Azione 16 del 18 aprile

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Anno LXXXV 19 aprile 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

Pagine 4 – 5 ●

SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

TikTok offre ai giovani troppe informazioni false e fuorvianti, la denuncia di NewsGuard

Incredibili, i personaggi tratteggiati da Matteo Codignola nel suo Vite brevi di tennisti eminenti

Se la Nato si allarga a nord-est muteranno i termini del rapporto fra Russia e Occidente

A Villa dei Cedri una mostra di icone vegetali per riflettere sul rapporto tra uomo e ambiente

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SATW

Il lato tecnico delle ragazze

Stefania Hubmann

La neutralità, oltre la mentalità del riccio Peter Schiesser

La Svizzera è ancora uno Stato neutrale, ora che ha deciso di adottare le sanzioni internazionali contro la Russia per l’invasione dell’Ucraina? Per alcuni no (Udc), per altri (Plr e Alleanza del Centro) ancora troppo. In Europa e in America hanno salutato la decisione del Consiglio federale come un abbandono della neutralità, e questa è una lettura che rafforza l’Udc nelle sue convinzioni. Ma la realtà, vista da vicino, è più complessa e sfumata, perché esiste un diritto della neutralità, ma anche una politica della neutralità. Il primo stabilisce che è vietata la partecipazione a conflitti militari (se non per difendersi) e l’adesione a un’alleanza militare (tipo Nato); la seconda permette di adottare con maggiore libertà le misure che servono a rendere credibile la propria posizione internazionale. Dalla fine degli anni Novanta la Svizzera ha optato per una politica estera focalizzata sul multilateralismo (dal 2002 è parte dell’Onu), di conseguenza si è affermata la cosiddetta «neutralità attiva». E se oggi si è arrivati a imporre sanzioni contro la Russia «è perché la

Svizzera si è posta dalla parte del diritto internazionale, non di una delle due parti», come ha detto l’ex consigliera federale Micheline Calmy-Rey in un dibattito con Christoph Blocher nella redazione del «Tages Anzeiger». Il principio che sta alla base di questa politica è che un piccolo paese come il nostro è più protetto dallo stato di diritto che dalla legge del più forte. Le grandi istituzioni creano regole e possono farle rispettare più di un piccolo paese da solo. Inoltre, sono le uniche che possono affrontare le sfide globali. Anche se può sembrare paradossale, si ritiene di essere più «sovrani» in una sovranità condivisa. Tuttavia, i conservatori non sono d’accordo, ritengono che solo con la tradizionale chiusura a riccio si possano garantire sicurezza e benessere al paese. Motivo per cui Christoph Blocher ha annunciato che l’Udc sta preparando un’iniziativa popolare per una neutralità permanente, armata e integrale, che impedirebbe anche l’imposizione di sanzioni economiche, da lui definite un atto di guerra che non ha mai portato alla de-

stituzione di nessun tiranno, solo povertà alla popolazione. Con un riflesso da «réduit elvetico» della Seconda guerra mondiale, Blocher – come dice nella medesima intervista con Calmy-Rey – vuole un esercito ben armato e autarchico, ed è convinto di poterlo trasformare in uno simile a quello israeliano, in grado di intercettare anche missili balistici. L’esercito di oggi, tuttavia, è ben altra cosa: il capo di stato maggiore Thomas Süssli ha dichiarato recentemente che l’esercito potrebbe resistere (solo) due settimane a una guerra. Questa constatazione, unita alla guerra in Ucraina, ha immediatamente spinto i partiti borghesi a chiedere di aumentare da 5 a 7 miliardi l’anno il bilancio per il Dipartimento federale della difesa, e ha messo un po’ in affanno socialisti, verdi e oppositori dell’esercito nella raccolta di firme per l’iniziativa popolare volta a bloccare l’acquisto dei 36 caccia militari F-35. Ma aumentare il bilancio dell’esercito e avere i 36 nuovi caccia non è sufficiente per garantire la difesa del paese, non cambiano i termini del problema, una difesa au-

tonoma resta illusoria. Per questo motivo sia il presidente dell’Alleanza di Centro Gerhard Pfister, sia il presidente dei liberali radicali Thierry Burkart vanno più in là e sostengono la necessità di integrare l’aviazione svizzera nella strategia militare europea (il primo), rispettivamente di rafforzare la collaborazione con la Nato (il secondo). Un’adesione all’Alleanza atlantica la respingono entrambi, poiché va contro il diritto della neutralità, ma secondo loro una difesa è davvero efficace solo se c’è interoperabilità, ossia se i diversi eserciti sono in grado di comunicare fra di loro. In fondo, scrive Thierry Burkart sulla NZZ (8.4.2022), oggi la cintura Nato ci garantisce la sicurezza gratuitamente, siamo attorniati da paesi democratici e in pace, se la Svizzera fosse attaccata, lo sarebbe in conseguenza di una guerra contro queste democrazie, a quel punto il diritto della neutralità permetterebbe una collaborazione militare, ma senza averla costruita ed esercitata prima non potrebbe funzionare. La futura iniziativa popolare dell’Udc potrà portare chiarezza.


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azione – Cooperativa Migros Ticino

SOCIETÀ ●

Swiss TecLadies Il programma di mentoring che accompagna le ragazze alla scoperta delle professioni tecniche da quest’anno è una realtà anche in Ticino

Infiammazione e immunità La ricerca biomedica continua a studiare le ricadute della cosiddetta variante cronica sistemica o diffusa

Le fatiche dei brachicefali Bulldog, carlini e Cavalier king Charles, tra i più comuni, sono cani che soffrono in misura maggiore rispetto ad altre razze

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Shutterstock

TikTok e le fake news

Il caffè delle mamme ◆ L’allarme arriva anche da NewsGuard che già in due occasioni ha segnalato come il popolare social offra ai nostri figli troppe informazioni false e fuorvianti Simona Ravizza

Attenzione alle fake news su TikTok! Il caffè delle mamme segue il social network prediletto dagli Gen Z fin da quando ancora si chiamava Musical.ly, l’app entrata all’improvviso nelle case con figli intorno ai 10 anni dopo che nel 2014 i due giovani imprenditori cinesi Alex Zhu e Luyu Yang l’hanno inventata per permettere agli adolescenti di scegliere un brano musicale, muovere le labbra a ritmo di musica e ballare gesticolando, per poi condividere il video di 15 secondi con amici e follower. Sono i tempi in cui muser come Elisa Maino e Iris Ferrari sono consacrate star dai giovanissimi (un successo che dura ancor oggi) e la riflessione al Caffè è che storcere il naso di fronte a questi nuovi fenomeni in cui vita reale e vita virtuale si accavallano sarebbe una battaglia persa: le mode social sono sicuramente da «governare», ma impossibili da ignorare. Con ancora più convinzione, quando TikTok diventa la piattaforma che conosciamo oggi dopo l’acquisto per circa 1 miliardo di dollari nell’agosto 2017 di Musical.ly dalla cinese ByteDance, nel settembre 2020 segnaliamo che l’app più amata dagli adolescenti è ormai uno dei loro canali di informazione sull’attualità preferiti e ora è al centro dell’interesse anche dei mass media tradizionali. Lì i nostri figli seguono le vicende di cronaca, conoscono la poli-

tica, e s’appassionano alla causa Lgbt, al Black Lives Matter, fino alla lotta contro il bullismo. Alla fine del 2021, oltre 1 miliardo gli utenti attivi mensili, rispetto agli 85 milioni di inizio 2018: secondo Statista, un quarto degli utenti negli Stati Uniti ha un’età compresa tra i 10 e i 19 anni (nonostante TikTok dichiari di consentirne l’uso soltanto ai ragazzi di età superiore ai 13 anni). Bloomberg riferisce che circa il 30% degli utenti francesi di TikTok hanno meno di 18 anni, così come un terzo degli utenti italiani e quasi un quarto degli utenti tedeschi. Ecco, in questo contesto, Il caffè delle mamme ora decide di rilanciare l’allarme di NewsGuard, una società indipendente Usa nata per offrire informazioni sull’affidabilità delle fonti di notizie, che già in due occasioni segnala come il popolare social offra ai nostri figli troppe informazioni false e fuorvianti. La prima volta lo fa nel settembre 2021 a proposito dei contenuti sul Covid-19 definito in video che appaiono a pochi minuti dall’inizio della navigazione anche come «un complotto finalizzato al compimento di un genocidio» oppure «il nome del piano internazionale per il controllo e la riduzione della popolazione». La seconda allerta è del 20 marzo scorso quando NewsGuard pone l’attenzione sulle fake news che riguardano la

guerra della Russia in Ucraina. Il video da 1,7 milioni di visualizzazioni in cui Putin afferma che «i neonazisti di oggi hanno preso il potere in Ucraina» e «la responsabilità di qualsiasi spargimento di sangue in Ucraina ricade su chi governa il Paese» è pubblicato senza nessun riferimento al fatto che si tratta di filmati che diffondono propaganda russa. Presentati come una verità assoluta anche video in cui viene sostenuto che i filmati provenienti dalla guerra in Ucraina sono falsi e che gli Usa possiedono laboratori di armi biologiche in Ucraina. Altri prendono un pezzo di notizia vera (gli scontri sanguinosi a partire dal 2014 in Donbass tra i ribelli filorussi e le forze di governo proeuropeiste) e la stravolgono affermando che la guerra in Ucraina è il risultato del genocidio perpetrato nel Donbass dalle autorità ucraine. Le immagini provenienti dal videogioco Digital Combat Simulator vengono spacciate per il Ghost of Kiev che abbatte sei jet russi; e il presidente dell’Ucraina Zelensky là fuori che combatte per il suo Paese è un video in realtà girato nel 2021. La denuncia di NewsGuard – le cui analisi non sono fatte da algoritmi o intelligenza artificiale, ma da analisti e giornalisti che studiano i siti per verificare se rispettano o meno i criteri fondamentali di credibilità e traspa-

renza del giornalismo – è che TikTok mischia senza nessuna distinzione informazioni di fonti autorevoli e fake news. Gli adolescenti che lì si informano, dunque, non hanno gli strumenti necessari per districarsi tra ciò che è vero e ciò che non lo è. Una volta può essere il Covid-19, un’altra la guerra, un’altra volta ancora qualsiasi altro contenuto. NewsGuard esamina due situazioni. 1) Video che si presentano scrollando la pagina nei primi 45 minuti di navigazione senza che l’utente esegua nessuna ricerca sull’argomento: la prova è condotta su profili nuovi in modo che l’algoritmo di TikToK non sia influenzato da cosa già sa che piace all’utente. 2) Video che si presentano nei primi 20 contenuti proposti inserendo parole-chiave tipo guerra Russia-Ucraina. Le informazioni false e fuorvianti compaiono in entrambi i casi agli utenti dopo pochi minuti di navigazione: sia che non eseguano nessuna ricerca attiva, sia che usino parole-chiave. Per capire perché ciò deve preoccuparci è utile ricordare come funziona il meccanismo dell’app: il suo algoritmo agevola la visione di contenuti simili a quelli che hai già visto. Sono le cosiddette echo chambers, ossia le camere dell’eco, di cui a Il caffè delle mamme ci siamo occupate anche a proposito dei

messaggi di odio online: un contenuto iniziale giusto o sbagliato che tende a richiamarne altri dello stesso tipo, che contribuiranno sempre più ad amplificare una visione univoca e acritica su quell’argomento. Nunzia Ciardi, ex direttore della Polizia postale e oggi numero due dell’Agenzia per la cybersicurezza italiana, anche di recente ribadisce al quotidiano «Repubblica»: «Grazie agli algoritmi può esserti messo davanti agli occhi solo ciò che ti piace o che vogliano che ti piaccia. Tutto questo genera una post verità. Dobbiamo partire dal presupposto della consapevolezza: capire il rischio, significa già affrontarlo». È ciò di cui è convinto Il caffè delle mamme: ai nostri figli che s’informano su TikTok dobbiamo dare gli strumenti che vengono dalla conoscenza del fenomeno per non cadere in trappola. Lo possiamo fare anche aiutandoli ad avere una navigazione più consapevole, sapendo se una fonte ha pubblicato notizie false in passato, se distingue in modo chiaro le opinioni dalle notizie, se segnala in modo chiaro i contenuti sponsorizzati, se fornisce informazioni su proprietà e finanziamenti, se corregge in modo regolare eventuali errori, ecc. Senza mai dimenticarci quanto è importante che gli Gen Z si formino opinioni partendo da fatti e notizie corrette.


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La tripla identità di Omar

Incontri (3) ◆ Decano associato dell’Imperial College Business School di Londra e docente a Cambridge, Omar Merlo è partito da Lugano per l’Australia nel 1993, e dal 2005 vive e lavora nel Regno Unito Matilde Casasopra

Capita, nella vita, di arrivare all’età della pensione. È un momento in cui i ricordi si mescolano ai sogni e gli addii bilanciano gli incontri. Poi, si sa, nell’età della pensione a moltiplicarsi saranno gli addii. Resta aperta l’incognita degli incontri. Ce ne saranno ancora? Sotto sotto si pensa che no, di nuovi incontri non ce ne saranno più. Poi, invece, quasi per caso, ecco che incontri Omar Merlo. Luganese, dopo il liceo si prende un anno sabbatico per imparare l’inglese e parte per l’Australia. Dovrebbe rimanerci per un anno. Vi resta invece per diversi anni. Esattamente dodici. Quando ritorna, però, non raggiunge il Ticino, ma… il Regno Unito. La sua mèta è Cambridge. Lì mette su famiglia (ha due figli: Sophie e Frederik) e, dopo qualche anno, si trasferisce a Londra. Oggi il dottor Merlo è decano associato (relazioni esterne) e direttore accademico dei programmi MSc Strategic Marketing all’Imperial College Business School. Dr. Merlo, andiamo con ordine, lei lascia Lugano per andare a imparare l’inglese in Australia e… … e penso di restarci per un anno. Una full immersion e poi tornare. Infatti torno, ma prima faccio domanda di ammissione all’università di Melbourne. A differenza di quanto succede in Europa, i corsi universitari lì cominciano a marzo (che coincide con l’inizio dell’autunno). Non sapendo se mi avrebbero ammesso, al rientro in Svizzera mi iscrivo all’universi-

Scheda Nato a: Zurigo, cresciuto a Lugano. Età: 48. Abita a: Londra. Insegna a: Imperial College London, University of Cambridge, USI. Hobby: La musica. Suono in un gruppo rock che si chiama Hyde Out. Il nostro ultimo album si intitola Tunnel Vision. Rimpianto: Avrei potuto insegnare meglio l’italiano ai figli. Sophie se la cava. Frederik un po’ meno. Ma c’è ancora tempo. Sogno nel cassetto: Che si realizzino tutti i sogni dei miei figli. Amo: La famiglia e gli amici. Non sopporto: La falsità. La mia foto preferita: Una foto da bebè, con i miei genitori Rosanna e Luigi, scattata in città nei primi anni 70, con capigliature e abbigliamenti tipici dell’epoca. Sembra la copertina di un disco funk!

tà di Friborgo dove ho frequentato un semestre. Poi però sono ripartito per l’Australia perché da Melbourne mi avevano fatto sapere che potevo iniziare i corsi. Grazie a borse di studio ho potuto realizzare il mio sogno di studiare in un sistema universitario anglosassone e sono restato in Australia 12 anni, fino a quando non ho vinto, nel 2005, il concorso a Cambridge. Ho sostenuto il colloquio a Cambridge ad agosto. Sono tornato in Australia e qualche mese dopo con la mia fidanzata (e il cane!) siamo partiti per Cambridge. Ci siamo spostati a Londra nel 2010. Adesso mi trovo all’Imperial College e continuo a proporre alcuni corsi a Cambridge. Dr. Merlo, cosa significa insegnare marketing all’Imperial College Business School di Londra? Il mio lavoro si struttura principalmente su quattro fronti. Il primo – che è fondante per l’Imperial College – è quello della ricerca. In pratica il mio obiettivo è quello di capire i problemi e le opportunità delle aziende per definire poi soluzioni in grado di garantire loro di mantenere, o migliorare, la propria posizione sul mercato. Secondo fronte d’impegno: allestire i programmi per il master in marketing e seguire gli studenti che scelgono quest’indirizzo. Terzo fronte: le relazioni esterne con altre università, enti e aziende. Quarto fronte: la consulenza diretta alle aziende. Ciò significa incontrare e insegnare business ai manager nel loro habitat. Non possono venire loro (i manager) alla Business School? Sì, certo. Possono. Le assicuro però che entrare in relazione con i manager laddove operano è meglio. È utile per loro e istruttivo per me. Così facendo entro infatti in contatto con i problemi veri del mondo del lavoro. Confrontando le reciproche opinioni ed esperienze riusciamo insieme ad individuare soluzioni concrete e praticabili. Senza contare che tutto ciò mi permette di acquisire elementi, di pormi domande utili per le mie ricerche. E siamo tornati al «punto uno» del suo lavoro: la ricerca. Adesso di cosa si sta occupando? Di alcuni progetti, tra i quali quello della resilienza dei brand, dei marchi, in un mondo dove anche solo un episodio negativo può mettere in crisi un’azienda. Soprattutto nell’èra digitale i brand possono infatti subire continue pressioni e qualsiasi problema può drasticamente amplificarsi. In aiuto viene la resilienza che può essere costruita attraverso forti

fidanzato. Poi sono anche britannico visto che qui vivo, lavoro e qui sto facendo crescere i miei figli. E poi, lo confesso, quando dall’Australia sono giunto in Inghilterra mi sembrava di essere tornato a casa. Londra e Lugano sono piuttosto vicine, no? I suoi figli, Sophie e Frederik, stanno crescendo – ci diceva – in Inghilterra. Se decidessero di farlo lei li lascerà partire? Sarebbe ipocrita non lasciarli partire, ma… dovranno presentare motivi validi.

Il professor Omar Merlo.

relazioni con i clienti e la trasparenza del marchio. Gli esempi a sostegno del valore strategico dell’onestà non mancano. Recentemente, per una rivista specializzata, osservavo che le ricerche che svolgiamo all’Imperial College ci stanno portando a esplorare i modi in cui i marchi possono attivamente innescare immunità alle informazioni negative e abbiamo scoperto che i brand possono farlo stimolando specifici processi psicologici tra i clienti. Per esempio, abbiamo compreso che, chiedendo ai clienti come si sentirebbero nei confronti di un marchio se questo fosse colpito da ipotetiche informazioni negative, si può aumentare la difesa futura del brand stesso. Lei insegna anche all’USI e in altre università. È sempre la stessa cosa? La mia casa accademica è l’Imperial College, ma le collaborazioni esterne costituiscono parte integrante del mio lavoro. Ogni università e ogni collaborazione ha le sue peculiarità. Collaboro da diversi anni con l’U-

niversità della Svizzera italiana dove propongo un corso sulle relazioni con i clienti. Adesso, con la facoltà di Scienze della comunicazione, stiamo lavorando per realizzare un programma di scambio di studenti con l’Imperial College Business School. È un progetto importante e mi fa piacere poter contribuire alla sua realizzazione. A Lugano insegna in italiano o in inglese? In inglese. Lo ammetto: avrei qualche difficoltà, dopo tutti questi anni, a parlare di marketing in italiano. Lei si sente più ticinese, australiano o britannico? Io adesso ho 48 anni. A ben guardare la mia vita è suddivisa per 1/3 in Ticino, 1/3 in Australia e 1/3 nel Regno Unito. Mi sento, principalmente, ticinese. Il Ticino, per me, è casa. Sono però anche australiano. È l’Australia il paese che mi ha permesso di crescere, dove mi sono integrato a una giovane età e dove mi sono

E lei, che adesso collabora con l’USI, se nel 1993 ci fosse stata l’università a Lugano sarebbe partito ugualmente? Sì, sarei partito ugualmente. Ambivo, come dicevo, a una full immersion in una cultura diversa. Chissà, forse sarei tornato prima. Forse sarei tornato per il master o il dottorato. Quel che è certo è che io consiglierei a tutti di vivere un’esperienza fuori dal luogo che considerano casa. Confrontarsi con modi di vivere diversi dal proprio rende più comprensivi e anche più critici. Inoltre ti apre la mente e rappresenta una sfida che ti costringe a crescere. Senza contare che negli anni australiani ho avuto la possibilità di stringere nuove amicizie. Ho lasciato molti amici in Australia. Mi mancano, di loro, il senso di collegialità, la schiettezza e la capacità di accoglienza. Lei si sente un cervello in fuga? No, non mi sento un cervello in fuga. Ho mantenuto molti contatti. Oltre all’USI, per esempio, ho collaborato con altre università tra le quali Losanna e l’ETH, con il Fondo nazionale svizzero della ricerca, e con diverse aziende elvetiche. Poi, a mio parere, parlare oggi di cervelli in fuga è un po’ anacronistico. Viviamo in piena globalizzazione e, come dice Thomas Lauren Friedman, in questo nostro XXI secolo «il mondo è sempre più piatto». E personalmente penso che un cervello possa fuggire anche leggendo un bel libro.

Tre momenti chiave di una vita Omar, lei ha disposizione 666 battute per illustrare tre momenti topici della sua vita: 1. Il giorno che mi accettarono all’Università di Melbourne. In quel momento l’idea di trasferirmi in Australia divenne una realtà a lungo

termine. Nei primi anni 90, l’Australia sembrava geograficamente e psicologicamente più lontana di adesso. 2. Il giorno, parecchi anni dopo, in cui mi venne offerto il posto a Cambridge. Mi permise (con la mia futura moglie Carolyn) di avvicinar-

mi un po’ alla vecchia Svizzera. Quel momento segnò la fine di un capitolo e l’inizio di un altro. 3. La nascita dei miei figli, che di nuovi capitoli ne hanno aperti tanti e che continuano ad aprirne di nuovi quasi quotidianamente.

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MONDO MIGROS

Sapori di primavera Attualità

Gli asparagi sono gli ortaggi simbolo della stagione primaverile. Alla Migros ne trovate ora un ampio assortimento

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Un condimento classico che accompagna a meraviglia gli asparagi. Questa salsa olandese è pronta in pochissimi minuti. Salsa olandese Bon Chef sacchetto da 35 g Fr. 1.65

Conosciuti fin dall’antichità nelle regioni del Mediterraneo orientale principalmente come pianta medicinale, oggi gli asparagi sono coltivati in tutti i continenti e, negli ultimi anni, anche in Ticino e nel resto della Svizzera diversi orticoltori si sono dedicati con successo alla loro coltivazione. Grazie al loro sapore delicato e gradevole, gli asparagi sono considerati degli ortaggi raffinati. Inoltre, fanno bene al nostro organismo grazie alle loro proprietà depurative e drenanti, al basso contenuto di calorie e alla ricchezza di minerali, vitamine e fibre. Al momento dell’acquisto è importante prestare attenzione al fatto che siano freschi, lisci e senza ammaccature, e che le punte

siano ben chiuse e dure. Esistono due tipologie di asparagi, quelli verdi dal gusto più forte e i bianchi, più delicati e teneri. Frequentemente vengono utilizzate le stesse varietà per produrre i due tipi di asparagi. La differenza di colore è determinata dal metodo di coltivazione: gli asparagi verdi crescono al di fuori del terreno e contengono un’alta percentuale di clorofilla, che alla luce di sole si tinge appunto di verde; mentre gli asparagi bianchi si sviluppano sotto una terra sabbiosa, protetti dalla luce, cosicché non possa avvenire la fotosintesi clorofilliana. Gli asparagi che spuntano appena dalla terra e leggermente esposti alla luce del sole diventano invece

violetti. In cucina gli asparagi devono essere cotti al dente, altrimenti diventerebbero acquosi, perdendo il loro sapore naturale. Una spruzzata di succo di limone nell’acqua di cottura permette di mantenerne il colore. Negli asparagi bianchi è richiesta la pelatura per tutta la lunghezza, mentre nei verdi è sufficiente mondare la terza parte inferiore. Gli asparagi si gustano cotti in tantissime ricette, i più fini si possono mangiare anche crudi in una fresca insalata primaverile. Tra gli abbinamenti più classici e gustosi da accostare agli asparagi vi è quello con la salsa olandese, ma i turioni si sposano bene anche con le uova, i risotti, la pasta, carni e pesce.

