che non hanno ricevuto alcun aiuto per raggiungere i confini dell’Ucraina, anzi spesso sono stati fatti scendere dai mezzi di trasporto sui quali erano riusciti a trovare un posto, per lasciarlo agli ucraini. Poi sono stati respinti dai Paesi confinanti, che hanno negato loro l’ingresso, come per esempio la Polonia, costringendoli a spostarsi verso altri confini in condizioni estreme di freddo e di fame. Infine, una volta «accolti», sono stati richiusi in campi di internamento. Trattati come migranti illegali e non come profughi di guerra, alla stregua di tutti gli altri. I media africani ne hanno riferito a iosa. Non è stato il modo migliore per ottenere solidarietà da quella parte di mondo.

Spie russe in agguato in Messico Tensione

Secondo fonti militari americane la principale minaccia per gli Stati Uniti non sarebbe Pechino ma Mosca

I servizi segreti militari russi, il temibile Gru, «hanno più funzionari dell’intelligence dispiegati in Messico che in qualsiasi altro paese del mondo. Da lì lavorano per intervenire nelle decisioni prese dagli Stati Uniti». L’ha detto a un mese esatto dall’invasione russa dell’Ucraina il comandante del Comando del nord degli Stati Uniti, Glen VanHerck. Dichiarazione ufficiale davanti al Comitato per i servizi armati del Senato statunitense. Da allora la polemica politica non accenna a smorzarsi. In Messico la Russia ha una delle sue più grandi ambasciate nel mondo. Da sempre sospettata di essere un covo di spie. Soltanto che questa volta la questione è stata tirata fuori al Senato da un generale in una posizione chiave per la sicurezza degli Usa e nel bel mezzo di una guerra che vede l’America contrapposta alla Russia, seppur non come belligerante. Da qui l’infuocarsi dello scontro diplomatico. Anche solo l’ipotesi che il Messico possa – con la sua posizione di non condanna a Mosca – nasconde-

re la disponibilità a far da stampella diplomatica a un isolato Putin è per la Casa Bianca un rischio troppo alto, da scongiurare. Per questo il pressing statunitense sul presidente messicano Andrés Manuel López Obrador. Vogliono stanarlo. O persuaderlo a fare una dichiarazione di distanza di fronte al Cremlino che finora non è arrivata. Non è la prima volta che VanHerck richiama l’attenzione sull’attività russa in America latina, convinto che la principale minaccia militare per gli Usa non sia la Cina ma la Russia. Dice il generale riferendosi all’America latina: «Lì le organizzazioni militari transnazionali agiscono quasi senza opposizione e aprono una strada fatta di corruzione e violenza piena di brecce utili alla Russia e alla Cina per farsi largo nei vari Paesi». La sua denuncia è arrivata poco dopo che l’ambasciatore degli Stati Uniti in Messico, Ken Salazar, aveva criticato l’inaugurazione alla Camera messicana di un «comitato di amicizia russo-messicano». Sei legislatori del partito Morena di

Shutterstock

Angela Nocioni

Obrador si sono accordati con venti parlamentari di sinistra per mettere in piedi questo comitato alla presenza dell’ambasciatore russo Viktor Koronelli. «Per noi questo è un segno di sostegno, di amicizia, di solidarietà in questi tempi complicati in cui il mio Paese non sta affrontando solo un’operazione militare speciale in Ucraina, ma una tremenda guerra mediati-

ca», ha detto l’ambasciatore. Replica di Armando Contreras Castillo, un parlamentare fidatissimo di Obrador: «Siamo sempre pronti a fare tutto il possibile per aumentare l’amicizia, le relazioni e la cooperazione tra Messico e Russia». Mentre il presidente messicano ha reagito così: «Il Messico non è una colonia di nessuno» e «non ha mai inviato spie all’estero». «Sia-

mo un Paese libero, indipendente e sovrano. Non siamo una colonia della Russia, della Cina o degli Stati Uniti, noi non andiamo a Mosca né a Pechino, non andiamo a Washington, né a Los Angeles a spiare quello che stanno facendo là». Il ministro degli Esteri Marcelo Ebrard è tornato sulle accuse del generale Glen VanHerck e ha chiesto che presenti le prove di quel che ha detto. In un’intervista a «El Universal» e prima della sua partecipazione al World Government Summit, riferendosi alle proteste dell’ambasciatore americano in Messico, ha detto che gli Stati Uniti non dettano la linea al governo messicano riguardo alla situazione nell’Europa orientale. Grande attenzione da parte del Cremlino per questo battibecco. Per Mosca è cruciale in questo momento poter contare sulla non ostilità sia di paesi considerati suoi satelliti politici per eredità sovietica, come Cuba e Nicaragua, sia di un Paese importante nella geopolitica continentale come il Messico.


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ATTUALITÀ

Una farsa di democrazia

Se l’Occidente si autoflagella

Pakistan ◆ Il premier Khan e i suoi goffi tentativi di emanciparsi dall’esercito

Novità

L’ultimo saggio di Federico Rampini

Francesca Marino

Romina Borla

«La situazione è grave ma non seria», avrebbe commentato lo scrittore e giornalista italiano Ennio Flaiano a proposito degli ultimi sviluppi della politica pakistana. Riassumendo: di recente l’opposizione ha presentato in Parlamento una mozione di sfiducia nei confronti del premier Imran Khan. La mozione, che richiedeva una maggioranza di 172 voti, sarebbe probabilmente passata visto che alcuni partiti alleati del premier gli avevano voltato le spalle. Due giorni prima del voto sulla mozione, Khan è andato in televisione denunciando una cospirazione a opera di «una potenza straniera» che avrebbe comprato i 172 parlamentari per sovvertire di fatto il governo in Pakistan. Al momento del voto di sfiducia, lo speaker della Camera ha dichiarato nulla la mozione appoggiando la tesi della cospirazione a opera della famosa potenza straniera. Il presidente Arif Alvi ha sciolto le camere e ha indetto nuove elezioni da tenersi al più presto. Metà del Paese si straccia le vesti dichiarando incostituzionale tutto il procedimento, mentre l’altra metà crede ciecamente alla storia della cospirazione. La potenza che vuole detronizzare il primo ministro pakistano sarebbe, come ha dichiarato lo stesso Khan in Tv, l’America. Che a quanto pare, nel mezzo della crisi Ucraina, non trova di meglio da fare che complottare un cambio di regime in Pakistan spendendo qualche milione di dollari per cacciare un primo ministro che, con tutta la buona volontà, è perfino difficile prendere seriamente.

«Se un attacco nel cuore dell’Europa ci ha colto impreparati, è perché eravamo impegnati nella nostra autodistruzione», sostiene Federico Rampini – collaboratore di «Azione» ed editorialista del «Corriere della Sera» – in Suicidio occidentale (Mondadori). «Il disarmo strategico dell’Occidente era stato preceduto per anni da un disarmo culturale. L’ideologia dominante (…) ci impone di demolire ogni autostima, colpevolizzarci, flagellarci. Secondo questa dittatura ideologica non abbiamo più valori da proporre al mondo e alle nuove generazioni, abbiamo solo crimini da espiare». Questa sorta di «esperimento estremo», dice l’autore, ha preso il via negli Stati Uniti e starebbe contagiando anche il Vecchio continente. Quella di Rampini è una chiave di lettura alternativa alla crisi in atto, che attribuisce tante delle sue manifestazioni all’avanzata di una nuova forma di pensiero unico, «solo in apparenza progressista, che cancella i disobbedienti privandoli del diritto di parola, denuncia pubblicamente persone accusate di avere offeso qualche valore sacro del politically correct e lancia campagne di boicottaggio contro i reprobi». Il giornalista viaggia avanti e indietro nel tempo per argomentare le proprie opinioni, talvolta citando le sue personali esperienze, negli Usa come in Cina, e gli autori più diversi, da Hannah Arendt (L’origine del totalitarismo) a J.K. Rowling (Harry Potter) passando per Socrate e altri notevoli pensatori e pensatrici (per esempio la canadese Margaret Atwo-

Imran Khan ha denunciato una cospirazione a opera di «una potenza straniera», l’America, per sovvertire il governo in Pakistan Le sue gaffe sono leggendarie, così come la sua ignoranza e la sua cieca fede nella magia nera o bianca che sia. Eletto nel 2018 con quelle che sono state definite le elezioni più truccate della storia del Pakistan, Khan, la cui carriera politica è stata forgiata da alti ranghi dell’ISI (i servizi segreti) e dell’esercito, era stato accuratamente selezionato e addestrato per il compito affidatogli, compito che l’ex-playboy campione di cricket sembrava ab-

Da destra: Imran Khan, il generale Qamar Javed Bajwa e il ministro della Difesa Pervez Khattak. (Keystone)

bastanza felice di svolgere secondo le indicazioni ricevute. Erano in molti a pensare, fino a qualche tempo fa, che Khan avrebbe portato a termine il suo mandato e avrebbe probabilmente vinto un’altra elezione per un motivo molto semplice: l’esercito non troverà mai qualcuno più diligente di lui nel seguire le direttive ricevute lasciando ai generali la vera responsabilità di governo. Cosa è andato storto allora? In ultima analisi, si tratta della vecchia storia di Frankenstein: la creatura che si ribella al suo creatore. E qui la cronaca comincia a sembrare la trama di una soap opera scritta da uno sceneggiatore ubriaco. Negli episodi precedenti: Khan ha sposato in terze nozze una specie di santona che, a quanto sostiene, ha un filo diretto con gli spiriti e che aveva profetizzato la sua ascesa al potere nel caso in cui il matrimonio fosse stato celebrato (nonostante ai tempi sia Khan che la signora fossero già sposati con altre persone). Dopo il matrimonio però, si dice, la donna non si è più limitata a consigliare l’applicazione di lenticchie sulle parti intime per aumentare potenza e scacciare il malocchio ma ha cominciato a dettare al primo ministro, oltre agli affari da combinare, anche la linea politica da tenere. Così, sostenuto anche dalla corte di nani e ballerine il cui compito principale era quello di lusingarlo facendo-

gli credere che godesse di un potere reale, Khan ha intrapreso una lunga battaglia suicida contro il capo dell’esercito, generale Qamar Javed Bajwa. Rifiutandosi di firmare la sostituzione del direttore generale dell’ISI Faiz Hameed con il tenente generale Nadeem Anjum. Hameed è stato uno degli artefici della vittoria di Khan nel 2018. A quanto pare la consorte del premier, in una delle sue consultazioni con gli spiriti, avrebbe vaticinato che il governo non sarebbe sopravvissuto senza Hameed: il quale, rimanendo in carica, sarebbe potuto diventare capo dell’esercito in novembre quando il mandato di Bajwa sarebbe scaduto. Il resto è storia che si ripete sempre uguale a se stessa. Khan ha commesso lo stesso errore che altri premier hanno commesso prima di lui: ribellarsi all’esercito. E l’esercito non perdona i suoi eletti che cercano di prendere decisioni individuali. Ma, siccome non c’è nulla di serio nelle crisi politiche pakistane, l’esito sarà probabilmente questo: ricevuti un paio di metaforici schiaffoni (giovedì la Corte suprema non ha convalidato lo scioglimento delle camere, quindi dovrà affrontare il voto di sfiducia, che perderà), Khan tornerà al potere con un’altra elezione truccata e un paio di ulteriori amuleti al collo. Perché è davvero difficile trovare qualcuno più facile da manovrare.

od, l’afroamericano Shelby Steele e Roya Hakakian, di origine iraniana). Si scaglia con forza contro gli estremismi. Contro la brutalità della destra trumpiana, certo, ma soprattutto contro l’attacco alla democrazia americana sferrato da quella che definisce «sinistra illiberale». Un attacco «di gran lunga più potente», perché l’influenza culturale di questa fazione «è maggiore e si estende alle istituzioni centrali della società americana»: università, media, colossi digitali, industria dell’entertainment, ecc. Nei vari capitoli Rampini affronta i tanti ambiti in cui si esplica «il suicidio», appunto. Si avventura tra i «neopuritani» del politicamente corretto e i «fanatici» della comunità Lgbtq o dell’anti-razzismo («oggi negli Stati Uniti avere la pelle bianca sta diventando un handicap, invece essere membro di minoranze etniche ti mette dalla parte dei Giusti nella nuova nomenclatura dominante»). Poi affronta quella che chiama la «deriva antirazionale dell’ambientalismo» («proprio coloro che si dichiarano seguaci della scienza danno credito a scenari apocalittici che con la scienza non hanno nulla a che vedere»), la questione della burocrazia dilagante che rallenta decisioni e processi, infine il problema dello strapotere di social e colossi digitali, con la disinformazione che permea ogni aspetto della nostra vita. Intanto – osserva Rampini – si sta facendo largo un modello alternativo. «Altrove, molto lontano da qui, le mamme tigri asiatiche stanno allevando dei guerrieri: allenati a considerare la scuola e l’università come luoghi di un tirocinio duro, senza coccole né indulgenze; fieri di essere cinesi, orgogliosi della loro storia patria. Quando una parte di quei giovani cinesi – l’élite privilegiata – va a studiare nelle università americane, il risultato è clamoroso. Lungi dall’assorbire influenze occidentali, lo spettacolo cui assistono nei campus li rafforza nelle loro certezze: l’Occidente è malato, è una civiltà immonda. Lo dicono i loro stessi coetanei americani, perché non credergli?». Anche gli autocrati delle nuove potenze imperiali – come Xi Jinping e Vladimir Putin – sanno che ci sabotiamo da soli, sottolinea l’autore, e agiscono di conseguenza. Chissà se ci rimane qualche speranza… Annuncio pubblicitario

