Azione 19 del 9 maggio 2022

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Anno LXXXV 9 maggio 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A.  Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

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SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Intervista alla filosofa Francesca Rigotti sul suo ultimo libro intitolato L’era del singolo

Un confronto tra registri linguistici e linguaggio fotografico: meglio a colori o in bianco e nero?

Mentre il mondo allenta le restrizioni Pechino conferma la politica «zero Covid». Ecco perché

L’arte anticonformista di Louis Bourgeois protagonista al Kunstmuseum di Basilea

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Keystone

Se la guerra ha un volto di donna

Anna Zafesova

Con le parole di Svetlana Aleksievič Simona Sala

«Pólemos (il demone della guerra) è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi», così parlava il filosofo greco Eraclito nel  a. C., individuando nella guerra una matrice necessaria, quasi si trattasse di un fenomeno che, per quanto doloroso, è il solo a permettere il progredire dell’umanità. È normale che si parli di padri, poiché anche se ieri le mamme e le donne tutte sono state regine per un giorno, ancora una volta, intorno e dentro a una guerra poco lontana da noi, esse sono state escluse da trattative e tavole rotonde (come invece prevede la Risoluzione  su «Donne, Pace e Sicurezza», approvata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU il  ottobre del ), e destinate a non avere alcuna possibilità di scelta, se non quella di mettersi in salvo, laddove possibile. Ed Eraclito forse si sbagliava, quando sosteneva che la guerra rende qualcuno schiavo e qualcuno libero, poiché per la sua imprevedibilità il conflitto in corso sembra generare solo una schia-

vitù dell’insicurezza, e non unicamente in chi deve fuggire o vedere i propri cari partire, ma anche in chi, da questa parte, desidera capire, trovare il bandolo di una matassa ingarbugliata e spesso imperscrutabile per la mole di informazioni, interpretazioni e per la sua forte connotazione mediatica. Il conflitto è infatti ancora una volta caduto vittima di una narrazione per lo più maschile. Imprevedibile, come l’apparizione di Lavrov a Rete , mediaticamente tesa, a causa della costante sovrapposizione di (fake) news, e altamente speculatoria, basti pensare al moltiplicarsi di esperti e mediatori. Per capire la guerra, dunque, che pur diversa in ogni sua storia individuale, è sempre guerra, e soprattutto per penetrare nel pensiero e nell’ideologia per noi ostica dei protagonisti di questa guerra, la letteratura e il giornalismo letterario possono giungere in soccorso, rivelandosi una chiave di lettura straordinaria. Oltre ad Anna Politkovskaja o Vasilij Grossman, tornati prepotentemente nelle classifiche delle librerie,

varrebbe la pena affidarsi alla narrazione sincera (poiché affonda le radici nell’ascolto) della vincitrice del Premio Nobel per la letteratura del , la giornalista Svetlana Aleksievič, che pur tenendosi lontana dai campi di battaglia, ha speso una vita nel tentativo di sviscerare il cuore di ogni guerra, partendo da quelle del proprio Paese, e cercando di comprendere il popolo di cui fa parte. Lei, che un tempo era sovietica, e oggi è bielorussa (di madre ucraina), pur senza avere cambiato nazionalità. Leggendola, scopriremmo la formula infallibile di un capitano di artiglieria attivo in Afghanistan negli Anni  (una delle decine di migliaia di persone intervistate dalla Aleksievič sull’arco di decenni): «Non si deve mai versare il sangue, neanche per una volta, perché poi è difficile fermarsi», o l’eterna disperazione di una madre, «Ho piantato dei bucaneve… Per udire al più presto possibile il saluto di mio figlio… Perché mi vengono incontro spuntando da là sotto… Da dove è mio figlio». O ancora l’apocalisse sfiorata nel  (e chissà, maga-

ri anche in queste settimane) come la ricorda il vicepresidente del consiglio di amministrazione dell’Associazione della Repubblica bielorussa «Uno scudo per Černobyl», «(…) se la massa fusa di uranio e grafite fosse sprofondata nell’acqua, si sarebbe innescata una reazione di fissione incontrollata. (…) Non solo Minsk e Kiev sarebbero state ridotte a un deserto senza vita, ma gran parte dell’Europa sarebbe diventata inabitabile. (…) I ragazzi si sono tuffati, si sono tuffati più volte e hanno aperto la valvola». Abbiamo visto anche noi l’escalation, le madri e le centrali, da casa e attraverso i massmedia, ma lei, Svetlana Aleksievič, la guerra ce la racconta con le voci di chi l’ha subita davvero, poiché crede anche in quell’altra di storia, quella che non si studia sui libri, ma si piange a casa, in silenzio, come tutte le storie di guerra. E, paradossalmente, grazie al modo in cui estrapola la verità dai suoi interlocutori, vi è qualcosa di sacramente consolatorio in ciò che ci offre colei che è un’immensa narratrice di guerra.


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azione – Cooperativa Migros Ticino

MONDO MIGROS

L’arte di imparare come arte di vivere Scuola Club

Accrescere la qualità di vita attraverso la creatività

Albert Einstein sosteneva che la creatività è l’intelligenza che si diverte. Ognuno di noi custodisce un’anima creativa, spesso usata a nostra insaputa nella vita di tutti i giorni per risolvere piccoli e grandi problemi o per trovare soluzioni in momenti in cui non si vede una via d’uscita, e ognuno di noi ha la possibilità di allenar-

Sabato in Atelier Storie di gatti Rivolto a chi desidera immergersi nel mondo della creatività e realizzare una o più immagini (illustrazioni, disegni) dove il soggetto principale è il gatto nelle sue varie forme e contesti. Non sono necessari requisiti particolari. 21 maggio e 4 giugno Scuola Club Lugano 9.00-12.00 / Fr. 150.–. Handlettering Su manifesti, carte dei menu e nelle vetrine: le scritte a mano attirano l’attenzione. Alla fine di questo workshop sei in grado di disegnare una scritta semplice (max. 15 lettere). Non sono necessari requisiti particolari. 28 maggio Scuola Club Bellinzona 9.00-13.00 / Fr. 100.–.

la, anche da adulti. Sempre più assistiamo a un riaffermarsi del senso originario di apprendimento che si sviluppa lungo tutto l’arco della vita: formazione continua volta dunque ad acquisire conoscenze ma anche a sviluppare le proprie abilità e realizzarsi sul piano personale. Su questa premessa si inserisce il concetto di work life balance, ovvero la capacità di bilanciare in modo equilibrato la sfera lavorativa, intesa anche come carriera e ambizione professionale, e la vita privata, intesa come famiglia, svago, divertimento. Tema sempre più centrale in una società orientata alla performance come la nostra: troppo spesso e in breve tempo l’agenda di ognuno di noi si riempie di una sottospecie di tempo libero, che di fatto lo è solo in parte in quanto si tende a occuparlo con lavori domestici, visite mediche, burocrazia, impegni famigliari. Risultato? Un tempo libero, ma solo parzialmente. Dovremmo invece provare a pianificare il nostro tempo libero prevedendo anche attività che svolgiamo volentieri con la consapevolezza che la scelta di un percorso anche creativo può accrescere la qualità della nostra vita. Che si tratti di sport, yoga, meditazione, musica, cucina, disegno, l’importante è scegliere quello ci fa stare bene e che porta valore aggiunto alle nostre spesso frenetiche vite. Tempo libero dunque per tutto ciò

Anche attraverso l’Handlettering si può cominciare un percorso di crescita personale.

che ci attira e ci piace come ad esempio coltivare un hobby, idealmente in un clima stimolante e in buona compagnia. Questo concetto la Scuola Club l’ha fatto suo da tempo: nei suoi atelier si respira un’atmosfera distesa e adatta agli adulti, dove anche dopo una faticosa giornata di lavoro o fi-

nalmente liberi dai mille impegni di tutti i giorni ci si sente a proprio agio e si impara, ma non solo. Si costruiscono relazioni con altre persone unite dalla stessa passione, si ricaricano le batterie, ci si lascia ispirare dando libero sfogo alla fantasia. Non importa se alle prime armi o già esperti: l’offerta è modellata per valorizzare tutti

3, 2, 1… Medioevo

Corsa podistica ◆ «Bellinzona Castles & GO»… la corsa più medievale della Terra! L’appuntamento è fissato per domenica 29 maggio

Tutte le città svizzere di dimensioni medio-grandi sono contraddistinte da corse podistiche di carattere più o meno popolare che, frequentate da migliaia di partecipanti, oltre a favorire il benessere e la salute, concorrono ad animarne i centri. In controtendenza, Bellinzona – capitale del cantone Ticino, terza città più importante della Confederazione per estensione territoriale e iscritta al Patrimonio UNESCO – da qualche anno a questa parte aveva purtroppo perso le sue piccole, ma caratteristiche gare podistiche più popolari. Ecco allora che, complice una situazione che lascia finalmente intravedere concreti spiragli di luce per quanto riguarda la pandemia e in considerazione sia dell’avvento di Alptransit sia dell’apertura della galleria di base del Ceneri che hanno sensibilmente avvicinato la Città alle altre maggiori realtà urbane confederate, rispettivamente al Nord Italia, l’associazione «Bellinzona Castles & GO» ha pensato di colmare questa lacuna, proponendo un nuovo, originale e unico evento

podistico denominato proprio «Bellinzona Castles & GO». L’evento, non esistente in nessuna altra parte del mondo per come concepito e che consiste in una corsa podistica di  Km e in una camminata Walking/Nordic walking non competitiva di  Km, è podistico, pur presentando importanti implicazioni di natura culturale, storica, architettonica, paesaggistica, turistica ed emozionale. Boschi incontamina-

azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)

Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Simona Sala, Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Natascha Fioretti Ivan Leoni

Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89

ti, quartieri di pregio architettonico, centro storico medievale dal fascino intatto e, soprattutto, una splendida Fortezza UNESCO costituita da ben tre castelli con tanto di ponti levatoi, passaggi segreti, percorsi merlati… In quali altre città ci si può ritrovare protagonisti di un evento podistico in uno scenario simile? Domenica  maggio, lungo i percorsi di «Bellinzona Castles & GO» i partecipanti potranno anche vivere

Non solo podismo, ma anche musica, storia, cultura, natura e aggregazione: la ricetta di «Bellinzona Castles & GO».

l’esperienza della rievocazione medievale proposta dall’Associazione «La Spada nella Rocca», essere informati – attraverso una speciale segnaletica culturale temporanea – su fatti storici, sulle eccellenze e su quanto di più prestigioso e affascinante hanno da offrire la Città della Turrita e il suo territorio e, infine, godere della musica proposta da numerose formazioni locali che, rappresentanti dei più diversi generi, si troveranno a suonare in diversi punti della Città. «Bellinzona Castles & GO» rappresenta dunque un modo davvero innovativo di valorizzare il territorio e di concepire il turismo culturale. Ecco perché Migros Ticino ha deciso di sostenere il nuovo evento podistico «Bellinzona Castles & GO»: una corsa indietro nel tempo! Iscrizioni e informazioni castlesandgo.ch Facebook: facebook.com/ bellinzonacastlesandgo

i partecipanti e far sì che la passione del fare diventi realtà condivisa. Anche per brevi momenti come nel caso dei nuovissimi Atelier del sabato. Creare rilassa e rende più felici: provare per credere! Informazioni www.scuola-club.ch

Nel segno dell’inclusione Caffè narrativi ◆ Un incontro, molte domande

I caffè narrativi rappresentano un momento di incontro privilegiato in cui le/i partecipanti raccontano storie ed esperienze di vita, rafforzando in tal modo la coesione sociale. Il tema scelto dalla Rete Caffè narrativi per il  è l’inclusione. Giovedì  maggio la Rete organizza un incontro dedicato alle moderatrici e ai moderatori di Caffè narrativi aperto a tutte le persone interessate a capire come organizzare caffè narrativi maggiormente inclusivi. Molte sono infatti le domande che sorgono al momento dell’organizzazione di un Caffè narrativo: come renderlo accessibile a tutti? Quali problemi possono sorgere? Quali sono le barriere fisiche e mentali da abbattere? All’incontro parteciperanno rappresentanti di Pro Infirmis Ticino e Moesano. Dove e quando Giovedì 19 maggio, 16.30-19.30, Casa Andreina (Via Ricordone 3, Lugano). www.caffenarrativi.ch.

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938

Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano

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Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano Tiratura 101’177 copie

Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera Fr. 48.– Estero a partire da Fr. 70.–


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SOCIETÀ

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La mente e i grandi traumi Un grave stress traumatico può uccidere: le ricerche dello psicologo John Leach sulla morte psicogena

Parlare della guerra Il conflitto in Ucraina preoccupa anche giovani e bambini: come affrontare l’argomento in famiglia?

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50 anni di Premio Wakker Attribuito da Patrimonio Svizzero promuove la cultura architettonica e lo sviluppo sostenibile dell’abitato

Mondo sommerso Alla scoperta della tinca, un pesce molto comune nelle acque dei nostri laghi

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Il «singolarista» si sente e si definisce unico, speciale, particolare. Il rischio è che non si accorga più di ciò che lo circonda. (Shutterstock)

Il «singolarismo», uno stile di vita Intervista

La filosofa Francesca Rigotti ci parla del suo ultimo libro intitolato L’era del singolo

Eliana Bernasconi

Francesca Rigotti è filosofa e autrice di molti saggi che contraddistinguono il suo pensiero chino su aspetti apparentemente nascosti ma fondamentali del nostro vivere civile. Arriva a sollecitarci con testi come De Senectute del , dedicato alla vecchiaia della donna, piccolo libro che donne e uomini dovrebbero conoscere, dove con la consueta franchezza l’autrice scardina luoghi comuni, stereotipi e pregiudizi ereditati dal passato e sottopone a critica radicale l’immagine sociale della vecchiaia veicolata da un mondo che privilegia giovinezza e bellezza. Incontrando Francesca Rigotti avverti il suo rincrescimento, quasi la sua tristezza per vedersi costretta dai limiti d’età ad abbandonare i «suoi» studenti e le «sue» studentesse dell’Università della Svizzera italiana ai quali dedica il suo recente godibilissimo saggio: L’era del singolo (Einaudi). Il libro ci ricorda come gradatamente l’umanità sia passata dall’affermazione dei diritti individuali nei confronti dello stato della prima modernità, presupposto fondamentale della civiltà occidentale, a questa nostra era postmoderna dove si va sempre più affermando in ogni settore la tendenza al «sin-

golarismo», a uno stile di vita che tende a non uniformarsi alla generalità. Stile che tende all’individualità intesa come ricerca del meglio solo per la propria realizzazione, o dei propri cari nel migliore dei casi, dove l’appagamento tramite la personalizzazione è il primo valore da inseguire. Tale ricerca investe tutti i contesti del vivere civile, dall’abitazione ai viaggi, dall’educazione all’economia e alla sanità. Pensiamo solo alla posizione in cui è tenuto oggi il bambino, divenuto un unicum da porre al centro dell’attenzione e da stimolare al massimo in ogni sua peculiarità. Rischiamo di perdere di vista, di andare oltre o provare indifferenza per il grande valore dell’uguaglianza, dei diritti individuali e collettivi Caratteristica del «singolarismo» che vediamo apparire nella classe media, è quello di potersi riconoscere come esseri unici e straordinari, indifferenti al bene collettivo. Emblematico è l’interesse rivolto al corpo, protagonista di questa svolta epocale, un corpo allenato, palestrato, tatuato, così come, nel peggiore dei casi, è l’interesse e la venerazione che rivolgiamo al nostro io. Francesca Rigotti non ha giudizi da emettere, solo

ci avverte di questa sottile trasformazione che è in atto, che prosegue anche nei tempi tristi che stiamo vivendo. Professoressa Rigotti, viviamo in una società di massa, è per questo che si cerca la singolarità? Più che in una società di massa, viviamo in una società ammassata, mi vien da dire. Tutti vicini nei condomini, tutti contemporaneamente isolati, tutti davanti al proprio schermo personale. Sono condizioni paradossali dalle quali si tenta di uscire con svariate soluzioni, e una di queste è proprio il «singolarismo», che è il sentirsi e definirsi come unici, speciali, particolari, singoli insomma. Perché questo bisogno? In fondo è una dimostrazione di distinzione e di particolarità che si raggiunge a basso costo, tramite uno «stile di vita» che si vorrebbe unico e speciale, ma soprattutto personale: ogni cosa è fatta «per me», dalla pietanza in tavola alla cura medica, dal telefonino all’abitazione. La pubblicità ci rincorre continuamente con questa idea e la consolida.

Per questo vediamo emergere comportamenti narcisistici, nelle relazioni sociali e pubbliche, nei social media? Essere lodati/adulati per quello che siamo e per i nostri risultati è piacevole e solletica il nostro io. Il narcisismo è un aspetto che è sempre esistito ma viene amplificato dalla stessa tendenza dei social media che porta a far credere a ognuno di poter essere singolare e speciale, di essere il più bello, come Narciso. Scrive che nel nostro modo di vivere si potrebbe cogliere un «patologico egocentrismo» una «idolatria dell’io». Possiamo guarire? Non lo so perché non faccio la psicologa ma la filosofa e non scrivo manuali di auto aiuto che considero anzi più deleteri che utili. Il mio è un discorso che insiste sulla centralità e l’importanza dell’individuo nella società, di una società composta da individui ben marcati l’uno dall’altro, non sciolti e amalgamati in una comunità fluida non ben precisata. Dal comportamento individuale all’agire politico il passo è breve, lei scrive, questo passaggio rapido è solo di oggi o è sempre esistito?

Anche in questo caso si tratta di un fenomeno antico, reso oggi più accentuato da una dimensione politica più netta. Vede dei pericoli in questa «era del singolo»? Certo, e il pericolo più grande a mio avviso è il venir meno del «perimetro» della persona singola, la quale tende a dilagare e a non accorgersi di ciò che la circonda. Non a caso scrivo che la dimensione «singolarista» fa perdere di vista il grande valore dell’eguaglianza. Ma è mai esistita l’uguaglianza? Praticare politiche di rispetto e riconoscimento, lei scrive, aiuterebbe a uscire da logiche di rancore e risentimento, ma è veramente possibile? Anche quando è difficile compensare materialmente le disuguaglianze questo non significa smettere di trattare le persone con rispetto e riconoscimento, fattori sociali importantissimi che si possono sempre assegnare soprattutto a coloro per i quali la vita è più difficile (quelli chiamati con orrendo americanismo i loser, i perdenti).


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MONDO MIGROS

Nostrani del Ticino a 360 gradi

Attualità ◆ Sono oltre 300 i prodotti venduti nei nostri negozi contrassegnati con la caratteristica coccarda dei Nostrani del Ticino. Alcune curiosità e fatti su questi prodotti provenienti esclusivamente dalla nostra regione

Provenienza regionale garantita Tutti i prodotti dei Nostrani del Ticino sono certificati dall’associazione «alpinavera» con il marchio di qualità «Ticino regio.garantie». Ciò significa che essi rispettano le severe direttive per i marchi regionali. I prodotti vengono ispezionati e certificati ogni due anni dall’organismo indipendente «bio inspecta».

I Nostrani su Smood.ch Da tutto il Ticino Sono oltre una cinquantina i produttori sparsi su tutto il territorio ticinese che producono oltre  prodotti di qualità a marchio «Nostrani del Ticino» per Migros. Dai formaggi dell’Alta Leventina alle gazose prodotte a Chiasso, dalle verdure del Piano di Magadino ai salumi del Mendrisiotto fino al miele del Malcantone… non manca proprio nulla per comporre un menu al % ticinese.

I più venduti

Quali sono stati nel  gli articoli dei Nostrani del Ticino più gettonati dalla clientela? Ecco la top  dei prodotti più venduti, per unità di vendita: 1. Uova da allevamento all’aperto, 6 pezzi, 63g+ 2. Pomodori cherry ramati, 500 g 3. Pomodori ramati sciolti 4. Latte Drink Past, 1l 5. Pane Val Morobbia, 320 g 6. Melanzane sciolte 7. Farina bianca, 1 kg 8. Luganighetta 9. Formaggini freschi, 2 x 100 g 10. Aquaciara frizzante, 50 cl

Cesti regalo In occasione delle festività di fine anno, nel  è stata lanciata un’attività che ha riscosso molto successo: la possibilità di comporre online, sul sito nostranidelticino. ch, un cesto regalo dei Nostrani del Ticino con tipiche specialità gastronomiche del nostro territorio. I cesti, disponibili in tre grandezze (per ,  o  articoli), potevano essere personalizzati secondo i propri gusti scegliendo tra una cinquantina di prodotti e, successivamente, ritirati entro breve tempo presso un negozio Migros di propria scelta. Il confezionamento è stato possibile grazie alla collaborazione con gli utenti della Fondazione Diamante, istituzione che promuove l’inclusione di persone in situazione di andicap. L’iniziativa verrà riproposta dal prossimo autunno.

L’ultimo nato L’ultimo articolo entrato a far parte della grande famiglia dei Nostrani del Ticino è la panna cotta, introdotta nell’assortimento lo scorso mese di marzo. Questo classico dessert al cucchiaio è prodotto dalla LATI di S. Antonino utilizzando esclusivamente  ingredienti: latte, panna, zucchero e gelatina. Il latte ticinese di qualità è prodotto nel pieno rispetto delle direttive che garantiscono la regionalità dei prodotti a marchio «Nostrani del Ticino».

Oltre cento prodotti dei Nostrani del Ticino sono disponibili anche sul sito del supermercato online Smood. ch, portale che offre la consegna a domicilio della spesa Migros in meno di un’ora. Come funziona? È sufficiente collegarsi a Smood. ch tramite pc o dall’app del proprio smartphone e registrarsi. Una volta scelta la filiale Migros di riferimento, selezionare la categoria «Nostrani del Ticino», aggiungere gli articoli scelti nel carrello della spesa e terminare l’ordine. Più facile di così!

Un sito dedicato Nuovi spot pubblicitari Per sottolineare l’importanza dei prodotti del nostro territorio, abbiamo girato dei nuovi spot TV incentrati su alcuni produttori dei Nostrani del Ticino. I primi cinque protagonisti saranno la Jowa di S. Antonino, il Caseificio Dimostrativo del Gottardo di Airolo, la Salumi del Pin di Mendrisio, i Mulini di Vergeletto e la Mäder Erbe di Sementina. Potete vedere gli spot anche sul sito nostranidelticino.ch.

* Dal 10 al 23 maggio i prodotti dei Nostrani del Ticino saranno protagonisti nei supermercati di Migros Ticino. Oltre a imperdibili offerte e promozioni su numerosi articoli della linea, vi aspettano esposizioni speciali e sfiziose degustazioni di alcune chicche locali.

Lanciato nella primavera dello scorso anno, il sito nostranidelticino.ch rappresenta un punto di riferimento per gli amanti delle specialità locali e per tutti coloro che vogliono scoprire l’ampio assortimento di prodotti firmati Nostrani del Ticino presenti sugli scaffali dei supermercati Migros. Il sito è facilmente accessibile da tutti i dispositivi e propone informazioni sul marchio, sui prodotti e sui relativi fornitori. Inoltre, sotto la rubrica «Attualità», sono presenti ulteriori approfondimenti sulle iniziative di cui sono oggetto le bontà della nostra regione.


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MONDO MIGROS

Primavera in dolcezza

Attualità ◆ Le deliziose fragole ticinesi sono arrivate! Alla Migros trovate quelle prodotte dalla giovane frutticoltrice Sevenja Krauss di S. Antonino, ora disponibili in una nuova vaschetta di cartone riciclabile

Azione 26% Fragole Ticino 250 g Fr. 3.40 invece di 4.60 dal 10.5 al 16.5.2022

La frutticoltrice Sevenja Krauss tiene in mano la nuova vaschetta delle fragole nostrane. (AdvAgency.ch/Däwis Pulga)

Siete impazienti di gustare nuovamente le fragole coltivate a pochi km da casa? Delizie appena raccolte, mature al punto giusto, pronte a conquistare il palato di grandi e piccoli estimatori con la loro straordinaria dolcezza? La buona notizia è che alla Migros da questa settimana trovate le fragole ticinesi che, grazie al clima particolarmente favorevole del nostro Cantone, maturano almeno tre settimane in anticipo rispetto al resto della Svizzera. È a S. Antonino, su una superficie di ca. un ettaro e mezzo, che Sevenja Krauss produce i rossi frutti adottando metodi il più possibile rispettosi dell’ambiente. «Nelle nostre coltivazioni applichiamo le norme della produzione integrata, vale a dire con l’impiego di fitosanitari solo in caso di reale necessità e privilegiando sistemi e sostanze alternative e so-

stenibili contro parassiti e malattie», spiega la ventitreenne frutticoltrice. Importante è stata tuttavia anche la scelta di varietà di fragole che fossero particolarmente compatibili con le condizioni colturali e meteorologiche della nostra regione: «Fin dall’inizio per le nostre colture abbiamo selezionato dei tipi di frutti che non solo si distinguessero per il loro inconfondibile profumo, sapore zuccherino e grosso calibro, ma anche per la resistenza al nostro clima». Queste varietà infatti si adattano bene a delle condizioni meteo regolari, con sbalzi di temperatura contenuti, ma non amano gli eccessi di pioggia o sole. È la terza stagione che Sevenja è responsabile del fragoleto, dopo aver ripreso l’attività dalla madre Manuela che diede avvio a questa coltura qualche anno prima. «Dopo  anni, ho or-

mai acquisito una certa dimestichezza con la coltivazione delle fragole, anche se al bisogno posso sempre contare sul prezioso supporto e i consigli della mamma, orticoltrice di lungo corso. Inoltre, ogni giorno si impara qualcosa di nuovo che mi permette di migliorare la produzione senza intaccare la qualità del prodotto». Le fragole nostrane sono disponibili da subito, verosimilmente fino al mese di settembre, tempo permettendo. Come novità da quest’anno sono confezionate in una vaschetta di cartone riciclabile, realizzata ad hoc, che raffigura la coccarda dei Nostrani del Ticino, la traduzione in dialetto locale di fragole (Magióstri) e la foto della giovane produttrice. Oltre alla confezione da  g, nelle prossime settimane sarà introdotta anche quella da  g.