Per chi va di fretta: la finissima salsa olandese della Thomy raffinata al burro è un vero must sugli asparagi. Salsa olandese Thomy pronta 250 ml Fr. 3.80

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Salumi italiani Bio Novità

Le maggiori filiali Migros hanno introdotto una linea di affettati in vaschetta certificati da Agricoltura Biologica La nuova gamma di salumi 100% biologici è realizzata non solo secondo i valori della grande tradizione gastronomica italiana, ma anche nel pieno rispetto degli animali e dell’ambiente. L’assortimento comprende una decina di prodotti che sapranno soddisfare ogni palato: dalla finocchiona alla porchetta, dal prosciutto cotto alla brace allo speck, dalla coppa al prosciutto crudo, dal tacchino affettato alla bresaola fino al Golfetta. Quest’ultimo salume, in modo particolare, risponde alle nuove esigenze dei consumatori che cercano prodotti a ridotto contenuto di grassi. Il Golfetta infatti contiene il 50% di grassi in meno rispetto ai salami convenzionali. È realizzato con carni scelte di prosciutto italiano e stagionato in teli di cotone. Aromatico e leggero, è una bontà sia gustato al naturale sia accompagnato da verdure, formaggi, insalate o per realizzare stuzzicanti panini. Non contiene glutine.


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MONDO MIGROS

Un pane versatile e goloso Pane della settimana

Impossibile resistere alla mollica morbida e aromatica racchiusa in una crosta dorata e croccante della Lingua Francese. Questo pane, paragonabile alla «baguette» per la sua forma allungata e le sue proprietà gustative, viene prodotto con savoir-faire artigianale e passione dagli esperti panettieri del panificio Jowa di S. Antonino. L’impasto è composto da farina chiara prodotta a partire da frumento raccolto nel nostro Cantone e lavorato dal Mulino Maroggia. Gustata a colazione spalmata di marmellata, accompagnata da un pezzo di formaggio saporito, tagliata a fette e farcita con prosciutto o verdure per farne stuzzicanti panini o un toast, oppure semplicemente per fare la «scarpetta» a fine pasto… la Lingua Francese è irresistibile in ogni momento della giornata.

La Lingua Francese è il pane perfetto da gustare in ogni momento della giornata

durante le campagne. Altri invece ritengono che questo tipo di pane sia stato inventato a Vienna e introdotto a Parigi nel 19° secolo, dove un certo August Zang aprì la celebre panetteria Boulangerie Viennoise che vendeva delle specie di baguette con il nome di «pain viennois». Si suppone inoltre che la panetteria fece anche scoprire ai francesi il kipferl, specialità austro-ungarica precorritrice del famoso croissant.

Le origini della baguette

Come accennato in precedenza, date le sue caratteristiche la Lingua Francese ha delle similitudini con la classica baguette dei nostri vicini transalpini. Esistono diverse versioni sulle origini di questo pane ormai diffusosi e apprezzato in tutto il mondo. Secondo alcuni sarebbe da far risalire all’epoca di Napoleone, il quale chiese ai suoi panettieri di creare un pane che avesse una forma allungata al fine di essere più facilmente trasportabile dai suoi soldati

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SOCIETÀ

Uno stimolo al talento scientifico delle ragazze Formazione

Arriva anche in Ticino il programma di mentoring TecLadies che avvicina le giovani alle discipline tecniche

La tecnica è ovunque, come dimostrano le ragazze che promuovono il programma di mentoring Swiss TecLadies, organizzato dall’Accademia svizzera delle scienze tecniche (SATW) ed esteso per la prima volta al Ticino. Suonare il piano, palleggiare, cucinare una torta, eseguire una mossa di karate sono le immagini delle loro passioni, delle quali dopo questa iniziativa hanno scoperto il lato tecnico. Fino al 15 maggio le ragazze interessate a partecipare alla nuova edizione, di età compresa fra i 13 e i 16 anni, possono iscriversi sul sito www.tecladies.ch. In 120 provenienti da tutta la Svizzera saranno seguite per nove mesi – da settembre 2022 a giugno 2023 – da altrettante mentori, esperte del mondo della tecnologia. Queste ultime le guideranno alla scoperta del loro lavoro e più in generale in esperienze volte a offrire un’ampia visione delle professioni tecniche e scientifiche, molte delle quali innovative e ancora poco conosciute. Gli obiettivi del programma sono essenzialmente due: abbattere i pregiudizi che spingono le ragazze a rinunciare a una formazione in questo settore e appunto avvicinarsi a professioni nuove legate allo sviluppo tecnologico recente. Per Manuela Ingletto-Panzeri, capoprogetto promozione nuove leve per il Ticino della SATW, la terza edizione dello Swiss TecLadies è un’ottima opportunità per le giovani del nostro cantone di partecipare a un’esperienza che si vuole nel contempo personalizzata e nazionale. «La giornata d’accoglienza si svolgerà in presenza al Politecnico federale di Losanna. Vedrà riunite il prossimo mese di settembre le 120 partecipanti con le rispettive mentori. Così sarà pure in occasione della giornata conclusiva al termine dell’anno scolastico 2022/2023. Fra i due grandi eventi le ragazze saranno accompagnate dalle rispettive mentori in un percorso flessibile e conciliabile con gli impegni scolastici ed extrascolastici». Quali attività prevede questo per-

corso? Risponde la nostra interlocutrice: «In primo luogo la mentore funge da modello femminile per la sua mentee e quindi la rende partecipe della propria attività professionale. Questo aspetto può concretizzarsi ad esempio con un tour aziendale. Seguono altri incontri da concordare fra le parti per organizzare stage e visite, come pure partecipare insieme a workshop, mostre o altri eventi, sfruttando anche la modalità online. In media si pensa che un contatto al mese possa già garantire un buon accompagnamento. Il programma di mentoring si conclude con la redazione di un documento finale da parte della mentee che racchiude la sua esperienza di apprendimento in questo contesto. Alle mentori (che stiamo reclutando in questo periodo così come le ragazze) chiediamo inoltre di interessarsi all’ambiente scolastico e di vita della propria mentee, fungendo da supporto per la scelta della formazione e lo sviluppo individuale». Anche per le mentori sono essenziali motivazione e piacere personale nel condividere la propria esperienza con le nuove generazioni. Le giovani seguite da una figura affermata nel settore tecnico nelle scorse due edizioni ne hanno tratto beneficio, come confermano le loro dichiarazioni pubblicate sul sito e visibili tramite video su YouTube. Quattro di queste ragazze sono quindi state scelte come testimonial della campagna informativa di quest’anno, campagna che si è rivolta in primo luogo alle scuole e agli orientatori. Ricordiamo che la prima edizione di Swiss TecLadies è stata organizzata nel 2018/19 nella Svizzera tedesca, mentre la seconda ha interessato anche la Romandia nel 2020/21, ma si è svolta quasi esclusivamente online a causa della pandemia. L’attività di promozione della SATW (www.satw.ch) a favore delle professioni in ambito tecnologico, settore che fatica a reclutare personale qualificato, è ad ampio raggio. Oltre al mirato Swiss TecLadies, è aperto online fino al 15 maggio il concorso

SATW

Stefania Hubmann

Tec-Challenge (www.tec-challenge. ch). È rivolto sia a ragazze che ragazzi delle scuole medie e medie superiori, chiamati a rispondere a domande su argomenti riguardanti la tecnologia, la scienza, l’informatica e la matematica. Manuela Ingletto-Panzeri: «Il concorso è in linea con i piani di studio dei citati ordini di scuola e può essere svolto anche durante una lezione in classe perché richiede solo 10-15 minuti. È dotato di premi attrattivi per i giovani in ambito tecnologico e della mobilità. Tramite il concorso vi è l’opportunità di iscriversi al Swiss TecLadies, iscrizione possibile però anche senza partecipare al gioco online. La selezione delle ragazze avviene infatti tenendo in considerazione interessi e motivazione espressi nella fase di iscrizione». Altra attività apprezzata dagli studenti è il TecDay proposto nelle scuole medie superiori. Organizzato dalla SATW dal 2007, è presente in Ticino dal 2014. Lo scorso

mese di marzo ha fatto tappa al Liceo di Bellinzona, mentre il prossimo novembre sarà organizzato in quello di Mendrisio con la partecipazione aperta per la prima volta anche alle ragazze iscritte al programma Swiss TecLadies. Anche in questo caso, attraverso un approccio pratico declinato in più moduli, professionisti del settore si impegnano a mostrare ai giovani le applicazioni nella vita quotidiana delle teorie studiate nelle materie scientifiche. Sostenuto dalla Confederazione, l’impegno dell’Accademia svizzera delle scienze tecniche si traduce anche in feed-back alla politica sugli sviluppi tecnologici rilevanti per il settore industriale. L’informazione e la sensibilizzazione della popolazione, con l’accento posto sulle generazioni più giovani, sono altri compiti a cui è chiamata la SATW. Per quanto riguarda lo Swiss TecLadies, da rilevare ancora la possibilità per le partecipanti di rimanere

in contatto anche dopo l’esperienza di mentoring. La Swiss TecLadies Network è infatti una rete che riunisce mentori e mentee per continuare a scambiare idee e progredire nel mondo del lavoro. A favore dello sviluppo personale e professionale delle associate vengono organizzate diverse attività con proposte specifiche per i gruppi target. La terza edizione di Swiss TecLadies coinvolge per la prima volta tutte le regioni del Paese, sollecitando le ragazze chiamate a scegliere un percorso formativo ad avvicinarsi senza timore al mondo che ruota attorno a tecnica, tecnologia e scienza. Poter essere guidate da un’altra donna già inserita in questo settore è un privilegio per acquisire una visione realistica di professioni in parte ancora da scoprire e per rafforzare la consapevolezza delle proprie capacità. Informazioni www.tecladies.ch

Viale dei ciliegi Elisa Mantoni-Vincenzo Covelli Kamimano Artebambini (Da 2 anni)

Il Kamishibai, come ben sanno gli animatori e i raccontastorie di tutte le biblioteche per ragazzi, è un efficace strumento di narrazione, soprattutto per un pubblico di piccolissimi. Si tratta di un antico metodo giapponese di raccontare storie: kamishibai significa letteralmente «teatro di carta». È una sorta di valigetta in legno, portatile (i cantastorie giapponesi, nel periodo di massimo fulgore, tra gli anni ’20 e gli anni ’50 del Novecento, la trasportavano sulla bicicletta), con due ante che si aprono, rendendola, appunto, un teatrino; e con una fessura laterale nella quale si fanno scorrere i fogli di carta con le immagini della storia. Dalla parte del pubblico c’è l’illustrazione, mentre sul retro, dalla parte del cantastorie, c’è il testo. L’incanto del racconto, semplicissimo e d’effetto, è garantito. Artebambini è stata la prima casa editrice a portare in Italia il Kamishibai, rendendo disponibile sia la valigetta in legno, sia delle storie in fogli ap-

di Letizia Bolzani

positi da far scorrere al suo interno. Le storie in formato kamishibai, proposte da questa casa editrice, costituiscono ormai una nutrita collana; la novità che qui presentiamo è invece Kamimano, una storia particolare, perché i fogli di cui si compone non sono semplicemente fronte-illustrazione e retro-testo: ogni illustrazione ha un buco, nel quale il cantastorie farà passare le dita della mano (da cui il titolo Kami-mano), e queste dita diventeranno, ogni volta, parte della storia. Un dito (l’indice) è la coda del cane, due dita (indice e medio) sono le orecchie del coniglio, se

si aggiunge l’anulare le dita diventano tre, e diventano la cresta del galletto, e così via. Come potrete intuire, non c’è solo l’incanto della storia, ma anche la possibilità di apprendere il nome delle dita, e di contare fino a cinque, e di fare somme e sottrazioni (le dita si aggiungono progressivamente, e progressivamente diminuiscono). Ma soprattutto, con l’ingresso sulla scena della mano del cantastorie, viva e reale, si rende ancora più «calda», più presente, più corporea, la magia del teatro di narrazione. Shelley Moore Thomas – Christopher Silas Neal Dal ramo al mare EDT Giralangolo (Da 4 anni)

Sono molti i libri per bambini sulle emozioni, è una conclamata tendenza editoriale quella di parlare loro di rabbia-tristezza-paura-gioia-frustrazione eccetera. Alcuni sono molto belli, altri troppo didascalici, altri ancora sembrano ignorare che, come afferma la psicoterapeuta Margot Sunderland, direttrice dell’Institute for Arts in Therapy and Education

di Londra, «il linguaggio di tutti i giorni non corrisponde per i bambini al linguaggio con cui esprimere le emozioni. Il loro linguaggio naturale delle emozioni è fatto di immagini e metafore, come quello delle storie e dei sogni» (Raccontare storie aiuta i bambini, Erickson). Un bambino può non dare nessun valore alla parola «tristezza», o «frustrazione», o «umiliazione», ma se utilizzo la metafora del «mi sento come una pietra presa a calci», ecco che immediatamente c’è consonanza, e riconoscimento di parole per dirlo, per dare un nome a quell’emozione. E riconoscere un’e-

mozione apre alla possibilità di digerirla, di elaborarla, prima che diventi un groppo indigesto, non scioglibile, dannoso. «Le pietre mi insegnano a rimanere forte. Se qualche volta mi sento preso a calci, come un sasso sulla strada, continuo ad avanzare rotolando». Il bellissimo albo Dal ramo al mare fa proprio questo, fornisce ai bambini delle preziose metafore con cui dare un nome al loro sentire. E non solo dare un nome, ma anche un senso. Oltretutto lo fa prendendo a prestito immagini dal «mondo» («il mondo mi insegna molte cose»), offrendo quindi anche una prospettiva profonda, e profondamente ecologica, di unione con l’universo, sentendosi parte di un tutto che ci trascende, nei confronti del quale provare rispetto, perché la Natura siamo noi. Gli alberi mi insegnano la resilienza («anche quando il vento cerca di abbattermi, mi muovo danzando con l’aria. E non cado»), le api mi insegnano la collaborazione, gli uccellini mi insegnano a trovare il coraggio di spiccare il volo, le nuvole mi insegnano la leggerezza. Quante cose mi insegna il mondo.


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SOCIETÀ

L’insidia dell’infiammazione

Medicina ◆ Oltre a quelle acute e croniche, la ricerca ne ha individuato un terzo tipo, silenzioso e diffuso, che può causare gravi malattie

REVOCA DELL’ELEZIONE

Sergio Sciancalepore

Care socie, Cari soci, in riferimento all’avviso apparso nel n. 10 di Azione del 7 marzo 2022 concernente l’elezione dell’Ufficio di revisione per un nuovo mandato biennale (20222023), vi informiamo che non sono state presentate proposte elettorali entro i termini previsti. Conformemente all’articolo 38 dello Statuto, l’elezione ha dunque avuto luogo tacitamente e lo scrutinio annunciato è stato revocato. L’esito della procedura elettorale sarà pubblicato nel numero 25 di Azione del 20 giugno 2022.

Un grande scienziato italiano, Alberto Mantovani, l’ha definita Il fuoco interiore in un omonimo libro divulgativo pubblicato da poco (Mondadori). Questo fuoco è l’infiammazione che, insieme con l’immunità, è il meccanismo fondamentale che il corpo utilizza contro le più svariate malattie, lievi e gravi. Tutti abbiamo avuto un dolore articolare o muscolare, una congiuntivite, un’infezione batterica o virale: i sistemi infiammatorio e immunitario intervengono per contrastare la causa della malattia e riparare i danni che ha provocato.

Sant’Antonino, 19 aprile 2022 Cooperativa Migros Ticino Il Consiglio di amministrazione

Quel fuoco che combatte più patologie, se impercettibilmente cronico può produrre a sua volta numerose altre malattie

Web ◆ Continuano le avventure di Ellie

Pixabay.com

Infiammazione e immunità (i due meccanismi agiscono sempre insieme, influenzandosi a vicenda) hanno un ruolo importante anche in caso di malattie particolarmente gravi come i tumori, le degenerazioni del sistema nervoso, le malattie cardiovascolari e altre ancora. È noto a tutti che un’infiammazione si può risolvere in pochi giorni (infiammazione acuta), oppure si trascina (tra alti e bassi) per anni quando i due meccanismi non riescono ad averla vinta sulla causa che l’ha provocata e l’infiammazione diventa cronica. Da un paio di decenni, la ricerca biomedica ha individuato un terzo tipo di infiammazione (che vede coinvolto anche il sistema immunitario), la cosiddetta infiammazione cronica sistemica o diffusa, in inglese, Systemic Chronic Inflammation (SCI). Si può definire un’infiammazione «di basso livello», prolungata nel tempo (può durare tutta la vita), non provocata da virus o batteri, diffusa a diversi organi del corpo, silente perché non ci sono sintomi evidenti almeno fino a quando si manifestano alcune malattie. Quali malattie? Numerose e frequenti, risultato dei danni causati dalla SCI un po’ dappertutto. Le malattie per le quali è più evidente il ruolo della SCI nel provocarle sono la sindrome metabolica – sempre più diffusa e caratterizza-

Fumetti matematici

ta dalla «triade» ipertensione, iperglicemia, alterazioni del contenuto di grassi nel sangue –, il diabete di tipo 2 (insulinico), le malattie cardiovascolari come infarto e ictus. Tuttavia, alcuni fondati elementi lascerebbero presupporre che la SCI abbia un ruolo nell’osteoporosi, nelle malattie degenerative del sistema nervoso, nella depressione e nel cancro. Quali sono le cause della SCI? Sono diverse: sostanze inquinanti l’ambiente; la dieta; l’inattività fisica; le condizioni sociali e di lavoro delle società industrializzate; alterazioni della cosiddetta flora batterica intestinale, indispensabile per una corretta digestione e assimilazione dei cibi. Cominciamo da quest’ultima. La ricerca sulle caratteristiche e l’importanza delle varie specie batteriche dell’apparato digerente (il microbiota) ha fatto grandi progressi, metten-

do in evidenza come le alterazioni del microbiota – spesso determinate da una dieta carente in certi alimenti, come frutta e verdura e ricca invece di grassi e altri cibi e anche d’abuso di farmaci come gli antibiotici – sono all’origine dell’obesità e dello stato di infiammazione cronica dell’intestino: questa condizione ha come conseguenza anche un aumento della permeabilità delle cellule intestinali, permettendo a sostanze tossiche di passare nel sangue ed «esportare» lo stato di SCI in altri organi. E, a proposito di dieta, si è scoperto che non solo un eccessivo consumo di grassi animali, zuccheri raffinati e alimenti cotti ad alte temperature (brace) predispone alla SCI, ma anche l’eccesso di sale (oltre che favorire l’ipertensione) come condimento contribuisce a sviluppare lo stato infiammatorio cronico intesti-

nale, determinando il moltiplicarsi di linfociti pro-infiammatori mentre quelli con effetto opposto diminuiscono: non solo, un eccesso di sale danneggia anche i Lactobacilli, batteri fondamentali per la buona salute dell’intestino. Molto interessante è la scoperta del ruolo dell’inattività fisica nella SCI. I muscoli non servono solo per il movimento, sono anche organi endocrini cioè producono sostanze che sono riversate nel sangue e agiscono su altri organi. Le cellule dei muscoli (miociti), quando sono in funzione e i muscoli si contraggono, producono le miokine, sostanze fondamentali per la buona salute delle ossa: le miokine hanno anche un’azione antinfiammatoria, così che la inattività fisica favorisce la SCI in diversi organi con conseguenze come il diabete, l’infarto, l’ictus.

È online da oggi sul nostro sito la nuova puntata dei fumetti creati nell’ambito del progetto Matematicando del Centro competenze didattica della matematica del DFA della Supsi. Si tratta dei viaggi nel tempo che la giovane Ellie compie grazie agli occhiali virtuali costruiti dal geniale zio Angelo alla scoperta dei personaggi che hanno fatto la storia della matematica. Questa nuova puntata è dedicata a Moebius. I fumetti si trovano sul sito www.azione.ch/ societa, sezione «Vivere oggi» (oppure inserendo la parola «matematicando» nel campo di ricerca).

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SOCIETÀ

I problemi di salute dei cani brachicefali Mondoanimale

Una diatriba cinofila internazionale accende i riflettori sugli standard di allevamento di alcune razze canine

Maria Grazia Buletti

Dino è un tenerissimo bulldog francese di appena un anno ma già conosce troppo bene il camice bianco del veterinario. Anzi, più d’uno, racconta Eleonora, la sua proprietaria che ammette di non essere stata a conoscenza, quando lo ha adottato, dei problemi di salute a cui questa razza poteva andare incontro: «Forse l’errore è stato di non informarci a sufficienza prima dell’adozione; d’altra parte, quello di un nostro amico non presentava alcuna difficoltà di respirazione».