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Nell’inferno quotidiano di chi cerca smeraldi Colombia

A Muzo si scava a mani nude per trovare le pietre preziose sfuggite ai controlli minuziosi delle compagnie minerarie

«Spero di trovare uno smeraldo che mi permetta di continuare a sopravvivere», dice Isabella con un filo di voce «Quel posto per noi è come il miele per le api», osserva Miguel, un giovane «guaquero» allampanato e dal sorriso gentile, mentre si muove spedito dentro ai suoi stivali di gomma di qualche misura più grandi. È qui, in questo spiazzo di fango e terra scura ai piedi della collina, dove si radunano due volte al giorno centinaia di cercatori. Aspettano e guardano in alto, dove intanto vengono rovesciati i vagoni di terra estratti dalle viscere della montagna, terra già lavata e setacciata dalle miniere legali. Uomini, donne, adolescenti aspettano fiduciosi di trovare in quella terra il loro smeraldo, sfuggito ai controlli minuziosi delle compagnie minerarie, e intanto continuano a guardare in alto e a quei cento metri che li separano da quella terra nera che forse nasconde il loro piccolo tesoro. «Lo so, non troverò lo smeraldo che mi farà diventare ricca, ma spero almeno di trovarne uno che mi permetta di continuare a sopravvivere qui a Muzo», dice con un filo di voce Isabella, una donna di circa 30 anni, mentre si sistema i capelli in una lunga coda. Accanto a lei il marito guarda fisso il crinale della collina senza parlare. Davanti a loro guardie private, armate di fucili, tengono tutti a distanza di sicurezza e impediscono che qualcuno corra verso il luogo dello scarico. «Può essere pericoloso, bisogna aspettare che prima sia finita tutta l’operazione», ammonisce quello che sembra essere il capo delle guardie. Sono tutti lì, pronti, come alla partenza di una maratona, in una mano tengono il sacco di iuta da riempire, i più fortunati nell’altra mano hanno una ciotola di metallo per scavare. Ma molti usano le mani. La terra nera li sta aspettando. C’è chi si è organizzato in gruppi con quelli che scavano e quelli che mettono la terra nei sacchi, così se ne possono accaparrare di più. Ma anche l’eventuale bottino sarà da dividere. E chi invece

è un cane sciolto e fa tutto da solo. I più giovani e chi corre più veloce sono in prima fila. Sanno che manca poco al via. E se qualcuno durante la corsa in questa «pista» sterrata cade, rischia che gli altri gli passino sopra. Come ad un segnale prestabilito, che si ripete tutti i giorni, le guardie si spostano e inizia la corsa. Bisogna avanzare veloci per arrivare primi. E come uno sciame di formiche impazzite i «guaqueros» si buttano sulla terra scaricata e freneticamente iniziano

Abusi e miseria L'accordo di pace del 2016 tra il governo e le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) ha messo fine a un conflitto armato durato 5 decenni. Ma da allora la violenza ha assunto nuove forme, sottolinea l'ultimo rapporto di Human Rights Watch. Nel 2021 in molte aree del Paese sono aumentati gli abusi perpetrati dai gruppi armati (uccisioni e trasferimenti forzati compresi): Esercito di liberazione nazionale (Eln), dissidenti delle Farc e dei gruppi paramilitari. «Difensori dei diritti umani, giornalisti, leader indigeni e afro-colombiani e altri attivisti hanno subito minacce di morte e violenze dilaganti». La pandemia di Covid e le misure per controllarla – dice l’Ong – hanno avuto in Colombia un impatto devastante sulle disuguaglianze. «Quasi mezzo milione di persone è caduto in povertà nel 2020 e il numero di famiglie con bambini che non frequentano la scuola è aumentato di quasi il 14%». / Red.

a scavare. Si spintonano, allungano le mani, gridano, imprecano. Veloci come saette iniziano a riempire i sacchi di iuta. In pochi metri quadrati più di trenta persone in ginocchio, il sacco di iuta tra le gambe, gli occhi fissi verso il basso, decine e decine di mani che scavano. E appena uno dei sacchi è pieno subito si passa a riempire l’altro. La stessa scena si ripete intorno, sugli altri cucuzzoli di terra scaricata. Una polvere nera come carbone si alza nell’aria e si attacca alla pelle. Dopo poco tempo sono tutti completamente neri, come spazzacamini ricoperti di fuliggine, e dai loro volti risaltano solamente gli occhi. I più anziani faticano a trovare il loro posto in prima fila. «Sono molti anni che oramai vivo qui a Muzo», racconta Carlos, un vecchio con la barba bianca ispida e in testa un cappello di paglia, le mani piene di calli e pochi denti in bocca. «L’esperienza mi dice che anche se non arrivi primo, basta avere pazienza e fortuna perché anche nella terra che rimane si può trovare uno smeraldo». Ogni tanto si sentono urla concitate, sono le liti che scoppiano tra i «guaqueros» per accaparrarsi quello che sembra essere il posto migliore. Dopo circa un’ora la frenesia si attenua. Oramai la terra è stata spolpata. I cercatori di smeraldi, stanchi, si sdraiano a terra o sui sacchi pieni con i vestiti sporchi di fango, mentre gocce di sudore tracciano linee sui volti e sulle braccia annerite dalla polvere nera. Alcuni si scambiano pacche sulle spalle, altri si concedono una sigaretta sotto un albero ai margini della foresta intorno allo spiazzo di scarico. C’è chi ha lo sguardo scontento, sa già che il suo bottino sarà misero. Rivedo Isabella, i capelli sconvolti, il

viso, le mani e i vestiti completamente sporchi. Guarda il suo risultato, tre sacchi pieni. Ora bisogna organizzarsi per portare a spalla i sacchi che pesano fino a 50 chili giù a valle, ai fiumiciattoli che scendono dalla montagna e iniziare a lavare e setacciare la terra nella speranza di trovare qualche smeraldo. Intanto nella piccola piazza del villaggio si sono radunate le luccicanti e potenti jeep dei compratori di smeraldi. Aspettano come avvoltoi, seduti su panche di legno davanti a banchetti improvvisati. Sanno che i cercatori dovranno passare da loro se vorranno vendere le pietre verdi. E così, nel primo pomeriggio, quando l’umidità è così forte e il sudore fa attaccare le camicie alla pelle, ecco arrivare nella piazza del paese i primi cercatori ancora sporchi di terra nera. Tirano fuo-

ri dalle tasche piccoli pezzi di stoffa che srotolano delicatamente e iniziano a mostrare il risultato del loro faticoso lavoro: due o tre pietruzze, che all’apparenza sembrano vetro verde, ma che valgono molto di più. Sono smeraldi, magari non purissimi, ma sempre smeraldi. Si cerca il miglior compratore, iniziano le trattative che alla fine porteranno ai «guaqueros» pochi pesos, ma sufficienti per continuare a vivere. Per i pochi che sono qui a vendere, molti sono ritornati nelle loro baracche, delusi da una infruttuosa mattinata di lavoro. Qualcuno si beve una birra. Tutti cercano di riposare per essere pronti a una nuova ricerca. Perché alle cinque del pomeriggio, come tutti i giorni, si tenterà di nuovo la fortuna, tornando a scavare nella terra scura come il carbone ai piedi della collina. Annuncio pubblicitario

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Luigi Baldelli

Non c’è dubbio, la capitale mondiale degli smeraldi è Muzo, in Colombia, nel dipartimento di Boyacà. Qui ci sono le più grandi e prolifiche miniere legali di smeraldi delle grandi compagnie nazionali e internazionali. Però a Muzo gravita anche una moltitudine di cercatori di smeraldi illegali, persone che tentano la fortuna scavando a mani nude nella terra di riporto o nei fiumi che scendono dalle montagne. Altri ancora, invece, si addentrano nei cunicoli delle miniere abbandonate. Muzo per tutti loro è il luogo dove si tenta la sorte, un luogo che ti trattiene perché, come dice Oscar che vive qui da più di 5 anni: «Oggi non ho trovato nessuno smeraldo, ma non vado via perché domani o dopo la fortuna mi sorriderà e troverò la mia pietra verde». Le nuvole sono basse e avvolgono le case in mattoni e le capanne di legno con i tetti in lamiera abbarbicate sui fianchi delle montagne. La vegetazione è verde come il colore delle pietre. Nelle strade di terra e fango si muovono i «guaqueros», i cercatori illegali. Da soli o a piccoli gruppi si dirigono verso i piedi della collina dove ci sono le miniere legali.

Luigi Baldelli

Luigi Baldelli

Candidature da inoltrare in forma elettronica, collegandosi al sito www.migrosticino.ch, sezione «Lavora con noi» – «Posti disponibili» includendo la scansione dei certificati d’uso.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 11 aprile 2022

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ATTUALITÀ

Prosegue l’ascesa di Verdi e Verdi liberali Forza dei partiti

Un bilancio delle elezioni cantonali e comunali a un anno e mezzo dalle elezioni federali

Marzio Rigonalli

Qual è lo stato di salute dei partiti politici svizzeri? Quali sono le forze che appaiono in ascesa e quali, invece, sono quelle che stanno perdendo terreno? Le domande sorgono dopo una serie di elezioni cantonali e, in certi casi, comunali. Siamo ancora a un anno e mezzo dalle prossime elezioni federali, che si terranno il 22 ottobre 2023, ma la situazione attuale presenta qualche novità e offre lo spunto per alcune riflessioni. Dalle ultime elezioni federali del 20 ottobre 2019, ben sedici cantoni hanno rieletto i loro governi e i loro parlamenti. Dalla lettura dei risultati emergono due principali caratteristiche: i quattro partiti che formano il Consiglio federale hanno perso mandati nei parlamenti cantonali, mentre i partiti che non fanno parte del governo federale aumentano in modo consistente il numero dei loro mandati parlamentari. Tra i quattro partiti di governo, il più colpito sembra essere il Partito socialista, che presenta una perdita di ben 45 seggi parlamentari. L’ultimo successo cantonale dei socialisti risale all’ottobre 2020, nel Giura, con un seggio in più rispetto alla legislatura precedente. Era il finesettimana durante il quale vennero scelti i due nuovi copresidenti del partito nazionale, la zurighese Mattea Meyer e l’argoviese Cédric Wermuth, al posto di Christian Levrat. Da allora, il partito ha registrato perdite in tutte le altre consultazioni parlamentari cantonali. Non è facile individuare le cause di questo trend negativo, ma è probabile che un ruolo importante l’abbia avuto la non chiara presa di posizione nei confronti dell’Unione europea. Il Partito socialista è favorevole all’Europa, ma si è schierato contro l’accordo istituzionale e adesso sostiene il referendum contro Frontex, che potrebbe mettere in pericolo la partecipazione della Svizzera agli accordi di Schengen e Dublino. Sul fronte opposto dello scacchiere politico, l’UDC registra una perdita di 22 seggi parlamentari. Una perdita aggravata dal deludente risultato ottenuto nelle elezioni

Mattea Meyer e Cédric Wermuth, il giorno dell’elezione a presidenti del PS, il 17 ottobre 2020: il loro è il partito che perde maggiormente. (Keystone)

comunali zurighesi, dove l’UDC ha perso seggi in vari consigli comunali ed è stata esclusa da alcuni importanti esecutivi. Le ragioni di questi risultati risiedono probabilmente nello sfasamento che si può osservare tra le indicazioni del vertice del partito e il pensiero prevalente nella sua base elettorale. È stato così durante la pandemia, con i due referendum contro la legge COVID-19, bocciati dal popolo, e nei confronti della guerra in Ucraina. L’UDC ha stentato a distanziarsi dai no-vax, è stato l’unico partito a opporsi alla ripresa delle sanzioni europee, e vari suoi rappresentanti non hanno negato le loro simpatie per Putin. Gli altri due partiti di governo, il PLR e l’Alleanza del Centro, completano il trend negativo. Il PLR ha perso 28 seggi ed è riuscito a progredire soltanto in tre dei sedici cantoni presi in considerazione. Dal canto suo, l’Alleanza del centro annovera un saldo negativo di 20 seggi, nonostante l’apporto del Partito borghese democratico,

dopo la fusione tra i due partiti avvenuta all’inizio del 2021. La perdita di consensi dei partiti di governo può essere attribuita, almeno in parte, anche alla non brillante immagine che contraddistingue il Consiglio federale. Il governo non appare come una compagine unita, come un fronte unico deciso ad affrontare le gravi sfide insite nelle tensioni interne e internazionali. I consiglieri federali sembrano spesso voler agire singolarmente, molto preoccupati della loro immagine, degli interessi del loro partito e della scadenza del loro mandato. Anche nell’ambito delle votazioni popolari, il governo non presenta un buon bilancio. Nel corso dell’attuale legislatura, molti sono stati i temi bocciati dal popolo. L’ultima volta fu lo scorso 13 febbraio, quando ben tre temi su quattro posti in votazione, un’iniziativa popolare e due referendum, vennero respinti nonostante il parere favorevole dell’esecutivo. Di fronte a questa lunga lista di ri-

sultati negativi, emergono due partiti che non fanno parte del Consiglio federale e che hanno il vento in poppa. Sono i Verdi ed i Verdi liberali. I primi guadagnano ben 48 seggi parlamentari, i secondi fanno quasi altrettanto bene con 46 mandati supplementari. L’avanzata dei Verdi compensa in gran parte le perdite del partito socialista e, quindi, non incide molto sui rapporti di forza politici. Come è noto, i due partiti sono su posizioni molte vicine e spesso sono alleati. Diversa è la posizione dei Verdi liberali, anche se una loro indiscussa vicinanza con il Partito liberale radicale non vien messa in discussione. In quindici dei sedici cantoni dove si sono svolte le elezioni cantonali dopo il 2019, i Verdi liberali hanno registrato una costante progressione. Nel sedicesimo cantone, il canton Uri, non erano presenti. Una situazione che in futuro intendono modificare con la creazione di una sezione urana del partito, avvenuta alcuni giorni or sono. Sorti nel 2004, i