Passione per le erbe officinali

Attualità ◆ Intervista a Simone Galli, direttore della Erbe Ticino Cofti.ch SA, azienda attiva nella promozione e commercializzazione di prodotti a base di erbe ticinesi

Simone Galli, direttore Cofti.ch SA.

Azione 20% Sale alle erbe e fiori 180 g Fr. 7.10 invece di 8.90 Tisana Olivone o Brumana 24 g Fr. 4.70 invece di 5.90 dal 10.5 al 16.5.2022

Signor Galli, di cosa si occupa la Cofti.ch SA, detentrice del marchio Erbe Ticino? La nostra azienda si occupa della coltivazione, lavorazione, produzione e vendita di prodotti a base di erbe officinali biologiche ticinesi, con l’obiettivo di salvaguardare le piantagioni del nostro territorio. Grazie alla collaborazione con agricoltori e aziende locali, siamo in grado di ottenere dei prodotti della massima qualità e freschezza.

lore ed eleganza in più. Le due tisane sono invece un toccasana per la salute: la tisana Olivone è il primo prodotto del progetto Erbe Ticino ed è composta da una miscela di menta, melissa, salvia e lippia. Ha un effetto digestivo, rinfrescante, ed è ottima anche fredda con l’aggiunta di una fettina di limone. La tisana Brumana è a base di timo, menta, melissa, e rappresenta un infuso tradizionale, benefico e balsamico, per favorire la digestione e dare sollievo alle vie respiratorie.

Quali sono i prodotti che fornite a Migros Ticino? Attualmente sono tre: il sale alle erbe aromatiche e fiori e le tisane Olivone e Brumana. Il primo è un aromatico condimento per la cucina quotidiana a base di sale fine da cucina mescolato con salvia, timo, rosmarino e melissa, a cui viene aggiunta una miscela di fiori secchi edibili per un tocco di co-

Quanto è importante la valorizzazione dei prodotti locali? È essenziale. La missione del nostro progetto è quella di promuovere il territorio e le sue regioni di montagna. Il clima favorevole del Ticino e la collaborazione con persone del settore, fanno sì che le erbe officinali biologiche abbiano terreno fertile per poter crescere al meglio. Per noi è

di fondamentale importanza collaborare con persone e aziende locali: infatti siamo sempre alla ricerca di nuovi coltivatori certificati Bio Suisse e di opportunità per poter sviluppare nuovi progetti e collaborazioni. La responsabilità sociale è al centro del progetto non solo per la sostenibilità economica, che riguarda la tutela dei produttori locali e l’intenzione di assumere personale autoctono, ma anche per quella sociale e ambientale. Il progetto è infatti attivo nell’ambito socioprofessionale grazie alla collaborazione con le fondazioni Diamante, La Fonte, OTAF, San Gottardo e Caritas Ticino. Allo stesso tempo una parte importante del progetto Erbe Ticino è rappresentata dalla sostenibilità ambientale, data in primis dall’autenticità dei prodotti tutti derivanti da erbe officinali Bio Suisse, marchio di qualità di origine certificata.


Le settimane dei Nostrani del Ticino

15% 1.70

invece di 2.05

20% Formaggini freschi, aha!

prodotti in Ticino, per 100 g

21% 2.05

invece di 2.60

invece di 5.90

invece di 6.90

Prosciutto crudo Ticino, per 100 g, in self-service

16% Luganighetta

Ticino, per 100 g, in self-service

20% 4.70

5.50

20%

1.80

invece di 2.15

24 g

Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. Offerte valide solo dal 10.5 al 16.5.2022, fino a esaurimento dello stock

1.10

invece di 1.40

invece di 3.–

San Gottardo Prealpi

prodotto in Ticino, per 100 g, confezionato

20% Formaggella 1/4 grassa

prodotta in Ticino, per 100 g, al banco a servizio

20% Tisana Olivone o Brumana

2.40

7.10

Sale alle erbe e fiori 180 g

invece di 8.90

26% Cetrioli

Ticino, al pezzo

3.40

Fragole

Ticino, imballate, 250 g

invece di 4.60

Prodotti genuini a km zero Migros Ticino


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SOCIETÀ

Quando la mente uccide il corpo Ricerche

In situazioni di grave stress traumatico può succedere di sviluppare un’apatia estrema che porta al decesso

Stefania Prandi

John Leach è psicologo e ricercatore all’Università di Portsmouth, in Gran Bretagna. Si occupa di sopravvivenza: da oltre vent’anni cerca di capire perché alcune persone restino in vita nei campi di prigionia, situazioni di guerra, dopo naufragi, incidenti aerei e disastri naturali, mentre altre, invece, muoiano, pur senza avere traumi fisici. Oltre all’esperienza accademica ha un passato da militare e ha tenuto corsi di sopravvivenza nel deserto, nella giungla, nelle zone polari e workshop con simulazioni di rapimenti. Il suo interesse per le condizioni estreme l’ha portato a studiare la «morte psicogena», il fenomeno per cui, in situazioni di grave stress traumatico, può succedere di sviluppare un’apatia estrema, perdendo le speranze e rinunciando a vivere, con un abbandono che porta al decesso, senza che ci siano cause organiche. Stando alle cronache del tempo, nel  i condannati che vivevano nell’insediamento di Jamestown, colonia inglese della Virginia, morivano di «melanconia». Sulle navi negriere gli schiavi smettevano di vivere per la disperazione. Ad Auschwitz i prigionieri dei campi di concentramento si sdraiavano, fumavano di nascosto l’ultima sigaretta e trapassavano nell’arco di quarantotto ore. Fino a poco tempo fa, l’idea che la mente potesse uccidere il corpo non era presa sul serio nei circoli medici occidentali per man-

canza di evidenze scientifiche. Non era accettato che l’atto di arrendersi – che niente ha a che fare con il suicidio o con la depressione – potesse essere fatale. «In realtà è qualcosa di cui si è sempre parlato fin dal Medioevo. Pensiamo al crepacuore oppure alle storie delle persone sposate da anni che muoiono a distanza di poco tempo l’una dall’altra», spiega Leach ad «Azione». Tra i primi ad occuparsi di questo ambito, il fisiologo americano Walter Cannon. Negli anni ’ del secolo scorso scrisse un articolo, diventato celebre, in cui analizzava la «morte vudù», con una raccolta di esempi da tutto il mondo di persone che morivano in seguito a una maledizione. La suggestione di avere ricevuto il malocchio diventava talmente forte da ossessionarle e spingerle a lasciarsi andare. Cannon credeva che la superstizione non c’entrasse e che dietro ai decessi ci fosse una spiegazione razionale. Il lavoro di Leach raccoglie questa intuizione: «La morte psicogena si verifica senza che ci siano malattie, ferite o altre cause organiche. Osservando quel che accade alle persone in circostanze disperate, ho notato che a livello cerebrale c’è un graduale esaurimento della produzione di dopamina che sembra avvenire attraverso disfunzioni dei circuiti fronto-sottocorticali del cervello». La dopamina ha un ruolo fondamentale nella mo-

tivazione, serve anche a determinare le reazioni ai cambiamenti, attesi o imprevisti, ed è essenziale per far fronte al mondo esterno. Chi ha livelli di dopamina bassi tende all’apatia e spesso fatica a compiere azioni di routine. Nello specifico, l’ipotesi dello psicologo è che avvenga un cortocircuito tra le due aree principali di produzione della dopamina. «Per restare in vita abbiamo bisogno di obiettivi a breve e a lungo termine. Se ci troviamo in condizioni estreme oltre alla capacità di trovare cibo, acqua e protezione dal freddo o dal caldo eccessivi, serve la motivazione, bisogna prendere in prestito la speranza dal futuro». La personalità non sembra essere un fattore decisivo nelle situazioni analizzate dallo psicologo britannico. Come ha scritto in un articolo scientifico pubblicato su «Medical Hypotheses», caratteri tra loro molto diversi dimostrano lo stesso livello di vulnerabilità; alcuni individui considerati forti nella vita di tutti i giorni sconcertano per il modo in cui muoiono rapidamente. A contribuire alla capacità di sopravvivenza sembra esserci l’interazione tra uno specifico corredo genetico e un’esperienza precedente di adattamento allo stress. Ci sono quattro fasi che precedono la morte psicogena: l’isolamento sociale, in cui ci si ritira in sé stessi; l’apatia, il disinteresse a lottare per la

Nelle persone che vivono circostanze disperate c’è un graduale esaurimento della produzione di dopamina. (PxHere)

sopravvivenza; l’abulia, la mancanza di motivazioni accompagnata da una riduzione delle risposte emotive; l’acinesia psichica, un profondo stato di inerzia che rende insensibili perfino al dolore. La maggior parte di chi entra nella spirale neurologica della «sindrome disesistenziale», per usare la definizione di Leach, ne emerge prima di toccare il fondo, riuscendo ad adattarsi. Ma i pochi che non lo fanno possono trovarsi al quinto stadio: la morte psicogena. La luce scompare dagli occhi e in due giorni circa le funzioni vitali cessano. Il  maggio Leach terrà un discorso alla British Psychological Society Conference (bps.org.uk) in cui spiegherà le sue nuove scoperte. E ri-

corda che il suo ambito di studio non è così lontano dalla nostra esperienza, considerando soprattutto gli ultimi due anni di pandemia: «L’importanza della motivazione nella sopravvivenza è emersa chiaramente durante il primo e il secondo lockdown. Soltanto in Gran Bretagna c’erano tre milioni e mezzo di persone intrappolate nella propria casa, da sole, perché erano single. Si è visto un calo rapido: hanno smesso di radersi ogni giorno, rimanevano in pigiama fino all’ora di pranzo, faticavano ad alzarsi dal letto la mattina e, in generale, ad andare avanti con le loro vite. Un comportamento che corrisponde molto da vicino a quello nei campi di prigionia, direi praticamente identico». Annuncio pubblicitario

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Un brunch per (fare) stare bene Appuntamenti ◆ Una colazione benefica con i Nostrani del Ticino

A S S O C I A ZZ II O ON N EE

TRIANGOLO

volontariato e assistenza per il paziente oncologico

Lo psichiatra e presidente Asi-Adoc Michele Mattia e un bambino di spalle. Sotto: la politologa Giada. (Vincenzo Cammarata)

La guerra agli occhi di giovani e bambini Psicologia ◆ Il peso emotivo legato al conflitto richiede un canale di ascolto appropriato e una narrazione adeguata

Il conflitto in Ucraina non preoccupa solo gli adulti, ma pure giovani e bambini. E ci ha sorpresi a riflettere sulla sua natura così controversa. «La guerra è un conflitto non risolto e il conflitto nasce dalla diversità che può sfociare in ostilità. Per sua natura, non è cattivo di per sé perché è parte delle relazioni: lo si sperimenta in famiglia (microsocietà) e lo si vive in società, quando il dialogo non è sufficiente a risolvere le incomprensioni e fatichiamo nell’accettazione dell’altro. Così si arriva allo scontro». A parlare è lo psichiatra Michele Mattia, presidente di Asi-adoc (Associazione della Svizzera italiana per i disturbi ansiosi, depressivi e ossessivo-compulsivi) che ricorda pure le altre guerre al mondo, «ma questa è in Europa, vicino casa, e perciò ci fa più paura». Le ansie riemergono dal passato di chi ha visto l’ultima guerra in Europa: «Quando al telegiornale è stata pronunciata la parola guerra, mi ha impressionato vedere mia nonna andare in panico, come se per un attimo fosse tornata indietro nel tempo». Giada è politologa, già delegata giovanile per la Svizzera alle Nazioni unite e co-fondatrice e co-presidente di ZETA Movement, associazione che si occupa di sensibilizzare i giovani sul tema della salute mentale. «Ho cercato di tranquillizzarla. Poi ho pensato che non viviamo una simile situazione così vicino a noi da tanto tempo, e che perciò le generazioni ne sono toccate in modo diverso». Dice di pensare ai due anni tosti di pandemia, dai quali speravamo di uscire finalmente sereni, che però ci hanno catapultati direttamente in questo dramma: «Ho pensato alle persone, ai civili che stanno scappando e alle mie analisi politiche che ora perdevano di significato. Mi mancano le parole per l’emozione e mi rendo conto di non riuscire a staccare, guardo sempre le notizie». Come lei, i nostri giovani sono messi a dura prova e lamentano emozioni molto simili: «Questa guerra ci accompagna ogni giorno, è diventata parte delle discussioni con genitori e amici: la condivisione aiuta, perché tenersi tutto dentro

Vincenzo Cammarata

Maria Grazia Buletti

consuma e aumenta quel senso di impotenza difficile da accettare». Con ansia, preoccupazione, impotenza e consapevolezza di sentirsi «privilegiata rispetto a chi sta vivendo personalmente la guerra», Giada si fa portavoce del sentire comune: «La nostra è una preoccupazione per il futuro. Negli ultimi anni noi giovani siamo confrontati con un passato legato al Covid, un presente di guerra e un futuro che guarda al cambiamento climatico, come se il mondo ci mettesse dinanzi a tante situazioni più grandi di noi, ma con la coscienza di dover contribuire per migliorare (non peggiorare) le cose o, come nel caso dell’Ucraina, cercando di aiutare, ciascuno come può». Fra incertezza e timori, non è semplice sapere se e come affrontare con i bambini argomenti così difficili. «Non riteniamo di dover necessariamente affrontare queste cose coi nostri figli. I bambini hanno il diritto di vivere la loro infanzia con la spensieratezza che meritano». È Maria e ha tre figli (Paolo, Eros e Mirta di ,  e  anni); in famiglia li osservano attentamente per capire se la guerra può destare in loro domande o preoccupazioni; dice di essere «perfettamente cosciente che i più grandi sentano l’argomento a scuola dai coetanei». Dal canto suo, Barbara è certa che i suoi figli di  e  anni abbiano colto gli umori in famiglia «sia durante la pandemia sia

con la guerra. Percepiscono che qualcosa ci preoccupa o assorbe la nostra attenzione». Propende per «dare una spiegazione adeguata all’età. Restiamo semplicemente in ascolto. Le loro domande sono l’occasione per parlare della situazione e della sua evoluzione (ammettendo pure di non avere risposte a tutto); cerchiamo di capire cosa pensano e se sono preoccupati». Entrambe queste famiglie restano vigili, non prendendo iniziative, e cercano di rispondere alle eventuali sollecitazioni dei propri ragazzi. La scuola fa la sua parte: «Nostra figlia maggiore non pone molte domande, ma a scuola hanno organizzato una “giornata della pace” e se qualcosa arriva a casa, ne parleremo tutti insieme. Mio figlio mi ha chiesto se credo che scoppierà la Terza guerra mondiale, lo ha sentito dai suoi compagni». La guerra preoccupa giovani e bambini, chi più chi meno, scatenando molte domande. Alla famiglia il compito di creare il dialogo, nella consapevolezza che l’educazione alla pace è l’unica educazione a cui i bambini hanno diritto. «Ma quando si parla di pace dobbiamo essere coscienti del paradosso che nella parola pace è contenuta la guerra, il conflitto. È importante rapportarci ai nostri figli con la dimensione della conoscenza del conflitto che è parte delle relazioni, e perciò dobbiamo apprendere a gestirlo», afferma Michele Mattia, con la certezza che «il racconto ai bambini di cose complesse e difficili passa attraverso la narrazione della fiaba. Nel film di Roberto Benigni La vita è bella il padre racconta la guerra nella guerra come narrazione reale, un gioco che non crea un trauma, affinché il bambino possa ricevere le risposte che merita senza entrare nel trauma della guerra». In fondo nella vita è inevitabile che il predominio di alcuni a volte si manifesti su altri: «La fiaba è narrazione che aiuta perché contiene il cattivo e assume la potenza di raccontare il dolore, il dramma attraverso un racconto che entra nel bambino e crea la dimensione della pace con la guerra dentro, dove però la pace vincerà». Se

il ragazzo manifesta timori o disagi: «Parlandone egli vuole entrare in relazione e bisogna stargli vicino, interessarsi della sua paura. Avviciniamoci, abbracciamolo, facciamogli sentire la protezione dell’adulto, riducendo la paura dell’aggressore che potrebbe essere dietro l’angolo». Il primo passo per ridurre l’angoscia è farlo in una dimensione «affettuosa, di tenerezza e presenza. Cerchiamo poi di capire cosa nasconde questa paura o se necessita solo di protezione». Se invece il ragazzo si chiude in un mutismo selettivo: «Usiamo una comunicazione non verbale, attraverso giochi relazionali, creativi, completamente diversi dalla guerra. Risvegliamo così in lui le sue aree di piacere, entrando nelle sue paure e permettendogli di tornare a parlare». Giada testimonia l’accoglienza da parte dei suoi di una famiglia ucraina «per dare un aiuto», cosa che lei definisce: «Esperienza speciale, di condivisione e arricchimento». Un modo di sentirsi attivi verso questo senso di impotenza che nutriamo, ma che va attentamente calibrato secondo le proprie risorse, conclude Mattia: «Origine è accoglienza, dove io sono l’altro perché potrei essere al posto suo. Quindi vorrei quest’accoglienza. Bisogna riflettere bene sulle energie e sulle forze di cui disponiamo, e se non fosse possibile accogliere è preferibile dare una mano donando ore libere, un aiuto finanziario o in altro modo». Il dottor Mattia è certo che dalla guerra si potrebbe trarre grande insegnamento: «Creando nelle famiglie gioco, regole e coesione che spesso sono venute a mancare. Così la criticità di questa guerra potrebbe trasformarsi in opportunità, con l’effetto collaterale del ritorno alla dimensione collettiva nella ricostruzione delle relazioni che stavamo perdendo. Potremmo tornare a quel significato di famiglia e unione sociale sfumati negli ultimi - anni». Perché, come dice da adulto il bambino Giosuè ne La vita è bella: «Questa è una storia semplice, eppure non è facile raccontarla, come in una favola c’è dolore e, come in una favola, è piena di meraviglia».

Una colazione in piazza. Per salutare l’estate, ma anche per fare del bene divertendosi, condividendo la tavola, le esperienze, l’amicizia. È questo il principio alla base della più recente iniziativa dell’Associazione Triangolo (sezione Sottoceneri), impegnata da anni sul fronte dell’assistenza e del sostegno in ambito oncologico. L’appuntamento di Colazione in piazza è per il Lunedì di Pentecoste,  giugno, e il luogo di ritrovo è la suggestiva Piazzetta San Carlo nel cuore di Lugano. Animeranno la mattinata Carla Norghauer con i volontari del Triangolo, mentre il pubblico potrà gustare i prodotti della regione Nostrani del Ticino offerti da Migros Ticino.

Tre ore in compagnia per il gusto della solidarietà e della convivialità, nel segno della leggerezza e dell’impegno sociale Amanzio Marelli, volontario dell’Associazione e co-organizzatore dell’appuntamento, sottolinea il carattere festivo della manifestazione, che pur nascendo all’interno del sostegno e della cura oncologica vuole essere «all’insegna della leggerezza e della convivialità, senza trascurare la delicatezza della tematica; d’altronde, il ricavato dei biglietti d’ingresso al brunch sarà interamente devoluto all’implementazione e al mantenimento delle nostre numerose attività di accompagnamento dei malati durante il loro percorso, spesso impegnativo. Tre ore in compagnia per il gusto della solidarietà, un momento di amicizia e di aggregazione rivolto agli stessi pazienti, ai loro amici e parenti, ma anche a chiunque abbia voglia, oltre a consumare un’ottima colazione, di dare il proprio sostegno alle nostre iniziative». Anche «Azione» partecipa all’iniziativa, sostenendola attraverso i propri canali di comunicazione e mettendo in palio alcuni braccialetti che valgono come biglietto di ingresso al brunch. Termini e condizioni di partecipazione saranno comunicati sul prossimo numero del nostro settimanale (edizione del  maggio). A chi avesse voglia di partecipare per vivere una festività in modo diverso e in compagnia, non resta che dire, save the date! Dove e quando Colazione in piazza. Il gusto della solidarietà. Lunedì 6 giugno, Lugano, Piazzetta S. Carlo, dalle 9.00 alle 12.00. Entrata singola CHF 20.–, entrata per famiglie CHF 50.–. In caso di cattivo tempo la manifestazione è rimandata a domenica 19 giugno 2022.


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I 50 anni del Premio Wakker

Territorio ◆ Il riconoscimento istituito da Patrimonio Svizzero viene attribuito ogni anno a un comune che si distingue per le scelte lungimiranti nello sviluppo del proprio insediamento e per la promozione della cultura architettonica Stefania Hubmann

Un premio che unisce autorità e popolazione nel favorire uno sviluppo sostenibile dell’abitato e degli insediamenti; un riconoscimento globale che guarda al passato, al presente e al futuro; un premio che a  anni dalla sua istituzione conserva più che mai il suo valore adeguandosi al mutare dei tempi. È il Premio Wakker, attribuito ogni anno a un comune da Patrimonio Svizzero, organizzazione attiva da oltre un secolo in Svizzera nell’ambito della cultura architettonica. Il traguardo del cinquantesimo del premio sarà sottolineato durante l’intero arco dell’anno attraverso una sessantina di manifestazioni che permetteranno alla popolazione di scoprire in tutto il paese le caratteristiche dei comuni premiati, i criteri di attribuzione del premio, come pure i temi emergenti a livello di cultura della costruzione. La scelta del comune al quale conferire il premio, che ha interessato il Ticino in due occasioni, cela un grande lavoro svolto a più livelli. Un ruolo centrale spetta al capoprogetto, compito assunto dal  al  dall’architetto e urbanista Sabrina Németh di Ronco sopra Ascona con la quale abbiamo esplorato il Premio Wakker dall’interno.