Tra i vari disagi, i cani cosiddetti brachicefali soffrono il caldo in misura maggiore rispetto ad altre razze Invece per quanto riguarda il piccolo Dino: «Ci siamo resi conto che faceva davvero fatica a respirare, finché una mattina ha addirittura avuto una crisi durante la quale ha smesso di respirare e lo abbiamo dovuto scuotere per farlo riprendere. C’erano momenti via via più frequenti in cui sveniva: quando si emozionava, quando si agitava o quando faceva degli sforzi». L’intervento chirurgico al naso non ha sortito grande sollievo se non per circa un mese: «Ci siamo resi conto che poteva essere un problema d’altro genere e, consultando alcuni specialisti, siamo riusciti a capire

che si trattava dell’alimentazione, che poi a sua volta influiva sulla sua fragilità dettata dall’essere brachicefalo. Abbiamo capito che il palato molle di questi cani è più lungo del normale, dato che la testa è più corta, e questo può bloccare la gola con tutte le conseguenze del caso». Per il nostro bulldog francese, l’intervento al naso e un’alimentazione personalizzata hanno risolto in gran parte il problema: «Anche se resta delicato di stomaco e sappiamo di doverne avere più cura rispetto ad altri cani, soprattutto d’estate, perché soffre il caldo molto di più: diciamo che la fragilità di queste razze ha molto a che fare con il fatto che siano brachicefale». È, infatti, appurato che i cani brachicefali (letteralmente «dalla testa corta») presentano caratteristiche che li portano a soffrire il caldo in misura maggiore rispetto ad altre razze, tanto che le temperature elevate rappresentano davvero un grande rischio per la loro salute. Alla base del problema ci sono quei tratti che li accomunano, come le narici strette, il palato molle piuttosto lungo e la trachea molto piccola. Nel nostro cantone, che a oggi conta circa 32mila cani, è facile imbattersi in brachicefali come bulldog, bulldog francese, carlino e Cavalier king Charles, per citare i più comuni. Cosa che da quest’anno non sarà più

possibile in Norvegia, dove una storica sentenza vieta l’allevamento di due delle razze più amate e popolari in Europa (bulldog inglesi e Cavalier king Charles) con la seguente motivazione: «Si tratta di razze canine frutto di selezioni ed esposte a non pochi problemi di salute, soprattutto a livello respiratorio». Ragion per cui il Tribunale di Oslo, forte del sostegno della Norwegian Animal Protection Alliance (associazione che si batte per difendere i diritti degli animali in Norvegia) ha definito «non etico allevare queste razze brachicefale». Quella norvegese è una decisione che però trova assolutamente contraria la Federazione Cinologica Internazionale (FCI) per la quale questo veto «non tutela i cani». Inoltre, la FCI si è detta a conoscenza dal mese di agosto del 2019 del fatto che pure nei Paesi Bassi ci fosse l’intenzione di modificare la legislazione sulle razze brachicefale. Il presidente della FCI, Tamas Jakkel scrive una lettera aperta al Raad van Beher (Kennel club olandese) lamentando il suo mancato coinvolgimento preventivo e proponendo quindi un confronto con il proprio comitato generale votato alla verifica di «una legislazione draconiana, non fondata su basi scientifiche». Presto dette le motivazioni di tanto diniego della FCI: «La nostra priorità è la conservazione di queste razze che

Dino, con la proprietaria Eleonora.

sono tutte patrimoni nazionali, insieme alla tutela degli interessi degli allevatori responsabili». Jakkel stigmatizza quindi pure la scelta olandese: «Oltre a ignorare il patrimonio cinologico espone queste razze al rischio di essere meno tutelate. Non registra-

te, non controllate, non sottoposte a test genetici e funzionali e ad alcuna supervisione professionale». Come detto sono molto presenti anche da noi, in quanto particolarmente prediletti perché le loro dimensioni si adattano alla vita urbana e, soprattutto, questi cani sono ritenuti espressivi. Non a caso gli stessi proprietari li definiscono «carini», dimenticando che i veterinari definiscono la brachicefalia come: «una malformazione genetica innaturale che all’animale provoca sofferenze e malattie». Eleonora e il suo Dino dimostrano l’importanza di prestare particolarmente attenzione alla salute di un cane brachicefalo, sotto tutti gli aspetti: «Abbiamo capito che Dino è molto delicato; a causa della sua conformazione anatomica, come si diceva, soffre le alte temperature molto più di altre razze, e curare la sua alimentazione diventa per questo ancora più importante anche in relazione al suo peso che deve essere equilibrato pure nella massa grassa». Rimane una perplessità sulle divergenze fra la Norvegia, che vieta queste razze «esposte a gravi problemi di salute a causa delle numerose selezioni per motivi estetici», e la FCI che invece tutela la razza proteggendo gli allevatori da possibili malversazioni di persone senza scrupoli che potrebbero improvvisarsi tali. Annuncio pubblicitario

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SOCIETÀ / RUBRICHE

L’altropologo

di Cesare Poppi

Dov’è Timbuktu?

Ne aveva scritto il grande Ibn Khaldun nel suo Muqaddimah (Prolegomeni) che rappresenta il culmine della storiografia islamica premoderna. Era il 1377 e di Timbuktu si cominciava a parlare – o meglio a favoleggiare – in conseguenza della crescente importanza del centro commerciale per il traffico di merci transahariano. Si calcola che alla fine del IX secolo le rotte occidentali che scendevano dal Marocco attraverso l’attuale Mauritania fino a quel che diventerà il Senegal e il Mali fossero già ben stabilite: in due secoli l’Islam aveva marciato non tanto sulle punte delle lance e sul filo delle spade, ma sui tendini di quella formidabile arma da guerra commerciale che era il cammello – forse il mezzo di trasporto più eco-friendly mai inventato – per poi proiettarsi sul mare verso l’Est fino alle favolose Isole delle Spezie, quelle Molucche dove gli arabi sorseggiavano tè in lussuosi empori da favola ben prima che il povero,

grande Magellano ci arrivasse esausto (e ci perdesse la vita) con la sua fiera spedizione ridotta a poco più di uno scassato pedalò di marinai stanchi, ammutinati e ubriachi. Gli arabi e la loro manodopera indigena – i Tuareg – scambiavano lastre di sale dalle miniere sahariane contro l’oro scavato in abbondanza e comodamente nella zona subsaheliana. Sale e cavalli berberi dal Marocco. I cavalli marocchini – destinati a diventare capostipiti dei purosangue inglesi che purosangue non sono come non lo è nessuno al mondo – avevano permesso l’espansione prima dell’impero del Ghana (ca. 300-1076) per poi rifornire gli arsenali dei primi imperatori del Mali (1235-1645). Fra questi spicca il grande Mansah Musah, che regnò fra il 1312 ed il 1337. Musulmano figlio di Abubakar II, sapeva scrivere in arabo e cercò di diffondere l’Islam fra la nobiltà lasciando libera scelta al popolo: geniale

instrumentum regnii destinato a durare per secoli in tutta l’Africa subsahariana tale per cui – per dirla brutalmente ma tant’è – la Nobiltà prega Allah, il Popolo i Feticci e la pace è assicurata almeno fino a Boko Haram. Mansah Musah fu descritto come l’uomo più ricco del mondo: fra il 1324 e il 1326 si recò – così scrive Ibn Khaldun – in pellegrinaggio alla Mecca con un seguito di 60’000 fra oligarchi e guardie del corpo. Seguivano 12’000 schiavi carichi ciascuno di quattro libbre d’oro in lingotti e ottanta cammelli carichi ciascuno dalle cinquanta alle trecento libbre di polvere d’oro che veniva donato ai poveri incontrati lungo il cammino. Fake News? Resta da provare. Sta di fatto che in quegli anni il valore del Fiorino d’Oro Fiorentino, moneta allora dominante in tutta Europa, fu soggetto a severa inflazione. E nessuno capì perché fino a secoli dopo. Durante il suo pellegrinaggio fondò

anche diverse Madras (licei/università), ma la sua attenzione di leader attento alla «cultura» fu soprattutto diretta al potenziamento della Madras di Timbuktu. Sotto il suo regno questa divenne centro importante della cultura islamica. Mansah Musah era ostile agli ebrei e alla loro cultura, probabilmente perché i gioiellieri ebrei immigrati della diaspora erano in grado di produrre beni finiti che facevano concorrenza all’oligarchia nobiliare locale che invece poteva solo esportare oro in purezza. Fattostà che Timbuktu vide la sua fama di capitale culturale crescere nel mondo islamico nella misura in cui si chiudeva sempre più in quanto città sacra agli ebrei (che furono probabilmente espulsi) e al loro cristiano impuro sottoprodotto. Il primo cristiano occidentale a raggiungere quella che era diventata una Utopia, una sorta di Atlantide o Paradiso perduto, mortale e inaccessibile fu il Maggiore Alexander Gordon

Laing (1794-1826), scozzese. Pur travestito, riuscì a non farsi sgamare per cinque settimane. Fu ucciso da predoni Tuareg al momento di lasciare la città. Il secondo europeo a raggiungere Timbuktu – e primo a ritornarne vivo – fu l’esploratore francese René Caillie. Di famiglia povera ma affascinato da Robinson Crusoe decise di diventare «esploratore» secondo le modalità che gli Sponsor ora come allora offrivano a chi ci mettesse la ghirba – mettiamola così. Niente di peggio di quanto il buon René si trovò davanti il 21 aprile del 1828: «Avevo immaginato la grandeur e la ricchezza di questa città di tutt’altra maniera: presenta, come prima cosa solamente un ammasso di case in terra mal costruite; ovunque si scorgono solo degli immensi spazi di sabbia, dal bianco tendente al giallo, della più grande aridità». René Caillie fu il primo bianco/cristiano a uscirne vivo. Sic transit.

La stanza del dialogo

di Silvia Vegetti Finzi

In risposta alla solitudine di Sara ◆

Care lettrici e cari lettori, da quando curo questa Rubrica non mi è mai capitato di ricevere tanti commenti come alla lettera di Sara (pubblicata sul numero del 4 aprile).Non è un caso che l’argomento fosse tra i più sentiti: la solitudine. Molte mi chiedono il recapito di Sara per stabilire un contatto che l’aiuti a superare l’isolamento. Mi scuso ma non posso accontentarle per tanti motivi: perché la maggior parte della corrispondenza è composta da messaggi postali senza mittente, perché molti sono firmati con uno pseudonimo e perché, anche quando recano un indirizzo mail, non sono autorizzata a utilizzarlo e tanto meno a pubblicarlo. Diverso è il caso d’indirizzi pubblici, come quelli offerti da Ornella che scrive:

Cara Silvia, ho letto il messaggio che le ha inviato la signora Sara e la sua risposta, in merito alla solitudine felice. Non so dove viva questa signora, ma vorrei farle sapere che ci sono molti modi per vivere l’età del pensionamento in modo soddisfacente anche senza fare del volontariato o altri lavori. In particolare a Lugano, dove sono tornata a vivere dopo più di trent’anni trascorsi in Italia. Dopo aver perso qui tutte le conoscenze e amicizie di gioventù, sono riuscita a ricrearmi una rete di amicizie, in particolare femminili, del tutto soddisfacente e arricchente, che mi aiuta a riempire le mie giornate con momenti di socialità e condivisione. In particolare ho avviato un gruppo di knit caffè, incontri pubblici per persone che amano lavorare a maglia o uncinetto (www.unfilodilana.com). Poiché mi piace molto leggere e scrivere, ho poi avviato due gruppi di letture, uno per discutere di romanzi e narrativa, condivisione

Mode e modi

di libri letti e commentati; il secondo più letterario, durante il quale leggiamo accompagnati da una ex insegnante di letteratura, testi di autori classici del passato (www.bibliocaffe.ch). In questi gruppi ho trovato nuove amicizie, con le quali poi organizziamo passeggiate, pranzi, visite a musei, cinema e concerti. Lugano in particolare offre moltissime possibilità in questo senso. Se questa signora fosse interessata, le dica di contattarmi. Siamo sempre alla ricerca di nuove partecipanti! e magari di nuove amicizie. La ringrazio per l’attenzione, e mi scuso se mi sono permessa d’intervenire. Cordialmente / Ornella D. Cara Ornella, ha fatto benissimo a intervenire, accettiamo con piacere i suoi inviti e la ringraziamo. È evidente che nelle nostre città sono venuti meno i consueti luoghi d’incontro. Un tempo gli

anziani, salvo i poverissimi ricoverati negli Ospizi, stavano in famiglia sino alla fine dei loro giorni e nella stessa casa convivevano più generazioni. Ora finché si sta bene oppure si può godere di un/a badante si preferisce vivere da soli e, quando non è più possibile, farsi ospitare in una Residenza per anziani. In tutti i casi esistono pro e contro perché, inutile negarlo, la vecchiaia porta con sé piccoli e grandi malanni – che preferisco chiamare «acciacchi» – difficili da superare e ancor più da condividere. Senza compiangerci, dobbiamo ammettere che una certa solitudine è inevitabile. Nessuna Istituzione può farsi carico di questa condizione esistenziale. Molto utili ritengo invece le occasioni spontanee, che nascono dall’esuberanza del cuore, dalla creatività, dalla speranza d’incontri arricchenti. Per lo più questi inviti provengono da per-

sone estroverse che, come lei, hanno voglia di mettersi in gioco, di recuperare possibilità che negli anni precedenti non hanno avuto modo di realizzare. La Stanza del dialogo fa parte di queste opportunità ma tanto meglio se promuove incontri diretti, dove esprimersi col corpo molto più capace, rispetto ai social o alla scrittura, di rivelare la nostra identità. Tanti auguri quindi alle lettrici che si ritroveranno a condividere buone letture o a sferruzzare insieme, senza dimenticare, mi raccomando, di esserci amiche. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

di Luciana Caglio

Interpretare l’attualità: un tranello? ◆

Ogni calamità ha i suoi addetti ai lavori. Quelli occasionali da attrezzare ad hoc che intervengono sul posto per prestare un soccorso immediato e mirato, che poi spetterà a ospedali e centri d’accoglienza e sostegno sociale. Com’è successo nei confronti del Covid, emergenza senza precedenti alle nostre latitudini, che ha messo alla prova le strutture, le tecnologie e il personale degli ospedali. La sanità e, in definitiva, il Paese hanno retto il colpo. Determinante il contributo di un volontariato professionalizzato. Come dimostrano i giovani della Protezione civile mobilitati per le vaccinazioni e, negli ultimi giorni, giovani e meno giovani alle prese con l’arrivo dei profughi ucraini, da sistemare adeguatamente, con conoscenza di causa. Questione, una volta ancora, di esperienza e professionalità. Ciò detto, rimane un ambito in cui si

deve improvvisare. Nell’era dell’informazione mediatica, la pandemia ha, infatti, costretto medici, politici, poliziotti, a diventare comunicatori. Con effetti contrastanti. Per i politici una batosta, non tanto sul piano linguistico, quanto su quello della popolarità. Ne sa qualcosa Alain Berset, responsabile di chiusure e aperture sempre discusse e discutibili. Mentre per altre autorità, capi della polizia in particolare, la sintassi è stata fatale. Per i medici è diventata, invece, l’occasione per conquistare quel quarto d’ora di notorietà, preconizzato da Andy Warhol. Alcuni ci hanno preso gusto. È il caso, ormai oggetto di ironie in Italia, dei virologi, onnipresenti sulle reti televisive e sfruttati nei talk show. In origine il termine definiva una novità assoluta: una forma d’intrattenimento televisivo dove la chiacchierata si fa spettacolo. Nata negli USA

nel 1982, deve il successo mondiale al cabarettista David Letterman, che lo condusse per quasi un trentennio. In realtà, aveva avuto un anticipatore: Maurizio Costanzo che, per la RAI, creò Bontà loro, un incontro fra gente che si racconta. Era il 1976 e, giustamente, Costanzo si considera l’inventore del Talk. Che, però, «mi è scappato di mano», come dichiara in un’intervista rilasciata al «Foglio». Si sente, involontariamente, responsabile del degrado subito da un incontro svilito a scontro spesso violento. Si deve parlare di derive all’ordine del giorno su canali, gestiti sia dall’ente pubblico sia da finanziatori privati, affidati a conduttori e conduttrici, ormai famosi, che si scambiano ospiti scelti, di proposito, nei ranghi degli estremisti. Così, per commentare la pandemia, largo ai negazionisti, secondo i quali il Co-

vid sarebbe una macchinazione delle multinazionali. Alla stessa stregua, nei confronti della guerra, sta proliferando sui teleschermi d’oltrefrontiera la categoria dei «putiniani», animati da antiamericanismo viscerale. In questi salotti televisivi, niente buone maniere, fra avversari che rispettano le regole democratiche, e via libera agli scambi d’insulti e alla zuffa fra nemici irriducibili. Tutto ciò con il beneplacito di Corrado Formigli, Lilli Gruber, Bianca Berlinguer e via enumerando bravi giornalisti caduti nella trappola del successo a ogni costo. Non generalizziamo, per carità. Basta pensare a ospiti come Rampini e Caprarica (nostro concittadino: abita a Castagnola) per dare prestigio e attendibilità all’informazione parlata e scritta. A questo punto, correndo il rischio del campanilismo, non posso fare a

meno di citare quale esempio di corretta informazione su temi d’attualità, rubriche proposte dalla RSI: 60 minuti, condotta da Reto Ceschi, Falò con Michele Galfetti e Alessandra Maffioli, Patti chiari, con Lorenzo Mammone. E altri collaboratori impegnati a sfidare la concorrenza delle reti d’oltre confine, ben più brillanti, attraenti anche in Ticino. Insomma vale sempre il nemo propheta in patria. Con ciò il cauto e pacato stile della comunicazione nostrana ottiene riconoscimenti da osservatori qualificati: Emanuele Parsi, politologo e docente alla Cattolica di Milano e all’USI, recentemente ha fatto notizia di cronaca piantando in asso la trasmissione Carta Bianca, in segno di protesta per l’eccessivo spazio offerto al fanatico di turno. Incidenti, doveva poi precisare, che sugli schermi ticinesi non succedono.


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Saudi Vision 2030 punta sul turismo L’avveniristico progetto arabo saudita prevede lo stravolgimento dell’economia del Paese per affrancarlo dalla dipendenza del petrolio

40’000 in modalità… slow Dopo due anni di pausa forzata è ritornato slowUp: grande successo per un imperdibile appuntamento all’aria aperta e in compagnia

Videogiochi Leggende Pokémon: Arceus inaugura una nuova fase della serie più famosa di Nintendo, ma è una rivoluzione solo a metà

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L’esuberanza di un mondo libero dal professionismo Editoria ◆ In Vite brevi di tennisti eminenti di Matteo Codignola tutta la passione di giocatori che prima di inseguire la vittoria impressionavano pubblico e avversario Manuela Mazzi

«Pancho era irriducibile […] Nelle more della partita, trovava il tempo di urlare a dieci centimetri dalla faccia di un giudice di linea, decapitare il microfono di quello di sedia con una racchettata, scaraventare palle in tribuna mirando allo spettatore che l’aveva infastidito, fare il verso all’avversario, o mettersi in posa fra una palla e l’altra per i fotografi». Non giriamoci attorno, ci piace pensare che se il tennis fosse tanto bizzarro com’era negli anni del primo dopoguerra, oggi conterebbe forse anche più appassionati di quanti ne ha il calcio.

Difficile non lasciarsi coinvolgere dai personaggi tratteggiati da Matteo Codignola nel suo Vite brevi di tennisti eminenti (Adelphi, 2018). Titolo che parafrasa il più noto Vite brevi di uomini eminenti (opera ripubblicata sempre da Adelphi nel 2015) di John Aubrey (1626-1697) il quale, come si legge nel pre-frontespizio non firmato, «…ebbe in grado supremo la qualità […] di saper nominare il particolare, l’aneddoto individuante e un’innata sapienza nell’evocare il tono, il gesto, la fisiologia della vita», così ci pare di poter riferire anche di Codignola. Si è detto di personaggi, ma in verità questa raccolta di sportivi oggi perlopiù sconosciuti ai non appassionati, restituisce la storia di un gioco amatoriale appassionato e contrapposto a quello professionistico, la selvaggia purezza contro la commercializzazione di uno sport deflorato completamente negli anni Settanta. «Il tennis pro aveva tutto quanto uno spettatore potesse desiderare in fatto di qualità, ma per essere attraente fino in fondo doveva rubare al suo parente povero (ndr: al circuito amatoriale) l’ingrediente principale […] per il quale il pubblico stravedeva: le storie». Di storie non ne mancano nel libro di Codignola: «Se pensate che stia presentandovi il tennis come un sogno – scrive l’autore – e il tentativo di raccontarlo come una specie di analisi, avete ragione». Un mondo picaresco tramontato da oltre mezzo secolo, che l’autore «ossessionato», dice lui, da campi, racchette e palline, ripropone avvalendosi di alcune vecchie fotografie d’agenzia risalenti alla metà del Novecento, ritrovate da un conoscente in una valigia di cuoio acquistata al mercatino

Ma.Ma.

Un mondo picaresco tramontato da oltre mezzo secolo, che l’autore appassionato racconta con educata ironia

di Cormano, secondo la narrazione: una ventina di foto per altrettanti capitoli, dove quel che conta non è quasi mai ritratto, ma dalla cui immagine si apre un grandangolare che annette i non detti e i non osservati. Molte le sfaccettature di questo sport messe in risalto dai racconti, che spaziano dalle disquisizioni sullo stile di gioco alla necessità di fare punti, dal giornalismo alla musica

– «Senza suono il tennis non esiste» sosteneva Torben Ulrich, il quale siccome era abituato alle sonorità del legno, trovava «le vibrazioni del metallo anonime, quindi confusive e non affidabili»; «Ho aspettato a lungo che succedesse qualcosa, dentro di me, ma non è successo nulla. La musica non è arrivata» – al dresscode: «Il tennis è nato insieme a un senso del pudore quasi fanatico […] nei suoi primi

anni in Francia il tennis era quasi solo una questione di toilette». Facile intuire la portata dello scandalo di Gussy quando indossò un abito sportivo indecente, senza spalline, con la gonna più corta, troppo corta, per una che normalmente non indossava biancheria intima sotto i calzoncini… «Da Tilden a Borotra, via naturalmente Lenglen, nel tennis di un tempo il comparto animali da palcosceni-

co era piuttosto affollato». Ne danno un assaggio anche le storie narrate dalla soprannominata Teach: «Joan Crawford? Grande allieva. Il fatto è che per lei esiste solo l’uncinetto. Potrebbe lavorare ai ferri fino a quando non entra in coma. Sferruzza anche quando guarda i film nel suo cinema di casa. Non sai quanti amici e quanti corteggiatori ha fatto fuori, con quell’uncinetto, dopo una bella lavata di piatti». Il tutto condito da una incredibile voglia di vincere, quando avere voglia di vincere non era solo imperdonabile, ma anche volgare. Tra gli aneddoti più incredibili, si trova quello di Gar che, per non smettere di giocare considerata la sua posizione, attese la fine della pioggia per poi asciugare il campo a carponi, con cinquanta asciugamani, palmo per palmo, e incendiare un paio di pozze che avanzavano, gettandovi un cerino dopo avervi riversato una tanica di benzina. Per farla breve: un libro bello da leggere anche per chi di tennis capisce poco, sebbene certe volte da «esterni» ci si senta ospiti non invitati, per il tono complice con cui l’autore si rivolge ai propri lettori. Ma è un male quasi irrilevante. Come quell’indugiare sul tema omosessuale. Se da una parte, infatti, non vi sono imbarazzi nel parlare di giocatori e giocatrici in pari misura, dall’altra una certa riluttanza nel riferire di un noto clima omofobo (di cui non ci si meraviglia dato il contesto post-bellico) attira l’attenzione, come nella frase: «…senza mai essere particolarmente ossessionato da uno sport che all’inizio riteneva non troppo mas – (omissis)», per non dire maschile. È evidente il tentativo di stare nel politicamente corretto, ma a volte un’omissione sottolinea maggiormente il fatto omesso, a nostro avviso: quasi l’autore si vergognasse di affrontare il tema. E passino anche le battutine sulla Svizzera, dove l’autore (pag. 224) è cresciuto, per la cronaca «nella Bellevue Klinik, a Kreuzlingen», e di cui ricorda che durante un incontro «Ci sarà stato il solito misto: impaccio di fondo, biscotti di marzapane, qualche lieve sarcasmo sul Petit Prince – che sarei stato io, troppo vestito per gli standard assai calvinisti della buona società elvetica», e sugli svizzeri, che a pag. 204 definisce come «i soliti ingrati», per aver negato la cittadinanza a un ex campione del mondo, militante nella squadra dello Gstaad Hockey, ovvero Jaroslav Drobny. Resta, in somma, un libro più che godibile, con una buona dose di ironia non sfacciata, e di certo colto da più punti di vista.


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TEMPO LIBERO

Provincia di Tabuk.

Un sogno di sabbia Reportage

L’Arabia Saudita si apre al turismo internazionale

Paolo Brovelli, testo e foto

Dopo tanto girovagare per le mille filiazioni d’Arabia, per i residui dell’antico impero conquistato dagli eredi di Maometto, da Cordoba a Marrakech, da Tripoli al Cairo fino a Damasco, eccomi finalmente nei luoghi delle origini: la penisola arabica. È da questo immenso zoccolo di roccia contornato da mari e da monti, poggiato su un mare di petrolio e coperto da un mare di dune, da queste sabbie ocracee, le quali tutto pervadono, che un millennio e mezzo fa partì l’onda che portò il nuovo credo fin sulle sponde del Mediterraneo, e oltre.