Verdi liberali sono il partito più giovane e, a più riprese, hanno dimostrato una certa compattezza, presentandosi uniti su temi centrali come, per esempio, il clima e l’Europa. Sono stati l’unico partito a sostenere compatto il progetto d’accordo istituzionale con l’UE e a esercitare forti pressioni sul Consiglio federale, affinché agisca per salvare la via bilaterale. In che misura i risultati delle elezioni cantonali potranno influire sulle elezioni federali del 2023? È difficile fare previsioni per varie ragioni: perché il tempo che ci separa dalla data delle federali può racchiudere molti eventi che potrebbero diventare altrettante sorprese, perché le elezioni federali hanno una dinamica propria e perché la partecipazione al voto racchiude molte incognite e di solito è più elevata a livello federale. C’è perlomeno un dato, l’avanzata dell’onda verde, che probabilmente verrà confermato. È un dato che emerge anche dal barometro elettorale di metà legislatura diffuso lo scorso mese di ottobre. Secondo il barometro elettorale, l’UDC resterebbe il primo partito svizzero con il 26,6% di intenzioni di voto, davanti al Partito socialista che raggiungerebbe il 15,8%. Al terzo posto, racchiusi in meno di mezzo punto ci sono tre partiti: il PLR con il 13,6%, l’Alleanza del centro con il 13,3% ed i Verdi con il 13,2%. I Verdi liberali seguono con il 9,8%. La battaglia per il terzo e il quarto posto si annuncia dunque molto combattuta ed incerta. L’insieme dei risultati elettorali cantonali e delle intenzioni di voto a livello federale si proietteranno sul divenire della composizione del Consiglio federale. Rimarrà invariata oppure verrà modificata? Se ci saranno cambiamenti, quali partiti saranno toccati? Se il PLR dovrà rinunciare a un seggio, quale dei suoi due rappresentanti dovrà uscire di scena? E quale sarà lo spazio che verrà riservato ai Verdi e ai Verdi liberali? Sono domande che già occupano i vertici dei partiti politici e che diventeranno sempre più dominanti nella campagna elettorale che ci porterà al giorno delle elezioni. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

È di nuovo tempo di scorte

Guerra Russia-Ucraina ◆ Con lo slogan «Scorte d’emergenza – per ogni evenienza» la Confederazione invita i privati a prevedere scorte di viveri per sette giorni. Chiede però di evitare forme esagerate di accaparramento Ignazio Bonoli

Pensato e attuato in tempo di guerra, il tema delle scorte d’emergenza torna d’attualità, in Svizzera, ogni volta che l’Europa è scossa da una crisi internazionale. La guerra in Ucraina ha quindi messo in allarme le istanze federali competenti, in particolare l’Ufficio federale per l’approvvigionamento economico del paese. Nel caso specifico, queste istanze erano però già state allarmate dal lockdown decretato nel 2020 per combattere la diffusione della pandemia da Covid-19. E questo in seguito alla constatazione che alcuni articoli sono velocemente scomparsi dagli scaffali dei negozi, perché esauriti.

Le scorte d’emergenza erano la normalità nell’immediato dopoguerra, sono tornate ad esserlo con la pandemia Il citato Ufficio federale raccomanda a tutta la popolazione di tenere una scorta di viveri per sette giorni. Come comporre questa scorta viene suggerito, ma anche lasciato all’iniziativa e ai gusti personali di ogni famiglia. Ma anche il sentimento di essere attrezzati nel caso di situazioni gravi è molto importante. Molto vivo nel primo dopoguerra, questo sentimento è andato affievolendosi, in particolare presso le giovani generazioni. Per questo l’Ufficio federale ha intensificato le sue informazioni in queste ultime settimane. D’altro canto si può anche constatare che la minaccia di cali della fornitura di energia elettrica ha provocato un sensibile aumento della domanda di generatori di corrente, impianti fotovoltaici e articoli analoghi. Una crescita enorme, come ha potuto constatare uno dei fabbricanti di prodotti di questo genere. Il pericolo è più che mai attuale, viste le minacce del presidente russo Putin di usare l’arma nucleare. Ma proprio le conseguenze della guerra in Ucraina hanno suscitato, soprattutto in Europa, l’enorme crescita di cui si diceva, oltre alla forte domanda di prodotti per scorte da rifugio. Un’altra ditta del commercio online,

la Galaxus ha constatato che la domanda di scorte alimentari d’urgenza (kit di sopravvivenza) è aumentata tra il 2019 (inizio della crisi pandemica) e il 2021 di quasi il 300%. Inoltre, da quando il capo del Dipartimento federale dell’economia Guy Parmelin ha ventilato (lo scorso ottobre) la possibilità di difficoltà nella fornitura di elettricità, la domanda di impianti fotovoltaici, con funzione di copertura di casi di necessità, è esplosa. La stessa Galaxus ha constatato questa crescita accompagnata da quella di impianti solari mobili. In particolare aziende agricole e proprietari di case monofamiliari si preparano per il caso grave. Lo stesso ufficio federale nota questa evoluzione, aggiungendo il consiglio di mantenere le scorte di generi alimentari per sette giorni e intensificando l’informazione della popolazione. Storicamente le scorte di viveri sono collegate a tempi di guerra. Ma dopo la seconda guerra mondiale, in alcuni momenti della cosiddetta Guerra fredda che l’hanno seguita, le tensioni sono tornate a far parlare di sé. Per esempio, nel 1956, con la crisi del canale di Suez, in Svizzera si è richiamata la necessità di scorte, come parte integrante della difesa economica del paese. Si è però contato molto, come in altre occasioni, sul senso di responsabilità del singolo, in particolare delle donne, in quanto gestori dell’economia domestica.

Visti i rischi di approvvigionamento energetico e l’aumento dei prezzi dei combustibili, è esplosa la domanda di impianti fotovoltaici Negli anni Cinquanta si è però anche indetto un concorso per trovare uno slogan efficace per le campagne a favore delle scorte. Si ebbero ben 45’000 suggerimenti, nelle quattro lingue nazionali, che vennero poi utilizzati fino al 1980 per le campagne di sensibilizzazione dell’Ufficio federale. Non mancarono le critiche, conseguenti a un calo della sensibilità pubblica nei confronti delle

Con le scorte si può anche esagerare. (Keystone)

crisi internazionali. Solo negli anni 2000 si riprese con una certa intensità a ricordare la necessità di scorte. E questo nonostante ci fosse già stata la crisi di Chernobyl e praticamente nessuno, nonostante il conflitto nell’ex Jugoslavia, temeva più una guerra al centro dell’Europa. Sentimento ora smentito dall’attacco russo all’Ucraina. Tuttavia, già nel 2017 un’inchiesta dell’Ufficio federale constatava una buona consistenza di riserve nelle famiglie svizzere, magari anche solo per prudenza e per approfittare degli sconti di quantità.

Il duro lockdown del 2020 ha accentuato comunque la tendenza a procurarsi scorte, talvolta con qualche esagerazione, al punto da provocare la curiosa crisi della «carta igienica», diventata improvvisamente rara in molti negozi. Una reazione più psicologica che economica, dal momento che, in caso di grave crisi, le riserve obbligatorie della Confederazione possono coprire le prime fasi di penuria. Anzi, questo correre di tutti a procurarsi beni, magari non indispensabili, potrebbe contribuire ad aggrava-

re la crisi. E una delle funzioni delle scorte d’emergenza è proprio quella di evitare questi fenomeni di accaparramento che ostacolano un normale rifornimento delle famiglie. La Svizzera conta sempre molto sulle responsabilità individuali e per questo ricorda la necessità delle scorte individuali. Oggi siamo ancora una volta minacciati, non solo dalla possibile crisi energetica, ma anche da quella dei rifornimenti normali. Quest’ultima, già in atto prima della guerra in Ucraina, è stata provocata proprio dalla pandemia.

Quali sono le funzioni della mia nuova carta bancaria? La consulenza della Banca Migros

Ho ricevuto una nuova carta bancaria per il mio conto privato. Essa non reca più la dicitura Maestro, bensì Visa Debit. Perché la carta è stata sostituita e a cosa serve? Negli ultimi mesi la maggior parte delle banche ha sostituito le carte di pagamento. Le nuove carte di debito Mastercard e Visa sostituiscono le precedenti carte Maestro o EC. Anche la nuova carta bancaria può essere utilizzata in tutto il mondo, come pure per il ritiro di denaro contante. La novità della carta di debito sta nell’utilizzo negli shop online. Con il numero a 16 cifre della carta di

La nuova carta di debito, che resta gratuita, permette di effettuare pagamenti online

debito, la data di scadenza e il codice di sicurezza a 3 cifre sul retro della carta, è possibile effettuare pagamenti online. Il pagamento online deve essere autorizzato tramite app o codice SMS. La carta di debito continua ad essere gestita su base attiva, ovvero l’importo viene detratto direttamente dal conto bancario, ed è un buon complemento alla carta di credito. Un’altra nuova funzione: il pagamento mobile. Basta registrare la nuova carta su Apple Pay, Samsung Pay o Google Pay. A differenza della carta di credito, con la carta di debito l’importo viene addebitato subito al momen-

Barbara Leo, consulente alla clientela Banca Migros regione Zurigo.

to del pagamento. Se sul conto di pagamento non è presente denaro a sufficienza, il pagamento non viene effettuato. La nuova carta di debito non sostituisce però in tutto e per tutto una carta di credito. Per esempio, per prenotare un hotel o un’auto a noleggio è richiesta una carta di credito. Inoltre, le carte di credito offrono spesso servizi supplementari quali assicurazioni viaggi e programmi bonus. Due parole sulle tasse. La maggior parte delle banche richiede una tassa annuale per la nuova carta di debito. Non la Banca Migros, che analoga-

mente alla carta Maestro non applica nessuna tassa annuale per la carta principale in franchi svizzeri. I ritiri di denaro contante alle casse dei punti vendita Migros e ai Bancomat della Banca Migros rimangono altresì gratuiti. Anche le altre tasse non subiscono cambiamenti. Informazioni Molti shop online non offrono ancora la possibilità di scegliere la carta di debito Visa come mezzo di pagamento al momento del checkout. A tal fine basta selezionare «Carta di credito» o «VISA» e inserire i dati della propria carta.


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ATTUALITÀ / RUBRICHE

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Una brusca frenata

Eravamo all’inizio di febbraio, dunque ancora poche settimane fa, e tutto sembrava ancora andare per il meglio per le economie dei paesi sviluppati, in particolare per quella degli Stati Uniti e quelle dei paesi europei. In vista dell’uscita oramai prossima dal tunnel della pandemia, le previsioni economiche era rosee. Per il 2022 si prevedeva un tasso di crescita del Pil sostenuto e livelli elevati dell’occupazione. Per i commentatori dell’andamento congiunturale, la sola preoccupazione era costituita dal rincaro che, specialmente negli Stati Uniti, aveva superato quello che da qualche anno viene considerato, almeno in Europa, come il tasso di inflazione desiderabile, ossia un rincaro pari al 2%. Poi è arrivata l’invasione dell’Ucraina a cambiare non solo le aspettative degli investitori, specie in materia di mercati energetici, ma anche la realtà delle negoziazioni giornaliere nei rispettivi mercati.

Ora, sia negli Stati Uniti, sia in molti paesi europei, il tasso di aumento dei prezzi ha superato il 7%, il che obbligherà, a breve, più di una banca centrale a intervenire con un rialzo sensibile dei tassi di interesse. L’aumento dei tassi di interesse rischia di tagliare la testa, là dove sarà adottato, alla ripresa della domanda globale che veniva anticipata dalle previsioni di fine anno. Di conseguenza, diversi governi stanno mettendo a punto piani per migliorare la situazione in materia di approvvigionamenti energetici diventati scarsi proprio in seguito alla guerra. Quello che finora ha destato più clamore è costituito dalla liberazione di una parte consistente delle riserve strategiche di petrolio degli Stati Uniti, gettate dal presidente Biden sul mercato per cercare di contenere l’esplosione dei prezzi, in particolare del prezzo della benzina. Saranno in grado queste misure di frenare l’infla-

zione? E a partire da quando? Quello che sta emergendo, in materia di previsioni, è un clima di attesa con prese di posizione molto caute e una tendenza alla revisione delle stime per il 2022 con leggere riduzioni dei valori precedenti. A livello europeo Eurostat ha modificato verso il basso, in marzo, le sue previsioni del dicembre 2021. Nel 2022, il prodotto interno lordo dell’Unione dovrebbe ora crescere con un tasso del 3,7% contro il 4,2% ancora previsto alla fine dell’anno scorso. Sono gli aggregati interni della domanda globale a determinare questo cambiamento. Così il tasso di variazione dei consumi privati del 2022 dovrebbe, stando alle previsioni di marzo, ridursi del 10,6%, quello degli investimenti del 23,0%. Il tasso di crescita delle esportazioni dovrebbe invece crescere e influenzare positivamente la crescita del prodotto interno lordo. Ma questa

compensazione non riuscirà, come risulta dalle nuove stime, a impedire la riduzione del tasso di crescita dell’aggregato della produzione. Le aspettative di esperti e operatori sono così dominate dal pessimismo. Siccome la frenata congiunturale è determinata, attualmente, dall’andamento di consumi e investimenti, sul modo come si svilupperà influirà anche l’esito delle trattative sui salari. È evidente che il rincaro sta, praticamente da più di un anno, riducendo il potere di acquisto di larghe fasce di consumatori europei. In più di un paese si è cercato di tenere a bada il rialzo dei prezzi concedendo ribassi fiscali o altre facilitazioni destinate a contenere il rincaro dei vettori energetici. La maggioranza degli economisti considera queste misure come inefficaci e inefficienti. In molti si sono invece pronunciati, anche in Svizzera, per un aumento dei salari.

