Azione 18 del 2 maggio 2022

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Anno LXXXV 2 maggio 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

Pagine 4 – 5 ●

SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

In Europa si fanno pochi figli e diventare genitori fa sempre più paura: l’analisi di Chiara Saraceno

Adrenalina, coraggio e fascino della vertigine sono gli ingredienti principali del base jumping

Una globalizzazione che coinvolga solo paesi amici è possibile? Quali problemi e opportunità implica?

Intervista a Farooq Chaudry, produttore dello spettacolo di danza Portraits in Otherness

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Damien Hirst © Keystone

Il cielo sopra il campo di grano

Gianluigi Bellei

La globalizzazione funziona solo col bel tempo Peter Schiesser

Ad osservare quel che succede nel mondo, vien da pensare che la globalizzazione dell’economia sia in fondo una Schönwettertheorie, una teoria che funziona solo col bel tempo, figlia del credo secondo cui il commercio e il benessere creano le condizioni per maggiore libertà e democrazia. In tempi di Covid e di guerra, infatti, le catene di produzione e di approvvigionamento si bloccano, e le onde sismiche arrivano fino a noi. Le rotelle dei meccanismi di produzione sono sparse in tutto il mondo, così è sufficiente che manchi un determinato microchip, materie prime come il legno, qualche metallo raro essenziale e a cascata lo si percepisce in tutto il mondo. È notizia di questi giorni (CdT del 27 aprile) che in Ticino quindici aziende stanno valutando se introdurre il lavoro parziale a causa del lockdown a Shanghai, principale porto cinese e mondiale. Ne avevamo già scritto (Marzio Minoli, «Azione» del 6 settembre 2021): i costi per il trasporto di un container dalla Cina all’Europa sono aumentati da 2000 a 10-14mila dollari, perché i porti cinesi lavorano a ritmo ridotto a

causa dei frequenti lockdown, e quando un bene è scarso e la domanda tanta i prezzi esplodono. A questo si aggiunge il rincaro di molte materie prime, a cominciare da energia, petrolio, gas. Per una serie di circostanze, anche legate al clima, l’energia scarseggia e oggi il gas costa sette volte di più rispetto a un anno fa. Se energia e trasporti rincarano, tutto rincara, l’inflazione sale, in questo momento anche i tassi d’interesse. Ce ne accorgiamo pure noi, se l’auto che vogliamo acquistare si fa attendere, se vogliamo stipulare un’ipoteca, se abbiamo un cantiere in corso e via elencando. Ma la globalizzazione fallisce anche come progetto inclusivo mondiale. Non si è rivelato vero che il capitalismo porta automaticamente a più libertà e democrazia. La Cina è l’esempio lampante. Ma la Russia è quello ancora peggiore: Mosca usa i proventi economici derivanti dalla vendita di gas e petrolio per distruggere e martoriare l’Ucraina, creare una crisi umanitaria continentale, provocare il rischio di una terza guerra mondiale; inoltre, la reciproca dipenden-

za economica viene utilizzata come arma economica: con lo stop alle forniture di gas russo a Polonia e Bulgaria, Putin mette in guardia la Germania, in particolare, e il resto dell’Europa, ben sapendo che una forte mancanza di energia spingerebbe l’intero continente verso una recessione dolorosa. La possibilità che la Russia compia questo passo con altri paesi europei è alta, considerato che l’Occidente continua ad inasprire le sanzioni e si fa coinvolgere sempre più nella guerra in Ucraina, fornendo ora anche armi pesanti, non solo difensive, con la Gran Bretagna disposta anche a consegnare aerei militari (l’ultimo tabù). Che la globalizzazione economica sia un modello in crisi lo testimonia anche il fatto che all’ultimo vertice del G20 la segretaria al Tesoro statunitense Janet Yellen ha sostenuto il progetto di una globalizzazione limitata a paesi che condividono gli stessi valori, «Friend-shoring» l’ha definita. Come annota Federico Rampini a pagina 23, significherebbe rivedere l’intera architettura della produzione mondiale, con investi-

menti stratosferici per creare le infrastrutture che oggi sono delocalizzate, ciò che necessita tempi lunghi. Ma dove trovare gli enormi capitali necessari? E come si chiede anche Rampini, è davvero possibile staccarsi dalla Cina e da tutti i paesi dittatoriali o autoritari che forniscono petrolio, materie prime? Certo, anche prima della globalizzazione il mondo commerciava, l’Occidente importava l’essenziale, non si immaginano delle economie autarchiche, ma significherebbe tornare agli anni Ottanta, quando le fabbriche erano ancora in Europa e negli Stati Uniti: il costo del lavoro rendeva più cara la produzione, si generava meno benessere, ma milioni di lavoratori avevano un lavoro sicuro. Il modello del capitalismo globalizzato era già in crisi di legittimità prima della pandemia e della guerra, si stavano facendo sentire sempre più forti le voci di chi chiede di riformarlo affinché siano protette maggiormente le fasce più deboli, quelle che poi votano per la Brexit, per Trump e Le Pen, per intenderci. Ma ora il dibattito si fa più urgente, e più complicato.


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SOCIETÀ ●

La Torre di Redde Nei boschi di San Clemente in Capriasca sorge la maestosa costruzione medioevale

Raccontare la diversità The DeepNEsT è una piattaforma di audio e video per condividere testimonianze di vita vissuta

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Fitoterapia Sono molte le piante che hanno un effetto rilassante e aiutano in caso di ansia, tensione e insonnia

Prendersi cura dell’aria Il quinto elemento, invisibile: dall’aria dipende la nostra salute, eppure la maltrattiamo

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Shutterstock

Perché si fanno meno figli Famiglia

Tra incertezza economica, divario di genere e cambiamenti climatici, diventare genitori fa sempre più paura

Stefania Prandi

Precarietà lavorativa, incertezza economica, divario di genere, welfare inadeguati, cambiamenti climatici e sfiducia nel futuro. Sono le cause per cui, nei paesi industrializzati, diventare genitori fa sempre più paura. La conseguenza del timore di mettere al mondo un bambino o una bambina si riflette nel declino dei tassi di natalità, iniziato a metà del secolo scorso, con un’accelerazione negli ultimi anni. In Europa, la fertilità nel 2021 era di 1,6 figli per famiglia, inferiore al «tasso di sostituzione demografica», cioè il numero annuo di nascite necessario a compensare i decessi e a garantire la stabilità della popolazione. In alcuni paesi dell’Europa mediterranea si sono raggiunti i minimi storici. In Svizzera, la media è quasi in linea con quella europea, un dato che colloca la Confederazione elvetica davanti a Italia, Spagna e Grecia, ma dietro a Germania e a Francia. I media internazionali, dalla «BBC» a «The Guardian», da «The Atlantic» a «The New York Times», ospitano testimonianze e dibattiti sulle ragioni del calo delle nascite. La motivazione principale di questa tendenza è l’aumento dell’incertezza, secondo Daniele Vignoli, professore di

Demografia all’Università di Firenze. In un recente seminario all’Istituto universitario europeo ha spiegato che è sempre più difficile prevedere il proprio futuro. Uno studio del Center for Population Change dell’Università di Southampton, nel Regno Unito, ha mostrato che è svanita la possibilità, valida fino al 2012 circa, di riuscire a comprare una casa prima di avere dei figli. Per Chiara Saraceno, sociologa della famiglia con una carriera da docente in università italiane e tedesche, sono due i principali motivi per cui si resta childfree. «È difficile e impegnativo entrare in un mercato del lavoro che non dà più grandi certezze sul lungo periodo. E non avere un orizzonte minimo di sicurezza, può far sembrare irresponsabile avviare un progetto come quello di crescere un figlio – spiega ad «Azione» – La seconda ragione riguarda le donne: oggi le coppie si aspettano che entrambi siano occupati, a causa dell’insicurezza economica e soprattutto della difficoltà di uscire da un rapporto se poi non funziona. Quindi anche le donne, e non solo gli uomini, vogliono una certa stabilità occupazionale prima di decidere di diventare madri. Ci si afferma economi-

camente con maggiore lentezza di una volta e quindi si inizia più tardi a pensare alla gravidanza. L’esito è che ci si trova ad affrontare, più frequentemente, qualche problema di fecondità». Nei Paesi con un welfare attento alla maternità e alla paternità, la natalità cresce. Un esempio viene dalla Germania che ha cambiato le politiche familiari, migliorando un contesto in cui la fecondità era bassa. «Nel 2007 hanno fatto una riforma favorevole anche ai ceti medi – dice Saraceno – Un altro modello virtuoso viene dal Nord Europa. All’inizio degli anni Duemila erano in difficoltà ma, con una serie di politiche molto avanzate in termini sia di congedi sia spingendo sul coinvolgimento dei padri, perché i figli non riguardano soltanto le madri, anche in termini di cura, hanno cambiato la situazione». Gli studi indicano che, nonostante viviamo in un’epoca con l’aspettativa di vita più alta che mai, la tecnologia all’avanguardia e un accesso diffuso all’assistenza sanitaria, le «brutte notizie» che irrompono in continuazione nella nostra quotidianità a causa dell’iper-connessione a Internet, rendono il clima particolarmente pessimista. Un sondaggio del 2019 di «Business In-

sider» ha mostrato che un terzo degli americani – quasi il quaranta per cento di chi ha tra i diciotto e i ventinove anni – pensa che le coppie dovrebbero considerare gli effetti negativi del cambiamento climatico quando decidono di mettere al mondo qualcuno. Nel 2020, il tasso di natalità negli Stati Uniti è diminuito per il sesto anno consecutivo, con un calo del quattro per cento. In una nota della scorsa estate agli investitori, gli analisti di Morgan Stanley hanno concluso che il movimento per non avere figli, spinto dai cambiamenti climatici, sta crescendo e ha un impatto sui tassi di fertilità più rapido di qualsiasi tendenza precedente. C’è chi, però, sostiene, come Kimberly Nicholas, scienziata del clima e coautrice di uno studio del 2017 sui cambiamenti dello stile di vita più efficaci per abbassare le emissioni, che la riduzione della popolazione non sia la risposta perché gli interventi decisivi devono essere fatti entro un decennio, al massimo. Altri fattori che scoraggiano sono i modelli inarrivabili di genitorialità: l’idea di dovere essere perfetti e presenti in famiglia, nonostante i tempi di lavoro sempre più pervasivi, pressioni che, in particolare, riguardano

le madri. Cynthia Wang, professoressa di Management e Organizzazioni alla Northwestern University, negli Stati Uniti, ha chiesto a centinaia di genitori lavoratori di rispondere a un sondaggio online per valutare la loro stabilità emotiva e la capacità di gestire le situazioni stressanti. È emerso un senso generalizzato di inadeguatezza, col timore che, da grandi, i figli si ricorderanno soprattutto di quanto sono stati trascurati. E per molti la pandemia ha esacerbato le sfide esistenti. «C’è una crescente iper-responsabilizzazione, come se tutto dipendesse dai genitori; da un lato si sentono in dovere di fare anche la parte di altre istituzioni e dall’altro credono di potere controllare ciò che succede là fuori, per cui qualsiasi insuccesso o cattivo comportamento sarebbe colpa loro – dice Saraceno. – Inoltre, viviamo in società in cui, più o meno fortemente, c’è una riproduzione intergenerazionale delle disuguaglianze. Questo fa pensare che magari sia meglio, se si ha già un bambino, non farne un altro perché altrimenti si toglierebbero vantaggi al primo. Le opportunità sembrano derivare, ormai, solo da quello che si è in grado di offrire, in termini affettivi e materiali, senza spazio per il caso».


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Bellinzona e la sua Sponda Sinistra

Territorio ◆ La Città ha fatto elaborare uno studio per mettere in rete i vari progetti che valorizzano le zone collinari di Camorino, Giubiasco, Ravecchia, Daro e la Valle Morobbia Nicola Mazzi

La Sponda Sinistra di Bellinzona – che comprende la Valle Morobbia e le zone collinari di Camorino, Giubiasco, Ravecchia e Daro – merita attenzione. Seguendo la strada intrapresa dalla Sponda Destra, la Città ha fatto elaborare uno studio per mettere in rete i vari progetti e svilupparli nei prossimi anni. Una strategia precisa e volta a migliorare l’attrattiva di quella regione e a valorizzare iniziative che negli anni hanno seguito un loro iter senza però essere inserite in un discorso più ampio e quindi più efficace. L’obiettivo è quello di avere un insieme di offerte da promuovere al meglio da parte dell’Organizzazione turistica regionale (Otr), ma anche di far conoscere ai residenti una regione ancora poco frequentata. I progetti spaziano dal recupero delle selve castanili e dell’attività agricola all’Alpe Gesero, alla valorizzazione dei Fortini della fame, passando per lo sviluppo di percorsi per mountain bike o al recupero dell’antico villaggio di Prada, fino ad arrivare alla ristrutturazione della capanna Cremorasco e la valorizzazione di quella del Gesero. E si accenna anche a un progetto ad ampio respiro come la creazione di un Parco naturale regionale del Camoghè.

I Fortini della fame di Camorino, la loro valorizzazione e promozione rientra tra i diversi progetti che lo studio vuole concretizzare. (Ti-Press)

territorio. La Sponda Sinistra era invece ancora disarticolata, con idee interessanti, ma bisognose di rilancio e messa in rete. Ecco perché, raccogliendo un’esigenza espressa dalla Fondazione Valle Morobbia, il Municipio ha deciso di promuovere uno studio d’insieme». Un lavoro che è stato realizzato tra il 2019 e il 2020. Coordinato dal DTM, è stato affidato a esperti del settore (lo studio Flury&Giuliani), i quali hanno usato una metodologia precisa: da un lato hanno intervistato gli attori presenti sul territorio (patriziati, privati, associazioni, fondazioni, ecc.), dall’altro hanno organizzato i risultati emersi, focalizzandosi su tre assi strategici di sviluppo. Uno relativo alla promozione dei percorsi escursionistici storico-culturali; un secondo asse riguardante gli eventi e le attività sportive (come la Giubiasco-Carena o la Morobbia Trail); mentre il terzo asse portante è quello della natura e dello sviluppo agricolo-turistico, grazie alla valorizzazione degli alpi, delle capanne, delle funivie, ecc. «Il documento – che è stato nel frattempo approvato dal Municipio – ha individuato diversi progetti concreti da sviluppare, ciascuno con la propria scheda. Inoltre, lo studio ha visto nella Fondazione Valle Morobbia l’organo idoneo per il coordinamento nel breve-medio termine». E come aggiunge lo stesso vicesindaco: «Lo scopo ultimo è quello di far apprezzare, sia ai turisti sia agli autoctoni che magari non conoscono la regione queste perle, e il modo migliore per farlo è svilupparle e metterle in rete».

Da sottolineare che gli enti presenti sul territorio non perderanno la loro autonomia gestionale e continueranno a portare avanti i vari progetti, cercando i finanziamenti (pubblici e/o privati) per poterli sviluppare al meglio. «Anche in questo senso il coordinamento servirà ad aiutare i vari promotori a raccogliere i fondi necessari», conclude Gianini. Come detto un ruolo decisivo, sia nella promozione iniziale dello studio sia ora nella governance ce l’ha la Fondazione Valle Morobbia. In proposito abbiamo sentito il presidente Paolo Oppizzi per capire come stanno procedendo i lavori dopo lo studio. «Facciamo anzitutto un passo indietro, esordisce Oppizzi, la Fondazione è da tempo che chiedeva uno strumento sul quale basare una strategia complessiva per la regione e devo dire che abbiamo trovato in Gianini e nel Municipio un sostegno importante per attuare questa richiesta all’indomani dell’aggregazione. Lo studio è stato lo strumento del quale avevamo bisogno per sviluppare i vari progetti e metterli in rete». E adesso? «Stiamo cercando un coordinatore del progetto a cui affidare il tutto, una persona adeguata al compito e che magari conosca già la regione. Nel contempo, stiamo anche cercando i fondi per poterlo stipendiare. Ovviamente le due operazioni sono strettamente interdipendenti». Il nuovo coordinatore in un primo tempo dovrà approfondire la realtà, i progetti e prendere contatto con gli enti e le associazioni già presenti sul territorio. In un secondo tempo dovrà gestirli e promuoverli.

azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)

Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Simona Sala, Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Natascha Fioretti Ivan Leoni

Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89

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Tre gli assi strategici di sviluppo individuati: percorsi escursionistici storico-culturali, eventi sportivi, natura e sviluppo agricolo-turistico Con il responsabile del Dicastero Territorio e mobilità (DTM) e vicesindaco della Città Simone Gianini abbiamo voluto capire l’iter del progetto. «Lo studio – evidenzia – è nato dalla volontà di far conoscere meglio il nostro territorio dopo l’aggregazione dei tredici ex Comuni. Tra le varie attività che la nuova Bellinzona ha voluto mettere in campo vi era anche l’attuazione, poi confluita nel Programma di azione comunale, di studi che avessero uno sguardo d’insieme della regione, in questo caso della sponda sinistra del fiume Ticino». Come ricorda lo stesso Gianini, la Sponda Destra aveva già realizzato un approfondimento in tale senso «con un masterplan su iniziativa dell’Ente autonomo di diritto comunale Carasc (EAC), già costituito prima dell’aggregazione degli ex Comuni di Monte Carasso e Sementina. Insieme ad altri enti promotori sono stati messi nero su bianco e poi realizzati diversi progetti che oggi vengono coordinati dall’EAC. Un lavoro importante del quale oggi si raccolgono i frutti a vantaggio di tutto il

Diversi i progetti che si intende sviluppare sin da subito. Come aggiunge lo stesso Oppizzi: «Tra i primi che desideriamo portare avanti vi è sicuramente la sistemazione della segnaletica dei sentieri, ma anche la valorizzazione del Maglio e del forno fusorio, situati a 900 metri di altezza, per i quale era stato fatto un restauro oltre 10 anni or sono. Inoltre, vogliamo promuovere e far conoscere le antiche attività siderurgiche. Un’area che comprende un gran numero di siti estrattivi, soprattutto sotterranei, inizialmente sfruttati nel XV e XVIII secolo, ripresi nel XIX secolo. Due elementi che fanno parte della Via del ferro: un itinerario tematico transfrontaliero alla scoperta dei siti che fino all’inizio del XVIII sec. caratterizzavano il territorio dell’alta Valle Morobbia e la Val Cavargna. Ma non è tutto. Per gli appassionati sportivi si sta cercando di sistemare un ciclopercorso transfrontaliero per mountain bike, mentre uno è già stato inaugurato. Entrambi i progetti sono stati ideati su incarico della Fondazione e successivamente ripresi dalla Città. Inoltre, quest’anno dovremmo acquisire dalla Città due caserme destinate alla demolizione da Arma Suisse: due edifici storicamente interessanti e con un grande potenziale. E sul medio termine sarebbe molto utile sviluppare il settore della ristorazione che nella regione presenta interessanti possibilità di ampliamento». Insomma, restando in tema culinario, c’è tanta carne al fuoco e molti progetti pronti per essere sviluppati e dare alla Sponda Sinistra il rilievo e l’attenzione che chiede a pieno diritto.

Sostenere l’innovazione Impact Club ◆ È il nuovo incubatore per progetti imprenditoriali a impatto sociale

In Ticino esiste ora un innovativo programma con l’obiettivo di accompagnare progetti imprenditoriali a impatto e innovazione sociale e ambientale. Si tratta del percorso di incubazione Impact Club, ideato da Impact Hub Ticino (rete che facilita la transizione verso un’economia responsabile), sostenuto da un gruppo di investitori e filantropi e dal Fondo pionieristico Migros. «Nella Svizzera italiana ci sono diversi progetti imprenditoriali e di innovazione sociale con promettenti soluzioni circolari e sostenibili – sostiene Tommaso Tabet, co-ideatore di Impact Club – ma spesso non hanno accesso alle giuste competenze e a finanziamenti adeguati per poter diventare impresa con un adeguato ritorno economico». Ed è proprio coinvolgendo filantropi e investitori legati al territorio che Impact Club vuole creare le condizioni affinché i progetti diventino aziende economicamente sostenibili. «Ho scelto di far parte di questo progetto – racconta una delle investitrici – perché in Ticino osservo un potenziale imprenditoriale inespresso, soprattutto al femminile. Credo che con le giuste misure questo potenziale possa trasformarsi in realtà e contribuire a un Ticino più sostenibile, inclusivo e collaborativo». Il programma di incubazione dura 5 mesi, è gratuito ed è destinato a progetti (for profit e non for profit) imprenditoriali early stage con sede nella Svizzera italiana. Impact Club, in collaborazione con 9 investitori e filantropi, sceglierà i progetti da accompagnare nel percorso di incubazione. Particolare attenzione verrà data allo sviluppo di un modello di business che combini la sostenibilità finanziaria e l’impatto, all’apprendimento peer-to-peer, agli incontri con investitori e filantropi ma anche allo sviluppo personale e al benessere dei team. «Impact Club in Ticino crea ecosistemi locali che favoriscono il collegamento tra gli investitori e gli innovatori. Il Fondo pionieristico Migros sostiene questo progetto pilota al fine di stimolare la nascita di progetti imprenditoriali innovativi nei centri più piccoli della Svizzera», dice Pablo Villars, Responsabile di Progetto del Fondo pionieristico Migros, il quale promuove idee con potenziale per la società ed è parte dell’impegno sociale del Gruppo Migros (www.migros-pionierfonds.ch/it). Informazioni e iscrizioni www.impactclub.ch È possibile presentare il proprio progetto fino al 6 maggio.

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938

Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano

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MONDO MIGROS

Auguri cara mamma! Attualità

Domenica 8 maggio è la Festa della Mamma. Qualche idea per sorprenderla con un piccolo pensiero

Palline cuore Lindor Lindt 200 g Fr. 9.95

La Festa della Mamma è l’occasione per ringraziare e celebrare una delle figure più importanti della nostra vita. Oltre a passare la giornata festeggiandola e coccolandola, un regalo è sempre ben apprezzato per rendere questo momento davvero particolare. Tra gli omaggi più gettonati, vi sono certamente i fiori. I reparti Migros Florissimo propongono un’ampia selezione di arrangiamenti floreali ad hoc o classici bouquet sempre attuali, per esempio di rose dalle tipologie e colori più variegati. Oppure perché non scegliere una splendida orchidea, una delle piante ornamentali maggiormente diffuse e amate? Che si tratti di una Cymbidium o Phalaenopsis, le orchidee sono facili da curare e possono durare a lungo prestando attenzione a qualche piccolo e semplice accorgimento. A proposito: per la Festa della Mamma anche sul portale della spesa online Smood.ch sono presenti diversi arrangiamenti floreali dei reparti Migros Florissimo. I fiori vengono consegnati in meno di un’ora all’indirizzo prescelto, con la possibilità di accludere un biglietto d’auguri personalizzato. Altre idee regalo apprezzate sono naturalmente i cioccolatini e i profumi, ma anche un simpatico set composto da tazza, piattino e cucchiaino farà la sua bella figura con la nostra mamma.

Cuore di cioccolato Frey 27 g Fr. 1.20

Rose Max Havelaar miste 10 pz Fr. 13.95

Eau de Parfum Cassandra Rose Intense 100 ml Fr. 9.90

Orchidea Phalaenopsis al pz Fr. 24.95 Orchidea Cymbidium al pz. Fr. 9.95

Arrangiamento festivo con 5 rose Fr. 19.95 Set regalo tazza e piattino Fr. 9.95

Un grande classico dal sapore pieno Attualità ◆ Il formaggio Appenzeller è una delle specialità elvetiche più popolari

Azione 21% Appenzeller surchoix per 100 g, confezionato Fr. 1.50 invece di 1.90 dal 3.5 al 9.5.2022

È sorprendente come una regione piccola come l’Appenzello possa vantare tanti prodotti tipici: dalle caratteristiche cinture raffiguranti delle mucche ai biscotti Biberli di pan pepato con ripieno di nocciole, dall’amaro alle erbe alla rinfrescante birra, fino alla famosa carne secca bovina Mostbröckli. Ma ovviamente la specialità gastronomica più conosciuta e rappresentativa a livello internazionale di questo idilliaco territorio della Svizzera orientale è il formaggio Appenzeller, che qui viene prodotto artigianalmente da oltre 700 anni. A rendere questo formaggio stagionato a pasta semidura unico nel suo genere sono il latte crudo utilizzato per la sua preparazione – materia prima proveniente da mucche che pascolano nei prati rigogliosi della regione – nonché la lavorazione tradizionale che prevede tra l’altro il trattamento delle forme con l’utilizzo di una se-

colare salamoia segreta a base di erbe aromatiche e altri ingredienti naturali. Il formaggio stagiona in cantine naturali da un minimo di tre mesi, per la variante più dolce, su su fino a nove mesi per le tipologie dal gusto più deciso e piccante. Solo 65 caseifici locali sono autorizzati a produrre la saporita specialità, sparsi tra i cantoni di Appenzello Interno ed Esterno e, in minima parte, nei cantoni San Gallo e Turgovia. L’Appenzeller è disponibile alla Migros in diversi gradi di maturazione: classico (3-4 mesi di stagionatura), surchoix (4-6 mesi di stagionatura) ed extra (6 o più mesi di affinamento). L’assortimento conta anche la variante bio, a base di latte proveniente da allevamenti particolarmente rispettosi delle mucche. L’Appenzeller si gusta da solo, per arricchire un piatto di formaggi saporiti misti oppure servito a fine pasto. Ma è una delizia anche nella preparazione di piatti caldi.

L’assortimento completo è disponibile nelle maggiori filiali Migros

La ricetta Tortini di formaggio Piatto principale per 4 persone per 8 stampi di ca. 10 cm Ø • burro per gli stampi • farina per gli stampi e per stendere • 300 g di pasta per crostate • 200 g di Appenzeller surchoix • 150 g di Emmentaler • 1,5 dl di latte • 1 dl di mezza panna • 3 uova • 2 prese di noce moscata • 1 presa di zafferano • 1 cucchiaino di sale, pepe Procedimento

Ungete di burro gli stampi e spolverizzateli di farina. Dividete la pasta in otto parti e formate con ogni pezzo una pallina. Su poca farina stendete ogni pallina e formate un disco di ca. 13 cm Ø. Accomodateli negli stampi, bucherellate i fondi di pasta con una forchetta e mettete in fresco. Grattugiate i formaggi con una grattugia per rösti. Mescolate i formaggi con il latte e la panna. Sbattete le uova e incorporatele alla farcia. Condite con la noce moscata, lo zafferano, sale e pepe. Scaldate il forno statico a 180 °C. Mescolate bene l’impasto di formaggio e distribuitelo negli stampi con la pasta. Cuocete al centro del forno per ca. 40 minuti. Servite con una croccante insalata di stagione.


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MONDO MIGROS

Voglia di grigliare

Attualità ◆ Le costine di maiale non possono mai mancare in una grigliata perfetta. Questa settimana le trovi in offerta speciale alla tua Migros

Digestivo e rinfrescante

Attualità ◆ L’effervescente granulare Crastan è ora in vendita in tutte le filiali Migros

Azione 22% Costine di maiale Svizzera, per 100 g, al banco a servizio Fr. 1.75 invece di 2.25

Crastan 250 g Fr. 2.80

dal 3.5 al 9.5.2022

Con l’arrivo della stagione calda torna anche la voglia di dedicarsi a uno dei passatempi preferiti da molti buongustai: grigliare. E cosa sarebbe una grigliata senza le aromatiche costine? Quasi nessuno saprebbe infatti dire di no a questa classica pietanza estiva. Le costine non sono solo

una delizia tutta da gustare, ma anche relativamente facili da preparare. Per ottenere una carne morbida dentro, croccante fuori e saporita al punto giusto, è importante lasciar marinare le costine per almeno un’ora e cuocerle lentamente. Una classica e semplice marinata a base di birra, senape,

rosmarino, sale e pepe è più che sufficiente per esaltare il delicato sapore della carne. Una volta messe sulla griglia, cuocere le costine a fuoco basso, girandole regolarmente per non bruciarle, per almeno un’ora e un quarto, spennellandole di tanto in tanto con la marinata rimasta.

Mangiato troppo? Oppure semplicemente voglia di una bevanda dissetante e rinfrescante? In questo caso l’effervescente granulare Crastan è la scelta giusta. Esso non solo favorisce la digestione dopo un pasto abbondante o pesante eliminando il senso di pesantezza, ma permette anche di preparare una gradevole e gu-

stosa bevanda al gusto di limone da bere in qualsiasi momento della giornata. Crastan è disponibile in un pratico vasetto di vetro richiudibile e non contiene glutine né coloranti. Si prepara in modo semplice e veloce, basta versare due cucchiaini di prodotto in granuli in mezzo bicchiere di acqua fresca e bere durante l’effervescenza. Annuncio pubblicitario

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SOCIETÀ

Una Torre medioevale Un compito simbolo di un intero villaggio controverso Capriasca ◆ La Torre di Redde nei boschi di San Clemente è un’impressionante testimonianza di un passato mai dimenticato

Libri ◆ Dall’autrice americana Liza Wiemer un romanzo coraggioso sulla scuola e la società

Elia Stampanoni

Sebastiano Caroni

I boschi sono sovente sinonimo di silenzio e tranquillità. Spesso s’incontrano solo altri viandanti, si osserva la natura e s’odono i suoi rumori. La zona di San Clemente in Capriasca, a ridosso di San Bernardo in territorio di Comano e a due passi da Vaglio, Lugaggia o Tesserete è conosciuta e ben frequentata, sia dagli sportivi, sia dalle persone alla ricerca di facili sentieri per una comoda passeggiata.

Il cinema e la letteratura amano ambientare le loro storie fra i banchi di scuola. Da L’attimo fuggente di Peter Weir (1989) a La classe (2008) di Laurent Cantet, passando magari per titoli come The Breakfast Club (1985) di John Hughes, Dov’è la casa del mio amico (1987) di Abbas Kiarostami, Notte prima degli esami (2006) di Fausto Brizzi, o ancora School of Rock di Richard Linklater (2003), i riferimenti cinematografici non mancano. La letteratura non è da meno, come dimostra per esempio l’antologia Compagni di scuola edita da Einaudi nel 2016, che raccoglie numerosi racconti di autori quali Edmondo De Amicis, Stefano Benni, Edgar Allan Poe e Michael Crichton, tutti incentrati sul mondo della scuola. Ma possiamo anche ricordare la popolarità dei romanzi di Alessandro D’Avenia, tutti o quasi rigorosamente ambientati fra le mura scolastiche.