Mentre si scava e si tracciano lotti, e si costruiscono città intere, là, sulla costa, nel retroterra è ancora tutto come prima Finalmente, dicevo, son qui, grazie al nuovo, sorprendente corso che ha intrapreso negli ultimi anni il paese custode dei luoghi più santi dell’Islam: l’Arabia Saudita. Fino a qualche anno fa questa miniera di storia e d’archeologia era proibita ai viaggiatori d’occidente, persino agli studiosi. «Niente infedeli a calpestare il suolo calpestato dal Profeta!» come mi spiega, scherzando ma non troppo, l’amico Ismail, davanti a un tè e a un piatto di grassi datteri farciti di noci, mentre ci godiamo il tramonto e la brezza sul lungomare di Gedda. Anche per questo, commenta dal suo pulpito di studente d’economia politica, per decenni l’Arabia Saudita è rimasta fuori dai circuiti turistici internazionali. Ed ecco però che ora, proprio mentre gran parte del mondo s’è ritirata su sé stessa per timore dei contagi, essa s’è schiusa, anzi va spalancando le sue porte, quasi ansiosa di mostrare al mondo i suoi tesori: quelli antichi, certo, ma anche soluzioni avveniristiche e attrazioni postmoderne, sulla falsariga dei vicini del Golfo Persico. «Adesso, guarda, ci arrivano anche quelle» conclude Ismail indicando la nave da crociera che entra in porto. Fatte salve la Mecca e Medina, sancta sanctorum del mondo islamico e ancora (alcune voci sussurrano: «per poco») città proibite ai non musulmani, il divieto di visita è (quasi) caduto e il paese sta vivendo un momento di grande popolarità. Il nuovo corso politico prova a immaginare un futuro nel quale il benedetto petrolio comincerà – come già accade – ad andare fuori moda. E allora si mandano i rampolli là fuori, a formarsi nelle università europee e d’oltreoceano per aprirsi al mondo, come Salman, che ho conosciuto al Museo nazionale; ha vissuto cinque anni a Londra e adesso, per mantenere in esercizio la lingua, si diverte a far da guida a gruppi di turi-

sti internazionali, pioniere di una professione nuova nel suo paese. Tutto ciò è parte d’un progetto, la Saudi Vision 2030, messa nero su bianco nel 2016, che prevede lo stravolgimento delle basi economiche (e sociali?) del Paese, proprio per affrancarsi dalla dipendenza dall’oro nero. Un nuovo corso per tornare a essere il faro del mondo arabo e islamico, non solo per il controllo dei luoghi santi, ma attirando investitori stranieri e facendosi tramite imprescindibile tra Europa, Asia e, perché no?, anche Africa. Riad, la capitale, è già partita, con i suoi quasi otto milioni di abitanti (il doppio di vent’anni fa), un quarto dell’intera popolazione in un paese grande cinquanta volte la Svizzera. Da tempo, in mezzo alla distesa a perdita d’occhio delle rette infinite delle arterie urbane, i grattacieli hanno cominciato a fiorire. Si vede bene da quassù, dallo Sky Bridge, il 99° piano della Kingdom Tower, lo spettacolo dell’Al Faisaliah Center e delle altre decine di edifici che svettano, pur ancor radi, tra il quartiere commerciale e il neonato distretto finanziario King Abdullah, là in periferia. I nuovi progetti parlano di metropolitane, treni veloci, ospedali, università… e ancora Qiddiya, la città del divertimento, che dovrebbe sorgere poco lontano, a far concorrenza sleale alle rovine di fango – pur in via di massiccio restauro e punteggiate da passerelle di legno e metallo, per non incespicare tra i vicoli di terra – dell’antica Diriyah, culla della dinastia che nel 1932 fondò il Regno d’Arabia Saudita, che da allora porta il suo nome, grazie ad Abdul Aziz Ibn Saud, già sultano del Nejd. Altre nuove città sono già cantieri, pieni di gru, caterpillar e polvere, come la KAEC, King Abdullah Economic City, sul Mar Rosso, poco a nord di Gedda, che – oltre ad attrarre turisti d’alto rango – si propone di far concorrenza ai porti del Golfo Persico. E poi le oasi, tante, create o ampliate grazie all’acqua dei dissalatori, per far dell’agricoltura una voce sempre più importante nel bilancio saudita. Ma questo è ancora niente se si pensa al fantascientifico progetto Neom. È una città che, annunciata nel 2017, sorgerà dal nulla nel nord, sul golfo di Aqaba, con soluzioni tecniche degne d’un racconto di fantascienza. Un’area grande come la Sicilia, con un porto, isole artificiali, palazzi, centri direzionali all’avanguardia, robot ed energie rinnovabili, per accogliere una nutrita colonia di expat e investimenti a palate. Per ora però, mentre si scava e si tracciano lotti là, sulla costa, qui nel retroterra è ancora tutto come prima, o quasi, e io son felice di poter ancora scorrazzar nel vento, lieto di quell’antico e primordiale che da tanto aspet-

Diriya, l’enorme albero genealogico della dinastia saudita, celebrata nel museo interno.

La vista dallo Sky Bridge.

L’antica stazione dell’Hegiaz, lungo la ferrovia ottomana che univa Damasco a Medina, resa famosa anche dalle imprese di Lawrence d’Arabia.

tavo d’ammirare. Sono nella provincia di Tabuk, dove falesie e valloni danno spettacolo nel deserto. Lì, tra i monti dell’Hejiaz, che poi proseguono a bordare l’intero litorale occidentale, a cercar bene si trovano iscrizioni e incisioni rupestri antiche come l’uomo. A Madian, nel sito di Al-Bad’, ricco di mille storie – tra cui una legata all’esodo mosaico, quando il patriarca spartì le acque del Mar Rosso – vi sono tombe del I secolo, scavate nella roccia, con facciate scolpite ad arte belle come quelle della più nota Petra di Giordania. Una necropoli del genere, ma ben più grande, c’è anche nella regione di Al-Ula, più a sud ma, come Madian, anch’essa lungo quella via dell’incenso che unì per secoli lo Yemen al Mediterraneo. Il sito, che ora si chiama Mada’in Salih ed è protetto dall’Unesco, conserva le tombe dei notabili dell’antica Hegra, seconda capitale nabatea dei primi secoli della nostra era. Anche qui mi piacerebbe potermici perdere dentro, correre tra le falesie e nella sabbia, libero, di tomba in tomba, che son capolavori. Ma i piani del governo ne hanno già fatto uno dei poli turistici più in voga del paese e non si può. Ti prendono e ti portan loro, in pulmini con l’aria condizionata, per una visita d’un paio d’ore che vorresti far durar per giorni. A dire il vero i turisti ancora non lo sanno, e io son quasi solo. Immenso, è questo paese, e ancora tutto da svelare. Chissà cosa nascondono i suoi deserti, il Nejd, o il famigerato Rub al-Khali, il Quarto vuoto, sotto le sue sabbie rese celebri dagli scritti di Wilfred Thesiger, un’ottantina d’anni fa: città perdute, segreti e forse anche una parte dei nostri sogni.


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Il magnifico ritorno

Nelle foto, alcuni momenti della manifestazione. (FotoGarbani)

slowUp ◆ Dopo due anni di assenza forzata, domenica 10 aprile, per la gioia degli appassionati è ritornata l’amata manifestazione

Un «bellissimo rientro» l’ha definito Roberto Schneider, presidente del comitato organizzatore di slowUp dopo avere tagliato il nastro di partenza al termine di una pausa forzata durata due anni. E le condizioni non potevano essere migliori, a fronte di una giornata a dire poco splendida e l’entusiasmo sportivo di oltre 40’000 partecipanti. A piedi, in passeggino, in bicicletta, sui pattini a rotelle, sul monopattino o sullo skateboard, ogni partecipante ha declinato a proprio modo la filosofia

che sta alla base dell’amata manifestazione… slow. Il percorso, in tutto di 50 km, quest’anno si snodava tra Locarno e Bellinzona, toccando Bellinzona, S.Antonino, Cadenazzo, Cugnasco-Gerra, Gordola, Tenero-Contra, Minusio, Muralto e Locarno. Ben frequentati anche i numerosi punti di ristoro e animazione organizzati da Migros (sponsor principale della manifestazione) a Sant’Antonino.

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Nella terra di Hisui Videogiochi

Il nuovo misterioso mondo di Leggende Pokémon: Arceus è una rivoluzione solo a metà

È indubbio che una delle serie più famose e lucrative per Nintendo siano i Pokémon. Abbiamo parlato spesso su queste pagine dei mostriciattoli giapponesi e della nostra compulsiva necessità di «catturarli tutti». A fine 2021 siamo rimasti favorevolmente impressionati da Diamante Lucente e Perla Splendente, due remake assai convincenti. Tuttavia, avevamo anche profetizzato che con l’uscita di Pokémon Leggende: Arceus, una nuova e più moderna fase sarebbe iniziata per questa serie oramai quasi trentennale. È pur vero che la formula di questi giochi di Nintendo e Game Freaks non è mai cambiata davvero: nei panni di un giovane allenatore siamo chiamati a viaggiare per un vasto territorio alla ricerca di tutti i Pokémon per poi farli scontrare con altri fino a diventare il miglior allenatore, senza dimenticare di sconfiggere qualche malvagio figuro nel frattempo. In Leggende Pokémon: Arceus però ci ritroveremo catapultati in un nuovo mondo misterioso. I primi minuti di gioco sono caratterizzati da uno strano incontro con una sorta di divinità Pokémon chiamato Arceus, il quale ci catapulterà in terre sconosciute armati di uno strano smartphone e null’altro. Un’introduzione stile isekai (uno stile di storie che troviamo spesso nei manga e anime giapponesi in cui una persona normale viene trasportata,

evocata, reincarnata o intrappolata in un universo parallelo) apprezzabile perché decisamente diversa dal solito. Le novità non sono di certo limitate all’incipit: tutta l’esplorazione ora si fa in vaste mappe libere, con una telecamera in terza persona più simile ad altri giochi come The Legend of Zelda: Breath of The Wild. Durante i nostri viaggi ci imbatteremo in innumerevoli mostriciattoli che dovremo intrappolare attraverso un sistema di cattura simile a Pokémon GO e in tempo reale, con i Pokémon che appaiono in branco, il tutto comunque accompagnato dal canonico sistema di combattimento a turni ma con alcune modifiche. Un’ultima novità degna di nota è che questa volta non ci sono due versioni diverse, con Pokémon esclusivi in ciascuna. Questo capitolo si dedica prevalentemente all’esperienza single player offline, in cui tutti i giocatori possono trovare gli stessi Pokémon ma senza battaglie online, una differenza sostanziale rispetto al passato. Questi cambiamenti si riflettono anche sul mondo di gioco in cui non esistono né allenatori o capi palestra, nessuna lega Pokémon, né centri Pokémon ma solo una terra selvaggia, appena colonizzata dagli umani, che pullula di Pokémon temibili pronti ad aggredire chiunque passi loro davanti. Lo scopo della campagna principale sarà allora sopravvivere ai Pokémon

che popolano la terra di Hisui. Non vogliamo certo svelarvi i dettagli della trama ma ci ritroveremo ben presto invischiati in strane missioni assegnateci dal Dio dei Pokémon e tecnologie venute da mondi paralleli. Il mondo che andremo ad esplorare è molto vasto e chiaramente ispirato al Giappone d’epoca feudale, in cui le terre sono selvagge, prive di costruzioni moderne o di natura umana, caratterizzate da una grande varietà di zone come pianure, zone costiere, paludi o distese innevate. Il gioco offre altresì un ciclo giorno-notte e una meteo dinamica che influenzerà in modo tangibile le nostre scorribande. Il gioco in sé presenta notevoli passi avanti ma anche alcuni passi indietro rispetto al passato. Il passaggio della serie a un mondo aperto di questo genere è sicuramente un’attrattiva interessante e che permette ancora più libertà. Ma ci sono stati cambiamenti piuttosto sensibili anche per quanto riguarda il combattimento, che non è più il classico sistema a turni. Ora i Pokémon agiscono secondo una lista di azioni che viene allestita sulla base della velocità del mostriciattolo e fissa il turno in cui il medesimo può agire. Ogni mossa può essere eseguita scegliendo due diverse tecniche: la tecnica rapida, che riduce la potenza della mossa ma favorisce il posizionamento del Pokémon nella lista di azione al fine di sferrare più attacchi, e la tecni-

Giochi e passatempi Cruciverba

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Un cliente entra in un bar: «Un succo al fico per favore» – «Mi dispiace non abbiamo succhi al fico» Troverai la risposta del cliente leggendo le lettere evidenziate a soluzione ultimata. (Frase: 2, 2, 4, 4, 2, 2, 5, 2, 2, 3, 2, 5)

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37. Ramoscello usato per generare una nuova pianta 38. Noto compositore che morì a 35 anni 40. Divinità della mitologia egizia 41. Contrasto animoso VERTICALI 1. Un Leonardo calciatore italiano 2. Ardente, infiammato 3. Uno di noi 4. Il nonno di Priamo 5. L’Erikson primo europeo a sbarcare in America 6. È la fine del mondo! 7. Alienazione mentale 8. Uno sportello del mobile 9. I vicoli di Venezia 10. Coda di paglia

in generale è caratterizzato da zone dall’aspetto anonimo che non invitano poi molto alla scoperta. È difficile capire se il gioco sia stato rilasciato in modo affrettato oppure semplicemente in modo incompleto. Tuttavia, ci sono anche elementi degni di nota come lo sforzo di migliorare l’effetto estetico delle mosse fisiche in battaglia e la presentazione del gioco, sempre senza rallentamenti fastidiosi. In generale Leggende Pokémon: Arceus è assai apprezzabile perché finalmente cambia la formula trita e ritrita dei Pokémon ma lo fa in modo grossolano e con poca cura ai dettagli tecnici. Rimane godibile sia dai fan che dai neofiti ma ha un retrogusto di occasione mancata ed è una rivoluzione compiuta solo, purtroppo, a metà.

Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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ORIZZONTALI 1. Nome femminile 7. Rischiarano l’asfalto 11. Organo di difesa degli imenotteri 12. Nome di donna 13. Le iniziali della top model Campbell 14. Il cuore dello stoico 15. Presi dal ramo... 16. Questo a Parigi 18. Una pasta per dolci 21. Porte 23. Prodi 24. Le iniziali del marito di Claudia Mori 25. Due volte in sospeso 26. Carne inglese 28. Preposizione articolata 30. Davanti al nome del laureato 32. Vecchio in inglese 33. Quelli particolari rivelano l’identità 34. Gli zeri del percento 36. Odiare senza dire

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ca potente, che ne aumenta la potenza ma rende il Pokémon più lento nei suoi attacchi senza però ridurre la statistica di velocità. Dettagli tecnici che diranno poco ai neofiti ma che stravolgono in modo importante le meccaniche di gioco a cui siamo abituati. Questi cambiamenti sono senza dubbio il punto focale dell’esperienza e non potranno che dividere le opinioni. Leggende Pokémon: Arceus rappresenta in questo senso un vero taglio netto col passato. In confronto ad altre produzioni uscite su Nintendo Switch, il nuovo capitolo di Pokémon non brilla di certo per qualità visiva. In particolare, il mondo di gioco è piuttosto spoglio, la qualità degli elementi è altalenante, espressioni facciali assai limitate e

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Davide Canavesi

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12. In presenza di nessuno 15. Un taglio dal parrucchiere 17. Le iniziali del giornalista Capuozzo 19. Azioni illegali 20. Senza coda 22. Personaggio della commedia Cymbeline di Shakespeare 24. Non è bene sedersi su questi 27. Vulcano siciliano 29. Così finisce lo scapolo 30. La minore delle isole Cicladi 31. Radice in inglese 33. Lo zio d’America 35. Riposi assoluti 37. La tabella meno bella 38. Poco più alto del re 39. Le iniziali dell’attore Gassmann

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Soluzione della settimana precedente PIRATI E LEGGENDE – I pirati indossavano gli orecchini perché convinti… Resto della frase: … CHE MIGLIORASSE LA LORO VISTA.

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 19 aprile 2022

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ATTUALITÀ ●

Un voto decisivo per l’Europa Il 24 aprile i francesi sceglieranno il loro presidente. Come nel 2017, a contendersi la carica Emmanuel Macron e Marine Le Pen. Qual è la posta in gioco?

«Sento ancora il pianto disperato dei bambini» Il ticinese Pierre Ograbek è stato (non solo) in Ucraina come inviato di guerra. Ci racconta la sua esperienza, le difficoltà incontrate sul campo

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Gli Usa crescono troppo mentre la Cina si ferma Prospettive ◆ In America ora è l’inflazione galoppante a fare paura, intanto Pechino continua con la politica «zero Covid» che avrà pesanti ripercussioni in Europa e nel resto del mondo. Chi sarà a farne le spese? Federico Rampini

Per quanto gli eventi in Ucraina siano tragici e importantissimi, più ci si allontana dall’Europa più lo scenario si arricchisce di elementi diversi, la prospettiva cambia, e il conflitto per quanto grave assume una dimensione locale. Questo contribuisce anche a spiegare l’atteggiamento «distaccato» di vaste parti del mondo che non aderiscono alle sanzioni: America latina, Africa, paesi arabi, India e gran parte dell’Asia oltre ovviamente alla Cina. L’economia americana scoppia di salute. Il dato più importante per misurare il benessere è l’occupazione e questa continua a crescere. A marzo sono stati creati 431’000 nuovi posti di lavoro, con questo il tasso di disoccupazione è sceso al 3,6% cioè vicino al pieno impiego. Dei 22 milioni di posti che furono momentaneamente distrutti nella prima fase di pandemia e lockdown, ne sono stati ormai recuperati più del 90%. Continuano a crescere i salari, e più degli altri quelli dei lavoratori manuali nelle fasce meno qualificate. Tutto questo sarebbe meraviglioso ma c’è un rovescio della medaglia: l’economia è perfino surriscaldata, l’inflazione non accenna a placarsi, l’ultimo dato è +8% per i prezzi al consumo. Di conseguenza la Federal Reserve sarà costretta a rincarare il costo del denaro più brutalmente di quanto ci si aspettava. Nelle famiglie americane in questo periodo si parla più dell’inflazione che della guerra in Ucraina. E quando arriveranno i prossimi rialzi dei tassi si parlerà dei mutui per la casa che diventano sempre più cari, dei rimborsi sugli acquisti rateali o sui prestiti studenteschi che salgono.

Lo scenario per l’economia americana può passare in fretta da una crescita surriscaldata a una recessione Joe Biden ha tentato di impostare il problema del carovita in termini politici accusando le compagnie petrolifere e gasifere di speculare, ma non sembra aver convinto. L’atmosfera di (cupo) revival degli anni Settanta ci ricorda che allora furono tentati degli esperimenti di controllo politico dei prezzi, ma fallirono. Lo scenario per l’economia americana può passare in fretta da una crescita surriscaldata a una recessione. Due le spiegazioni. Da un lato la politica monetaria: poiché la banca centrale ha tardato a riconoscere la minaccia dell’inflazione, ora è costretta a rincorrerla con una stretta sui tassi più severa. D’altro lato la politica di bilancio. Ci rendiamo conto adesso che la crescita Usa fu drogata dall’enorme quantità di spesa pubblica generata per compensare fa-

miglie e imprese durante la pandemia (5000 miliardi di dollari). Ora che gli aiuti speciali sono finiti, l’economia può assomigliare a un tossicodipendente in crisi d’astinenza. A questo si aggiunge il fatto che l’inflazione si sta già rimangiando buona parte se non tutti gli aumenti salariali. Negli ultimi tre mesi il reddito da lavoro è aumentato del 10% annuo in termini nominali ma è diminuito dell’1,2% se si misura al netto dell’inflazione, cioè in potere d’acquisto reale. La situazione è un po’ migliore per le fasce di manodopera più bassa, dove la scarsità di immigrati ha determinato aumenti salariali maggiori, però c’è un senso di precarietà quando l’inflazione galoppa e può cancellare i benefici dalle buste paga.

Il lockdown che colpisce Shanghai e altre città cinesi potrebbe essere l’evento più negativo per l’economia mondiale in tutto il 2022 Se l’America cresce troppo, con la conseguenza che l’inflazione fa paura, la Cina ha il problema opposto. La crescita cinese stava già rallentando, frenata dallo shock energetico. Ora un nuovo shock è il lockdown che colpisce Shanghai e una trentina di altre città cinesi. Potrebbe essere l’evento più negativo per l’economia mondiale in tutto il 2022, perfino più della guerra in Ucraina per i suoi riflessi sulla crescita globale. Shanghai è la seconda maggiore metropoli cinese, con 25 milioni di abitanti, è anche la più cosmopolita e dedita al business. Per frenare il contagio Xi Jinping non transige, resta incollato alla sua politica «zero Covid» e quindi applica a Shanghai lo stesso implacabile rigore che fu usato per spegnere altri focolai. Stavolta però i segnali di malumore della popolazione sembrano più forti: Shanghai non si lascia paralizzare senza protestare. Il ceto medioalto di questa metropoli potrebbe sfidare la durezza del regime e mettere a nudo l’assurdità di questi lockdown rigidi. Poi ci sono le ricadute internazionali perché molte fabbriche occidentali basate a Shanghai e dintorni sono state chiuse, e anche l’attività del porto (uno dei più grandi del mondo) ne risente. Presto sentiremo gli effetti in America e in Europa di nuove penurie di beni provocate da questo rigurgito di pandemia in Cina. Xi Jinping ha potuto applicare per due anni la politica anti-contagio più restrittiva del mondo perché ha mobilitato una gigantesca macchina di controllo sociale: comitati di quartiere, militanti e funzionari del partito comunista. Dove questa macchina non esiste, come a Hong Kong, il

Vista aerea di Shanghai. (Shutterstock)

caos è stato immediato. Però anche l’efficienza cinese nasconde dei problemi enormi. Xi non ha avuto altra scelta se non quella di applicare lockdown rigidissimi e quarantene spietate, perché il suo sistema sanitario è ancora sottosviluppato. La Cina ha solo 4,4 posti-letto in reparti d’emergenza (attrezzati per cure salva-vita, con apparecchi respiratori) ogni centomila abitanti, contro 11 in Corea del Sud e 26 negli Stati Uniti. La sanità non è stata nelle priorità del regime: la spesa pubblica a lei destinata vale il 3% del Pil cinese contro una media dell’8% nei paesi occidentali sviluppati. Infine Xi paga l’autarchia dei vaccini: quelli made in China sono meno efficaci di quelli americani (Pfizer, Moderna). La trappola del

Covid sta diventando un test su cui misurare il diverso livello di efficienza dei regimi autoritari rispetto alle democrazie, e nel lungo periodo aumentano le probabilità che il sistema cinese ne esca perdente. Se Xi Jinping finora non vuole discostarsi dalla politica «zero Covid» (o forse non può, per i limiti del suo sistema sanitario), c’è un altro fronte su cui il presidente cinese sta facendo concessioni. È la lotta alle diseguaglianze. «Prosperità condivisa» era lo slogan usato da Xi per introdurre un fisco più progressivo e per ridimensionare i miliardari. La Cina ha conservato una tassazione tipica da paese povero, la sua imposta sul reddito delle persone fisiche dà un gettito che vale solo l’1,2% del Pil contro

il 10% negli Stati Uniti. Gli oneri sociali per finanziare la previdenza valgono il 6,5% del Pil contro il 9% nella media dei paesi ricchi. Non ha un’imposta che colpisce il patrimonio. Ma i piani di Xi per tassare di più i ricchi ora vengono rinviati. Si teme che in una fase di rallentamento della crescita possano contribuire a deprimere consumi e investimenti. La «prosperità condivisa» dovrà aspettare. Interessante parallelo con gli Stati Uniti. Ricordate la «global minimum tax»? Biden, e la sua ministra del Tesoro Janet Yellen, lavorarono per raggiungere un accordo internazionale l’anno scorso. Però è a casa loro che l’applicazione della tassa minima è nello stallo: langue al Congresso da mesi.