Osserveremo, da ultimo, che l’economia svizzera, in questa circostanza, sta comportandosi in modo molto diverso delle altre economie europee. Il tasso di inflazione, da noi, è molto più contenuto. Attualmente ha raggiunto il 2,4%. Nella sua presa di posizione sulla politica monetaria del mese di marzo, la Banca nazionale svizzera ha pubblicato previsioni rassicuranti quanto all’evoluzione dell’inflazione nel nostro paese. Stando alle stesse nel 2022 il rincaro dovrebbe raggiungere il 2,2% per poi scendere nel 2023 e nel 2024 allo 0,9%. Per il momento, quindi la Banca nazionale non pensa di dover intervenire. È da pensare che, fintanto che il franco svizzero si rivaluta, l’inflazione non interverrà certamente a disturbare i sonni dei nostri massimi banchieri. Quanto ad eventuali rivendicazioni salariali bisognerà aspettare l’autunno per vedere che cosa succede.

In&Outlet

di Aldo Cazzullo

La guerra, l’assenza dell’Onu e le «colpe» della Nato ◆

Le fosse comuni scoperte a Bucha rappresentano un punto di non ritorno nel conflitto ucraino. Rivedere simili scene in Europa è una mortificazione per chiunque ami la pace e la libertà. A maggior ragione il mondo non può restare indifferente, tanto meno l’Ue. Molti considerano questa guerra come una «guerra americana». Non è così. La guerra si combatte in Europa e l’America corre meno rischi diretti. Molti grandi Paesi europei, a cominciare da Germania e Italia, dipendono dal gas russo; l’America ha di fatto raggiunto l’indipendenza energetica. È evidente quindi che il presidente Usa si muove con una libertà di manovra che i leader europei non hanno. Ma la guerra l’ha scatenata Putin, non Biden. I servizi americani l’avevano prevista e hanno aiutato gli ucraini ad affrontarla. Se Putin ne uscirà indebolito, alla Casa Bianca nessuno piangerà. Non si tratta

di uno scenario nuovo. Al tempo della guerra fredda i russi aiutarono i popoli con cui gli americani erano in guerra – ad esempio nel Vietnam filosovietico – mentre non reagirono quando l’esercito Usa invase la Cambogia filocinese; e gli americani aiutarono i popoli che erano in guerra con i sovietici, ad esempio gli afghani. In Africa si combattevano guerre per procura: in Angola ci fu persino un intervento castrista. Tornando al presente, è stato Putin a cacciarsi nella trappola ucraina. E la Russia, impegnata a rimettere insieme con la forza territori perduti, ha perso l’occasione di integrarsi nel sistema di sicurezza occidentale. Altri fanno notare l’assenza dell’Onu nella crisi, un’organizzazione molto invecchiata. Rispecchia il mondo uscito dalla seconda guerra mondiale. Non a caso tre dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza sono europei:

Il presente come storia

Francia, Regno Unito e appunto Russia. Logica vorrebbe che uno dei cinque seggi andasse all’Ue; ma i francesi non rinunceranno mai al loro. Tutti i tentativi di riforma sono stati finora bloccati, e tra i più attivi a bloccarli sono stati gli italiani, per evitare che l’allargamento del Consiglio includesse Berlino, lasciando fuori Roma. Ma il problema si ripropone in ogni continente. Argentini e messicani non sarebbero entusiasti se entrasse solo il Brasile. L’Egitto e la Nigeria non vedrebbero di buon occhio l’ingresso del Sud Africa. Né la Cina accoglierebbe volentieri il Giappone e la Corea del Sud, potenze economiche filoamericane. Se poi entrasse l’India, il Pakistan andrebbe nel panico. Il risultato è un’istituzione poco dinamica, bloccata, cui neppure le presidenze democratiche di Obama e Biden (dopo gli anni di Bush e di Trump) sono riuscite a restituire smalto. E dire

che il Palazzo di vetro è a New York. E la dimensione globale dei problemi – dal riscaldamento del pianeta alla proliferazione nucleare, dal reperimento delle materie prime al controllo dei flussi migratori – necessitano sempre più di un governo globale e di leader lungimiranti, capaci di pensare anche alle generazioni future. Poi ci sono i critici della Nato. Si dividono in due categorie. Quelli che sostengono che l’Alleanza atlantica si sia allargata troppo verso est e quelli che dicono che non si sia allargata abbastanza. Secondo i primi, Putin ha attaccato l’Ucraina perché si è sentito provocato da una Nato troppo forte. Secondo gli altri, Putin ha attaccato perché si è sentito incoraggiato da una Nato troppo debole, che non ha avuto il coraggio di arrivare a Kiev. Di sicuro coloro che accusano la Nato – cioè l’alleanza che bene o male ha garantito

all’Europa 70 anni di pace – la presentano come una piovra che allunga i suoi tentacoli su paesi che per diritto divino apparterrebbero alla sfera di influenza russa. Ma i paesi dell’Europa orientale e baltica si sono sentiti protetti dalla Nato in vista di un ritorno della Russia a una politica aggressiva. Davvero qualcuno può seriamente pensare che la Nato intendesse muovere guerra a Putin? Se Putin si è sentito accerchiato è anche perché ha abbandonato la politica di distensione, ha cercato un’intesa con la Cina, ed è tornato a usare i carri armati per regolare le sue questioni con la Georgia e l’Ucraina. Poi, certo, la Nato non è un’associazione benefica, è un’alleanza di paesi che a volte hanno interessi diversi, egemonizzata dagli Usa. Tutto si può e si deve criticare, ma nulla giustifica i crimini che Putin ha commesso e commette. A cominciare dalle atrocità di Bucha.

di Orazio Martinetti

Il filosofo di Putin visse a Zollikon ◆

Le sventure (guerre, carestie, alluvioni, terremoti) hanno il «pregio» – forse l’unico – di farci riscoprire la geografia, la storia, la letteratura dei paesi martoriati: Afghanistan, Yemen, Libia, Siria e ora l’Ucraina, per limitarci agli ultimi di una lunga lista, nota solo in parte perché molte zone di crisi (è il caso dell’Africa subsahariana) non finiscono sotto i riflettori dell’informazione occidentale. Nel caso del conflitto Russia-Ucraina ha destato sorpresa e meraviglia che nella fascia nord-orientale dell’Europa fino agli Urali potesse nascere e svilupparsi una cultura politica contraria ai princìpi della liberal-democrazia, l’ordinamento prevalente negli Stati aderenti all’Ue. Eppure è accaduto, bastava leggere le carte, ascoltare le dichiarazioni, captare i segnali provenienti dal Cremlino. Occorreva, soprattutto, andare alle fonti, consultare i testi che hanno fatto la storia di questo immenso paese-continente che è

la Federazione russa, prendere sul serio quanto vanno scrivendo da tempo gli ideologi del «neozar» Putin. Per esempio Aleksandr Dugin, probabilmente il teorico più influente e prolifico del «nazional-bolscevismo» (molti suoi interventi sono disponibili anche in italiano). Non c’è nulla di enigmatico nelle sue pagine, anzi il dettato è chiaro: «il progetto culturale e politico dell’Eurasia si pone come spazio geopolitico di civiltà, tradizioni, religioni, che convivono e si realizzano a difesa delle identità e del comune destino al progresso totalitario dell’occidentalizzazione». Liberalismo e atlantismo – progetti guidati da Usa e Gran Bretagna – sono incompatibili con la visione euroasiatica del mondo. Fino all’altrieri è invece rimasto nell’ombra un altro pensatore elevato da Putin a padre spirituale della grande Russia: Ivan Il’in. Nato a Mosca nel 1883, Il’in fu espulso da Lenin da Pietrogrado assieme a un nutrito gruppo

di intellettuali antibolscevici (definiti «controrivoluzionari») nel 1922. Imbarcato su un piroscafo tedesco, soggiornò dapprima a Berlino e poi, dal 1938, a Zollikon presso Zurigo, dove scrisse la maggior parte dei suoi saggi e dove si spense nel 1954. A differenza di un altro illustre esule presente sulla «nave dei filosofi», ossia Nikolaj Berdjaev, la cui opera è invece molto nota anche al pubblico italofono, Il’in non ebbe fortuna. Le cose iniziarono a cambiare dopo il collasso dell’Unione Sovietica. Da quel momento in poi ripresero a circolare libri come I nostri compiti, in cui l’autore esponeva le sue idee sulla strada che la Russia avrebbe dovuto imboccare dopo il tramonto del comunismo. Quattro anni fa uno studioso dell’Europa orientale, Timothy Snyder, ha dedicato un intero capitolo a questa figura (La paura e la ragione, Rizzoli, 1998). Ammiratore di Hitler ma soprattutto di Mussolini, Il’in riteneva che solo un uomo forte,

scelto da Dio, potesse guidare quello sterminato territorio verso la redenzione. «Scrivendo – osserva Snyder – mette la parola “ucraini” tra virgolette perché nega la loro esistenza al di fuori dell’organismo russo. Parlare dell’Ucraina equivale ad essere nemici mortali della Russia». L’esule moscovita fu ovviamente sottoposto a sorveglianza da parte delle autorità elvetiche. Gli archivi federali conservano numerose informative sulle sue attività di pubblicista e oratore. Così la polizia del canton Soletta riferisce di una conferenza tenuta nel marzo del 1944 a Schönenwerd. L’informatore riferisce che Il’in ha affrontato il tema della Russia post-ottocentesca, esprimendosi in un ottimo tedesco. Curiosamente, sottolinea la spia, il relatore non si è addentrato nelle questioni politiche d’attualità; ha preferito concentrarsi sull’anima dei russi, un popolo rimasto per secoli arretrato, con un alto tasso di

analfabetismo, e tuttavia fiero, di forte tempra e carattere. Il russo, figlio della natura e della passione, amante della libertà e spirito indipendente, è un combattente indomito. La durezza del clima è all’origine della sua accanita tenacia e della sua resistenza. In un’altra scheda conservata negli archivi si può leggere che un suo testo, Il mondo sull’orlo dell’abisso, è stato adottato in tutti i corsi di formazione nazista, anche in Svizzera. È in buone relazioni con Göbbels ed è sospettato di essere un agente della Gestapo. Il’in trascorse in terra elvetica sedici anni (Lenin, agli inizi del secolo, poco più di sei). Due rivoluzionari collocati su sponde opposte maturarono i loro progetti nella quiete elvetica. Nel 2005 Putin fece traslare i resti del suo ispiratore da Zollikon a Mosca, allestendo una ri-sepoltura con tutti gli onori. Su quella tomba avrebbe preso avvio il cammino della nuova Russia post-sovietica.


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cipolla spicchio d’aglio cucchiai d’olio d’oliva di piselli surgelati di brodo di verdura sale pepe cucchiai di succo di limone rametti di menta

Carré d’agnello 2 2

carré d’agnello di ca. 300 g ciascuno sale pepe cucchiai d’olio per arrostire

55 minuti

Preparazione

4.30

Filetto di salmone senza pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, per 100 g, in self-service

Sminuzza finemente la cipolla e l’aglio e falli soffriggere nell’olio d’oliva. Aggiungi i piselli e falli soffriggere brevemente. Sfuma con il brodo, metti il coperchio e lascia sobbollire finché risultano appena teneri. Condisci con sale, pepe e succo di limone. Sminuzza la menta e uniscila ai piselli. Metti 4 cucchiai di piselli da parte, frulla il resto con un tritatutto o un frullatore a immersione. Scalda il forno a 200 °C. Sala e pepa i carré d’agnello poi rosolali nell’olio da entrambi i lati per ca. 2 minuti. Continua la cottura al centro del forno per ca. 10 minuti. Lascia riposare la carne per ca. 5 minuti nel forno spento. Taglia la carne e servila con il purè di piselli alla menta e altre verdure a piacimento, ad es. delle punte di asparagi.