L’archivio audiovisivo di Capriasca e Val Colla ha realizzato un’audioguida che invita alla scoperta dei luoghi e della storia lungo cinque tappe in circuito

Un insegnante di storia assegna un compito inconsueto, due ragazzi si rifiutano di svolgerlo: nel giro di pochi giorni questo disaccordo esce dalle mura della scuola e diventa una questione nazionale Elia Stampanoni

Ed è proprio nel mezzo di questo bosco ricco di faggi che si erge maestosa la Torre di Redde, una costruzione medioevale risalente al XIII° secolo e parte di una casa fortificata, a sua volta inserita in un agglomerato. Leggermente discosta dalla rete pedestre principale e a qualche centinaio di metri dall’area di svago in prossimità dell’oratorio di San Clemente, la torre bisogna un po’ cercarla. Ma non è difficile scorgerla in lontananza, forte dei suoi circa 15 metri d’altezza. L’Associazione Memoria audiovisiva di Capriasca e Val Colla, che promuove anche l’Archivio audiovisivo di Capriasca e Val Colla (ACVC), gestisce la Torre di Redde, ricevuta in donazione dall’omonima fondazione che a fine degli anni ’90 curò i lavori di restauro. Oggi si possono ancora vedere le quattro spesse mura con le finestre e le entrate, mentre il tetto e i pavimenti non esistono più, lasciando intravedere il cielo in un affascinante gioco di luci e colori. Come indicato su un pannello esplicativo in loco e ripreso anche nell’audioguida (entrambi realizzati dall’ACVC), la Torre disponeva di quattro piani e presentava inizialmente un’unica apertura a livello del terreno, mentre il collegamento verticale era garantito da una scala interna di legno. In seguito si aggiunsero un nuovo accesso al locale inferiore e una scala esterna che, poggiata su un basamento, permetteva l’entrata al locale centrale. La casa fortificata con la sua torre erano parte di un villaggio che includeva anche una chiesa, datata 12801290 e sulle cui rovine fu probabilmente ricostruito, all’inizio del 700, l’attuale oratorio. Nei dintorni non è

raro imbattersi in altri ruderi o tracce di strutture che potrebbero essere correlati al borgo, sul quale si hanno però poche indicazioni. Il nuovo percorso audiovisivo da poco creato dall’ACVC dà qualche risposta in più e propone una visita lungo cinque tappe in circuito che permettono di conoscere cenni storici, curiosità architettoniche e leggende locali relative alla Torre di Redde, al misterioso villaggio medioevale e ai suoi dintorni. L’audioguida, disponibile online o scansionando un codice QR posto su una targa all’imbocco della strada forestale che da Vaglio conduce a San Clemente, fornisce anche qualche supposizione sui motivi dell’abbandono, avvenuto probabilmente a partire dal 1484, a causa della violenta epidemia che colpì la regione in quel periodo. Un’altra teoria evoca invece la scarsità di fonti d’acqua potabile in zona, una carenza effettiva che pre-

Atmosfera medioevale per la festa di Redde Vive Redde e la sua torre sono anche noti per essere sede dell’omonima festa che dal 2004 si svolge con regolarità nei boschi di San Clemente, solitamente a scadenza biennale. La prossima edizione è in programma sabato 3 e sabato 10 settembre 2022, quando la foresta ritroverà il clima e l’atmosfera medioevali. La festa, ideata e organizzata dall’Associazione Redde Vive, si svolge di fatto all’insegna del passato, con musica, giochi, gruppi folcloristici e cibo che cercano di rievocare le abitudini

di un tempo. Anche le strutture vengono allestite in legno o materiali già esistenti durante il periodo medioevale, senza dimenticare che nelle due giornate di festa, all’interno del villaggio circola il Redde, moneta con tanto di cambio ufficiale. L’associazione si prefigge pure altri obiettivi, tra cui la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio naturale, culturale e archeologico della collina di San Clemente, la sensibilizzazione della popolazione locale e la promozione di attività culturali.

sto sarà colmata. Già negli anni ’80 se ne discuteva e ora, dopo i primi studi risalenti a oltre un decennio fa, il Comune di Capriasca ha infatti potuto allestire un progetto che, avallato a inizio 2021, dovrebbe concretizzarsi entro l’estate, portando finalmente l’acqua nella zona, come auspicato da diversi enti e associazioni. Attualmente una fontana è presente presso l’oratorio di San Bernardo, situato però parecchio più a monte a circa un chilometro di distanza e dove l’acqua viene pompata dall’acquedotto di Comano. L’edificazione del manufatto così come lo possiamo in parte ancora osservare oggi, avvenne attorno al 1250, una data suffragata da alcuni documenti risalenti al 1310 che ne attestano l’esistenza nel XIII secolo. La torre fu costruita dalla famiglia Rusca di Como (stabilitasi in Ticino per monitorare il percorso attraverso le Alpi) e si è di seguito mantenuta in un eccezionale stato di conservazione, mentre delle vie di collegamento che attraversavano il villaggio restano solo poche tracce. Arterie che si possono idealmente rivivere attraverso il citato audio-percorso dell’ACVC o seguendo l’itinerario «Passeggiare in Capriasca» dell’Ente Turistico del Luganese dove, tra le 17 tappe distribuite su una decina di chilometri, una è proprio nei pressi della Torre, immersa in una fantastica faggeta. Fonti e informazioni www.acvc.ch www.reddevive.ch Audioguida: https://izi.travel/ it/browse/2c62c4e2-47c04a34-a55f-e41c37b2875c

Il romanzo Il compito di Liza Wiemer, tradotto recentemente dall’inglese ed edito da Il Castoro, fa parte proprio di quel filone di opere di finzione che alla scuola si ispirano e che, in aggiunta, sollevano importanti interrogativi che riguardano la società nel suo insieme. La vicenda è ambientata nella piccola cittadina di Riviere, nello stato di New York. Durante una normale lezione di storia, il professor Bartley, un insegnante delle superiori molto apprezzato dagli allievi, assegna un compito piuttosto inconsueto: chiede agli studenti di inscenare la Conferenza di Wannsee, svoltasi nel 1942, in occasione della quale il partito nazista legittimò i campi di sterminio. L’intento dichiarato è quello di portare i ragazzi a rendersi conto del carattere abominevole della logica nazista e delle conseguenze tragiche che quella conferenza ebbe sul corso della storia. Di fronte a una simile richiesta, alcuni alunni mostrano una certa indifferenza, quasi si trattasse di un compito qualsiasi; altri ci scherzano sopra, e non sembrano particolarmente turbati; altri ancora palesano atteggiamenti che lascerebbero intendere un’allarmante simpatia filonazista. Due di loro, Logan e Cate, mostrano però da subito una chiara indignazione: non solo non se la sentono di aderire alla richiesta del professore, ma la considerano oltraggiosa. Per loro, insomma, è chiaro che il compito non dovrà essere svolto. Le proteste dei due ragazzi non sembrano però scalfire i propositi del professor Bartley, e neppure l’opinione del preside, che appoggia l’intento educativo del collega. Ma i due studenti non ci stanno: più che mai determinati a denunciare l’immoralità del progetto del loro insegnante, portano la questione all’attenzione dei media. Con la complicità dei giornali, della televisione e dei social media, quello che inizialmente sembra-

va essere un disaccordo sanabile, nel giro di qualche giorno si trasforma in una vera e propria questione nazionale che metterà sotto pressione un po’ tutti: studenti, insegnanti, ma anche le famiglie e, più in generale, l’intera comunità di Riviere. Come si intuisce dalla trama, il romanzo della Wiemer aumenta di intensità con la crescente risonanza mediatica della questione sollevata. Nel realizzare questo intento, l’autrice sfrutta la brevità dei capitoli per inscenare una sorta di polifonia narrativa in cui i diversi punti di vista dei personaggi, e in modo particolare quelli dei protagonisti Logan e Cate, si alternano. Come in una pièce teatrale dove il focus si sposta da un personaggio all’altro, al lettore viene presentato uno spaccato di ciò che i personaggi pensano e vivono in momenti precisi della vicenda. Il risultato è una sorta di cubismo prospettico, grazie a cui la narrazione si immerge nei mondi percettivi dei personaggi, e ci mostra come ognuno di loro vive a modo suo, in maniera molto personale, l’evolversi della vicenda. Lo sviluppo imprevedibile di questa vicenda complessa, delicata, e ricca di risvolti controversi, concede altresì ampio spazio anche ai sentimenti: quelli che i due protagonisti provano l’uno nei confronti dell’altra, ma anche all’interno delle loro famiglie. Nella comune determinazione di difendere la loro posizione fino in fondo, Logan e Cate vedranno infatti crescere, con la progressione dei capitoli, la loro intesa reciproca. Tanto che, al cospetto della prova che devono affrontare insieme, la loro amicizia di lunga data sfocia, in un crescendo di sensazioni, in un’attrazione fisica che a un certo punto diventerà impossibile nascondere.

Il libro propone una riflessione universale adatta a tutte le età.

Ufficialmente associato alla narrativa Young Adult ma adatto a lettori di tutte le età, Il compito è un romanzo coraggioso con un messaggio universale. Del resto, come afferma l’autrice nel prologo, anche se la storia è inventata, essa «prende spunto da un progetto realmente inserito nel piano didattico di una scuola superiore dello Stato di New York. Un compito che potrebbe essere assegnato ovunque. In qualsiasi paese. In qualsiasi città. In qualsiasi scuola. Perfino nella tua».


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Un nido per la diversità

Raccontarsi ◆ La piattaforma di video e audio The DeepNEsT vuole sensibilizzare e informare su temi considerati ancora oggi «sensibili» attraverso interviste e testimonianze personali Valentina Grignoli

C’è un nido nel quale sentirsi accolti, a casa. Lì si possono ascoltare e raccontare storie, senza giudizi e pregiudizi, per riflettere, riconoscersi, e capirsi. Per crescere ancora insomma, perché in fondo non si smette mai. Questo nido è anche una rete, che unisce, collega, mette in relazione. Sto parlando di The deep NEsT, un’associazione, una piattaforma video e audio, sognata e poi creata da Natascia Bandecchi, giornalista, ed Elizabeth La Rosa, fotografa e videomaker, dove la diversità è solo il punto di partenza, «l’arrivo – si legge sulla prima pagina del loro sito – lo scopriamo insieme». Un senso di comunità molto grande, quello che caratterizza queste ragazze legate anche dalla loro militanza a Imbarco Immediato (punto di riferimento ticinese del mondo LGBT+), alle quali si è aggiunta Arianna Lucia Vassere per la parte amministrativa. Insieme portano avanti un progetto che mira soprattutto alla comunicazione e alla sensibilizzazione per un futuro più inclusivo. Sì, perché non illudiamoci. Anche se a oggi sembra di vivere in un mondo in cui la diversità è benvenuta, la strada da fare per sentirsi tutti a proprio agio, rispettati e riconosciuti, protetti e con gli stessi diritti, è ancora lunga. E allora può far solo bene guardare (youtube) o ascoltare (spotify) le interviste realizzate da Natascia ed Elizabeth, e dopo averle ben depositate nel proprio cuore, diffonderle e parlarne. Aldina Crespi (giornalista, volto storico della Rsi), Roberto Vecchioni (cantautore), Diego Passoni (conduttore radio Deejay), Doris Femminis (autrice, Premio svizzero di Letteratura 2020), Sara Poma (podcaster milanese), ma anche Giulia, Sofia, Federico, Liam, insomma nomi noti e meno noti si concedono alla cinepresa per raccontare, con estrema delicatezza e umanità, le loro testimonianze. Si tratta di percorsi verso la conoscen-

za e l’affermazione della propria diversità, ma non solo. «Tutte e due amiamo raccontare storie e il fatto di farle entrare semplicemente nelle case e nei cuori delle persone che guardano e ascoltano le testimonianze, può toccare molteplici aspetti – spiega Natascia Bandecchi – Non ci si sente soli, e le parole rivelano un’autenticità, una verità che ognuno di noi ha. Quello che vogliamo fare, con The deep NEsT è informare in modo semplice e senza costrutti. Il fatto di condividere un pezzetto di vita vissuta può eliminare le barriere e accorciare distanze apparentemente incolmabili. Ci si sente vicini, attraverso l’empatia». Elizabeth interviene: «Vogliamo parlare anche del coraggio dell’essere e del non essere. Andare a conoscere il cuore del perché. La ricerca di sé stessi e di quello che siamo all’interno di una società che ci vuole in un modo, e non nell’altro, e la nostra evoluzione personale. Ci vuole coraggio per essere quello che si è e anche a non essere quello che vogliono gli altri. Noi con The deep NEsT vogliamo aiutare a trovarlo, senza sentirsi soli». C’è il viaggio alla scoperta della propria omosessualità, della voglia di essere altro, verso la conoscenza di sé, ma troviamo anche l’accoglienza nella propria famiglia della diversità, sia in materia di preferenze sessuali, sia parlando di disabilità (molto bella l’intervista a Sofia, mamma di una bimba nello spettro autistico). E poi il rapporto con le generazioni passate e quelle future, e una società in continuo mutamento ma che in fondo sotto alcuni aspetti continua a marciare sul posto. Cosa significa non essere come la maggioranza della gente che ci circonda? Le stesse autrici di The deep NEsT ogni volta si scoprono un po’ di più attraverso le voci degli altri, in queste interviste che nascono spontaneamente in maniera sorprendente-

Natascia Bandecchi e Elizabeth La Rosa preparano il set per un’intervista. (Elizabeth La Rosa)

mente armoniosa per chi le guarda. Il prodotto è pensato soprattutto per i giovani (e infatti è sostenuto dall’Ufficio del sostegno a enti e attività per le famiglie e i giovani del Cantone Ticino, tramite il «Programma cantonale di promozione dei diritti dei bambini e dei giovani») che si stanno scoprendo e che molte battaglie le stanno per affrontare. Ma come è stato accolto? Elizabeth La Rosa: «per ora non abbiamo avuto la risonanza che vorremmo, è difficile che una persona esterna lasci un commento. Ma da parte di

Infogiovani il riscontro c’è. E io invito gli insegnanti a sbirciare sulla piattaforma, il materiale c’è». Le autrici sono un duo ben assortito, se Natascia è un vulcano in continua attività, Elizabeth la calma. «Questa complementarietà porta a un’assenza di sforzo e così siamo dirette, sincere, anche con chi intervistiamo», racconta la giornalista, alla quale la videomaker fa eco, parlando del loro lavoro: «Si tratta di saper ascoltare e porre le domande giuste. In realtà ci sono persone che aspet-

tano queste domande da tempo». Continua Natascia: «Spesso quando si parla di diversità si pensa, oh poverini… noi sfatiamo i tabù. Vogliamo normalizzare la faccenda: ragazzi, non è una tragedia! Rendiamo speciale ogni storia personale, stra-ordinaria!». Aldina Crespi, che ha aperto le danze con una biografia toccante, ha raccontato della sua avversione verso la parola tolleranza, che in effetti significa accettare qualcosa considerato comunque in maniera negativa. È un tema molto interessante, per una società che si vuole tollerante: «Si tratta di un’ipocrisia travestita. La diversità è ricchezza. Io sono curiosa, non mi fermo davanti alla diversità. E parafrasando Drusilla alla scorsa edizione di Sanremo: la diversità è unicità». Ma perché allora secondo voi questa diversità oggi fa ancora paura? Elizabeth: «È l’ignoranza, intesa come non conoscenza, che favorisce questo sentimento. Oggi è cambiato rispetto al passato, certo. Ma c’è ancora quel velo pericoloso che è la tolleranza, vieni “accettato” o “tollerato”». I temi variano: «Noi vogliamo toccare tutte le sfere nelle quali una persona si può sentire sola e isolata. Prima abbiamo trattato soprattutto temi LGBT, poi ci siamo aperti anche alla disabilità. Qualsiasi cosa non conforme rispetto ai canoni della nostra società. Chi vuole può condividere con noi la sua esperienza, noi saremo felici di accogliere le storie». Consiglio vivamente un viaggio tra queste biografie, perché quello che trasmettono sono soprattutto verità e coraggio, ma anche estrema normalità. Il sito è www.thedeepnest.com. Sono racconti che toccano corde nuove, sotto una bella luce, e sono stati realizzati con grande cura e amore. Un invito a mettere noi tutti più cura e amore nell’ascolto del prossimo, per eliminare l’ignoranza e valorizzare la differenza.

Viale dei ciliegi Nicola Cinquetti L’incredibile notte di Billy Bologna Lapis (Da 8 anni)

Sotto un’apparenza umile, di libretto in brossura per bambini, non troppo lungo, con caratteri tipografici abbastanza grandi, si cela un gran bel testo, che si staglia sopra troppi romanzi attuali costruiti a tavolino, tesi a seguire, con zelo politicamente corretto, argomenti di attualità, compiacendo soprattutto il pubblico adulto. L’incredibile notte di Billy Bologna non vuole compiacere, ma con grazia irresistibile va dritto per la sua strada raccontandoci (qui sì, davvero, ad adulti e bambini) una storia che non si sa da dove Cinquetti l’abbia tirata fuori, tanto è surreale eppure suscitatrice di meraviglia, una storia che ci irretisce e ci fa ridere, tanto. Un umorismo intelligente che – e non è facile – arriva a grandi e piccini. Contribuiscono al coinvolgimento anche il tempo presente della narrazione e la sua prospettiva, quella di un narratore onnisciente che si rivolge sia al suo personaggio, il piccolo Billy Bologna («Che ti prende, Billy? Come mai il tuo cuore batte così

di Letizia Bolzani

forte, adesso?»), sia al lettore, a cominciare dall’incipit («Perché non si muove, Billy Bologna? Perché se ne sta in piedi da mezz’ora, piantato a terra come un tronco?»). In realtà il narratore tiene conto delle istanze dei lettori ma è al suo personaggio, a Billy, che costantemente si rivolge, accompagnandolo fino alla fine: «ciao, Billy». Ma chi è Billy? È un normalissimo bambino, il figlio del custode del palazzetto dello sport, dentro cui si sta per svolgere uno spettacolo di alta suggestione: un domino di cinque milioni di tessere, il più grande del mondo, costruito in sei mesi di indefesso lavoro dal maestro giapponese Matamoto, verrà da costui messo «in moto», appunto, spingendo

delicatamente un mattoncino, che si abbatterà sul mattoncino successivo, scatenando una «spettacolare, catastrofica sequenza di emozioni…». Le emozioni si scatenano anche nei lettori, tenuti con il fiato sospeso, perché Billy non resiste alla curiosità di intrufolarsi in palestra, la notte precedente l’evento, per ammirare quell’universo «che domani crollerà con una sola, delicatissima spinta». Ma dalla porta lasciata semiaperta entra una cavalletta, che si avvicina pericolosamente alle tessere, poi la situazione peggiora ancora perché va via la luce, e Billy non può rischiare di inciampare… e invece sì, inciampa, ed è la catastrofe. Crolla tutto. Ma la storia di Billy è una storia di «ricostruzione», e anche in questo delicato, mai esplicitato, simbolismo, sta gran parte della profondità di questo racconto così apparentemente stralunato e leggero. Come farà, Billy, a ricostruire, a riparare? È proprio qui che, capitolo dopo capitolo, si snoda l’avventura, un’avventura degna di questo nome, nella quale, ogni volta che la soluzione sembra approssimarsi, un nuovo problema più terribile si affaccia. C’è da temere non solo la spada da samu-

rai di Matamoto (personaggio divertentissimo che parla in haiku, ma pure per dire cose normali, non per formulare chissà quali elevati pensieri), ma anche l’ira del papà, il signor Onofrio Bologna, e due cattivi (e molto comici) malviventi che fanno la loro comparsa a un certo punto della storia. Tuttavia c’è anche chi aiuta Billy, nella fattispecie un ragazzo con un flauto magico, una sorta di angelo (e infatti si chiama, nome geniale, «Angelho, con l’acca»), il suo cane Mirko («con la kappa») e tanti, tantissimi, granchi. Cosa c’entrano i granchi? Non posso dirvi tutto, ma vedrete che in questa storia, ogni pezzo, anche se sembra non c’entrare, perché nulla è mai scontato, si inserisce perfettamente nel quadro di insieme. Ancora una cosa in conclusione: questa è una storia che emana musica. Sia per il ritmo della scrittura di Cinquetti, sia per la sua capacità di rendere la sonorità del flauto, quella dei versi di Matamoto, quella persino dei cori del pubblico sugli spalti del palazzetto. Un crescendo di suoni e di emozione, fino al dissolversi tranquillo della luce, alla fine della gior-

nata, quando la tensione si scioglie e tutto si ricompone, in un modo nuovo, migliore di prima. Ciao, Billy. Andrew Knapp Dov’è Momo? Topipittori (Da 2 anni)

Per i più piccoli, un libro fotografico appartenente al genere del «cerca e trova», da leggere col ditino da puntare sulle pagine: il fotografo Andrew Knapp ci propone vari contesti (il parco giochi, la palestra, il cantiere, la cameretta…) in cui ogni volta è nascosto il suo cagnolino Momo. Dov’è Momo? È qui!! Ogni volta la gioia di scovarlo, e di nominare gli oggetti che appaiono nei diversi ambienti.


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Lenire con le piante Fitoterapia

In natura si trovano ottimi coadiuvanti per alleviare stati d’ansia, di tensione e insonnia

Eliana Bernasconi

Nei tempi tristi che attraversiamo, momenti duri mettono alla prova il nostro equilibrio psicofisico, ma nelle diffuse situazioni di disagio sono molte le piante rilassanti e sedative che possono aiutare a convivere con tristezza e senso di impotenza, con depressione, ansia, variazioni di umore o insonnia. Le piante sole non servono a guarire casi seri che richiedono psicofarmaci o interventi di psicoterapia, ma possono essere utili ad esempio quando queste cure, con il consenso del medico, possono essere sospese. Così come mettiamo sempre in guardia sui pericoli di chi si rivolge con leggerezza alla fitoterapia e la ritiene innocua solo perché naturale, affidarsi a personale specializzato è sempre assolutamente indispensabile. Non sono pochi i rimedi per i disturbi sopramenzionati fra i quali scoprire quello che ci dona sollievo, indicato per noi, da adottare fra tutti. Le piante più efficaci, come spesso succede, sono anche le più umili e poco riconosciute nel loro vero valore, come la primula «primula vulgaris» della famiglia delle primulaceae, che ci sorprende improvvisa a gennaio con il suo eterno lievissimo giallo, precedendo i bucaneve, e ci ricorda che se le stagioni si succedono sempre, forse anche il nostro animo potrebbe tornare sereno. Si usano radici, foglie e fiori; i principi attivi calmanti di cui è ricca sono concentrati nelle radici, è indicata per malinconia, depressione e insonnia. È ricca di alcaloidi, flavonoidi e olî essenziali che aiutano a calmare il sistema nervoso; in caso di forti crampi distende la muscolatura e può agire beneficamente sulle fasi del sonno. Nel Medio Evo, una fra le prime donne scienziate, la monaca benedettina Ildegarda di Bingen, anticipava di secoli la medicina olistica moderna parlando di «viriditas», l’energia verdeggiante legata all’ordine cosmico presente in ogni essere vivente. Secondo le teorie del suo tempo, uomo e universo sono collegati, e se qualcosa nella viriditas si esaurisce, l’organismo si ammala, e per guarire do-

La Passiflora, o Frutto della passione è detto anche il «calmante amico delle donne» perché lenisce i dolori mestruali. (Wikipedia)

vrà assumere quella parte di energia di cui è carente attraverso le piante. «La primula è calda», diceva Ildegarda, «prende tutta la sua forza verde dal Sole allo Zenith, perciò scaccia la malinconia, che quando insorge rende l’uomo triste e inquieto nel suo comportamento, perciò quest’uomo si ponga la pianta sulla carne e sul cuore per scaldarlo e gli spiriti che lo tormentano cesseranno di tormentarlo». E, proseguiva ancora (ma questo rimedio lo consiglieremmo solo ai più coraggiosi…): «…anche un uomo talmente oppresso nella testa da linfe cattive da perdere talvolta l’intelletto, prenda quest’erba e se la ponga sul cranio (…), dopo essersi rasato, vi porti sopra una fasciatura e la ponga allo stesso modo sul petto, non la tolga per 3 giorni e ritroverà la ragione…». Il decotto di foglie e fiori di primula nella medicina popolare era bevuto contro l’emicrania e come depurativo e rinfrescante; una miscela contro l’insonnia si otteneva mescolando

fiori e brattee di primula (cioè la parte di foglie verdi che sostiene il calice del fiore), fiori di tiglio, foglie di margheritina, menta, alchemilla e fiori di camomilla. Un’altra famosa pianta che guarisce tachicardia e palpitazioni, tranquillante, ipotensiva e sedativa è il biancospino, insieme al quale è impossibile non nominare la valeriana, che ha proprietà antinevrotiche e anti isteriche, sedative cerebrali, cardiotoniche, ipotensive. La melissa è considerata dalla fitoterapia moderna il miglior rimedio contro i disturbi gastroenterici di origine ansiosa, è calmante e pare curi la paura di non dormire e la fame nervosa che si esprime nel desiderio immotivato di dolci. Studi avanzati condotti con un placebo hanno rilevato come l’assunzione di estratti di melissa produrrebbe un aumento della capacità di attenzione e un miglioramento di memoria, capacità di decidere e senso dell’orientamento. Anche dell’antico tiglio, e

del dolce profumo dei fiori portato dal vento è impossibile non parlare, fra le innumerevoli proprietà ha quella di essere un potente sedativo e ansiolitico indicato per insonnia, aritmie e ipertensione; la tisana di tiglio e fiori d’arancio è indicata per i bambini come blando calmante. Abbiamo poi il tanto prescritto iperico, o erba di San Giovanni, chiamato «erba del sorriso», tramandato da tempi antichi per curare depressione, tristezza e cali di energia psicofisici. I potenti principi attivi del suo fitocomplesso agiscono sulla serotonina e sulla dopamina, i neurotrasmettitori che in modo naturale regolano il tono dell’umore. «Calmante amico delle donne» è invece soprannominata la passiflora o fiore della passione, che lenisce il dolore, scioglie le contratture muscolari, agisce direttamente e rapidamente sul sistema nervoso centrale e sull’insonnia dovuta a nervosismo, ed è presente in molte miscele sedative. Della mitica verbena, venerata nell’antichità

da romani e greci perché ritenuta promotrice di pace, si usano le parti aeree fiorite; è consigliata negli stati depressivi lievi e irregolari alternati a piccoli momenti di euforia, pare possedere un effetto benefico per l’ansia che si manifesta al mattino. Un’altra azione sedativa è prodotta dal luppolo, i cui teneri germogli rampicanti e commestibili sono frequenti nei cespugli durante tutta l’estate. Vi è anche la lavanda, dalle innumerevoli qualità che sarebbe superfluo descrivere, in infuso è calmante, secondo ricerche l’olio essenziale avrebbe una benefica influenza sulla qualità e la durata del sonno; il suo inconfondibile profumo sciolto nell’ambiente o nell’acqua di un bagno combatte con successo tensione nervosa e insonnia. Dalle montagne siberiane giunge la rodiola rosea, dal greco «rhodon» (rosa), per il profumo della sua radice. Nella medicina tradizionale tibetana cura le malattie respiratorie, mentre nella medicina cinese i disturbi del sonno e della memoria; le radici hanno proprietà antiossidanti e, si dice, la capacità di bloccare o rallentare i fenomeni di neurodegenerazione e senescenza cerebrale, migliorando deficit cognitivi dovuti all’età. Le cause che disturbano le varie fasi del sonno sono innumerevoli, può essere turbato l’inizio, il sonno profondo che è il più rigenerante, o la fase detta Rem (che precede il risveglio). Per ottenere un sonno soddisfacente occorrono sempre piante ad azione sedativa, antispasmodica, leggermente narcotica, oppure miscele appositamente selezionate. Trascriviamo qui un’antica ricetta estratta dalla lista dei rimedi suggeriti nei monasteri, luoghi dai quali si diffuse nel mondo la fitoterapia. Per un sonno sereno miscelare 2 pizzichi di ognuna di queste piante: melissa, maggiorana, salice bianco, lavanda, tiglio, malva, salvia, verbena, arancio amaro, lasciare in infusione 5 minuti in acqua bollente, filtrare e bere ogni sera dopo cena fino alla scomparsa del disturbo.

Nome e immagine modificate a tutela della personalità.

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Vivere d’aria

Sostenibilità ◆ Con la pandemia abbiamo riscoperto il valore di un gesto semplice ma fondamentale per la vita: il respiro. Ma come trattiamo l’elemento da cui tanto dipendiamo, l’aria, che ci pervade e sovrasta? Amanda Ronzoni

L’Aria, dei cinque elementi (con Acqua, Fuoco, Terra e Legno) è l’unico «invisibile». È tutta intorno a noi, nei nostri polmoni, ci siamo completamente immersi. Non la vediamo, ma la respiriamo, possiamo sentirne la purezza, i profumi quando siamo in ambienti naturali, oppure capire quanti danni stiamo facendo quando ci troviamo nel traffico e avvertiamo la puzza di smog. Nonostante da questo elemento dipenda la nostra salute, la nostra stessa vita (oltre a quella della maggior parte delle specie viventi), vi scarichiamo una quantità impressionante di scorie e non solo. Siccome siamo una specie creativa, la saturiamo anche di luci e rumori, tanto che il termine inquinamento non si riferisce più solo alla qualità della sua composizione, ma si è arricchito di nuove sfumature, come «luminoso» e «acustico». Si sente molto parlare di polveri sottili, smog, ozono e diossido di carbonio, ma spesso trascuriamo i danni che stiamo apportando all’aere in termini di disturbi sonori e luminosi.