La Chiesa dei Santi Luca e Abbondio ad Avegno, comune premiato nel 1982. (Patrimonio svizzero/Tobias Dimmler). In basso, il Convento di Monte Carasso, comune che si affidò all’architetto Luigi Snozzi e fu premiato nel 1993. (Patrimonio Svizzero/Janic Scheidegger)

Il premio deve il nome al banchiere ginevrino Henri-Louis Wakker che con una generosa donazione nel 1972 sostenne l’impegno di Patrimonio Svizzero Il premio porta il nome del banchiere ginevrino Henri-Louis Wakker che nel  legò a Patrimonio Svizzero la somma di  mila franchi senza un obiettivo definito. Proprio sei mesi prima il comitato centrale dell’ente da parte sua aveva deciso di istituire una distinzione «per il trattamento esemplare del sito costruito» lasciando aperta la questione del suo finanziamento. L’unione delle due iniziative diede vita al Premio Wakker, caratterizzato nei decenni successivi dalle priorità in materia di protezione dei beni culturali e di promozione della cultura architettonica. I nuclei storici di comuni di campagna e di piccole città sono stati al centro dell’attenzione nella fase iniziale, seguiti da un approccio più ampio sullo sviluppo territoriale, dal riconoscimento a città innovative fino all’integrazione di tematiche quali la biodiversità, l’uso parsimonioso delle risorse e la lotta contro l’anonimato nelle agglomerazioni. Per Sabrina Németh «il valore principale del Premio Wakker oggi è il suo approccio globale. Si concentra sulla qualità di vita nei comuni, qualità che parte dal patrimonio esistente per inglobare, oltre ai nuovi edifici, gli spazi pubblici e il paesaggio. Soddisfare i bisogni della società rispettando le testimonianze del passato e utilizzando con attenzione le risorse è la visione che soddisfa i requisiti del premio». Ricerche, visite sul posto, incontri con le autorità sono le tappe che portano la preposta commissione di esperti coordinata dal capoprogetto a formulare una proposta al comitato centrale per l’assegnazione del premio. Un’esperienza molto arricchente come testimonia la nostra interlocutrice: «La commissio-

ne riunisce specialisti di più settori – architettura, urbanistica, paesaggio, beni culturali – che nel loro insieme rappresentano le diverse regioni linguistiche vantando una buona conoscenza del territorio nazionale. La Svizzera possiede una ricca e diversificata cultura architettonica riscontrabile non solo nelle tipologie degli insediamenti, ma anche nelle tecniche di costruzione e nei materiali utilizzati. Aver compiuto indagini approfondite su oltre  comuni durante il mio mandato mi ha permesso di conoscere bene queste realtà, scambian-

do preziose esperienze con studiosi, professionisti e politici al fine di capire come procedere di volta in volta per sviluppare e migliorare la qualità di vita nel comune». Il Premio Wakker può quindi essere considerato secondo l’intervistata una collezione di buone pratiche che dovrebbe fungere da modello e motivare altri comuni. «Purtroppo questo avviene solo in parte – precisa Sabrina Németh – anche se negli ultimi anni abbiamo cercato di sviluppare la portata del riconoscimento, ad esempio pubblicando un opuscolo per ogni

comune premiato nel quale sono presentati strategie e progetti». Il Premio Wakker è sempre molto ambito, essendo il suo prestigio cresciuto negli anni. Gli sforzi comuni e la visione necessari per ottenerlo fanno però spesso difetto come dimostra anche il caso del Ticino. Due soli comuni del nostro cantone lo hanno ricevuto in mezzo secolo. Si tratta di Avegno nel  e Monte Carasso nel , quest’ultimo strettamente legato alla visione pianificatoria del compianto architetto Luigi Snozzi. Come spiega Sabrina Németh questa

Una conferenza e sette visite guidate In Ticino gli appuntamenti per celebrare i 50 anni del Premio Wakker prenderanno avvio lunedì 16 maggio con una conferenza di Sabrina Németh a Bellinzona (Auditorio Banca dello Stato, ore 20.00) completata da una tavola rotonda moderata dall’arch. Benedetto Antonini (vice presidente della STAN) e alla quale parteciperanno il sindaco di Bregaglia, Fernando Giovanoli e l’arch. del paesaggio Sophie Ambroise. Il programma – promosso dalla Società ticinese per l’arte e la natura

(STAN), sezione cantonale di Patrimonio Svizzero – comprende a seguire sette visite guidate alle quali il primo incontro fungerà da introduzione. Fra maggio e ottobre oltre ai due comuni ticinesi che hanno ottenuto il premio (Avegno e Monte Carasso), si potranno conoscere meglio altre realtà urbane, periurbane e montane, caratterizzate da differenti scenari di sviluppo. Si vedranno quartieri modello, aree con nuove potenzialità, i positivi effetti di un’adeguata protezione, ma pu-

re le occasioni mancate. Da rilevare le visite a due villaggi (Fusio e Rovio) inseriti nell’Inventario federale degli insediamenti svizzeri da proteggere di importanza nazionale (ISOS). Date e luoghi sono: 21 maggio Avegno, 28 maggio Monte Carasso e Bellinzona (quartieri centrali), 11 giugno Fusio, 2 luglio Rovio, 18 settembre Ronco sopra Ascona, 15 ottobre Chiasso (quartiere di via Soldini). Per i dettagli degli appuntamenti in tutta la Svizzera: www.patrimoniosvizzero.ch/events

situazione? «Il Ticino, sempre tenuto in considerazione dalla commissione del premio Wakker, è purtroppo una “zona depressa” a livello di cultura architettonica. Manca la sensibilità per capire il valore a lungo termine di impegnarsi nella promozione della cultura della costruzione di qualità. Una visione che scarseggia anche in altre regioni come è il caso della Svizzera centrale. Quando la commissione è accolta da un unico municipale o gli intenti di tutela riguardano solo il nucleo storico, si capisce che sarà difficile sviluppare l’insieme del territorio comunale e delle sua attività in modo armonioso, proprio perché manca una strategia oppure quest’ultima non è sufficientemente condivisa». Passiamo agli esempi virtuosi, spostandoci non molto lontano, nel cantone dei Grigioni. Sabrina Németh: «Al riguardo è da menzionare il premio attribuito nel  al comune di Bregaglia. Le autorità hanno riconosciuto i pregi del loro patrimonio anche quale componente essenziale del turismo di nicchia di cui è meta la valle, sensibilizzando la popolazione e consultandola precocemente sui singoli progetti». Il Premio Wakker dispone di un margine di manovra che gli permette di ricompensare anche fondazioni o iniziative intercomunali. Ne è un esempio la Nova Fundaziun Origen a Riom (sempre nei Grigioni), ente di promozione culturale premiato nel , o i nove comuni riuniti in «Ouest lausannois» scelti nel  per l’azione di «valorizzazione del loro territorio, organizzazione del loro sviluppo e creazione di un’identità coerente» (dalla rivista «Heimatschutz/ Patrimoine», numero / dedicato alla ricorrenza). Un aspetto sensibile del premio è legato all’evoluzione dei comuni dopo l’attribuzione del riconoscimento. «Osservando Avegno e Monte Carasso – rileva la già capoprogetto – si nota come purtroppo il successivo sviluppo non sia riuscito a mantenere le caratteristiche che li hanno distinti alcuni decenni fa. Il Premio Wakker non è un label e non vi è quindi la possibilità di rivalutare i criteri di attribuzione a intervalli regolari. Un’altra questione riguarda le aggregazioni. Un comune premiato può diventare un quartiere di un grande agglomerato». Questo fenomeno e una nuova consapevolezza inducono a considerare lo sviluppo territoriale di spazi più ampi e coerenti come una valle o il territorio fra due agglomerati. Attribuendo il Premio Wakker  a Meyrin, al quale è stata riconosciuta la capacità di evolvere senza perdere la propria identità trasformandosi da villaggio agricolo a grande comune periferico ginevrino, Patrimonio Svizzero riafferma il valore cardine della qualità di vita determinata dalla preservazione del patrimonio culturale, dalla promozione di una cultura della costruzione di qualità e dal coinvolgimento della popolazione nelle scelte di sviluppo urbanistico. Popolazione che l’organizzazione cerca di sensibilizzare sin dalle nuove generazioni con la realizzazione in occasione del giubileo di una scheda di lavoro per gli allievi delle scuole elementari dei comuni premiati. Informazioni www.patrimoniosvizzero.ch


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La paffuta e timida tinca Mondo sommerso

Un pesce comune nelle acque sotto costa, per loro natura calme, torbide, quasi stagnanti

È un terso pomeriggio invernale, di quelli in cui i colori vividi e contrastati del paesaggio si illuminano di una luce particolare, ricreando una tavolozza di sfumature disordinate sulla superficie immota del lago. Con la mia inseparabile attrezzatura fotografica, mi immergo lungo il litorale del Ceresio alla ricerca di tinche. Sono pesci dall’incedere lento, elegante, talvolta ipnotico quando flettono ritmicamente le pinne pettorali pur restando ferme, senza spostarsi di un centimetro. Hanno corpi ovali e paffuti, e sono abbastanza comuni nelle acque sotto costa, calme, torbide, quasi stagnanti. Essendo timidissime e relativamente miopi, preferiscono ambienti con scarsa visibilità, dove sperano di passare inosservate. Trascorsi pochi minuti di immersione incontro il primo esemplare, mezzo sprofondato in un fondale melmoso su cui trascorrerà i rigori invernali, in uno stato di torpore, per non disperdere energie. Mi scruta con gli occhi molto mobili, dall’iride rossa, quasi fossero iniettati di sangue, con uno sguardo terrorizzato. Però non si sposta: non arretra, non scarroccia, non attacca. Resta immobile, confidando di non destare la mia attenzione. Strategicamente la livrea si adegua ai colori del territorio in cui vive (omocromia), imitandone le tonalità per incrementare il mimetismo. Il dorso

è verde oliva scuro, colore che schiarisce in modo progressivo scendendo verso il ventre giallastro; lateralmente ha invece riflessi dorati bellissimi che luccicano alla luce della torcia subacquea. Decido di lasciarlo in pace. Considerata la sua posizione, non riuscirei a fotografarlo adeguatamente. Vado oltre e subito noto un’altra tinca posizionata a favore di obiettivo, ed è un bell’esemplare. Deduco che è un maschio osservando la base muscolosa delle due pinne ventrali e le pinne inferiori più ricurve. Riesco a scorgere i due brevi barbigli che sporgono alla base della bocca, con i quali la specie grufola nel fondale per cercare cibo: larve d’insetti acquatici, piccoli molluschi, chioccioline, vermi. Si abbuffa al crepuscolo e di notte, prevalentemente nei mesi estivi, dopo il periodo della riproduzione, quando la natura si risveglia e le prede abbondano. In inverno digiuna, rallenta il metabolismo ed entra in uno stato di letargo. Il suo corpo tozzo, subovale denota la sedentarietà e la scarsa attitudine al nuoto. Il secondo esemplare che ho scorto si sposta alzando una nuvola di limo; ottima strategia per celarsi dai predatori, ma ora è impossibile fotografarlo perché illuminerei il pulviscolo sospeso nell’acqua. Soprattutto durante i mesi invernali la tinca si adagia fra le alghe e nella vegetazione accumulata sui fondali, riuscendo a sopportare (meglio di altre specie) acque

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Franco Banfi

piuttosto acide e con bassi livelli di ossigeno, ambienti dove le carpe non resisterebbero. Le tinche sono animali gregari, si riuniscono in piccoli gruppi, avvistata la prima se ne trovano altre. Soprattutto durante la stagione riproduttiva, di solito in tarda primavera (a dipendenza della temperatura dell’acqua), se ne possono contare alcune decine in un’area relativamente piccola, sempre in acque ferme e torbide, il che di si-

curo non aiuta a trovare un compagno di sesso opposto. Nell’arco temporale di due mesi una femmina riproduttiva (oltre i tre/quattro anni) depone oltre  mila uova minuscole (diametro ,- mm) che aderiscono alla vegetazione e che in seguito vengono fecondate dai maschi (oltre i due anni). La schiusa delle uova avviene dopo / giorni, in base alla temperatura dell’acqua. Nei primi giorni di vita gli avannotti rimangono fissati alla vegetazione, fino al riassorbimento del sacco vitellino. Poi iniziano una crescita abbastanza lenta (possono vivere oltre  anni) sino a raggiungere mediamente i / cm di lunghezza per / kg di peso. Non demordo e mi allontano dal polverone lo stretto necessario per ritrovarmi faccia a faccia con un piccolo gruppetto di esemplari, in posizione perfetta per scattare alcune fotografie. Faccio attenzione a regolare i flash subacquei affinché la luce non venga riflessa dalla pelle spessa, dorata, con squame piccole a grana fine. È mucosa e viscida, e questa caratteristica le ha valso il soprannome di «pesce dottore». A tal proposito vale la pena ricordare una credenza popolare: tutti i pesci malati che si strofinano contro la pelle della tinca si ristabiliscono. Non solo, nell’antichità i guaritori, in equilibrio instabile fra alchimia e fitoterapia, sostenevano che la pelle della tinca posta sulla testa di un malato curasse l’itterizia e il mal di testa, oltre a far cessare la febbre. In passato, il valore commerciale della specie era una risorsa importante per le povere economie agricole. Durante la guerra d’Italia tra francesi e spagnoli, il  aprile  venne combattuta la battaglia di Ceresole d’Alba (in Piemonte), in cui prestarono servizio anche  mila soldati svizzeri comandati dal capitano Wilhelm Fröhlich. Pochi giorni dopo la battaglia i mercenari svizzeri saccheggiarono una peschiera di tinche, per un valore equivalente a  fiorini, corrispondenti a circa  pasti in osteria e  galline. Le tinche erano allevate nelle peschiere, ovvero in rudimentali stagni ricavati nei terreni argillosi (l’argilla impedisce all’acqua di essere drenata nel terreno). Oggi come allora in Piemonte è diffuso l’allevamento della specie, in particolare della Tinca gobba dorata del Pianalto di Poirino, primo pesce europeo di acqua dolce a essere riconosciuto DOP (denominazione di origine protetta) nel . Questa tinca, allevata in modo semi-natura-

le fin dal Medioevo, è il risultato di una selezione naturale della specie selvatica Tinca tinca: si caratterizza per la colorazione delle squame e la tipica gibbosità sul dorso ma soprattutto per il sapore più gustoso rispetto agli esemplari selvatici (i quali spesso sanno di fango). L’altopiano del Poirino è costituito prevalentemente da terreni di argilla rossa (usata largamente per la costruzione di mattoni e tegole, da cui la presenza di numerose fornaci), materiale abbastanza povero che inibisce lo sviluppo di materia organica e alghe che fioriscono e marciscono nelle acque stagnanti. Conseguentemente le Tinche gobbe dorate allevate nella zona vivono in acque più pulite e calcaree, ricche di sali minerali che si trasferiscono nelle carni del pesce. Le tinche e i pesci litorali selvatici (non allevati) sono solitamente più piccoli di altre specie. Pur vivendo in ambienti ricchi di sostanze nutritive questi ecosistemi sono più competitivi e le probabilità di divenire prede di altri predatori incrementano. La specie è particolarmente gradita ad aironi, cormorani, gamberi: l’acqua relativamente bassa e la sedentarietà facilitano le catture. Ognuno ha la propria strategia alimentare: i gamberi divorano le uova, i cormorani e gli aironi prelevano sino a mezzo chilo di pesci al giorno pro-capite. Gli uccelli acquatici fanno infuriare i pescatori professionisti che si sentono derubati dei pesci già catturati dalle reti e dalle nasse, che vengono lacerati danneggiando anche il resto del pescato, tanto da renderlo invendibile. Analizzando i dati diffusi dall’Ufficio della caccia e della pesca (http:// www.ti.ch/pesca) per il lago Ceresio, negli anni dal  al  la quantità di tinche pescata con le reti è altalenante ma in netto declino:  kg nel  rispetto ai  kg nel . Nel  la tinca rappresenta il % dell’intera biomassa pescata, al quarto posto dopo il luccioperca, il pesce persico e i coregoni. Al contrario, il lago di Ginevra è il più produttivo, considerando che la metà del pescato è rappresentata dalle tinche. Il decremento delle specie litorali è dovuto al progressivo sfruttamento urbano delle rive, all’incremento del fosforo disciolto in acqua e all’inquinamento urbano, oltre che alla drastica riduzione dei pescatori professionisti. Informazioni Su www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica.


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SOCIETÀ

La spesa per i trasporti e le telecomunicazioni Prospettive

Nel confronto intercantonale il Ticino si situa nel gruppo intermedio

Riccardo De Gottardi

delle strade nazionali. Lo stato centrale ha allora assunto una funzione trainante, ancorché comunque condivisa sul piano operativo con i cantoni, a cui era delegata la costruzione e che ne detenevano la proprietà. Con la riforma sulla nuova ripartizione dei compiti e sulla perequazione finanziaria del  la Confederazione ha infine assunto a parte intera tutte le competenze nel settore delle strade nazionali, la cui rete è stata pure estesa a partire dal  integrandovi circa  km di strade cantonali. Per il Ticino è stato il caso della strada principale in sponda sinistra tra Bellinzona e Locarno e di quella tra Stabio e il confine di stato. Un percorso simile, anche se in tempi molto diversi, è stato quello compiuto nel campo delle competenze ferroviarie, che nell’ presupponevano il rilascio di concessioni da parte dei cantoni ed erano prerogativa esclusiva di compagnie private. Nacquero, si svilupparono e scomparvero in quegli anni numerose imprese; le richieste di concessione inoltrate ai cantoni furono tante, talvolta concretizzate ma spesso rimaste invece sulla carta. Mossi da logiche e interessi regionali, i servizi offerti non contribuivano alla creazione di un mercato nazionale e al rafforzamento dell’unità del paese. Agli inizi del ’ la Confederazione ha così assunto tutte le competenze fondamentali nel setto-

Incidenza della spesa per i trasporti e le comunicazioni sulla spesa corrente totale nel 2018 25 20

in %

Il Ticino fa tradizionalmente parte dei cantoni alpini e periferici la cui storia e sviluppo socio-economico si intrecciano con l’evolvere delle vie di comunicazione, la cui realizzazione ha comportato tanti sacrifici finanziari così come ne ha plasmato in tempi e modi diversi anche l’organizzazione territoriale e il paesaggio. La competenza per la costruzione e la gestione della rete stradale è stata assunta in modo esclusivo dai cantoni sin dall’adozione del Patto federale del  e tale è sostanzialmente rimasta fino all’adozione della Costituzione federale del . Da allora lo stato centrale, attraverso la concessione di sussidi, ha giocato un ruolo maggiore ma comunque circoscritto al supporto dei cantoni e solo per interventi sulle vie di transito rilevanti per gli interessi generali del paese, a lungo declinati prevalentemente nell’ottica della difesa nazionale. Pur nell’alternarsi alla guida del paese di governi conservatori e liberali, l’obiettivo di unire le varie regioni e di disporre di vie di comunicazione efficienti verso l’esterno è stata una costante preoccupazione e un compito prioritario. La spesa pubblica nel settore è così stata massiccia. A partire dalla fine degli anni ’ del secolo scorso si è manifestato un progressivo rafforzamento delle competenze della Confederazione con l’avvio della pianificazione della rete

15 10

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re, promuovendo pure la nazionalizzazione delle imprese rilevanti ai fini della creazione di una rete di valenza nazionale, compito affidato alle neocostituite Ferrovie federali svizzere (FFS). Solo a partire dal  i cantoni, sono stati chiamati a sostenere la Confederazione per la concessione di contributi agli investimenti e per la copertura dei disavanzi delle cosiddette imprese concessionarie, che operavano sul piano regionale e che erano state inizialmente promosse da privati, per poi aprirsi anche alle partecipazioni degli enti pubblici. Una riforma entrata in vigore nel  ha poi ampliato il sostegno finanziario dei cantoni anche ai servizi autopostali, gesti-

ti fino al  dalla regia delle Poste, telefoni e telegrafi (PTT) per poi essere affidati a una struttura giuridica autonoma (Autopostale SA), e ai servizi regionali esercitati dalle FFS. Nel frattempo è progressivamente cresciuto l’interesse dei cantoni a svolgere un ruolo più attivo nella definizione delle reti e dei servizi sul piano locale e regionale, ciò che ne ha pure determinato una maggiore compartecipazione finanziaria. L’evoluzione qui tracciata in modo estremamente sommario, si riflette anche nei dati della spesa pubblica che è interessante osservare in un confronto intercantonale. Prendendo come riferimento il , anno per il

quale sono disponibili i dati più aggiornati pubblicati dall’Amministrazione federale delle finanze, si constata che il Ticino registra un’incidenza del settore dei trasporti e delle telecomunicazioni pari al ,% rispetto al totale della spesa complessiva. Si colloca così in una posizione mediana rispetto agli altri cantoni. Nel corso degli anni l’impatto di questa voce di spesa, pur rimanendo cospicuo in termini assoluti, si è costantemente contratto in termini relativi. Nel confronto intercantonale il Ticino, un tempo annoverato a pieno titolo con Uri, Vallese e i Grigioni nel drappello dei cantoni prettamente alpini, è scivolato più in basso nella graduatoria e fa ormai compagnia a cantoni urbani o situati sull’Altipiano, come ad esempio Zugo, Argovia, San Gallo e Basilea Campagna. Nel  la quota delle spese per i trasporti pubblici rispetto al totale delle risorse destinate ai trasporti e alle comunicazioni ha toccato il ,%. Nella graduatoria intercantonale essa è ancora relativamente contenuta rispetto a buona parte degli altri cantoni, ma certamente non più marginale come un tempo. Lo si vedrà meglio allorché si disporranno dei dati statistici per il  e gli anni seguenti, che esporranno gli effetti dei servizi attivati con l’apertura della galleria di base del Ceneri. Annuncio pubblicitario

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SOCIETÀ / RUBRICHE ●

Approdi e derive

di Lina Bertola

Quando la politica interpella l’etica ◆

Mi è capitato spesso di far notare ai miei studenti che nella storia della filosofia la definizione del pensiero politico è sempre stata associata a un’altra parola, a un altro concetto, da anteporre al termine politico. Quale sarà questa parola, chiedevo loro. La risposta era sempre un silenzio assordante, accompagnato da sguardi perplessi per una domanda così strana. Quando poi svelavo l’arcano e nominavo il pensiero etico-politico, le reazioni erano molto spesso del tipo: ma che cosa c’entra l’etica con la politica? Penso che questa loro ricorrente domanda debba farci riflettere sulla diffusa percezione di una politica priva di rimandi all’etica. Certo, la storia della filosofia mostrava loro questo legame. Hobbes non avrebbe potuto proporre il suo Leviatano, lo stato forte e assoluto, se non l’avesse fondato su ragioni etiche, su una riflessione sui valori necessari per una convivenza pacifica

a partire da una visione della natura umana piuttosto cruenta, così ben immortalata nell’homo homini lupus. Anche Locke, per capovolgere questa prospettiva, si affida a una riflessione etica, a una visione più serena della natura umana, e a nuovi valori della convivenza, che vanno a nutrire la sua celebre lettera sulla tolleranza del . Non so se questi e molti altri esempi storici abbiano convinto gli studenti. Ho avuto spesso la sensazione che nonostante le conoscenze acquisite, guardando al loro presente, l’immagine della politica non ne uscisse molto arricchita. Una simile visione disincantata della politica si accompagna spesso alla percezione della fragilità delle nostre democrazie. Ci sono tuttavia situazioni in cui il rapporto tra etica e politica emerge in modo potente. Mi riferisco, ad esempio, all’imminente votazione sulla modifica della legge sui trapianti che vuole introdurre il mo-

dello del consenso presunto nella donazione di organi. Non entro nel merito del tema in votazione, molto dibattuto in queste settimane. Mi limito a osservare che la politica ci pone di fronte a una scelta che ci interpella in prima persona sui valori, o meglio sulla radice stessa di ogni valore che abita le nostre coscienze. Ci interpella sull’intimo sentimento del vivere e del morire, sulla percezione del corpo, e sull’autentico significato del donare. Ecco che allora proprio dalla politica nasce la domanda etica: una domanda che può aiutare ad orientarci, come una bussola un po’ speciale, discreta, che non vuole indicare alcuna meta ma semplicemente accompagnarci nell’esplorare il nostro paesaggio interiore. A cominciare dal sentire ambivalente con cui percepiamo il nostro abitare il corpo. Abbiamo un corpo ma nello stesso tempo siamo un corpo. L’immagine del corpo macchina descritta da Cartesio

ha portato fin dentro la nostra pelle la progressiva oggettivazione del mondo. Abbiamo un corpo, qualcosa di prezioso cui prestare attenzione, una presenza di cui è necessario prendersi cura per cercare di star bene al mondo. D’altra parte, però, siamo il nostro corpo: il corpo è il teatro delle nostre emozioni, di sofferenze e gioie, è un linguaggio forte e intenso che racconta la nostra esperienza e la nostra identità. Come coniugare in modo armonioso queste due presenze, quella dell’essere e quella dell’avere? Credo sia questa la domanda che apre il nostro cammino interiore alla questione fondamentale, ovvero al senso del donare. Anche qui la domanda etica ci suggerisce di esplorare le nostre ambivalenze. Il donare è pura gratuità, un sentimento difficile da coniugare con la logica dominante del calcolo utilitaristico con cui siamo spesso chiamati a giustificare le nostre scelte.

Perché dono? Perché potrebbe succedere anche a me? Qui l’appartenenza all’umanità, che ispira il legame donativo, appare piuttosto uno specchio narcisistico, figlio dell’individualismo utilitaristico. Lo spirito del dono, ribadisco, è pura gratuità, devo perché devo, pura finalità, radice autentica del legame. Credo sia davvero importante educarci allo spirito del dono, riuscire a percepirlo nella sua essenza, per resistere a queste ambivalenze che sporcano le nostre scelte. È importante riuscire ad assumere una modalità dell’esistenza che sappia davvero riconoscere e coltivare la gratuità. Solo così la scelta di donare può iscriversi nella ripetizione di quel donare la vita che la rinnova a ogni nascita. Un gesto che apre al valore cosmico dell’esistenza, oltre i confini del mio corpo e del mio tempo. Una vera priorità etica, sollecitata oggi da una scelta politica.