Tempo di preparazione Preparazione: ca. 55 minuti

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32 Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 11 aprile 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

CULTURA ●

L’universo di Amalia Ulman Ritratto della giovane artista multidisciplinare che sfugge a qualsiasi categorizzazione

La scrittura delle donne Da sempre attenta alla scrittura femminile del nostro Cantone, Franca Cleis è tornata in libreria

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Le sfumature dell’amore Fino al 5 maggio al Piccolo Teatro va in scena la storia di un uomo che si invaghisce di un gorilla

Hugo Pratt in Argentina Esce nelle sale ticinesi il nuovo film di Stefano Knuchel sull’avventura che fece di Pratt un artista

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Riflettori puntati sull’altra metà dell’avanguardia Mostre

Da Zurigo a Basilea a Ginevra è in corso una primavera rosa delle artiste

Elio Schenini

Guardando il programma delle mostre attualmente in corso nei musei delle principali città svizzere si ha l’impressione che «l’altra metà dell’avanguardia», secondo la fortunata espressione coniata da Lea Vergine nel 1980, sia finalmente riuscita a evadere dagli oscuri anfratti in cui era stata a lungo confinata. In una sorta di corale unisono, i più importanti musei d’arte svizzeri dedicano infatti, in questi primi mesi del 2022, ampie retrospettive ad alcune artiste che hanno segnato la storia dell’arte del Novecento. Così, se a Zurigo il Kunsthaus ospita Yoko Ono e a Berna il Zentrum Paul Klee rende omaggio a Gabriele Münter, al Kunstmuseum di Basilea e alla Fondazione Beyeler sono di scena rispettivamente Louise Bourgeois e Georgia O’Keeffe mentre a Ginevra il MAMCO presenta un’antologica di Verena Loewensberg. Piuttosto che come una pura e semplice manifestazione dell’imponderabilità del caso, la sincronia di queste presenze femminili nei principali spazi museali del nostro paese credo possa essere letta alla luce del profondo mutamento avvenuto all’interno del sistema dell’arte negli ultimi decenni. Un mutamento che si può ricondurre a tre cause principali strettamente correlate tra di loro. Tra queste, il ruolo predominante è indubbiamente addebitabile alla crescente attenzione e diffusione che nell’ultimo decennio hanno incontrato le tematiche femministe e più in generale le questioni di genere che, dai contesti accademici dove sono state inizialmente discusse e teorizzate, si sono sempre più espanse in tutto il corpo sociale. Un altro fattore importante è costituito dal radicale processo di revisione a cui è stata sottoposta la storiografia artistica del Novecento. Questo processo, avviato da lavori pioneristici come quello già citato di Lea Vergine, ha preso corpo in un numero crescente di studi che hanno contribuito a modificare una narrazione fino ad alcuni anni fa ancora profondamente androcentrica, sottraendo molte artiste all’oblio e alla marginalità a cui erano state condannate. Infine, su un piano più concreto, non va dimenticato il fatto che, diversamente da quello che accade in molti altri settori, tra le figure professionali che operano all’interno delle istituzioni museali e si occupano d’arte, le presenze femminili oggi non solo generalmente pareggiano ma non di rado superano quelle maschili e questo vale ormai anche per le posizioni di vertice. Limitandoci alle istituzioni citate in precedenza, possiamo ricordare che alla testa della fondazione nata dall’unione del Kunstmuseum Bern e dal Zentrum Paul Klee vi è ormai da cinque anni Nina Zim-

Gabriele Münter, Olga von Hartmann, ca. 1910, olio su tela, 60,3 x 45 cm. Gabriele Münter- und Johannes Eichner-Stiftung, München. (© 2021, ProLitteris, Zürich)

mer, mentre anche il principale museo d’arte svizzero, il Kunsthaus di Zurigo, dal prossimo anno sarà affidato, per la prima volta nella sua storia, a una donna. Gabriele Münter, Drei Frauen im Sonntagsstaat, Marshall, Texas, 1899 1900 Fotografie, 46 x 34,5 cm. Gabriele Münterund Johannes Eichner-Stiftung, München. (© 2021, ProLitteris, Zürich)

Quanto radicalmente diversa fosse la situazione agli inizi del secolo scorso e quali difficoltà incontrava una donna che voleva dedicarsi all’arte, lo testimonia la vicenda di Gabriele Münter

(1877-1962), con Marianne von Werefkin, un’antesignana tra le artiste attive nell’ambito delle avanguardie novecentesche e, come abbiamo appena ricordato, una delle artiste al centro di questa «primavera rosa». Nel 1901, di fronte all’impossibilità, in quanto donna, di essere ammessa a un’Accademia di belle arti, la Münter decise, pur di non rinunciare al proprio desiderio di dipingere, di iscriversi a una scuola d’arte privata promossa da un gruppo di artisti che si opponevano al tradizionalismo accademico. Quell’iniziale esclusione dal sistema formativo ufficiale fu in realtà la sua fortuna, perché oltre a proteggerla dal rischio di incagliarsi, come molti altri in un tardo impressionismo di maniera, la catapultò nell’occhio di quel devastante ciclone modernista che travolse il panorama artistico della prima metà del secolo scorso. Nelle aule tranquille e poco affollate della Phalanx Schule di Monaco, e nel contesto rurale di Murnau nel sud della Baviera, Gabrie-

le Münter imparò a liberare il proprio linguaggio pittorico da ogni formalismo accademico e a farne uno strumento di espressione della propria dimensione spirituale grazie soprattutto a Vasilij Kandinskij che fu il suo maestro e poi il suo compagno per una decina di anni. Ma a questa liberazione dei mezzi espressivi, caratterizzata dall’uso di forme semplificate, colori vivaci e contorni marcati, la Münter si era già preparata per conto proprio negli anni precedenti, quando dopo la morte dei genitori, dai quali aveva ereditato un cospicuo patrimonio, aveva intrapreso con la sorella un viaggio durato due anni negli Stati Uniti, iniziando a praticare con assiduità non solo il disegno, ma anche la fotografia. Come le scrisse lo stesso Kandinskij: «come allieva sei senza speranza, non ti si può insegnare nulla. Puoi fare solo ciò che è maturato in te. Tu hai tutto dalla natura. Quello che io posso fare per te, è proteggere il tuo talento e fare in modo che non si falsi». Tuttavia, proprio da questo giudizio è derivata l’immagine di un’artista in gran parte istintiva e naïf che ha finito per nuocere alla giusta valutazione della sua produzione artistica, di cui in passato si è quasi sempre preso in considerazione solo la parte realizzata negli anni in cui ha vissuto con Kandinskij. Ovviamente, il loro lungo e complesso rapporto è un elemento ineludibile per chiunque voglia capire l’arte della Münter, ma non la riassume e non la spiega nella sua totalità. Anche perché va ricordato che l’artista russo non è stato solo il suo maestro e il suo compagno. Kandinskij, infatti, è stato anche colui che nel 1915 l’ha abbandonata di colpo e senza spiegazioni, gettandola in una depressione durata molti anni; colui col quale negli anni Venti ebbe un lungo conflitto giudiziario a proposito della proprietà di molti dipinti; colui di cui, a dispetto di un rapporto ormai incrinato, preservò opere fondamentali nascoste in cantina negli anni in cui l’arte degenerata veniva distrutta dalla furia nazista, per poi donarle nel dopoguerra al Museo di Monaco. Il merito della mostra ospitata al Zentrum Paul Klee è quindi proprio quello di non mostrarci unicamente la Gabriele Münter che in parte già conosciamo, quella degli anni trascorsi a fianco del padre dell’astrattismo, ma di mostrarci anche il suo cammino prima e dopo questo periodo, facendo riemergere dall’ombra dettagli meno noti che ci permettono di avere finalmente un ritratto a tutto tondo di un’artista che non è stata solo «l’altra metà di Kandinskij». Dove e quando Gabriele Münter. Pionierin der Moderne, Zentrum Paul Klee fino all’8 maggio, ma-do, 10.00-17.00. www.zpk.org


Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 11 aprile 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino 33

L’antieroina che dipinge personaggi imperfetti Personaggio

Ritratto di Amalia Ulman, artista che ama giocare con la sua immagine e sfugge alle categorizzazioni

Giorgia Del Don

Amalia Ulman, un nome che somiglia a un enigma. Difficilmente lo assoceremmo a una giovane artista argentina cresciuta in Spagna, più precisamente nella piccola città portuale di Gijòn e residente a Los Angeles. Enigmatica, relativamente impenetrabile e difficile da decifrare sono le etichette che la stampa specializzata ha spesso utilizzato per descriverla nel tentativo di arginare il suo complesso universo artistico che spazia dagli essay video alle performances virtuali, fino alle installazioni immersive e al cinema. Il tutto con l’obiettivo rivendicato e mai privo di un’ironia profondamente argentina, di ribaltare l’estetica mainstream che dilaga sui nostri schermi trasformandosi in grottesca evidenza. Lo straniamento che le sue creazioni provocano nello spettatore, confrontato con il suo quotidiano deformato e decontestualizzato in modo così sottile da passare quasi inosservato, è lo stesso che Ulman provoca con la sua presenza.

Amalia Ulman è la prima artista social networkbased ad accedere all’Olimpo dell’arte contemporanea Sorta di bambola dalla pelle diafana, al contempo inquietante ed estremamente affascinante, un po’ come le creature della geniale artista franco austriaca Gisèle Vienne, Amalia Ulman turba perché sfugge a ogni categorizzazione. L’artista ama giocare con la sua immagine. Gli abiti da scolaretta con quel tocco vintage che la contraddistingue, i capelli lisci tagliati a caschetto, le labbra dipinte di rosso corrispondono perfettamente alla sua volontà di impadronirsi di

codici che non le appartengono ma che la società si ostina ad associare sistematicamente al genere attribuitole alla nascita. Crescendo ammette l’odio per essere identificata come donna, un rigetto trasformato in fascino divertito verso qualcosa (gli oggetti associati alla «femminilità») che non ha mai sentito come naturale. Questa sensazione di sfasamento rispetto alla «norma», amplificata dall’appartenenza alla comunità di chi soffre di disturbi dello spettro autistico, emerge in tutti i suoi lavori che non cessano di indagare, attraverso un’estetica precisa e senza concessioni, i limiti del nostro rapporto con la realtà e con gli altri. Lei stessa nella sua vita è un’antieroina: figlia di immigrati, autistica, giovane artista alla ricerca di un riconoscimento che tarda spesso ad arrivare (sempre che arrivi), Amalia Ulman dipinge il quotidiano di personaggi imperfetti, complicati, atipici, restii a conformarsi e proprio per questo estremamente affascinanti. A partire da Excellences & Performances, la performance-installazione che nel 2014 l’ha catapultata sotto i riflettori del mondo dell’arte, i suoi lavori non hanno smesso di giocare con i limiti tra realtà e finzione. Per quattro mesi l’artista ha postato, su quello che a tutti è sembrato il suo vero profilo Instagram (amici intimi compresi), la discesa agli inferi di una ragazza alla deriva. Un triste documento di vita vissuta che si è rivelato essere pura finzione, la fabbricazione di un personaggio immaginario creato con lo scopo di allertarci sulla nostra incapacità di distinguere tra vita reale e virtuale. Senza trasformarsi in monito o predica, la sua performance tinta d’esaurimenti nervosi, chirurgia plastica e avventure da sugar baby ha voluto svegliarci

da un torpore che stordisce tutti, Ulman compresa. L’esposizione mediatica ad ogni costo, l’incapacità di molti di distinguere la propria immagine virtuale dal proprio essere, li priva della liberatoria gioia che si prova nel ridere di sé stessi (e della superficialità che fatalmente ci attornia). Successo incredibile: la performance ha fatto parte di un’esposizione collettiva alla Tate Modern e alla Whitechapel Gallery di Londra. Excellences & Performances ha trasformato Ulman nella prima artista social network-based ad accedere all’Olimpo dell’arte contemporanea. Un’ascesa folgorante che al contempo l’ha imprigionata in un personaggio, quello della manipolatrice, del quale fa ancora molta fatica a liberarsi. Sempre pronta a sperimentare nuovi media per dar forma al suo universo artistico, Ulman nel 2021 realizza El Planeta, il suo primo lungometraggio. Presentato in prima mondiale al prestigioso Sundance Film Festival, il film comico assurdo mette in scena madre e figlia (interpretate dall’artista stessa e da sua madre, più per questioni di budget che per necessità di realismo) sul punto d’essere sfrattate dal loro appartamento di Gijón. La storia attinge indubbiamente dalla vita della regista senza però, come succede sempre nei suoi lavori, trasformarsi in autobiografia. Miscela esplosiva di vita reale e rotocalchi (il film si ispira alle rocambolesche avventure di Justina e Ana Belén) El planeta ci parla, con un umorismo che ricorda a tratti i primi film di Woody Allen, di questioni di classe e di genere, di consumismo, e delle difficoltà di essere una giovane artista senza soldi. Tristemente divertente la scena in cui alla protagonista viene offerto di lavorare sui costumi di un video di una cantante famosa senza però mai

Primo piano dell’artista multidisciplinare Amalia Ulman, classe 1989, origini argentine, cresciuta in Spagna, studi a Londra e oggi di casa a New York. Su Instagram la trovate come amaliaulman. (© by Amalia Ulman Wikipedia)

accennare al suo compenso. Che fatica far finta di non aver bisogno d’essere pagati quando la realtà è tutt’altra! L’esperienza vissuta da Ulman, la sua personale tragedia, attraverso il cinema si trasforma in feticcio.

La deformazione della realtà fino al grottesco, tenendone solo l’essenza, ci permette di esorcizzarla, di trasformare l’orrore in stupore, di ridare agli antieroi tanto amati dalla Ulman lo splendore che meritano.