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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

In Francia si gioca il futuro dell’Europa Il punto

Domenica prossima gli elettori sceglieranno chi tra Macron e Le Pen guiderà il paese per i prossimi cinque anni

I francesi stanno per decidere chi sarà il loro presidente per i prossimi cinque anni. A meno di una settimana dal voto decisivo i due finalisti, Emmanuel Macron e Marine Le Pen, sono immersi nella loro campagna elettorale. I due si erano già sfidati nel 2017. Macron rappresentava allora la novità sulla scena politica francese; Le Pen tentava di accedere all’Eliseo per la seconda volta. Oggi il duello avviene in un contesto ben diverso, con molte fratture sociali e altrettante incognite. Negli ultimi anni la Francia ha vissuto gravi crisi: quella dei «gilet gialli» e quella della pandemia e oggi ne vive una terza, internazionale, con la guerra in Ucraina. Le divisioni sorte durante queste crisi non sono sparite e riappaiono davanti a molte questioni importanti come l’immigrazione, la sicurezza, l’identità francese, le disuguaglianze sociali e l’integrazione dell’Esagono nell’Unione europea.

Decisivi saranno i voti degli elettori che hanno scelto i candidati sconfitti al primo turno, primi fra tutti quelli di Jean-Luc Mélenchon I due sfidanti sono latori di due visioni ben diverse della società francese e del ruolo della Francia sul piano internazionale. Nella sua veste di presidente uscente, Macron, con il 27,8% dei voti al primo turno, s’iscrive nella continuità e promette di realizzare quelle riforme che non è riuscito a portare a termine durante il suo primo mandato. Difende il suo bilancio e cerca di migliorare la sua immagine, mostrandosi più attento e più sensibile alle esigenze e alle sollecitazioni delle persone meno favorite. Sul piano internazionale è stato protagonista

di due avanzate nel contesto europeo. Dapprima con il pacchetto di misure adottato nel luglio 2021, comprendente prestiti e sovvenzioni che consentono agli Stati membri dell’Ue di far fronte alle conseguenze economiche della pandemia e di poter contare su una certa solidarietà. In seconda battuta con il lancio del progetto di una Difesa comune europea, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Ha dimostrato di saper gestire crisi e momenti difficili e di avere accumulato un’esperienza che può rivelarsi utile al paese. Macron presenta però anche due grandi pecche. La prima è legata alla sua immagine. Il presidente uscente viene percepito da una buona parte della popolazione come il leader dei ricchi e delle classi favorite, come colui che colpisce i meno abbienti con piccole frasi offensive e che non si occupa molto di chi stenta ad arrivare alla fine del mese. La seconda pecca è la conseguenza della prima. Sono le frustrazioni e la rabbia che si sono accumulate durante le crisi in una parte della società e che trovano sfogo nel rifiuto della sua candidatura. Il presidente ne è cosciente, ovviamente, e cerca di farvi fronte annunciando misure suscettibili di mitigare le conseguenze delle sanzioni adottate contro la Russia, di consentire l’adeguamento ai cambiamenti climatici e di favorire la presa in considerazione delle categorie maggiormente esposte all’aumento dei prezzi energetici e del costo della vita. La visione di Marine Le Pen, che al primo turno ha ottenuto il 23,1% dei voti, si fonda soprattutto sul suo programma elettorale. Certo, negli ultimi anni la leader del Rassemblement National ha moderato il suo discorso rispetto al passato, ha messo la sordina alle sue posizioni estreme,

Keystone

Marzio Rigonalli

ha cercato di tranquillizzare e di rassicurare, nonché di dare l’immagine di una persona cui si può affidare la massima carica dello Stato, ed è riuscita a conquistare una parte delle classi popolari. La lettura del suo programma, però, mette in evidenza una serie di misure che caratterizzano l’estrema destra, sia sul piano interno sia su quello internazionale. Sono provvedimenti che, probabilmente, non possono essere decisi in tempi brevi, ma che possono essere attuati durante i cinque anni del mandato. Vanno dunque considerati in prospettiva. Sul piano interno Le Pen promette una dura battaglia contro l’immigrazione, un fenomeno che vorrebbe eliminare quasi completamente. Intende togliere in modo radicale gli aiuti sociali che vengono dati agli immigrati e propone di iscrivere nella Costituzione la protezione dell’identità

francese e la cosiddetta «priorità nazionale». I francesi, sostiene, devono essere privilegiati rispetto agli stranieri in tutto, dai posti di lavoro agli alloggi e agli aiuti sociali. Verrebbe così cancellato il principio dell’uguaglianza dei cittadini, un principio che è sempre stato presente nella Repubblica sin dal 1789. La leader del Rassemblement National vorrebbe anche iscrivere nella Costituzione la superiorità del diritto francese sul diritto europeo. La misura sarebbe contraria alle regole dell’Unione europea e potrebbe aprire la porta alla «Frexit». Anche sul piano internazionale i cambiamenti non mancano. Marine Le Pen ha abbandonato il progetto di uscire dall’Ue e di abbandonare l’euro, ma è decisa a distruggere l’Unione dall’interno, trasformandola in un’alleanza delle nazioni e revocando le istituzioni comunitarie che

hanno sede a Bruxelles. Viene così respinto ogni tentativo d’integrazione e di rafforzamento della comunità europea attraverso, per esempio, la creazione di una Difesa comune. La sua elezione metterebbe in pericolo il fronte occidentale contro Putin, sorto dopo l’invasione dell’Ucraina. Per Marine Le Pen la difesa dell’Ucraina e il rafforzamento della parte orientale dell’Alleanza atlantica non costituiscono una priorità e la Russia potrebbe diventare un alleato dopo la fine della guerra. La sua vecchia simpatia per il dittatore russo tornerebbe quindi in auge. E su questa linea politica la leader del Rassemblement National può contare su un alleato, l’Ungheria di Orban, e può sperare che altre forze populiste arrivino presto al potere in Europa, dopo regolari elezioni. La sfida di domenica prossima verrà decisa in gran parte dagli elettori che hanno scelto i candidati usciti sconfitti al primo turno. Primi fra tutti gli elettori di Jean-Luc Mélenchon, il rappresentante della sinistra radicale, uscito terzo con il 22% dei voti e con una forte adesione da parte dei giovani. Meno decisiva sarà probabilmente la partecipazione degli elettori del Partito repubblicano e quelli del Partito socialista, le due formazioni storiche che a più riprese hanno dominato l’elezione presidenziale, ma che adesso sono scese sotto il 5%. Dato il ristretto distacco tra i due contendenti che emerge dai sondaggi, domenica l’attenzione sarà altissima in tutta la Francia, ma non soltanto. Anche in molte capitali europee si attenderà con impazienza e forse anche con un po’ di preoccupazione il risultato finale, perché sono in gioco il futuro dell’Europa, molte sfide geopolitiche e il divenire della democrazia occidentale.

Un’Alleanza che si consolida L’analisi

Il probabile allargamento a nord-est della Nato è in grado di mutare i termini del rapporto fra Russia e Occidente

Lucio Caracciolo

Putin ha scatenato l’invasione dell’Ucraina per impedire che entrasse nella Nato. Ipotesi peraltro non immediata e che oggi pare esclusa. Che cosa vorrà e potrà fare Putin nel caso molto probabile che Finlandia e forse anche Svezia entrassero quest’anno nell’Alleanza atlantica? Di sicuro c’è che, insieme all’annunciato riarmo tedesco, il possibile allargamento a nord-est della Nato appare dotato di un valore strategico tale da mutare i termini del rapporto fra Russia e Occidente. Diamo uno sguardo alla carta geografica. Se, come pare, Finlandia e Svezia entrassero nell’Alleanza ne conseguirebbero i seguenti mutamenti geostrategici. Primo. San Pietroburgo, storica capitale della Russia zarista, porto russo rivolto verso occidente, città natale di Vladimir Putin, sarebbe a un tiro di schioppo dalle avanguardie atlantiche piazzate sulla riva nord del Golfo di Finlandia. Secondo. Il Mare Baltico diventerebbe un mare totalmente atlantico, con la Russia all’angolo (San Pietroburgo esposta a un possibile blocco navale in caso di guerra aperta) o accerchiata (l’exclave di Kaliningrad alias Königsberg nell’ex Prussia orientale, stretta via terra fra Polonia

e Lituania, vedrebbe potenzialmente chiuso anche il suo accesso al mare). Terzo. La frontiera terrestre fra Nato e Russia si prolungherebbe di altri 1300 chilometri circa. Tanto ampio è infatti il confine russo-finnico lungo la Carelia. Sempre viva è la memoria della guerra del 1939 fra Unione Sovietica e Finlandia, caso di eroica resistenza di un paese relativamente piccolo e spopolato contro una superpotenza militare. Quarto. La Svezia atlantica non sarebbe in sé una enorme novità in termini pratici, dato che già da sempre e oggi più di prima questo paese formalmente neutrale è all’avanguardia nella geopolitica di contenimento della Russia. Ricordo una conversazione di qualche anno fa con un esponente del governo svedese che, alla mia domanda su che cosa volesse dai russi, stabilì: «Devono sparire». Quinto. L’integrazione dell’intera Scandinavia nell’alleanza a guida americana contribuisce a virarne verso nord-est il baricentro. Si consolida così una Nato baltica, ad oggi molto più rilevante e affidabile per gli Stati Uniti di quanto non siano i paesi fondatori, oltre che la stessa Germania. Questo ci porta a considerare

un aspetto della guerra in corso che si tende a trascurare o a oscurare. Doppio movimento: progressivo distacco dell’America dall’Europa e viceversa; rapida divaricazione fra i paesi europei della Nato. Il primo movimento è espresso nell’inconsueta dichiarazione di Biden alla vigilia del conflitto, poi continuamente ripetuta: «Gli Stati Uniti e la Nato non vogliono fare la guerra alla Russia». Dove il sottotesto recitava: la faremo con mezzi economici, potenzialmente devastanti. Ora, non è affatto detto che a un certo pun-

to Biden non cambi idea. Ma quella scelta di campo iniziale ha gelato le aspettative di chi considerava inossidabile la protezione strategica americana dell’Europa atlantica. La vera ragione per cui gli Usa non hanno messo sul tavolo, come d’uso in circostanze simili, l’opzione militare non consiste nel fatto che l’Ucraina non appartiene alla Nato e quindi non può ambire alle garanzie espresse nell’articolo 5 del Patto atlantico, per cui l’aggressione a uno Stato membro implicherebbe il sostegno anche miliMagdalena Andersson (a destra) e Sanna Marin, premier rispettivamente di Svezia e Finlandia. (Shutterstock)

tare di tutti gli altri al socio in pericolo. A parte che ogni articolo di qualsiasi trattato, specie se così rilevante, è aperto alle interpretazioni opportunistiche, il punto è un altro. Washington non vuole garantire militarmente l’Ucraina in questo caso non perché estranea formalmente alla Nato ma perché attaccata da una potenza nucleare. Scritto altrimenti: se questo è vero, che garanzia americana esisterebbe in caso di attacco nemico a un socio Nato da parte della Russia o di altra potenza atomica? Tutto lascia prevedere che se anche nella guerra del Donbass si arrivasse presto a una tregua effettiva – la pace è per un altro secolo, se mai – le onde lunghe del conflitto continueranno a battere le coste un tempo stabilite e oggi erose dalla più inattesa delle guerre. Il grado di impreparazione dell’Occidente all’attacco russo è tale da costringerci a risposte improvvisate. C’è poco tempo per riflettere. Si prendono decisioni di portata storica quando la guerra è appena iniziata. Probabilmente non potrebbe essere altrimenti. Poi forse alcuni soggetti geopolitici si pentiranno delle scelte fatte «a caldo». Speriamo vivamente di sbagliare.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 19 aprile 2022

ATTUALITÀ

Sotto le bombe alla ricerca della verità

L’intervista ◆ Il grigionese Pierre Ograbek è stato (non solo) in Ucraina come inviato di guerra. Ad «Azione» confessa: «Sento ancora nelle mie orecchie il pianto disperato di tutti quei bambini in fuga» Guido Grilli

Il giornalista ad Avdiivka, nell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk, nel 2016.

Se non ci fossero loro ad accettare di spingersi in quei luoghi dilaniati dalle bombe, noi non sapremmo quasi nulla. Loro sono gli inviati di guerra, i reporter al fronte che nel nome dell’informazione, la più oggettiva possibile, percorrono vie ricolme di insidie e ostacoli. Pierre Ograbek è uno degli inviati di guerra Rsi che da subito, sin dal primo giorno di invasione dell’Ucraina da parte della Russia, il 24 febbraio, è partito per la Polonia e ha quindi varcato a piedi il confine, raggiungendo la città di Leopoli. Lo abbiamo intervistato. Come si gestisce l’ansia di operare in un luogo di conflitto? Quali sono le precauzioni da adottare? Con quali strumenti di lavoro occorre partire? Non sapevo che situazione avrei affrontato in Ucraina, mi sono ritrovato di fronte a un’enorme incognita. Il 24 febbraio sono partito con la sola certezza che questo attacco russo fosse proprio di ampia scala e molto violento. C’è stato un esodo immediato e io mi ritrovavo a percorrere la strada al contrario. Di solito sì, c’è ansia, soprattutto per questioni tecniche: nelle zone di guerra basta un piccolo inghippo per perdere almeno mezza giornata di lavoro. Oppure c’è il rischio che il materiale venga danneggiato o magari confiscato. Questa volta la questione della sicurezza era importantissima: c’era sempre la minaccia di un attacco aereo. In queste situazioni tieni gli occhi aperti, sei concentrato e c’è ben poco spazio per l’ansia. Il 24 febbraio di primo mattino ho ricevuto una chiamata dalla mia responsabile di redazione. Mi chiedeva se fossi disponibile a partire subito. In realtà lo ero già da alcuni giorni, anche se non mi aspettavo uno scenario così drammatico. In un paio di ore ho dovuto capire come muovermi, quali zone evitare, trovare un biglietto aereo per la Polonia, recuperare un giubbotto antiproiettile e l’accredito che avevo chiesto un mese prima al Ministero della difesa ucraino. Ho preso so-

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lo lo stretto necessario: un laptop, due registratori, un microfono, due smartphone. Biancheria di ricambio per pochi giorni. Qual è stato il tragitto percorso e quali mezzi ha utilizzato? Ho preso un volo per Varsavia e da lì un aereo per Rzeszów, vicino al confine occidentale dell’Ucraina. Sono arrivato all’una del mattino. Poi, dopo poche ore di sonno, ho preso un taxi fino alla dogana. Sono sceso, con il mio zaino e con il mio trolley, e ho proseguito a piedi. Ero praticamente l’unico a voler entrare in Ucraina in quel momento. Sono rimasto tre ore, immergendomi nel fiume di persone che stavano fuggendo, che aspettavano al freddo di entrare in Polonia. Ho raccolto le loro storie. Non c’era nessun tipo di assistenza, nessuno che offrisse loro qualcosa di caldo da bere o da mangiare. Nessun tipo di organizzazione, in quel momento. Più in generale, può raccontarci le tappe più significative della sua esperienza di giornalista? Come reporter avevo già potuto seguire la fine della guerra in Kosovo nel 1999, dove ero stato accolto da tantissimi abbracci perché per i civili l’apparizione di un giornalista significava che la guerra era veramente finita. Nel 2000 sono stato negli Usa per le elezioni presidenziali, realizzando dei reportage nel sud del paese grazie ai quali ho anche potuto visitare il più grande carcere americano di massima sicurezza. Nel 2013 invece mi sono ritrovato a camminare in mezzo a centinaia e centinaia di cadaveri, a Tacloban (nelle Filippine), città devastata dal tifone Haiyan. Ho coperto per 7 volte il Forum economico mondiale di Davos. Ho realizzato reportage in Russia, nel Myanmar, in Cambogia, in Cisgiordania e a Gaza, in Ecuador, in Tunisia, in Bosnia… E da 8 anni ormai seguo le vicende ucraine. Restiamo in Ucraina. Parliamo delle fonti e delle difficoltà linguistiche. Come è riuscito a comuni-

care? E di quali canali informativi ha potuto disporre? Possiedo qualche rudimento di russo e sicuramente presto o tardi ricomincerò a studiarlo, con la speranza che poi mi sia possibile imparare rapidamente anche l’ucraino. In Ucraina è comunque relativamente facile comunicare in inglese, soprattutto con i più giovani. Per informarmi ho fatto capo a tutte le fonti disponibili. Vedere una notizia ripresa magari 80 volte non voleva però per forza dire che fosse vera: significava magari che tutti stavano facendo capo a un’unica fonte disponibile, non accertata. C’è stata una valanga di notizie a proposito di questa guerra. Bisogna fare tanti confronti e valutare quali siano le fonti più credibili e le più serie. È indispensabile saper riconoscere le informazioni di qualità, il giornalismo di qualità. Può anche diventare di importanza vitale. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si è rivelata sin da subito contraddistinta dalla propaganda, un’arma pericolosa quanto le bombe. Una difficoltà che complica il lavoro di giornalista e la ricerca della verità. Se ne è avuta prova con l’accusa di messinscena e di negazione da parte della Russia sull’uccisione di civili a Bucha. Qual è stata la sua esperienza in termini di strumentalizzazione del conflitto? Il caso più evidente: il numero di perdite annunciate da entrambi i fronti. Ci ritroviamo con cifre estremamente discordanti. Conosciamo bene l’apparato di comunicazione russo. È stato sorprendente invece vedere in che modo l’Ucraina abbia subito adottato una strategia comunicativa molto diversa: nel giro di pochi giorni le autorità hanno iniziato a fornire molte più informazioni in inglese, organizzando diverse conferenze stampa quotidiane. È difficile lavorare in queste condizioni e verificare costantemente, in modo indipendente, tutte le informazioni che ci vengono fornite. Bisogna investire molto tempo. Spesso si va anche per esclusione: è per lo meno facile riconoscere quale media

stia esagerando nei propri resoconti o quale testata diffonde delle notizie manifestamente non vere. In questo modo si squalificano da soli. Se questa guerra può essere raccontata è soprattutto grazie agli inviati in Ucraina. Quanto è stato importante il suo ruolo di testimone? Non sta a me valutare quanto importante sia stata la mia di presenza, ma ammetto che mai come in questa occasione ho ricevuto numerose reazioni e ringraziamenti per essere subito andato nel paese sotto attacco, per offrire qualche racconto, qualche testimonianza, qualche voce e qualche suono dall’Ucraina scossa improvvisamente da una guerra su così ampia scala, dopo 8 anni di guerra a bassa intensità nel Donbass. Essere sul terreno è tutt’altra cosa che non essere seduto per 8 ore in redazione davanti a un monitor, seguendo le notizie offerte da inviati stranieri. Anche questo fa parte di un servizio pubblico che offre chiavi di lettura serie per capire quanto stia capitando attorno a noi. Quali sono state le scene più dolorose alle quali ha assistito? Ammetto che sento ancora nelle mie orecchie il pianto di tutti quei bambini, quel pianto disperato che scoppia all’improvviso… Bambini in fuga da giorni, in una stazione ferroviaria strapiena o su dei vagoni strapieni, trascinati dalle mamme e dalle nonne, che frettolosamente cercano di salire sul prossimo treno o bus diretto all’estero. Bambini che scoppiano in lacrime perché vogliono fermarsi, perché vogliono dormire o giocare. E che non hanno ancora avuto il tempo per dimenticare il rumore delle bombe cadute sulle loro città. Ma è stato impressionante anche vedere tutti gli uomini tra i 18 e i 60 anni fermi in colonna, davanti ai centri di reclutamento. Una procedura obbligatoria; per loro è vietato fuggire all’estero. E nel giro di pochissimi giorni si gioca il loro destino: magari restano a casa in attesa di una chiamata, magari finiscono subito in prima linea a combattere.

Fra i Libri di Paolo A. Dossena

Putin. L’ultimo Zar da San Pietroburgo all’Ucraina, Nicolai Lilin, Piemme, terza edizione aggiornata, 2022 (anche in edizione Kindle) «Chi è davvero il nuovo zar di tutte le Russie?». La risposta alla domanda di Nicolai Lilin è nella domanda stessa: si tratta di Vladimir Putin, il «restauratore» dell’impero russo. Lilin, pseudonimo dello scrittore russo Nicolai Verjbitkii – che nasce romanziere – è una fonte autorevole che gode anche di una voce sull’«Enciclopedia Treccani». Di origini siberiane, Lilin è nato nel 1980 in Transnistria, una regione di quella Moldavia che è diventata indipendente da Mosca nel 1991. Dopo aver combattuto nell’esercito russo in Cecenia, nel 2004 si è trasferito in Italia, dove vive tutt’ora – a Milano – e dove, nel 2009, ha pubblicato il romanzo Educazione siberiana, cui sono seguite numerose altre opere. Nella terza edizione aggiornata della sua biografia di Putin, edita il 12 marzo 2022, Lilin approfondisce il rapporto del capo russo con l’Ucraina, invasa il 24 febbraio. Il nuovo capitolo non è né un espediente editoriale né un corpo estraneo, è coerente con quanto Lilin ha scritto nelle precedenti edizioni, nelle quali erano previsti sia i possibili sviluppi della situazione Ucraina – nel cui Donbass la guerra durava dal 2014 con migliaia di morti – sia il fatto che Putin potrebbe essere eliminato dalla nomenclatura. Nell’ultima edizione Lilin precisa le sue previsioni: l’autocrate è destinato a uscire di scena entro tre anni. Invece la crisi interna Ucraina è diventata internazionale perché «nel mondo orientale i valori di riferimento sono diversi da quelli occidentali» e i leader dell’ovest non ne hanno tenuto conto. Se «fossero stati più attenti, avrebbero capito le intenzioni del capo russo, avrebbero scongiurato il disastro» con la diplomazia. Putin aveva infatti «deciso da un pezzo l’attacco all’Ucraina». Le sue continue esercitazioni militari erano un messaggio all’Occidente: «Noi abbiamo bisogno di un cambio della vostra rotta politica. Non potete usare contro di noi soltanto le sanzioni, la forza e la Nato. Trattateci in maniera adeguata». Ma l’Occidente «è stato miope e inattivo nella guerra nel Donbass». Quanto a Putin, questi è in balia della «tossicità del potere assoluto» ed è circondato da gente che gli racconta quello che vuole sentire, cosa che gli ha fatto perdere il contatto con la realtà e con i giovani (tra le generazioni più mature l’autocrate è ancora popolare). Poi c’è il problema degli Usa, che vogliono «imporre al mondo la propria egemonia economica e militare, espandendo la Nato fino alla soglia dei confini con la Russia, che si è sentita minacciata». E l’Ucraina? È un paese corrotto, dove «la nomenclatura ha cambiato semplicemente abito». In conclusione: Putin è un bruto, la sua guerra d’aggressione in Ucraina è un fallimento che ha «dimostrato l’incapacità russa di produrre una soluzione pacifica». Del resto la guerra è sempre un fallimento, «non produce alcuna soluzione». Ma è ovvio che il conflitto ucraino non è solo colpa sua: «La colpa è di tutti. Non ci sono innocenti in questa storia, se non i civili». Scritto come un romanzo, ma con l’affidabilità di chi conosce le cose, il libro di Nicolai Lilin è consigliato sia ai lettori non specialisti sia agli esperti.