Terre Rare

di Alessandro Zanoli

Dubbi digitali ◆

Non succede spesso di incontrare voci critiche, fuori dal coro, quando si parla di nuove tecnologie. Effettivamente nel mondo che ci circonda è più facile trovarsi immersi nella corrente degli entusiasmi (per i nuovi ritrovati della tecnica, per gli sviluppi possibili, per le opportunità di miglioramento e ottimizzazione dei processi), che nel flusso delle perplessità. Gli attori del mondo economico, in particolare, sembrano perfettamente convinti della bontà della «via digitale» intrapresa. Noi, come normali utenti, è un po’ come se ci fossimo rassegnati, presi per sfinimento nella corsa in avanti delle procedure informatiche. (A proposito: avete capito che da settembre non ci saranno più bollettini di pagamento alla Posta, ma si dovranno usare obbligatoriamente dei QR code? Sapete già come si farà?). Per questo, quando ci capita tra le

mani qualche seria pubblicazione che si impegna nella critica della società digitale, confortando un po’ le nostre ritrosie e resistenze, ci sentiamo in parte riconciliati con il buonsenso. Un certo sollievo ce l’aveva dato tempo fa il bel libro di Christian Rocca Chiudete Internet. Una modesta proposta (si veda «Azione » del ..). Un recentissimo lavoro altrettanto interessante è L’ultima ideologia di Gabriele Balbi, uscito di recente da Laterza. Mentre chi scrive lo stava leggendo (naturalmente sull’iPad…) è apparsa in alto sullo schermo una notifica, cioè una di quelle notizie flash che inviano oggi i quotidiani online. Nel messaggio si diceva: «I militari ucraini stanno fotografando i volti dei soldati russi uccisi in combattimento e grazie alla tecnica di riconoscimento facciale inviano ai poveri parenti ignari la noti-

Le parole dei figli

fica del decesso: è una misura di guerra informatica che vuole mostrare ai russi quanto il loro governo stia manipolando l’informazione legata alla guerra in Ucraina». La perentorietà e sconvolgente drammaticità della notizia si sovrappone all’articolata e argomentata disquisizione di Balbi, che è professore associato della facoltà di Scienze della comunicazione dell’USI. Il ricercatore con il suo studio vuole richiamare la nostra attenzione sulla forte componente ideologica (e manipolatoria) che sottostà al concetto ormai universalmente accettato di «rivoluzione digitale». D’altro canto, la notizia che arriva dallo scenario di guerra ci mostra come le tecnologie digitali siano ormai penetrate nella nostra realtà e rende chiaro, con una crudezza inusitata, quanto la trasformazione avviata sia impossibile da fermare. Possiamo

discuterne, magari capire cosa è successo, ma niente più di così. La lettura del libro quindi, un volumetto che vuole aiutarci a esercitare un po’ di spirito critico, risulta a questo punto leggermente anacronistica. La consigliamo chiaramente a tutti coloro che volessero avere argomenti a disposizione per una riflessione approfondita sul tema. Di fatto ci sembra che libri come questo e come quello di Rocca non abbiano grande possibilità di incidere sulla realtà. Sono lavori meritevoli di attenzione, senza dubbio, perché ci aiutano a guardare con occhi più consapevoli a quella che è stata definita «una rivoluzione»: Balbi ci spiega che, come tutte le rivoluzioni, quella digitale porta con sé i suoi punti oscuri e le sue contraddizioni violente. Detto questo, a noi lettori del libro resta però da affrontare la realtà quotidiana: la

tecnologia è ormai veramente la nostra vita, in qualsiasi modo essa venga considerata, e l’uomo non potrà fare altro che continuare a svilupparla perché questa pare la sua capacità più spiccata, dall’atto della creazione della ruota in poi. Resta senz’altro vero che occorre in noi utenti una sempre maggiore coscienza degli effetti che il nostro comportamento produce sull’ambiente che ci circonda. Da qui bisogna, secondo noi, ripartire: sarebbe bello scoprire libri che ci aiutino a fare un vero bilancio «ecologico», e, perché no, magari anche «psicologico», dello spazio da dare alle tecnologie nella nostra giornata. Indicazioni semplici, concrete, fatte di un buonsenso (ecco di nuovo la parola chiave) utile per noi e per il nostro mondo. È un lavoro tutto da avviare. Qualcuno ha qualche buon suggerimento?

di Simona Ravizza

Ansia ◆

«Mamma ho l’ansia!». È una Parola dei figli che gli Gen Z ci consegnano sempre più di frequente. Il rischio è che noi adulti – che un po’ ci siamo dimenticati come ci sentivamo alla loro età, un po’ siamo concentrati su questioni che consideriamo più serie, un po’ pensiamo che sia una parola detta tanto per dire perché i problemi sono altri e solo nostri – non le diamo il giusto peso. Sbagliato. Per lavoro ho di recente moderato delle lectio magistralis della preside del liceo scientifico Einstein di Milano Alessandra Condito e del presidente dell’Associazione Laboratorio Adolescenza Maurizio Tucci. E sulla mia scrivania c’è ormai una pila di studi sul malessere emotivo degli adolescenti tra i  e i  anni: uno della onlus Soleterre dello psicoterapeuta Damiano Rizzi, un altro condotto da scienziati di Unisanté per conto dell’Unicef (con

il sostegno della Z Zurich Foundation e di Zurich Svizzera), un altro ancora di Pro Juventute. L’ultimo è del  aprile: i dati raccolti su un campione di  studenti delle superiori con un sondaggio promosso dal Sindacato indipendente degli studenti e apprendisti (Sisa) tra i mesi di gennaio e marzo ci dicono che / della popolazione studentesca riporta la presenza di sintomi depressivi dal grave al molto grave. La lista potrebbe continuare. C’è poi l’esperienza diretta, scandita dagli sfoghi delle mie amiche con figli enni e anche dai racconti di mia figlia della stessa età. Dal report di Soleterre emerge che il ,% degli intervistati si sente giù più della metà dei giorni; da quello dell’Unicef che il % accusa sintomi di disturbi d’ansia e/o depressione, uno su tre dichiara di avere poca autostima e il % non parla con nessu-

no dei propri problemi; le cifre di Pro Juventute mostrano che il numero di «contatti urgenti» al .ch nel  è aumentato di quasi un terzo rispetto all’anno precedente. Insomma, i numeri possono leggermente cambiare ma tutto conduce nella stessa direzione. Con adolescenti che hanno anche problemi ad addormentarsi e a dormire bene (e la conseguenza è che poi sono stanchi e demotivati). Così Le parole dei figli ci consegnano un quadro che da genitori non possiamo ignorare. Oggi più che mai, perché alle difficoltà che l’adolescenza porta con sé in quanto tale si aggiungono gli effetti della pandemia. Ragioniamoci su: a - anni ci sono tutti gli scombussolamenti del corpo che cambia, i primi impulsi sessuali, la voglia di piacere e la paura di non essere abbastanza. È il momento in cui giustamente si rivendicano le pri-

me libertà, il volersela cavare per dimostrare di essere in grado di farcela senza mamma e papà: ma allo stesso tempo c’è l’insicurezza di chiunque è chiamato a muovere i primi passi da solo. Spesso si aggiungono le aspettative narcisistiche dei genitori da soddisfare, che per forza di cose vanno strette a chi è impegnato a scoprire la sua strada. Il desiderio è di avere una propria personalità, ma non sempre è chiaro quale sia, poiché tutto è in movimento. E il Covid ha minato la socialità, modificato il rapporto con gli amici considerati gli unici in grado di capire quel che passa per la testa, fatto aumentare la vita digitale. C’è chi in questo contesto ha dovuto fare i conti anche con i conflitti familiari resi più duri dal lockdown. Con l’invasione della Russia in Ucraina si aggiunge una guerra nel cuore dell’Europa:

immagini choc, il timore del nucleare. È evidente che la resilienza degli adolescenti è messa a dura prova. Sono gli stessi ragazzi che più volte su queste colonne abbiamo incensato per la loro sensibilità, l’attenzione ai diritti civili, la serietà nell’autolimitare le loro uscite per proteggere gli adulti per i quali il Covid può avere conseguenze più gravi, la capacità di reinventarsi le giornate chiusi in casa. Dopodiché dobbiamo anche capire che tutto questo lascia delle ferite. Ecco, almeno evitiamo loro quella di non farli sentire capiti: «Voi adulti manco ve ne rendete conto!», denunciano i giovani del Sisa. Un’accusa che non possiamo ignorare. Non vuol dire compatirli, ma cercare di essere un po’ empatici. Ben sapendo che qualsiasi cosa facciamo rischia di essere comunque male interpretata e considerata sbagliata. Ma almeno proviamoci!


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TEMPO LIBERO Dolce Transilvania sassone L’orgoglio dei nuovi abitanti per un’eredità culturale che resterà alle future generazioni

In campo con il fisioterapista Ad accompagnare alla Coppa Svizzera i giocatori del FC Lugano ci sarà anche Tommaso Leone

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azione – Cooperativa Migros Ticino 13

La vivacità della Franciacorta L’area lombarda che ha saputo ritagliarsi un importante spazio internazionale nella vitivinicoltura

Crea con noi Un’idea originale per decorare le pareti di casa con dei sottopentola di sughero e tanta fantasia

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Manuela Mazzi

È mattina, sera o sono le due del pomeriggio?

Un visibile narrare ◆ Dedicare attenzione ai registri linguistici, una parte fondamentale della forma, ci aiuta a dare forza al contenuto, senza costringerlo in un contenitore che non gli si addice Manuela Mazzi

Di albe e tramonti abbiamo già parlato in un primo articolo dedicato agli appassionati della cosiddetta (per convenzione) «scrittura creativa amatoriale» (v. «Azione» del  gennaio ). Con questa serie di approfondimenti ci preme sovrapporre la fotografia alla scrittura, per suggerire approcci diversi, quali esercizi, oppure per generare riflessioni circa il modo in cui fruiamo di immagini e testi. Come si diceva, nella ricerca di un proprio sguardo, ci si può esercitare partendo non solo dall’osservazione dell’immagine ma definendone o manipolandone il contenuto attraverso la scelta delle parole, delle forme di scrittura, del ritmo delle frasi. Il tramonto può essere descritto in più modi: «…o Sole; et tu pur fuggi, et fai d’intorno» (Petrarca). «I cieli infuocati». Quelle «robe lì», «robe belle». Abbiamo qui usato tre registri linguistici diversi: uno «alto» (elevato), uno «medio», uno «basso» (semplice). Non a caso, perché questa è una parte fondamentale nello studio degli stili di scrittura. Più comunemente, per mostrare la distinzione tra i tre livelli di stile linguistico si usa una sola serie di singole parole, più che un’espressione: volto, viso, faccia possono portare a una più immediata comprensione.

Quella che viene chiamata «dottrina degli stili» ha radici antiche e si rifà a trattati di retorica che qui evitiamo di menzionare, anche perché si trovano citati ovunque altrove. Basti sapere che la scelta delle parole – ma anche delle espressioni, e nondimeno pure la scelta delle immagini che proponiamo – stabilisce lo stile delle nostre opere, e dunque anche la loro fruibilità e il loro posizionamento. Non è nuova la dicotomia tra opere di intrattenimento e opere che aspirano a un valore più artistico. Normalmente si attribuisce un maggior valore all’espressione artistica, rispetto alla fruizione meno impegnativa delle opere che si propongono come svago. Per quanto ci riguarda sono due contesti separati di uguale portata, semplicemente hanno obiettivi diversi e non per questo di maggior o minor valore. Il problema è che tale «pregiudizio» ha creato una schiera di aspiranti autori che, pur desiderando scrivere opere di intrattenimento per il grande pubblico, tentano di impiegare un linguaggio aulico (con l’uso di un lessico arcaico) nella speranza di dar valore artistico a quanto producono (in buona sintesi per non apparire come autori di serie «B»), come se il registro

linguistico apparentemente alto, e in tal senso ci riferiamo a quello antico e imbellettato, possa dar lustro al contenuto dei loro romanzi. Ma chi vorrebbe leggersi, oggi, un giallo scritto come scriveva Petrarca? (Si esagera, eh). Come affrontare questo tema pensando alla fotografia? Cioè ragionando per immagini? Da arte ad arte, il concetto contenuto-stile ci potrebbe riportare ad esempio all’uso o alla rinuncia del colore: per molti, infatti, il bianco e nero (pur essendo il “vecchio linguaggio” originale) fa ancora oggi tendenza artistica perché, così si dice, esprimere senza i colori la stessa emozione, denoterebbe grandi competenze e bravura, e non perché il colore non sia un importantissimo veicolo di informazioni, ma perché il gioco tra morbidezza e durezza delle ombre del bianco e nero, ha una gamma maggiore di sfumature rispetto a quelle che «tecnicamente» sono ottenibili con il colore, così spiegava Henri Cartier-Bresson nel suo libro L’immaginario dal vero). Secondo Ferdinando Scianna, inoltre, «il bianco e nero ha sviluppato una capacità di immaginazione linguistica che ci permette di mettercelo noi, il colore». Eppure: siamo sicuri che la perdita di informazioni, davanti a un tramon-

to o a un’alba ripresi in bianco e nero, non sarebbe in questo caso deleteria? Come stabilire l’ora dello scatto? La risposta è nota ai fotografi: le ore «colorate» del giorno sono dette «ore blu» e «ore d’oro» proprio perché la ricchezza dei colori non è sostituibile dalle sfumature di grigio che tendono per l’appunto a non far comprendere a quale ora del giorno la foto sia stata presa. Il bianco e nero, per contro consente di approfittare di molti altri momenti della giornata, anche in presenza di forte pioggia, condizione notoriamente difficile da gestire a colori. «Il contenuto – spiegava ancora Cartier-Bresson – non può mai essere disgiunto dalla forma». Molti autori letterari tendono tuttavia a favorire la «forma» annunciando il loro totale disinteresse per il contenuto. E con ancora maggior effetto talvolta imbarazzante, molti aspiranti di narrativa d’intrattenimento, come si diceva, tendono a scrivere adottando impunemente una «bella scrittura» che nulla ha che fare con uno stile ricercato e attuale, o con una voce interessante, ma che suona solo come lingua antiquata, cioè che ha fatto il suo tempo, e inefficace (il simil vintage nella letteratura non ha generalmente grande successo).

Per questo ci pare fondamentale tenere sempre in considerazione entrambe le parti, non davvero per poter «informare», non per veicolare messaggi precisi, ma perché di fronte a un qualsiasi contenuto, pure se incomprensibile a priori (come una semplice divagazione, una pausa, un’inquadratura vuota), per poterlo rendere al meglio, per potergli permettere di esprimere il suo massimo potenziale, esso necessita di una minima considerazione. E questo vale a maggior ragione quando scriviamo ad esempio semplici lettere (la forma burocratica è altro da quella sentimentale, al lettore il compito di individuare tra questa e quella le mille altre sfumature), o quando scattiamo una foto di famiglia (dicono che i ritratti in bianco e nero siano sempre eccezionali, ma ne siamo sicuri?). Ciò non significa che non si possa aspirare a scrivere romanzi d’intrattenimento con una voce autoriale, ma il contrario: la voce autoriale non è giocoforza legata a un alto registro linguistico; ed è pur vero che non necessariamente bisogna concentrarsi sui tramonti; non sarebbe male ad esempio appoggiare invece uno sguardo diverso sulle cose del mondo, micro o macro che siano prima di scegliere la forma con cui raccontarle.


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TEMPO LIBERO

Una scheggia dimenticata d’Europa Reportage

Dolci colline transilvaniche, campanili gotici, tetti rossi e mestieri perduti

Enrico Martino, testo e foto

La Transilvania sassone è uno di quei luoghi, sempre più rari, dove non ci si stancherebbe mai di ritornare. Lungo la via incantata è il titolo di un libro cult dell’inglese William Blacker, folgorato all’inizio degli anni Novanta da una Transilvania ancora sospesa tra la fine dell’era Ceausescu e una globalizzazione prossima ventura. Ancora oggi in uno zigzagare svagato di colline un immaginario collettivo dark di tenebrosi castelli, pipistrelli e vampiri esangui evapora nella dolcezza di paesaggi punteggiati da campanili gotici che emergono da grappoli di tetti rossi. Oltre centocinquanta chiese fortificate, delle circa trecento costruite tra il tredicesimo e il sedicesimo secolo, raccontano l’epopea quasi sconosciuta di un Far East medioevale popolato da contadini-soldati chiamati dai re d’Ungheria per difendere i confini orientali del loro regno dalle invasioni di tartari e ottomani, regolari come il succedersi delle stagioni. E così molte famiglie della Renania e della Mosella avevano caricato le loro poche cose sui carri per venire a giocarsi un futuro diverso su questa frontiera turbolenta. Oltre nove secoli dopo, con la caduta di Ceausescu, quasi tutti i loro discendenti sono tornati nella patria di origine, la Germania, ma nel cuore dei Siebenburger, «le Sette Città fortificate», è sopravvissuto un patrimonio straordinario che molti temevano perso per sempre quando i sassoni sono stati sostituiti da una popolazione prevalentemente romena e rom priva di radici e memoria di questo passato. Invece, per una volta, è successo un piccolo miracolo, decine di villaggi con oltre un migliaio di progetti di restauro, quattrocento artigiani che hanno recuperato mestieri perduti, più di ottanta guest houses per un turismo sostenibile diffuso. Il vero motore però è l’orgoglio dei nuovi abitanti per un’eredità culturale che non è loro, ma che resterà per le future generazioni, «se vogliamo salvare gli edifici dobbiamo riportarvi la vita perché un monumento vuoto non sopravvive». Ne ha fatta di strada Carolina Fernolend che ai tempi di Ceausescu sognava di andare a vivere in Germania, una dei ventisette sassoni rimasti nel villaggio di Viscri. Due file di case color pastello, un silenzio rotto solo dallo starnazzare di oche indignate per il cigolio di carri ancora trainati da cavalli, e un centro di gravità annidato nel cuore di un piccolo bosco, la Deutschweisskirch, la «Chiesa bianca tedesca» che ha dato persino il nome al villaggio. Un luogo sospeso nel tempo che in una sera d’estate si popola di famiglie; con una mano tengono i bambini con l’altra le

Biertan è uno dei più importanti villaggi sassoni con chiese fortificate dellaTransilvania; al centro, un tempo villaggio sassone, oggi la popolazione di Viscri è a maggioranza rom, con pochi rumeni, e una ventina di tedeschi; in basso, la chiesa fortificata luterana di Viscri.

scarpe della festa da indossare prima di entrare e ascoltare la musica di Bach che scivola tra i banchi di legno illuminati solo dalla luce struggente di un candeliere. «Se ci penso forse tutto è iniziato quando, da bambina, chiedevo a mia nonna come fosse possibile che in un paesino così piccolo si fosse costruita una chiesa simile. Lei mi aveva spiegato che prima di sposarsi le coppie dovevano portare un carretto di pietre, è così che hanno costruito le chiese fortificate, era il modo di pagare il prete» ricorda Carolina. «Quando il regime è crollato, in tre mesi la maggioranza dei nostri vicini è emigrata in Germania, così ho pensato che salvare questo patrimonio creato con enormi sforzi fosse un dovere verso le generazioni future». A dirla così sembra semplice, ma anche solo per provarci ci voleva un’ottimista inguaribile come lei. «Nel  ho incontrato una signora inglese, Jessica Douglas-Home, che mi ha promesso di portare in Transilvania il principe Carlo. Io non ci credevo ma cinque anni dopo me lo sono trovato davanti e gli ho raccontato che Ceausescu voleva distruggere oltre ottocento villaggi tra cui il mio, ma dodici anni dopo, nel , Viscri

era diventato un Sito Unesco. Alla fine il principe ha accettato di diventare il nostro testimonial». Da allora Carolina è vicepresidente del Mihai Eminescu Trust fondato nel  in Gran Bretagna per salvaguardare il retaggio culturale sassone e Carlo, che ama ricordare di avere sangue transilvano grazie a una bisnonna, ha addirittura comprato una casa e aperto una piccola guest-house a Viscri, proclamata dal «Guardian» una delle più belle destinazioni della Romania. «Siamo partiti da interventi appa-

rentemente piccoli come rifare le facciate perché i nuovi proprietari diventassero orgogliosi delle loro case ma dobbiamo creare un’economia sostenibile – dice Carolina – perché non vogliamo che il turismo ci detti un modello di sviluppo». Alla fine di una lunga strada sterrata un filo di fumo porta all’ultimo carbonaio del villaggio di Alma Vii. Zoltan ha deciso di non emigrare continuando un mestiere antico e passa le sue giornate in una radura perché «il legno è come gli uomini, non sai mai

Alma Vii, le strade di campagna intorno al villaggio sono solo per fuoristrada o cavalli.

come si comporterà e bisogna controllarlo ventiquattro ore al giorno». A Mălâncrav il MET ha restaurato gli affreschi gotici più belli della Transilvania, ma ogni chiesa fortificata ha un’anima diversa. A Richiş un coniglio saltella indisturbato davanti a un portale, prima di scappare nell’erba mentre una ragazzina mi apre una chiesa contadina piena di vecchie bibbie, capitelli scolpiti, e silenzi. A Moşna l’intimità del mare di lenzuola davanti alla casa del custode contrasta con le mura di un bianco quasi accecante dei villaggi fortificati di Prejimer e Harman che nascondono alveari di camere dove la popolazione cercava rifugio durante gli assedi. Una corona di torri appuntite annuncia una Camelot sassone, la chiesa di Biertan Patrimonio dell’Umanità Unesco e roccaforte di austeri vescovi luterani che dai loro sarcofagi di pietra guardano accigliati i visitatori. Tra le navate gotiche stendardi feriti dal tempo raccontano l’orgoglio di corporazioni che custodivano i loro tesori in una sagrestia protetta da un chiavistello così complicato da vincere il primo premio all’Esposizione Universale di Parigi del . Nella vicina Torre della Prigione invece le coppie che volevano divorziare venivano rinchiuse per due settimane, con un letto e un coltello per facilitare la scelta, con successo perché risulta un solo divorzio in tre secoli. Per secoli l’epicentro di questo mondo è stato Schassburg, la cittadella di Sighisoara dove – non lontano dalla casa natale di Vlad Tepes, principe di Valacchia, impalatore seriale e ispiratore del Dracula letterario – in una birreria un’attempata cantante intona con un filo di voce «Je ne regrette rien» («Non rimpiango nulla»), come le chiese sassoni sopravvissute ai tartari e a Ceausescu. Per dare un’altra opportunità a nove secoli di storia. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.


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Dalla Franciacorta all’Oltrepò Bacco Giramondo

Continua il viaggio nella Lombardia vitivinicola

Davide Comoli

La produzione vinicola della Lombardia non è certo importante come in altre regioni d’Italia, ma in questa area geografica che è la Franciacorta, formata da piccoli colli e ampie vallate situate a sud del lago d’Iseo (l’antico Sebino) e a est della provincia di Bergamo, ha saputo ritagliarsi un importante spazio internazionale nel mondo vitivinicolo grazie a un vivace dinamismo. Il «miracolo» Franciacorta è il risultato ottenuto grazie alla lungimiranza di produttori seri e motivati, dotati di grande energia, ma soprattutto innovazione. Inoltre il visitare i vigneti sparsi tra i vari villaggi, il degustare i vini nelle innumerevoli cantine situate talvolta all’interno di storici edifici, ci portano a rivivere le origini magistralmente raccontate da Gabriele Archetti nel suo Le origini della Franciacorta nel Rinascimento Italiano. Noi la «storia» delle bollicine della Franciacorta la troviamo nelle Cantine Guido Berlucchi a Borgonato di Corte Franca, con Paolo Ziliani che davanti alla mitica «numero uno» imbottigliata nel , ci racconta come è nato il mito Franciacorta, prima di passare a una indimenticabile e conviviale degustazione dei vari Brut, Rosé, Satèn e infine ai Millesimati. Il nostro itinerario continua in direzione di Brescia dove, costeggiando le colline, s’incontrano dei gruppi rocciosi che fan da corona al capoluogo di provincia. Sui ridenti colli intorno a Gussago, dove i terreni sono composti da un misto calcareo-argilloso con mescolanze di fanghiglie ereditate da diverse epoche geologiche, troviamo la D.O.C. Cellatica che produce vini rossi di buona sapidità e struttura dai vitigni Barbera, Schiava, Marzemino, Sangiovese e Incrocio Terzi (incrocio tra Barbera e Cabernet Franc). Sono vini ottenuti da uvaggi tra i vitigni sopracitati, da bersi abbastanza giovani che accompagnano piatti semplici durante le scampagnate in collina. A sud di Brescia potete trovare la D.O.C. Capriano del Colle, do-

ve vengono prodotti interessanti vini bianchi, elaborati dal Trebbiano di Soave e un passito ottenuto dal semisconosciuto vitigno Invernenga. Scendendo verso il lago di Garda, tra i comuni Rezzato e Botticino, troviamo la D.O.C. Botticino, dove gli stessi vitigni rossi di cui abbiamo accennato, grazie al fortunato matrimonio con il terreno argillo-calcareo, talvolta marnoso, danno origine a vini dai profumi vinosi, intensi, caldi e giustamente tannici, il completamento ideale per una veloce merenda con salumeria e formaggi mediamente stagionati. La strada che ci porta verso Desenzano del Garda, ci ricorda che fin dai tempi antichi, grazie alla barriera delle Dolomiti che frenano i venti freddi, al lago di Garda veniva dato l’appellativo di «lago benefico» (Benacus), tant’è che le sue rive furono luogo di soggiorno per personaggi del calibro di Plinio, Virgilio, Strabone, Catullo. L’area collinare compresa tra Desenzano e Salò, tappezzata da ulivi e vigneti prende il nome di Valtènesi, orgoglio della zona è il Garda Classico Chiaretto, ottenuto da uve Groppello, Sangiovese, Barbera, caratterizzato dal colore rosato, dai profumi di rosa, viole, fragoline di bosco e lamponi; molto interessante è anche il rosso Garda Groppello, ottenuto da vitigno omonimo con il piccolo aiuto di Marzemino e Barbera, dotato di intriganti profumi floreali e fruttati. Da Desenzano, riprendiamo la S in direzione di Castiglione delle Stiviere in provincia di Mantova, cittadina dall’illustre passato, per ritornare verso Solferino. Questo circuito a sud del Garda è formato da cordoni collinari concentrici. La sua posizione ne ha fatto nel corso della storia un territorio punteggiato da strutture difensive. Dal punto di vista enologico siamo nella D.O.C. interregionale del Garda, dove si producono vini di pronta beva, ottimi per allegri convivi. La sera ci trova nei pressi di San Martino della Battaglia, uno dei luo-

Soriasco, frazione del comune di Santa Maria della Versa, in provincia di Pavia. (Terensky)

ghi simbolo del Risorgimento italiano, un ottimo Lugana (qui chiamato Turbiana) e un piacevole Marzemino leggermente frizzante. Al mattino di buon’ora imbocchiamo l’A posta a , km e alla periferia di Brescia entriamo sulla A dove usciamo a Stradella, siamo nell’Oltrepò Pavese. Questa è una terra generosa, ricca di una vasta gamma di vitigni, capace di produrre vini bianchi fermi, spumanti secchi e dolci, vini rossi sia da bere giovani sia da invecchiamento. Da Stradella prendiamo la SS e raggiungiamo Broni passando per l’antica via Emilia, consigliamo questa cittadina come punto di partenza per un giro tra i vigneti dell’Oltrepò. A sud-ovest, immerso in un paesaggio collinare, dove i crinali sono coperti dalla vite, si arriva a Canneto Pavese, che con Montescano, Castana e Pietra de’ Giorgi, è la patria del Buttafuoco (Barbera, Croatina e Ughetta), lo stesso uvaggio impiegato per il dolce e frizzante Sangue di Giuda.