La letteratura per immagini di Strand e Zavattini Fotografia

Ritorna in libreria Un paese, grande classico del catalogo Einaudi del 1955

Giovanni Medolago

La prima edizione con la prefazione di Italo Calvino uscì per Einaudi nella primavera del 1955. Fu un fiasco così clamoroso che interruppe sul nascere il progetto Cinema su carta pensato dallo scrittore piemontese, il quale aveva già ingaggiato Rossellini per Roma, Visconti per Milano, De Filippo per Napoli. Nessuna grande città: restò solo Un Paese, con le fotografie di Paul Strand e i testi di Cesare Zavattini. Lo sceneggiatore principe del realismo italiano portò Strand nel suo borgo natale: Luzzara, nella Bassa emiliana, a 20 km da un altro villaggio divenuto allora celebre grazie al cinema, Brescello, teatro dello scontro tra don Camillo e Peppone. Nel frattempo, Un Paese è divenuto un classico (anche perché fu il primo, mirabile esempio di fotogiornalismo italiano), tant’è che oggi Einaudi lo ha ristampato, mantenendo in copertina la stessa immagine di quella prima edizione. Ecco dunque la famiglia Lusetti, o meglio quello

Paul Strand, Luzzara, portici, 1953. (Paul Strand Archive, Aperture Foundation)

che restava di quella dinastia: 15 figli, il babbo già morto proprio la vigilia di Natale del 1933 sotto le bastonate dei fascisti. Strand sistema la vedova sull’uscio, circondata da quattro figli superstiti, tutti a piedi nudi e uno che regge una bicicletta appoggiato al

muro di casa. «Un ritratto di gruppo calibrato come un dipinto di Velázquez», commenta così Michele Smargiassi questo capolavoro oggi esposto al Moma di New York. È quasi una mîse en abîme se pensiamo che uno dei capolavori sceneggiati da «Za» (Ladri di biciclette per la regia di De Sica) era uscito da pochi anni in Italia. Strand fu affascinato da quel film – come del resto Martin Scorsese: filocomunista, aveva lasciato gli USA nel 1949 disgustato dal maccartismo e in Europa cercava il modo di unire la sua arte a quell’impegno sociopolitico che gli avevano trasmesso i suoi Maestri Edward Weston e Alfred Stieglitz, capaci di conferire dignità artistica alla fotografia già a inizio Novecento. Strand dapprima fu scettico: «La regione è piatta come un pancake e poco pittoresca», poi però scoprì che «Luzzara è piena di gente meravigliosa!». Dovette tuttavia fermarsi quasi due mesi in Emilia per guadagnarsi la fiducia dei luzzaresi: borgo rosso che

votava il PCI di Togliatti con percentuali bulgare e aveva visto una trentina tra i suoi giovani caduti in guerra o fucilati per rappresaglia dai nazifascisti, non potevano immaginare uno yankee comunista: «Oh, ma quello fa la spia per gli americani!», dicevano a Valentino Lusetti, agricoltore che fece da guida a Strand perché, ex prigioniero di guerra in Nevada, parlava l’inglese. Dal canto suo, Zavattini dà voce ai suoi concittadini soprattutto per sottolinearne la povertà e le difficili condizioni di vita. «Mia moglie non ha mai usato le scarpe, neanche d’inverno. E non è mai stata al cinema», è la didascalia apposta a un’immagine di una coppia vicina agli 80 anni, mentre sotto il ritratto di un’attonita adolescente scrive «È già stata in Piemonte a fare la mondina e oggi, a 15 anni, vorrebbe sposarsi, ma le sarà difficile perché suo padre (52 anni e otto figli) non può racimolare l’indispensabile dote: ne ha appena messe

insieme ben tre per le altre sorelle». In un altro ritratto, una fidanzatina – accanto a un disincantato lui – quantifica questa dote: «Dieci lenzuola, 10 federe e altrettanti asciugamani, poi la camera da letto. Non bastano 300mila lire»; all’epoca 3mila lire era il costo di una delle tante biciclette che Strand ritrae. È in fondo il ritratto di un’Italia contadina che si ostinava a non scomparire la vigilia di quel boom economico che avrebbe permesso a – quasi – tutti la Cinquecento Fiat o almeno le due ruote della Lambretta e dove sulle rive del «Padre Po» si cacciava ancora con la spingarda! Un libro da sfogliare tenendo ben presente il monito di Boris Vian: «Malinconia, vieni qui che facciamo due chiacchiere insieme, dài. Così… senza tristezza». Bibliografia Un paese, Paul Strand e Cesare Zavattini, Milano, Einaudi, 2021.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 11 aprile 2022

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azione – Cooperativa Migros Ticino

CULTURA

Le Orsoline, Ermiza, Alfonsina e le altre Personaggi

Franca Cleis, pioniera della ricerca sulla scrittura femminile in Ticino

Bruno Soldini

Leggere di suore e di conventi potrebbe sembrare noioso: ci s’immagina una vita piatta fatta di rosari e giaculatorie. Invece non è così. L’indagine storica scritta da Miriam Nicoli e Franca Cleis Un’illusione di femminile semplicità, gli Annali delle Orsoline di Bellinzona è ricca e sorprendente perché insieme alle vicende legate alla comunità religiosa, racconta anche la storia del Palazzo del Governo Cantonale inaugurato nel 1743 come Collegio delle Orsoline. Promotori dell’edificazione furono i fratelli Pietro Antonio e Fulgenzio Molo, che chiamarono a Bellinzona le religiose della Compagnia di Sant’Orsola, specializzate nell’educazione delle giovani. Gli Annali, redatti da Giuseppa Marianna Mariotti, descrivono la quotidianità delle Religiose e delle Educande, raccontano di sfarzose cerimonie religiose, di vestizioni e di morti. Il manoscritto è anche una cronistoria ricca e precisa che evidenzia i conflitti di potere tra fazioni opposte e registra i grandi avvenimenti «fuori le mura», come la Rivoluzione francese e l’arrivo delle truppe francesi a Bellinzona, che nel 1798 scalzarono temporaneamente le suore dal convento. Gli Annali si concludono nel 1848, un anno turbolento per l’Europa intera, quando in seguito alla legge sulla soppressione dei Conventi, lo stabile fu incamerato dallo Stato e consacrato poi, nel 1881, sede definitiva del Governo. Le due autrici appartengono a generazioni diverse: Miriam è una giovane esperta di storia culturale delle scienze, Franca è la pioniera, da mezzo secolo impegnata nella ricerca sulla scrittura femminile in Ticino. Con il lavoro comune, hanno saputo integrare le più recenti metodologie d’indagine con l’esperienza sul campo. In effetti dev’essere andato tutto a meraviglia perché insieme al volume sulle Orsoline, le stesse autrici hanno presentato un secondo saggio: La Gran Regina del cielo e le Benedettine di Claro. Il Convento di Claro, arroccato sul fianco della montagna, è un luogo che al profano è sempre apparso misterioso. Da ragazzini immagina-

vamo le celle con dentro le suore sepolte vive, obbligate al silenzio, donne fatte di puro spirito; non ci era ben chiaro se avessero necessità di mangiare e bere: così ce le tramandava la diceria popolare. In realtà, il manoscritto del 1697 di suor Ippolita Orelli, ricamato di miracoli e di venerazione per la Vergine Maria, lascia trasparire una cultura e una vivacità intellettuale difficilmente rintracciabili, a quel tempo, fuori dai conventi. Alle madri cariche di figli, sempre con la gerla in spalla, mancava lo spazio per coltivare l’intelletto. Dal libro veniamo a sapere che le monache – recalcitranti alla reclusione voluta dal Cardinal Borromeo – seppero escogitare gli stratagemmi e le astuzie necessarie per procurarsi il pane della sopravvivenza. Ma come è nato l’interesse per la donna scrittrice e per le tracce che ha lasciato nella cultura e nella storia? Con Franca Cleis-Zoppi, che conosco e stimo da molti anni, ho colto l’occasione per risalire il percorso del suo viaggio nel mondo della scrittura femminile. «Sono sempre stata una gran lettrice, fin da piccola – racconta Franca – leggevo di tutto, ma erano sempre opere scritte da uomini. Poi, non ricordo per quale compleanno, mio figlio Giovanni, consigliato dalla sua maestra, mi regalò Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf. Un’opera che mi ha cambiato le prospettive, aprendomi il mondo della scrittura femminile. Per la verità non mi ero mai riconosciuta del tutto nelle montagne di libri che avevo letto, anzi, mi avevano insinuato il sospetto che ero io a essere sbagliata. Nelle pagine di Virginia Woolf mi sono sentita subito come un pesce nell’acqua. In quel periodo – erano i primi anni Settanta – andavo spesso a Milano e lì mi sono imbattuta nella Libreria delle donne, in via Dogana, proprio dietro il Duomo: piena di libri di ogni genere, tutti scritti da donne. Ho cominciato a comprarne a borsate. Con quella immersione, mi sono resa conto che in Italia e un po’ in tutta Europa erano iniziati, o stavano iniziando, gli studi specifici sulla scrittura femminile. Ma non nel nostro Cantone, tagliato

Franca Cleis sorridente nel suo studio. (© Sandro Mahler)

fuori dalle indagini italiane ed escluso da quelle svizzere che si indirizzavano sulla produzione in lingua tedesca e francese. Allora mi sono chiesta: Ci saranno state, in Ticino, donne che hanno scritto? Chi sono? Cosa hanno scritto?». Ebbe così inizio la sua ricerca sistematica nelle biblioteche e negli archivi in cui l’informatica non era ancora entrata. Ci si documentava esaminando schede cartacee, scritte a mano, che portavano i segni delle dita inumidite sulla lingua. Un lavoro durato più di dieci anni. Il risultato è il saggio di 400 pagine Ermiza e le altre (1993). Una sorta di atlante delle autrici della Svizzera italiana, un panorama biografico e bibliografico, indispensabile per chi intende affrontare l’argomento. Franca Cleis era allora docente presso le Scuole professionali commerciali di Chiasso, dove fu tra le prime a insegnare videoscrittura. E questo le permise di ritrascrivere e ordinare le schede su computer, quando il computer era ancora una rarità. Le sue letture, intanto, si erano concentrate sulla saggistica femminile dedicata ai problemi di genere,

al «pensiero della differenza sessuale». La sua iniziale passione per la poesia non le è però mai venuta meno. Ricordo di averla incontrata a Buenos Aires, nello storico Café Tortoni, frequentato da intellettuali e artisti: era sulle tracce di Alfonsina Storni, la poetessa nazionale Argentina – la più amata e celebrata, laggiù – ticinese di nascita ed emigrata da bambina. Di Alfonsina, Franca Cleis ha curato due opere tradotte in italiano: Poemas de amor (1988) e Vivo, vivrò sempre e ho vissuto, in collaborazione con Marinella Luraschi Conforti e Pepita Vera Conforti. Al centro delle sue ricerche c’è sempre la volontà di affermare i meriti che la donna si è conquistata con il suo operare. Non importa che sia una figura quasi mitica, dal destino tragico, come Alfonsina Storni, o che si tratti di Angelica Cioccari-Solichon (1827-1912), un’insegnante che a metà Ottocento ha scritto il primo manuale di economia domestica per le scuole intitolato L’amica di casa. Ad Angelica Solichon, maestra d’avanguardia e divulgatrice scientifica, Franca ha dedicato La piramide di pesche della saggia Reggitrice (2007).

Con il tempo, per Franca Cleis si sono moltiplicati anche gli impegni di collaborazione con giornali e riviste e di promotrice culturale. Con Osvalda Varini ha curato i seminari Pensare il mondo con le donne (poi pubblicati in tre volumi). Nel 2001, davanti ai 250 incarti frutto delle sue ricerche e alla sua biblioteca di 2500 volumi di mano femminile, le venne l’idea di fondare gli Archivi Riuniti delle Donne Ticino (ARDT), realizzata nel 2003 in collaborazione con altre studiose. Determinante fu il sostegno di Margherita Scala-Maderni, che mise a disposizione i locali per la sede di Melano. Gli Archivi delle Donne sono rimasti indipendenti dalle altre organizzazioni archivistiche ticinesi per volontà delle fondatrici che hanno preferito stare alla larga da possibili intromissioni maschili. «Si ha l’impressione – ho detto a Franca – che in questo vostro mondo di sole donne, tutto sia filato in grande armonia …» «Non esageriamo – mi ha risposto – anche noi abbiamo avuto le nostre beghe, i nostri scontri». Non ho indagato oltre, per lasciare spazio alle ricercatrici del futuro. Comunque, se dispute ci sono state, credo che non possano eguagliare le pittoresche liti settecentesche tra le Orsoline di Bellinzona: suore che urlavano forzando le porte, suore che scappavano dal Convento – a piedi e a cavallo – travestite da contadini … (leggete il libro!) Oggi, incurante dell’età, Franca Cleis continua le ricerche nel suo studiolo che guarda su un giardino rigoglioso e ben soleggiato e – anche se può sembrare contraddittorio – le piace molto lavorare in cucina. Intanto ha già iniziato, con Miriam Nicoli, una nuova indagine su un’altra donna ticinese di grande valore che definisce «la mia amata e impareggiabile Maestra», per salvarla dall’oblio. Bibliografia Miriam Nicoli e Franca Cleis, Un’illusione di femminile semplicità. Gli Annali delle Orsoline di Bellinzona (17301848), 2021, Roma, Viella.