Oggi l’uomo disturba e scombussola le specie viventi anche attraverso l’inquinamento luminoso e acustico Partiamo dai primi. L’orecchio umano, mediamente, è in grado di percepire suoni che coprono una gamma di frequenze tra i 20 e i 20mila Hertz, ma è tra i 2mila e i 5 mila Hz che sentiamo meglio. Si tratta di un retaggio antico, quando la vita dei nostri progenitori dipendeva dal saper ascoltare e reagire prontamente agli stimoli ambientali da cui erano circondati. Ce lo dimostra un interessante esperimento condotto da Gordon Hempton, studioso ed esperto di ecologia acustica (https://www.soundtracker. com/) che si occupa da anni di registrare in tutto il mondo suoni natu-

rali che stanno svanendo. Hempton ha campionato tutti i suoni possibili e immaginabili in cui siamo immersi, naturali e non, li ha mixati e ha applicato un filtro che lasciasse passare un’unica frequenza: quella ottimale per il nostro orecchio, ovvero 2500 Hz. Un unico suono ha bucato il filtro: il canto degli uccelli. Questo perché per millenni la melodiosa presenza di avifauna ha avuto per l’uomo un significato preciso: un ambiente prospero. Dove ci sono uccelli che cantano ci sono acqua, cibo e condizioni ideali per nidificare. Il loro canto ha sempre guidato i gruppi di cacciatori nomadi nelle loro peregrinazioni in cerca di risorse per vivere. Eppure oggi abbiamo creato una serie di suoni e rumori artificiali, in grado di coprire quelli naturali, in totale disarmonia con quelli prodotti da tutti gli altri esseri viventi. Produciamo disturbi sonori nocivi non solo per le altre specie animali, ma persino per le piante, che crescono «ascoltando» a modo loro le vibrazioni prodotte dall’acqua nel sottosuolo e dirigendo opportunamente le radici verso questa risorsa. E noi stessi non siamo immuni dai danni provocati da questo tipo di inquinamento: ipertensione, problemi cardiovascolari e nervosi: vivere in un ambiente rumoroso può influire sui livelli dell’ormone dello stress nel sangue, con ricadute sul nostro sistema immunitario e persino sulle capacità riproduttive. Non va meglio sul fronte dell’inquinamento luminoso. L’uomo moderno ha deciso di bandire il buio dalla propria esistenza, in nome di progresso e sicurezza. Basta dare un’occhiata al sito Lightpollution (https://www.lightpollutionmap.info/) per vedere come abbiamo addobbato il planisfero tipo albero di Natale. E anche qui i danni sono ad ampio raggio. Gli animali ne restano disorientati, quelli notturni in generale – gli impollinatori notturni in particolare

Invisibile ma indispensabile: tutti gli organismi viventi hanno bisogno dell’aria. (Amanda Ronzoni)

–, come anche le specie di migratori che si spostano con il favore della notte. Diversi studi (uno su tutti «The dark side of light: how artificial lighting is harming the natural world», di Aisling Irwin, Nature, 2018) dimostrano che i ritmi biologici ne risultano alterati. Anche i nostri: la luce artificiale notturna (ALAN Artificial Light at Night) inibisce la produzione della melatonina – l’ormone del sonno, rilasciato nel cervello durante le ore notturne, che ha un ruolo fondamentale nella regolazione del ciclo circadiano, da cui dipendono non solo l’alternanza tra sonno e veglia, ma anche molte risposte neuroendocrine (contribuendo all’insorgenza di tumori) e comportamentali. Non da ultimo, lo spreco di energia elettrica ha un peso non indifferente sull’economia, come ci ricorda Dark Sky Switzerland (http://www.darksky.ch/). Come dicevamo, quella umana è

una specie molto creativa e una delle nostre specialità è quella di allargarci, fino ad arrivare là dove nessun uomo era mai giunto prima, per citare il noto incipit di un’amata serie televisiva. E così siamo riusciti a creare una discarica in aria, proprio sopra le nostre teste. In orbita si stima circolino qualcosa come 8mila tonnellate di rifiuti: resti di satelliti, sonde, pannelli solari, frammenti di motori, parti di navicelle e razzi, utensili vari andati perduti nel corso delle missioni alla conquista dello spazio. Tra questi – forse il più famoso detrito spaziale –, c’è la gloriosa fotocamera Hasselblad smarrita da Michael Collins nell’agosto del 1966, durante la missione Gemini 10. Il problema è che questi oggetti, anche se minuscoli, viaggiano a una velocità spaventosamente alta, e sono in grado di danneggiare strumentazioni operative come i satelliti o la Stazione Spaziale Internazionale. Secondo

un modello statistico dell’ESA, si calcola che ci siano in orbita più di 130 milioni di oggetti grandi tra il metro e 1mm. Se vi sembrano pochi e insignificanti, sparpagliati nell’immenso blu del cielo, date un’occhiata a questo video dell’ESA che ne traccia le orbite (https://youtu.be/-LL1MBpTN4w). Riparare al danno fatto non sarà semplice, ma sicuramente l’impresa avrà un che di epico: dal 2025, l’azienda svizzera Clear Space (https://clearspace.today/), in collaborazione con ESA, lancerà la prima missione attiva per la rimozione di un detrito orbitante, denominata ClearSpace-1, per il recupero di un oggetto di circa 100kg. Aria, aere, pneuma, atmosfera, spazio: il quinto elemento. Il più fragile? Il più importante? No, al pari degli altri, uno dei cinque tasselli fondamentali dell’esistenza a cui dobbiamo più rispetto.

Elettrico conviene sempre Motori

Auto elettriche sempre più richieste, e così aumentano anche performance, autonomia e risparmio

Mario Alberto Cucchi

Ogni settimana in tutto il mondo si vende lo stesso numero di auto elettriche che è stato venduto in tutto il 2012. Un numero che parla e racconta che l’elettrificazione sta procedendo a passi spediti. Eppure sono molti gli automobilisti che ancora hanno dubbi. In rete e non solo rimbalzano domande che a volte sembrano senza risposta ma così non è. Vediamone alcune partendo da un problema rilevante, quello occupazionale: le auto elettriche faranno perdere posti di lavoro? Nel 2035 pare che non si venderanno più auto con motori tradizionali. Il mercato del nuovo sarà esclusivamente elettrico. Secondo le associazioni si potrebbero perdere 70mila posti di lavoro. Ma nel frattempo al Summit Cop26 hanno stimato che con la riconversione ecologica si andranno a creare 20 milioni di nuovi posti di lavoro. Lavoro che perdi lavoro che trovi. Passando a un aspetto tecnico: le ricariche veloci sono un’utopia? No.

Oggi stanno aumentando le velocità di ricarica grazie alle superstazioni che prevedono l’utilizzo di un solo connettore. Il CCS Combo (Combined Charging System) arriva a erogare una potenza massima di ricarica di 350kW e nel tempo di un caffè può fornire l’energia necessaria per raggiungere lo scopo. Certo che la ricarica veloce non basta, i mezzi devono essere in grado di accettare l’energia fornita e oggi ci sono ancora molti mezzi che ricaricano solo a 6kW. Continuando sul pratico: le autonomie sono scarse? Ormai hanno passato i 500 chilometri e stanno crescendo anche per le ibride. Basti pensare che Land Rover per la sua nuova Range Rover Hybrid Plug-in aveva stimato un’autonomia EV di 100 chilometri che poi si sono rivelati 113 ovvero oltre il 10% in più. Ma gli appassionati del gasolio e della benzina insinuano dubbi come questo: l’auto elettrica si chiama a zero emissioni ma nel suo intero ciclo produtti-

vo inquina tantissimo. Certamente guardando l’intero ciclo produttivo non si può parlare di zero emissioni ma va fatta una comparazione con i carburanti tradizionali. Uno studio del MIT (Massachusetts Institute of Technology) ha rilevato che

comparando l’intero ciclo di vita di un mezzo con motore tradizionale e un Electric Vehicle le emissioni totali di quest’ultimo sono senza dubbio inferiori. Estremizzando il concetto, nella peggiore delle ipotesi un mezzo elettrico prodotto in Cina, spedito

Sempre più automobilisti si affidano all’elettrico.

via nave in Europa e guidato in Polonia, emette ancora il 28% in meno di CO2 rispetto a una vettura a benzina. Nel migliore dei casi un’automobile elettrica prodotta in Svezia e guidata sempre in Svezia emette l’81% in meno di CO2 rispetto a una alimentata a benzina. Insomma non c’è confronto! Va detto infine che gli automobilisti nel 2022 sono incentivati a cambiare in elettrico anche dall’aumento spropositato del costo dei carburanti. Un’ascesa che potrebbe non essere ancora finita dato che nel 2008 il Brent, principale indicatore mondiale del petrolio arrivò a toccare i 140 dollari al barile contro i circa 100 attuali. Forse anche per questo lo scorso mese di dicembre, fine 2021, in Europa si sono vendute più auto full electric che altro. Insomma le auto a zero emissioni piacciono e molto, ma i negazionisti dell’elettrificazione, ne siamo certi, continueranno a far sentire la propria voce. Dai no vax ai no watt.


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Anno LXXXV 2 maggio 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

SOCIETÀ / RUBRICHE

L’altropologo

di Cesare Poppi

I dilemmi del giovane Plinio ◆

Uno dei risultati paradossali del Comunicozoico, sezione specifica dell’Antropocene recentemente individuata dall’Altropologo, è che più si moltiplicano i mezzi di comunicazione d’ammasso e meno ci si capisce. E meno ancora ci si intende su quanto e cosa si possa dire, pace quello che si debba dire. Altroché Babele. Allora almeno non si poté più capire a prescindere per via dell’implosione dei media fino ad allora globalizzati voluta dall’Hacker Supremo. Motivo? Boh?! A Suo dire, si narra, fu perché l’umanità si era montata la testa per imbarcarsi in un’impresa edilizia di tale portata da fare impallidire le torri di Dubai – che infatti stanno ancora in piedi. Fu però di conseguenza, allora, possibile avviarsi su di un percorso di redenzione – lungo, faticoso, più spesso che no tragico, contraddittorio, fragile, inutilmente crudele e dunque tanto più patetico – che comunque (così ci siamo narrati), ha aperto nella Selva Oscura una

varietà di passaggi – percorsi alcuni aperti ed evidenti a tutti, altri cifrati e misteriosi «solo per adulti specialisti» sì da poter mettersi in rotta per poi approdare a quel Raziocene dove sembrava che le magnifiche sorti e progressive del Bardo di Recanati fossero finalmente vendicate. Fermi! Calma e gesso (così raccomandava il Senatur): non mi imbarcherò a mia altropologica volta in una filippica nostalgica di quando una volta sì le cose fossero chiare, il bianco era bianco, il nero era nero e il grigio solo una brutta giornata. A chi piace ammonire come niente sia più come una volta occorre ricordare come sia sempre stato così, e dunque… No: la querelle di Bucha (e le altre a rimorchio che verranno) ha portato in superficie, ovvero ribadito per chi avesse scarsa memoria, come anche – e soprattutto – nel Comunicozoico, la sorte di Babele si riproponga. Però, questa volta, a tavoli ironicamente rovesciati: all’U-

La stanza del dialogo

nico occhio elettronico – globale, multinazionale e moltiplicato in una babele di video – quello che i molti Spettatori Divanati dei Paesi Liberi possono misurare «per la verità dei fatti» corrispondono «narrative» opposte: «Sono stati Loro»; «No, siete stati Voi per far credere che siamo stati Noi»; «Noi: sono stati Loro per far credere che siamo stati Noi per far credere che siano stati Loro perché così Noi…». Di questi infantili ambarabàciccìcoccò risuonava il cortile di periferia dove da bambini si finiva per darsele per determinare senza equivoci chi «avesse cominciato». Poi per fortuna interveniva La Mamma. Ma ricordo che alcuni finirono in ospedale. Il 30 aprile del 311 dopo Cristo segna la fine delle persecuzioni delle autorità dell’Impero Romano contro i Cristiani. Se l’ultimo a darci dentro fu Diocleziano – sua la responsabilità tanto dell’ultima e più severa persecuzione quanto della loro fine (poiché

se c’è un fatto di cui possiamo esser certi è che ogni guerra finisce con una pace, e quello sì, è sempre stato così) – i suoi colleghi Severo, Massimiano e Costanzio a partire dal 303 non si erano risparmiati. Ma la storia era lunga già allora. Già dal 111 d.C. in Ponto e Bitinia (attuale Turchia Settentrionale) serpeggiava un’opposizione alla centralità Romana. Divenuto Governatore, Plinio il Giovane (nipote del Vecchio) si trovò a dover dipanare l’aggrovigliata matassa di una potenziale esplosione dei conflitti etnici, economici, religiosi (e le micidiali, intrattabili e velenose interfacce che ne risultavano). Un cauto, responsabile Plinio intento a capire quali mai fossero i «crimini» dei cristiani che a lui sembravano tutto sommato, per i loro standard morali, meno da temere di altri candidati alla repressione… chiedeva all’Imperatore Traiano come comportarsi nei loro confronti. Traiano – da quel grande Servo dello Stato che fu senza mai

farsi ingannare da chi lo voleva Dio (la Divinità dell’Imperatore era, come capirono Servitori dello Stato del calibro di Marco Aurelio e pochi altri, una misura di propaganda mediatica per gli idiotes che altro non potevano comprendere) – raccomandava prudenza, accertamento dei fatti e circostanze in uno scambio di lettere col suo Governatore che resta oggi esemplare per equilibrio, senso dello Stato e senso – udite udite – della responsabilità di chi governa di preservare anzitutto la pace sociale. Nella storiografia moderna dominante quanto, cosa, come e perché le «narrative» della persecuzione dei cristiani siano così contrastanti dipende da un rinunciatario «punto di vista», la «narrativa». Da un relativismo ovvero – ha firmato l’appello l’Altropologo con una X – che nella ricerca della verità – quella di fatica a lettera minuscola – ha dimenticato di relativizzare il relativismo. Hic Rhodus, hic salta.

di Silvia Vegetti Finzi

Maternità incondizionata

Gentile signora Vegetti Finzi, la ringrazio di affrontare spesso il tema della maternità e i suoi libri, in determinati periodi della mia vita, mi sono stati di grande conforto. Sono una donna di quarant’anni, mamma a tempo pieno di tre figli. Due gemelli di nome Leonardo e Giulio di nove anni e una figlia di tre anni, Virginia. Credevo che con l’arrivo della femmina sarei stata serena, invece inaspettatamente è nato in me un nuovo fortissimo desiderio di maternità. Forse questo istinto è rifiorito per colpa di tutto quello che nel mondo succede con la pandemia e ora questa guerra così vicina. Ho sempre avuto un pessimo rapporto con la morte. Allora cosa c’è di più potente se non rispondere a essa con la vita? Vorrei tanto avere questo quarto figlio e poi chiudere tutto. Essere finalmente libera dall’istinto, anche fisico, che non mi abbandona. Mio marito purtroppo non condivide questo mio desiderio. Dice che

lui mi è venuto incontro, concedendomi la possibilità di avere anche una figlia femmina e ora tocca a me comprenderlo e assecondarlo. Ma non ci riesco, è una rinuncia enorme. Ogni mattina piango per questa vita che non potrà vedere la luce. Certo anch’io mi preoccupo: ho paura di non riuscire a seguire bene gli altri figli o di tornare a dormire poco. E mi chiedo se non sarebbe meglio compensarmi con un cane. Farebbe più contenti i ragazzi! Ma non ci riesco! Cosa posso fare? / Maria (una grande amante della vita) Cara Maria, benché a molti e a molte il suo desiderio possa sembrare strano, quasi un capriccio, la comprendo per tante ragioni e passioni. Innanzitutto perché anch’io, avendo cercato per otto anni di avere un figlio, conosco la potenza della passione materna, la sua capacità di proporsi e di impor-

Mode e modi

si sopra ogni altra considerazione. Ci consideriamo persone civili, responsabili e razionali, eppure vi sono impulsi vitali difficili da addomesticare. È vero che in Germania, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, quando gli uomini stavano partendo per il fronte, vi fu un’impennata di gravidanze e che possiamo interpretare quella reazione come un’affermazione della Vita contro la Morte, ma ora la situazione è molto diversa. Abbiamo raggiunto un grado di libertà che ci consente di scegliere consapevolmente se, quando, come e con chi generare. È stata una conquista di civiltà, ma in certi momenti ci sentiamo inadeguati a risolvere i problemi che la nostra epoca ci pone. Lei è molto acuta nell’analizzare il dilemma in cui si trova che è, innanzitutto un conflitto interno tra conscio e inconscio: l’inconscio non conosce il tempo, è egocentrico, as-

soluto e assillante, per cui la ragione tende a retrocedere di fronte alla sua insistenza. Ma alla fine, nella maggior parte dei casi, è la ragione ad avere la meglio. Vediamo come. Per prima cosa occorre umanizzare l’istinto trasformandolo in desiderio. Il desiderio è il motore della nostra vita e, se non lo riconosciamo, rischiamo che si esprima attraverso il corpo con sintomi psicosomatici. Ma lei è ben consapevole di desiderare un figlio o, forse, una gravidanza, che non è la stessa cosa. Tuttavia non è un caso se, per restare incinta, lei non si rivolge a un donatore anonimo ma, come è giusto, a suo marito, compagno di vita e padre dei suoi figli. A questo punto i protagonisti dell’impresa sareste due, cui va aggiunto il bambino che dovrebbe nascere e, perché no? quelli che sarebbero i suoi fratelli. Rispetto a queste persone, che costituiscono la sua fa-

miglia, lei è profondamente responsabile e, se è una «persona per bene», nel senso forte dell’espressione, deve ragionare in termini di «noi», non di «io». Tutti si nasce figli e tutti desideriamo essere stati desiderati da entrambi i genitori. Perché negare a priori questo diritto a chi, non essendo nato, non ha parola? Poiché la soluzione del dilemma non sarà facile, le suggerisco di confidarsi con sua madre o con un’amica matura e saggia. Resto convinta, come sapete, che insieme si pensa meglio. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

di Luciana Caglio

Acquisti e svaghi: consolazioni momentanee ◆

Anche la televisione, compagna di vita più che mai indispensabile, si adegua alla situazione. Fabio Fazio, che il mestiere lo pratica con invidiabile competenza, è corso ai ripari. Da alcune settimane, Che tempo che fa, godibilissima serata domenicale che, su Rai 3, offriva attualità all’insegna del buon umore, ha cambiato connotati: meno spettacolo e più informazione, meno attori e più politici e pensatori vari. A farne le spese è stato proprio il finale: «Il tavolo», che riuniva una compagnia strampalata: un’Orietta Berti rinata, il mago Forest, Marisa Laurito, Antonio Albanese, Gigi Marzullo, Fabio Volo, e via enumerando vecchie e nuove star del divertimento che garantisce la risata. Punto culminante, l’intervento di Nino Frassica. Ora, per evidenti motivi di opportunità, questo momento di alle-

gria collettiva è stato cancellato. Fazio ne ha salvato soltanto un frammento, affidato all’umorismo assurdo di Frassica. E così, la serata si conclude con giornalisti, politici, filosofi, ecc. impegnati a commentare immagini che arrivano da Kiev e da Odessa, e che parlano da sole. Con ciò, nulla da eccepire, la serietà è d’obbligo anche sul video, dove però i programmi, e non solo quelli italiani, questione di sopravvivenza, sono costretti a ospitare immagini e voci di segno opposto. Si tratta delle interruzioni pubblicitarie, sempre più invadenti, che possono sembrare fuori luogo, irrealistiche. Invece svolgono, a loro volta, un ruolo utile: esprimono e sollecitano un bisogno reale, quello di tornare alla normalità, dopo le restrizioni, imposte prima dal covid e poi dalla guerra. Gli addetti ai la-

vori della pubblicità, lavoro che associa arte e affari, si stanno impegnando per soddisfare le esigenze, a volte latenti, di un pubblico che non è più esattamente quello di prima. Si è abituato a stare in casa e apprezza le consegne a domicilio: da qui i depliant e i cataloghi illustrati, che intasano le buche delle lettere. Sta convertendosi, magari suo malgrado, al virtuale: consulta telefonini, tablet e naturalmente canali televisivi pubblici e privati dove i messaggi pubblicitari occupano spazi esorbitanti e ripetitivi. Riservando, però, piacevoli sorprese. Alludo allo spot Denner del bambino che scavalca la sponda del lettino, apre il frigo, non vede il latte, e traballante si reca in negozio, dove ne trova a iosa, grazie all’aiuto di un intenerito commesso. Divagazione sentimentale a parte,

sta di fatto che la pubblicità sfrutta abilmente gli umori che sono nell’aria. Complice la primavera, in tempi lontani associata alle grandi pulizie domestiche, adesso si progettano weekend e vacanze, ci si rimette in forma in palestra o al tennis, si affolla la foce della Lugano cosiddetta marittima. Simbolo della bella stagione, l’acquisto vestimentario, ovviamente superfluo. Tutto ciò, in nome di un diritto irrinunciabile nei confronti del proprio benessere, con effetti su quello dell’economia. Certo, c’è la guerra ma, nei confronti dei profughi, abbiamo fatto la nostra parte. Un conto saldato, insomma. Tanto che capita di ascoltare osservazioni del tipo: «Non sono neppure tutti poveri: girano macchine di lusso targate Ucraina». Si deve, tuttavia, fare i conti con un disagio particolare, che rischia d’in-

taccare la ritrovata normalità che procura piacere. Proprio l’acquisto, un vestito, un paio di scarpe, una borsa, cioè un gesto in sé banale ha conseguenze diverse, rispetto a quelle abituali. Non è più soltanto il cedimento a una tentazione, irragionevole per via degli armadi già pieni. Comporta un senso di colpa: stato d’animo che, come spiegano gli psicologi, è provocato da un’azione o da un’omissione. In altre parole, abbiamo offeso o danneggiato qualcuno o ci siamo astenuti dall’aiutarlo quando ne aveva bisogno. E, sia chiaro, la nostra attuale colpevolezza è soltanto un’omissione di cui l’acquisto è però il sintomo di un fenomeno, che Edgar Morin aveva presagito già negli anni 60: con l’avvento della società di massa e del consumismo, la libertà individuale è diventata egoismo.


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TEMPO LIBERO ●

Senlis la bella Alla scoperta dell’antica cittadina francese di Senlis, nell’Oise, un tempo chiamata Augustomagus

Nell’incanto di Piansecco In Valle Bedretto, non lontano da All’Acqua e dopo gli ultimi larici, si trova Piansecco

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Linguine e rapa Chi l’ha detto che il pesto si faccia solo con il basilico? Alla scoperta del pesto di cavolo rapa

Collezionare… di tutto Nella collezione di Robertino Bay troviamo vecchie casse di birra ed elmetti dei pompieri made in USA

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Uno sport affascinante, anche se forse non proprio per tutti. (Moreno Invernizzi)

Nella scia di Icaro: il fascino del Wingsuit

Adrenalina ◆ Vi dice niente il nome Patrick de Gayardon? Il più famoso base-jumper è stato una specie di pioniere, oltre che un modello a cui molti si sono ispirati, lanciandosi nel vuoto con una tuta alare

Moreno Invernizzi

Erano, quelli, gli Anni Novanta, quelli in cui questa disciplina faceva il suo grande ingresso fra gli sport estremi. C’è però modo e modo di usare la tuta alare: c’è chi la indossa per fare del base-jumping, come appunto de Gayardon e i suoi emuli, oppure chi lo fa nell’ambito del paracadutismo, lanciandosi dunque da un aereo. E fra questi ultimi c’è Massimo Guidi, che abbiamo incontrato per conoscere più da vicino questo sport. «Per chi non lo pratica, di prim’acchito può sembrare una cosa estremamente pericolosa. Non a caso quando avevo accennato a mia madre dell’intenzione di lanciarmi con una tuta alare, 3 o 4 anni fa, qualche reticenza da parte sua c’è stata – racconta il 34enne di Arbedo –. D’altra parte la capisco… Per rischioso che sia, il paracadutismo è però di gran lunga più sicuro del base-jumping. Non foss’altro che quando ti lanci da un aereo, di ostacoli fisici non ne hai, se non i compagni in volo con te… Partendo da una quota di 4000 m, poi, anche se per un motivo qualsiasi perdi per qualche secondo il controllo della situazione, hai tempo a sufficienza per porvi rimedio. Lanciandoti da una roccia,

invece, il margine d’azione è praticamente nullo. Le due discipline si praticano sì con la medesima tuta, ma cambiano i paracadute: quello da base-jumping è uno solo, mentre noi ne abbiamo anche un secondo, di emergenza, e non da ultimo un sistema di estrazione automatico della vela in caso di superamento della quota minima limite». Malgrado trecento lanci con la tuta alare all’attivo, Massimo non si sente un «veterano» di questo sport: «No, affatto; sono piuttosto un paracadutista… della domenica. Con una bambina nata da poco, poi, il tempo da dedicare a questo sport si è ridotto di parecchio. I più esperti (uno su tutti lo svizzero Daniel Ossio) viaggiano sull’ordine di migliaia di lanci con le tute alari». Al Wingsuit, a ogni buon conto, non si arriva così dal nulla: ma per gradi. «Si comincia col paracadutismo classico. E anche qui c’è una scaletta ben definita da seguire: prima il corso base, poi il conseguimento del brevetto e infine, quando si è raggiunto un minimo di duecento lanci col paracadute, si può fare il grande passo». Il fine, nel caso di Massimo, giustifica i mezzi: «Fin da

quando ho visto la prima tuta alare ho capito che quella sarebbe stata la mia strada: è stato quello che mi ha spinto a fare il paracadutismo, visto che per arrivare al gradino finale dovevo per forza passare da lì». E cosa si prova quando si è nell’aria, col vento che gonfia la tuta e il vento che ti sferza contro? «Premetto che quello di indossare il Wingsuit è stato l’ultimo step di un avvicinamento all’aria iniziato nel 2013 col parapendio, per poi passare allo speed flying (decollo da una pista da sci, con una vela piccola, ma di questo non è detto che torneremo a parlare in un’altra puntata), il paracadutismo e, da ultimo, appunto, la tuta alare, per cui la sensazione di librarmi nel vuoto già la conoscevo. A spingermi in quota è logicamente stata la passione per il volo, che avevo fin da ragazzo. Malgrado sia diventata una sorta di routine, ogni volta che mi lancio avverto una certa scarica di adrenalina, anche dopo così tante volte… con la testa tra le nuvole. Quando ci si lancia nel vuoto si prova una sensazione di assoluta libertà. Ti senti né più né meno come un aereo, che puoi governare semplicemente muovendo anche solo la testa o il baricentro

del tuo corpo. C’è chi in gruppo fa le uscite in bici, io, invece, in gruppo mi lancio nel vuoto con la tuta alare: spesso, infatti in quota ci vado in compagnia». Da come lo racconta, sembra quasi essere… nato con la tuta alare indosso. «No, affatto. Ho fatto anch’io la gavetta, e le prime volte, quando mi lanciavo in tandem, per trovare il coraggio di salire sull’aereo mi è anche capitato più di una volta di bere un limoncino. L’apice della tensione lo provi quando si apre il portellone dell’aereo e senti l’aria entrare: è lì che percepisci che è arrivato il grande momento. Le prime volte ti si stringe lo stomaco, soprattutto quando scorgi quel minuscolo puntino a terra che rappresenta l’aeroporto di Magadino, dove sei… diretto. Col passare del tempo e l’esperienza, poi, queste sensazioni forti si attenuano. Anzi, dopo la pausa invernale senti che hai proprio voglia di tornare a rivivere quelle emozioni. Paura vera e propria, però non ne ho mai avuta in aria. Anzi, a dire la verità ne ho provata di più alcune volte quando l’aereo che ci portava in quota veniva sbalzato da qualche turbolenza, al punto di non vedere l’ora di salta-

re fuori. Non amo essere in balìa degli eventi; preferisco avere il controllo della situazione, cosa che appunto mi riesce quando sono io a gestire il volo, anziché un aereo». La fase più delicata del volo? «Con la tuta è l’apertura del paracadute: la sua superficie più estesa ti permette di avanzare tanto in verticale quanto in orizzontale, e questo fa sì che si creino delle turbolenze particolari attorno al “pilotino”. Pertanto per estrarlo al momento giusto e nella posizione giusta, evitando dunque una discesa a spirale, occorre effettuare una manovra molto simmetrica col corpo». Grazie alle sue «bocchette» (generalmente quattro), in quota il Wingsuit si pressurizza, irrigidendosi. «È questo a permetterti di volare: quando ti lanci dall’aereo con indosso questa tuta ti senti a tua volta una sorta di aereo». Con la tuta alare si possono raggiungere velocità che superano i 200 km/h. La quota di lancio è la stessa del paracadutismo classico: 4000 m. «Ma se col paracadute standard generalmente la caduta libera dura un minuto, con un Wingsuit come il mio puoi arrivare a due minuti e mezzo prima di aprire la vela».


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TEMPO LIBERO

La città di Senlis, resistente alla prova del tempo Reportage

Alla scoperta di una città con un patrimonio culturale testimone di duemila anni di storia

Simona Dalla Valle

Nel cuore del massiccio formato dalle tre foreste di Chantilly, Halatte e Ermenonville, a 40km a nord di Parigi e 25km dall’aeroporto Roissy Charles de Gaulle, si trova la città di Senlis, il cui patrimonio architettonico e culturale è testimone di duemila anni di storia. Dalla sua creazione in epoca gallo-romana, dovuta a una posizione strategica in un crocevia di scambi commerciali, Senlis non ha mai smesso di crescere. In epoca romana aveva il nome Augustomagus, mercato di Augusto, e ricopriva un’area divisa in trentasei insulae rettangolari intersecate dal cardo inaxiinus (un segmento della strada da Senlis a Lutetia, o Parigi) e dal decumanus inaxiinus (parte della strada da Beauvais a Reims). Nel II secolo crebbe l’importanza militare della città che fu circondata da un bastione, tuttora esistente, per far fronte alle invasioni barbariche. Ai margini dell’Île-de-France e della Piccardia, la regione Senlis-Ermenonville è organizzata intorno ai grandi centri come la città reale di Senlis e le grandi tenute di Chaalis-Ermenonville, lungo il solco scavato dal Nonette e dai suoi affluenti, all’incrocio di percorsi storici e grandi itinerari ciclistici (Parigi-Londra, Trans’Oise, Amsterdam-Compostela).