Dalla provinciale che costeggia la riva sinistra del torrente Versa, circondato da filari di viti, si raggiunte Montù Beccaria, le varie diramazioni ci portano a Santa Maria la Versa, considerata la capitale dello spumante sia metodo classico sia Martinotti, usando i vitigni Chardonnay, Pinot Grigio, Riesling Italico, Riesling Renano, che oltre a esaltare le note fruttate e la loro freschezza, riescono a dare ai vini un’importante nota minerale, il Moscato Bianco, con cui si producono vini dolci, dalle note aromatiche. Una grande attenzione viene data al Pinot Nero a Santa Giuletta, in questa zona viene sfruttato tutto il potenziale di questo vitigno (Oltrepò ne è il maggior produttore italiano), per produrre rossi fermi d’invecchiamento, di grande eleganza, dai profumi di liquirizia. Notevole il metodo classico a cui è dato il curioso nome di Cruasé, ottenuto con macerazione a contatto con le bucce: è uno spumante dal colore rosa salmone, con suadenti sfumature di fragoline, melogra-

no e arance sanguinella, che abbiamo abbinato a delle succulente «tartine con salmone affumicato, formaggio di capra e rondelle di cipolla»; senza dimenticare «da ultimo ma non ultimo», una bottiglia del vero simbolo enologico di questa terra, la Bonarda (Croatina), tipologia ferma, dal profumo di viole, abbinata a uno «stufato di lepre», che vino! Attraversiamo il Po nei pressi di San Zenone al Po, ci siamo diretti verso San Colombano al Lambro, unica D.O.C. in provincia di Milano, dove sulle colline argillose si coltivano gli stessi vitigni dell’Oltrepò, che ne tappezzano la superficie sino a Miradolo Terme. È ispirandosi a questi luoghi che Francesco Redi () scrisse i seguenti versi, che di fronte alla distesa di vigneti prepotentemente ci tornano in mente: «il purpureo liquor del suo bel colle, / cui bacia il Lambro il piede, / ed a cui Colombano il nome diede, / ove le viti in lascivetti intrichi / sposate sono invece d’olmi a’ fichi». Annuncio pubblicitario

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Spogliatoio in bianco e nero

Sport

L’attesa della finale di Coppa svizzera vissuta da bordo campo con Tommaso Leone, fisioterapista del FC Lugano

Matilde Casasopra

Ad accompagnare i bianconeri verso l’attesa finale di Coppa Svizzera (v. articolo di Giancarlo Dionisio, pag. ) ci sarà anche il fisioterapista trentaquattrenne Tommaso Leone. Dopo aver maturato esperienza, dal  al , come fisioterapista sportivo in forza al FC Chiasso, nel mese di ottobre del , Leone è infatti tornato a bordo campo ma questa volta per il FC Lugano, dove affianca un altro fisioterapista e un massaggiatore. Il calcio è lo sport che predilige da quand’era un ragazzino e, quando parla del FC Lugano, gli si illuminano gli occhi. Come fa a conciliare l’attività professionale privata e l’impegno preso con il FC ? Mentirei se dicessi che è semplice. I colleghi del mio studio stanno lavorando bene. Io, dal canto mio, ho settimane che a volte durano  giorni, ma faccio affidamento sul mio «fisico allenato» e sulla mia età. Sono ancora abbastanza giovane, no?

Allenatore, preparatori, giocatori... formano la squadra: «Un infortunio a uno dei suoi componenti è un handicap per tutti» Eppure seguire una squadra che è sulla cresta dell’onda non è uno scherzo. Si è fatto le ossa al FC di Chiasso. Com’è stata questa prima esperienza? Non è stata una passeggiata, questo è certo. Quando ho iniziato la mia attività come fisioterapista al FC Chiasso, nel , l’allenatore era Gianluca Zambrotta, il suo vice Mattia Croci-Torti. A giugno, però, loro se ne sono andati al Lugano. Il massaggiatore è partito con loro. Io invece sono rimasto a Chiasso dove il valzer degli allenatori è di quelli veloci e dove, un giorno del , ho avuto modo di conoscere Guillermo Abascal. A dire la verità mica sape-

vo fosse il nuovo allenatore. Il presidente una mattina mi mise in mano le chiavi della sua auto e mi disse che dovevo andare all’aeroporto di Malpensa per accogliere un giovane in arrivo dalla Spagna. Giovane lo era davvero. Per la precisione aveva un anno in meno di me. Forse anche per questo avevo creduto fosse un giocatore. Solo il giorno dopo, quando fu presentato alla squadra, scoprii che quel «ragazzo» era il nuovo allenatore. La parte bella di quest’incontro è che siamo diventati amici. E con Mattia Croci-Torti? Parlare di amicizia, in questo caso, forse è troppo. Personalmente lo stimo molto. Posso però dirle che, a ottobre , è stato lui a chiedermi se me la sentissi di assumere l’incarico di fisioterapista al FC Lugano. Una proposta che mi ha inorgoglito, ma che pure mi ha costretto a mettere a soqquadro quella vita quotidiana che, con mia moglie Chiara, eravamo ormai riusciti a organizzare. Ci può fare un esempio? Basti pensare alla settimana di Pasqua che ci siamo appena lasciati alle spalle. Il lunedì abbiamo sostenuto una partita a Losanna, il giovedì abbiamo giocato la semifinale a Lugano e la domenica eravamo a San Gallo. Tra una trasferta e l’altra, una serie di infortuni e infortunati da assistere e, nei limiti del possibile, da rimettere in campo. Lo stesso Mijat Marić – uno degli «infortunati di peso» – intervistato a fine partita si è detto stupito di aver resistito per  minuti. Queste, inutile negarlo, per noi dell’«area salute», che lavoriamo negli spogliatoi e a bordo campo, sono delle belle soddisfazioni. Il FC Lugano, come non capitava da anni – precisamente dalla coppa del  – è la squadra del momento. Come vivete – tra spogliatoi e bordo campo – tutto ciò?

La squadra, è vero, è lanciatissima e perciò osservatissima. Come ben sanno i tifosi, spesso però basta un episodio sfortunato per mandare a catafascio una settimana passata a lavorare con grande impegno dentro e fuori il campo. È in questi momenti che ti assale un senso di sconforto e d’impotenza perché fare il fisioterapista, oggi più che mai, è un lavoro a margine col quale si offre al giocatore supporto fisico, ma anche mentale. È difficile da capire, ma anche il giocatore ha le sue paure. Un infortunio può compromettere una stagione, ma anche una carriera. Senza contare che allenatore, preparatori atletici, fisioterapisti, giocatori, magazzinieri, tutti insomma, fanno parte di un gruppo. Una squadra di serie A è un gruppo. Un infortunio a uno dei suoi componenti è un handicap per tutti. Forse, me lo dico spesso, è anche per questo che il fisioterapista è, oggi, super sollecitato e, di questi tempi, lo ammetto, ha qualche motivo di preoccupazione in più. A proposito di preoccupazioni, come vi state preparando alla finale di Coppa svizzera che si giocherà a Berna domenica  maggio? No, non parlerei di preoccupazione, ma piuttosto di attenzione. Per quanto concerne il nostro lavoro (quello dell’«Area salute», ndr) in verità non cambia davvero molto. Aumenta, invece, l’attenzione giornaliera nei confronti dei giocatori, senza però essere insistenti per evitare di creare ulteriore stress mentale. La componente mentale è e resta importantissima e noi cerchiamo di tenere bassa la tensione, pur mantenendo un livello di concentrazione alto all’interno dello spogliatoio. A titolo individuale i ragazzi, soprattutto nei giorni precedenti la partita, saranno invitati a mantenere una buona dieta e adeguati periodi di sonno così da essere al massimo delle potenzialità psicofisiche. Per quanto

Tommaso Leone, fisioterapista in forza al FC di Lugano.

riguarda invece la nostra attività specifica – siccome tutti i giocatori, in questo periodo, hanno una maggiore cura di sé – anche sul fronte della fisioterapia è richiesta un’attenzione superiore: sia con trattamenti passivi (massaggi, terapie specifiche) sia

con trattamenti personalizzati che vanno da esercizi mirati o sedute di stretching e di scarico dei muscoli. Secondo lei come finirà questa stagione? Senza dubbio a suon di goal.

Nome e immagine modificate a tutela della personalità.

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La bacheca fiorita Crea con noi

Un’idea originale per decorare le pareti di casa con i colori della primavera

Giovanna Grimaldi Leoni

Date la preferenza ai colori naturali, bianco, beige, marrone… che valorizzano i vostri fiori. Rivestite i tondi e fissate la stoffa sul retro con una graffatrice oppure se non ne siete in possesso con le puntine da disegno come mostrato in fotografia.

Sottopentole di sughero e materiale di riciclo come magliette, cartoni delle uova e tappi sono i materiali utilizzati per creare questa bacheca fiorita dove esporre e conservare in modo poetico le meraviglie che ci regala la primavera. Un modo per decorare un angolo anonimo di casa in modo assolutamente flessibile e dinamico, creando la composizione che più si adatta alle vostre pareti e cambiando i vari elementi ogni volta che ne avrete desiderio, magari per seguire le stagioni. Procedimento Dalla confezione delle uova ricavate dei piccoli coni ritagliando la parte

Ora personalizzate ogni singolo tondo. . Fissate i piccoli coni utilizzando le puntine. . Incollate i tappi di sughero creando una fila ordinata (potete tirare del nastro adesivo di carta per avere una linea da seguire), e decorateli con un nastro in tinta. . Avvolgete attorno al tondo di sughero dei nastri di vario tipo sempre mantenendo le tonalità del verde.

centrale dei porta uova. Dipingeteli della tonalità di verde che preferite. Tagliate a metà per la lunghezza / tappi di sughero a dipendenza della misura dei tondi che utilizzerete come base (dovete averne a sufficienza da formare una fila che misuri quanto la diagonale del cerchio scelto). Dipingete anche i tappi. Per un effetto più dinamico potete scegliere di farlo con varie tonalità di verde per poi disporli in una sorta di scala cromatica. Decidete quanti tondi volete utilizzare per la vostra composizione e rivestitene alcuni (in questo caso  su ) con del tessuto ricavato da abiti smessi. Allo scopo si prestano molto bene le maglie elasticizzate.

Con un ago grosso o altro mezzo appuntito praticate un buco sulla base superiore di alcuni dei tappi in sughero in modo da poter inserire lo stelo di un piccolo fiore. Fissate i vostri tondi in sughero al muro utilizzando del nastro biadesivo al silicone o del velcro biadesivo (se volete poterli scambiare tra loro in seguito), creando la composizione che preferite. Ultimate l’insieme inserendo i fiori scelti. La vostra bacheca fiorita è pronta. Buon divertimento!

Giochi e passatempi Cruciverba

L’inno nazionale italiano è generalmente attribuito a Goffredo Mameli che in realtà è solo l’autore del testo, la musica... Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 2, 8, 2, 7, 6)

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VERTICALI 1. Producono manufatti industriali 2. Biblico marito di Betsabea ucciso da Davide 3. Questi a Parigi 4. Salire... per prime 5. Sommità 6. Preposizione

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20. Felice 23. La parola più generica 24. Le iniziali dell’Alfieri 25. I raggi del vate 26. Chiosco di giornali

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ORIZZONTALI 1. Un colore 6. È impegnativo leggerlo... 9. Lotto di terreno 10. Orifizi della pelle 12. Si concede ripetendo 13. L’attrice Fey 14. Iniziali del regista Argento 15. Le iniziali del cantante Antonacci 16. Concordia sociale 17. Il mare a Monaco 18. Anagramma di seri 19. Hanno fegato da vendere

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Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Sudoku

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• Tondi in sughero di varie dimensioni • Maglioni/magliette di recupero • Confezione delle uova • Tappi di sughero • Puntine da disegno • Forbici • Resti di nastri/filato nei colori del panna e verde • Pittura acrilica o tempere nelle sfumature del verde • Pennello piatto • Fiori secchi

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

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Materiale

7. Due di noi 8. Rischiare 11. A Londra è il numero uno! 13. Malattie ereditarie 14. Esclamazione di preghiera 16. Catasta di legna per... condannati 17. Le iniziali di una Carlucci conduttrice 18. Frammenti di pietra 21. Articolo 22. Servizio militare di leva 24. Di Non nel Trentino 25. Il cuore degli eroi

Soluzione della settimana precedente LO SAPEVATE CHE… – Il più vecchio… Resto della frase: …PAESE EUROPEO È IL PORTOGALLO.

P A S S I S A L I M E A B R P A E E’ I M P O R O I N O N I N O

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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Viaggiatori d’Occidente

di Claudio Visentin

Meglio degli addominali di Federer, è Netflix ◆

Il nuovo video di Svizzera turismo con Anne Hathaway e Roger Federer è molto piaciuto. L’idea portante è semplice: nessuno può mettere in ombra il meraviglioso paesaggio svizzero, nemmeno le celebrità del cinema (o dello sport). Per l’occasione il re dei tennisti ha mostrato di essere un ottimo attore, anche accanto a una star di Hollywood, e la scrittura dei dialoghi era semplicemente perfetta. La Svizzera si conferma così nel ristretto club dei Paesi più efficaci sul fronte della promozione turistica, con Australia, Nuova Zelanda, Regno Unito eccetera. Anche così tuttavia resta un prodotto tutto sommato tradizionale: non coinvolge il pubblico nella sua realizzazione ed è gerarchico, cioè può solo essere visto ed eventualmente commentato sui social. Più interessante da questo punto di vista è l’esperimento avviato nel giugno

 da Turespaña con Netflix. Durante la pandemia Netflix ha superato i duecento milioni di abbonati (dati ) e sono ovviamente aumentate le ore per utente spese sulla piattaforma streaming. Molti luoghi di Spagna sono conosciuti all’estero proprio attraverso le serie tv più famose, a cominciare naturalmente da La casa di carta. È il cosiddetto cineturismo, in sé niente di nuovo; è ben noto il potere attrattivo ed empatico delle immagini e dei racconti per promuovere il turismo. Per questo da tempo film commission investono risorse anche cospicue per attirare produzioni nel proprio territorio (compreso il Canton Ticino). Ora però Turespaña e Netflix hanno proposto una guida per viaggiare in Spagna in diciassette episodi, uno per ciascuna regione, prendendo ispirazione da una serie tv o da un film Netflix per dare poi spazio ai volti, alle voci e

Passeggiate svizzere

alle storie degli abitanti (spaintravelguide.ethic.es/mapa). In parallelo è stato proposto anche un concorso di cortometraggi rivolto a giovani creativi: «Come diresti che è la Spagna senza dirlo?». La collaborazione rientra in una strategia ben precisa; non a caso Netflix ha aperto proprio a Madrid il suo primo centro di produzione europeo (anche se il quartier generale sarà ad Amsterdam). Anche Enit, l’Agenzia nazionale italiana del turismo, ha sottoscritto un’intesa con Netflix. Naturalmente nel Paese di Vacanze romane, La dolce vita, Camera con vista, Il postino, La grande bellezza non occorre spiegare quanto il cinema possa far bene al turismo. Ma una recente ricerca, condotta da Basis e presentata alla Borsa Internazionale del Turismo (BIT) di Milano, ha provato a indicare numeri precisi. Dopo aver intervistato

un campione della popolazione in sei Paesi (Brasile, Francia, India, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti) i risultati sono stati concordi. Nei Paesi dove Netflix è disponibile, è più facile (+%) vedere film o serie ambientate in Italia. E chi ha guardato questi prodotti è due volte più incline a scegliere la penisola per il prossimo viaggio. Lo stesso divario nelle intenzioni, solo più contenuto (% contro %), si ritrova anche tra chi non è mai stato in Italia sinora. In futuro si cercherà di indirizzare meglio questi flussi internazionali, distraendo l’attenzione dal turisdotto Venezia-Firenze-Roma, già celebrato dal grande cinema nella seconda metà del Novecento, in favore di territori meno conosciuti (e meno affollati). Insomma, spagnoli e italiani sono più avanti di noi nello sfruttamento turistico delle moderne piattaforme onli-

ne. Certo imitarli non sarebbe difficile. Anche la Svizzera è stata celebrata in film famosi (da Agente  – Missione Goldfinger a Una serata a Parigi, film di Bollywood del  al quale si deve tanta parte del nostro turismo indiano) e potrebbe facilmente ospitare più serie tv, magari contribuendo ai costi di produzione (da noi ovviamente più alti che in Spagna o in Italia). Ma nel quadro si alternano luci e ombre. In futuro creatività e promozione turistica potrebbero essere intrecciate in legami sempre più difficili da districare. Quando vedremo uno splendido panorama nella nostra serie preferita, non sapremo mai se quello era davvero lo sfondo per la storia desiderato dagli autori e dal regista o invece una pubblicità nascosta. O forse qualche scritta ci avviserà? «Questo paesaggio è stato sponsorizzato da eccetera eccetera».

di Oliver Scharpf

L’insediamento abitativo Halen ◆

Non c’è miglior momento, in tutta la primavera, per una passeggiatina brutalista. Il beton ora è abbellito dal verde della vegetazione appena rinata e cinguettii a gogo allietano ogni passo. Come adesso domenica primo maggio, salendo a tarda mattina i gradoni tra i primi due blocchi di case della Siedlung Halen ( m). Insediamento abitativo in una radura boschiva a cinque chilometri da Berna costruito, tra  e , secondo i piani dell’Atelier . Studio di architettura fondato nel maggio  da cinque giovani seguaci di Le Corbusier: Erwin Fritz (-), Samuel Gerber (-), Rolf Hesterberg (-), Hans Hostettler, classe , Alfredo Pini (-); ai quali si aggiungono, pochi anni dopo, Niklaus Morgenthaler () e Fritz Thormann, classe , e poi altri ancora negli anni seguenti. Il verde spunta selvaggio dalle mu-

ra in beton a vista slavate, le case si nascondono bene, i cinguettii sono più numerosi del previsto per via del bosco vicinissimo, la prospettiva di questo spazio in salita tra le case con gradoni e lampioni ricorda una casbah. Sbuco nella piazza dove c’è un negozietto, chiuso, oggi. Scorgo, in vetrina, un libro dedicato a questo luogo: Siedlung Halen () di autori vari e il cui sottotitolo è Meilenstein moderner Siedlungsarchitektur. Da un casa di questa «pietra miliare della Siedlungsarchitektur moderna» esce un vecchio con dei baffoni da sceriffo. A piedi nudi cammina pigro sull’asfalto e si siede qui vicino al negozietto, al sole. Riprende la lettura di un libro. Potrebbe starsene nel suo giardino o a letto, invece si trova meglio interagendo nello spazio comune dove delle bambine, forse le nipotine, giocano soffiando i denti di leone. «Pianifichiamo contro l’isolamento»

Sport in Azione

asseriva l’Atelier . Il baffone, in giro a Herrenschwanden, frazione del comune di Kirlindach, a piedi nudi come al mare, è uno dell’Atelier  che ha lavorato a questo «celebratissimo progetto»: come lo definisce Antonio Saggio in un testo uscito sul mensile «Domus». È Fritz Thormann: da una vita abita qui nella casa cinquantatré. «Schön» dice a una bambina che gli porta un mazzo di soffioni. Accarezzo un bel gattone color crema e continuo il mio giro tra i filari di case a schiera che s’innestano nel pendio verso il bosco. Prima però chiedo, alla bambina, il nome del gatto. «Hugo» mi fa tutta contenta del mio interesse. Incantevoli le strisce di terra tra il calcestruzzo – lungo il percorso, fuori dalle case – coltivate il più possibile con erbe aromatiche e fiori ma al contempo lasciate a disposizione di edera terrestre e alcune splendide erbacce.

In un angolo scopro persino giacinti dei boschi arrivati per caso. Una sbirciata profonda coglie il bel patio che introduce ognuna delle settantanove case, suddivise in cinque blocchi. Risalgo quello che porta al bosco e becco finalmente uno degli iconici balconcini bucherellati a scacchiera: omaggio a quelli divorati con gli occhi un’estate anni fa visitando La Cité radieuse () a Marsiglia. Unità d’abitazione seminale inarrivabile di Le Corbusier alla quale, oltre al progetto irrealizzato di Roq et Rob () a Roquebrune-Cap-Martin, si è ispirato molto l’Atelier . Con l’aggiunta ispiratrice, pare, del modulo medievale della città vecchia di Berna. Passo accanto alla piscina vuota e mi rendo conto che la presenza del bosco, senza recinti né siepi negli ultimi giardini, è il punto chiave di Halen, osservato anche in un libro sull’influsso positivo di Halen sui bambi-

ni. Due giovani fanno colazione in giardino e mi salutano con naturalezza. Qui sono abituati e per niente infastiditi dagli studenti di architettura di tutto il mondo o semplici appassionati di passeggiate architetturali che curiosano, ogni tanto, gironzolando tutto intorno. Incontro un gatto grigio che s’intona al tetto in beton scurito. Trovo magnifiche le macchie d’umidità sul beton. Ed è ora di sfatare il contrasto tra beton e natura. Jacques Blumer, arrivato negli anni settanta nel gruppo dell’Atelier , in una conferenza, spiega come il beton sia un materiale naturale composto da sabbia, ghiaia, cemento, acqua; in fin dei conti una pietra. Un gatto nero, su un muro agghindato da un glicine tortuoso, completa il trittico felino di Halen. Dove la critica al sogno americano della casa unifamiliare è vissuta con leggerezza etica.

di Giancarlo Dionisio

Ripartire da 6390 e salire ancora più in alto ◆

Mancano sei giorni alla sfida della svolta. Lugano o San Gallo? San Gallo o Lugano? Chi conquisterà la Coppa Svizzera e di conseguenza l’accesso alla Conference League? Per i bianconeri si tratta di un appuntamento da non perdere. Quest’anno la vittoria conta il triplo, con il nuovo Polo sportivo in viaggio, con un nuovo assetto societario che solletica il palato, e soprattutto con il sottile filo che lega la squadra al suo pubblico, legame che va irrobustito. Tre settimane fa, in occasione della semifinale di Cornaredo, si registrò il «tutto esaurito»:  spettatori, tanti quanti ne consentono le attuali norme di sicurezza. Griglie attive, spine attivissime, hamburger e panini a vagoni. Sorrisi, pacche sulle spalle, auspici, speranze. C’era un clima che non si respirava da tempo. La società si era attivata per animare la scenografia iniziale. Lo speaker, all’americana, ci aveva messo del suo

per arringare il popolo bianconero. Una festa. La curva ospite ha cantato dal primo al esimo minuto. Che voci! A decibel hanno vinto il match nei confronti degli ultras di casa, generosissimi, attivissimi, instancabili, ma in minoranza. Poi però, quando dopo un primo tempo tutto luganese, il Lucerna, all’inizio della ripresa, pareva in grado di addomesticare la partita, ecco che si sono risvegliate le due tribune, soprattutto la Monte Brè: «Bianconeri allez», «Lu ga no Lu ga no». Lo ha detto anche Mattia Croci-Torti, il Mister, «Ul Crus». Abbiamo fatto una gran partita, folle, ma loro ci hanno regalato certezza quando cominciavamo a dubitare. Poi, è vero, lo sport è fatto anche di episodi e di casualità. Se, se, se, ma, ma, ma… Se a inizio stagione, la nuova società, una volta liquidato Abel Braga, non avesse assegnato la panchina a Croci-Torti, affiancato da Cao Ortelli, il

Lugano sarebbe salito sul pullman per Berna? La scelta, che poteva sembrare un ripiego, un timido interinato, si sta rivelando la mossa vincente. Non solo per la qualità dei risultati, ottenuti con un organico da battaglia, ma anche e soprattutto per una questione identitaria. Crus, puro figlio del Mendrisiotto, tradizionalmente non proprio incline a sposare la causa bianconera, si sta ergendo a simbolo di questo nuovo Lugano. La sua squadra per ora è un polo. Anzi, il polo del calcio ticinese. Il Bellinzona scalpita, il Chiasso sta alla finestra, il Locarno è ripartito da zero. Dubito però che ci sarà posto per due squadre ticinesi in Super League, anche nel  quando il campionato ne ospiterà . E questo per una pura e semplice questione di bacino d’utenza e di risorse finanziarie. Volenti o nolenti, per lo meno nell’immediato futuro, il calcio d’élite ticine-

se sarà orientato su Lugano. Credo che si potrà ripartire dai  della semifinale di Cornaredo, se la società saprà salvare e incrementare l’identità locale. Ovvio, se dall’estero dovessero giungere dei fenomeni in grado di portare i bianconeri al titolo e ai gironi di Champions League, nessuno avrà nulla da eccepire. Ma se la colonia degli stranieri servisse solo a barcamenarsi, credo sarebbe molto più proficuo un attento lavoro di «scouting» entro i confini cantonali o nazionali. Servono persone come il Crus. L’allenatore di Stabio, oltre alle sue indubbie doti di tecnico e di stratega, mette in campo anche il suo carattere focoso e motivante. Durante la semifinale credo abbia consumato più energie dei suoi giocatori: sempre in piedi, con quel cappellino da Bad Boy, a suggerire, gesticolare, ad agitarsi, al limite del richiamo ufficiale. Servono icone come Bottani (pecca-

to che gli anni passino così in fretta), come Sabbatini, giunto da lontano, ma intimamente legato alla maglia, come Saipi, giovane talento venuto da Sciaffusa. Oppure i ritorni eccellenti, come quelli di Maric, Ziegler, Daprelà, che hanno portato esperienza e stabilità. Ma questa è una musica che dovrà suonare chi sarà chiamato a fare mercato e a costruire il Lugano del futuro. Il popolo dei  domenica prossima vorrà invece cantare un altro brano. Quel «Viva viva i bianconeri, viva viva la vittoria…», che sicuramente verrà consegnato ai tecnici della regia del Wankdorf. «Sa sa mai, in cas d’un bisögn!». Nel caso, sarà un canto corale: --mila, forse di più? L’operazione treno-match allo stesso prezzo, si sta rivelando un successo. Sarà una festa? Ce lo auguriamo. Con tanto buon calcio, emozioni, passione, birra, bratwurst, e amicizia.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 9 maggio 2022

ATTUALITÀ

azione – Cooperativa Migros Ticino 23

Tra le donne in guerra Una serie di ritratti delle protagoniste del conflitto che ha travolto l’Ucraina

Due principi in contraddizione Autodeterminazione dei popoli e integrità territoriale sono spesso inconciliabili

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Potenziamento di Frontex? Il 15 maggio si vota sul contributo elvetico all’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera

Il piano di salvataggio Berna prevede misure per agire da calmiere sui prezzi dell’energia ma c’è chi solleva dei dubbi

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Perché Pechino insegue l’obiettivo «zero Covid»

L’analisi ◆ Xi Jinping continua a prolungare la rigidità estrema della sua politica nonostante abbia dei costi sempre più elevati. Nel frattempo però i segnali d’insofferenza della popolazione crescono Federico Rampini

La politica «zero Covid» adottata da Xi Jinping ha dei costi sempre più elevati, e non solo per la Cina. Il rallentamento dell’economia cinese si ripercuote anche sul resto del mondo: da un lato aggrava i fenomeni di scarsità e inflazione per certi prodotti, dall’altro aumenta i rischi d’inflazione. È una situazione densa di insegnamenti sui limiti interni del regime comunista cinese, che potrebbe conoscere un test sulla propria stabilità in un anno chiave per il consolidamento del potere personale del suo leader. Questa vicenda contiene anche delle lezioni sulla possibilità di «smontare» la globalizzazione e riorganizzarla fra «paesi amici», un obiettivo evocato dall’Amministrazione Biden. Tutte le altre nazioni del mondo hanno ormai allentato le restrizioni legate alla pandemia; questo include anche i paesi vicini a Pechino che avevano adottato precauzioni speciali come la quasi-chiusura delle frontiere: Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Singapore in vari modi hanno avviato un cauto ritorno alla normalità. Comunque nessuno di quei governi si assegna come obiettivo quello di debellare completamente il Covid. Solo Xi continua a prolungare la rigidità estrema della sua politica e conferma che l’obiettivo è «zero Covid». La conseguenza è che in tempi recenti almeno  città sono finite sotto lockdown, con una popolazione pari a  milioni. E poiché il totale include metropoli ricche come Shanghai, si tratta del % dell’economia cinese che vive sotto restrizioni. Le ragioni di questa rigidità sono molto concrete. Primo: i vaccini cinesi funzionano male, ma per ragioni di protezionismo e prestigio nazionale il governo si è rifiutato di importare dall’America i prodotti più efficaci di Pfizer e Moderna. Secondo: il sistema ospedaliero è meno efficiente di quelli occidentali, soprattutto nelle campagne, e quindi non si può permettere alti numeri di ricoveri. Terzo: le autorità sanitarie cinesi, seguendo direttive dall’alto, hanno dato la priorità alla vaccinazione dei lavoratori in modo da tenere aperte le fabbriche e garantire il flusso di esportazioni. Il risultato è che la percentuale dei vaccinati è più bassa proprio tra gli anziani che sono la fascia di età a rischio. Questa situazione già oggettivamente difficile è stata aggravata dalla sua strumentalizzazione politica: Xi ha presentato la sua azione contro la pandemia come un trionfo, l’ha esibita come la prova che il sistema politico cinese è superiore alle democrazie occidentali. Rischia di perdere la faccia se smantella la politica «zero covid». Nel frattempo però

Quarantena a Shanghai, maggio 2022. (Keystone)

i segnali d’insofferenza della popolazione crescono. Soprattutto a Shanghai, seconda metropoli più popolosa del paese con  milioni di abitanti: la New York cinese, in quanto capitale economica e finanziaria, cosmopolita, sede di tante multinazionali.