Linguaggio inclusivo... Manteniamo la calma Pubblicazione

Linguaggio rispettoso e esigenze di leggibilità: dibattito acceso nel quale mettere ordine

Stefano Vassere

Con l’irrequieto mondo dei social media, il dibattito sul linguaggio inclusivo condivide almeno una caratteristica: si infiamma subito, spesso indipendentemente dai buoni propositi di chi vi si avvicini e spesso al di là di ogni tentativo di riportarlo su un terreno di ragionevolezza, se proprio non lo si vuole sostenere con le logiche scientifiche. Si litiga insomma prontamente; non importa se gli interlocutori siano al bar, in televisione o a un congresso scientifico e ugualmente non contano premesse o mani avanti su regole del gioco e inviti alla calma. Il discorso sul linguaggio inclusivo è ormai per definizione divisivo. Per fortuna, però, ci sono le buone letture, dove si impara tutto quello che si vorrebbe portare in quell’inferno comunicativo per cercare di mettervi un po’ di pace. E che, da par loro, assumono sovente il formato del manuale, con tutti i box, gli elenchi puntati e numerati, le istruzioni per l’uso, la bibliografia, ulteriori link per

approfondimenti e verifiche. In questa letteratura pacificata brilla una pubblicazione della Direzione della lingua francese nel Belgio curata da due linguiste di lì, Anne Dister e Marie-Louise Moreau, che si intitola Inclure sans exclure. Les bonnes pratiques de rédaction inclusive (devo la se-

gnalazione di questo illuminante libro a François Grin, specialista di economia linguistica, professore all’Università di Ginevra e membro del consiglio direttivo di Forum Helveticum). Il libro solleva quello che sembra il problema principale dell’applicazione di qualsiasi forma di linguaggio inclusivo e cioè la necessità di assumere una linea che ponga in equilibrio esigenze diverse e in alcuni casi contraddittorie: una benvenuta lotta contro le esclusioni di qua e il dovuto rispetto per la leggibilità dei testi e una competenza grafica potabile di là. Sono mandati civili non di rado emanati contemporaneamente da una medesima autorità pubblica e che però non è facile far convivere in una politica linguistica ragionata. Le etichette sono numerose, linguaggio inclusivo, ugualitario, non sessista, epiceno, non discriminatorio, a testimoniare il groviglio di prospettive che decidiamo talora di affrontare tutte insieme senza i dovuti distinguo e che

giustificano l’incandescenza frequente. Ma, ancora, sarà saggio analizzare e separare. Prendiamo il genere linguistico, che è chiaro quasi sempre con qualche eccezione significativa, come i termini sentinella e staffetta, che al femminile possono designare anche persone di genere maschile. L’italiano ha plurali neutri maschili per un gruppo di uomini e donne ma anche forme d’insieme al femminile come maestranze, clientele ecc.; il francese ha soggetti maschili per situazioni dove non è in gioco nessuna persona, come nel caso di il pleut, trente-et-un, c’est beau que. Ci sono poi casi, forse di tendenza, in cui l’uso al plurale di un nome di professione allude a quasi solo uno dei generi: se dico i cassieri di un supermercato tenderò a intendere solo gli uomini e omologamente se uso la forma femminile solo le donne (si può fare per i parrucchieri, i puericultori e gli estetisti, sempre più con i medici e un po’ meno con gli infermieri, forse). Il giapponese ha tra le parecchie va-

riabili legate all’espressione della prima persona singolare un’opposizione di genere: un io e una specie di ia. Il lettore che abbia un po’ di volontà troverà in questa pubblicazione la storia dell’accordo al maschile, ragionevoli questioni di economia del sistema linguistico, una discussione sul carattere arbitrario del genere grammaticale, gli usi alternativi per un’espressione rispettosa, gli utilissimi termini collettivi e collettivanti. E, sull’altro piano, le buone pratiche della leggibilità e della pacatezza espressiva, una sacrosanta sezione con le raccomandazioni: che cosa bisogna fare e che cosa no. Da tenere lì sul tavolo, per mantenere la calma. Bibliografia Anne Dister et Marie-Louise Moreau, Inclure sans exclure. Les bonnes pratiques de rédaction inclusive, Bruxelles, Éditions Collection Guide, 2021.


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CULTURA

Tandzo amore mio In scena

Storia d’amore tra uno scrittore e un gorilla

Giovanni Fattorini

Sergio Blanco (drammaturgo e regista teatrale uruguayano naturalizzato francese) si definisce autore di autofinzioni, cioè di testi teatrali dei quali è lui stesso il protagonista, e che tuttavia non possono dirsi rigorosamente autobiografici. Nella pièce in quattro atti intitolata Zoo, Blanco racconta «la [sua] relazione amorosa con un gorilla» di sesso maschile proveniente dall’Africa occidentale e rinchiuso in un container temporaneamente trasferito – per una serie di studi condotti da un’équipe di cui fa parte la dottoressa Rosental – in un padiglione del giardino zoologico di Parigi. Abbandonata la stesura di un testo incentrato sulla figura di Edda Ciano (la figlia primogenita di Mussolini), la cui vita «eccessiva» lo affascina profondamente, Sergio si propone di scrivere un testo sulla vita dei primati in stato di cattività. La direzione dello zoo gli permette di lavorare all’interno del padiglione dove si trova il gorilla e incarica la dottoressa Rosental di assisterlo, fornendogli informazioni e comunicandogli i risultati degli studi di cui uomo e animale saranno entrambi oggetto. La love story tra Sergio e Tandzo (così si chiama il gorilla) comincia con uno scambio di sguardi. Nel giro di alcune settimane, l’interessamento iniziale si trasforma in attrazione reciproca, che Sergio alimenta – sembrandogli di cogliere nell’animale una capacità

Un momento dello spettacolo con gli attori Sara Putignano e Lino Guanciale. (© Masiar Pasquali)

quasi umana di emozionarsi – attraverso la lettura, l’ascolto e la visione di numerose opere d’arte (tutte occidentali): una pratica brevemente interrotta dalla comparsa del fantasma di Edda (l’attrice Sara Putignano), che reclama il completamento del testo di cui è protagonista. Il rapporto tra Sergio e Tandzo culminerà in un accoppiamento (di che tipo? non viene detto) all’interno del container. Ma dopo alcune settimane Tandzo comincia a dare segni di disaffezione, riprende a copulare con gli individui della sua specie, e sembra perdere ogni interesse per le opere di Stendhal, di Schubert o di Bergman. I rapporti cognitivi, affettivi e ses-

suali fra esseri umani e animali hanno un posto di grande rilievo nel folklore, nei miti e nell’arte di tutte le culture (quella giudaica, nel Levitico, condanna con estrema durezza i rapporti sessuali). E poiché nel testo di Blanco si parla anche di opere cinematografiche (in particolare del King Kong di Merian C. Cooper), mi pare utile segnalare al lettore due film che raccontano casi di zoofilia: il pasoliniano Porcile (1969), dove il figlio di un industriale tedesco si accoppia coi maiali, e Max mon amour (1986), di Nagisa Oshima, dove la moglie di un diplomatico inglese a Parigi ha una relazione amorosa con uno scimpanzé.

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Nothing Left In scena

Dei difetti per me evidenti di un testo (peraltro interessante in quanto indaga il rapporto sempre vertiginoso tra homo sapiens e animale) ne segnalo solo tre. Diversamente dal vivacissimo Max di Oshima, Tandzo (che nello spettacolo prodotto dal Piccolo di Milano e diretto da Blanco è interpretato da Lorenzo Grilli, interamente rivestito di un realistico costume scimmiesco) si esprime valendosi quasi esclusivamente di pochi gesti visibili oltre una lastra di plexiglas ambrato. La storia d’amore tra uomo e animale, pertanto, è pressoché interamente raccontata dalla dottoressa Rosental e da Sergio, descrittori e interpreti dei comportamenti,

delle emozioni e dei sentimenti di Tandzo, oltre che, naturalmente, di ciò che fanno, pensano e sentono essi stessi. All’accusa, che la dottoressa Rosental rivolge a Blanco, di subire il fascino di Edda Ciano fino a sconfinare nella romanticizzazione del fascismo, si potrebbe più propriamente aggiungere quella di romanticizzare la sua storia d’amore (con effetti a volte parodici) attraverso un uso eccessivo di riferimenti culturali. Si veda ad esempio la scelta del nome Tandzo, che richiama quello del bellissimo adolescente (Tadzio), che suscita la passione «indecorosa» del protagonista di Morte a Venezia, o l’assimilazione della notte d’amore di Sergio e Tandzo (quali sono i ruoli? non viene detto) a quella di Romeo e Giulietta. Concepita col proposito di romanticizzare l’insolita love story mi sembra anche la morte di Tandzo, ucciso dal virus Ebola. Ciò nondimeno, quando Sergio (Lino Guanciale) chiude gli occhi di Tandzo, e le ceneri del primate vengono sparse sul palcoscenico dalla dottoressa Rosental (Sara Putignano), penso che quanti ricordano – è anche il mio caso – cosa significa perdere un animale a cui si è voluto bene si sentiranno realmente commossi.

Tabea Martin approda al LAC

Giorgio Thoeni

L’incontro con la danza contemporanea svizzera è sempre l’occasione per farsi un’idea del suo stato di salute e meglio conoscerne i protagonisti. La stagione del LAC la sta promuovendo con un certo successo e con l’obiettivo di accentuarne l’offerta con appuntamenti all’interno delle proposte di cartellone ma anche inserendo proposte che proiettino la disciplina sul piano internazionale. Di recente, sul palco della sala teatrale trasformato in tribuna, il pubblico ha accolto la compagnia della basilese Tabea Martin con Nothing Left, una delle coreografe più interessanti della nostra scena. Dopo una formazione fra l’Accademia di Belle Arti di Amsterdam e a quella di Danza di Rotterdam, la coreografa e danzatrice elvetica si è imposta sul piano nazionale firmando diverse produzioni che ne hanno aumentato il prestigio facendole anche vincere numerosi premi fra i quali, i Berner Tanzpreise (2015) e il Premio Cultura del Canton Basilea Campagna (2016). Nothing Left, dopo il debutto nel 2021 nell’ambito della rassegna Steps promossa dal Percento Culturale (ormai una sorta di mentore per la carriera di Tabea Martin), è dunque approdato a Lugano con tutta l’esuberanza che contraddistingue la cifra stilistica della Martin nell’utilizzare l’essere umano come una sorta di strumento con il fine di interpretare il mondo attraverso paradigmi formali ed estetici. Il tema portante dello spettacolo è la morte che, nonostante il suo carattere apparentemente scabroso, viene sviluppato con un approccio ironico. Come ci comportiamo di fronte a un lutto, con qua-

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le atteggiamento, quali luoghi comuni, che tipo di approccio cerchiamo di creare per supplire all’assenza? In Nothing Left, tassello di una trilogia che indaga l’argomento a partire dal deperimento del corpo fino alle rappresentazioni che si danno alla vita dopo la morte, si celebra il lutto attraverso il movimento, la danza e il corpo collettivo di otto strepitosi danzatori. Dal grottesco delle domande create sulla memoria individuale al gioco di una cultura del trapasso con frasi proiettate sulla parete, la Martin costruisce un disegno potente, provocatorio, efficace. I danzatori, accompagnati in scena dai suoni campionati e dal drumming di Samuel Rohrer, costruiscono un mosaico ritmico di effetti a catena a corollario dell’essenza di una comunicazione che finisce col rivelarsi effimera. Applausi convinti agli interpreti e alla loro positiva energia creativa.

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CULTURA

Leggenda norvegese

Una pezza di Lundini

Francesco Hoch

Marco Züblin

In scena ◆ Sleepless del compositore Peter Eötvös in prima mondiale al Grand-Théâtre di Ginevra

Nelle varie avanguardie musicali, ma anche in quelle teatrali, cinematografiche o letterarie del Novecento si tendeva a escludere una narrazione tradizionale, avvicinandosi all’astrazione. Nella musica teatrale ci si proponeva di eludere il canto melodico spiegato o la regolare propulsione ritmica. Nel frattempo l’immagine ha acquisito per l’arte di oggi un’importanza sempre maggiore. Il compositore ungherese Peter Eötvös si inserisce in questo mondo riprendendo alcuni aspetti della tradizione, fondendoli con le novità sperimentate dalla storia. Dopo aver composto diverse opere, a partire dalla prima del 1990 dedicata alle Tre sorelle di Anton Cechov, Eötvös arriva a comporre quest’ultima, Sleepless, opera-ballade, commissionata e co-prodotta dalla Staatsoper di Berlino Unter der Linden e dal Grand Théâtre di Ginevra. In Sleepless la narrazione si avvale di un’alternanza tra il melodiare e un semi-recitato basati su un testo in prosa del norvegese Jon Fosse, ridotto a libretto da Mari Mezei, moglie del compositore. Dall’alto della sua lunga esperienza Eötvös porta colori e vivacità nel linguaggio piano e comune di un testo dai toni sommessi. Il racconto si snoda su una tematica che sembra non tener conto della svolta permissiva della nostra società, e il composito-

Una scena di Sleepless in coproduzione con la Staatsoper Unter den Linden, Berlin andato in scena a Ginevra dal 29 marzo al 3 aprile. (© Gianmarco Bresadola)

re non tenta di storicizzarla, sebbene affermi che vuole agire nel presente. Alida, soprano, e Asle, tenore, adolescenti, non ancora sposati, per essere in attesa di un figlio non trovano nessuna sistemazione. Rifiutati da tutti, Asle risolve le varie situazioni, come in una sorta di fatalità, con l’omicidio della madre di Alida per il quale verrà poi impiccato. Ignara della sorte toccata al compagno Alida partorisce da sola. In un secondo momento incontra Aslik che la sposa e le racconta la storia degli omicidi e dell’impiccagione. La donna cade in depressione e si uccide tra le onde del mare. Se ad Asle viene affidato il classico compito maschile di agire, Alida prende su di sé tutta la tristezza e la disperazione degli avvenimenti, sfociando in un lungo ed efficace solilo-

quio, un vero lamento melodico, coadiuvato dal commento del coro di sei soprani, come nei cori dell’antica Grecia, che si identificano quasi con l’anima stessa della sventurata. La messa in scena di Koriel Mondruczo e la scenografia di Monika Pormalo sembrano cogliere al meglio l’intero racconto, occupando il palco per tutta la durata dell’opera, con un enorme pesce, mosso a ogni scena da una piattaforma rotonda, così da mostrare, ora il suo aspetto esterno di squame luccicanti, ora quello interno dello scheletro spigoloso. Tra i bravi cantanti, sei marinai, sei voci femminili e le voci solistiche, nei panni di Alida spiccava la giovane soprano norvegese di origine nicaraguense, Victoria Randem per la sua voce sicura, morbida e fluente.