Accanto e sotto, immagini dal centro storico di Senlis, al centro, facciata della Cattedrale di Notre-Dame, in basso, dettaglio dell’Eglise de Saint-Pierre. (Simona Dalla Valle)

Tra l’XI e il XIII secolo Senlis raggiunge il suo apice, forse all’epoca superando addirittura la capitale Ugo Capeto fu eletto re di Francia tra le mura del castello reale nel 987: la sua dinastia condusse a una crescita della vita religiosa ed economica della città. Alla moglie, la Regina Adelaide, si deve la costruzione della cappella reale di Saint-Frambourg nell’ultimo quarto del X secolo. Nel XII secolo la città visse uno dei periodi più sontuosi sotto il regno di Luigi VI detto «il Grosso». La cattedrale di Notre-Dame fu costruita tra il 1153 e il 1191 ed andò ad aggiungersi alle tre chiese parrocchiali, le tre abbazie e la collegiata Saint-Frambourg. Nel 1173 il re Luigi VII concesse a Senlis una carta comunale, che affrancava gli abitanti dal dominio signorile e li sottometteva all’esclusiva autorità del re. Senlis raggiunse il suo apice nei secoli XI–XIII. La città viveva del commercio di lana, cuoio e pellicce. Un confronto tra le piante del XIII secolo di Senlis e Parigi suggerisce che Senlis fosse all’epoca più grande della capitale. Si registrarono un’intensa produzione e commercio di dolci, formaggi, cesti, cuoio e bestiame. Il terreno sabbioso intorno alla città favorì lo sviluppo della viticoltura e nel XVI secolo era in voga l’hypocras, un vino con spezie aromatiche e miele Tra il XIV e il XV secolo vi fu una brusca interruzione del periodo di relativa stabilità e ricchezza economica della città; un’epidemia di peste prima, e la Guerra dei Cent’Anni poi, decimarono la regione a partire dal 1323. Molto indebolita, Senlis si ricostruì lentamente, e all’aumento progressivo della difesa cittadina si affiancò un arricchimento della borghesia, come dimostra la costruzione di palazzi privati presenti ancora oggi. Ma i conflitti non erano terminati per Senlis, che tra il 1585-1598 vide inasprirsi la cosiddetta ottava guerra di religione; inizialmente la città volle rimanere neutrale, ma in se-

guito all’assassinio del duca di Guise nel 1588 le principali città della zona aderirono a una Lega (o Unione Santa) che osteggiava il nuovo re Enrico IV, in quanto protestante, costretto dunque a convertirsi al cattolicesimo. Poiché Senlis lo aveva appoggiato e accolto tra le sue mura, il re concesse benefici fiscali alla città come riconoscimento della sua fedeltà. Oggi una targa sulla facciata del municipio ricorda la gratitudine del re: «Mon heur a prins son commencement en la ville de Senlis dont il s’est depuis semé et augmenté par tout notre Royaume» (La mia felicità è iniziata nella città di Senlis e da allora si è diffusa ed è cresciuta in tutto il nostro regno). I secoli XVII e XVIII furono segnati dallo spostamento dei centri politici ed economici verso Parigi, mentre la corte reale si stabilì a Versailles. La zona rimase tuttavia un popolare luogo di soggiorno per gli ufficiali reali, molti dei quali avevano il loro palazzo a Senlis, e per artisti e intellettuali come Gérard de Nerval, Alexandre Dumas e Alfred de Vigny. Il XVIII secolo vide l’inizio dello smantellamento delle fortificazioni; nonostante la crisi economica, si costruirono abitazioni di lusso. Il 1789 fu segnato dall’«attentato di Billon», dal nome dell’orologiaio che si fece esplodere nella sua abitazione al momento della sfilata degli archibugieri, irritato per la sua espulsione dalla compagnia, provocando 26 morti e 40 feriti. La Rivoluzione passò senza lasciare tracce su Senlis e il XIX secolo fu caratterizzato da bassa natalità e scarse attività economiche, nonostante i

grandi lavori urbanistici che diedero a Senlis la configurazione attuale. A metà dell’Ottocento una grave epidemia di colera colpì la città, che rimase fuori dalle principali vie di comunicazione fino al 1862, anno di inaugurazione della linea ferroviaria Chantilly-Senlis. La città subì ingenti danni durante l’invasione dei tedeschi. Il 2 settembre 1914 il sindaco Eugène Odent fu fucilato insieme ad altri sei senlisiani e, qualche anno dopo, il maresciallo Foch stabilì a Senlis il suo quartier generale e vi preparò le offensive che lo avrebbero portato alla vittoria. Durante la seconda guerra mondiale, la città fu occupata e poi liberata dagli americani il 30 agosto 1944. Gérald Amyot d’Inville, vicario di Senlis, membro della Resistenza con il nome di Lejeune, morì nella deportazione il 29 gennaio. Beneficiando del boom delle «Trente Glorieuses», i trent’anni di boom economico del secondo dopoguerra, Senlis si sviluppò rapidamente e oggi è un centro urbano, economico e occupazionale con più di 15mila abitanti, apprezzato da artisti e cineasti. Il pianista di origine ungherese Georges Cziffra nel 1973 acquistò e fece restaurare la vecchia collegiata di Saint-Frambourg, le cui vetrate furono installate dall’amico Joan Miró. Tra i numerosi lungometraggi girati in città vi è il film Cartouche del 1962, diretto da Philippe de Broca e interpretato da Jean-Paul Belmondo e Claudia Cardinale. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.


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Anno LXXXV 2 maggio 2022

TEMPO LIBERO

Ritorno a Piansecco Itinerari

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A sinistra, un’immagine del Gerenpass scattata nel 2020 (Giovanni Kappenberger), sotto, disegno dell’itinerario.

Un’escursione in alta Valle Bedretto

Romano Venziani

A volte ripeto le cose. Lo so, è solo uno dei tanti effetti collaterali che ci appioppa il passare inesorabile degli anni. Non sempre però la ripetizione è sintomo di senescenza e da convinto assertore dei vecchi aforismi usciti dalle pieghe del tempo, continuo a pensare che, in molti casi, «repetita iuvant». Magari solo per rifletterci su, per stimolare la discussione, per correggere opinioni, ma ripetere è utile. Come quando torno a dire che, pur riconoscendomi un animo giramondo, trovo che il nostro paese offra a tutti noi luoghi straordinari, che non hanno nulla da invidiare a paesaggi più esotici e lontani. Esempi? Ne faccio uno, non a caso. L’alta Valle Bedretto. Non a caso, perché ci sto andando. In questo 31 dicembre del secondo anno pandemico ritorno a Piansecco, dopo qualche stagione d’assenza. Sì, perché è uno di quei posti in cui amo ritornare; in estate, quando l’aria è zuppa del profumo di resina e risuona del gorgogliare dei ruscelli, in autunno, quando la natura sparge pennellate dorate sui larici, in inverno, quando la montagna è immobile, avvolta in un candido silenzio irreale. La primavera, quella, è un caso a sé. Si direbbe non esista. Si fa un baffo di equinozi e solstizi e si confonde con la fine del lungo inverno e l’inizio dell’estate. Ti accorgi di lei solo per il rumore sordo delle frese, che stanno liberando la strada del valico della Novena, o per il timido sbocciare di un fiorellino in un fazzoletto d’erba o, ancora, per l’apparizione di qualche spaesata marmotta, che annusa l’aria all’imbocco della tana liberata dalla neve.

Oggi per trovare il cosiddetto ghiaccio perenne è necessario inerpicarsi fino a 2700 metri di quota Te ne rendi subito conto, imboccando la valle, che ti aspetta un mondo di bellezza. Lo capisci dal profilo seghettato del Poncione di Manió, del Chüebodenhorn e del Pizzo Rotondo, che si intravvedono lassù, in cima, brillare contro l’azzurro del cielo. Finora è stato piuttosto avaro, quest’inverno, di neve, e mi fa un certo effetto penetrare in un paesaggio leopardato, con sporadiche macchie bianche sparse nel grigio-ocra dei prati. Quando arrivo, il nucleo di All’Acqua è ancora imbevuto d’ombra. Il ristorante è aperto, ma a quest’ora non c’è nessuno. Sul bordo della strada, il vecchio ospizio, che accoglieva i viandanti diretti in Vallese o in Val Formazza, attraverso il passo San Giacomo. Poco più su, la sagoma bizzarra dell’oratorio dedicato a San Carlo Borromeo, opera dell’architetto Alberto Finzi, che ha preso il posto di quello risalente al 1656, demolito negli anni Sessanta del secolo scorso per lasciar passare la strada della Novena. Qui, si sono un po’ compattate le macchie di neve, ma ce ne sarà al massimo una spanna. Fa strano, per uno dei posti della Svizzera dove (di regola) nevica di più. «Avrebbero dovuto costruirli quassù, in alta Valle, gli impianti sciistici. Non ad Airolo». Mi diceva anni fa una delle sorelle Vella, custodi all’epoca della capanna Piansecco. «La neve non manca e nemmeno il sole. Comunque, per noi è stato meglio così, la natura è rimasta intatta». Ed è diventata il regno degli scialpinisti. Li si

vedono, di solito, scendere dalle vette, seguendo canaloni, disegnando ghirigori sui pascoli innevati e sollevando nuvole bianche quando volano sulla polverosa. Lo confesso, a guardarli provo ammirazione e un pizzico d’invidia, io che mi sono fermato ad un abbozzo di scodinzolo (si dice ancora così?) e poi ho relegato in cantina gli sci e tutto l’armamentario, mettendoci una pietra sopra. Ormai fanno più di trent’anni. Li invidio e li ammiro per quel loro dialogare in solitudine e in piena libertà con una natura che offre il meglio di sé e che, a quelle quote, si concede solamente a pochi. A dire il vero proprio «pochi» non sono, visto il notevole sviluppo dello scialpinismo negli ultimi decenni, che ha conquistato tutto l’arco alpino con buona pace del fragile ecosistema montano. La nascita di questo sport sulle Alpi vien fatta risalire al gennaio del 1893, quando Christophe Iselin e tre amici attraversano con gli sci il colle di Pragel, un modesto valico delle alpi glaronesi, tra la Klöntal e la Muotathal. I quattro partono al calar della notte, per evitare la derisione dei loro concittadini, piuttosto scettici sull’utilità di questi «pattini da neve» e propensi a ritenere un po’ matto quell’Iselin, che se n’è fatto costruire un paio come quelli usati dal norvegese Fridtjof Nansen, autore, cinque anni prima, della traversata della Groenlandia. L’impresa di Iselin è una rivoluzione nella storia dell’alpinismo, perché scombussola le vecchie convinzioni sulle possibilità di affrontare la montagna in pieno inverno e apre la strada alle ascensioni delle cime più alte delle Alpi, fino a quel momento giudicate inospitali e inavvicinabili durante la stagione fredda a causa delle marce di avvicinamento troppo lunghe e difficoltose. Anche i 4000 ormai non si negano più, il Monte Rosa è affrontato con gli sci nel 1898, seguono il Finsteraarhorn, la Jungfrau, il Mönch e, nel 1904, Ugo Mylius, tedesco di Francoforte, raggiunge la vetta del Monte Bianco con «i legni» ai piedi. L’avvento degli sci è una rivoluzione anche per le popolazioni delle montagne, abituate a spostarsi, in inverno, con rudimentali racchette, che impedivano alla bell’e meglio di sprofondare nella neve, ma non permettevano di scivolare. Dopo il timido inizio, lo scialpinismo farà balzi da gigante e, a partire dagli anni Venti, anche il Club Alpino Svizzero, rimasto fino ad allora un po’ a guardare, promuove la pratica, istituisce corsi per le guide e, nel 1926, decide che, ogni anno, una delle capanne costruite in una regione di montagna deve essere concepita per la pratica dello sci. Quella del Corno Gries, ad esempio, inaugurata in alta valle Bedretto il 19 ottobre del 1927, rispondeva a questa esigenza. L’anno seguente, la sezione ticinese del CAS costituisce il Gruppo sciatori, il cui presidente, l’ingegner Brusa, nel 1930 in occasione dell’inaugurazione del nuovo rifugio di Condra, in Capriasca, dove i Luganesi andavano a skiare, prima di «arrischiarsi ad altitudini meno modeste», declama con enfasi: «Salite, o soci, armati dei vostri fedeli sci, all’assalto delle candide distese, a purificare il vostro sangue nella schietta allegria delle amichevoli riunioni, a dimenticare le strettoie delle strade cittadine, lontani dai fumosi caffè, dalle piazze ove alberga la noia domenicale…».

È ora di darmi una mossa. Così dimentico anch’io le «strettoie delle strade cittadine» e le fumose divagazioni storiche e mi metto in marcia. Nel frattempo, il sole, strusciandosi sul costone del Pizzo Grandinagia, è scollinato inondando la valle di luce tiepida. Non rimangono che poche macchie d’ombra imbarazzate da tanto sfavillare di cristalli. La neve è ancora gelata e si cammina agilmente anche con i soli scarponi. C’è gente sul sentiero, che, all’imbocco della valle del Riale di All’Acqua, sale sui pascoli punteggiati di radi larici spogli, qualche abete, arbusti di ontano e ciuffi sparuti di erica e ginepro. Raggiungo tre simpatiche signore bellinzonesi. «Ultraottantenni», mi dicono tutte fiere. Sono accompagnate da un vecchio Border Collie un po’ acciaccato e un Lessie giocherellone, che scodinzola contento. Mi raccontano di avventure alpinistiche e ardite ascensioni con cui hanno assecondato la loro passione per la montagna. Mi elencano nomi di chi ha fatto loro da guida, quello lì, calmo e bonaccione, quell’altro, con un caratteraccio, ma estremamente affidabile. A un bivio, mi salutano e scendono verso Cioss Prato. Entrato nel bosco, per lunghi tratti il sentiero è libero dalla neve, di cui rimane un ricordo in lunghe e insidiose placche di ghiaccio. Si sale zigzagando poi, quando gli alberi si diradano, il paesaggio, più bianco, si dilata e ti ritrovi a contemplare la bassa Valle Bedretto, giù giù fino ad Airolo e, dietro, a chiudere quella limpida scenografia, la spaccatura della Val Canaria e la teoria di cime, che circoscrive la conca di Piora. Qua e là incontro tracce slabbrate di sci, che serpeggiano sulla neve, tagliano il sentiero e si perdono in mezzo agli alberi. Ancora qualche curva ed ecco la capanna Piansecco, piantata lì al limitare del bosco di larici, un soffio ap-

pena sotto la linea dei duemila metri. Non l’avevo ancora vista dopo il completo rinnovo e la riapertura del 2020. Ha l’aria solida e, al contempo, leggera, e non sembra affatto offendere il paesaggio, lo lascia respirare senza opprimerlo, un po’ come dovrebbe fare chiunque frequenti la montagna. Tanto legno, ampie vetrate rivolte verso la valle, struttura a parallelepipedo, a immagine e somiglianza delle ultime capanne costruite dal CAS Ticino, la «Barchessa» del Cristallina e il «Barlume» del Monte Bar. Mentre ne soppeso le forme, mi viene in mente che il 2022 coincide con il settantacinquesimo anniversario del primo rifugio di Piansecco. È il 1947 quando il CAS Leventina (oggi CAS Bellinzona e valli) rileva una baracca militare e la mette a disposizione dei soci e di tutti gli appassionati della montagna. Un’operazione che s’inserisce in quel discorso di collaborazione e di reciproci interessi, che intercorrono tra esercito svizzero e Club Alpino fin dalla sua fondazione. «Una collaborazione che spazia in vari campi» – mi ha raccontato un giorno Francesco Vicari, già comandante di divisione – «dalla conoscenza del territorio, alla cartografia, all’acquisizione di dati interessanti anche per lo sviluppo del turismo. In seguito, sin dal primo dopoguerra, con il proliferare delle iniziative volte alla costruzione di nuove capanne, l’interesse si rivolge anche alle “casermette” edificate dall’esercito in alta montagna durante il primo conflitto mondiale». E tante diventeranno rifugi alpini. Sarà pure corta, la salita fino a Piansecco, eppure mi ha risvegliato un languorino di stomaco. Così entro, per annusare il menu. Come prassi in questi tempi oscuri, tiro fuori il greenpass, e l’app di controllo mi dà luce verde. Prendo posto nell’ampia sala ancora vuota, davanti alla vetrata che dà sul bosco di larici, su cui ciondolano tranquille la bandiera rossocro-

ciata e quella del CAS. Indeciso tra una zuppa di lenticchie all’indiana e gli gnocchi, tanto per rimaner leggero mi lascio tentare da una fondue al formaggio, l’ultima dell’anno. «La capanna è al completo stasera», mi dice Tiziano, il custode. Passare il San Silvestro in alta quota è ormai un must. Fuori, nell’aria bagnata da un tiepido sole, stanno arrivando alla spicciolata vari escursionisti e altri ne incontrerò durante la discesa. Prima però do un’occhiata ai dintorni. L’ampio anfiteatro è disseminato di gobbe grigie, che sbucano dalla neve, sono centinaia di massi rotolati giù in tempi forse non così remoti dalle pareti del Poncione di Cassina Baggio. Tutt’attorno un susseguirsi di cime, una più bella dell’altra, che assumono spessore man mano che il sole si abbassa all’orizzonte: il Poncione di Manió, quello di Ruino, il Chüebodenhorn, il Pizzo Rotondo, tutte mete predilette per l’arrampicata e lo scialpinismo. In un passato non troppo lontano, tra queste cime s’affacciavano impressionanti ghiacciai, mentre oggi per calpestare il primo ghiaccio, che una volta si credeva «perenne», dobbiamo inerpicarci fino a quella sella che s’intravvede lassù, a 2700 metri di quota, il Gerenpass, dove si è ritirato il Chüebodengletscher con il suo lago intrappolato dal freddo, che lo scorso inverno ha dato spettacolo sollevandosi e frantumandosi in tanti sorprendenti e lucenti iceberg alpini*. Nota * Del fenomeno ha dato una spiegazione il meteorologo e glaciologo Giovanni Kappenberger nel suo libro Gli iceberg del Gerenpass. Poetica del ghiaccio, Salvioni Edizioni, Bellinzona 2021. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.


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Ingredienti

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75 g di mandorle a scaglie 250 g di foglie di cavolo rapa (circa 4 cavoli rapa) 1 dl d’olio d’oliva 40 g di parmigiano grattugiato 2 spicchi d’aglio sale pepe 500 g di linguine 4 c di parmigiano grattugiato

2. Lava le foglie di cavolo rapa e asciugale tamponandole. Elimina i gambi duri. Trita finemente le foglie con l’olio d’oliva, le mandorle e poco parmigiano nel tritatutto. Aggiungi l’aglio schiacciato, poi condisci con sale e pepe. 3. Lessa le linguine al dente in acqua salata bollente, scola e mescolale ancora sgocciolanti con una parte del pesto. Servi con il resto del pesto, le scaglie di mandorle e cospargi con il resto del parmigiano. Accompagna con cubetti di cavolo rapa rosolati. Preparazione: circa 25 minuti. Per persona: circa 28 g di proteine, 39 g di grassi, 92 g di carboidrati, 850 kcal/3550 kJ.

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azione – Cooperativa Migros Ticino

TEMPO LIBERO

Oggetti senza frontiere

Collezionismo ◆ Dare identità e lustro a oggetti di ogni provenienza nello spazio e nel tempo Maria Grazia Buletti

Alzi la mano chi non ha mai collezionato qualcosa, almeno per qualche tempo. Lecito chiedersi perché e cosa spinga ad accumulare articoli rari quanto comuni, preziosi quanto dozzinali e quasi sempre impossibili da spolverare, che a un certo punto chiedono spazio. «Il mio sogno è quello di trovare un locale, una sorta di grande magazzino in cui esporre tutti i miei oggetti, restituendo loro una vita adeguata alla loro origine e alla loro storia. E mi metterei lì, seduto, a contemplare un po’ uno e un po’ l’altro…». A parlare è Robertino Bay («nome di battesimo anche se alcuni pensano sia un diminutivo, detto Roby»), dalla collezione, «molto particolare» come egli stesso ammette, di oggetti uniti da un comun denominatore: «Erano destinati a essere distrutti, già in cattivo se non pessimo stato, che stavano prendendo la via del rigattiere o, in certi frangenti, del camino. Sono riuscito a salvarli davvero a due minuti dalla mezzanotte». La sua è una collezione alquanto bizzarra che, scopriremo, va dall’insegna luminosa «Uscita di sicurezza» attaccata in fondo alle scale di casa, ai quadri vintage originali di una nota marca di jeans, passando per le vecchie casse di birra in legno, le sedie originali di un antico bar del Locarnese dove lui è cresciuto e via dicendo.

Fra i motivi che lo spingono a questo tipo di ricerca certosina, uno su tutti: «Si sviluppa da subito un rapporto empatico con quello o quell’altro oggetto; non so spiegare bene, ma credo ci sia una sorta di energia che quella cosa mi trasmette: magari non l’ho mai vista prima, mai posseduta, però mi sento attratto dalla sua energia». E vedremo che l’attrazione non si ferma a questa sensazione istintiva… Ci invita a osservare un grande nano da giardino (sarà alto 60 centimetri) alle nostre spalle, che fa bella mostra di sé nel salotto di casa: «Quando l’ho trovato era sporchissimo e tutto rovinato: aveva la testa e una mano staccate. Però, quando l’ho scoperto nel giardino del vicino ridotto in quel modo, buttato in un angolo, ho subito immaginato quello che adesso voi vedete: un nano rimesso a nuovo, con una nuova gioiosa espressione degli occhi». Definendosi «un po’ sfacciato» racconta come ne è poi entrato in possesso: «Ho chiesto semplicemente al mio vicino di donarmelo qualora lo avesse buttato e così è stato». In questa sua passione ha coinvolto un amico «restauratore d’arte nelle chiese fiorentine», al quale chiede puntualmente di aiutarlo a ridare smalto e nuova vita agli oggetti che egli «salva» dalla distruzione o dall’oblìo. La psicologia insegna: alla base

di questa collezione non manca una certa eccentricità legata alla stravaganza di un collezionista, persona comune come tutti noi, con l’hobby della raccolta di oggetti di ogni sorta. Ma proprio di ogni genere, e ne avremo conferma quando Roby ci parlerà della sedia recuperata alla chiusura di uno storico bar del Locarnese, con la scritta «Micio» dipinta su ogni sedia da un noto artista della regione. Dal nano da giardino alla sedia e alle vecchie casse di legno della birra di cui una è stata «il primo oggetto della mia collezione»: «Una volta tutto era trasportato e consegnato con le casse di legno (saponette di Marsiglia, bottiglie di vino e, per l’appunto, bottiglie di birra). Erano molto belle e portavano spesso un logo. La prima che ho recuperato era già accanto al camino per diventare legna da ardere». Quando gli viene confermato che «sarebbe andata in fumo», egli chiede di poterla avere: «Fossi arrivato dieci minuti più tardi… E invece, sempre grazie al coscienzioso restauro del mio amico, oggi vedete questa cassa di legno massiccio, importante, con un numero di serie gravato a fuoco oltre al disegno di un leone rampante che impugna la bandiera di una nota marca di birra». Oggi quella cassa di birra ne contiene un’altra, piccolina, sempre rigorosamente «salvata»

Giochi e passatempi Cruciverba

Il più vecchio… Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: … 5, 7, 1, 2, 10)

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Sudoku

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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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28. Tutti in fondo 29. La matrigna di Elle 30. Si spinge con un dito 32. Il «de» olandese 34. L’indimenticabile Manfredi 35. Incolume VERTICALI 1. Sigla di Prodotto Interno Lordo 2. L’attrice Argento 3. Danza latinoamericana 4. Trolley in coda... 5. Affezione delle articolazioni 6. Temperamento, personalità

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10. Vi si ritirano alcuni frati 13. Seme a Parigi 16. Non completamente ...cotto 17. Nei Martini 18. Il cuore dello stoico 19. Materiale da costruzione 21. Particelle atomiche 23. La sigla dello zio Sam 26. Il cantante Rosalino Cellamare 27. Sono comodità 31. Coda del 15 orizzontale 33. Le iniziali dell’attore Siani

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pompa: sulla patch si trova funzione, numero dell’unità e nome del corpo». Gli piace pensare di essere una sorta di «archeologo» degli oggetti trovati: «Non si tratta solo di collezionarli, ma mi importa raccogliere informazioni, capire la provenienza e il giro che quell’oggetto ha fatto per arrivare fino qui. Se penso che ho trovato questo elmetto americano in città vecchia a Locarno ma viene dall’America… ho provato a immaginare il periplo che negli anni può aver fatto per arrivare qui da noi». Non sono solo desiderio di possesso e perfezionismo le spinte principali di Roby che, infine, ci parla dell’oggetto del desiderio: «Avere un sedile da jet». Comprensibile il motivo per cui sogna di avere la sua collezione in «un grande magazzino o locale» dedicato.

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ORIZZONTALI 1. Uccelli molto comuni 7. Isabella per gli amici 8. Si spendono a Tokio 9. Hanno denti d’acciaio 11. Si alternano nella guida 12. Patriarca biblico 14. Le iniziali dell’attrice Elia 15. Può causare dipendenza 20. Le iniziali della conduttrice Isoardi 22. Principio di mutamento 24. Isole del Tirreno 25. Lo è la spugna

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e restaurata: «Dentro c’è un elmetto della polizia militare che ha diversi anni. Sopra ci ho posato un casco di un pompiere americano in lamierino (ndr: metallo)». La descrizione che Roby fa mentre lo mostra è come un viaggio nella storia e nel tempo: «Collezionare questi oggetti mi permette di studiare e capirne la provenienza: ho scoperto che questi elmetti dei pompieri americani erano originariamente in cuoio, attorno agli anni ’50 sono diventati in lamierino e poi in plastica. Sono così riuscito a datarne il periodo, grazie anche all’etichetta in carta della fabbrica produttrice che riportava numero di serie e indicazione a penna. Davanti c’è una patch in cuoio perché i vigili del fuoco americano così si distinguono in quelli attivi sulla scala e quelli addetti all’auto-

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Soluzione della settimana precedente L’Australia, isole escluse, è l’unico continente… Resto della frase: …AL MONDO, SENZA VULCANI ATTIVI.

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Anno LXXXV 2 maggio 2022

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ATTUALITÀ ●

Se esplode l’atomica La Russia potrebbe usare armi nucleari nella guerra d’Ucraina? Con quale reazione da parte degli Stati Uniti?

Le sfide che attendono Macron Dopo la rielezione il presidente francese non può abbassare la guardia in vista delle legislative che si terranno il 12 e 19 giugno

Donazione di organi: si cambia Il 15 maggio voteremo sulla nuova legge che introduce il concetto di «consenso presunto». Chi non vorrà donare organi dovrà annunciarlo

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Una nuova globalizzazione tra paesi amici L’analisi

Quali sono i problemi e le opportunità implicite nell’idea di riportare le produzioni nelle nazioni democratiche e alleate

Federico Rampini

«Friend-shoring» è il termine del momento. È il neologismo che ha usato la segretaria al Tesoro Usa, Janet Yellen, all’ultimo vertice G20. Riduciamo i confini dell’economia globale alle nazioni amiche e alleate, quelle di cui ci possiamo fidare. L’obiettivo è ambizioso. Ma è possibile? Sta già accadendo? In che misura? Nello stesso summit Yellen aveva guidato un boicottaggio anti-russo. Poiché la Russia fa parte del G20, e poiché la presidenza di turno (Indonesia) non l’ha voluta espellere come chiedevano gli americani, quando il rappresentante di Mosca ha preso la parola Yellen e gli alleati europei hanno staccato il collegamento (il vertice non si svolgeva in persona bensì in videoconferenza). Il simbolico boicottaggio conferma la dissoluzione graduale delle istituzioni che avevano governato la globalizzazione erga omnes, tra cui c’era appunto il G20. In precedenza la ministra americana del Tesoro aveva parlato della necessità di un «friend-shoring». Il termine viene usato in contrapposizione al più antico e consueto «off-shoring» che designa le delocalizzazioni: investimenti che trasferiscono all’estero fabbriche e altre capacità produttive. Il contrario di «off-shoring» sarebbe «on-shoring» che significa riportare in patria attività in precedenza delocalizzate. «Friend-shoring» indica qualcosa di diverso: riorientare le fabbriche delocalizzate in paesi amici. È un tema forte, di cui si discute da tempo, non solo per effetto della guerra in Ucraina. I paesi amici in questione, se guardiamo per esempio all’arco di nazioni che applicano le sanzioni, includerebbero Stati Uniti e Canada, Unione europea, Svizzera, Giappone, Corea del Sud, Australia e qualcun altro. È già molto. Ma anche le assenze sono vistose. Gli shock che hanno fatto parlare di una crisi della globalizzazione si susseguono da 14 anni. Nel 2008 la grande crisi finanziaria (poi amplificata in quella dell’Eurozona) fecero crescere la disillusione sui benefici delle frontiere aperte presso ampie fasce di cittadini. Nel 2016 la diffusa sensazione di essere stati traditi dalle élite portò gli elettori britannici e americani a votare per Brexit e Trump. Ne seguirono l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea e la guerra dei dazi contro la Cina. Nel 202022 la pandemia mise in luce la pericolosità di catene produttive troppo dilatate, suscettibili di interruzioni improvvise. Ora le sanzioni economiche adottate dall’Occidente contro la Russia rendono ancora più evidenti i costi elevati della dipendenza da fonti energetiche sotto il controllo di potenze ostili e aggressive. Tanto più alla luce delle contro-sanzioni

La segretaria al Tesoro Usa Janet Yellen (al centro) ha coniato il neologismo «Friendshoring». (Shutterstock)

che Vladimir Putin ha adottato tagliando le forniture di gas a Polonia e Bulgaria. Finora le profezie sulla fine della globalizzazione sono state smentite dai fatti. Il 2021 si è chiuso con l’attivo record nella bilancia commerciale cinese, perché l’Occidente durante la pandemia ha importato più che mai i prodotti made in China. Anziché smontare l’intero edificio della globalizzazione, Yellen indica un obiettivo più circoscritto: ridimensionare la geografia dei paesi con cui abbiamo stretti rapporti economici, selezionando quelli che condividono i nostri valori. Nel lungo periodo questo significherebbe ridurre a zero le relazioni tra l’Occidente e la Russia, ma pure quelle con la Cina. Anche nel mondo arabo o in Africa ci sono molti regimi tirannici e liberticidi. Comunque il solo progetto di ridurre la nostra dipendenza energetica dalla Russia si sta rivelando complicato; ha un senso immaginare il divorzio dalla Cina? Proprio mentre Yellen parlava di una «globalizzazione fra amici», è accaduto che io dovessi farmi un test Covid, per una cena con una persona che mi aveva chiesto questa precauzione. Le autorità sanitarie americane mi hanno spedito da tempo a casa qui, a New York, dei kit per il test do-

mestico. Aprendo la scatola mi è caduto l’occhio sulla provenienza: made in China. Sono ormai passati più di due anni dall’inizio della pandemia e ancora dipendiamo dalla Cina per i tamponi. Eppure in questi due anni si è parlato molto di riportare in America produzioni sanitarie essenziali. Un problema sono i costi: le delocalizzazioni in Cina avevano una logica economica impellente. Riportare le produzioni in paesi amici significherà pagare tutto più caro, diventerà un ulteriore motore d’inflazione. Un altro problema sono gli investimenti necessari per ricostruire attività scomparse dai nostri territori, e i tempi necessari per creare nuove fabbriche, formare la manodopera. Qualcosa sta accadendo. Nel campo dei semiconduttori, componenti essenziali per tutto ciò che contiene elettronica, Intel e Samsung costruiscono nuove fabbriche negli Stati Uniti per ridurre la dipendenza da Taiwan. Ma ci vorranno almeno due anni perché i nuovi impianti comincino a produrre. Il costo di questi investimenti è di molte decine di miliardi e a renderli possibili è intervenuto il governo Biden, con generosi sussidi che pagheremo noi contribuenti. Per ridurre la dipendenza dall’e-

nergia russa, Draghi è andato a cercare forniture in paesi che stento a definire amici: l’Egitto per esempio. In tema di «friend-shoring», l’Europa aumenterà senz’altro i suoi acquisti di gas naturale dagli Stati Uniti. Ma anche questo è un processo lento perché non bastano i rigassificatori attuali. Gli investimenti per costruirne di nuovi avranno dei costi. La nuova geopolitica della globalizzazione ha un parto faticoso, travagliato, doloroso, e il punto di arrivo è ben lungi dall’essere chiaro. Ci saranno però dei benefici. Almeno in parte, riportare produzioni nei paesi democratici significa ricostruire posti di lavoro che erano stati distrutti. Nel frattempo la questione tedesca continua a essere centrale per la compattezza della Nato. La Germania è il bersaglio più grosso nel caso di una escalation di contro-sanzioni russe. Una perdita secca di cinque punti del Pil tedesco, per cui la Germania passerebbe da una crescita annua del 3% a una decrescita del meno 2%, sarebbe il risultato di un embargo sulle importazioni di gas russo. Lo dice l’autorevole previsione della Bundesbank, la banca centrale tedesca. L’ardore con cui il governo di Olaf Scholz si era allineato con le sanzioni, la decisione di aumentare gli investimenti per la difesa, il via

libera agli aiuti militari all’Ucraina, tutto ciò aveva fatto parlare di una svolta storica. Ora siamo nella fase successiva, in cui cominciano ad affiorare paure, distinguo, perplessità. Soprattutto in seno al partito socialdemocratico, dove la lobby filo-russa era già forte ai tempi dell’Unione Sovietica: il cancelliere Willy Brandt fautore della Ost-Politik fu coinvolto nello scandalo di un collaboratore stretto che era una spia di Mosca. Poi c’è il caso limite dell’altro ex-cancelliere Spd, Gerhard Schroeder, stipendiato dalle società gasifere di Putin. Va aggiunto che la crescita tedesca rallenterà sicuramente, anche senza le sanzioni sul gas. Ma oltre alla guerra in Ucraina, a penalizzarla saranno i lockdown a oltranza che Xi Jinping continua a imporre a diverse città cinesi. La politica «zero-Covid» frena l’economia cinese e la Germania è una grossa esportatrice sul mercato della Repubblica popolare. Per adesso Scholz tiene duro sulla solidarietà atlantica, come ha dimostrato il via libera di Berlino alle forniture di armi pesanti all’Ucraina. Ma la Germania rimane l’anello debole della coalizione, per la sua vulnerabilità: è l’economia più legata al vecchio modello di globalizzazione, quella che faceva affari con tutti senza distinguo politici.