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Settimanale di informazione e cultura

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ATTUALITÀ / RUBRICHE

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Con il Covid cresce la domanda di case di vacanza ◆

L’economia ticinese è un’economia sui generis. Questo perché l’andamento della stessa, a differenza delle economie normali, è influenzato, in modo significativo, dalle transazioni sul mercato fondiario-immobiliare. Negli anni a corrente normale, il mercato immobiliare ticinese registra tra le 4000 e le 4500 transazioni per valori dell’ordine dei 3,5-4 miliardi. È tanto o è poco? Tenuto conto del fatto che il Pil del Canton Ticino si aggira sui 30 miliardi di franchi il fatturato delle transazioni immobiliari rappresenterebbe qualcosa tra l’11 e il 13% dello stesso. Non è poco! Ancora più evidente diventa l’importanza economica di questi scambi quando si pensi che gli investimenti nelle costruzioni (che il nostro Ufficio di statistica definisce, in modo un po’ fuorviante, «spesa per le costruzioni») si aggirano, nel corso degli ultimi anni (2021 escluso) sui 3,1 miliardi di franchi. Questa lunga in-

troduzione per arrivare alla conclusione che le fortune dell’economia ticinese sono basate anche sull’andamento delle operazioni di compra-vendita di terreni e di immobili, un’attività che, come si è già ricordato, in altre regioni, invece, non ha che un’importanza secondaria. L’anno scorso, probabilmente in seguito alla pandemia di Covid, il mercato delle transazioni immobiliari è addirittura esploso. In effetti il numero delle transazioni è salito a più di 6000 mentre il valore delle stesse è aumentato a 5,8 miliardi di franchi. Tra il 2020 e il 2021, il numero e il valore delle transazioni immobiliari in Ticino, dopo un lungo periodo di stagnazione, sono aumentati del 31% (somma dei dati semestrali). Pensiamo che si tratti di un aumento eccezionale nella storia di questa statistica. Tanto più per il fatto che le possibili componenti interne della domanda di fondi

e di immobili, ossia la popolazione residente nel Cantone e i nuovi investimenti delle aziende sono aumentati di pochissimo. Le risposte al quesito da dove venga questo improvviso forte aumento della domanda di fondi e di immobili possono essere quindi solo due. La prima è che l’aumento sia da attribuire a una forte ripesa della speculazione fondiario-immobiliare. Potrebbe darsi, in un certo senso, che in seguito alla speculazione la domanda si espanda, per cascate di vendite, da sola. Ma i fondamentali del mercato fondiario-immobiliare ticinese non sono tali da giustificare questa ipotesi. Troppe sono ancora le abitazioni vuote che non trovano né compratori, né inquilini (più di 7000 nel 2021). Scartiamo quindi questa spiegazione. La spiegazione alternativa è che il grande balzo avanti della domanda fondiario-immobiliare, nel 2021, sia da attribuire a una ripresa della

domanda esterna al Cantone, la domanda, per intenderci, che converge sul mercato delle residenze secondarie (case e appartamenti di vacanza). Le restrizioni imposte dalla lotta contro il Covid 19, le nuove possibilità di lavoro offerte dallo home-office, da un lato, il sensibile aumento del tasso di inflazione, unito ad aspettative poco positive per quel che riguarda l’evoluzione della borsa, dall’altro, nonché, infine, il permanere di tassi di interesse bassi, hanno probabilmente spinto, lo scorso anno, più di una famiglia svizzero-tedesca a considerare un investimento nell’immobiliare per le vacanze in Ticino come una variante di investimento interessante. Sono aspetti della fuga verso valori sicuri che si ripresentano ogni qualvolta l’economia mondiale conosce difficoltà. È molto probabile che il fenomeno si riproduca quest’anno, sostenuto anche dalle conseguenze della guerra

in Ucraina. Ovviamente la pressione della domanda ha fatto salire i prezzi. A livello nazionale si parla di un rincaro delle residenze secondario, nel 2021, del 9%. Per il Ticino non esistono statistiche in proposito. Possiamo comunque stimare il rincaro che si è manifestato lo scorso anno sul mercato fondiario-immobiliare calcolando l’aumento relativo del valore medio per transazione. Tra il 2020 e il 2021, dopo almeno quattro anni di stagnazione, questo valore è aumentato del 15,4%. A Davos, nella stagione invernale di quest’anno, si faceva pubblicità per l’acquisto di residenze secondarie con lo slogan «Dallo home-office alla pista di sci nella pausa di mezzogiorno». È possibile che uno slogan analogo («dallo home office alla pista di mountain bike nella pausa di mezzogiorno», per esempio) appaia anche in Ticino, durante la prossima stagione estiva.

Affari Esteri

di Paola Peduzzi

Boris Johnson, la multa e la guerra ◆

Il «partygate» è uno scandalo vischioso che resta appiccicato alla leadership britannica anche quando questa fa di tutto per scrollarselo di dosso. Lo scandalo riguarda le feste che il premier Boris Johnson ha organizzato nella sua residenza a Downing Street durante il lockdown anti-Covid, quando gli assembramenti erano vietati. La scorsa settimana sono arrivate le multe, che potrebbero essere soltanto l’inizio della resa dei conti dentro le istituzioni, ma che intanto conservano un altro misero primato: è la prima volta che un premier in carica riceve una sanzione di questo tipo. Il problema non è tanto la multa in sé, che è stata prontamente pagata con molte scuse pubbliche, sia da parte di Johnson e di sua moglie Carrie, sia da parte del cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak. Il problema sono le bugie. Il premier aveva inizialmente negato che quelle feste ci fossero state. È

stato smentito dalle foto che testimoniavano non una, ma parecchie feste. Poi ha cambiato versione sul proprio coinvolgimento: prima ha dichiarato che non ne era al corrente, poi ha ammesso di sapere delle feste (avendoci partecipato era difficile sostenere il contrario), infine ha affermato che non sapeva di essere in violazione delle regole (misure che erano state introdotte dal suo stesso governo). Buona parte di queste dichiarazioni è stata fatta in Parlamento, quindi il premier ha mentito davanti ai Comuni, cosa che non solo è politicamente sbagliata (sulla morale non ci esprimiamo), ma è a sua volta una violazione delle regole di condotta istituzionali, nonché una buona ragione per chiedere le dimissioni del premier e anche del cancelliere dello Scacchiere. Infatti tutta l’opposizione sta chiedendo a Johnson di andarsene. La multa ha cancellato il consenso che il premier ha conquistato con la sua ge-

stione della guerra. Ed è un peccato, perché la guida britannica in questa fase potrebbe essere decisiva nel tenere compatto e determinato il fronte occidentale contro la Russia. Londra aveva iniziato ancora prima dell’invasione in Ucraina a inviare armi e ha continuato a farlo (in proporzione spende di più di tutta l’Ue nel sostegno all’offensiva ucraina), così come si è occupata negli ultimi anni di contribuire alla formazione «occidentale» dell’esercito di Kiev, cose che si sono rivelate fondamentali nel governare la dinamica di questa prima fase di guerra. Johnson si è intestato la battaglia per dare tutti gli strumenti militari necessari all’Ucraina – comprese le armi letali, compresa l’idea di creare basi permanenti ai confini ucraini che potrebbero entrare in azione rapidamente – in contrasto con molti colleghi che sul riarmo, come i tedeschi, si tormentano parecchio e si impantanano. Ma si è anche intesta-

to la battaglia valoriale: molti dicono che Johnson ambisce a essere il Churchill del momento e per questo viene considerato un po’ mitomane. Non sarà Churchill – i paragoni storici in questo periodo sono molto delicati – ma certo dice le parole giuste. Ricorda che la guerra in Ucraina è una guerra contro la libertà, fa dire ai suoi ministri che il fronte delle democrazie va difeso con tutti i mezzi che si hanno a disposizione e Ben Wallace, capo del Dicastero della difesa, ribadisce: Putin è forte sì, ma noi siamo tanti, lui è solo. E questa solitudine, alla lunga, può fare tutta la differenza del mondo. Lo slancio inglese nella gestione della guerra dal punto di vista internazionale è potente e indispensabile. Questo fa dire anche agli europei, che pure sono ancora offesi e feriti dalla Brexit, che non si può fare a meno della leadership di Johnson, come lo dice anche il presidente ucraino, Vo-

lodymir Zelensky, che ha passeggiato con il premier inglese nel centro di Kiev e ha dichiarato che è quello il volto della democrazia e delle alleanze salvifiche. Molti inglesi invece osservano che questo è il loro spirito. Johnson lo incarna bene, ma anche un altro leader lo farebbe, e magari non avrebbe i difetti del premier, in primo luogo la tendenza a raccontare bugie. Quindi se lui si dimette non cambierebbe nulla per quel che riguarda la guerra. I Tory, che sono il partito del premier e hanno una maggioranza ampia ai Comuni, non ne sono così convinti: è dall’inizio del «partygate», ormai cinque mesi fa, che sono divisi e indecisi. Lavorano a una congiura di palazzo ma ne temono gli effetti. Probabilmente aspetteranno le elezioni suppletive previste per maggio per vedere come va davvero il consenso del premier. E forse, ancora una volta, perderanno l’attimo e Johnson continuerà a fare la guerra.

Zig-Zag

di Ovidio Biffi

Vini del Mendrisiotto e di Odessa ◆

A Sagno, chi percorre la strada vecchia che scende a Vacallo, in località Fenestro incontra due case: una di inizio 900 rinnovata, l’altra moderna. Nella prima anni fa, e per qualche mese, ha vissuto il pianista Arturo Benedetti Michelangeli, prima che si trasferisse a Pura: vivendo in paese, spesso l’ho immaginato al pianoforte, ispirato e coinvolto da un panorama tra i più spettacolari del Mendrisiotto (da lassù si «godono» albe, tramonti e anche certi temporali sulla pianura padana). Nell’altra dimora, situata un po’ più a monte, ha cresciuto la sua famiglia Meinrad Perler che oggi a Genestrerio, dove ha sede l’azienda, produce vini nobilitati di recente da uno dei più prestigiosi riconoscimenti che l’enologia contempla: punteggi di eccellenza dagli esperti Parker su «The Wine Advocate», rivista specializzata che interagisce

(come leggo su un sito di enologia) «direttamente con le possibilità commerciali delle più importanti riviste mondiali di vino (…) con un sistema di valutazione che parte da una base di 50 punti. A seconda della qualità, intensità e diversità aromatica del vino, il punteggio viene aumentato di un massimo di 15 punti. La profondità e l’equilibrio del vino in bocca possono aumentare di altri 20 punti. Infine, qualità complessiva e potenziale futuro determinano il punteggio finale. I vini che segnano tra 90 e 100 punti sono vini eccezionali». Ed è proprio in questo segmento che tre vini di Meinrad Perler sono stati collocati, con una punta di 94 punti per il Merlot – Riserva Tenimento d’Ör. Sulle prime mi viene spontaneo un «E sü medaj», come si usa dire nel Mendrisiotto al cospetto di un meritato riconoscimento, anche se non

posso escludere che (mi affido alla mia beata ignoranza) altri vinattieri o altri merlot del cantone siano già stati inseriti nelle classifiche Parker. Poi, ricordando che Meinrad Perler agli inizi degli anni Ottanta aveva esordito come vinattiere acquisendo ad Arzo il tenimento d’Ör, un vigneto la cui storia risale sino alla fine del Settecento, approdo a uno strano parallelo: collego la quiete bucolica del tenimento e del giardino ampelografico creato alle pendici del San Giorgio con l’insensata e brutale invasione dell’Ucraina, unendo un tenimento del Mendrisiotto con uno della regione di Odessa. Non sto vaneggiando, semplicemente seguo un fil-rouge scoperto lo scorso mese leggendo sul sito web di Infosuisse un articolo che iniziava con queste parole: «Sarebbe un momento di celebrazione, se non ci fosse la guerra. Sono passati 200

anni da quando un gruppo di svizzere e svizzeri fondarono la colonia di Shabo, in Ucraina. Poi, durante la Seconda guerra mondiale, dovettero andarsene. Ma la cultura elvetica del vino vi perdura». La cittadina di Shabo è situata nella regione che collega il Donbass con la Crimea, ossia proprio sulle terre che i russi intendono colpire per tagliare all’Ucraina l’accesso al mare. È qui che 200 anni fa, dopo un periglioso viaggio di oltre 2000 chilometri, un gruppo di una trentina espatriati vodesi decise di stabilirsi presso la laguna dell’estuario del fiume Nistro (Dniestr). Superate drammatiche vicissitudini iniziali, i coloni svizzeri hanno trasformato la loro colonia nel più importante tenimento vinicolo sul Mar Nero, arrivando a produrre anche il miglior cognac dell’Ucraina (il sito web «http://shabo.ua/en» ricorda la storia dei coloni

elvetici e dispensa conferme di questa fiorente azienda, proposta anche come attrazione turistica). Le immagini delle brutali distruzioni che l’esercito di Putin sta causando oggi in quelle terre rendono improponibile un paragone fra il dramma di milioni di profughi ucraini che stanno fuggendo in Occidente e l’avventura di due secoli fa di un manipolo di nostri compatrioti, costretti anche loro a espatriare ma per ben diversi motivi. Una differenza ribadita anche dalle parole trasmesse in patria da Louis Tardan, la guida che nel 1822 comandava quel gruppo di emigranti vodesi verso l’Ucraina: «Se volete vedere il Paradiso in terra, non c’è posto migliore di questo». Le evochiamo nella speranza che dopo due secoli anche la Svizzera e il Ticino possano apparire così a tanti degli ucraini che arrivano da noi.


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Anno LXXXV 19 aprile 2022

BUON GIORNO

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CULTURA ●

Intervista a Daniele Gatti Incontro con il Direttore d’orchestra della Mozart che domenica ha suonato al LAC

La storia di Paul Grüninger Il coraggio del poliziotto sangallese che salvò la vita agli ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste

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Génie la Matta Al centro del romanzo di Inès Cagnati uscito per Adelphi il difficile rapporto madre figlia

La questione dell’ucraino Una riflessione indaga origini e sviluppi della lingua ucraina e il suo rapporto con il russo

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La natura ripensata ad arte

Mostre ◆ La riflessione sul rapporto tra uomo e ambiente è al centro di una collettiva di artisti Alessia Brughera

C’è un termine che dall’inizio del nuovo millennio si è fatto prepotentemente strada nei dibattiti scientifici e intellettuali: Antropocene. Si tratta dell’attuale epoca geologica in cui la Terra, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene condizionata in maniera profonda e su scala globale dagli effetti dell’azione umana. La consapevolezza di essere giunti a una sorta di punto di non ritorno si è tradotta negli ultimi anni in un atteggiamento più rispettoso nei confronti della natura. Temi quali il cambiamento climatico e la sostenibilità ambientale sono oggi molto sentiti e ci spingono a trovare modelli di comportamento alternativi e più virtuosi. Una nuova coscienza, questa, che si sta manifestando anche nell’arte, poiché l’inquietante scenario di crisi del rapporto tra uomo e ambiente non coinvolge solo la natura stessa ma altresì la possibilità di poterla percepire e rappresentare. Un prezioso spunto per capire come gli artisti contemporanei interpretino questo complesso legame ci è offerto dalla mostra ospitata negli spazi del Museo Villa dei Cedri a Bellinzona. A essere posto al centro dell’attenzione è il mondo vegetale, attraverso uno stimolante dialogo tra arte e botanica (con un occhio di riguardo per gli erbari antichi e moderni) in cui le ricerche estetiche degli autori chiamati a esporre costituiscono un valido punto di partenza per una rilettura della società odierna connessa alle questioni ambientali. Oscillando tra interesse scientifico e visioni utopistiche, gli artisti indagano la difficile coabitazione tra natura e società industrializzata, riflettono sulla relazione tra realtà e artificialità, esplorano l’impatto dell’uomo sul clima e sul territorio e i concetti di memoria, di preservazione e di ricostruzione delle forme di vita vegetale. «Credo che ci stiamo riprendendo da un processo secolare di oggettivazione del regno della natura», ci racconta Alan Butler, artista irlandese, classe 1981, presente con alcuni lavori a Bellinzona. «Ciò è avvenuto attraverso la creazione di immagini che semplificano il vero stato dell’universo. Il modo in cui oggi vediamo il mondo è totalmente connesso ai sistemi tecnologici ed economici emersi dalla rivoluzione industriale. La natura si è evoluta in qualcosa che è una risorsa “per” gli esseri umani ma che rimane separata “dagli” esseri umani. In questo momento siamo all’inizio di una trasformazione radicale di coscienza del nostro ruolo nell’ecosistema planetario: il cambiamento climatico ci sta co-

stringendo a pensare alle nostre azioni in termini di distanze temporali molto lunghe. La via da seguire può essere solo quella di appoggiarci a tale trasformazione e abbracciare i nostri intrecci ecologici con le entità non umane della Terra». Tra le opere che Butler espone in mostra troviamo la serie dal titolo Virtual Botany Cyanotypes. Per realizzare questi lavori l’artista ha esplorato la natura presente all’interno di vide-

Qui sopra, Francine Mury Aurum 1, 2018, acquatinta, 38 x 38 cm (Courtesy the artist). A lato, Thomas Flechtner News, 2012, litografia, 45 x 33 cm, Museo Villa dei Cedri, Bellinzona. Sotto, Alan Butler, HOLLYSHRUB01_D, 2019, cianotipia unica, 91 x 61 cm (© the artist).

ogiochi e ambienti di realtà virtuale, legittimandone l’esistenza tramite le metodologie scientifiche abitualmente riservate alle piante del mondo reale. «Estraggo le immagini di alberi, fiori, foglie, rami ed erbe dal database del gioco e poi le espongo alla luce del sole su una carta fotosensibile che è stata preparata a mano per il processo cianotipico», spiega l’artista. «Questa tecnica fotografica è stata sviluppata per la prima volta nella metà del XIX secolo ed è divenuta molto famosa perché botanici come Anna Atkins l’hanno usata per documentare la vita vegetale. Con queste opere ho catalogato l’evoluzione della rappresentazione della natura nei videogiochi dagli anni Settanta a oggi, creando una sorta di erbario ibrido sospeso tra l’ambiente fisico del nostro pianeta e la sua ricostituzione nell’universo digitale». Anche per Thomas Flechtner, artista originario di Winterthur e attivo tra Vallière e Zurigo, il recupero della minata armonia tra individuo e ambiente può partire soltanto dalla piena consapevolezza del nostro ruolo all’interno dell’ecosistema del pianeta. Uno dei principali temi che affronta con i suoi lavori è il rapporto tra il desiderio umano di dominare e possedere la natura e la tenace vitalità che caratterizza il regno verde. Nella serie News, di cui a Bellinzona sono esposte due opere, Flechtner indaga le tracce lasciate dall’uomo sull’ambiente nel corso del tempo, sollevando dubbi e riflessio-

ni sulla supremazia antropica. «Queste fotografie riproducono le pagine di giornali internazionali su cui ho sparso e annaffiato semi provenienti da diversi paesi. Lentamente ma inesorabilmente le notizie sulle riviste si sono sbiadite e sono state invase dalle piante germogliate dai semi stessi. Il microcosmo vegetale che si è sviluppato sulle pagine stampate diventa così metafora del costante riaffermarsi della natura nonostante l’invadenza dell’uomo», racconta Flechtner. Se l’essere umano sta dimostrando di poter modificare i sistemi fondamentali del pianeta e di avere una decisiva influenza sull’ecologia globale, la natura, da parte sua, rivela una grande capacità di difesa e

di resistenza. «Penso che sia necessario ritrovare una condotta più attenta e premurosa nei confronti dell’ambiente, cercando di vivere e godere una vita semplice. L’uomo deve incominciare seriamente a meditare sui propri comportamenti e sulla propria supposta superiorità. La natura è molto paziente, forte e perseverante. E ha il respiro più lungo dell’umanità», afferma Flechtner. Quanto poi la natura per alcuni artisti diventi l’anima stessa dell’opera lo dimostra il lavoro della ticinese Loredana Müller, che, in perfetta simbiosi con l’ambiente, utilizza esclusivamente materie prime ricavate da sostanze minerali e vegetali. Una pratica, questa, che si basa sull’estremo rispetto del mondo naturale e sulla profonda conoscenza dei suoi ritmi. «Alla base del mio lavoro c’è un’identificazione tra uomo e natura», spiega l’artista. «Come direbbe l’ecosofista Arne Naess, bisogna accorgersi che siamo delle “creaturalità” come lo sono i nostri monti, fiumi e laghi. Penso che sia necessario coltivare una forma di intesa con tutto ciò che ci circonda. Nella mia dimensione del fare cerco di recuperare questa armonia, che è voce antica nell’umano. Considero l’alleanza con gli elementi la via maestra. Riecheggiano nella mia mente come un mantra le parole di Marguerite Yourcenar, la quale scriveva che siamo acqua, amica e sorella dell’aria, e una manciata di minerali. Fare arte è per me ascoltare il ter-

ritorio, riconoscerlo e rispettarlo. È un continuo dialogo con i cicli, gli strati, l’anima della geologia». Raccogliere, essiccare, polverizzare, sciogliere, coagulare… Sono tanti i passaggi che trasformano un fiore, una radice, un picciolo o la scorza di un frutto in elementi con cui dipingere. È un’attività lenta e quotidiana, dal carattere quasi liturgico, che per l’artista non è finalizzata solo a predisporre ciò con cui dar vita ai propri lavori, ma diventa la loro vera essenza, parte integrante del significato che racchiudono. «Amo le tecniche pittoriche, i ricettari antichi, le conoscenze delle botteghe», rivela la Müller. «Mi sono nutrita di questi materiali tanto quanto della letteratura artistica. Posso pensare a un Cennino Cennini, a un de Chirico, a un Pontormo ma anche a un Philip Ball. Questo modo di operare genera un tempo sospeso dove aloni, odori e possibilità sono sostanza per lo spirito, si uniscono a un ritmo interiore e di prassi costante che alimenta il pensiero come continua oscillazione. La mia pratica mi permette di vivere quella libertà a stretto contatto con la natura che costituisce un percorso infinito di conoscenza». Dove e quando Icone vegetali. Arte e botanica nel secolo XXI, Museo Villa dei Cedri, Bellinzona. Fino al 7 agosto 2022. Orari: me-gio 14:00-18.00; ve-do e fest. 10.0018.00. www.villacedri.ch


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CULTURA

La Mozart è tornata a suonare al LAC Musica

Intervista al Maestro Daniele Gatti, a Lugano per dirigere l’Orchestra Mozart

Enrico Parola

A Pasqua Lugano ha calamitato le attenzioni dei musicofili di tutta Europa: al LAC è tornata ad esibirsi la Mozart, l’ultima orchestra creata da Claudio Abbado, cui il maestro milanese dedicò i suoi ultimi dieci anni di vita. Due sole serate: a Pasquetta a Bologna, città dove l’orchestra nacque nel 2004. Con la morte di Abbado, nel 2014, rischiò di concludersi l’esperienza della Mozart, ma dopo due anni riprese a tenere i concerti, sotto la guida di Bernard Haitink. Anche allora accanto a Bologna ci fu Lugano: merito del direttore artistico di Lugano Musica, Etienne Reymond, e forse del legame tra Abbado e la Svizzera, con gli indimenticabili concerti a Lucerna dedicati alle sinfonie di Mahler e Bruckner. Ora a raccogliere il testimone di Abbado è Daniele Gatti, sessantenne milanese e stella di prima grandezza nel firmamento concertistico internazionale: è salito sui podi delle orchestre più prestigiose, dai Wiener Philharmoniker alla Boston Symphony, dalla Staatskapelle di Dresda alla Orchestre Nationale del France, di cui è stato direttore musicale; incarico ricoperto anche alla Opernhaus di Zurigo, alla Royal Philharmonic di Londra, all’Opera di Roma e attualmente del Maggio Musicale Fiorentino. Oltre che della Mozart, dopo aver guidato anche un’altra orchestra di Abbado, la Mahler. Maestro, che rapporto aveva con Abbado? Quando ero studente dirigeva concerti memorabili alla Scala; non avevo rapporti particolari con lui, ma ovviamente era un riferimento artistico. Però quando tenni i primi concerti un amico mi riportò i suoi saluti: pensavo non sapesse neppure che esistessi, invece scoprii che mi seguiva, seppur con la sua tipica discrezione. Ha diretto le migliori orchestre al mondo; che esperienza è guidare la Mozart?