SmartTV ◆ Torna nella sua terza edizione il programma di satira surreale su RAI2

Uno degli effetti collaterali della guerra è l’escalation inquietante della componente ansiogeno-retorica nella narrazione giornalistica; a tutti i livelli e in tutti i media, in un rincorrersi di allarmi e di appelli minacciosi, con una sorta di quasi perverso piacere nel suscitare angosce. E mentre i «media esaltano fino al parossismo lo spettacolo della guerra» (cit. Serra), mentre restano inascoltate le voci che chiedono di abbassare i toni, e (il saggio dott. Mattia al TG) di rinunciare alle abbuffate di immagini ripetitive per evitare di seminare il panico nella popolazione, a colpi di rifugi, di scorte alimentari e di pillole di iodio («Con la guerra in Ucraina torna la minaccia atomica», annuncia l’impietoso Falò), si fa largo l’esigenza di qualcosa di diverso dagli speciali, dai soliti indigeribili talk e dalle maratone allegramente belliche. Qualcosa con cui arredare le nostre serate tv in modo alternativo e stimolante. E allora guardatevi (Rai2, seconda serata, 30 minuti) la terza edizione di Una pezza di Lundini, programma di satira surreale e intelligente condotto da Valerio Lundini e da Emanuela Fanelli, con Stefano Rapone tra i migliori rappresentanti della generazione di giovani autori italiani, che aveva-

no animato il bel programma Battute (Rai2, 2019). Vi è quel gusto del nonsense che non è forse per tutti, ma che occorre praticare per mettere alla prova talune convinzioni, una capacità di irridere senza ferire, di mettere la propria pokerface su cose che aiutano a pensare, mentre altri «mettono la faccia» come se questo bastasse a redimere dal nulla le cose che dicono. Ritroviamo le interviste molto oblique e spiazzanti, in cui si affacceranno anche i più seriosi e insospettabili, mai pronti a quello che Lundini riserverà loro. Gli intermezzi musicali con i Vazzanikki e gli straordinari siparietti della Fanelli, anche nei panni parodistici dell’agente Licozzi. Su tutto, la capacità di trovare sempre la falla, la crepa, in tutta la narrazione retorica e nella mitizzazione del nulla che tanto affligge il nostro mondo un po’ scemo e un po’ disperato. Un programma che può fornire qualche allegro grimaldello, qualche ilare strumento, qualche straniante e consapevole piacevolezza per leggere la realtà e i suoi epifenomeni; insomma, grazie all’«ironia intransigente che non fa sconti a nessuno», Lundini e soci forniscono chiavi di lettura, stimoli e attrezzi esistenziali almeno altrettanto utili di quelli che ogni giorno i media unificati ci mettono nel piatto. Annuncio pubblicitario

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CULTURA

L’avventura che fece di Hugo Pratt un artista Cinema

Il regista ticinese Stefano Knuchel continua la sua trilogia dedicata al padre di Corto Maltese

Fabrizio Coli

Spira un vento che sospinge lontano e che gonfia le vele dell’anima. C’è un personaggio, che non è ancora nato ma che è destinato a segnare la letteratura disegnata. Un emblema dell’avventura stessa, che coniugherà in maniera unica con una malinconia sospesa e mille suggestioni d’Oltremare, giocando un ruolo nel trasformare il fumetto in forma d’arte riconosciuta. Poi c’è un autore che ancora a tutti gli effetti autore deve diventare e che compirà il suo destino vivendo la propria vita con quella stessa brama, respirando la stessa aria che gonfierà i polmoni della sua creatura più celebre. Corto Maltese è il personaggio, Hugo Pratt è suo padre. Prima che i due si incontrino davvero, ci sono un momento e un luogo che renderanno questa nascita possibile. Siamo in Argentina fra il 1950 e il 1962. Dopo Hugo en Afrique (2009), il regista ticinese Stefano Knuchel continua la sua esplorazione dell’arcipelago del grande autore italiano di storie disegnate, amato in tutto il mondo, con Hugo in Argentina, nelle nostre sale dal 14 aprile. Un documentario dall’indole girovaga, proprio come l’iconico marinaio con l’orecchino e come Pratt stesso. Presentato a Venezia alle giornate degli autori, di prima in prima è approdato al Festival cinematografico di Mar del Plata, poi a Soletta, poche settimane fa al locarnese L’immagine e la parola, o ancora ad Angouleme in Francia e a Montreal.

È un lavoro di passione, con tutti i crismi dell’internazionalità. Knuchel ha scoperto Pratt da bambino, negli anni Settanta, rimanendone folgorato. Poi c’è stato un libro, Il desiderio di essere inutile, frutto di lunghe conversazioni fra Pratt e il suo biografo Dominique Petitfaux, a gettare altra legna sul fuoco. Se la prima parte di questa trilogia era incentrata sul passaggio dall’infanzia all’età adulta, questo Hugo in Argentina mette quindi a fuoco il momento in cui Pratt diventa veramente un artista. A Buenos Aires, all’epoca poco più che ventenne, Pratt ci va come molti per lavorare, come disegnatore nel suo caso. In Argentina farà incontri fondamentali, a cominciare da quello con lo sceneggiatore Hector Oesterheld con cui collaborerà in serie come Sergente Kirk. In Argentina – è lo stesso Pratt a dirlo – vivrà l’avventura che poi Corto Maltese continuerà al posto suo, immerso in un crogiolo di atmosfere ed emozioni, dentro una sorta di zona franca fatta di notti nei bassifondi, di incontri con gente di ogni genere, in un caleidoscopio di donne, musica e vitalità che infiamma il cuore. In Argentina conoscerà la sua prima moglie, Gucky Wogerer dalla quale avrà due figli, Lucas e Marina. Qui vivrà la passione per la giovane disegnatrice Gisele Dester che il documentario, fra i suoi molti pregi, riesce persino a ritrovare dopo tanti anni. Qui Oesterheld, il fondatore delle edizioni Frontera, il creatore

Qui a lato Hugo Pratt da giovane (© Fiumi Film), in basso la locandina del film.

de L’Eternauta che verrà barbaramente ucciso insieme alle sue figlie negli anni della dittatura, insegnerà a Pratt come il fumetto possa raccontare la complessità della vita, delle persone, dei sentimenti. Dice tutto questo e molto altro Hugo in Argentina. E lo fa in una maniera estremamente suggestiva, evitando sempre di trasformarsi in un mero elenco di informazioni. Il materiale maneggiato da Knuchel è corposo. Molto viene dalle registrazioni delle conversazioni tra Petitfaux e Pratt. Poi ci sono foto e video d’archivio uniti all’enorme lavoro di ricerca compiuto dal regista, che in Argentina è andato sulle tracce delle persone e dei luoghi entrati nella vita di Pratt. Incontriamo chi l’ha conosciuto, chi lo ha amato.

Siamo immersi nelle sue atmosfere e cullati dalla sua voce. Una voce che si sdoppia e dialoga con se stessa, perché oltre a quella originale, c’è anche quella di Giancarlo Giannini che in francese rielabora le parole di Pratt. Corto Maltese arriverà nell’ultima parte della trilogia, alla quale Knuchel sta già lavorando e il viaggio si concluderà tra Venezia e la Svizzera dove Hugo Pratt è scomparso nel 1995. Ma intanto, avvolti nell’eleganza delle immagini e della regia, nell’evocatività della musica firmata da Zeno Gabaglio, immersi in un gioco di voci senza corpo, di ambienti una volta pieni di vita ora vuoti, ci caliamo in un sogno dove la forma della narrazione sposa il contenuto e i ricordi sono insieme promesse e nostalgia di ciò che sarà. Annuncio pubblicitario

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Tutto l'assortimento di pesce al banco a servizio per es. Filetto dorsale di salmone ASC, allevamento, Norvegia, per 100 g, valido fino al 16.4.2022

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Mini salsicce arrotolate Grill mi Svizzera, al naturale, di manzo, al curry e alla paprica, 2 spiedini, 4 mini salsicce, 160 g, in self-service

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Bastoncini di merluzzo Pelican, MSC surgelati, 2 x 720 g

Bratwurst bio Svizzera, 2 pezzi, 280 g, in self-service

Offerte valide solo dal 12.4 al 18.4.2022, fino a esaurimento dello stock.

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Formaggi e latticini

Essenziali per il brunch pasquale

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Le Gruyère surchoix, AOP per 100 g, confezionato

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Rosette di formaggio Tête de Moine, AOP

Dessert Tradition Crème

Tutti gli yogurt in confezioni grandi e multiple

vaniglia, caramello o cioccolato al latte, per es. alla vaniglia, 4 x 175 g

(articoli M-Classic 6 x 125 g esclusi), per es. al naturale bio, 500 g, 1.10 invece di 1.35

Migros Ticino

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Dolce

Essenziali per le piccole voglie

a partire da 2 Pezzi

30% Tutti i gelati Crème d'Or in vaschette da 500 ml e 1000 ml prodotto surgelato, per es. vanille Bourbon, 1000 ml, 7.– invece di 9.95

Impre ziosito a dalla salsa d ll'inte r no i c arame llo

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Migros Ticino

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Sorbetto al limone Sélection

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Gelato Coffee Caramel Swirl plant-based V-Love prodotto surgelato, 120 ml, in vendita nelle maggiori filiali

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Gelato Vanilla Chocolate & Cookies plant-based V-Love prodotto surgelato, 120 ml, in vendita nelle maggiori filiali

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Bevande

Per brindare con stuzzicanti novità

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Tutti gli smoothie true fruits per es. yellow, 250 ml, 2.60 invece di 3.30

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Tutto l'assortimento Perldor e Kids Party per es. Perldor Classic, 750 ml, 3.35 invece di 4.80

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Salato

l i a no a t i o s si c nz a Un c laf re sc ar si se n pe r r i a l c o l

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Birra Moretti Zero analcolica, 4 x 330 ml o 330 ml, per es. 4 x 330 ml, 5.90

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Birra Craft Valaisanne

analcolica, 10 x 330 ml o 330 ml, per es. 10 x 330 ml, 13.85, in vendita nelle maggiori filiali

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disponibili in diverse varietà, per es. Snacketti alla paprica, 2 x 75 g

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Snacketti o Filu Zweifel

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Birra Lazer Crush Beavertown analcolica, 330 ml, in vendita nelle maggiori filiali

BrewDog Punk senz'alcol, 4 x 330 ml o 330 ml, per es. 4 x 330 ml, 12.75

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Scorta

Tutto l’occorrente per fare ottime scorte

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Tutta la pasta Agnesi

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ricotta e spinaci o di manzo, per es. ricotta e spinaci, 3 x 300 g

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per es. lasagne all'uovo, 500 g, 2.95 invece di 3.70

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Tutte le olive non refrigerate

Tutti i funghi secchi in bustina

(prodotti Alnatura e Demeter esclusi), per es. olive greche nere M-Classic, 200 g, 1.60 invece di 1.95

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Lasagne Buon Gusto prodotto surgelato, alla bolognese o verdi, per es. alla bolognese, 2 x 360 g, 4.50 invece di 6.80

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disponibili in diverse varietà, per es. gallette al granoturco Lilibiggs, 3 x 130 g, 3.30 invece di 4.95

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Bellezza e cura del corpo

Per la bellezza che si vede

LO SAPEVI? La nostra pelle ha idealmente un pH di 5,5. Il valore è considerato leggermente «acido», motivo per cui viene anche definito «manto acido protettivo». Il suo compito è quello di proteggerci dai microorganismi dannosi e di mantenere il naturale equilibrio idrolipidico. I prodotti pH-Balance sono particolarmente delicati e hanno un pH rispettoso della pelle.

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06.04.2022 17:26:55


Fiori e giardino

Tocchi di colore per il soggiorno In un te ne ro vase tt o pasquale

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Consiglio dal bancone

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