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ATTUALITÀ

La bomba atomica dello zar L’analisi

La Russia potrebbe impiegare ordigni nucleari nel conflitto in Ucraina? E come risponderebbero gli americani?

Lucio Caracciolo

Tutti ci chiediamo se la Russia potrà usare una bomba atomica nella guerra d’Ucraina. La ragionevole risposta è: probabilmente no. Dove l’accento cade sul probabilmente. Da leggere in due modi, ovvero che sia improbabile e che non sia impossibile. Fino al 23 febbraio l’idea di essere alla possibile vigilia di una guerra atomica avrebbe implicato una diagnosi di latente follia. Oggi non più. Per quanto possibile, vediamo freddamente il problema. Durante la guerra fredda e nei tre decenni successivi vigeva il principio della mutua distruzione assicurata. Le due superpotenze nucleari, rivali strategiche, si fronteggiavano sui due lati della cortina di ferro. Certe di non poterla superare senza incorrere nel rischio di una rappresaglia nucleare. Ma anche della certezza che in tal caso sarebbe scoppiata una guerra atomica in cui nessuno avrebbe potuto vincere. Tutti avremmo perso.

Immaginare che cosa sarebbe il mondo dopo una guerra nucleare – anche «solo» tattica – è esercizio mentale che ameremmo risparmiarci Così fino a quest’anno. Quando abbiamo scoperto le conseguenze della fine della guerra fredda, ovvero della pace in Europa. Non c’è più alcuna simmetria fra Russia e America. Non solo perché oggi Mosca è molto più debole che in età sovietica, ma soprattutto perché il gergo strategico delle due massime potenze atomiche non è più omologo. Russi e americani non si capiscono. E si odiano molto più di quanto si detestassero sovietici e americani. La possibilità di una guerra fra

loro è dunque molto più alta di prima. E la probabilità che si svolga con l’impiego di armi atomiche va quindi considerata. Rispetto ai tempi della contrapposizione Usa-Urss molto è cambiato anche tecnicamente. Soprattutto grazie all’avvento di nuovi missili ipersonici, quasi impossibili da intercettare da qualsiasi scudo. I russi li producono e li dichiarano. Gli americani ancora non li dichiarano ma forse già ne dispongono. Insomma, l’attacco è molto più forte della difesa. Gli scudi missilistici valgono poco. Inoltre, vanno di moda oggi le armi nucleari tattiche. Si tratta di ordigni a carica atomica «ridotta» – più o meno intorno al potenziale delle bombe che spianarono Hiroshima e Nagasaki – e impiegabili a distanza relativamente corta, qualche centinaio di chilometri. In Europa i russi ne schierano quasi duemila, gli americani forse duecento. Non hanno il potenziale delle armi nucleari strategiche, né per la carica né per la gittata. Ma possono annichilire una grande città e produrre effetti micidiali in vasti spazi. Inoltre non garantiscono affatto che il loro impiego escluda poi l’escalation al grado strategico, o per dirla con Stranamore «fine di mondo». La caratteristica delle armi atomiche tattiche è che sono molto più facilmente spendibili delle strategiche. Sono ordigni da pronto impiego, non da esposizione. Anche perché l’era della deterrenza simmetrica è trascorsa. La deterrenza di oggi è unilaterale: russi contro americani, eventualmente americani contro russi, ma senza un codice comune. Ognuno ragiona per sé e non comunica con l’altro. Di recente Putin ha diverse volte fatto riferimenti ambigui all’impiego

Le armi nucleari tattiche hanno carica «ridotta», più o meno intorno al potenziale delle bombe che spianarono Hiroshima e Nagasaki. Nella foto: distruzione a Hiroshima dopo il lancio della prima bomba atomica, il 6 agosto 1945. (Shutterstock)

di armi «mai viste». Non si dubita che si tratterebbe comunque di armi non convenzionali, probabilmente atomiche. La dottrina russa prevede che l’arsenale atomico può essere impiegato in caso di minaccia esistenziale allo Stato. In teoria, anche una rivoluzione colorata, nel caso ne fosse individuato il mandante, ovviamente l’America e qualche suo alleato. Le Wunderwaffen russe vanno prese sul serio. Non sappiamo quanto prendere sul serio invece la volontà

americana di rispondere allo stesso livello, o anche al livello superiore, se i russi colpissero un paese europeo, non gli Stati Uniti. Forse il danno più grave è che la guerra in Ucraina ha comunque sdoganato l’atomica. Il tabù è caduto. Se ne parla al bar, oltre che nei media d’ogni genere. E siccome oggi i leader politici sono molto più sensibili di prima alla pubblica opinione, potrebbero sentirsi più liberi di prima a usare armi che fino a ieri avevano un senso di minaccia, più che di impiego.

Strumenti di catastrofe sono trattati come fossero un’altra classe di munizioni, particolarmente capaci di infliggere terribili danni al nemico. Speriamo che questa consapevolezza spinga tutti, a cominciare dai russi, a rendersi conto che la guerra in Ucraina deve concludersi al più presto. Con un compromesso tenibile. Perché immaginare che cosa sarebbe il mondo dopo una guerra nucleare – anche «solo» tattica – è esercizio mentale che ameremmo risparmiarci.

I limiti della giustizia internazionale In libreria

L’ultimo saggio di Carla Del Ponte, che parte da Putin, ripercorre i momenti salienti della sua vita da magistrata

Romina Borla

«Sarà per deformazione professionale, perché sono stata un magistrato della pubblica accusa per tutta la vita, ma dopo aver provato sgomento e orrore di fronte a questa terribile guerra di Vladimir Putin contro l’Ucraina, la prima cosa che ho pensato, davanti all’osceno spettacolo dei morti gettati nelle fosse comuni, è stata: speriamo che abbiano almeno identificato le vittime che stanno seppellendo. (...) Perché sapere se quei corpi sono di civili oppure di militari, e in quale circostanza quegli uomini sono stati uccisi, potrebbe essere di grande importanza per quelle che – me lo auguro – saranno le future inchieste del Tribunale penale internazionale dell’Aia». Così esordisce Carla Del Ponte nel saggio Per la giustizia (Add editore), disponibile nelle edicole da pochi giorni. Ma per mettere Putin sul banco degli imputati – sottolinea l’ex procuratrice capo dei Tribunali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda – «saranno necessarie minuziose indagini per dimostrare che è responsabile di reati gravissimi, crimini di guerra, crimini contro l’umanità, nonché l’utilizzo massiccio di armi proibite». E la sua possibile condanna, come la condanna di tutti i responsabili delle atrocità che si sono consumate e continuano a consumarsi nel mondo, è

fondamentale sia per le vittime e i loro parenti, sia per interrompere «la catena di vendette che le guerre portano con sé, trascinandosi negli anni, chiamando sangue da sangue, violenza da violenza». La riflessione di Del Ponte parte come detto dal caso ucraino per poi allargarsi ad altri orizzonti. Non solo in Ucraina c’è la guerra. Violenze inaudite e immani sofferenze coinvolgono, anche adesso, popolazioni di diversi paesi mentre il nostro livello di attenzione è basso e ondivago. Pensiamo alla Siria dove, da oltre un decennio, «i crimini di guerra e quelli contro l’umanità fanno parte della vita quotidiana» ma anche allo Yemen, al Mozambico, al Tigrè, al Niger, al Mali, all’Afghanistan ecc. E i responsabili delle barbarie rimangono il più delle volte impuniti. Come mai? Il diritto internazionale – di cui nel libro l’ex magistrata spiega genesi e tappe essenziali – esiste sin dalle due guerre mondiali, ma non viene applicato perché manca la volontà politica. «La situazione politica attuale ha messo in secondo piano i diritti umani e il loro riconoscimento. Ciò è dovuto soprattutto alle opposte esigenze dei singoli Stati, dunque ai loro interessi nazionali, oltre che all’incapacità delle Nazioni unite, come organizzazione

mondiale, di contribuire a far rispettare i diritti umani». Già, perché l’incisività dell’Onu – che del Ponte definisce «la vecchia signora» – dipende dalle decisioni di un Consiglio di sicurezza controllato da 5 potenti membri permanenti (Cina, Russia, Usa, Francia e Gran Bretagna) i quali dispongono del diritto di veto. L’ex magistrata afferma che è condizionata dalla politica anche la Corte penale internazionale o Cpi – fondata sullo Statuto di Roma del 1998 e attiva dal 2002 – che si occupa di perseguire coloro che si

macchiano dei crimini più gravi (crimini di guerra o contro l’umanità, genocidio e guerre offensive). «O gli stati devono aver sottoscritto e ratificato lo Statuto di Roma, infatti, oppure il Consiglio di sicurezza dell’Onu deve aver assegnato la giurisdizione alla Corte. E si ritorna sopra. Insomma, l’applicazione del diritto internazionale viene accettata finché non tocca gli interessi nazionali». Mentre le tragedie continuano. Del Ponte ricorda che solo nel 2019 ci sono state 158 violente crisi, di cui 27 conflitti armati e guerre (che hanno segnato soprattutto il continente africano). Per la giustizia è un accorato appello alla comunità internazionale, affinché restituisca «la debita importanza alla tutela dei diritti inalienabili di cui tutti dovrebbero godere». Come? Potenziando la Cpi e rendendo l’Onu il più possibile indipendente dalla volontà politica dei singoli Paesi attraverso delle riforme. Nel saggio l’ex magistrata ripercorre con dovizia di particolari le sue esperienze, a partire da quella come procuratrice capo del Tribunale per la ex Jugoslavia (dal 1999). «Per la prima volta dopo Norimberga e Tokyo (...) abbiamo portato davanti a un tribunale le alte cariche politiche e militari responsabili di genocidio, crimini di guerra e contro

l’umanità». Compreso Slobodan Milošević, l’ex presidente della Repubblica federale di Jugoslavia (che le ricorda Putin). Poi si passa al caso del Ruanda, dove negli anni Novanta si perpetrarono terribili atrocità da entrambe le parti, hutu e tutsi: «La triste verità è che, in guerra, nessuna fazione è innocente». Infine il conflitto in Siria dove, dal 2011, ha perso la vita più di mezzo milione di persone. Del Ponte ha fatto parte della Commissione d’inchiesta dell’Onu ad hoc e in quell’occasione «sono stata costretta a sperimentare come un procedimento giudiziario internazionale venisse soffocato sul nascere, prima ancora di cominciare. Non soltanto dai veti di Russia e Cina, ma anche dall’atteggiamento passivo degli Stati Uniti». E proprio all’atteggiamento disinteressato, quando non ostile, degli Usa nei confronti della giustizia internazionale è dedicato uno degli ultimi capitoli del libro. Possiamo soltanto sperare che con il presidente Biden le cose cambino, osserva Del Ponte. Intanto «non dovremmo perdere di vista il vero obiettivo: che le persone in tutto il mondo possano vivere in pace e stabilità. E questo succede solo se le vittime di crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di aggressione ottengono giustizia».


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MONDO MIGROS

LA GIUSTA COMPAGNIA

Formaggio di capra al forno con salsa pepata di lamponi

Servito con giovani foglie d’insalata e una salsa di lamponi (congelati o freschi), pepe e miele, il caprino gratinato al forno è un antipasto da leccarsi i baffi. Ricetta su migusto.ch

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ATTUALITÀ

Se degli assassini governano Kabul

Prospettive ◆ La lista delle restrizioni e privazioni decise dai talebani si fa sempre più lunga mentre l’Occidente rimane a guardare

Keystone

Francesca Marino

Nel futuro della Francia Il punto

I compiti che attendono Macron e la sfida delle elezioni legislative

Marzio Rigonalli

La Francia continua a essere in campagna elettorale. Dopo le intense settimane che hanno portato ai due turni delle elezioni presidenziali, con la rielezione del presidente Emmanuel Macron (nella foto in alto), l’attenzione e lo scontro politico si sono concentrati subito sulle elezioni legislative, che si svolgeranno il 12 e il 19 giugno. È in gioco la rielezione dell’Assemblea nazionale, il più importante organo legislativo, che comprende 577 deputati. Ed è in gioco la maggioranza assoluta di questa assemblea, che può essere favorevole al presidente, e consentirgli così di applicare il suo programma, senza dover superare troppi ostacoli, ma che può anche essergli sfavorevole, aprendo la porta a una possibile coabitazione. Dai risultati della rielezione di Macron è emerso un elettorato diviso in tre blocchi. Il primo ha sostenuto il presidente uscente e copre un’ampia area intorno al centro. Il secondo blocco ha votato per Marine Le Pen e racchiude la destra nazionalista e sovranista. Il terzo blocco ruota intorno al 21,9% dei voti ottenuti al primo turno da Jean-Luc Mélenchon e comprende anche i voti di altri partiti della sinistra. I due blocchi usciti sconfitti cercano la rivincita e si battono per ottenere la maggioranza all’Assemblea nazionale. Mélenchon, per esempio, si è già autocandidato a primo ministro, se gli elettori, a giugno, premieranno il blocco della sinistra. Intense trattative sono in corso per tentare di superare gli antagonismi, le rivalità e per trovare un compromesso. Sono in gioco la designazione delle candidature, il sostegno a candidati che non sono del proprio partito e il futuro finanziario dei partiti. Ogni formazione politica riceve un importo finanziario per i prossimi cinque anni correlato al numero dei voti che otterrà alle prossime elezioni. All’estrema destra, il principale nodo è la rivalità tra il Rassemblement national di Marine Le Pen e il partito Reconquête di Éric Zemmour. Le due formazioni nuotano nelle stesse acque ideologiche, ma la rivalità personale tra i due principali leader è forte. Durante la campagna elettorale Zemmour ha più volte attaccato Le Pen, accusandola di non essere capace di battere Macron, e la sera del secondo turno, pur proponendo l’unione tra le due forze, ha

parlato dell’ottava sconfitta elettorale che caratterizza ormai il nome Le Pen. A sinistra, Jean-Luc Mélenchon ha teso la mano agli ecologisti, ai socialisti e al partito comunista, invitandoli a riunirsi in quella che viene definita la nuova «Union populaire». Il tentativo è audace e può riuscire soltanto se verranno superati ostacoli importanti come le differenze che caratterizzano i programmi elettorali di questi partiti, la loro diversa presenza sul territorio e le rivalità personali.

Il presidente dovrà agire sulle cause delle divisioni, dovrà tener conto di quei milioni di francesi che si sentono dimenticati nelle periferie e nelle zone rurali Intanto i francesi attendono con impazienza le prime decisioni del loro presidente. Chi sarà il nuovo primo ministro? Sarà una donna, come molti auspicano? E chi guiderà i principali ministeri? Il nuovo capo del governo sarà probabilmente una personalità con un’ampia esperienza, capace di guidare le forze politiche che sostengono Macron senza mettere in ombra il presidente. Molti attendono anche alcune mosse a sorpresa, come l’arrivo di nuove personalità di destra o di sinistra, destinate a ricomporre il paesaggio politico e a rafforzare la maggioranza del presidente. Sarà interessante vedere che cosa succederà con il partito socialista e con il partito dei repubblicani, due formazioni che hanno sempre svolto un ruolo di primo piano, ma che alle ultime presidenziali si sono fermate sotto la soglia del 5%. Al di là delle prime importanti decisioni che verranno prese, il compito che attende Macron è gigantesco. La società francese è spaccata in fazioni diverse, difficilmente conciliabili. Il presidente dovrà agire sulle cause delle divisioni, dovrà tener conto di quei milioni di francesi che si sentono dimenticati nelle periferie e nelle zone rurali. Molti di loro stentano ad arrivare alla fine del mese e chiedono maggiore attenzione ai loro problemi. Durante il primo mandato hanno espresso la loro rabbia attraverso le manifestazioni dei «gilet gialli». Poi è arrivata la pandemia con le inevitabili restrizioni. Adesso la guerra

in Ucraina e la crisi energetica hanno fatto esplodere i prezzi del gas, del petrolio e dei principali beni di consumo. Troppe rinunce ormai sono all’ordine del giorno di molta gente, che non si sente né rappresentata né difesa. Macron dovrà compiere un’opera di riconciliazione e anche di rafforzamento della democrazia. Se ci riuscirà, la Francia ritroverà il suo dinamismo e la sua forza d’attrazione. Se fallirà, le porte del potere potranno aprirsi all’estrema destra, che una settimana fa ha raggiunto il suo record storico con il 41,5% dei voti. Sul piano internazionale il piano di Macron si annuncia più facile. La sua rielezione è stata accolta con sollievo nelle principali capitali europee. Quasi tutti i paesi, a eccezione della Russia e dell’Ungheria, temevano l’elezione di Marine Le Pen perché il suo progetto avrebbe portato alla fine dell’Unione europea e dell’alleanza occidentale sorta dopo l’invasione dell’Ucraina, nonché all’indebolimento della Nato. La leader del Rassemblement national progettava di distruggere l’Ue dall’interno, sostituendola con un’alleanza delle nazioni. Voleva ridiscutere il mercato unico europeo e la contribuzione finanziaria della Francia all’Unione. Avrebbe rinunciato al binomio Parigi-Berlino, vero motore dell’Ue, e avrebbe introdotto la supremazia del diritto francese su quello europeo. Tutte misure che probabilmente avrebbero portato alla «Frexit». Infine prevedeva di uscire dal comando integrato della Nato e di ristabilire un partenariato con la Russia, così come vorrebbe fare anche Orban. La Francia, insomma, sarebbe scivolata nel campo delle dittature e dei regimi autoritari. Con la sua rielezione, Macron continuerà a essere alla guida di una Francia aperta e attiva accanto agli alleati occidentali e potrà operare per l’autonomia strategica dell’Europa nei settori della difesa e dell’energia. Potrà anche proseguire sulla strada della solidarietà economica, approvata l’estate scorsa per far fronte alle conseguenze della pandemia. La ridefinizione degli equilibri strategici internazionali che si sta delineando pone ormai nuove sfide all’Unione europea. Sono sfide che possono essere affrontate con successo soltanto da quei leader che la sostengono e che credono nel suo futuro.

Riassunto dell’ultimo mese in Afghanistan: morti e feriti il 19 aprile a Kabul, dove un liceo frequentato da membri della comunità hazara di confessione sciita è stato attaccato con granate e bombe. Mentre tre giorni prima aerei pakistani bombardavano a tappeto Khost e Kunar: ufficialmente per ammazzare terroristi appartenenti al Tehrik-i-taliban Pakistan, in realtà facendo strage di donne e bambini. D’altra parte, prendersela con donne, bambini, ragazzini, giornalisti o attivisti dei diritti umani in Afghanistan (ma anche in Pakistan) è ormai diventato lo sport nazionale. In meno di un mese il governo terrorista di Kabul è riuscito a superare sò stesso: le scuole secondarie (ma anche molte scuole primarie) per le ragazze rimangono per decreto chiuse fino a nuovo ordine. Sempre secondo gli ultimi decreti emanati, le donne non possono più volare, viaggiare con treni e autobus oppure allontanarsi da casa per una distanza superiore a qualche chilometro senza un parente maschio che le accompagni. Non solo, il governo di Kabul – quello stesso a cui fin troppi dicevano di volere dare una possibilità – ha legiferato anche a proposito dei parchi divertimenti: fine dell’ingresso libero, uomini e donne saranno ammessi su giostrine e autoscontri soltanto in giorni separati. Ai signori uomini che appartengono alle milizie talebane è vietato andare a divertirsi indossando l’uniforme o portando con sé armi e mezzi militari. Probabilmente per evitare i commenti ironici via media e social media ai post con foto di truci guerrieri armati di kalashnikov che si divertivano a far cozzare le macchinine. E ancora: niente più viso rasato per gli uomini, che devono sfoggiare la barba d’ordinanza pena essere gonfiati di botte e, anche se è inutile precisare, burqa integrale, possibilmente nero e completato da guanti neri, per le donne. Agli studenti universitari è stato vietato l’uso del cellulare, mentre tutti i canali televisivi internazionali, inclusa la «BBC» e «Voice of America», sono stati oscurati. La lista delle restrizioni e delle privazioni è lunga, lunghissima, ma non sembra importare a nessuno. Gli aiuti internazionali sotto forma di cibo, quelli gestiti dal governo, sono stati destinati non a sfamare la popolazione ma a pagare in natura gli stipendi dei dipendenti statali. Non si registrano reazioni

da parte dei rappresentanti di istituzioni e organizzazioni internazionali, quegli stessi che invocavano il riconoscimento della banda di assassini che governa Kabul e lo sblocco dei fondi congelati nelle banche estere. A fine gennaio Kai Eide, ex ambasciatore e veterano della Missione di assistenza Onu in Afghanistan (Unama), twittava: «Fiero che il governo norvegese abbia invitato a Oslo il governo talebano, la società civile e i paesi chiave. E compiaciuto, da veterano, di aver incontrato il facente funzioni ministro degli esteri Amir Khan Muttaqi. Per me la libertà di espressione, per tutti, è una sfida prioritaria ma gli Stati Uniti devono sbloccare i fondi congelati per evitare catastrofi». I talebani erano infatti stati invitati dal governo norvegese e sono arrivati a Oslo con un jet privato per incontrare rappresentanti di Stati Uniti e di vari paesi europei nonché una non ben definita «società civile» afghana. Non ben definita perché il novanta per cento della società civile protestava difatti in piazza sia a Oslo sia in patria, repressa però a colpi di kalashnikov dagli sgherri dei signori che Eide era stato così fiero di incontrare. Giorni dopo, sempre a bordo di un jet privato, i talebani volavano a Ginevra, invitati da una dubbia organizzazione non governativa, sempre per incontrare «rappresentanti della società civile». L’assioma, elaborato e propagandato dai lobbisti del Pakistan in sede internazionale, è il seguente: il terrorismo non finirà fino a che l’Afghanistan non sarà stabile, e l’Afghanistan non sarà stabile fino a che l’occidente non aprirà i cordoni della borsa e riconoscerà di fatto il governo dei talebani. Come fa Islamabad, come fa il Qatar, come ha fatto la Cina inviando il ministro degli esteri Wang Yi a Kabul per invitare i talebani, da cui è stato calorosamente accolto, a un incontro dei ministri degli esteri della regione. Il fatto che Pechino massacri i fratelli musulmani uiguri non sembra importare ai difensori della fede afghani. Che si trovano in buona compagnia. Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, si è speso moltissimo per sbloccare i fondi destinati al governo di Kabul. D’altra parte, per chi non trova scandaloso passare i nomi dei dissidenti uiguri all’ambasciata cinese di Ginevra, finanziare terroristi sulla lista delle stesse Nazioni Unite non è davvero un problema.

La delegazione talebana che torna a Kabul dalla Norvegia, fine gennaio 2022. (Shutterstock)


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Anno LXXXV 2 maggio 2022

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ATTUALITÀ

Donazione di organi, cambio di paradigma

Votazione federale 15 maggio ◆ Il controprogetto indiretto all’iniziativa popolare «Favorire la donazione di organi e salvare vite umane» introduce il concetto di «consenso presunto» Alessandro Carli

In Svizzera potremo ben presto essere tutti presunti donatori di organi? Il 15 maggio prossimo, almeno stando alle previsioni, il popolo potrebbe accogliere in votazione la modifica della legge sui trapianti, che propone un cambiamento di sistema su questa tematica etica e intima. La citata modifica funge da controprogetto indiretto del Consiglio federale e del Parlamento all’iniziativa popolare «Favorire la donazione di organi e salvare vite umane», che va più lontano. Il comitato che l’ha promossa ha nel frattempo deciso di ritirarla, purché entri in vigore il controprogetto, contro il quale è stato lanciato il referendum. In caso di successo di quest’ultimo, si dovrà votare sull’iniziativa.

Operazione di trapianto di organi all’ospedale universitario di Ginevra. Sotto, un opuscolo informativo di Swisstransplant, con la carta di donatore. (Keystone)

Il comitato che ha promosso l’iniziativa popolare ha deciso di ritirarla, a patto che entri in vigore il controprogetto Lo scorso anno, grazie a un trapianto è stato possibile salvare in Svizzera 587 persone o migliorarne le condizioni di vita. Altre 72 persone in lista d’attesa sono però decedute per la mancanza di un organo compatibile. Alla fine del 2021, nel nostro Paese 1434 persone erano in lista d’attesa per ottenere un organo. Questa cifra, se paragonata alla media annua dei 450 pazienti che nell’ultimo quinquennio hanno ricevuto uno o più organi di persone decedute, mostra come ci sia una carenza di donazioni non indifferente. Attualmente, in Svizzera vige il modello del consenso. Ciò significa che la donazione di uno o più organi, tessuti o cellule è permessa solo se l’interessato, quando era in vita, aveva lasciato esplicite disposizioni, iscrivendosi al registro dei donatori, gestito dalla fondazione Swisstransplant. Sovente, la volontà del donatore non è nota e i medici pongono allora la questione ai congiunti, chiamati a decidere secondo l’intenzione presunta della persona deceduta. A causa del loro coinvolgimento nel processo decisionale, questo modello è definito «consenso in senso lato». Tuttavia, nel 40/60 percento dei casi, in tali frangenti, i congiunti si oppongono alla donazione di organi. Ad aver portato alla modifica della legge sui trapianti è proprio il fatto che, sovente, la volontà della persona deceduta non è nota. La revisione propone di passare dal modello del consenso a quello del consenso presunto, con un capovolgimento della situazione: chi non desidera donare gli organi deve dichiarare la propria contrarietà, iscrivendosi in un registro. Quando manca questa volontà documentata, si presuppone che la persona approvi in linea di massima l’espianto. Se quest’ultima non si fosse espressa sulla donazione di organi, con la revisione della legge i familiari continueranno comunque a essere coinvolti, nel quadro appunto del «consenso presunto in senso lato». Si tratta della differenza sostanziale con l’iniziativa popolare che non disciplinava i diritti dei congiunti. Essi possono rifiutare il prelievo di organi se sanno o presumono che la persona appena deceduta sarebbe stata contraria. In mancanza di una dichiarazione di volontà e se non è possibile contattare

un congiunto, l’espianto di organi non è consentito. Ogni settimana, una o due persone muoiono in Svizzera per non aver ricevuto un nuovo organo. Secondo il Consiglio federale, il passaggio dall’attuale modello del consenso a quello del consenso presunto permetterebbe di aumentare il numero di donatori e di salvare vite. In caso di sì il 15 maggio, i medici partiranno dal principio che ogni persona sia favorevole all’espianto dei suoi organi, a meno di un rifiuto esplicito.