Daniele Gatti, classe1961, in uno scatto informale. (Keystone)

Diversa, perché diversa è questa realtà. È formata da prime parti delle migliori orchestre europee, che si riuniscono per il puro gusto di suonare assieme, tra amici. Non tutti i membri attuali hanno suonato con Abbado, ma è rimasto il suo modo di lavorare, il suo spirito: ascoltarsi l’un l’altro e una grande gioia nel fare musica. Poi, ovviamente, quan-

Con «Azione» al LAC «Azione» mette in palio alcuni biglietti per il concerto dell’Orchestra della Svizzera italiana diretta da Markus Poschner con Francesco Piemontesi al pianoforte previsto al LAC di Lugano giovedì 28 aprile 2022. Saranno eseguite musiche di J. Brahms e R. Schumann. Per partecipare al concorso inviare una mail con oggetto «Piemontesi» all’indirizzo giochi@azione.ch con i propri dati (nome, cognome, indirizzo, numero di telefono) entro le 24.00 di mercoledì 20 aprile 2022.

do l’ha diretta Haitink non suonava come con Abbado, perché ogni direttore dà il suo stile. E così è con me; se mi avessero chiesto di replicare quello che faceva Claudio non avrei accettato, non avrei mai voluto scimmiottarlo, voglio proporre ai musicisti la mia visione della musica. Lei ha l’agenda congestionata; perché ha scelto di guidare la Mozart? Perché me lo hanno chiesto; anzi, perché me l’aveva chiesto, indirettamente, Abbado stesso; negli ultimi tempi aveva espresso il desiderio che fossi io a riceverne il testimone: «Vorrei che vi prendesse Daniele» aveva confessato ai musicisti. Che significato ha avuto questo concerto a Lugano? Enorme, perché avevo accettato l’incarico nel 2019, ma poi era scoppiata la pandemia e quindi prima di Lugano avevamo fatto solo due concerti insieme. Non è un’orchestra stabile: si guardano le agende, si vedono le disponibilità mia e dei musicisti e poi si pianificano concerti e tournée.

Quanto l’ha segnata questo tempo di pandemia? Molto, come tutti i musicisti e in generale tutti gli uomini. Da un giorno all’altro ci siamo ritrovati con i teatri chiusi e l’attività sospesa, senza sapere quando e come si sarebbe ricominciato. In Italia fui il primo a suonare dopo il lockdown, il 2 giugno nei giardini del Quirinale, davanti al presidente Mattarella, con l’orchestra dell’Opera di Roma: fu un momento indimenticabile, come rimarranno ricordi indelebili anche i concerti che abbiamo tenuto in seguito. Senza pubblico, poi con le persone distanziate e anche noi sul palco a distanza, con le mascherine e le barriere in plexiglas tra gli strumenti a fiato; ma andava fatto, quelle erano le circostanze e l’alternativa era tra il ritirarsi dalla realtà o viverla per come si poteva e soprattutto con il desiderio di bellezza che anima il nostro essere musicisti. Non giudico la resa artistica, ma sicuramente in quei mesi abbiamo suonato col cuore; saremmo andati avanti anche se avessimo dovuto suonare a 5 metri l’uno dall’altro. Oggi a che punto del suo percorso artistico è arrivato? A saperlo… Direi che mi sembra di iniziare a capire qualcosa della musica; ma lo pensavo anche venti, trent’anni fa, e probabilmente anche quando ero ai primissimi concerti; il 3 maggio saranno 42 anni dal mio debutto ufficiale sul podio. Non sono affermazioni contraddittorie: quando ero più giovane capivo quel che potevo della vita e la comprensione della musica era adeguata alla maturità della persona; poi le tante esperienze, belle e dolorose, anche molto dolorose, hanno cambiato il modo di vedere la realtà, sé stessi e quindi anche la musica. È cambiato anche il suo modo di dirigere? All’inizio, atteggiamento credo tipicamente giovanile, forse vole-

vo mostrare le mie capacità, volevo sì trasmettere il pensiero di un compositore, ma allo stesso tempo ci tenevo a mostrare la mia bravura, dimostrare le mie idee, trasmettere tutta l’energia che sentivo dentro. Poi col tempo si impara sempre più a farsi trasparente alla verità di una musica. A Lugano ha diretto l’ouverture da Le creature di Prometeo, il Triplo Concerto e la settima sinfonia di Beethoven: come si è evoluto il suo rapporto col genio di Bonn? Penso che sia un autore con cui riesco a esprimere bene la mia indole: non sono un conservatore, sono un rivoluzionario. Non posso accettare che si suoni in un certo modo perché lo si è sempre fatto. Io sono nato con la Pastorale: mia mamma l’ascoltava sempre quando ero nella sua pancia. Quasi tutti eseguono le prime battute del primo movimento e le ultime di quello finale con un rallentando; mi è capitato di lavorare anche due minuti su due note perché l’orchestra suonasse a tempo. L’inizio è il trasferimento di Beethoven in carrozza da Vienna a Heiligestadt, un viaggio diretto; solo l’ultima nota ha una corona, che esprime lo stupore del cittadino quando esce dall’abitacolo e si trova immerso in un mondo di fragranze, colori, di aria pulita. E i due colpi finali del corno non vanno rallentati: è il chiudersi del libro in cui Beethoven, smessi i toni del Titano che afferra il destino per il collo, passeggia con noi da uomo a uomo. Con lei anche la settima sinfonia non suona prometeica… Tanti eseguono il primo movimento in modo scultoreo, invece è una danza gioiosa; il secondo movimento non è una marcia funebre, è sì un anti-climax rispetto a quanto ascoltato prima, ma comunque un Allegretto. E il finale, se eseguito troppo velocemente e violentemente, diventa un frullatore. Annuncio pubblicitario

Fare la cosa giusta

Quando la povertà mostra il suo volto Leggete la storia di Youssef: caritas.ch/youssef-i

Youssef Ghanem, 43 anni, Libano, sprofonda sempre più nella povertà a causa del crollo dell’economia.


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CULTURA

Paul Grüninger «Giusto tra le nazioni» Personaggi

La storia del poliziotto sangallese che salvò le vite di centinaia di ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste

Benedicta Froelich

Negli ultimi anni, grazie anche all’interesse dei media, sono finalmente stati portati all’attenzione del pubblico internazionale nomi sovente misconosciuti: quelli di tanti eroi dimenticati, responsabili della salvezza di migliaia di ebrei e altre minoranze perseguitate dal regime nazista durante la Seconda guerra mondiale. Una salvezza spesso pagata a caro prezzo, dal momento che questi individui coraggiosi rischiarono tutto pur di rimanere fedeli ai propri ideali. Anche la neutrale Svizzera avrebbe offerto al mondo prove di grandissima integrità morale, come nel caso di Paul Grüninger, un nativo di San Gallo oggi incluso nella lista dei «Giusti tra le nazioni» stilata dallo Yad Vashem, l’Ente Nazionale per la Memoria della Shoah.

Oltre all’eterna gratitudine che la storia gli ha tributato, rimane, a imperitura memoria dello «Schindler svizzero», la Fondazione Paul Grüninger Paul era nato nel 1891, e dopo una parentesi come insegnante (e perfino calciatore, cofautore della vittoria dell’SC Brühl St Gallen ai Campionati Svizzeri del 1915), decise di diventare servitore dello Stato ed entrare così in polizia. Nel 1925, il Tenente Grüninger era già stato nominato comandante; e da quel momento in poi, la sua vita avrebbe preso una direzione apparentemente tranquilla e quasi banale – sposato e padre di due figlie, Paul era rispettato dai colleghi, pur non apparendo come un personaggio particolarmente degno di nota; e forse fu proprio questo a rendere le sue azioni ancora più straordinarie quando, con l’inizio delle ostilità che precedettero lo scoppio della Seconda guerra mondiale, la situazione sul confine svizzero si fece molto difficile e controversa. Infatti, benché la Confederazione fosse l’obiettivo più ovvio per i molti ebrei in fuga dalle sempre più draconiane leggi razziali entrate in vigore in Italia e Germania, dopo l’annessione dell’Austria da parte di Hitler, nel marzo 1938, venne presa la

decisione di inasprire le procedure d’ingresso al confine; dall’aprile di quell’anno, ogni rifugiato che desiderasse passare in Svizzera dalla vicina Austria doveva essere munito di un valido visto, mentre i passaporti di ogni cittadino ebreo residente nel Reich avrebbero recato un famigerato timbro distintivo. Tuttavia, con lo scoppio della guerra e l’inasprirsi delle atrocità perpetrate contro le minoranze ebraiche, sempre più profughi avrebbero tentato di entrare in Svizzera clandestinamente; e il Canton San Gallo si trovò confrontato a un flusso costante di fuoriusciti ebrei, destinati a essere respinti dalle guardie di confine, spesso le prime a rimanere sconvolte dall’ingrato compito assegnato loro, come molti diari d’epoca attestano. Tra coloro la cui vita venne indelebilmente segnata da tali ordini vi fu proprio il giovane capitano di polizia del canton San Gallo, Paul Grüninger. Nell’agosto del 1938, pochi mesi dopo l’entrata in vigore dei visti d’ingresso, Grüninger prese la parola durante la conferenza dei direttori di polizia cantonali, dichiarando che riteneva eticamente inconcepibile vietare l’entrata ai profughi provenienti dal resto d’Europa; nonostante ciò, la Confederazione decise infine di negare l’ingresso nel Paese a qualsiasi rifugiato privo di visto, e Paul si ritrovò in una posizione assai poco invidiabile – lacerato tra quanto dettato dalla propria coscienza, istintivamente contraria a disposizioni da lui considerate come inumane, e il senso di dovere del poliziotto che aveva giurato di rispettare le direttive del proprio Paese. Non ci volle molto perché Grüninger facesse la sua scelta, mettendo a rischio ben più che la semplice carriera. Tra l’agosto del 1938 e la primavera del ’39, avrebbe di fatto piegato la legge ai propri principi, falsificando innumerevoli visti d’ingresso (così da farli apparire precedenti alla chiusura dei confini), oltre ad accettare senza alcun reale controllo documenti palesemente contraffatti. Non solo: collaborando con reti sotterranee di aiuto ai profughi e con l’Opera ebraica di assistenza ai rifugiati di San Gallo, Paul avrebbe procurato visti ai parenti

Ritratto di Paul Grüninger, 1971. Il 17 agosto del 1938 durante la Conferenza dei direttori cantonali di polizia, il comandante della polizia di San Gallo si batté affinché la Svizzera lasciasse aperte le frontiere. «È inammissibile respingere dei profughi, se non altro per ragioni umane. Dobbiamo accoglierne molti», insistette Grüninger, secondo quanto si legge nel verbale della seduta. (www. houseof switzerland.org) (Keystone)

di coloro che erano sfollati in Svizzera, e tentato di rintracciare chi era già detenuto a Dachau. In questo modo, si stima che abbia salvato dalla deportazione nei campi fino a 3000 profughi ebrei – una cifra impressionante, soprattutto considerando le condizioni precarie in cui Grüninger e i suoi associati operavano. Purtroppo, la situazione era destinata a precipitare: grazie a una soffiata, le attività clandestine di Paul vennero scoperte, e nel marzo del 1939, si ritrovò di colpo disoccupato, senza alcuna spiegazione da parte dei suoi superiori; venne inoltre condannato a pagare una multa di 300 franchi per falsificazione di documenti, accusa che, peraltro, non volle negare.

Privato perfino della propria pensione, il comandante di polizia sparì con umiltà dalla scena. Non avrebbe mai più avuto un impiego fisso. Ci vollero anni prima che la storia di Paul Grüninger divenisse nota al grande pubblico: ma infine, pochi mesi prima della sua morte, avvenuta nel 1972, lo Yad Vashem gli conferì il titolo di «Giusto tra le nazioni» (a oggi, sono una quarantina le persone di nazionalità svizzera incluse in questa lista). Eppure, fu solo negli anni ’90, in seguito alla pubblicazione di un libro inchiesta firmato da Stefan Keller, che Paul venne infine esonerato da ogni accusa formale mossagli dalla Confederazione: i suoi eredi, che tanto avevano sofferto per la caduta

in disgrazia del capofamiglia, avrebbero ricevuto un risarcimento di oltre un milione di franchi. Oggi, oltre all’eterna gratitudine che la storia gli ha tributato, rimane, a imperitura memoria dello «Schindler svizzero», la Fondazione Paul Grüninger, con sede, naturalmente, a San Gallo. Ma forse, al di là di film, documentari e toponimi in suo onore, il simbolo più autentico e sincero dell’eredità di Paul risiede in queste parole, preservate in uno scritto autografo conservato alla biblioteca cantonale della sua città natale: «…Si trattava di salvare persone la cui vita era minacciata. In tali circostanze, come avrei potuto preoccuparmi di mera burocrazia e numeri?»

per una passeggiata senza cappotto. Il vestito rosso è per la festa. E ti sta molto bene». Erano le nove del mattino e la carenza di sonno le impediva di essere lucida. O almeno così sperava. Sperava che fosse temporanea, che non fosse definitiva, quella sensazione di inadeguatezza alla luce del giorno. Il cielo azzurro, percorso da svelte nuvole bianche, le feriva gli occhi. La città pulsava luminosa e sporca. Pensò che il mattino, aggravato dal grido intermittente delle ambulanze bloccate nella morsa del traffico, non le aveva regalato quel senso di pagina bianca, di giornata da inventare, di gratitudine per il dono della vita che andava predicando da anni, a Sara, a Tom, e che, in tempi migliori, riusci-

va a somministrare anche a sé stessa. Non l’aveva preso, poi, il vestito rosso, che era rimasto poggiato sul tavolo della cucina, in una busta bianca. E non sarebbe andata alla festa. Non avrebbe rivisto il vecchio, e il vecchio sarebbe scomparso dalla sua autobiografia, come un episodio marginale e poco significativo, i soldi li aveva presi perché ne aveva bisogno. Doveva arrivare a casa, affrontare Tom, togliersi quella tuta sudicia di dosso, riprendere il suo telefono, cucinare qualcosa per Sara, nascondersi agli occhi del mondo, almeno finché perdurava quello scompiglio mentale che le impediva di stabilire la giusta gerarchia fra i suoi dolori e i possibili rimedi per curare quelli curabili. (29 – Continua)

Le nuove povertà Feuilleton

Il romanzo a puntate di Lidia Ravera per «Azione»

Lidia Ravera

Fanny sospirò: «Non hai questo potere, l’animale giovane ha più risorse di quanto il vecchio re della Giungla… con una zampa nella fossa… può anche soltanto immaginare. Se ha creduto che ti consultavi con la cara moglie morta prima di mettere a punto una delle tue cazzate vuol dire che è predisposta a credere qualsiasi cosa. O almeno a far finta di crederci. Ha fatto delle avances? Devo stare in pena per l’onore del tuo strumento di dominazione fallica? Come si è comportato il nostro valoroso Jack?» «Piantala. Non c’è stata nessuna avance, ci mancherebbe» «Forse se la aspettava da te. E si è offesa». Von Arnim si accorse che quella conversazione lo faceva sentire in

colpa. Come se stesse tramando alle spalle di Betta, per nuocerle. Decise di chiudere la telefonata, e per farlo assunse quello che Fanny aveva sempre chiamato «il tuo tono noioso». «Betta non è una stupida e ha certamente apprezzato la mia neutralità erotica. Jack si è comportato da galantuomo, come ormai da una decina d’anni, quindi piantala. Ora io andrò a dormire e mi sveglierò tardi, come sempre. E quando mi alzerò lei se ne sarà già andata. È uscita senza borsetta, quindi le lascerò, in cucina, sul vassoio del caffè, una busta con il necessario per un taxi…» Fanny lo interruppe. «Spero non per comprarselo, il taxi». «Smettila. Le lascerò 50 euro con

due parole gentili sul fatto che deve tornare a casa e fare pace con il suo compagno di sventura». «E se invece gliene lasciassi 500 e dessi a Jack una prova d’appello, magari lo rimetti in funzione… a me ha lasciato un buon ricordo». «Non ti rispondo neanche». Fanny rise di nuovo, compiaciuta. La seconda risata risultò più roca (si era accesa un altro cigarillo) e meno innocente della prima. Von Arnim chiuse la comunicazione prima che naufragasse nella tosse. Betta, seduta nel taxi che Thomas aveva chiamato per lei, lesse e rilesse ancora una volta il biglietto che il vecchio aveva accluso alla banconota da 50 euro. «Perdona questo gesto paterno. Non è l’ora migliore


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L’amore di Marie per la madre Génie Pubblicazione

Il difficile rapporto madre figlia al centro del romanzo di Inès Cagnati uscito per Adelphi

Per valutare la tenuta di un romanzo, il suo valore letterario, l’importanza stessa della sua esistenza non c’è criterio migliore e più inesorabile del tempo. Génie la matta (titolo originale: Génie la folle) è stato scritto da Inès Cagnati nel 1976 ed è valso all’autrice francese il Prix Des Deux Magots. La casa editrice Adelphi, fondamentale per la sua capacità di selezione e di edizione di testi ineccepibili, l’ha pubblicato in italiano quest’anno, con la traduzione di Ena Marchi. Il romanzo racconta la storia di due donne, unite nella solitudine e nella miseria: Eugénie, che dà il titolo al testo, e sua figlia Marie. Vivono in una casupola su una collina infestata dai cani e dalle volpi, in un solo letto, con una vecchia credenza, una cisterna e un tavolo con i piedi rosi dal tempo, per questo sostituiti da pietre. Marie è la figlia illegittima di Génie, che è stata violentata diciassettenne e cacciata di casa. Da allora si occupa di sé stessa e della sua bambina, lavorando instancabilmente nelle fattorie del villaggio, senza chiedere nulla in cambio se non del cibo e dei vestiti vecchi, da riadattare. I suoi compaesani, infatti, si approfittano di lei, della condizione di disgrazia in cui è precipitata senza aver commesso nessuna colpa, e dandole della matta, sfruttano le sue abilità e il suo essere una lavoratrice indefessa. Génie sa cucinare, coltivare la terra, si occupa

del taglio della legna e delle fascine, sa lavorare il maiale, mungere. Mentre tutti gli altri approfittano dell’ora di pausa dopo pranzo, a lei viene invece chiesto di uccidere i conigli malati, di pulire le verdure, di aiutare una vacca a partorire. La donna che apparteneva a una delle famiglie più rispettabili della regione è diventata una schiava, a causa dello stupro perpetrato su di lei. In Génie la matta il punto di vista del racconto è di Marie, la bambina, poi ragazzina, che adora la madre, come si può amare l’unica áncora che ci

tiene al mondo: non c’è nessun altro che la voglia, Eugénie è la sua unica possibilità di sopravvivenza e Marie per questo è terrorizzata, ogni momento, che la madre scompaia, che non la aspetti mentre vanno insieme a lavorare nelle fattorie e lei cammina troppo piano, che non torni a casa la sera quando rientra dopo essersi occupata della casa, dei figli e della stalla del sindaco. Il modo in cui questa paura dell’abbandono è raccontata è estremamente toccante: Cagnati utilizza una scrittura formulare, facendo ricorso alla ripetizione delle stesse espressioni, come accade nei racconti destinati all’oralità, così mentre Marie cerca di stare il più vicino possibile alla madre, incontriamo nel corso del testo ripetute volte la stessa identica risposta di Génie: «non starmi tra i piedi». L’intero romanzo è costruito sul racconto della relazione fondamentale tra madre e figlia, un topos della letteratura occidentale. Sono numerosi i testi che ne trattano: tra i più recenti in italiano si possono citare il romanzo di Carmen Totaro, edito da Einaudi Un bacio dietro al ginocchio, quello di Gaia Manzini Nessuna parola dice di noi per Bompiani, ma anche L’acqua del lago non è mai dolce, di Giulia Caminito, vincitore del Campiello 2021 o Settanta acrilico trenta lana, esordio pluripremiato di Viola Di Grado. Esistono, però, tra tutti questi ro-

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Laura Marzi

manzi e Génie la matta due differenze sostanziali: nei testi contemporanei citati le figlie provano sempre un sentimento di rivalsa, a volte di odio vero e proprio, nei confronti delle loro madri. Il confronto con loro, il dialogo, il banale affetto in questi testi risultano impossibili, mentre il romanzo di Cagnati sorge da un amore sconfinato di Marie per Eugénie. Forse quando la miseria, la necessità di un corpo da stringere nel letto gelato, del nutrimento materno sono aspetti fondamentali per la sopravvivenza non c’è spazio per il desiderio di rivalsa delle

ragazze borghesi. E un’altra differenza è la scrittura, lo stile poetico che connota la storia di Cagnati: «me ne stavo lì nella stanza chiusa, a contare l’attesa di lei, ripetendomi cose non vere e cose vere […] Avevo sempre voglia di dirle che la stavo aspettando, che ero così felice, così felice che fosse tornata anche quella sera, che le volevo bene. Ma il suo viso era pieno di silenzio». Bibliografia Génie la matta, Inès Cagnati, Milano, Adelphi, 2022. Annuncio pubblicitario

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Bilinguismo russo-ucraino, non sarà come prima Lingua

Una riflessione per capire storia, sviluppi e rapporti tra il russo e l’ucraino

Esiste una questione della lingua ucraina? In altri termini, il rapporto tra le lingue in Ucraina è un problema in più che si aggiunge ai già troppo numerosi di questa così tragica guerra? Ucraino e bielorusso derivano dalla scissione medievale di una base slavo-orientale russa, prima della quale russo, ucraino e bielorusso erano concretamente la stessa lingua. Ucraino e russo sono oggi reciprocamente molto intercomprensibili, come succede a gran parte delle lingue slave, almeno quelle di quell’area; in quel sistema, nell’ucraino è marcato un serbatoio lessicale polacco di qualche migliaia di parole, dovuto a questioni storiche antiche. Sempre questa lingua fu oggetto di un notevole travaglio. Il suo uso fu osteggiato negli ultimi decenni dell’Ottocento dall’impero zarista e, in forma estremamente tragica, nel periodo staliniano, epoca nella quale nacque e si sviluppò un sentimento simbolico del fattore linguistico come rivendicazione comunitaria e di opposizione al potere. Un ulteriore elemento riguarda il peso numerico di russo e ucraino in Europa. Russia e Ucraina sono il primo e il sesto Stato più popolosi d’Europa; sul piano continentale, il russo è la lingua con più parlanti e l’ucraino è di nuovo la sesta lingua più parlata; insieme le due lingue contano quasi duecento milioni di parlanti, un terzo circa di tutti i parlanti europei e il rus-

so è lingua di minoranza in molti Stati dell’ex blocco sovietico. Censimenti dell’inizio di questo millennio ci dicono che a fronte di una maggioranza etnica ucraina (sono escluse la Crimea e la città di Sebastopoli in particolare), quasi un sesto dei parlanti attribuibili al gruppo etnico ucraino ha il russo come lingua madre mentre il gruppo russo è quasi esclusivamente russofono; nonostante ciò quasi la metà degli ucraini dichiara buone competenze di russo e più della metà dei russi analoghe competenze di ucraino. Secondo altre fonti, nella pratica quotidiana il russo sarebbe usato da quasi due terzi dei parlanti e più di quattro quinti lo saprebbero parlare. Di fatto, in Ucraina si è consolidata una situazione storica e quasi esemplare di convivenza plurilingue seppure a fronte di una rilevante complessità sociolinguistica interna. I gruppi etnici e gruppi linguistici non sono esattamente sovrapponibili e semplificabili, e si hanno cittadini considerati ucraini ma che parlano russo (come lo stesso presidente Zelensky) e viceversa. Come osserva Ludovica Grossi nella sua tesi La questione linguistica in Ucraina «la propria lingua madre, per molti cittadini ucrainofini come per quelli russofoni, non rappresenta un ostacolo all’identificazione con la nazione ucraina». Di fronte a una lingua russa che sarà, come spesso succede, minoritaria sul piano nazionale, ma

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Stefano Vassere

che è pesantemente presente su quello internazionale e in cotanto Stato nazionale, la lingua ucraina non può infine garantire una tradizione culturale pari a quella russa. Soprattutto non dispone di un apparato editoriale e massmediatico accreditato e diffuso, tantomeno di un valore di scambio nei rapporti commerciali e politici con gli Stati esteri e le organizzazioni internazionali, concedendo in questo senso ampi margini di competenza all’ingombrante lingua vicina. Dal punto di vista delle pratiche linguistiche quotidiane e anche pubbliche non c’è un problema di coesistenza tra le lingue, anche se i periodi di repressione generarono spesso rivendicazioni linguistiche a fine politico, producendo per esempio una tra-

dizione folklorica (canti e letteratura orale) deliberatamente e fieramente ucrainofona. L’azione governativa si esprime per contro in atteggiamenti politici e normativi successivi di un certo rilievo: misure di tutela del russo conseguenti a l’adesione alla Carta europea delle lingue regionali e minoritarie; una legge del 2012 di promozione delle lingue minoritarie stesse e in pratica del russo nelle regioni dove è lingua madre di almeno il 10% della popolazione (quasi la metà); discussi tentativi di ridimensionare o abrogare questa norma; infine una legge del 2019 che mette in discussione tutto l’apparato normativo precedente e promuove l’ucraino esclusivo negli usi pubblici e statali, nell’istruzione, nei media.