Torna sotto i riflettori una fragilità dei sistemi autoritari: sono più lenti nel riconoscere gli errori. Vedi Mao Zedong A Shanghai abita un vasto ceto medioalto che non è disposto a tollerare imposizioni e sacrifici con la stessa obbedienza dei provinciali. Il lockdown ha rivelato inefficienze spaventose, incluse penurie di alimenti essenziali. Le proteste sui social media sono state così vaste che neppure il potente apparato della censura è riuscito a cancellarne le tracce. Xi Jinping è rimasto insolitamente assente, invisibile e taciturno, sui gravi disagi e disservizi subiti da Shanghai. Sembra averne tenuto conto, in parte, quando il contagio si è esteso a Pechino: la capitale è la sede della nomenclatura politica, «la casta» che domina il regime, e lì il lockdown è stato applicato in modo più circoscritto, quasi soft, per timore di proteste. Ma gran parte del paese conti-

nua a subire restrizioni pesantissime e la mobilità è ridotta per tutti, anche per i ricchi che da oltre due anni non fanno vacanze all’estero o non possono ricongiungersi con i figli che frequentano università straniere. Torna sotto i riflettori una fragilità dei sistemi autoritari: sono più lenti nel riconoscere gli errori. Il fondatore della Repubblica popolare, Mao Zedong, ne fece tanti e fu sempre restio a correggerli. Il più mostruoso fu il Grande balzo in avanti alla fine degli anni Cinquanta: almeno  milioni di morti di fame. La parte più nota di quella tragedia fu l’ostinazione con cui Mao volle costruire altiforni siderurgici nelle campagne (si era fissato l’obiettivo di superare la produzione d’acciaio della Gran Bretagna), distogliendo manodopera dall’agricoltura e provocando un crollo nei raccolti. Ma ci fu una seconda mobilitazione altrettanto disastrosa, che viene ricordata da Eyck Freymann (autore di One Belt One Road: Chinese Power Meets the World). Fu la campagna per lo sterminio dei passeri. Mao si era convinto che gli uccellini fossero i veri responsabili della crisi dei raccolti. Lanciò le masse in una caccia ai passeri, che effettivamente furono quasi eliminati. La conseguenza fu una micidiale invasione di locuste, non più mangiate dagli uccelli, che aggravò la catastrofe agricola. Mao presiede-

va una Cina molto più povera, però aveva una cosa in comune con Xi, a furia di accentrare il potere e di eliminare i rivali interni al partito si era circondato di yesmen, di conseguenza i segnali sugli errori arrivavano sempre troppo tardi e chi li trasmetteva rischiava di fare una brutta fine. Il lockdown di Shanghai ha imposto un rallentamento in uno snodo nevralgico sia per la produzione industriale che per la logistica e il trasporto: il porto navale di quella città è uno dei più grandi del pianeta. Le esportazioni di smartphone verso il resto del mondo sono calate del %. Milioni di neolaureati fanno più fatica che in passato a trovare un posto di lavoro. La frenata della crescita non impedisce un risultato roboante, +,% del Pil nel primo trimestre. Ma è diffuso il sospetto che si tratti di un dato truccato, visto che Xi ha promesso una crescita «superiore a quella americana» (nell’ultimo trimestre  il Pil Usa era aumentato più di quello cinese) e pari a +,% su base annua. I dirigenti a tutti i livelli, dalle provincie fino all’amministrazione centrale di Pechino, hanno interesse a non far perdere la faccia a Xi che a ottobre si farà «incoronare» con un terzo mandato presidente-imperatore a vita. I segnali dall’economia reale dicono che i guai cinesi sono seri. Altrimenti non si spiegherebbe perché il gover-

no stia annunciando una maxi-manovra di aiuti pubblici: rilancia gli investimenti in infrastrutture; esonera le imprese dal pagamento di certi oneri sociali purché non licenzino; taglia le bollette energetiche; offre sussidi ai neolaureati che si mettono in proprio; e altro ancora. È utile ricordare che fino all’anno scorso Xi stava cercando di fare il contrario: aveva ridotto il sostegno pubblico all’economia con l’intenzione di sgonfiare la bolla speculativa del settore immobiliare. Contrordine compagni. La ragione della sterzata è che la crescita sta frenando probabilmente assai più di quanto dicono le statistiche ufficiali. Le difficoltà della Cina possono essere aggravate dalla guerra in Ucraina su due fronti: per l’aumento del costo delle materie prime e perché l’appoggio fornito da Xi a Vladimir Putin può esporre alcune aziende cinesi alle sanzioni occidentali. Tuttavia l’America non riesce ad emanciparsi dalla sua dipendenza dal «made in China». Lo conferma l’ultimo dato sul deficit commerciale Usa, salito del ,% a marzo. E per far fronte all’inflazione, dentro l’Amministrazione Biden c’è una corrente che vorrebbe perfino abolire i dazi sul «made in China». La nuova globalizzazione «riservata ad amici e alleati» per ora rimane un progetto, la realtà è ben diversa.



Settimanale di informazione e cultura

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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

Occhi puntati sulle donne che vivono la guerra ◆

Una serie di ritratti delle protagoniste di una tragedia senza fine

Il ritratto

Oksana Balandina si è sposata a  anni e, nonostante la guerra, è stato un matrimonio dove non è mancato niente. Lei indossava un lungo abito e ha volteggiato nel valzer nuziale tra le braccia del marito Viktor. La cerimonia si è svolta all’ospedale di Leopoli, dove Oksana sta facendo un corso di riabilitazione per imparare a camminare sulle sue nuove protesi: ha perso entrambe le gambe e quattro dita di una mano imbattendosi in una mina vicino a casa, a Lisichansk, nel Donbass. «L’avevo vista, mi ero girata verso Viktor per dirgli “tesoro, guarda cosa ho trovato” e un secondo dopo ho capito che stavo volando», racconta. Il marito l’ha vista saltare in aria, l’ha raccolta, l’ha scossa: «Non si muoveva e io non riuscivo più a respirare». La coppia ha deciso di sposarsi appena Oksana è stata dichiarata fuori pericolo. Tata Kepler ogni giorno va nei villaggi nella zona di Kiev. Sutura ferite, distribuisce pastiglie, fa ecografie a tiroidi ingrossate dalle polveri di Chernobyl e a pance di donne incinte che sono rimaste per settimane sotto occupazione russa, senza possibilità di visitare un medico. Misura la pressione a un uomo che per tre settimane si è nascosto in una cantina, dopo tre ictus. Tata è una medica volontaria dell’esercito ucraino e insieme alla sua squadra va nelle zone di guerra, o dove la guerra è appena finita. Ogni giorno cammina in mezzo alle bombe e sulle rovine per soccorrere la popolazione civile. Prima della guerra si occupava di arte e ora il suo profilo Instagram @use_your_name è sia una pagina per raccogliere aiuti e donazioni, sia uno straordinario documento di testimonianza della guerra: quasi in ogni villaggio gli abitanti raccontano storie di violenze, torture, massacri, di resistenza e di disperazione. Ekaterina Cherepakha sta facendo un lavoro faticoso: insieme alle collaboratrici dell’associazione che presiede, La strada, cerca di aiutare le vittime degli stupri nei territori occupati. Ha fatto una relazione sui crimini di guerra a sfondo sessuale commessi dall’esercito russo davanti al Consiglio di sicurezza dell’Onu: «Stupri di gruppo, stupri ripetuti, stupri commessi davanti ai familiari, con la minaccia di uccidere i figli». Non si tratta di episodi isolati, ma di un fenomeno talmente diffuso da far pensare alla commissaria per i diritti umani del parlamento ucraino, Lyudmila Denisova, che si

Nikolai Leonov era amico dei Castro

Angela Nocioni

Keystone

Anna Zafesova

tratti di una strategia precisa e consapevole per terrorizzare la popolazione, «un ordine dato da Putin in persona». A Bucha e Borodyanka i casi di stupro sono decine, alcune vittime sono minorenni, alcune sono rimaste incinte. «Tutte hanno urgente bisogno di assistenza psicologica», dice Cherepakha. Solo poche accettano di testimoniare davanti ai giudici, dice Denisova, che sta raccogliendo testimonianze per il tribunale che dovrà processare, prima o poi, i criminali di questo conflitto. La guerra non ha un volto di donna, scriveva la premio Nobel bielorussa Svetlana Aleksievič, ma la guerra in Ucraina è composta di tanti volti femminili. Quelli delle ragazze che si arruolano nell’esercito ucraino e delle volontarie che aiutano le vittime, delle profughe che scappano con figli e animali dalle città bombardate e delle contadine che restano a piantare patate perché bisognerà dare da mangiare a un paese in guerra. Donne infinitamente stanche, come la vicepremier Iryna Vereshchuk, che ogni giorno negozia corridoi umanitari per la fuga dei civili dalle zone di conflitto. Donne disperate, come Kateryna Prokopenko e le sue compagne, mogli dei militari del battaglione Azov, che stanno lanciando appelli internazionali per salvare i loro mariti dai bunker di Mariupol. Donne diventate simbolo della guerra loro malgrado, come Marianna Vyshemirskaya, la blogger incinta fotografata mentre fugge terrorizzata dall’ospedale di Mariupol (e costretta poi davanti alle telecamere russe ad accusare dei bombardamenti l’aviazione Ucraina). Donne cadute sotto le bombe, come la giornalista Valeria Hlodan, uccisa da un missile nel suo appartamento di Odessa, insieme alla suocera e alla figlia di appena tre mesi. Tre generazioni della stessa famiglia, cancellate alla vigilia della Pasqua ortodossa. Ma ci sono donne anche dall’altra parte della linea del fronte, divise da quella guerra civile non dichiarata che sta dilaniando la Russia. Da un lato della barricata ci sono Marina Ovsyannikova, la redattrice della tv russa apparsa in diretta con il cartello «No alla guerra», e la blogger Veronika Belozerkovskaya, la prima russa incriminata in base alla nuova legge sul «discredito delle forze armate» per aver denunciato con violenza l’invasione russa. Le attrici Liya Akhedzhakova, costretta a fuggire dal suo paese per

aver versato soldi alle vittime ucraine della guerra, e Chulpan Khamatova, la cui fondazione benefica è stata indagata dopo che ha invocato pubblicamente la pace. Come la pittrice Sasha Skochilenko, che rischia  anni di carcere per aver sostituito, in un supermercato pietroburghese, i cartellini dei prezzi con cartoncini che denunciavano le stragi di Bucha. Le decine di donne portate via dalla polizia per aver srotolato un manifesto con una colomba della pace o il comandamento «non uccidere», o aver soltanto scritto «no alla guerra» sull’asfalto con un gessetto. Ma il mito della donna naturalmente portatrice di pace viene smentito da tante appassionate sostenitrici della guerra, come Margarita Simonyan, la capa della propaganda del Cremlino che nei talk show televisivi invoca bombardamenti atomici dell’Ucraina e dell’Europa. Come Elvira Nabiullina, la governatrice della Banca Centrale che, dopo anni di inflessibile politica monetaria, sta cercando di stabilizzare il rublo polverizzato dalle sanzioni, senza avere il coraggio di ammettere, e far ammettere a Putin, che l’economia russa sta andando incontro alla catastrofe. Come Olga Bykovskaya, resa tristemente famosa da una intercettazione in cui dava a suo marito Roman, militare inviato in Ucraina, il permesso di «stuprare le ucraine», e come tante altre mogli e madri che hanno incitato mariti e figli a saccheggiare le case ucraine, facendo «ordinazioni» di elettrodomestici e vestiti da rubare. È una spaccatura profonda, quella della società russa, che si manifesta perfino nella tragedia dei caduti. Olga Efremenko è stata tra le madri che hanno denunciato le bugie del comando: suo figlio Nikita era un marinaio dell’incrociatore Moskva, dato per «disperso» dopo settimane dall’ affondamento della nave. «Vorrei sapere la verità, anche se probabilmente i militari non ce la diranno mai», dice, mentre altre madri dei soldati vanno a cercare i loro figli prigionieri in Ucraina, oppure scendono in piazza come Irina Ochirova, di Ulan-Ude. Ma ci sono anche le vedove che posano davanti alle telecamere con in mano una manciata di rubli di compensazione e madri, come Natalia della regione di Sverdlovsk, che in un’intervista ha dichiarato di essere fiera del figlio caduto che ha «combattuto per la Russia».

Ha saputo dare una mano a Putin anche il giorno dei suoi funerali. L’uomo del Cremlino in America latina, Nikolai Leonov (vedi foto in basso), l’agente del Kgb che arrivò a essere capo dei servizi di intelligence per i Paesi occidentali negli anni Ottanta, è morto alla fine dello scorso aprile e alle sue esequie ha reso l’ultimo servizio al suo zar che ha approfittato del grande palcoscenico della cerimonia funebre per far ricomparire l’alto funzionario dell’intelligence Sergey Beseda, scomparso da qualche settimana e dato per incarcerato a Lefortovo, un quartiere di Mosca. Leonov è stato per decenni l’uomo dell’impero sovietico in America latina, l’antenna di Mosca in casa Castro. Storico con una passione per l’agiografia dei regimi, Raul lo scelse per la sua biografia. Si conobbero in modo rocambolesco, o almeno così hanno sempre raccontato entrambi. Leonov aveva  anni nel  quando fu mandato a Città del Messico, all’ambasciata sovietica. Nel viaggio in nave conobbe Raul Castro che due anni dopo gli presentò Ernesto Guevara, «el Che». A fine  tornò a Mosca e il Cremlino decise di distaccarlo dalla carriera diplomatica per farlo formare specificamente sull’America latina e la sua storia. Fu così che Leonov, che fu sempre uomo dei servizi indipendentemente dalla funzione di facciata ricoperta, cominciò a lavorare come traduttore per la casa editrice Progreso, che fu veicolo dell’ortodossia ideologica sovietica negli ambienti ispanofoni.

Durante la crisi dei missili di Cuba fu Leonov a fare da regia agli agenti sul campo in Florida che dovevano riportare notizie sull’eventuale invasione americana dell’isola Ufficialmente la sua carriera nel Kgb cominciò solo nel  e con il compito specifico di sorvegliare la rivoluzione castrista e i suoi sviluppi. Fu lui nel , a poco più di un anno dalla vittoria di Castro sul dittatore Fulgencio Batista e dell’instaurarsi del governo dei «barbudos», ad accompagnare un’alta delegazione sovietica all’Avana. In quell’occasione leggenda narra che regalò una pistola per tiratori scelti a Ernesto Guevara «a nome del popolo sovietico». Subito dopo tornò a lavorare sotto copertura all’ambasciata sovietica a Città

del Messico e nell’ottobre del  – durante la crisi dei missili di Cuba, quando le relazioni tra Usa e Urss sembrarono sul punto di deflagrare in una terza guerra mondiale – fu lui a fare da regia agli agenti sul campo in Florida che dovevano riportare notizie sulla eventuale invasione americana dell’isola. Disse di essersi convinto, prima del rientro della crisi, che lo scontro finale non ci sarebbe mai stato. Fatto sta che bruciò le tappe di carriera nel Kgb in quegli anni e nel , quando Fidel Castro fece il famoso viaggio a Mosca nel quale consegnò l’isola all’Unione sovietica che poi l’avrebbe mantenuta economicamente per decenni, Nikita Kruscev si fidava talmente di lui da affidargli il ruolo di interprete. Continuò su quel solco aperto dalla relazione privilegiata con Fidel e Raul Castro e divenne il capo di fatto dei servizi sovietici in America latina. Sua fu la supervisione del Cono sur prima e dopo i golpe di estrema destra a Buenos Aires e a Santiago del Cile. In realtà Leonid Breznev nel  l’aveva già richiamato a Mosca, ma sempre l’America latina gli fece seguire. Suo era il compito di organizzare l’influenza sovietica su tutto quel che si muoveva a sinistra nel continente, dal Messico alla Patagonia. A fine anni Settanta e a cavallo dei primi Ottanta fu spedito in Polonia per capire per conto di Mosca cosa si stesse preparando lì e chi fossero davvero i fondatori di Solidarność. Nikolai Leonov fece un report terrificante al capo del Kgb, che era Jurij Andropov, il futuro leader sovietico dal  al . Gli disse che, per quello che aveva visto e sentito, le prospettive del socialismo sovietico in Polonia gli sembravano lugubri. Previsione indovinata. Tra il  e il , quando l’Unione sovietica stava per crollare, Leonov fu il numero due del Kgb e continuò a controllare personalmente tutta l’attività degli agenti segreti di Mosca in Argentina e in Venezuela. Dopo il crollo dell’Urss, esattamente come la maggioranza degli agenti del Kgb, continuò a fare il suo mestiere, ricoprendo nel frattempo l’incarico di docente all’Istituto relazioni internazionali di Mosca. Nel , a  anni, è stato eletto alla Duma, il Parlamento di Mosca, come membro del partito nazionalista russo Rodina. Sempre legato a doppio filo a Putin che nel Kgb, come agente Vladimir, fu per molti anni suo sottoposto.

AFP

Ucraina

L’uomo dello zar in America latina


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ATTUALITÀ

Autodeterminazione dei popoli contro integrità territoriale Cortocircuiti

Il conflitto che sconvolge l’Ucraina ripropone un caratteristico paradosso delle relazioni internazionali

Alfredo Venturi

Oltre ad atterrire il mondo per i suoi imperscrutabili sviluppi, il conflitto ucraino ripropone un caratteristico paradosso delle relazioni internazionali, il palese contrasto fra due principi che sono entrambi considerati sacri. Da una parte l’inviolabilità delle frontiere, dall’altra l’autodeterminazione dei popoli. Kiev accusa Mosca di avere calpestato il primo invadendo uno stato sovrano, Mosca ribatte che Kiev non rispetta il secondo negando ai russofoni del Donbass il diritto di scegliere il loro destino. La contraddizione non potrebbe essere più evidente: è chiaro che i due principi sono spesso destinati – a seconda delle circostanze storiche, etniche, linguistiche – all’inconciliabilità. E dunque non è raro che facciano cortocircuito.

La contraddizione si annida negli stessi testi sui quali la comunità internazionale fonda i suoi tentativi di garantire l’armonia fra i rissosi stati del pianeta Questa contraddizione non soltanto si è manifestata attraverso eventi come quello che stiamo vivendo, ma si annida negli stessi testi sui quali la comunità internazionale fonda i suoi tentativi di garantire un minimo di armonia fra i rissosi stati del pianeta. Prendiamo la Carta delle Nazioni Unite. Nell’articolo  invita i Paesi membri a «sviluppare… relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-determinazione dei popoli». Nell’articolo  proclama che «gli Stati devono astenersi… dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite». Poiché l’Onu è un’organizzazione di stati, ovviamente attentissimi alla difesa delle loro prerogative, inevitabilmente nelle sue attività e nei suoi documenti tende a prevalere, nonostante la solenne dichiarazione del primo articolo, il principio dell’integrità territoriale. La stessa contraddizione è iscritta a chiare lettere nell’Atto finale di Helsinki del , il documento sul

quale si fonda l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce). Il punto  e il punto  registrano rispettivamente la sacralità dell’autodeterminazione e quella delle frontiere intangibili. È interessante notare come durante la lunga trattativa che portò all’Atto una chiara enunciazione di quest’ultimo principio fosse caldeggiata dall’Unione sovietica, che voleva consolidare con il riconoscimento internazionale i guadagni territoriali conseguiti alla seconda guerra mondiale. Nel caso ucraino la Russia, che dell’Urss ha raccolto l’ingombrante eredità, ha mutato il punto di vista, puntando le sue carte sull’autodeterminazione. Nei suoi quattordici punti il presidente americano Woodrow Wilson cercò di inquadrare, nell’ultima fase della prima guerra mondiale, i fondamenti di un futuro pacifico. In quel caso si trattava di risistemare il mondo dopo il crollo dei quattro imperi – il russo, il germanico, l’austro-ungarico e quello ottomano – dunque non si parlava certo di frontiere inviolabili ma piuttosto della creazione di stati nazionali secondo il principio sancito dalla Rivoluzione francese. Per questo l’ottavo punto prevedeva la restituzione alla Francia dell’Alsazia e della Lorena che la Germania aveva annesso dopo la guerra franco-prussiana del -; il nono la sistemazione delle frontiere italiane «secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili»; mentre il tredicesimo auspicava una Polonia indipendente che comprendesse tutti i polacchi. In realtà la visione del presidente americano, animata com’era dalla necessità di non infierire sui vinti per evitare pericolosi sentimenti di rivalsa come quelli che puntualmente si verificheranno in Germania, non seppero convincere gli altri delegati alla conferenza di Versailles. Anche perché Wilson, malato di spagnola, non poté difendere personalmente i suoi quattordici punti, che non a caso il primo ministro francese Georges Clemenceau, intenzionato a punire duramente i tedeschi sconfitti, liquidò con una celebre battuta: «Al buon Dio ne bastarono dieci…». Prevalsero sulla logica moderata di Wilson gli appetiti e i sentimenti vendicativi dei vincitori: e per finire il Congresso degli Sta-

Nelle attività e nei documenti dell’Onu tende a prevalere il principio dell’integrità territoriale. Il Palazzo delle Nazioni, sede delle Nazioni Unite a Ginevra. (Shutterstock)

ti Uniti negò la ratifica alla partecipazione americana alla Società delle nazioni, che fu fondata secondo la lettera del quattordicesimo punto. Il Nobel per la pace che gli fu assegnato nel  attenuò un poco la profonda frustrazione dell’uomo che si era illuso di risanare il mondo.