Secondo i fautori del referendum, tutti dovrebbero essere informati sul fatto che il rifiuto di donare i propri organi debba essere dichiarato in un registro, cosa però ritenuta illusoria per svariati motivi Per esprimere il proprio consenso o meno, ci si dovrà iscrivere – come detto – in un registro. L’età minima è di 16 anni. Questo cambiamento di sistema – almeno secondo recenti stu-

di – permette di supporre un effetto positivo. L’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP) ammette tuttavia che il consenso presunto non basta da solo ad aumentare la donazione di organi. Entrano in gioco anche le risorse ospedaliere e la formazione di specialisti, settori in cui la Confederazione ha investito negli ultimi anni. A ogni modo, la donazione di organi resta una tematica sensibile ed estremamente personale, visto che mette le persone di fronte alla loro morte. Il comitato che ha lanciato il referendum afferma che questa revisione potrebbe compromettere il diritto all’autodeterminazione delle persone, garantito dalla Costituzione. Perciò va approvato dal popolo. Il comitato sottolinea che la nuova legge non allevierà per nulla i congiunti rispetto alla situazione attuale. Se il defunto non ha lasciato istruzioni, i famigliari, già colpiti dal trauma del decesso, dovranno prendere una decisione in pochissimo tempo. Una pressione non da poco. Infatti, se si oppongono al prelievo, si potrebbe rinfacciare loro un atteggiamento non solidale. Secondo i fautori del referendum – tra le cui fila ci sono teologi, giuristi

e medici – tutte le persone che vivono in Svizzera dovrebbero essere informate che il rifiuto di donare i propri organi dev’essere dichiarato in un registro. Per loro, ciò è assolutamente illusorio, dato che ci sono persone che non parlano le lingue nazionali, non comprendono ciò che leggono o non vogliono pensare alla loro morte. Ci saranno sempre individui che non sanno che avrebbero potuto opporsi. Per mancanza d’informazione – sostengono ancora i promotori del referendum – la nuova legge permetterebbe ai medici di prelevare organi contro il volere della persona, violando il diritto all’autodeterminazione e all’integrità fisica, garantito dalla Costituzione. Tutto ciò è «impensabile», secondo il ministro della sanità pubblica Alain Berset. In caso di dubbio, il consenso dei familiari, è determinante. L’informazione alla popolazione – ha sottolineato – assume un ruolo chiave. Perciò sono previste campagne su vasta scala. I presupposti clinici per un espianto di organi restano gli stessi di oggi: possono donare organi solo le persone che muoiono nel reparto cure intensive di un ospedale, il decesso dev’essere accertato senza ombra di dubbio da due medici, prima di un prelievo sono eseguiti provvedimenti medici preparatori. Le persone che non si oppongono al prelievo dovrebbero essere precedentemente informate su tutto ciò in modo esaustivo, in particolare appunto sul fatto che gli specialisti potrebbero prepararle per un prelievo mentre sono ancora nel reparto di cure intensive e le funzioni cerebrali non sono del tutto cessate. Orbene, per il comitato referendario non è realistico supporre che tutti i donatori, prima di decidere, ricevano queste informazioni e le comprendano. Il silenzio non equivale necessariamente a un consenso, ha dal canto suo sottolineato la Commissione nazionale d’etica in una presa di posizione del 2019. Come le Chiese e certi

oppositori, essa sosteneva il modello della dichiarazione regolare sullo statuto di donatore, recentemente adottata in Germania, unica soluzione che permetterebbe di garantire l’autodeterminazione delle persone, soluzione però respinta dal Consiglio federale, soprattutto per motivi di costi. Inoltre, secondo l’UFSP non avrebbe permesso di aumentare sufficientemente il tasso delle donazioni. Adottare il modello del consenso presunto può contribuire ad aumentare il numero di donazioni e aiuta i congiunti che devono affrontare una situazione decisionale difficile. Per Governo e Parlamento è dunque importante che siano trapiantati gli organi di tutti coloro che possono e desiderano donarli in caso di morte. Tutte le formazioni politiche, fatta eccezione per l’UDC e il Partito evangelico, sono ufficialmente favorevoli al cambiamento di sistema. Il Consiglio nazionale ha accolto la modifica della legge sui trapianti con 141 voti favorevoli e 44 contrari. Il Consiglio degli Stati con 31 sì e 12 no. Tuttavia, che il tema oltrepassi le opinioni politiche è dimostrato dal fatto che tra gli oppositori si trovano membri di tutti i partiti. In materia di trapianti, la nuova prassi del consenso presunto – una persona che non desidera donare i propri organi dovrà dichiarare la propria contrarietà in vita, altrimenti si partirà dal principio che sia disposta a donarli – non dovrebbe essere ostacolata da considerazioni etiche. I primi sondaggi indicano che la nuova legge dispone di un vantaggio confortevole. Se il popolo accetterà il principio del consenso presunto, si dovrà organizzare dunque un nuovo registro nazionale dei donatori di organi, in cui ciascuno potrà esprimere la propria volontà favorevole o contraria con una dichiarazione scritta. Il nuovo registro – come ha garantito Alain Berset – sarebbe messo a punto dalla Confederazione e dovrà rispondere ai più severi standard in fatto di sicurezza e protezione dei dati personali. Questo registro verrebbe gestito dal servizio nazionale preposto all’attribuzione degli organi ai pazienti, ossia la fondazione Swisstransplant, su mandato e sotto la sorveglianza dell’UFSP. La dichiarazione scritta nel registro potrà essere modificata in ogni momento dal potenziale donatore. L’accesso al registro sarà riservato alle persone che, negli ospedali, sono già responsabili della donazione di organi. Dopo le lacune legate all’attuale registro dei donatori di Swisstransplant, per garantire maggiore affidabilità in materia di sicurezza e di protezione dei dati, sarà istituito un sistema d’identificazione simile a quello delle banche. Per la donazione di organi, paesi europei come Francia, Austria, Svezia, Italia, Spagna e Ungheria applicano il principio del consenso presunto. I candidati alle donazioni sono talvolta il doppio rispetto alla Svizzera. In fatto di donazioni, la Spagna è la prima della classe, con 50 donazioni per milione di abitanti; in Svizzera, dove vige il modello del consenso esplicito, alla fine del 2021 le donazioni erano solo 19,1 per milione di abitanti. Si tratta ora di vedere se il principio del consenso presunto, in caso di approvazione, darà i frutti sperati, ossia se si tradurrà in un aumento delle donazioni.


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ATTUALITÀ / RUBRICHE

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Un consuntivo sorprendente ◆

I risultati del consuntivo del Cantone per il 2021, che sono stati pubblicati un paio di settimane fa, sono, per più di un aspetto, sorprendenti. La sorpresa deriva dal fatto che il deficit realizzato, pari a 65 milioni di franchi, risulta largamente inferiore a quello di 281 milioni che ci aveva prospettato il preventivo. Si tratta di una grossa differenza o di una differenza tutto sommato normale? Dipende da come si misura la sua importanza relativa. Se si rapporta la differenza nel risultato complessivo, pari a 216 milioni, al deficit previsto dal preventivo, pari a 281 milioni, l’errore di previsione sembra mastodontico (76,8%). Siccome si tratta però di una grossa riduzione del deficit realizzato rispetto a quello previsto, sulle prime si potrebbe pensare che, in sede di discussione del consuntivo, il Gran Consiglio dovrebbe decretare una «standing ovation» al responsabile politico di questo errore. Un approfondimento

dell’analisi rivela tuttavia che il miglioramento ottenuto nei risultati finanziari del Cantone è da attribuire piuttosto a fattori imprevisti che alla cautela e all’abilità finanziaria del capo delle Finanze. Vediamo perché. Dapprima conviene osservare che la riduzione del deficit è stata conseguita non con un contenimento della spesa, ma unicamente grazie all’aumento inaspettato dei ricavi. Questo aumento, pari a più di 300 milioni, rispetto alla somma preventivata, deve essere attribuito, quasi esclusivamente all’aumento delle entrate provenienti da tre fonti, e cioè: per 144,8 milioni da aumenti non preventivati nei ricavi fiscali, per 102,7 milioni da aumenti, sempre non preventivati, nei ricavi da trasferimento (somme ottenute soprattutto da altri enti pubblici, nella forma per esempio di sussidi) e per 85,6 milioni da aumenti nei ricavi da regalie e concessioni (come la partecipazione alla distribuzione dei pro-

fitti della Banca Nazionale Svizzera). Sulle variazioni dei ricavi da trasferimento e su quelle dei ricavi da regalie e concessioni, gli amministratori delle finanze del Cantone non hanno alcuna possibilità di intervenire. Le somme corrispondenti sono influenzate da decisioni politiche di enti pubblici come la Confederazione e i Comuni, o dai risultati di aziende, come la Banca dello Stato, l’AET, la Banca Nazionale, ecc., nelle quali il Cantone detiene delle partecipazioni. Anche quando il Cantone è rappresentato nei consigli di amministrazione di queste aziende gli riesce difficile prevedere quali saranno i risultati di gestione delle aziende stesse. Diciamo che in generale sui ricavi da regalie e partecipazioni può influire l’andamento della congiuntura economica, mentre su quelli dei ricavi da trasferimento incidono di sicuro, oltre alla congiuntura economica, provvedimenti di gestione finanziaria che

possono prendere gli enti pubblici dai quali queste somme possono provenire. Comunque i ricavi provenienti da queste due fonti possono variare, in misura sensibile, da un anno all’altro, senza che chi si occupa delle stime del preventivo sia in grado di anticipare in che direzione si muoveranno questi cambiamenti. Diverso è, in apparenza almeno, il caso dei ricavi fiscali. La differenza tra il consuntivo e il preventivo del 2021 è in questo caso pari a 144,8 milioni e rappresenta dunque il 43,5%, del totale della differenza tra questi due documenti. Stando al messaggio sul consuntivo del 2021 questa differenza deve essere fatta risalire per 63,3 milioni a un aumento, che è andato al di là del previsto, dei ricavi provenienti dalle imposte sulle persone fisiche, per 12,5 milioni a un aumento, pure superiore al previsto, dei ricavi dalle imposte sulle persone giuridiche e per 69 milioni da un aumento che è

andato molto al di là delle aspettative della posta «altri ricavi fiscali». Se consideriamo ora l’ampiezza degli errori di previsione ci accorgiamo che nel caso dei ricavi delle imposte sulle persone fisiche la differenza tra consuntivo e preventivo è stata dell’ordine del 5,1%, per quelli da imposte sulle persone giuridiche del 4,2%. Molto più importante, invece, sono stati gli errori compiuti nella stima degli altri ricavi fiscali. Per i proventi delle imposte e tasse sulle transazioni immobiliari l’errore è stato del 32,4% mentre per quelli da tasse di successione e donazione l’errore ha raggiunto addirittura il 35,5%. Se c’è stata un’evoluzione economica che i responsabili del preventivo del Cantone per il 2021 non hanno saputo anticipare nelle sue conseguenze per il fisco cantonale è stata quindi l’effetto stimolante della pandemia sulle transazioni sul mercato fondiario-immobiliare del Cantone.

Affari Esteri

di Paola Peduzzi

L’assoluta libertà di espressione di Elon Musk ◆

Che cosa voglia farsene Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, di Twitter, social di media grandezza più percepita che reale, con poco più di 200 milioni di utenti, nessuno lo sa. Intanto se l’è comprato per 44 miliardi di dollari (circa 42,7 miliardi di franchi) mettendo così nel suo grande paniere di passioni, fissazioni e investimenti anche uno strumento di informazione, per lui il primo. Si diceva infatti che per questo miliardario visionario, chiacchierato e chiacchierone, fosse un po’ strano non aver messo una bandierina sul settore in cui si forma l’opinione pubblica di un paese (per i social, del mondo intero). Lui che ci vuole far volare su Marte, che ci fa desiderare «auto-astronavi» come quelle prodotte dalla sua Tesla e ambisce a rivoluzionare l’essere umano stesso. Così è arrivato l’acquisto di Twitter, che finanziariamente sembra non molto conveniente. Infatti c’è chi dice che potrebbe anche ripensarci, perché potrebbe indebolire un patrimonio sì

enorme, ma che si regge sulle azioni della Tesla e che quindi deve avere altri obiettivi. Poiché Musk è un uomo controverso, con idee libertarie, talvolta estreme e folli, c’è stato un coro di «se c’è lui, io vado da un’altra parte, su un altro social, dove la mia libertà è garantita». Intanto l’imprenditore di origine sudafricana si è messo a twittare come un matto (lo fa da sempre) sul significato che ha per lui la libertà d’espressione e sulla sua volontà di voler ripulire il social di «bot» (software che accedono alla Rete sfruttando i canali usati da utenti reali e sono in grado di svolgere vari compiti in maniera autonoma) e di account anonimi che deturpano il dibattito pubblico: «Io ci metto la faccia, farete così anche voi». Per dimostrare la sua buona fede ha anche proposto un’altra operazione-trasparenza: vuole rendere «open source» l’algoritmo di Twitter, e questa sì sarebbe una rivoluzione perché permetterebbe ai regolatori del merca-

to digitale di ottenere e utilizzare informazioni preziose per contenere le deformazioni dei social. Ma Musk intende anche levare la moderazione dei contenuti, cioè vuole una libertà d’espressione assoluta. Impegno nobile, se non fosse che i social sono proprio nati così, ma poi hanno dovuto adottare metodi di autocontrollo molto sofisticati perché sono diventati il luogo della violenza e della propaganda. Se il miliardario afferma che vuole la libertà d’espressione assoluta, dicono molti, significa che ritornerà a sdoganare discorsi d’odio che con fatica sono stati banditi dal social. Se questa del discorso pubblico sui social fosse una materia neutra in cui si applicano delle regole e delle leggi, non si porrebbe il problema. Dal canto suo Musk dice che l’unico limite alla libertà d’espressione deve essere il rispetto della legge, ma sa che non risolve molto. Perché c’è uno scontro culturale profondo su quel che è considerato accettabile o meno. Molto dipende da chi parla, da

dove lo fa, dai termini che usa, dalla capacità di modernizzare la propria visione del mondo. La preoccupazione, insomma, è tanta. Perché Musk è Musk, un uomo considerato troppo ricco per essere affidabile, troppo egoista per poter maneggiare un prodotto che ha a che fare con l’interesse collettivo, troppo imbevuto di letteratura libertaria e soprattutto troppo volubile e capriccioso per un’avventura che ci riguarda così da vicino. La Borsa ha registrato questo scetticismo e ha punito l’azzardo di Musk, così come si sono moltiplicate le analisi sul coinvolgimento del magnate in Cina, dove c’è una grande fabbrica di Tesla e dove Musk ha un mercato in crescita: ci si potrà fidare di lui? Nessuno intanto pensa al fatto che se possiamo vedere e ascoltare il presidente ucraino Volodymyr Zelensky – e sappiamo quanto è importante il suo dialogo costante con l’Occidente per determinare le sorti della guerra – è anche grazie ai satelliti for-

niti proprio da Musk, così come non sembriamo particolarmente preoccupati del fatto che i nostri figli passino il loro tempo su TikTok, che è cinese. Si dirà che l’uomo più ricco del mondo avrebbe potuto costruirsi un’immagine più rassicurante e che il pregiudizio nei suoi confronti è per questo ancor più giustificato. Si dirà anche che Twitter non sarà più lo stesso e si accuserà preventivamente Musk di voler riportare sul social il «bandito» Donald Trump (che ha detto di non volerci tornare, ma sarà vero?), anzi di aver comprato Twitter per «restaurare» l’ex presidente. Poi le voci si calmeranno e nessuno andrà da nessuna parte, così come nessuno ha abbandonato Facebook (se non i giovani che lo considerano un social da vecchi) dopo il tentato boicottaggio dello scorso anno (mi riferisco alla campagna contro l’odio in Rete). E magari sogneremo che Musk faccia sul serio quando scrive su Twitter: «Ora mi compro Facebook così poi lo cancello».

Zig-Zag

di Ovidio Biffi

Il convento passa quel che resta ◆

È lunedì di Pasqua. La Pasquetta di una volta. Mi sveglio molto presto e rileggo alcune proposte di «La Lettura». Poi mi vien l’idea balzana di guardare l’offerta televisiva della giornata. Scorro i programmi Rsi e ancora una volta ritrovo la convinzione di quanto televisivamente noi siamo messi male. Pensando di parlarne nella rubrica che state leggendo, avverto però anche il timore di dover smettere dopo poche righe, o a metà cammino, di fronte a una subdola domanda: ma chi me lo fa fare? Sulle prime sono tentato di scegliere un altro tema. Alla fine mi convinco che vale la pena resistere, facendo affidamento sulla bonarietà di chi il settimanale lo regge, e anche di chi lo legge. Inizio chiedendo di tener presente che quanto riassumo è l’offerta di una giornata di una televisione che incassa oltre

300 milioni all’anno. Su La 1 il mattino non ha l’oro in bocca: spara sei telefilm di fila, fino alla mezza, quando arriva un telegiornale piccino picciò a dirci che nel mondo reale la vita però continua e i 1000 della Rsi stanno guardandosi attorno. Ma ripartono film e telefilm, fino alle 17, quando si aprono le porte e la Rsi va… fuori, sul territorio, quel tanto che basta a tirare l’ora degli aperitivi; pardon: dei giochi che da anni ormai nel pre-serale premiano ideatori e presentatori più che concorrenti e spettatori. Il gong della «Comano Corporation» rimbomba alle 20: con l’informazione finalmente inizia qualcosa che può essere definita televisione e durerà tre orette circa. Vediamo l’alternativa su La 2: dalle 6 di mattina e fino a mezzogiorno vi intrattiene facendo vedere in diretta… come si fa

la radio! Poi inizia non l’ora, ma l’era delle ripetizioni, irremovibilmente appaltate ai giochi del giorno prima su La 1. Nel primo pomeriggio, in mancanza di qualche diretta sportiva, si cambia: in replica ci sono gli stessi telefilm de La 1 o qualche film datato (martedì 19 si è esagerato con un Charlot soldato del 1919!) o i sempre imperdibili documentari. Solo in prima serata può capitare un «live» con dibattito, una diretta sportiva in notturna oppure qualche lungometraggio un po’ più recente. Riassumendo, sull’arco di una giornata, grosso modo per le prime 12 ore, la Rsi offre sul primo canale telefilm e giochi, sul secondo radio in diretta, telefilm e ripetizioni. Televisivamente parlando «resistono» in media circa 4 o 5 ore di proposte «fresche» garantite da informazione, inchieste e sport, condite con

film, intrattenimento, un nonnulla di offerte leggere e, ogni tanto, leggerissime spruzzate di cultura (proibito pensare a comicità, autocritica ecc.). Pensate che io abbia sbagliato prendendo i programmi della Pasquetta? Ricredetevi: il lunedì successivo le cose sono addirittura peggiorate! Lo so: sono più di due anni che c’è una pandemia, sono due mesi che c’è una guerra quasi in casa, ed è un anno che c’è un nuovo direttore a Comano. Ma mi chiedo: solo a me viene l’idea di vedere in servizio un dr. Merlani dei programmi della Rsi, abilitato a perseguire i virus (vuoti) del palinsesto e a predisporre vaccinazioni contro l’ignavia e il continuo impoverimento culturale di televisione e radio? Una cosa è certa: senza un simile «decisionista» sarà difficile stabilire se sotto il brand

Ssr-Rsi ammantato di servizio pubblico ci sia ancora lo stesso media che fino a qualche anno fa raccoglieva consensi e persino voti, o se invece è affidato ad automatismi che mettono prodotti congelati o riscaldati nei palinsesti del canone, lasciando le vivande più buone (dalla Champions di calcio ai film e alle serie televisive che «spopolano») ai reparti internet di Blue, Netflix, Disney+, Viacom ecc. E di fronte a questa «armata Swisscom», che avanza a suon di abbonamenti mensili e ormai determinata a distribuire in streaming anche news e pubblicità, che fanno Ssr e Rsi? Sperano di poter resistere sventolando quel che resta: l’alibi dell’informazione, «turris eburnea» del servizio pubblico. Un po’ come fa la Posta con il «chilometro zero» per proteggere quel che resta del suo monopolio.


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azione – Cooperativa Migros Ticino

UN MIRACOLO DELLA NATURA Oggi sempre più donne parlano apertamente della cosa più naturale al mondo – e sfatano miti e pregiudizi legati alle mestruazioni

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Testo: Bettina Schnerr

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MONDO MIGROS

Come avviene la mestruazione?

Ogni mese l’endometrio, lo strato superficiale della mucosa che riveste le pareti dell’utero, si ispessisce per consentire l’annidamento dell’ovulo fecondato. Se non avviene la fecondazione, la mucosa viene espulsa (in quanto inutile) insieme a una certa quantità di sangue: questa è la mestruazione. Il sangue mestruale contiene più di 350 proteine esclusive, che non si trovano né nel sangue normale, né nel liquido vaginale: un vero miracolo della natura. Perché tanti giri di parole?

Sono indisposta, ho il marchese in visita, ho le mie cose... Per troppo tempo la sola parola «mestruazione» è stata fonte d’imbarazzo. Considerato che il «fenomeno» riguarda circa metà della popolazione mondiale, non si capisce il perché di tanta vergogna, che sfocia a volte in vera e propria discriminazione. Per fortuna le cose stanno cambiando e farsi trovare con un tampone in mano non è più motivo di generale disagio. Il ciclo ha cessato di essere un argomento tabù, e la richiesta di detassare gli articoli per l’igiene mestruale è solo uno dei segni che le donne stanno finalmente affrontando il tema mestruazione con maggior consapevolezza e sicurezza di sé. Quanto è importante l’informazione?

L’importanza di conoscere il proprio corpo Un’igiene intima adeguata, che preserva il giusto pH, aiuta a prevenire le infezioni vaginali. I gel vaginali con acido lattico possono contribuire a ripristinare e mantenere il naturale equilibrio acido. – Aiuta il tuo corpo a conservare o ripristinare il livello di pH ottimale nelle parti intime. Indossa biancheria intima che può essere lavata a 60 gradi.

– Cambia frequentemente asciugamani & co. e lava anche loro a 60 gradi.

– Usa assorbenti e salvaslip in materiali naturali.

– Passa la carta igienica dalla vagina all’ano, mai viceversa.

– Evita le lavande vaginali.

Calcolando una media di 500 cicli nell’arco di vita di una donna, la somma dei periodi mestruali arriva a quasi dieci anni. Già solo per questo dovrebbe essere ovvio che la mestruazione non è un fenomeno marginale né di poco conto. Per questo l’argomento può e deve essere affrontato serenamente e pragmaticamente. Perché a causa dell’imbarazzo e della vergogna che da sempre avvolgono il tema, sono ancora tante le donne che, pur mestruando ogni mese, sono ignoranti in materia.

gamma di prodotti dedicati è estremamente differenziata. Tra il menarca, ovvero la prima mestruazione, e la menopausa, una donna consuma tra 12.000 e 16.000 assorbenti o tamponi – un’enorme quantità di rifiuti che prodotti sostenibili come le coppette mestruali e la biancheria speciale aiutano oggi a ridurre.

Quanto dura un ciclo?

A che punto siamo?

Le fole sulle mestruazioni continuano incredibilmente a circolare anche in una società moderna e «illuminata» come la nostra. Molti conosceranno ancora il vecchio detto secondo cui una donna che mestrua rovina il burro, il vino, il lievito e la maionese se ci mette mano. E poi renderebbe opachi gli specchi, arrugginirebbe i metalli e farebbe addirittura appassire i fiori a tempo di record! È un bene che le donne facciano finalmente piazza pulita di simili assurde credenze.

Foto: Getty Images

La giornata mondiale dell’igiene mestruale si celebra il 28 maggio di ogni anno – perché il ciclo standard è di 28 giorni (anche se solo in un 15% circa delle donne è così regolarmente scandito) e la mestruazione dura in media cinque giorni (normalmente da tre a sette). Durante questo periodo, il corpo perde una media di 60 millilitri di sangue, l’equivalente di un doppio espresso. Va da sé che le esigenze di gestione della mestruazione variano da donna a donna, e infatti la

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CULTURA ●

L’arte fatta con il riciclo L’artista Enrica Borghi e l’attivista Marie-Claire Graf al Monte Verità per parlare di arte e ambiente

Una saga berlinese La storia della famiglia Effinger che attraversa quasi un secolo di storia nel cuore pulsante dell’Europa

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Ascolta Israele In tempi di drammatica incertezza la preghiera ebraica dello Shemà può incoraggiarci alla vita

Tears For Fears Il duo britannico torna sulla scena musicale con un nuovo lavoro discografico molto evocativo

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La guerra irrompe nella Biennale In mostra

A Venezia fra metamorfosi e conflitto

Gianluigi Bellei

«Se voi siete liberi, come potete capire le persone che lottano per la libertà? Come vi immedesimate in chi può solo sognare la pace e portare aiuto?». Così ha parlato Volodymyr Zelensky in un videomessaggio trasmesso alla Scuola Grande della Misericordia di Venezia il 21 aprile durante l’inaugurazione di This is Ukraine: Defending Freedom@Venice 2022 voluta dal PinchukArtCentre e Foundation. Gli fa eco la moglie Olena che presenta un testo intitolato L’arte è un’isola nel Caos. E così la guerra entra prepotentemente nella Biennale di Venezia. Forse con l’opera più struggente: quel mucchio di sacchi di sabbia al centro della nuova Piazza Ucraina ai Giardini. Gli stessi che vediamo proteggere le opere d’arte pubbliche dai bombardamenti dell’orco russo. Durante l’inaugurazione del Padiglione Ucraina la ministra aggiunta della Cultura ucraina Kateryna Chuyeva ha proiettato le immagini dei monumenti che per ora non si sono salvati: la Biblioteca di Kharkiv, la Chiesa della Natività della Vergine Benedetta, la scultura dedicata al poeta Taras Shevchenko a Borodianka e il teatro di Mariupol. Pavlo Makov di Kharkiv, dopo una rocambolesca fuga dalla bombe, ha portato a Venezia la sua opera intitolata The Fountain of Exhaustion del 1995. Simbolo di un fiume che sfocia in un altro fino a esaurirsi; come la cultura, l’economia e la politica. Durissime le sue parole e quelle del suo staff: «Finché questa guerra sarà in atto l’unico dialogo possibile con i russi è quello al fronte». Dopo che avranno lasciato il paese e verranno puniti per crimini di guerra ne riparleremo… Una domanda rimbalza fra tutti i presenti: cosa può fare il mondo dell’arte per aiutare i nuovi partigiani ucraini contro l’invasore? Forse solo contribuire a inviare le armi necessarie per difendersi e contrattaccare. Nel frattempo il 18 aprile «Le Monde» ha pubblicato un appello di 80 scrittori e accademici di paesi la cui popolazione è abbastanza favorevole a Putin – fra i quali Tahar Ben Jelloun, Noam Chomsky, Arundhati Roy e Wole Soyinka – che invitano a sostenere la lotta degli ucraini «senza calcoli né riserve». Il resto sono chiacchiere da salotto. Anche la Biennale, per voce del presidente Roberto Cicutto e della curatrice Cecilia Alemani, «esprime la propria ferma condanna per l’inaccettabile invasione dell’Ucraina da parte del governo russo». Ma veniamo al Latte dei sogni, così si intitola la Biennale di Cecilia Alemani che si preannuncia parecchio affollata. Per farvi un’idea, nelle scorse edizioni durante le giornate dedicate alla stampa, partecipavano fra le duemila e le tremila persone; in quest’oc-

casione si è parlato di dodicimila e, in effetti, lo si poteva dedurre dalle lunghe file alle varie entrate. Facciamo una premessa. La Biennale dovrebbe essere la testimonianza fotografata di quello che sta accadendo nel mondo dell’arte. Nuove correnti, nuovi sommovimenti… e in effetti a volte è stato così, pensiamo alle edizioni dedicate all’arte povera o alla transavanguardia, per esempio, che testimoniavano la cultura delle gallerie di riferimento e dei dibattiti culturali. Poi via via i curatori sono diventati maggiormente individualisti e le Biennali esposizioni per rivendicare il proprio punto di vista. Sempre senza dimenticare le grandi gallerie e i collezionisti importanti. Anche in questo caso è così. Rendendo plasticamente evidente lo scollamento fra il momento storico e quello che si vede. D’altronde stiamo parlando di un’esposizione che richiede sforzi mastodontici e la cui organizzazione, dalla genesi al risultato finale, richiede anni. In questo caso uno in più dato che è stata posticipata di dodici mesi per via della pandemia. Il titolo nasce da un libro di favole di Leonora Carrington (19172011) nel quale la vita è il riflesso di un mondo in trasformazione che muta costantemente. La curatrice si interroga su come stia cambiando la definizione di umano. «Quali sono le differenze che separano il vegetale, l’animale, l’umano e il non-umano?». Questi interrogativi si concentrano in tre aree tematiche: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie e i legami che si intrecciano fra i corpi e la Terra. Lungo il percorso che va dai Giardini alle Corderie troviamo poi cinque mostre tematiche, dette capsule, con un approccio trans-storico. La culla della strega si occupa di artiste dell’avanguardia storica come Carol Rama e Dorothea Tanning. Corpo in orbita fa intrecciare corpi e linguaggi come la scrittura visiva di Mirella Bentivoglio e Giovanna Sandri. Tecnologia dell’incanto esamina i rapporti fra la Terra e la natura. La quarta capsula è ispirata agli scritti di Ursula K. Le Guin e l’ultima è dedicata alla figura del cyborg con personalità del Bauhaus e del dadaismo. Per il resto gli oltre 200 artisti si ispirano, come scrive la curatrice, alla «fine dell’antropocentrismo» e a una nuova comunione con il non-umano, l’animale e la Terra. Vale la pena notare che l’80% degli artisti è donna. Cecilia Alemani sostiene di aver scelto solo le opere migliori senza guardare il genere. Se così fosse vuol dire che i suoi predecessori non hanno seguito lo stesso procedimento meritocratico o la pensavano diversamente. In ogni caso il risulta-