Quanto visto, richiamando quanto anticipato qui in apertura, consiglia prudenza nel configurare la questione come una possibile concausa di questa brutta guerra. Tolte le strumentalizzazioni e non irrilevanti problemi politici, il bilinguismo russo/ucraino poteva, alla vigilia del conflitto, essere considerato almeno pacificato, con ambiti e situazioni comunicativi ben equilibrati e negoziati, varietà di lingua miste, nessuna avvisaglia di assimilazione linguistica di una lingua sull’altra, il riconoscimento del russo come codice di comunicazione nell’ambito delle arti, del progresso scientifico, della portata internazionale. Insomma decisamente non uno scontro tra comunità linguistiche, tanto che la storia recente è giunta addirittura a presentare casi di ucraini russofoni contrari alle operazioni governative di affermazione della lingua ucraina su scala nazionale. Certo è infine che le lingue sono anche spesso agitate come armi simboliche di vasta portata, soprattutto quando sono percepite come strumenti di coesione nazionale o di promozione di un’etnia a scapito delle altre. Infine, è poi indubbio che se c’è qualcosa che può sicuramente avere cambiato e di molto le carte in tavola questo fattore è l’accendersi così devastante e inaccettabile del conflitto che conosciamo da parecchie settimane. Tutto, in sostanza, potrebbe essere mutato. Annuncio pubblicitario

Risvegliarsi In scena

Convince la prima teatrale di Grossi

Giorgio Thoeni

Lunghi applausi, ripetuti e sinceri della platea per Gianluca Grossi al termine de La città, opera prima del reporter bellinzonese al Teatro Sociale. In effetti non è sempre facile mettersi al servizio di una scrittura immaginata per un pubblico della propria città attento all’ascolto, giocando con un’azione confinata nel senso della parola, nella metafora. Un guanto di sfida lanciato con eleganza dove è proprio la parola all’inizio del percorso di Grossi nella sua esplicita narrazione, pagine che appaiono come riflessioni nate dopo un periodo da cui tutti sembriamo usciti. Come dopo un sonno infestato da incubi, un non-luogo che si risveglia e non è più lo stesso. Voce narrante in prima persona, Grossi cerca umanità e vita fra ciò che è stato, con la curiosità del giornalista che vuole raccontare la verità. Tre musicisti l’accompagnano, sottolineano, commentano: un contrappunto leggero e deciso, come un antico corifeo. Insinuando dubbi, perplessità, invocando la semplicità delle parole. Al Sociale è tornata la lettura scenica con una storia in cui ci si può identificare, riconoscere. Come con Tea e Snake, i personaggi incontrati dal narratore. Si

fa raccontare le loro vite per scoprirne l’essenza, un’umanità che sembrava persa, inghiottita da una terribile pandemia, che Grossi chiama la cosa e che si è impadronita della Città. Vi abbiamo colto l’allusione di un’umanità in crisi come quella descritta da Saramago in Cecità, dove l’epidemia è un espediente per riflettere sull’uomo, sulle relazioni interpersonali, sui rapporti di forza e una comunità esasperata, costretta in uno spazio ridimensionato, alla ricerca di una casa. Ci si poteva rispecchiare. Anche in quel contesto immaginato, non così distante dalla realtà, dove le parole emanano odori di follia, dove i pazzi sono da stanare. Ma oltre tutto ciò c’è la vita, un’altra aria sulle note di una Rumba. Una rappresentazione che ha fatto i conti con una lettura appassionata e calibrata al punto giusto e ha convinto il pubblico bellinzonese. Merito del narratore e della sua scrittura, degli attori, del coro dei musicisti. Un traguardo meritato per Gianluca Grossi con Margherita Saltamacchia, Massimiliano Zampetti, le musiche scelte e adattate da Danilo Boggini (fisarmonica) con Claude Hauri (violoncello) e Anton Jablokov (violino). Gianluca Grossi (al centro) insieme agli attori e ai musicisti, in primo piano M. Zampetti (sinistra) e M. Saltamacchia (destra).

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L’insalata di indivia belga, ravanelli e melagrana con tofu dorato è un vera delizia.

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CULTURA / RUBRICHE

In fin della fiera

di Bruno Gambarotta

Misteri di coppia

In una poesia di Charles Bukowski la sua donna gli confessa: «Sei come una tapparella abbassata, ma è questo che mi piace di te». È una metafora stupenda, si attaglia perfettamente a molti di noi. Quante volte, nel corso di una sola giornata, tiriamo giù le tapparelle per non essere costretti a prendere atto di una realtà sgradevole, fastidiosa o anche solo scomoda! Anche senza arrivare alla vera e propria viltà dei passeggeri dell’autobus scesi di corsa alla vista del conducente aggredito a calci e pugni da una banda di minorenni, di fronte a qualcosa che ci disturba mentalmente ci allontaniamo dalla scena anche se il nostro corpo resta sul posto, muto e inerte. Modestamente, credo di essere un virtuoso dell’assenza; sarà che esercito una specie di attrazione su di loro, ma sempre, quando sono in fila alla posta o in piedi sul tram o seduto in uno scompartimento fer-

roviario, c’è qualcuno che inveisce e impreca a voce alta. Mai contro una singola persona, il bersaglio è sempre una categoria o un’istituzione, vigili, tranvieri, piccioni, ciclisti, politici, immigrati. La sparata si conclude con un auspicio: «Bisognerebbe ammazzarli tutti!», seguita da una muta panoramica alla raccolta del consenso dei presenti. È il momento di abbassare la tapparella: l’obbiettivo dei miei occhi mette il fuoco all’infinito. L’invasato è diventato invisibile, può dire tutto quello che vuole tanto io sono andato via. La poesia di Charles Bukowski richiama alla mente lo stile dei quadri di Edward Hopper, quelle coppie sedute in silenzio al tavolino di un bar, senza guardarsi. Le troviamo nei locali del centro, lontano dalle ore di punta. Cerchiamo di indovinare cosa passa per la loro testa. Pensieri pigri si snodano come un boa acciambellato dopo un lauto pasto. Lei pen-

sa che lui, non dico dal colletto della giacca ma almeno dalle lenti degli occhiali, la forfora ogni tanto potrebbe anche togliersela. Lui riflette sul fatto che lei ordina il tè per fare la signora ma poi, quando porta la tazza alle labbra, irrigidisce il mignolo. Il più delle volte il partner non è considerato degno di attenzione. Lui pensa che a pranzo avrebbe dovuto prendere una seconda fetta di torta, prima che sparisse in frigo. Lei cerca invano di farsi venire in mente una frase sferzante da rivolgere alla vicina di pianerottolo che quando l’incontra per le scale finge di non vederla. Lui pensa al falegname con il laboratorio nel cortile che non c’è mai, con il cartello sulla porta chiusa: «Torno subito». Lei pensa che nel frigo ci sono sei albumi residuati da altrettante uova, dopo che i rossi sono serviti per fare la pasta e chissà se sull’Artusi c’è qualche ricetta per usarli. Lui pensa a una telefo-

nata ricevuta quel mattino da un vecchio compagno delle medie, una roba di cinquant’anni fa, per dirgli che ha trovato in fondo a un cassetto la foto della classe. Ne farà una copia e gliela porterà a casa. E mandarla per telefono? No, la carta ha il suo fascino. Quel compagno non lo sentiva da anni, quella foto di sicuro sarà una scusa per chiedergli un prestito. Lei pensa che si approssima la data entro la quale bisogna consegnare al supermercato la raccolta punti per avere un regalo. Con un ultimo carrello pieno di merci inutili riuscirà a vincere la pastaiola, ovvero la pentola con lo scolapasta incorporato; a loro non serve, a causa del colesterolo alto da anni non mangiano più carboidrati, ma visto che siamo arrivati fin qui è un delitto lasciarsela scappare. Una seconda poesia di Charles Bukowski, Dentro e fuori dal buio suggerisce la variante della coppia muta: quella uscita dal

cinema che fa una sosta al caffè prima di tornare a casa. Dall’espressione del suo viso si intuisce che l’uomo è stato trascinato contro voglia a vedere il film da lei che ne aveva sentito parlare da un’amica e aveva ricevuto su WhatsApp una lunga serie di segnalazioni entusiastiche. L’argomento decisivo: «Un film che è costato tutti quei milioni non può essere brutto». A lui il film non è piaciuto per niente e vuole che su questo punto non ci siano dubbi di sorta anche se si guarda bene dall’esprimere a parole il suo giudizio. È chiuso dentro un guscio, ha lo sguardo torvo, le spalle abbassate di chi ha appena ricevuto una botta in testa. Il silenzio cresce, diventa insostenibile. Lei è costretta ad ammettere: «Beh, (pausa), non era poi quel capolavoro che dicevano». Lui grugnisce, compiaciuto, lei tenta di salvare un brandello di dignità sussurrando: «Però qualche pezzo buono c’era».

Xenia

di Melania Mazzucco

Un polacco, un cèco, un ucraino ◆

Nell’inverno del 1917, un camion militare scarica i prigionieri in quello stesso paese sperduto dell’Appennino in cui, novant’anni dopo, dalla corriera scenderà il pakistano. L’Italia è in guerra da tre anni. Nella valle circolano solo donne, bambini, vecchi e inabili. Figli, fratelli e padri combattono nelle trincee del Nord: parecchi sono già caduti – diventeranno nomi sui monumenti delle piazze. Nessuno raccoglie l’orzo e le lenticchie, servono pastori per le pecore, bovari e mandriani. Servono cacciatori: i cinghiali si sono moltiplicati, devastando i campi e i noccioleti, e lupi famelici si spingono fino ai casolari più isolati. I residenti potevano chiedere l’assegnazione come forza lavoro dei prigionieri di guerra detenuti nel campo del capoluogo, ma hanno prevalso la diffidenza e la paura. Solo tre famiglie si sono candidate. I nemici si rivelano una delusione. Non sono austria-

ci. Sindaco, dottore, maestro, prete e agrimensore spiegano che vengono dalla Galizia, la più remota regione dell’Impero Austro-ungarico, al confine con la Russia. La loro armata si è dissolta. Hanno cognomi e nomi difficili da capire e pure da trascrivere. Li chiameranno Basilio, Lucio e Giovanni. Pallidi e patiti, nemmeno sembrano soldati. Basilio ha quarantasei anni, Lucio quaranta. Solo Giovanni, di venticinque, ha un’età adatta alla guerra (ma la guerra non è adatta a lui: è un disertore). Il potente esercito che ci ha inflitto l’umiliazione di Caporetto e ha invaso il sacro suolo d’Italia era formato da questi fantasmi macilenti. Lucio si sistema nella frazione a mezzogiorno, come assistente del sellaio. Basilio va a stare da un pastore, nella frazione a settentrione, a mille metri di altitudine. Il vecchio che lo ha richiesto ha due figli in guerra, dispersi. I vicini l’han-

A video spento

no rimproverato di non avere amor di patria: mettersi in casa uno che potrebbe avergli ammazzato i figli… Il vecchio ha risposto che se i figli suoi fossero prigionieri, vorrebbe che una famiglia galiziana li trattasse come esseri umani. Basilio impara a occuparsi delle pecore e a fare il formaggio: era contadino. Giovanni alloggia nella frazione orientale, lungo il torrente, col mulino e la segheria. A differenza degli altri non sa fare niente con le mani. Giovanni, in realtà Ivan, non è austriaco, non è ebreo, non è nemmeno russo, anche se il suo nome all’agrimensore ricorda gli eroi dei romanzi di Dostoevskij. Lui sostiene di essere ucraino. Cosacco è il compromesso su cui si accordano. Diventano presto presenze familiari. Lucio e Basilio frequentano l’osteria e la chiesa; Ivan invece, dopo aver scaricato la farina e il legname, staziona davanti alla scuola e conversa coi notabili. Il

profumo delle foglie bagnate, del muschio e della resina dei larici lo commuove. I tre prigionieri festeggiano con noi sul sagrato l’armistizio e la fine della guerra. Piangono di gioia, perché sono sopravvissuti. Ma anche di nostalgia. La vittoria degli italiani significa che l’Impero non esiste più. Che non sanno quando potranno tornare a casa. Non ci torneranno, infatti. Non lo sapevano, ma la valle era la mèta, e la patria a loro destinata. Da mesi una violenta influenza stermina la popolazione d’Europa. Uccide soprattutto i giovani. Ma la notizia è censurata. Alla festa non vengono prese precauzioni, e solo il dottore e il maestro, informati del rischio del contagio, si tengono in disparte. Si ammalano tutti – indigeni e stranieri. Quando Basilio si aggrava, la moglie del pastore gli promette che scriverà ai suoi figli. A dicembre muore Lucio. L’ultima cosa che ha

detto al sellaio è di essere cèco e più della morte gli dispiace che il suo paese finalmente esiste, ed è libero e indipendente, ma lui non potrà viverci. Si ammala anche l’agrimensore, e contagia Ivan. D’estate, hanno corteggiato la stessa ragazza, la figlia di un emigrato che si è arricchito facendo il gelataio a Napoli e al paese natio porta la famiglia in villeggiatura. L’agrimensore muore, col rimpianto che la ragazza era stata fidanzata a lui, anche se preferiva l’altro. Ivan invece risana. La guerra è finita, e lui non ha un posto cui tornare. Resterebbe, forse. Non gli viene concesso. Un colpo di fucile. Parlano di un incidente di caccia. Li seppelliscono insieme, nel cimitero del villaggio, all’ombra di un salice. La sciagura della guerra invece di dividere aveva unito. Un polacco, un cèco, un ucraino: gente qualunque, proprio come noi. Ci pensa la pace a renderci stranieri gli uni agli altri.

di Aldo Grasso

Serendipità

Serendipità: se cercassimo il significato su un qualsiasi dizionario troveremmo che il termine esprime la capacità (e la conseguente felicità) di fare scoperte casuali: trovare cioè qualcosa che non stavamo cercando – anzi cercavamo altro – avendo però gli strumenti per capire che ciò che abbiamo trovato è importante. Come accadeva ai principi di Serendippo (Ceylon, ora Sri Lanka), così come ce lo riferiscono le Mille e una notte, Horace Walpole e Voltaire in Zadig. Quando Walpole, conte di Orford, inventò il termine serendipità, era il 1754, aveva in mente una fiaba persiana che, curiosamente, era giunta per la prima volta in Europa un paio di secoli prima attraverso una traduzione italiana di Cristoforo Armeno, che fu uno dei primi a portare da noi elementi importanti di cultura persiana e tradusse la fiaba (pare con una certa libertà) come Peregrinaggio di tre gio-

vani figliuoli del re di Serendippo. Walpole, fornendo poi la ragione del conio «serendipity», spiegò che questi tre principi «facevano sempre scoperte, per caso o per sagacia, di cose che non stavano cercando». Nella tradizione aneddotica tornano puntualmente alcuni esempi di scoperte casuali. Ne riporto alcuni, tanto per avere un’idea. La scoperta dell’America. Forse il caso più importante di serendipità nella storia. Il 12 ottobre 1492, al grido «Terra!» dal marinaio Rodrigo de Triana, le tre caravelle spagnole guidate da Cristoforo Colombo arrivarono nel Nuovo Mondo. L’equipaggio era sicuro di aver raggiunto le Indie ed è per questo che Colombo ha chiamato i nativi d’America, indiani. I fiammiferi: nella Parigi del 1805, un certo Chancel notò che un bastoncino con all’apice pasta, a base di clorato di potassio, zolfo e gomma arabi-

ca, si accendeva per reazione chimica dopo essere stato immerso in un recipiente contenente una spugna d’amianto imbevuta di acido solforico. Era stata inventata la versione primitiva del fiammifero. Fu però solo nel 1827, che venne inventato il fiammifero a sfregamento, da parte dell’inglese John Walker, perfezionato, 3 anni dopo, con la sostituzione del solfuro di antimonio con una miscela di zolfo e fosforo bianco. La penicillina. Forse è la più importante scoperta «casuale» dell’umanità. Il risultato è stato attribuito ad Alexander Fleming, che ha lavorato nel campo della microbiologia o della farmacologia, riconoscendo il suo lavoro con il premio Nobel per la medicina nel 1945. Nel 1928, durante una delle sue indagini notò che in una delle piastrine con cui aveva lavorato e che si era dimenticato di eliminare, era stato coltivato un batterio chiamato Staphylococcus

aureus. Ma, accanto, era cresciuto un fungo che ne paralizzava la crescita. Questo fungo, appartenente alla specie del penicillium, proveniva probabilmente da uno dei laboratori vicini, dove lavoravano per combattere certe allergie. Come ben spiega Telmo Piovani nel suo ultimo libro Serendipità. L’inatteso nella scienza (Raffaello Cortina Editore), le più sorprendenti storie di serendipità svelano aspetti profondi della logica della scoperta scientifica. Non è solo fortuna: la serendipità nasce da un intreccio di astuzia e curiosità, di sagacia, immaginazione e accidenti colti al volo. La serendipità, soprattutto, ci svela che non sapevamo di non sapere. Per esempio, la scoperta di cose inattese è retta dal principio dell’abduzione, lo stesso usato da Sherlock Holmes nelle sue famose indagini. Il filosofo Robert K. Merton ha defi-

nito in ambito sociologico il concetto di Serendipity come l’esperienza che permette di sviluppare una nuova teoria o ampliarne una già esistente sulla base dell’osservazione di un dato imprevisto («una ricerca diretta alla verifica di una ipotesi dà luogo a un sottoprodotto fortuito, a una osservazione inattesa che ha incidenza rispetto a teorie che, all’inizio della ricerca, non erano in questione») o anomalo («l’osservazione è anomala, sorprendente, perché sembra incongruente rispetto alla teoria prevalente, o rispetto a fatti già stabiliti») o strategico («affermando che il fatto imprevisto deve essere strategico, cioè deve avere implicazioni che incidono sulla teoria generalizzata»). Non dobbiamo quindi temere né gli imprevisti né le anomalie: da un inciampo casuale potremmo fare nuove scoperte, se non per l’umanità almeno per la nostra vita di tutti i giorni.


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Pesce e frutti di mare

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Filetti di merluzzo M-Classic, MSC pesca, Atlantico nordorientale, in conf. speciale, 3 pezzi, 390 g

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Formaggi e latticini

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Bevande

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Dolce e salato

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Gelati da passeggio alla panna

prodotto surgelato, stracciatella, cioccolato, amarena o mango, 120 ml, per es. stracciatella

surgelati, disponibili in diverse varietà e in conf. speciale, per es. alla vaniglia, 24 pezzi, 1,37 litri, 7.20 invece di 14.40

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In un batter d’occhi in tavola

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Tutte le capsule Delizio (prodotti M-Classic e bio esclusi), per es. Lungo Crema, 12 capsule, 4.75 invece di 5.30

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all'uovo o con semola di grano duro, per es. all'uovo, 3 x 750 g, 4.30 invece di 6.45

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20% Tutto l'assortimento Garden Gourmet per es. Sensational Burger, 2 pezzi, 226 g, 5.20 invece di 6.50

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Tè biologico alle erbe alpine con zenzero svizzero

Lasagne bolognese Plant-Based V-Love prodotto surgelato, 360 g

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Tutte le pappe Hipp bio, per es. biscotti per bebè mela-banana, 190 g, 1.40 invece di 1.75

CONSIGLIO SUI PRODOTTI Strofinare troppo forte le teglie da forno e le griglie può danneggiare il materiale. Pulire con il Potz Power System non richiede sforzi eccessivi: basta inserire nel sacchetto la teglia o la griglia, versarvi il prodotto, lasciar agire per almeno 8 ore e poi sciacquare con acqua calda.

30% Pentolame delle serie Prima e Gastro per es. padella a bordo basso Gastro, Ø 28 cm, il pezzo, 27.95 invece di 39.95

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Hit Vaschette per grigliare in alluminio Tangan n. 53 34 x 23 cm, in confezione speciale, 16 pezzi

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Scopa per pavimenti in legno il pezzo

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Carta igienica Tempo, FSC Deluxe, Classic o Premium, in confezioni speciali, per es. Premium, 24 rotoli, 13.55 invece di 22.65

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Tutte le erbe aromatiche bio vaso, Ø 13–14 cm, per es. prezzemolo riccio, il vaso

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Gioco e divertimento per esploratori ed esploratrici

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