Se si cerca di risolvere il problema senza modificare le frontiere non resta che la strada delle ampie autonomie, come quelle concesse alla Scozia Negli anni Cinquanta ci provarono India e Cina a gettare le basi di una convivenza armonica fra le nazioni. Lo fecero varando con un trattato di amicizia i Panchsheel, i cinque principi che avrebbero dovuto garantire la pace. Nell’ordine: reciproco rispetto dell’integrità territoriale, non aggres-

sione, non ingerenza negli affari interni, eguaglianza e cooperazione, coesistenza pacifica nonostante i diversi sistemi politici. Come si vede mancò in questo caso un riferimento esplicito all’autodeterminazione. Purtroppo i Panchsheel, che pure ebbero una certa risonanza internazionale, non impedirono la guerra sino-indiana del  né i successivi incidenti attorno ai confini del Tibet. Nel terremoto geopolitico seguito agli eventi del -, mentre la Jugoslavia collassava frammentandosi in sei stati nazionali, la Cecoslovacchia offriva una prova di composizione pacifica del dilemma popolo-frontiere. Il parlamento di Praga votò la divisione del paese. Fu così che il  gennaio  mutò una volta ancora la carta d’Europa con la comparsa della Repubblica Ceca e della Slovacchia, due paesi altrettanto amici, a parte qualche malumore per il mancato avallo referendario della separazione,

di quando costituivano un unico Stato, affratellati fra l’altro dalla comune appartenenza all’Unione europea. Se si cerca di risolvere il problema senza modificare le frontiere non resta che la strada delle ampie autonomie. Come quelle, per esempio, che la Gran Bretagna ha concesso alla Scozia. Ma non tutti gli scozzesi si accontentano delle autonomie, in particolare detestano l’idea della «concessione»; moltissimi di loro nutrono storici risentimenti anti-inglesi e guardano a Bruxelles piuttosto che a Londra. Si è fatto ricorso al referendum dando al popolo stesso la possibilità di far sentire la sua voce: gli indipendentisti lo hanno perduto ma dopo la Brexit, forti dei successi elettorali di Nicola Sturgeon e del partito nazionale scozzese di cui è animatrice, sono tornati alla carica chiedendo una nuova consultazione. E così una volta ancora il cortocircuito è pronto a scattare. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

Tutelare meglio lo spazio Schengen Votazioni/1

Il prossimo 15 maggio dovremo pronunciarci sul contributo svizzero al potenziamento di Frontex

Alessandro Carli

Il  maggio dovremo pronunciarci sul contributo svizzero al potenziamento della rete di sicurezza dello spazio Schengen, del quale il nostro paese fa ufficialmente parte dal  dicembre . La sorveglianza delle frontiere esterne e la sicurezza dello spazio Schengen, nel quale le persone possono circolare liberamente, sono di competenza dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex), con cui la Svizzera collabora da oltre  anni. Nell’interesse della Confederazione, Consiglio federale e Parlamento hanno deciso che la Svizzera parteciperà al potenziamento di Frontex. Contro questa decisione è stato lanciato il referendum. Proprio nel momento in cui la guerra sta divampando in Europa, una chiara maggioranza di cittadini non sembra voler mettere in discussione la sicurezza e la politica migratoria europea. Coloro che sono contrari a Frontex ritengono invece che sia impensabile continuare a sostenere con più soldi e mezzi un’autorità alla quale si rimproverano disfunzioni e violazioni dei diritti umani. Frontex avrebbe assistito, e talvolta preso parte, a respingimenti illegali di migranti, con inchieste in corso e denunce alla Corte di giustizia dell’Ue. Il referendum è stato lanciato dalle organizzazioni che difendono i migranti, con il sostegno della sinistra, sia a causa del maggior contributo finanziario della Svizzera, sia per le citate violazioni dei diritti umani. Secondo loro, Frontex avrebbe partecipato a rinvii alla frontiera e lungo la via dei Balcani. Le organizzazioni non governative denunciano da anni le pratiche illegali delle guardie di frontiera di vari paesi europei come Grecia, Italia, Ungheria, Slovenia e Croazia. Tuttavia, rifiutando di partecipare al potenziamento di Frontex, la Svizzera potrebbe essere esclusa dagli accordi di Schengen/Dublino, un rischio che – secondo i sondaggi – i cittadini non sembrano disposti a correre. La fine della cooperazio-

Il referendum contro il contributo elvetico al potenziamento di Frontex era stato lanciato dalle organizzazioni che difendono i migranti, con il sostegno della sinistra. Berna, gennaio 2021. (Keystone)

ne avrebbe infatti gravi conseguenze per la sicurezza, il settore dell’asilo, il traffico di confine, il turismo e l’intera economia. Secondo uno studio di Ecoplan del , le perdite finanziarie potrebbero ammontare a svariati miliardi di franchi. Gli svizzeri, così come i turisti internazionali, sarebbero ostacolati nei loro viaggi. Si dovrebbero reintrodurre i controlli alle frontiere e i visti. Le relazioni con Bruxelles, dopo il fallimento dell’accordo quadro, potrebbero risultare un po’ più complicate. È stata la crisi migratoria del  ad aver indotto l’Ue a potenziare Frontex che, entro il , disporrà di una riserva di ’ persone. Tutti gli Stati che cooperano strettamente in ambito di sicurezza sono corresponsabili per la protezione delle frontiere esterne dello spazio Schengen. Frontex li assiste a livello operativo, anche nel controllo della migrazione. La Svizzera partecipa ai

voli congiunti dell’Ue – coordinati e finanziati da Frontex – per il rimpatrio di chi è oggetto di una decisione di allontanamento. Per questa più intensa cooperazione, tra cinque anni, la Svizzera dovrà sborsare  milioni di franchi, contro i  del , e mettere a disposizione una quarantina di collaboratori, anche per verificare eventuali violazioni dei diritti fondamentali. Per gli oppositori, concedere più soldi a Frontex significa favorire le violenze. Secondo loro la politica migratoria europea porta a una militarizzazione delle frontiere e a una criminalizzazione dei migranti. I fautori del referendum ricordano che gli eritrei e i somali che fuggono dal loro paese cercano semplicemente la sicurezza. Il loro diritto di depositare una domanda d’asilo – sostengono – è attualmente calpestato. Da qui, la richiesta dell’apertura di vie di migrazione sicure.

La sicurezza sta a cuore anche ai fautori di Frontex. Negare l’aumento del contributo finanziario – ha ammonito la ministra di giustizia Karin Keller-Sutter – significherebbe essere esclusi dallo spazio Schengen, con pesanti conseguenze. Berna non potrebbe più accedere a numerose banche dati europee, determinanti nella lotta contro la criminalità transfrontaliera. Polizia e guardie di confine «brancolerebbero nel buio». Le autorità svizzere dovrebbero riesaminare le domande d’asilo già respinte in un paese vicino, visto che verrebbe a cadere anche l’accordo di Dublino. Pur ammettendo qualche lacuna nel funzionamento di Frontex, lo schieramento borghese è del parere che si debba continuare a partecipare al sistema per poterlo migliorare dall’interno. A tale scopo si prevede di mettere a disposizione una quarantina di osservatori, ma il loro reclutamento – sottolinea il comitato

referendario – sta accumulando ritardi. Gli oppositori sono convinti che, in caso di bocciatura, ci siano poche possibilità che la Svizzera venga esclusa da Schengen. Secondo loro un nuovo accordo potrebbe essere concluso entro  giorni. Nel caso poco probabile di vittoria del referendum, i loro fautori chiedono che il nuovo progetto sia accompagnato da misure umanitarie. Propongono un’accoglienza più generosa dei rifugiati, come chiesto in occasione dei dibattiti parlamentari, il rafforzamento delle vie legali di fuga o ancora la possibilità di depositare richieste d’asilo nelle ambasciate. Ma queste argomentazioni non sembrano raccogliere consensi, nemmeno tra le fila dei promotori del referendum. Infatti le organizzazioni di aiuto ai rifugiati non fanno quadrato. Amnesty International lascia libertà di voto, ritenendo che le disposizioni prese di mira non toccano le condizioni concrete dei migranti. La stessa posizione è stata recentemente condivisa dall’Organizzazione svizzera di aiuto ai rifugiati. La sinistra è divisa tra i suoi ideali di altruismo ed europeismo. I fautori del referendum potrebbero raccogliere voti sul fronte opposto dello scacchiere politico. Finora titubante, l’Udc ha raccomandato di sostenere Frontex. La base del partito, storicamente contraria a Schengen, potrebbe però non seguire i propri delegati, tanto più che i Giovani Udc sono decisi a condurre una loro campagna contro l’Agenzia europea in questione. Occorre sapere se l’alleanza contro natura tra la sinistra umanitaria e i conservatori euroscettici riuscirà a far pendere il piatto della bilancia. Ma sarà poco probabile: il popolo si è già pronunciato due volte a favore di uno sviluppo dell’accordo Schengen (introduzione del passaporto biometrico e divieto delle armi semiautomatiche). Ha sempre prevalso, sulle altre considerazioni, il timore di vedere una Svizzera indebolita e isolata.

Sostenere la cinematografia elvetica ◆

Bisogna obbligare i servizi di streaming – come Netflix e Amazon Prime – a finanziare la produzione nostrana?

Altro tema in votazione il  maggio: la modifica della legge sul cinema. Il popolo dovrà decidere se obbligare anche i servizi di streaming video come Netflix, Amazon Prime e Disney ad attribuire alla cinematografia svizzera il % dei ricavi ottenuti nella Confederazione (le emittenti televisive private sono già tenute a farlo) e a presentare nei loro cataloghi almeno il % di serie o film prodotti in Europa. Il provvedimento, se approvato, dovrebbe permettere di versare ogni anno  milioni di franchi supplementari all’industria cinematografica svizzera, ciò che le consentirà di rafforzare la creazione indigena e la diversità dell’offerta. Il sostegno attuale dei poteri pubblici e della SSR ai cineasti ammonta a circa  milioni di franchi annui. Attualmente i film e le serie vengono sempre più guardati online. I servizi streaming lasciano tuttavia poco spazio alle produzioni indigene che faticano ad accedere al mer-

cato internazionale. «La nuova legge – ha spiegato il ministro della cultura Alain Berset – eliminerà le disparità di trattamento tra emittenti televisive e servizi di streaming, lasciando in Svizzera una quota dei proventi a favore dell’industria locale». Gran parte dei paesi limitrofi ha già imposto

ai servizi streaming di investire nella produzione cinematografica nazionale. In Francia il contributo è stato fissato al %, in Italia a circa il %. «Ciò dovrebbe far capire quanto sia ragionevole la proposta in votazione», ha aggiunto Berset. Contro la revisione hanno lancia-

Shutterstock

Votazioni/2

to il referendum le sezioni giovanili dell’Udc, del Plr, dei Verdi liberali e anche diversi esponenti del Centro, sostenuti dall’Associazione svizzera delle televisioni private e da Suissedigital, l’associazione che riunisce gli operatori via cavo. Essi sono dell’opinione che la produzione audiovisiva elvetica sia già sufficientemente sovvenzionata e che non necessiti di aiuti supplementari. Per i sostenitori del referendum, la modifica della legge è una disposizione illiberale, che non tiene contro dei consumatori e che finirà per pesare sul portamonete dei fruitori delle piattaforme. Temono anche che la revisione possa spingere le piattaforme di streaming ad aumentare i costi degli abbonamenti, che in Svizzera sono già tra i più cari. «Ciò è ingiusto – affermano – soprattutto per le giovani generazioni». Per governo e parlamento è improbabile che l’obbligo di investire abbia un impatto sui prezzi delle offerte di streaming. La modifica della legge

garantisce inoltre pari condizioni alle emittenti televisive e ai servizi streaming, svizzeri e stranieri. Anche le emittenti televisive straniere che trasmettono finestre pubblicitarie rivolte al pubblico svizzero dovranno contribuire alla pluralità dell’offerta cinematografica. I fautori del referendum ritengono ingiusto obbligare i servizi di streaming – come chiede la legge – a proporre il % di film europei. Per loro si tratta di una quota che certi servizi video non potranno mai attuare. Alain Berset replica loro che «le piattaforme hanno già raggiunto questo obiettivo e che le catene televisive arrivano addirittura al %». L’esito della legge sul cinema è incerto. Se il voto fosse avvenuto a inizio aprile, i favorevoli erano solo il %, contro il % di contrari e il % di indecisi. La modifica legislativa è bocciata in particolare dai simpatizzanti di Udc e Plr. È invece molto sostenuta a sinistra (% Partito socialista e Verdi). /AC


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ATTUALITÀ

Il rincaro dei prezzi dell’energia e il piano di salvataggio della Confederazione Prospettive

Berna prevede misure per agire da calmiere ma l’intervento sulle imprese «sistemiche» non è visto di buon occhio

Ignazio Bonoli

Il petrolio In Svizzera sono ancora molte le abitazioni che usano il gasolio (la nafta) per il riscaldamento. In Ticino sono ben il % degli edifici. Per questi immobili (e benché anche in questo caso le forniture arrivino dall’Italia) il prezzo per  litri di gasolio è passato da , franchi nel  a , franchi lo scorso  marzo. In un mercato molto volatile, condizionato in gran parte dalle incertezze che accompagnano la guerra in Ucraina e le sanzioni occidentali contro la Russia, il prezzo del combustibile fossile cambia di giorno in giorno, ma a inizio maggio era ancora sopra i  franchi per  litri. Visto quanto avviene sui mercati internazionali, gli importatori e con essi i rivenditori consigliano di attendere tempi migliori per i rifornimenti, tanto più che con la stagione calda alle porte i consumi si riducono moltissimo.

Già ora però le ordinazioni delle economie domestiche sono a un livello molto basso, il che non garantisce che, più tardi, i prezzi saranno più favorevoli. In termini molto concreti, si può però costatare – come dichiarato dal presidente di Swissoil Ticino al «Corriere del Ticino» – che se un pieno di  litri di gasolio per un’abitazione media costava  franchi  mesi fa, oggi costerebbe  franchi.

Pacchetto eccessivo?

Il gas Ai movimenti del prezzo del petrolio si accompagnano spesso anche quelli del gas. Per le circa  mila economie domestiche che usano il gas per il riscaldamento in Svizzera gli aumenti di tariffe si sono sentiti subito. Aumenti che, secondo gli esperti, dovrebbero durare nel tempo e potrebbero perfino crescere a seguito di un boicottaggio del gas russo. Il costo per una famiglia tipica potrebbe salire, secondo le prime valutazioni, dai  franchi del periodo / a circa  franchi un anno dopo, cioè un aumento di circa il %. Da qui la spinta a sostituire i riscaldamenti a gas con energie rinnovabili che si sta già verificando. Per il momento alcuni fornitori hanno potuto attingere alle riserve e frenare in parte l’aumento dei prezzi ma l’azione avrà una durata limitata. Anche in questo caso l’aumento dei prezzi dipende dalla strategia d’acquisto dei grandi compratori. La liberalizzazione del mercato del gas ha però indotto molti compratori a concludere contratti a breve termine, che oggi non possono frenare l’aumento del prezzo fino al consumatore.

L’elettricità Per quanto concerne la corrente elettrica, la popolazione svizzera è stata finora ben protetta. Per le forniture di base ha potuto approfittare del fatto che le tariffe vengono fissate ogni volta a fine agosto per un anno intero. Quando, lo scorso autunno, si è verificato un improvviso aumento dei prezzi di mercato, le tariffe per il 

Keystone

La forte crescita di prezzi dell’energia ha impressionato tutti. Anche gli automobilisti, che hanno visto il prezzo della benzina e del diesel salire ben oltre i  franchi il litro. Alcuni sono corsi ai ripari, riducendo l’uso dell’automobile, altri, particolarmente in Ticino, rifornendosi all’estero. L’Italia ha infatti subito adottato misure di contenimento, sopprimendo temporaneamente le «accise» su benzina e diesel. Anche in Svizzera a metà aprile Simonetta Sommaruga, la consigliera federale responsabile del settore energetico, ha detto che se i prezzi dell’energia resteranno a questi livelli, o peggio aumenteranno, potrebbero sorgere grossi problemi per le economie domestiche e le piccole e medie imprese. Per questo il Consiglio federale ha creato un gruppo di lavoro incaricato di valutare se un eventuale intervento dello Stato può essere necessario per calmierare i prezzi troppo alti. In questo caso non si pensa tanto ai consumi di carburanti per le automobili (anzi l’aumento va proprio nella direzione della politica di riduzione dei consumi per combattere l’inquinamento dell’ambiente) quanto per gli impianti di riscaldamento.

erano già state fissate e non potrebbero essere aumentate. Quindi è soltanto a partire dal prossimo anno che lo shock energetico si ripercuoterà sui consumatori di energia elettrica. Il prezzo medio della corrente acquistata per il prossimo anno è oggi quasi il doppio di quello dello scorso agosto, utilizzato per fissare le tariffe. Al momento non si possono ancora valutare quantitativamente le ripercussioni sui prezzi al consumatore finale. Alcuni distributori valutano però un aumento di circa il %. Per un’economia domestica privata, con un consumo di elettricità di  kilowattora all’anno, vi sarà un aumento di  franchi. Se però i prezzi rimangono a livelli elevati si possono prevedere altri aumenti negli anni seguenti. Ma non tutti i consumatori dovranno subire questo trend. Coloro che vengono riforniti con energia prodotta in Svizzera saranno al riparo dagli shock prodotti sui mercati in-

ternazionali dell’energia. In molti casi, quindi, i prezzi finali resteranno piuttosto stabili eccetto forse un leggero aumento, secondo le previsioni dei grandi produttori nazionali. Diversa sarà la situazione per coloro che si approvvigionano sui mercati internazionali. Qui gli aumenti delle tariffe potrebbero essere importanti. Aumenti che potrebbero verificarsi anche per coloro che si riforniscono presso produttori che usano gas o petrolio per la produzione di energia elettrica. In generale i prezzi dipenderanno da come si comporteranno i grandi distributori che, di regola, acquistano a termine l’energia necessaria con fino a tre anni di anticipo. Coloro che hanno concluso questi contratti prima dello shock di fine  saranno favoriti. In caso contrario alcuni esperti del ramo valutano un aumento dei prezzi al consumatore finale da due a tre volte quelli attuali. Si stima però che questi casi saranno piuttosto rari.

Nel pacchetto di misure previste da Simonetta Sommaruga figurano fino a  miliardi di franchi per supplire a eventuali difficoltà di liquidità delle imprese elettriche considerate «sistemiche». Ma le imprese stesse (la bernese BKW), e anche quelle dei grandi distributori (Axpo) temono un ruolo eccessivo dello Stato sul mercato e non vorrebbero essere sottoposte al regime di protezione anche quando non ne avessero bisogno. Anche a livello politico è nata qualche preoccupazione per una «strisciante statalizzazione» del mercato energetico. Il progetto prevede infatti che, dall’entrata in vigore, le aziende hanno tempo sei mesi per concordare con la Confederazione le modalità di un prestito. In seguito dovranno versare un forfait, anche se non usano il prestito federale. Anche senza l’accordo per il prestito, le aziende devono informare la Confederazione sui loro affari commerciali, sulle linee di credito ottenute e sulle posizioni a rischio. In casi estremi in cui deve intervenire finanziariamente, la Confederazione può esigere il controllo dell’impresa e delle decisioni. Quest’ultima chiede un aumento del % sui tassi di interessi di mercato o perfino del % se il prestito non può essere concesso nei tempi previsti. A livello politico si fa però notare che la partecipazione delle imprese al progetto dovrebbe essere obbligatoria, altrimenti in caso di difficoltà a livello europeo pure le imprese «sistemiche» che non hanno aderito al progetto dovranno essere salvate. C’è però anche chi vede una responsabilità maggiore presso cantoni e comuni che sono proprietari o azionisti delle imprese in questione e, quindi, responsabili della loro gestione. Infine c’è anche chi chiede alle imprese di investire di più in energie rinnovabili, anche se i costi sono maggiori. La proposta è in consultazione e la consigliera federale vorrebbe portarla in Parlamento entro l’estate. Tutti sperano comunque che la situazione internazionale si sia calmata e si possa pensare al futuro con maggior tranquillità.

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 9 maggio 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

MONDO MIGROS

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Anno LXXXV 9 maggio 2022

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ATTUALITÀ / RUBRICHE

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Se aumentano i laureati ◆

Se le tendenze in atto da almeno  anni dovessero essersi manifestate anche durante il periodo della pandemia – e non c’è ragione perché non lo abbiano fatto – quest’anno, in Ticino, la quota degli occupati con formazione terziaria (formazione professionale superiore o scuole universitarie) dovrebbe superare per la prima volta quella degli occupati con formazione secondaria. Si tratta di aspettative perché, per ora, possediamo solo i dati per il . In quell’anno la quota degli occupati con formazione secondaria con un ,% primeggiava ancora sulla quota degli occupati con formazione terziaria (,%). Siccome però la prima quota continuava a diminuire e la seconda a crescere è pacifico che, se le tendenze sono continuate, la quota degli occupati con formazione terziaria dovrebbe superare quella degli occupati con formazione secondaria. Per estrapolazione delle tendenze di

evoluzione del periodo - abbiamo calcolato che questo sorpasso dovrebbe accadere quest’anno. È un dato di fatto che ci consente di fare alcune considerazioni sul rapporto tra formazione e occupazione. Intanto per dire che la tendenza in atto potrebbe, tra un paio di decenni, far scomparire la disputa tra sostenitori della formazione via apprendistato e quelli che invece difendono a spada tratta la via liceale o della maturità tradizionale. Siccome col tempo la quota maggiore della popolazione attiva sarà formata da persone con formazione terziaria, di fatto le differenze tra un percorso formativo e l’altro dovrebbero sparire. Per la maggioranza la formazione terminerà all’università, al politecnico, in una scuola universitaria professionale o in scuole equivalenti di livello universitario. È chiaro che le formazioni nelle varie discipline e professioni resteranno diverse. Ma tutte daranno a chi le

segue la possibilità di conseguire un titolo universitario. È possibile che questo faciliti l’orientamento professionale dei giovani e delle giovani ticinesi nella scuola media perché non saranno più sottoposti, come oggi, allo stress di dover qualificarsi per poter accedere al liceo. Sull’altro piatto della bilancia bisogna però mettere la perdita di prestigio degli studi universitari. Dal momento che essi saranno maggiormente accessibili, anche a chi di fatto si è formato con l’apprendistato, perderanno parte del carattere selettivo che potevano ancora avere alla fine del secolo scorso. È pure probabile che col tempo le differenze salariali tra gli occupati che possiedono una laurea e gli altri occupati si riducano. Potrebbero perdere di importanza anche le barriere professionali che oggi difendono l’hortus conclusus dei professionisti di alcune discipline. Che tra una quarantina di anni i / degli occupati nell’eco-

nomia ticinese possano possedere una laurea universitaria è una estrapolazione che si può fare, partendo dall’evoluzione degli ultimi venti anni. Che questo traguardo però possa venir veramente raggiunto dipenderà in buona parte da come l’occupazione dell’economia ticinese si svilupperà. Da questo punto di vista non possiamo che fare delle ipotesi. Supponiamo che l’effettivo degli occupati del  sia uguale a quello attuale, vale a dire che si aggiri anche allora sulle ’ unità. Attualmente gli occupati con formazione terziaria residenti e attivi nel Canton Ticino sono circa ’. Non sappiamo invece quale sia la quota dei laureati nell’effettivo dei lavoratori frontalieri. Supponiamo però che sia ancora largamente inferiore al %. Fosse per esempio uguale al % avremmo un ’ frontalieri con formazione terziaria che si aggiungerebbero ai ’ occupati con

formazione terziaria della popolazione attiva residente. Potremmo quindi stimare che, al momento attuale, le persone occupate con formazione terziaria in Ticino sono in totale ’. Nel , con un effettivo di occupati uguale all’attuale e una quota di occupati con formazione terziaria pari ai due terzi, i lavoratori con formazione terziaria dovrebbero diventare ’. Si tratta quindi quasi di un raddoppio dell’effettivo attuale di lavoratori e lavoratrici laureati che si dovrebbe realizzare nei prossimi  anni. Fermo restando, come si è detto, che l’effettivo degli occupati non aumenti. Sempre con questi calcoli della lattaia possiamo stimare che, per raggiungere l’obiettivo in questione occorrerebbe che l’offerta di laureati del mercato del lavoro ticinese potesse aumentare ogni anno di circa ’ unità. E se l’occupazione dovesse aumentare ancora?