Qui sopra Elefant, la gigantesca scultura di Katharina Fritsch. In basso la piramide di sacchi di sabbia al centro della nuova Piazza Ucraina. (Keystone). A seguire Sleeper, 1994, Paula Rego. (Foto Nick Willing. Courtesy of the Artist. © Paula Rego)

to è un’esposizione monotematica, a volte piacevole altre no, con in prevalenza dipinti e sculture. Pochi i video, le installazioni e i lavori concettuali. Una visuale tradizionale anche se «femminista». Impressionante la gigantesca scultura di Katharina Fritsch Elefant che riproduce ogni piega del corpo di un animale tassidermizzato; sorprendenti e seducenti le sculture di Andra Ursuţa come Predators ’R Us che rappresenta una donna priva di alcune parti del corpo alla quale al posto dei piedi crescono strane appendici; Cecilia Vicuña dipinge figure fantastiche come Leoparda de Ojitos dove la felina si trova fra due alberi con la pelliccia piena di occhi e i genitali in vista; nelle piccole tele iperrealiste di Chiara Enzo troviamo dettagli di cute, ferite, colli lanuginosi; Paula Rego dipinge scene di vita domestica dominate dai conflitti; Precious Okoyomon realizza topografie scultoree con materiali vegetali vivi, animali compresi. Leoni d’oro alla carriera sono andati a Katharina Fritsch e Cecilia Vicuña, mentre la giuria internazionale ha conferito il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale alla Gran Bretagna, per il miglior partecipante a Simone Leigh e il Leone d’argento per il migliore giovane promettente ad Ali Cherri. Dove e quando Il latte dei sogni. A cura di Cecilia Alemani. Venezia, Giardini – Arsenale. Fino al 27 novembre. Orario: 10.00-18.00. Lu chiuso. Catalogo edito da La Biennale di Venezia, euro 90. Guida euro 18. I/E. www.labiennale.org


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CULTURA

Se le opere nascono dal cestino dei rifiuti In mostra

Al Monte Verità l’artista Enrica Borghi e la giovane attivista Marie-Claire Graf riflettono sulle questioni ambientali

Ada Cattaneo

Il mondo dell’arte, più di altri, è da tempo sensibile alle questioni ambientali. Anzi, si può affermare che il cambiamento climatico sia, negli anni recenti, fra le tematiche più sentite e più percorse dagli artisti. Questo interesse ha radici profonde: basti pensare alle riflessioni nell’ambito della Land Art emerse sul finire degli anni Sessanta o a quelle dell’artista tedesco Joseph Beuys, di poco successive. Nella stringente attualità, la linea di ricerca più sviluppata è quella che si avvale dell’arte quale mezzo per sensibilizzare il pubblico ai temi ambientali. Le esperienze più significative sono però quelle di artisti che hanno deciso di travalicare il loro consueto ambito di azione e si sono impegnati in progetti di concreto sforzo verso la sostenibilità. È emblematico il caso di Olafur Eliasson, con lavori come Ice Watch dedicato allo scioglimento dei ghiacci in Groenlandia, o quello di Tomás Saraceno, che ha fondato insieme al MIT di Boston la comunità interdisciplinare Aerocene per lo sviluppo di nuovi e più sostenibili stili di vita. Qualcuno commenterà sprezzante che non sarà certo l’arte a salvare il mondo, ma quantomeno gli artisti ci stanno provando con fermezza e l’occasione per parlarne è data da Giardini in Arte che ha organizzato un weekend dedicato alla riflessione sul tema. Il 7 maggio alle 17.00 si inaugura la personale di Enrica Borghi, artista che oggi vive e lavora sulle colline del lago d’Orta, e da sempre utilizza il recupero dei materiali quale modalità creativa per dare vita alle proprie opere che saranno in mostra al Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona e al Monte Verità. Enrica Borghi in questa intervista ci racconta le tematiche che più la impegnano, della genesi dei suoi progetti creativi e degli artisti che più l’hanno ispirata in questo percorso fra arte e ambiente. Può descriverci gli interventi artistici che presenterà ad Ascona? Molecole d’Acqua, questo il nome della mostra, nasce da una collaborazione sinergica con l’Accademia di Belle Arti di Venezia, nello specifico con il direttore Riccardo Caldura. Il tema affrontato è quello dell’acqua, come se fosse vista attraverso una lente di ingrandimento. Parliamo quindi

Alcune delle opere dell’artista Enrica Borghi in mostra al Monte Verità e ad Ascona.

di alghe, molecole, forme batteriche primordiali, conchiglie e forse fossili. L’acqua quindi come collegamento. Qui ad Ascona e al Monte Verità, da sempre sensibile alle tematiche della natura e dell’ambiente, a ricordarcelo c’è anche il lago. Acqua, quindi, come bene comune da salvaguardare, ma anche luogo di processi fluidi. Con quali materiali ha lavorato? Quali ragioni sottendono alla scelta di questi medium? Il materiale che ho utilizzato e che mi accompagna da ormai venticinque anni di sperimentazioni è quello

delle bottiglie e dei flaconi in plastica, nello specifico P.E.T. Un materiale che connotiamo come «nocivo» e strettamente legato alle problematiche dell’inquinamento ambientale. Questo materiale mi interessa perché ha in sé delle caratteristiche molto interessanti dal punto di vista estetico: deformabile con il calore e sezionabile con una lama. Appartiene inoltre alla nostra quotidianità. Le mie opere nascono da questo, proprio da questa indagine: uno studio che a volte si trasforma in discarica e a volte diventa prezioso come

L’attivista Marie Claire-Graf al Monte Verità Soprannominata la Greta Thunberg della Svizzera, l’attivista per il clima e le questioni di genere Marie-Claire Graf domenica 8 maggio alle 11.00 sarà ospite all’Auditorium Monte Verità. Classe 1996, nata a Gelterkinden nel Canton Basilea Campagna, Marie-Claire Graf è cofondatrice del movimento Sustainability Week International ed è attiva nell’ambito dei Fridays for Future. La giovane attivista è inoltre alla guida di diverse associazioni e movimenti dedicati al clima, allo sviluppo sostenibile, ai diritti dei giovani e delle donne. Grazie al suo lavoro, ha ottenuto diversi premi e riconoscimenti, come lo Youth Climate

Champion delle Nazioni Unite in Svizzera. Sarà in dialogo con la giornalista Natascha Fioretti. L’evento è organizzato in collaborazione con Congressi Stefano Franscini – ETH Zurigo.

una gioielleria. Sono opere che nascono dal cestino dei rifiuti, da quello che io getto quotidianamente e quello che la società ritiene non abbia più valore. La mia ispirazione deriva dal fatto che io stessa a volte mi sento rifiuto in una società che non lascia spazio visibile allo «scarto». Qual è stata la genesi di queste sue esperienze artistiche, sviluppatesi in anticipo rispetto alle attualissime riflessioni a livello internazionale sulla sostenibilità? Il mio lavoro nasce negli anni Novanta. Iniziava allora l’attenzione per la raccolta differenziata dei rifiuti. Il «Decreto Ronchi», del 1997, è stata la prima legge a occuparsi di smaltimento differenziato dei rifiuti in Italia, con normative europee. La mia ricerca inizia proprio in questi anni, ma le mie motivazioni partono da alcune considerazioni molto personali sul tema del rifiuto. Da una parte quindi si colloca l’interesse «ecologico», in particolare con il mito di un artista come Joseph Beuys, che se n’è ampiamente occupato già negli anni Settanta. Dall’altra si colloca poi la questione di agire come artista donna in un contesto culturale ancora maschile. Da ultimo, non si può certo ignorare l’aspetto consumistico della nostra società. Quale può essere, a suo modo di vedere, il ruolo di un’artista nel dibattito sul cambiamento climatico?

Credo che l’arte abbia il compito di porsi come «conduttore» di messaggi legati alla società. Occuparmi con costanza di questi temi significa per me sottolineare in modo continuativo questa problematica, oggi più che mai urgente e attuale. Non è quindi solo una denuncia e una riflessione sull’entità e sull’impatto dei nostri scarti, ma è anche una proposta per riappropriarsi di questi materiali, in vista di una giusta riconversione di essi, nel rispetto dell’ambiente. Credo che si tratti della nostra società in generale e del passaggio di testimone alle generazioni future. Annuncio pubblicitario

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CULTURA

«Non avere appartenenza regala il privilegio di una prospettiva differente» In scena ◆ Il produttore e drammaturgo di fama internazionale Farooq Chaudry si racconta e ci dà qualche anticipazione sullo spettacolo Portraits in Otherness in scena al LAC il 7 maggio Natascha Fioretti

Il danzatore inglese di origini camerunensi Dickson Mbi in azione (© Julien Martinez Leclerc). Nella foto piccola, il produttore ed ex ballerino Farooq Chaudry che nel 2019 è stato insignito dell’Ordine dell’Impero Britannico per i suoi meriti nella danza.

Insieme, il drammaturgo pakistano Farooq Chaudhry e il ballerino e coreografo britannico di origini bengalesi Akram Khan sono l’anima della omonima compagnia di danza nota in tutto il mondo. Quando Farooq, manager artistico in erba, lo vide danzare per la prima volta nel luglio del ’99 non ebbe dubbi e si disse «questo ragazzo sarà il futuro dell’arte contemporanea».

son Mbi è lo stile popping (insieme di danza funk e hip hop), Joy Ritter invece ci ha abituati al vogueing (uno stile di danza contemporanea) e Amandine condivide lo stesso background urbano connotato da un linguaggio estremamente contemporaneo. Guardandomi attorno devo dire che percepisco una nuova energia nella danza moderna che proviene dalla gente, dalla strada.

Come possiamo spiegare il titolo Portraits in Otherness? È un’estensione della filosofia della nostra compagnia di danza, la Akram Khan Company. Il viaggio è iniziato 22 anni fa e a caratterizzarlo sono sempre stati gli incontri di mondi e identità differenti, le persone coinvolte sono sempre state estranee al canone del mainstream. Ci siamo impegnati a raccontare storie e persone con linguaggi e identità multiple. Crediamo nel sostegno ai giovani artisti, parte dei proventi degli spettacoli che portiamo in tour vanno a un’organizzazione che finanzia i loro progetti. Sosteniamo chi come Akram Khan utilizza più linguaggi. Nato a Londra da genitori bengalesi, ha dapprima studiato il kathak, la danza tradizionale indiana, poi danza contemporanea, ha fatto teatro e molto altro. Siamo alla ricerca di un linguaggio nuovo, ibrido. Tornando al titolo dello spettacolo, la nostra idea è quella di celebrare la diversità intesa non come ostacolo, ma opportunità. Non avere appartenenza regala il privilegio di una prospettiva differente.

Cosa possiamo aspettarci dalla musica? Devo ancora sentire Amandine, per Dickinson so che Roger Goula ha composto una musica ad hoc per il suo assolo dal titolo Duende che prende spunto dal concetto di animismo, dall’idea che l’energia vitale provenga da un impulso animale. La musica composta da Roger è più vicina alla musica classica con integrazioni di elementi urbani. La musica di Joy è molto affascinante, si è ispirata a Mary Wigman e alla danza della strega (Hexentanz) rielaborata in chiave moderna combinandola con la musica popolare filippina. Un ibrido composto di diversi elementi.

Tra gli artisti che si esibiranno al LAC, c’è anche un’artista svizzera. Una scelta casuale? In dialogo con il LAC abbiamo pensato che fosse importante sostenere gli artisti locali, qualcuno che al contempo rappresentasse il vostro linguaggio e fosse un artista plurale. Così abbiamo pensato ad Amandine Ngindu, artista congolese di casa a Losanna. Quali sono gli elementi che uniscono le tre performance? Ad accomunarle sono sicuramente le radici urbane. A connotare Dick-

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«Ibrido», è una parola che usa spesso. Perché? Mi piace molto. C’è stato un tempo in cui per descrivere l’incontro tra due culture si usava il termine fusione. Parola che ho sempre trovato insoddisfacente perché indica due cose vicine l’una all’altra ma comunque distinte. Ciò che è ibrido ha la sua identità propria ma porta con sé, sintetizza gli aspetti migliori di chi o cosa l’ha generato. Scelga cinque parole che definiscono il vostro lavoro Curiosità, coraggio, collaborazione, connessione e cura. Abbiamo creato un motto per spiegare come interagiscono nel lavoro della Akram Khan: «Attraverso l’incontrarsi di mondi, invitiamo le persone a vedere, sognare, riflettere sulla bellezza e la complessità dell’essere umano». Entrambi, Akram e io, siamo uomini con eredità differenti, provenienti da contesti differenti e cresciuti in ambienti nuovi in cui abbiamo costruito una nuova eredità. Ci impegniamo a

trovare la via per realizzare cose belle senza sminuire la complessità, ma accettandola. Le storie che raccontiamo devono poter rappresentare tutti, vogliamo che abbiano una valenza universale. Lei e Akram collaborate insieme da 22 anni. Non sono pochi. Ciò che da subito ci ha unito è stata l’energia che avevamo in comune. Volevamo imparare l’uno dall’altro, imparare dal mondo esterno, eravamo insaziabilmente curiosi e decisi a trovare nuovi sguardi sulla realtà. Eravamo mossi entrambi dal desiderio di riconciliarci con noi stessi. Abbiamo grande fiducia l’uno nell’altra, certo non siamo sempre d’accordo ma è giusto che sia così perché se due persone la pensano allo stesso modo su tutto allora ne basta una. Se però le chiedo di scegliere un elemento in particolare, di dire qual è la ragione più importante del vostro successo, quale mi dice? Abbiamo sempre messo l’arte al primo posto, questo ci ha reso veramente forti. Io sono il produttore, devo occuparmi del lato economico, ma il mio obiettivo non è soltanto fare un mucchio di soldi e rendere la compagnia prosperosa. Naturalmente è parte delle mia responsabilità farne una compagnia robusta, resiliente e indipendente ma ciò che davvero conta, ciò che sta al di sopra di tutto è l’arte, il servizio che a essa rendiamo. Lei è considerato uno dei produttori di danza di maggior successo al mondo. Come si arriva a tanto, quali qualità occorrono? Per essere davvero bravi in qualcosa ci vogliono competenze e il giusto atteggiamento mentale. Imprenditore per natura, il mio percorso è stato tutt’altro che lineare. Sono cresciuto a Londra negli anni Sessanta e con la mia famiglia abbiamo subito pesanti attacchi di razzismo che hanno seriamente danneggiato la nostra qualità di vita. All’età di dieci anni sono diventato un criminale locale, facevo irruzione nelle case e rubavo le auto. A 12 anni ho smesso di andare a scuola. A 14 sono andato in

una comunità psicoterapeutica dove per riabilitare le persone dai traumi si insegnava teatro. Così a 17 anni ho incontrato la danza. Sembrerò un idealista ma sono convinto che se vuoi tirare fuori il meglio dalle persone devi amarle, non devi spaventarle. Farle sentire come la migliore versione di sé stesse è il mio compito di produttore. Quale impatto ha avuto su di voi la guerra in Ucraina? La guerra è una cosa orribile e drammatica, sentire ogni giorno le notizie di tante vite spezzate è insostenibile. Akram ha scritto qualcosa di meraviglioso sulla natura della guerra, non solo in riferimento all’Ucraina, riflettendo sulle conseguenze, su cosa fa la guerra all’umanità. Ne distrugge l’essenza, la fibra stessa di cui l’umanità è fatta, annienta il senso di comunità e di appartenenza che invece l’arte ci restituisce. Come compagnia abbiamo preso posizione in favore dell’Ucraina ma a livello personale voglio ricordare che la questione è più grande e diffusa. Pensiamo alla Siria. Pensiamo alle persone di colore morte ammazzate negli Stati Uniti. A dire la verità ho fatto anch’io le mie esperienze crescendo in Inghilterra. Agli inizi nei negozi ci imbattevamo in cartelli che dicevano «Vietato entrare ai neri, ai cani, agli irlandesi». Abbiamo dovuto imparare a convivere con queste discriminazioni e con l’odio. Le persone che discriminano e odiano sono mosse dall’ignoranza e dalla paura di perdere qualcosa. Dobbiamo lottare contro questo tipo di comportamento. Spero che attraverso la responsabilità sociale, l’arte e la cultura sapremo trovare nuove strade che ci riconducano a una comunanza e una condivisione senza perdere la bellezza delle nostre differenze. Dove e quando Portraits in Otherness, 7 maggio 20.30 al LAC. Spettacolo promosso nell’ambito Steps, Festival della danza del Percento Culturale Migros.

A maggio in Ticino si danza

In scena ◆ Uno sguardo ravvicinato ad alcuni degli spettacoli in cartellone Giorgio Thoeni

Per la nostra regione il mese di maggio è consacrato alla danza contemporanea. Sono infatti diverse le occasioni per gli appassionati, dal festival Steps alla Festa Danzante, oltre al Lugano Dance Project che il LAC dedica alla coreografia contemporanea. Nel frattempo abbiamo approfittato anche di un paio d’altri appuntamenti interessanti. A partire da How to proceed della compagnia ZOO di Thomas Hauert, spettacolo del 2018 creato dal danzatore e coreografo svizzero di stanza a Bruxelles per festeggiare il ventesimo anniversario del suo gruppo internazionale con i collaboratori più fedeli. Ironica e colma di suggestioni, la performance di Hauert percorre e rincorre il filo di un discorso che nasce da una matassa che avvolge e si dipana dai corpi, come un destino a cui sottrarsi o di cui accettare le insidie di un pacifico scontro fra individui, nella separazione, nella prigionia delle emozioni. Come il ripiglino che tutti dovremmo ricordare: quel gioco della cordicella dove due o più persone devono formare delle figure intrecciando le dita. Con Hauert, a creare la matassa sono i corpi, in un delirio di composizioni dove ogni danzatore assume parte di un movimento coreografico a due o di tutto il gruppo, accompagnato dalla parola mossa in sintonia con un sentimento improvvisato. Come nell’antico gioco, tutte le forme si appropriano di una dimensione. Dallo spunto allo sviluppo, dal filo alla matassa, l’ironia trova la sua culla in un omaggio alla creatività dove tutto sembra inventato ma che, in realtà, nasce da una studiata macchina coreografica. Successo meritato per l’unica data in un LAC pieno di giovani. Il secondo spettacolo che vogliamo ricordare è Topia, proposto dall’atelier Lo Studio di Filippo Armati ad Arbedo: una performance immersiva concepita e realizzata da Simon Fleury con tre suoi artisti danzatori al termine di un periodo di residenza. Topia è il risultato di un progetto pensato per un singolo spettatore che Armati ha aperto a un gruppo più nutrito. Il suo carattere immersivo e postmoderno riflette una sorta di trance espressiva a contatto con i danzatori con l’obiettivo di uscire da un’anestesia globale, quella che ci racchiude creando una deformazione spazio-temporale, al fine di ridare impulso alla vita in un contesto di riscoperta del piacere della condivisione.

Un momento dello spettacolo How to proceed.


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MONDO MIGROS

L’ELEFANTE È PARTITO ALLA CARICA

Hans Uster

Per foca e compagni sono arrivati i rinforzi: la blasonata famiglia dei gelati alla panna a marchio Migros si è arricchita di una nuova variante al gusto caramello e, ovviamente, di un nuovo animale portabandiera, anch’esso disegnato da Hans Uster – sì, proprio quello che nel 1975 ha dato vita all’ormai arcinoto e amatissimo packaging con la foca, l’orso e la scimmia

Uster è grafico e artista a tutto tondo: collaborazione con la Migros a parte, realizza dipinti, grafiche, sculture e persino fumetti, che ha auto-pubblicato. Hans Uster vive con sua moglie a Zurigo-Höngg.

Testo: Angela Obrist

2022

Dolci ricordi d’infanzia per i più anziani e gradevole scoperta per i più giovani, i gelati alla panna con gli animali sulla confezione non mancano dal banco surgelati di nessuna filiale Migros, perché da quasi 50 anni ormai cavalcano senza sosta l’onda del successo. E ora fa il suo ingresso nella troupe animale, con gran squilli di tromba (o, meglio, con sonori barriti), l’elefante, che contraddistingue la nuova variante di gelato al gusto caramello. Anche l’allegro pachiderma è nato in quel di Zurigo-Höngg dall’estro e dalla mano di Hans Uster, grafico e artista nel frattempo 92enne, ma sempre instancabile. I primi tre soggetti risalgono al 1975, anno in cui Uster assunse il ruolo di responsabile del nuovo reparto di «packaging creativo» alla Midor. Agli inizi la Migros aveva optato per confezioni essenziali e neutre, che solo col tempo ha deciso di rendere più colorate e accattivanti. Packaging creativo? Una missione su misura per Hans Uster! «Una confezione ben studiata ha forza, parla alla gente», dice il grafico quando andiamo a trovarlo nel suo studio, che è anche il suo salotto – o viceversa. Del perché i suoi animali riscuotano tuttora successo, invece, fatica a capacitarsi. «Mi sorprende che piacciano ancora così tanto!», ammette candidamente. 25.000 bozze

Illustrazione e foto: zVg

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La confezione dei gelati è stato un progetto a lui caro, ma di fatto solo uno dei tanti. Uster calcola di aver sottoposto alla Migros un totale di circa 25.000 bozze per il packaging dei prodotti più disparati. E, a riprova, mette sul tavolo due raccoglitori

strapieni. Con la sua matita ha cucito un vestito su misura per minestre istantanee e cioccolato, collant e aspirapolvere. «Quando un nuovo packaging arrivava in negozio, a volte ci mescolavamo al pubblico per vedere come veniva recepito», rievoca Uster, che con i suoi design è tuttora presente anche nei frigoriferi di tanti clienti Migros: la confezione di latte con la brocca rossa, bianca o blu a pois bianchi è opera sua. Cercasi nuovo animale

Il grafico è ufficialmente in pensione dal 1991, ma il suo cervello no, e continua a sfornare idee. Nel suo salotto, quadri, sculture e installazioni raccontano storie divertenti e drammatiche. Anche il tavolo da disegno è tuttora al suo posto davanti alla finestra con vista sul verde. «Un artista non va mai in pensione», afferma Uster. Per questo gli ha fatto solo piacere quando, l’anno scorso, gli è arrivata la chiamata di Delica, l’azienda Migros che produce attualmente i gelati cult a Meilen, sul lago di Zurigo. Alla domanda se fosse disposto a disegnare un altro animale da abbinare a un nuovo gusto di gelato, la sua risposta è stata immediata: «Ma certo!» Nelle settimane successive la matita di Uster non ha avuto pace. L’artista ha buttato giù bozze su bozze – come una volta, a mano e su carta. Pachidermi che ballano, che sfidano le leggi dell’equilibrio e si affrontano a proboscide alzata. L’elefante, però, non era affatto l’unico concorrente. «Personalmente ho preso in considerazione l’intero zoo», dice Uster. Per me avrebbe potuto benissimo vincere la gara un canguro, oppure un amichevole coccodrillo». MM

Gli imballaggi dei gelati di culto con la foca, l’orso e la scimmia realizzati da Hans Uster nel 1975 Gelato di panna Elefante al gusto caramello 12×57 ml Fr. 7.20


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CULTURA

Una saga berlinese

Canti anonimi

Luigi Forte

Giovanni Gavazzeni

Pubblicazione ◆ Per Einaudi è uscito il romanzo della giornalista e scrittrice Gabriele Tergit

Non è solo un viaggio nel tempo, ma la suggestiva rievocazione di un mondo scomparso, un atto d’amore verso il proprio passato travolto da drammatici eventi. Il romanzo dell’ebrea berlinese Gabriele Tergit, Gli Effinger, che Einaudi propone nell’ottima versione di Isabella Amico di Meana e Marina Pugliano con un’interessante postfazione di Nicole Henneberg, ripercorre attraverso quattro generazioni settant’anni di storia tedesca, dall’epoca di Bismarck al 1948. E porta in scena la provincia bavarese come la grande borghesia di Berlino, il mondo intellettuale e quello godereccio delle feste e dei ricevimenti con una vivacità sorprendente e una sottile arte nel costruire dialoghi e personaggi che raccontano un’epoca attraverso le disavventure della loro vita. Del resto la Tergit, nata nel 1894, il cui vero nome era Elise Hirschmann, si era già affermata come giornalista e cronista giudiziaria, poi come scrittrice nel 1931 con il romanzo di successo Käsebier conquista il Kurfürstendamm pubblicato dal grande editore Rowohlt, il cui protagonista è un cantante popolare, una star che il pubblico abbandona nell’arco di una sola stagione. Anche lui vittima di quella illusoria pubblicità che ben presto troverà spazio nell’infame propaganda del ministro nazista Joseph Goebbels. L’anno dopo, quando iniziò a scrivere la sua saga berlinese, che qualcuno definì i «Buddenbrook ebraici», non poteva prevedere che quel manoscritto, a cui lavorò fino al 1950, se lo sarebbe portato in giro per il mondo dopo aver abbandonato l’amata Berlino nel marzo del 1933, giusto in tempo per sfuggire alle camicie brune che penetrarono in casa sua. Con il marito, l’architetto Heinz Reifenberg, e il figlio di cinque anni, fuggì dapprima in Cecoslovacchia, poi in Palestina e infine a Londra, dove rimase fino alla morte nel 1982. A fatica riuscì a pubblicare nel 1951 il romanzo dell’esilio in cui proiettò, oltre a dettagli autobiografici, gesti e vicende di una comunità destinata allo sterminio. Eppure, a quel tempo, il libro passò quasi inosservato. La tragedia tedesca era ancora troppo recente perché il pubblico potesse adeguatamente affrontarla.

È comunque sorprendente la varietà di personaggi, spesso contrapposti, che animano queste pagine tra le mille sfumature di una classe sociale facoltosa e amante della bella vita Ma la Tergit parlava anche di un mondo proiettato verso lo sviluppo e la modernità, non indifferente tuttavia alla tradizione e ai valori del passato, ben simboleggiati nella figura del vecchio Mathias, lo stimato orologiaio di un paesino della Baviera, ebreo ortodosso e padre del giovane e intraprendente Paul, che come il fratello Karl riuscirà a trasferirsi nel 1882 a Berlino diventando col tempo un solido industriale. Inizia a fabbricare viti in una piccola officina, per poi ingrandirsi, costruire motori a gas e infine automobili. Successo economico e ascesa sociale vanno di pari passo: ambedue s’imparentano con la famiglia del banchiere di corte Emmanuel Oppner in affari con il suocero Gold-

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Pubblicazione ◆ È uscito per Mondadori il canzoniere intimo di Clemente Rebora

In questi giorni in cui la guerra è tornata tragicamente sul suolo europeo con l’immancabile corteggio pestilenziale di crimini e menzogne, una raccolta poetica ci offre l’esperienza di un soldato che fissò in nove poesie un percorso spirituale esemplare. Si tratta dei Canti anonimi «raccolti» dal poeta milanese Clemente Rebora (18851957), apparsi per le edizioni della rivista «Il Convegno» cento anni fa.

Dettaglio di copertina. In basso, un ritratto di Gabriele Tergit da giovane. (Keystone)

«Rebora trova proprio in ciò che lo preserva, Dio, ciò che lo obbliga a impegnarsi, la Chiesa»

schmidt. Karl, che si ritiene baciato dalla fortuna, ne sposa la figlia Annette, mondana e vanitosa, mentre sua sorella Klärchen, tutta casa e famiglia, si unisce a Paul, un gran lavoratore, responsabile e premuroso verso i propri dipendenti. Lui pensa con nostalgia alla lontana provincia, dove tutto era più facile, e non bisognava lottare per la propria posizione e identità sociale. Coltiva però una tradizione capace di guardare al futuro, come faranno i figli degli Effinger, da Marianne impegnata nel sociale e con un deciso orientamento democratico, alla vivace cugina Lotte, che chiuderà con la vita borghese per dedicarsi al teatro da cui sarà cacciata all’arrivo dei nazisti. Figure che propongono il tema della donna in un’ottica femminista che stava a cuore alla stessa Tergit. È comunque sorprendente la varietà di personaggi, spesso contrapposti, che animano queste pagine tra le mille sfumature di una classe sociale facoltosa e amante della bella vita. C’è la moglie di Ludwig Goldschmidt, la bella e raggiante Eugenie originaria di Pietroburgo, che frequenta la Costa Azzurra e organizza grandi pranzi domenicali nella sua splendida casa nella zona residenziale del Tiergarten, ben diversa dalla cognata Selma, la rigida prussiana che detesta ogni atteggiamento da parvenu. Mentre sua figlia Sofie affascinata dalle tele di Renoir e Monet che ha potuto ammirare dallo zio Waldemar, giurista

insigne e collezionista d’arte, decide di dedicarsi alla pittura, a Parigi e a Monaco, inseguendo però i sogni di sempre: l’amore vero e un ruolo all’interno della società, che la sorella Annette ha acquisito coltivando il lusso e il piacere di una vita dispendiosa. Tra gli uomini della famiglia accanto al banchiere Emmanuel, gran borghese, amico di Bismarck, spicca soprattutto la figura di Waldemar, amante dell’illuminismo del pensiero liberale, pronto a risolvere le situazioni familiari più complesse e a sostenere il ruolo essenziale degli ebrei nel mondo tedesco. Tra i più giovani si distingue per la sua simpatia e bellezza James, figlio di Karl, seduttore incorreggibile, che si troverà sbalzato in guerra, come il fratello Erwin, tra l’Alsazia e i Balcani, capace di resistere con il suo vitalismo a qualsiasi avversità. Matura nel romanzo quasi inavvertitamente, il confronto fra generazioni su temi sociali, politici e religiosi, in una varietà di voci e idee che s’intrecciano o contrappongono in brevi flash mettendo a fuoco l’identità di personaggi incalzati, nel corso del tempo – protagonista vero di tutto il romanzo – da conflitti mondiali, grande depressione, lotte sociali e nazismo. E tutto si trasforma in racconto, costante fluttuazione fra storia individuale e collettiva, mentre le luci di Berlino si spengono sul tragico destino degli Effinger. Paul e altri membri della famiglia, fra cui l’anziano Waldemar, vengono deportati e uccisi, mentre la casa dove aveva vissuto con Klärchen, come tutte le abitazioni della Bendlerstrasse, dove oggi sorge la Filarmonica, è rasa al suolo. Forse la vita riprenderà in quella bella primavera del 1948, si augura nel breve epilogo la vecchia cuoca Frieda, ma è ormai sfigurata da un dolore perenne e dal silenzio di milioni di vittime innocenti. Bibliografia Gabriele Tergit, Gli Effinger. Una saga berlinese, Torino, Einaudi, 2022.

La guerra «sola igiene del mondo», secondo la follia interventista proclamata da Marinetti, aveva scaraventato Rebora nel girone infernale del Podgora, la famigerata montagna, conquistata dal Regio Esercito italiano, tra il 1915 e il ’16, dopo quindici mesi di sanguinosi attacchi frontali. Sul Calvario del Podgora furono sterminati più di diecimila soldati italiani, grazie all’assalto a ogni costo, organizzato dal generale Luigi Capello (che passò dalla rotta di Caporetto alla marcia su Roma, finendo condannato per la cospirazione contro Mussolini nel fallito attentato ordito da Tito Zaniboni nel ’25). Tra i tanti morti, due compagni di Rebora nella famosa rivista fiorentina «La Voce», lo scrittore triestino Scipio Slataper e il grande critico romagnolo Renato Serra. L’esperienza al fronte capovolse il mondo di Rebora, vivo fra morituri e morti. «Comandante della compagnia (ossia di un branco cavernicolo)», immerso tra melma e sangue, Rebora vede morire compagni come il soldato della poesia Viatico, un tronco senza gambe, per il quale tre commilitoni sono stati uccisi nel tentativo di sottrarlo al fuoco nemico e di cui il poeta invoca la fine dell’agonia: «[…] nella demenza che non sa impazzire, / lasciaci in silenzio / grazie, fratello». Una poesia che precede gli Anonimi, «davanti alla quale – diceva il non dimenticato filologo-sacerdote Giovanni Pozzi – anche il fante Ungaretti rischia di apparire un intellettuale compiaciuto». La citazione viene dal commento (ed. Interlinea, pp. 264, € 28 ) che Gianni Mussini ha preparato per accompagnare il lettore a comprendere quelle metafore che Gianfranco Contini definì «arditissime», sviscerando temi morali, ricorrenze verbali, eredità poetiche. Durante la guerra Rebora fu colpito e quasi sepolto vivo da un obice, vacillando sul baratro della follia.

Il giovane soldato Clemente Rebora. (Youtube)

Scampato alle sindromi post-traumatiche, sopravvisse con il fardello del fallimento della relazione sentimentale con la pianista russa Lidia Natus, addolorata anche da un aborto terapeutico. Ma la sua vita spezzata mostra già nei Canti anonimi di essere un transito – qualcuno ha parlato di stazione purgatoriale – in confronto alla sua prima «voce», quella espressa nella raccolta Frammenti lirici (1913), che dichiarò d’aver scritto in odio alla poesia. Da buon lombardo in rivolta, si scelse come ascendenti Parini e Leopardi all’Ombra sempiterna di Dante. La sua esistenza era in «attesa», nell’imminenza di quella […] scelta tremenda: «Dire sì, dire no / A qualcosa che so», fissata in un frammento del ’14 e che il poeta mise in esergo proprio alla raccolta degli Anonimi. Rebora, cresciuto in una famiglia laica e garibaldina, votata al culto della figura di Mazzini, aveva iniziato un cammino dell’anima che lo porterà nel ’29 alla conversione al cattolicesimo, nel ’31 alla salita al Calvario di Domodossola come novizio e nel ’36 all’ordinamento sacerdotale nella congregazione fondata da Antonio Rosmini. Come fissò Pier Paolo Pasolini: «Rebora trova proprio in ciò che lo preserva, Dio, ciò che lo obbliga a impegnarsi, la Chiesa». Nell’abbracciare la carità rosminiana, Rebora si era snudato del superfluo: emblematica la liberazione della propria biblioteca a uno straccivendolo. Cessa qualsiasi attività letteraria e vive tra le case rosminiane di Domodossola e Stresa, per ritrovare (solo in ubbidienza ai superiori) l’ultima voce nei Canti dell’infermità, sofferenza quotidiana in contrappasso alla salute del Belpaese alle soglie del boom economico. La lontananza da tutte le vanità letterarie viene sostituita dall’opera morale del dialogo con la propria coscienza. Già nella prima poesia di questo canzoniere intimo, Non ardito perché ardente, Rebora scriveva: «fuggire lascio la fortuna / che inseguita dalla gente / ansimando si consuma». Preferisce sciogliere canti all’amata campagna che va dal piano al monte, quando partecipava felice alla vita proba del contadino, come nell’esemplare lirica Al tempo che la vita era inesplosa, dove trova immagini di umile epicità: «in aureola splendeva / l’astro della mensa, / il sol della polenta»; e fra le tante immagini non dimenticabili, una chiusa stupenda: «Mentre è bello il silenzio a te vicino». Per chi è sensibile alla musica, commovente è il timbro in assonanze di Campana di Lombardia che infonde […] fiducia verso l’alto / Di guarir l’intimo pianto, / Se nel petto è melodia / Che domanda e che risponde, / Se in pannocchie di armonia / Risplendendo si trasfonde / Cuore a cuore / voce a voce – / Voce, voce che vai via / E non dài malinconia. Il Finale di questo canzoniere distillato è consegnato alla lirica dall’immagine tesa, «insieme poesia d’amore e di speranza», come scrive Mussini, «nella prospettiva possibile di un oltre che si rivela pudicamente in un bisbiglio», la voce di Dio, il MA che attende l’uomo Clemente. Bibliografia Clemente Rebora, Canti anonimi, Milano, Mondadori, 2022.


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CULTURA

Ascolta Israele: la magia dello Shemà Israèl Feuilleton

Nell’anelito di sicurezza la spiritualità e l’occulto si ripresentano come suggestive alternative da esplorare

Sarah Parenzo

Le parole ebraiche «Ascolta Israele» segnano l’apertura dello Shemà, la dichiarazione di fede ebraica per eccellenza. Composta da tre passi biblici, i primi due tratti dal Libro del Deuteronomio (6: 5-9; 11: 13 21) e il terzo dal Libro dei Numeri (15: 37-41), la preghiera si è preservata nel corso di duemila anni. Era infatti già in uso al tempo del servizio dei sacerdoti nel Santuario e ancora oggi nel prontuario fa parte integrante delle preghiere del mattino e della sera e tradizionalmente costituisce il primo testo religioso insegnato ai bambini e recitato a memoria. Se i versetti biblici in origine vengono interpretati come un’affermazione della natura di Dio e definiscono la Sua relazione con il popolo di Israele con Lui, nel corso dei secoli sono divenuti espressione inequivocabile della fede monoteista. Interessante è anche la connotazione ibrida della Shemà quale preghiera che segna momenti di transizione tra stati e tempi diversi implicanti anche una dose di pericolo. Esso si recita infatti prima di coricarsi, quindi nel passaggio tra il giorno e la notte, tra la veglia e il sonno, e persino al momento della morte, in memoria del brano talmudico sulla morte di rabbi ’Akiva, ucciso dai romani nella rivolta di Bar Kochvà. Per la stessa ragione esso si recita durante la cerimonia della circoncisione che segna l’ingresso nella congregazione.

Brani dello Shemà si trovano anche nelle pergamene contenute nelle mezuzòt affisse agli stipiti delle porte, altro spazio liminale che simboleggia il passaggio tra il dentro e il fuori. Benché le mezuzòt, come i tefillìn, i filatteri che pure ne contengono i brani, sono strumenti rituali collegati all’osservanza dei precetti, entrambi richiamano vagamente il concetto di amuleti protettivi. Ciò non stupisce, dal momento che dall’antichità al medioevo e sino ai giorni nostri, la preghiera dello Shemà ha mantenuto una presenza costante nei contesti magici. In particolare esso si trova incorporato in amuleti, gioielli e formulari da indossare o appendere in casa, concepiti a scopo di protezione. Il desiderio di indagare l’utilizzo di questa preghiera nella magia ebraica è sorto a Nancy Benovitz all’interno di una mostra che ha curato al Museo d’Israele di Gerusalemme con l’intento di esplorare i sottili confini tra magia e religione attraverso le parole di una delle più importanti preghiere della liturgia ebraica. A dare il la è stato anche il ritrovamento di un bracciale d’argento in una collezione di antichità ricevuta in donazione dal Museo nel 2010. Per lo stupore di Benovitz, dietro alle lettere in greco antico incise sul bracciale, di un genere solitamente in uso presso i cristiani, si nascondeva proprio lo Shemà. Dall’antichità ai giorni nostri, co-

Iscrizione dello Shemà Israèl sulla Menorah del Knesset a Gerusalemme. (© Rabanus Flavus, Wikipedia)

munità ebraiche di tutto il mondo hanno infatti sfruttato il potere dello Shemà occultandolo in scatoline sotto forma di pergamene arrotolate, incidendolo sui gioielli o simboli visibili, integrandolo in formulari e compendi esoterici, nella speranza di ottenere salute, prole, benessere e sicurezza. Più in particolare Nancy Benovitz ha esplorato la complessa, e tuttavia intima, relazione tra religione e magia, due ambiti che Gideon Bohak

(Università di Tel Aviv), già curatore a Parigi nel 2015 della mostra Magia. Angeli e demoni nella tradizione ebraica, ha definito come «gemelli siamesi». Yuval Harari (Università di Ben Gurion del Negev) a sua volta li definisce come un caso di «somiglianza familiare», così come i membri di una famiglia condividono determinate caratteristiche, altrettanto vale per alcuni fenomeni magici e religiosi. Se Freud, ribadendo concetti già

esposti in Totem e tabù, aveva definito la magia come «la prima arma nella lotta contro le forze del mondo circostante, prima precorritrice della tecnica dei giorni nostri» (Introduzione alla psicoanalisi – 35esima lezione), alcuni dei suoi successori, a partire da Jung, si sono accostati alle pratiche magiche con maggiori curiosità e indulgenza. Nel suo Passi sulla via iniziatica, lo psicoanalista e parapsicologo Emilio Servadio (1904-1986), nel dilagare dell’interesse per la magia scorse «una massiccia reazione ai duri obblighi e allo spietato materialismo da cui molti, nella fase attuale della cultura, specialmente occidentale, si sentono oppressi». Se attribuiva agli appassionati aspirazioni spirituali per un certo verso legittime, Servadio li ammoniva tuttavia dall’occultismo spicciolo a buon mercato, invitandoli piuttosto ad adottare «disciplina, fervore, intelligenza e desiderio non di evasione, bensì di rigoroso ritrovamento di grandi verità smarrite o dimenticate». Personalmente proporrei di accostarci a tale umano bisogno di protezione armati di una buona dose di empatia nei confronti di noi stessi e di chi ci sta accanto. Prima ancora di addentrarci negli ambiti della fede e della magia possiamo interpretare il testo dello Shemà come una sorta di incoraggiamento alla vita, un invito con la garanzia di ricompensa. Annuncio pubblicitario

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CULTURA

Il culmine dei Tears For Fears Musica

Il duo inglese è tornato con un album dall’esemplare potenza narrativa

Benedicta Froelich

Sebbene la musica pop-rock anglosassone degli anni ’80 venga spesso identificata con l’easy listening più frivolo e con performers effimeri quanto improbabili, in realtà questo decennio sa offrire anche un’altra faccia della medaglia, rappresentata da quei (rari) nomi dimostratisi in grado di far sì che le esigenze commerciali dell’epoca non limitassero i loro orizzonti artistici. Tra questi è senz’altro da annoverare il duo britannico dei Tears For Fears, formato da Curt Smith e Roland Orzabal – i quali, a differenza della maggior parte dei coetanei, potevano fregiarsi di un certo intellettualismo, grazie al quale la loro opera si è ammantata di quello spessore e potenza che le hanno permesso di sopravvivere indenne agli edonistici Eighties. E sebbene, tra il 1993 e il 2021, il duo abbia pubblicato soltanto tre album – come a sottolineare il desiderio, da parte di Curt e Roland, di evitare qualsiasi impegno continuativo – ecco che oggi, dopo ben diciott’anni di silenzio discografico, i due, ormai sessantenni, tornano alla ribalta con un disco che rappresenta in molti sensi il culmine di un graduale processo di ritorno sulle scene da parte della formazione, ultimamente apparsa più volte sui palchi internazionali. Il risultato è il nuovo The Tipping Point, album dalla forza e potenza evocativa davvero notevoli, la cui freschezza e intensità emotiva sono tali da rendere difficile credere che pos-

sa trattarsi di un’opera firmata da due artisti non più sulla cresta dell’onda. Si tratta infatti di un lavoro di grande modernità, in cui Smith e Orzabal sono riusciti nella difficile impresa di coniugare tensioni intimiste di stampo cantautorale a sonorità dal sapore marcatamente elettropop e perfino synth rock – che a tratti ricordano gli esperimenti di William Orbit o, in chiave più malinconica, i ritmi ossessivi di Radiohead e Muse. In effetti, ciò che davvero affascina di quest’album è l’incredibile capacità di rinnovamento dimostrata dai Tears For Fears, i quali, anziché scegliere la via più «facile» e produrre un lavoro dal sapore retrò e vagamente nostalgico (così da cercare di tornare ai fasti del loro periodo d’oro), hanno deciso di rimettersi in gioco e sperimentare nuove strade – mettendosi inoltre al servizio di liriche di grande rilevanza e profondità, nelle quali è difficile non scorgere il riverbero del momento emotivamente devastante che noi tutti, in quanto persone e cittadini, stiamo vivendo ormai da tempo. Suggestioni che appaiono evidenti anche nel secondo singolo estratto dall’album, No Small Thing: una riflessione sul modo in cui la società ancora insiste nel tarpare le ali ai propri membri qualora essi non si uniformino senza fallo a talune, banali convenzioni. Del resto, proprio il tema dell’appartenenza al consorzio

umano, e dell’innata natura fallace e intimamente fragile dell’uomo stesso, la fa da padrone in quest’album, dando vita a testi vibranti e struggenti: si veda lo straziante Rivers of Mercy, riflessione sul disperato bisogno di perdono (e, in fondo, di compassionevole accettazione) che contraddistingue l’essere umano, e la sua pressoché costante condizione di solitudine: «lasciami cadere in fiumi di compassione / oso forse immaginare una qualche forma di fede e comprensione?» Lo stesso dilemma lo si ritrova in Long, Long, Long Time e Stay, brani che uniscono il fascino delle sonorità elettroniche, oggi tanto care a Curt e Roland, all’esplorazione di sentimenti comuni quanto intensi e, per questo, fondamentali; come dimostrato pure da Please Be Happy, toccante lento sulla disillusione e sul fardello terribile che essa può rappresentare nella mente di una persona ormai irrimediabilmente ferita dalla vita. Ci sono poi anche tracce caratterizzate da un sound più radiofonico e tradizionale, come la ballata Master Plan, la quale suona come un brano firmato da una delle tante pop band di stampo prettamente beatlesiano che i primi anni del ventunesimo secolo ci hanno offerto; oppure End of Night, i cui ritmi martellanti strizzano l’occhio alle sonorità disco anni ’80 (una delle poche concessioni «vintage» a cui il disco si piega).

Il duo britannico sorridente.

Tuttavia, la title track del CD (Etichetta Concord) si basa sui medesimi temi scottanti che costituiscono il fil rouge di quest’album – stavolta, però, in una chiave sonora ipnotica e quasi ossessiva, che costituisce, per ammissione dello stesso Roland, una sorta di autentica, liberatoria rottura artistica con gli obblighi del passato. Una liberazione che ha sortito gli effetti sperati, dato che The Tipping Point si potrebbe definire come l’al-

bum migliore del duo – quantomeno il più intenso, e, senz’altro, quello dalla maggior rilevanza sociale. Un lavoro che conferma la capacità dei Tears For Fears di coniugare l’aspetto orecchiabile e «da classifica» del proprio lavoro con gli aneliti narrativi più profondi e vibranti, restituendo alla musica pop il suo compito più nobile: quello di ritrarre in modo obiettivo (e, spesso, impietoso) la nostra società. Annuncio pubblicitario

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CULTURA / RUBRICHE

In fin della fiera

di Bruno Gambarotta

Se tutto deve sempre essere un gioco ◆

Le due di notte. Sala consultazione della Biblioteca Civica di Torino: su un tavolo ci sono due libri, lì dalla mattina per attirare l’attenzione delle scolaresche in visita. Nessuno li ha presi in mano: tutti gli studenti camminavano con lo sguardo concentrato sui cellulari. I due libri non si parlano da 160 anni, li divide una vecchia ruggine, è ora di iniziare a scrostarla. Per tener fede alla sua fama di buonista, il primo a rompere il ghiaccio è Cuore: «Cosa ti costava», dice con tono accorato a Pinocchio, «prendermi in mano e iniziare a leggermi quando diventavi un ragazzo per bene?». Pinocchio ha un buon argomento per replicare: «E tu allora? Non ti dico di mettermi nello zaino del ragazzo che va dagli Appennini alle Ande, ma il piccolo scrivano fiorentino era perfetto: anche Collodi è di Firenze. Fai lavorare il papà del tuo eroe alla casa editrice Bemporad che pubblica il libro nel

1883 e il piccolo scrivano lo fai stare alzato di notte per copiare le puntate della mia storia che è nata prima su “Il Giornale dei bambini, nell’arco di 18 mesi tra la prima, 7 luglio 1881, e l’ultima puntata». Cuore: «Non ti basta essere stato tradotto in più di 200 lingue, quasi tutte quelle parlate nel mondo?» «E tu allora? Esci il primo giorno di scuola del 1886 e prima che l’anno finisca hai collezionato 40 ristampe e nel 1923 tocchi il traguardo di un milione di copie». Cuore: «Colpito. Ma perché allora i ragazzi non ci leggono?» Pinocchio: «Io una risposta ce l’ho: mai una volta che uno dei tuoi personaggi mangi qualcosa, vivete tutti d’aria. In quella classe di terza siete in settanta scolari, nessuno che faccia merenda. Torni a casa e non chiedi mai cosa c’è per pranzo». «Perché tu invece?» «Io almeno qualche scusa ce l’ho, non ho la mamma, a casa nostra il fuoco acceso e la pen-

Un mondo storto

tola che bolle sono dipinti sul muro e la Fata dai capelli turchini non ha mai cucinato in vita sua. Però nel capitolo VII Geppetto mi regala la sua colazione, tre pere in tutto». «E tu le pretendi sbucciate. Butti le bucce e i torsoli, Geppetto li ricupera per sfamarsi ma tu poi mangi anche quelli. In un altro capitolo mangi anche le veccie che ti fanno schifo ma poi a causa della fame le trovi squisite. Cosa sono?» «Non puoi saperlo, sei un signorino. È della famiglia delle leguminose, è un foraggio per animali». «Hai ragione, ci vuole ben altro per ingolosire il lettore, adesso per vendere un libro devi metterci dentro pranzi, cene e le relative ricette. L’Artusi è nato nel 1891 e ancora lo leggono». «Tu hai capito cosa guardavano quei ragazzi sui loro schermi?» «Navigano su Wattpad, dove scrivono le loro fanfiction: prendono come spunto un’opera letteraria per creare

una loro storia. Amano le relationship dove i personaggi creano una coppia, sull’esempio di Chiara Ferragni e di Fedez che hanno dato vita ai Ferragnez». Pinocchio: «Bene, facciamo che la mia Fata dai capelli turchini si porta a letto il tuo Enrico, creando il mostro Fanrico». «Troppo prevedibile, fa parte della mission di una fata sedurre il ragazzino per bene». «Un’altra coppia: Geppetto e la maestrina dalla penna rossa, i Gepros». Cuore si ribella: «La mia maestrina dalla penna rossa non è una gerontofila. Dovremmo proporci in versione manga, quella preferita dai 90 milioni di scrittori e lettori su Wattpad. Se solo sapessi cosa significa manga». Pinocchio: «Pensiamo in grande. Il diario del tuo Enrico si svolge nell’anno scolastico 1881-1882, tra ottobre e luglio, mentre io Pinocchio galoppo senza posa tra campagne e mari toscani». Cuore: «Ti dirò di più. Mercoledì 26 ottobre

1881 Franti provoca il povero Crossi che risponde tirandogli un calamaio che per sbaglio va a colpire il maestro. Garrone, per innata bontà, si accusa, per coprire il povero ragazzo». Pinocchio: «E io il giorno dopo finisco impiccato per opera del Gatto e della Volpe. Creiamo un relationship fra i nostri due libri. Non su carta ovviamente ma online». Cuore è pessimista: «Dobbiamo rassegnarci. Siamo fuori moda.». «Caro il mio Cuore, devo darti ragione. Come scrive Alberto Asor Rosa, noi due abbiamo anche in comune l’indicazione del sacrificio come strumento di elevazione morale e civica. Oggi parlare di sacrificio è una bestemmia. Per attirare i ragazzi tutto deve essere proposto come un gioco, anche lo studio». «Già, conta solo l’immagine e la nostra è superata». Nota: il racconto prende spunto dalla rubrica «Le parole dei figli» uscita sul numero 15 di Azione.

di Ermanno Cavazzoni

Dopo la morte saremo solo marciume ◆

In un modo o nell’altro le religioni promettono un’altra vita dopo la morte. È una bella idea. Ma ci sono modelli diversi, presi in genere dal mondo animale. L’islam ad esempio si ispira ai cavalli, ogni maschio avrà un branco di femmine, 72 per l’esattezza, col quale pascolerà in una prateria senza rivali, le monterà a turno per pochi secondi e questa sarà l’attività principale. Le femmine in questa seconda vita non generano, perché altrimenti il capobranco sarebbe prima o poi spodestato dai figli. Il modello è un cavallo che ha subito la vasectomia. Ogni maschio ha un suo territorio, non ci sono sconfinamenti né contatti tra maschi. È probabile che ogni zona sia recintata, e lungo il recinto pannelli che impediscono la vista delle femmine altrui, e pannelli fonoassorbenti perché non si senta la voce maliziosa di qualche femmina

in calore stanca del solito maschio. Il modello cristiano è ricalcato sugli insetti, in due varianti: la prima copia gli insetti che cambiano pelle, il corpo morto sarebbe l’esoscheletro da cui esce l’anima come fosse un insetto lucido e nuovo. L’analogia è approssimativa perché l’anima è invisibile, a differenza dei coleotteri e dei lepidotteri a muta completa, o delle mantidi; o dell’insetto stecco, il quale in un certo senso vorrebbe essere invisibile come l’anima, ma non riuscendoci si limita a mimetizzarsi in forma di stecco o rametto. L’altra variante ricalca gli insetti a metamorfosi completa. Noi viventi saremmo le larve, cioè semplicemente dei bruchi, bianchi o neri, mollicci, voraci, a volte pelosi e urticanti, leggermente schifosi, che si torcono a terra grassi e pesanti, o comunque tendenti a ingrassare, mettere su pancia; poi finito il ciclo ci

imbozzoliamo, l’insetto si chiude in un bozzolo che è la crisalide, noi invecchiamo e ci chiudiamo in casa, in un letto avvolti dalle lenzuola, aspettando la muta, cioè di defungere e passare allo stadio immaginale, che è quello della farfalla, che esce dal bozzolo e vola via. Gli insetti che hanno la metamorfosi sono le mosche, le formiche, le vespe, i grilli, gli scarafaggi, ma non è a questi che la religione si riferisce, diventare scarafaggi non è una prospettiva attraente, non si farebbero proseliti, perché l’aldilà dovrebbe somigliare a un sotto acquaio che sgocciola, gli scarafaggi amano l’umido e i resti di cibo, escono solo di notte, il resto del tempo lo passano nelle fessure, in un clima putrido. Neppure i grilli sono un buon modello, anche se quel loro cantare ininterrotto, quel cri cri instancabile ha suggerito i vasti canti corali

dei beati, perpetui e senza significato, per cui non ci sarebbe da stupirsi se il testo del loro canto fosse solo un cri cri che si prolunga per tutta l’eternità, la divinità non so cosa ci possa trovare di glorificante, io mi spazientirei, cambiate canzone! e loro passano al canto della cicala, che è un ci ci ininterrotto, fa pensare ai torridi giorni di agosto, per cui immagino voglia dire solo: «che caldo! Ho capito!» direbbe la divinità dopo alcuni secoli, e loro imperterriti. Anche la rana ha una metamorfosi, da girino a rana, e gracida, ma non è stato un modello per nessuna religione: chi desidera passare a vivere in un pantano? Il modello di sicuro più convincente è stata la farfalla, che forata la crisalide, cioè l’involucro corporeo che la tratteneva quando era verme, vola via per l’aria, leggera e festosa. La farfalla, a differenza dello scarafag-

gio, o della vespa incanaglita nel suo laborioso daffare, dà l’idea che sia sempre felice, senza pensieri; liberata dal corpo di larva sembra l’immagine della bella vita primaverile, esente anche dalla forza di gravità, un petalo in volo. Saremo petali in volo, promette la religione cristiana, cioè insetti lepidotteri, dimenticando di dire che le farfalle vivono due giorni, il macaone e la farfalla monarca due settimane, se non le mangia un uccello e finiscono nel suo intestino. È un’eternità che dura poco. Però potrebbe essere una reincarnazione, come dicono con più senno e realismo certe religioni orientali, che hanno come modello il tubo digerente e il processo di assimilazione. Nel nostro attuale mondo ateo si chiude il cadavere in una cassa metallica: ci hanno tolto anche la vaga speranza di diventare cavalli, farfalle, rane; saremo solo marciume.

Voti d’aria

di Paolo Di Stefano

Silenzio

Silenzio. Tra tante parole inutili e inopportune, ci vorrebbe un po’ di silenzio: ogni tanto se ne sentirebbe l’esigenza. Non che le parole non servano, ci mancherebbe, ma vuoi mettere, in certi momenti, il silenzio… «La forma che raccoglie in unità tutte le modulazioni del visibile è il silenzio. Silenzio delle piante, del canale che scorre nella piana, del cielo»: è un critico e poeta come Antonio Prete a riflettere sull’esercizio benefico e sacrosanto del silenzio in un libro che non potrebbe capitare più opportuno (Del silenzio, Mimesis: come voto, un meritatissimo, religioso silenzio). Ancora più opportuna, nel chiasso generale, è la differenza, segnalata da Prete, tra il tacere, ovvero il sottrarsi vile al compito di denunciare, e il silenzio. Che non è una rinuncia ma un abito morale. «Il silenzio – ha scritto Leopardi – è il linguaggio di tutte le forti passioni (anche nei momenti

dolci), dell’ira, della meraviglia, del timore…». Dunque, il linguaggio che accomuna le cose visibili e quelle immateriali. In Ombre dal fondo, un libro che viene riproposto ora dopo venticinque anni dalla prima edizione (sempre Einaudi), la grande studiosa Maria Corti parlava del «silenzioso dominio delle ombre»: le ombre erano i fantasmi degli scrittori che Maria amava chiamare in vita studiandone le carte, facendone parlare le opere. Nel silenzio dei cortili universitari di Pavia, quando il crepuscolo invernale avanzava e lei era china sui loro libri. Maria Corti è stata una maestra inimitabile: è morta vent’anni fa e i suoi allievi, come gli amici, non possono dimenticarla. Anche lei è diventata un fantasma che ritorna vivo alla lettura delle sue pagine: «È ormai l’ora in cui silenzio e tenebre fanno tutt’uno, la solita marea serale» (le tenebre

nascondono il voto che vorrei dare a Maria). Sempre a proposito del silenzio. È uscito (per Quodlibet) un volume che raccoglie tutte le poesie di uno dei maggiori poeti del secolo scorso, Franco Scataglini: poeta dialettale marchigiano (Ancona 1930-1994), il cui dialetto è talmente comprensibile da non richiedere traduzioni: «C’è chi lascia un poema / e chi non lascia niente / perché esse muto è ’l tema / de vive, in tanta gente». C’è gente il cui tema di vivere è il silenzio… ma non è detto che quel silenzio non sia poesia. Poi però, nella seconda terzina dello stesso componimento, il poeta rimprovera bonariamente il vecchio che aveva consacrato la sua vita al silenzio: «Però te m’hai inganato, / vechio, e pe’ non morì / muto com’eri stato, / m’hai lasciato un giardì». Chi sarà il vecchio? E

di quale giardino stiamo parlando? Non lo sapremo mai. La poesia non dice tutto, preferisce sposare il silenzio. Diceva Lalla Romano, poetessa e narratrice, che la sua passione era «cogliere dal tessuto fitto e complesso della vita qualche immagine, dal rumore del mondo qualche nota, e circondarle di silenzio» (il voto d’aria per Lalla è avvolto nel silenzio). Dunque, il silenzio. Tutti sparano frasi e parole, sparano di tutto, uno sopra l’altro, uno contro l’altro, tutti sparano sentenze negli studi televisivi, mentre in Ucraina sparano i cannoni e cadono le bombe. Avete presenti le chiacchiere deliranti e narcisiste in tanti talk show di queste settimane? Ecco. Dopo i virologi, ecco arrivare l’esercito dei guerrologi, dei geo-strateghi, dei russologi, dei politologi, degli analisti che fino a gennaio dicevano che Putin mai e poi mai avrebbe sferrato l’assalto, figurar-

si, e che adesso sostengono che mai e poi mai l’atomica… Siamo matti? E poi ci sono quelli, sempre loro, i commentatori a 360 gradi (ovvero ad angolo giro) che prima sparavano sentenze sul virus e adesso sparano sentenze sulla guerra e sull’economia del gas, facendo sfoggio della stessa competenza e della stessa sicumera a 720 gradi (angolo rigiro). Prima erano tutti ministri della Salute, adesso tutti Ministri degli Esteri e della Difesa, e speriamo di non rivederli domani tutti in televisione con la qualifica di ministri dei Lavori Pubblici quando bisognerà ricostruire dalle macerie. Allora, in questo bailamme e in questo chiasso, perché non santificare il silenzio e in silenzio aspettare che qualcuno riesca sommessamente a far funzionare l’unico dialogo che conta? Quello capace di mettere a tacere le armi.


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LO SAPEVI? Evviva i genitori! In Svizzera, dal 1930 si festeggiano ogni seconda domenica di maggio le nostre mamme. Ma anche i papà meritano un evviva. Il loro impegno per la famiglia non è mai stato così grande. La prossima domenica, quindi, viziamo sia la mamma che il papà. Senza dimenticarci di farlo ripetutamente anche durante l'anno.

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