In&Outlet

di Aldo Cazzullo

La Francia spaccata e i sovranisti italiani ◆

Emmanuel Macron ce l’ha fatta. La Francia ha scelto ancora una volta l’Europa, l’atlantismo, il liberalismo, la globalizzazione governata. Ma la Francia è divisa come mai prima. Se avesse votato solo Parigi, Macron non sarebbe al , ma all’%. Se però avesse votato soltanto il nord deindustrializzato, o il Sud terra d’approdo dell’immigrazione, Marine Le Pen sarebbe presidente. «Non esistono due France, quella delle città e quella delle campagne, quella che sta bene e quella che sta male. La Francia è una sola» ha detto il presidente nell’ultimo comizio. Ma non è così. C’è la Francia che vive nelle grandi città, ha studiato, sa l’inglese, considera l’Europa il proprio futuro, trae vantaggio dalla globalizzazione e pure dall’immigrazione; e si è mobilitata per Macron. E c’è una Francia che vive in periferia o in provincia e dall’Europa si sente dominata, dalla globalizzazione tradita, dall’immigrazione minacciata; anche stavolta è stata sconfitta, sia pure

meno nettamente che in passato, con Le Pen. Il divario sociale è palese e preoccupante. A Saint-Germain e nel sedicesimo arrondissement, quello a più alto reddito, al primo turno Macron ha superato il %; Le Pen non è arrivata al . Tra i francesi con la laurea magistrale il presidente vince  a ; tra quelli con la laurea triennale prevale  a ; tra i diplomati pareggia; tra coloro che si sono fermati alla scuola dell’obbligo è travolto da Le Pen. Ovviamente non tutti i quasi  milioni di francesi che hanno votato Macron sono raffinati intellettuali o milionari felici. Molti sono europei che non volevano una vittoria di Putin, la fine dell’Ue, il conseguente tracollo finanziario. Francesi ed europei consapevoli che la loro economia si regge anche sull’immigrazione. Ma la paura che ha portato Marine Le Pen al massimo storico non può essere demonizzata. Resta un fatto: Le Pen alla fine ha perso perché la maggioranza dei francesi ha ben chiaro che l’Europa è il

Il presente come storia

suo destino. È l’unico modo per dare alla Francia un ruolo mondiale, per finanziare a tasso zero un debito pubblico crescente, per difendere la moneta e i risparmi, e anche per affrontare i flussi migratori che premono dalla sponda sud del Mediterraneo e dai confini orientali del continente. Non è chiaro però se questo l’abbiano compreso anche i sovranisti italiani. I quali, a differenza di Le Pen, secondo i sondaggi tra pochi mesi vinceranno le elezioni, e con i centristi di Berlusconi avranno la maggioranza in Parlamento. I motivi dell’ennesima sconfitta di Le Pen sono molti. Tra i trentenni, la generazione della precarietà, lei ha prevalso. A fare la differenza sono i francesi che hanno più di  anni. Una generazione che va a votare in massa, e che in massa –  contro % – ha scelto Macron. Non è un caso che l’ascesa dell’estrema destra inquieti in particolare gli anziani. La Francia si è raccontata di aver vinto la seconda guer-

ra mondiale; in realtà, se oggi è l’unico Paese dell’Ue ad avere la bomba atomica e un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, lo deve a un pugno di eroi, riuniti attorno al generale Charles de Gaulle, che animarono una Resistenza destinata a rafforzarsi man mano che le armate tedesche cedevano terreno. Ma una parte dei francesi collaborò con i nazisti e riaprire la ferita di Vichy, come quella dell’Algeria francese, fa paura alla generazione che di quegli eventi ha memoria. Marine Le Pen, a differenza del padre e di Eric Zemmour, si tiene lontana dal tema ma ancora ne paga il prezzo. Il monito che dovrebbe venirne a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni è chiaro. Leader che non sono più alla testa di piccoli movimenti, ma ambiscono ognuno a guidare il primo partito italiano, non dovrebbero avere nessun tipo di legame con chi non condivide i fondamenti della Repubblica, a cominciare dall’antifascismo. Ma non è certo sulla me-

moria che si sono giocate le presidenziali francesi. I punti centrali sono stati l’economia e la posizione della Francia in Europa, nell’Alleanza atlantica, nel difficile confronto con Putin. I sovranisti italiani sembrano tuttora in mezzo al guado tra Macron e Le Pen, tra l’europeismo e l’euroscetticismo. Del resto se persino Giuseppe Conte, alleato con il Pd, rifiuta di scegliere tra i due (mentre Luigi Di Maio è passato dai «gilet gialli» a Macron), è difficile pretenderlo da Salvini e Meloni. Salvini si è congratulato con Le Pen per il risultato al primo turno; Meloni invece ha chiarito che lei non la rappresenta. Però Salvini in Italia sostiene il governo Draghi, ha contribuito alla rielezione di Mattarella. Meloni è all’opposizione eppure sulla guerra in Ucraina parla come Draghi. Resta da capire quale sarà la linea che i leader della Lega e di Fratelli d’Italia sceglieranno in campagna elettorale e soprattutto quale adotteranno se andranno al potere.

di Orazio Martinetti

Il Ticino non è in vendita ◆

Ecco che la «primavera in fior mena tedeschi». Carducci verseggiava sulla calata del Barbarossa e sulla battaglia di Legnano. Noi, in un contesto locale decisamente meno cruento, salutiamo invece con sentimenti contrastanti l’arrivo delle torme nordiche che ai primi germogli scendono verso la «Südschweiz» alla ricerca di luce e tepore. È una tradizione, un pellegrinaggio che rigenera e tonifica l’economia ticinese; una flebo benefica soprattutto per le località lacustri. Tuttavia il turista è stato spesso recepito come una figura doppia, invocata o respinta, attesa o detestata, a seconda delle contingenze storiche e degli umori. Il turista, inteso come forestiero, è infatti «hospes» oppure «hostis», ospite o nemico: le due facce convivono e, come si evince dalla cronaca, non sempre la prima prevale sulla seconda.

Che il Ticino – prima come corridoio del «Grand tour» e poi come meta privilegiata delle classi colte del Nord Europa – fosse predestinato a diventare un piccolo Eden alle porte d’Italia stava scritto nella sua morfologia e nel suo clima. Gli scritti dei primi visitatori traboccano di ammirazione per questa terra di laghi e di morbide colline, benedetta da una vegetazione lussureggiante e da un’atmosfera che anticipava la macchia mediterranea. Erano luoghi che risvegliavano i sensi a contatto stretto con la natura, oasi di quiete e di meditazione (Monte Verità), lontane dalle tragedie che scuotevano il vecchio continente. La prima fase – quella legata all’arrivo della strada ferrata, la «Gotthardbahn» – fu all’origine di un incremento senza precedenti di relazioni, di traffici e scambi commerciali con il

mondo transalpino. A Locarno e Lugano sorsero grandi alberghi, ristoranti e sale da ballo; gioia di vivere e spensieratezza che la cartellonistica in stile liberty esaltava al massimo grado. La «scoperta» di questo lembo di terra elvetica incuneato in Lombardia e Piemonte fu per gli uni una boccata di ossigeno, dopo tanti secoli di arretratezza e di sudditanza politica, ma per altri un nuovo cruccio, più sottile e più insidioso, perché inquinava le tradizioni, la lingua, gli usi e costumi degli autoctoni. Una colonizzazione surrettizia che trasformava ogni espressione popolare in folklore per la gioia del turista, convinto di scorgere nelle feste dei fiori e nei cortei della vendemmia il «vero Ticino». Si venne così a comporre il quadretto del «popolo allegro», amante del vino e del mandolino, una maschera perfet-

ta per l’apparato pubblicitario. Alcuni intellettuali non gradirono affatto tale «perversione» dell’anima ticinese. Scrittori come Chiesa, Salvioni, Bossi insorsero attraverso articoli e manifesti in difesa della lingua italiana, posposta al tedesco oppure strapazzata senza ritegno. La seconda grande fase prese avvio con l’apertura della galleria stradale () e il completamento della rete viaria. Le ricadute questa volta non investirono tanto il ramo alberghiero come durante la «Belle époque», quanto il mercato delle residenze secondarie. L’autostrada provvide a risucchiare il cantone nell’area nordalpina, trasformandolo in periferia ristoratrice dell’agglomerato di Zurigo. Dotato di un potere d’acquisto maggiore, il confederato svizzero-tedesco seppe accaparrarsi le parcelle edificabili miglio-

ri, soprattutto lungo le rive del Ceresio e del Verbano. Un’occupazione che i comuni non seppero o non poterono contrastare, anche per l’assenza di strumenti giuridici adeguati dopo la bocciatura della Legge urbanistica (). Anche in quell’occasione alcuni intellettuali – da Piero Bianconi a Tita Carloni – cercarono di allertare l’autorità politica e l’opinione pubblica sulle conseguenze nefaste della svendita del paese («Ausverkauf») ma con scarsi risultati. E oggi? Oggi le voci critiche rimangono ai margini, annichilite da una crescita che nessuno intende regolare o in qualche modo incanalare verso una concezione meno utilitaristica e chiassosa del turismo; una concezione fatta di rispetto reciproco, di cultura, di conoscenza dei luoghi, di ospitalità non servile.


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CULTURA

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Donne in viaggio all’USI Un racconto fotografico sul viaggio del ’39 della Schwarzenbach e della Maillart in Afghanistan

Al via Chiassoletteraria Si apre il festival letterario di Chiasso, tra gli ospiti anche lo scrittore svizzero Peter Stamm

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Il dio della danza Per le edizioni Lindau è uscita la biografia di Vaclav F. Nižinskij curata da Sergio Trombetta

Netflix racconta Pau Casals Il musicista e compositore spagnolo che visse in esilio è protagonista del docu-film Pau, la força d’un silenci

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«Non ho bisogno di essere una femminista»

In mostra

Il Kunstmuseum di Basilea dedica una retrospettiva intensa e ben allestita all’artista Louise Bourgeois

Elio Schenini

In un momento in cui i riflettori delle istituzioni museali sono puntati sull’arte al femminile, con operazioni di recupero indubbiamente di grande interesse, alle quali, come spesso accade in questi casi, si affiancano operazioni che si limitano pedissequamente a seguire un trend, la scelta di proporre una grande mostra dedicata a Louise Bourgeois costituisce indubbiamente un titolo di merito per il Kunstmuseum di Basilea e per il suo direttore Josef Helfenstein. Ed è un titolo di merito ancora più grande, l’aver deciso di affidare la curatela di questo progetto non solo a una donna, ma in particolare a un’artista. Pur nella diversità di approccio che caratterizza il loro lavoro, l’artista americana Jenny Holzer ha infatti saputo interpretare con grande sensibilità e senza inutili protagonismi un progetto espositivo dedicato a quella che è indubbiamente una delle figure più importanti dell’arte della seconda metà del Novecento. Ne è risultata una mostra intensa e ben allestita che, partendo dall’importanza della parola nell’opera della Bourgeois, permette allo spettatore di entrare nell’universo di un’artista che all’identità femminile ha dedicato tutta la sua ricerca, riuscendo a interpretarla con una sincerità di accenti che non ha paragoni nell’arte del secolo scorso. Un’artista così singolare e consapevole della forza che le derivava dalla sua capacità di introspezione, che ha potuto fare a meno anche della stampella ideologica del femminismo, al punto che nel  in un’intervista con Isabelle Caux ha affermato: «sono una donna, quindi non ho bisogno di essere una femminista». E questo, anche se il suo successo, a dire il vero piuttosto tardivo, deve molto all’affermazione del pensiero femminista tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Del resto la Bourgeois si è sempre battuta per le questioni di genere e ha sempre sostenuto e promosso le artiste più giovani di lei. Parlare di Louise Bourgeois, vuol dire inevitabilmente parlare della sua biografia, perché tutto il suo lavoro nasce da uno scavo feroce e impietoso della sua interiorità che le ha permesso nel corso del tempo di estrarre alcune delle immagini più simbolicamente pregnanti dell’arte del secolo scorso come nel caso dei grandi ragni intitolati Maman o come nella serie delle Cells. Nata nel  a Parigi da una famiglia borghese e agiata che gestiva una bottega per il restauro di arazzi antichi, Louise fin da piccola è confrontata con la difficile realtà dei rapporti famigliari. Se da un lato vi è la lunga malattia della madre che morirà nel , quando l’artista è appena ventenne, è però soprattutto il comportamento del pa-

Proiezione sulla Alte Universität a Basilea (Mark Niedermann, with permission of the Louise Bourgeois Archive and ©The Easton Foundation/©2022 Jenny Holzer). A destra The Family. (Benjamin Shiff, ©The Easton Foundation). In basso a sinistra un ritratto dell’artista. (© Xandra M. Linsin)

dre a segnare in maniera traumatica la sua infanzia. All’interno delle mura domestiche la piccola Louise ha infatti modo di assistere ogni giorno alla relazione che il padre intrattiene con quella che è la sua insegnante privata d’inglese. Una relazione che come Louise ha modo di capire rapidamente è nota anche alla madre, la quale, tuttavia – cosa per lei allora incomprensibile – la tollera, chiedendo addirittura alla bambina di ragguagliarla in proposito. La necessità di tornare continuamente su questi traumi per cercare di ricucire e rammendare le ferite che hanno impresso nel suo animo diventeranno il motore di tutto il suo lavoro. Come ha riconosciuto lei stessa: «tutto quello che faccio è stato ispirato dai miei primi anni di vita. Tutti i miei lavori, tutti i miei soggetti hanno tratto ispirazione dalla mia infanzia. La mia infan-

zia non ha mai perso la sua magia. Il suo mistero, il suo dramma». Ma la grande operazione di scavo nel proprio inconscio da cui ha tratto alimento tutta la sua produzione artistica inizierà solo negli anni Quaranta, dopo una serie di vicende, tra cui un tentativo di suicido nell’immediatez-

za della morte della madre, l’abbandono dello studio della matematica per dedicarsi a quello dell’arte, l’incontro con Fernand Léger che le suggerisce di dedicarsi alla scultura invece che alla pittura e, soprattutto, il matrimonio con lo storico dell’arte americano Robert Goldwater, con il quale

nel  si trasferirà a New York. È in questa città, infatti, che si svolge la seconda parte della vita della Bourgeois e tutta la sua carriera artistica. Dopo le prime prove artistiche degli anni Quaranta tra le quali spiccano le Femme maison, di cui troviamo alcune versioni successive nella splendida sala che apre l’esposizione, nel  la Bourgeois interrompe per un decennio l’attività artistica in seguito alla depressione causatale dalla morte del padre. È in quel momento che prende avvio il lungo e doloroso processo di autoanalisi psicanalitica che l’accompagnerà per oltre un trentennio e che si tradurrà in un intenso processo di scrittura di cui la mostra ci offre un’ampissima testimonianza. La rielaborazione del rapporto tormentato con il padre, intessuto di odio e di amore, che sfocia nel  nell’opera La distruzione del padre, e la riabilitazione della figura della madre sono al centro di una produzione che a partire dagli anni Sessanta si caratterizza sempre più per la sua intransigente capacità di affrontare, partendo sempre dalla propria biografia, temi come la sessualità, il ruolo della donna, la maternità, l’angoscia esistenziale, il potere maschile. Come lei stessa scrive in uno dei suoi arazzi ricamati: «sono andata e tornata dall’inferno, e lascia che te lo dica è stato meraviglioso». E di questo viaggio la mostra di Basilea rende conto in maniera esauriente. Se proprio un appunto va fatto alla sua curatrice è quello di non aver saputo resistere alla moda del momento e di aver prodotto una applicazione di realtà aumentata che non aggiunge assolutamente nulla all’esperienza dello spettatore, ma rischia anzi di distrarlo inutilmente dall’intensa carica emotiva che pervade le sale espositive. A chiusura di questo articolo vogliamo però ricordare anche una figura maschile, quella di Martin Kunz, l’ex direttore del Kunstmuseum di Lucerna che negli ultimi vent’anni aveva fatto del Ticino la sua casa e dove è scomparso lo scorso ottobre all’età di  anni. Molti anni fa, quando dirigeva il museo di Ascona, aveva provato a portare in Ticino una mostra della Bourgeois, ma forse dalle nostre parti i tempi non erano ancora maturi per certe cose e il progetto era stato affossato. Oggi siamo sicuri che avrebbe vissuto come una sorta di risarcimento ideale questa grande mostra presentata nella sua Basilea. Dove e quando Louise Bourgeois x Jenny Holzer. The Violence of Handwriting Across a Page, Basilea, Kunstmuseum. Fino al 15 maggio. Orari: ma 10.00-18.00; me 10.00-20.00; gio-do 10.00-18.00. www.kunstmuseumbasel.ch


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azione – Cooperativa Migros Ticino

CULTURA

In viaggio da Ginevra a Kabul in tempo di guerra In mostra ◆ All’USI, fino al 18 maggio, una retrospettiva fotografica dedicata ad Annemarie Schwarzenbach e Ella Maillart Vega Tescari

Ci sono paesaggi, ma ci sono soprattutto figure nel paesaggio. Le fotografie scattate da Annemarie Schwarzenbach durante il suo viaggio in Afghanistan con Ella Maillart nel , al di là di generi e categorie quali la fotografia di viaggio, documentaria o il fotogiornalismo, sono immagini che disegnano percorsi e traiettorie, non solo relativamente ai territori visitati, ma anche all’interno dello spazio costruito dalle singole fotografie. I molti ritratti in mostra sono ritratti di sguardi, capaci di mobilitare l’immagine, di creare dinamiche visive che coinvolgono lo spettatore. Occhi che si guardano, che ci guardano, che guardano qualcosa che non vediamo; occhi che diventano spesso il centro focale delle fotografie. Nell’immagine di un gruppo di per-

Osservando un’immagine si può dimenticare che qualcuno era lì a scattarla, in un determinato punto, in una determinata posizione. Nelle immagini di Annemarie Schwarzenbach si può percepire la sua presenza e ciò che anima il suo gesto fotografico; può essere un’ombra che penetra all’interno dell’immagine o, in modo ancora più significativo, la prospettiva da cui decide di ritrarre i suoi soggetti. Le persone sono perlopiù colte alla loro altezza dall’obiettivo fotografico e così, per ritrarre bambini seduti a terra o un uomo accovacciato in preghiera, la fotografa cerca un punto di vista paritario, che annulli una distanza e che soprattutto non sia dominante rispetto al soggetto. Schwarzenbach si dimostra in questo senso consapevo-

emergenza, conoscano già i miei desideri e le mie esigenze.

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le e sensibile rispetto al potere e alla potenziale violenza che una visione dall’alto può innescare. Come e da quale prospettiva si guarda è importante quanto ciò che si guarda; abbassarsi corrisponde a elevarsi all’altezza del soggetto. Le immagini possono dunque essere viste e lette anche sotto la lente di una pedagogia dello sguardo e di un’etica del guardare, in cui la volontà di stabilire un dialogo silenzioso, ricettivo e rispettoso, diviene un modo per superare o aggirare distanze culturali o linguistiche. È possibile riscontrare dei fili sottili tra la sua opera fotografica e quella letteraria. Nei suoi testi si coglie uno sguardo fotografico sulla realtà, l’abitudine a osservare e la volontà di restituire a parole dimensioni visive. Lo si nota soprattutto nelle descrizioni paesaggistiche, nell’attenzione ai cieli, agli orizzonti, agli effetti luministici, cromatici e atmosferici. Luce, aria, nebbia, ombre, polvere, compongono scenari di parola e di visione, con una tendenza a inquadrare la scena come in fotografie potenziali, possibili. Scrive: «Ben presto il villaggio sarà abbandonato, forse tra venti, forse tra cent’anni. Una rovina in più. Qualche ondulazione del terreno dove prima c’erano cupole di case, una traccia di luna, il canale prosciugato e tutto in balia del vento, appiattito dal vento e incessantemente coperto da polvere nuova come da un giardiniere attento che cura e innaffia il suo giardino mattina e sera… Avanzo, sono finalmente all’aperto, l’orizzonte è immenso e il sole

– Direttive del paziente – Disposizioni in caso di morte – Mandato precauzionale – Testamento – Tessera previdenziale – Opuscolo informativo

del pomeriggio si abbandona ai suoi abbaglianti giochi di luce, ma io sono ancora tra le rovine, sul terreno battuto della città sepolta, e l’altura sulla quale salgo era la sua fiera rocca». Negli scritti di viaggio della fotografa svizzera emerge talvolta una sorta di disorientamento temporale, una difficoltà a definire che giorno o quale ora sia: «Non c’era neppure un orologio. Nessun rintocco di campana. Non valeva nemmeno la pena di festeggiare la domenica, trascorreva come qualsiasi altro giorno. Certo si poteva contare sul fatto che calasse la sera. Le notti erano molto lunghe, la luna brillava sempre in cielo e si rifletteva nel piccolo stagno fiabesco». Per parte sua la fotografia viene ricondotta allo sguardo, ma è anche e soprattutto una dimensione in dialogo con la temporalità; è attestazione e condensazione di un istante estrapolato dal flusso del tempo, che si può porre in dialogo con quanto la scrittrice afferma rispetto all’esperienza del viaggiare: «La nostra vita assomiglia a un viaggio… e così il viaggio mi sembra, più che un’avventura e un’escursione in luoghi insoliti, un’immagine concentrata della nostra esistenza (…)». Dove e quando Ginevra-Kabul 1939: due donne svizzere sulla via della pace, Lugano, Palazzo Rosso Campus Ovest USI. Fino al 18 maggio. Orari: lu-ve 09.0021.00; sa-do 09.00-18.00.

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«La luna continuava a brillare e io non riuscivo a capire in che modo la notte si fosse trasformata in giorno». Annemarie Schwarzenbach

Mi tranquillizza sapere che i miei famigliari, in caso di

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sone in cammino colte frontalmente mentre avanzano verso l’obiettivo fotografico, si percepisce un dinamismo in virtù di direzionalità opposte; traiettorie si incontrano, sguardi si incrociano, quello della fotografa e quello dei suoi soggetti, e un terzo sguardo si genera, il nostro. Anche noi compresi per un istante all’interno della cornice fotografica. Se la fotografia non può restituire il movimento o un’azione nel loro farsi, può tuttavia alludere al movimento, farlo vivere in una dimensione virtuale, di pensiero. Ecco allora che la sospensione di un gesto può richiamare il prima e il dopo di quel gesto, riconsegnare in absentia un orizzonte narrativo che ciascuno riprodurrà nel proprio sguardo.

Sotto la Ford V8 con cui fecero il viaggio, a sinistra le due giornaliste e fotografe svizzere prima di partire, in basso una donna seduta che fila con bambino, al largo di Khvajeh Chahar Shanbeh in Afghanistan. (© Biblioteca nazionale svizzera BN)


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CULTURA

«Quando sto nella natura sono nel mio elemento» Personaggio

Peter Stamm, vincitore nel 2018 del Premio svizzero del libro, questa settimana sarà al Festival Chiassoletteraria

Natascha Fioretti

Classe , di casa a Winterthur, noto al grande pubblico sin dal suo successo con Agnes alla fine degli anni novanta, Peter Stamm, scrittore asciutto ma efficace che ama sondare l’universo dei rapporti di coppia sarà ospite di Chiassoletteraria e della sua edizione dedicata ai porti. Da qui parte anche la nostra chiacchierata «Mi piace quando c’è un cappello che ti permette di muoverti tra un ampio ventaglio di temi. Il porto è al tempo stesso un luogo di approdo, che offre riparo, e un punto di partenza». A proposito di festival letterari, a fine maggio avrebbe dovuto partecipare all’International Book Arsenal Festival di Kiev «Proprio l’altro giorno visitando il sito ho visto che è stato cancellato. Gli organizzatori restano attivi su altri fronti, ma la manifestazione non avrà luogo». Sul sito dell’Arsenal si legge: «Il coraggioso popolo ucraino sta difendendo il paese… il nostro team lavora per sostenere l’industria editoriale, la scena letteraria e artistica ucraina». L’autore in questi giorni è comunque impegnato in incontri e presentazioni del suo più recente romanzo Das Archiv der Gefühlen (L’archivio dei sentimenti). Gli chiedo se non sia strano promuovere il proprio libro mentre in Europa si combatte una guerra «leggevo oggi un articolo sulla “Neue Zürcher Zeitung” in cui ci si chiedeva come si sarebbe risvegliata la città, alcune voci

ucraine dicevano quanto sia importante che torni la cultura. Non credo che le due cose siano in contrapposizione, anzi proprio perché viviamo tempi difficili credo sia importante far sentire le nostre voci e organizzare incontri culturali». Per due anni l’attenzione pubblica e quella mediatica si sono concentrate sulla pandemia, ora la guerra, non le sembra che ci si stia dimenticando di una delle questioni più urgenti del nostro tempo, quella ambientale? «In verità la guerra ha riacceso il dibattito sull’approvvigionamento energetico, le fonti rinnovabili alternative e la nostra autonomia dalla Russia». Riguardo a clima e ambiente, sono curiosa di sapere se nutre qualche speranza per il futuro o è convinto che abbiamo superato la soglia del non ritorno «Se non nutrissi qualche speranza non sarei nel partito dei Verdi e lo sono da  anni! Ho appena finito di scrivere un contributo dal titolo La mania di grandezza dei pessimisti. La loro tesi è “io non posso salvare il mondo e quindi il mondo soccomberà”. Al contrario ritengo che il mondo sia più grande di tutti noi e ognuno nel suo piccolo possa dare il suo contributo. La questione non è salvare il mondo (si salva da solo) ma creare le condizioni per continuare a vivere come abbiamo fatto finora». La letteratura può fare qualcosa? «Dico sempre che chi legge e scrive libri consuma

Peter Stamm nella campagna di Bussnang nel Canton Turgovia dove è ambientato il suo romanzo Andarsene. (Keystone)

poca energia, sono entrambe due attività ecosostenibili, ma la letteratura non è il luogo per fare attivismo». Pensando in particolare a La dolce indifferenza del mondo, Andarsene (Casagrande) e al suo ultimo L’archivio dei sentimenti, tutti si aprono con una precisa descrizione del paesaggio e del tempo come se volessero introdurci alla scena, a ciò che sta per accadere. «La natura e le condizioni atmosferiche giocano un ruolo importante nella mia vita, li percepisco sempre con grande intensità. Quando sto nella natura sono nel mio elemento. Il tempo in qualche modo ci definisce e definisce i libri». Come può nascere un archivio dei sentimenti,

non c’è una contraddizione in termini? «In verità, anche se il titolo sembra suggerirlo, nel romanzo non si archiviano i sentimenti ma le storie. Il protagonista cerca di trattenere il mondo e ciò che gli accade intorno ordinando gli articoli di giornale in diversi raccoglitori fino a creare un vero e proprio archivio». Un progetto al quale si dedica per tutta la vita nell’attesa di rincontrare il suo grande amore. Nel frattempo trascorrono molti anni senza sorprese finché un giorno arriva la svolta «Quando questa persona decide di lasciare andare tutto e distrugge la sua opera, vive un momento di grande liberazione». Al centro dei suoi romanzi c’è sem-

pre una coppia uomo-donna e nella parabola della loro vita si ha la sensazione che a sottendere il loro rapporto ci sia un mistero, una dimensione impalpabile e imperscrutabile per cui in qualche modo le aspettative dei due protagonisti vengono disattese e le loro vite corrono parallele. Sembra che il rapporto di coppia eserciti un grande fascino su di lei. «Le relazioni vanno molto al di là di quello che si pensa, riguardano il potere, la morte, la malattia. Nella nostra società consolidata le relazioni sono caratterizzate dai drammi che viviamo. È un tema molto vasto su cui riflettiamo poco». Perché tutto ruota sempre attorno a soli due personaggi? «Non sono uno scrittore barocco che ama riempire tutto con ridondanti figure e descrizioni, al contrario, mi piace ridurre all’essenziale. Ad aggiungere si fa sempre in tempo». I romanzi che abbiamo menzionato presentano molti tratti comuni, è un caso? «Credo che questo valga per tutti gli autori, lo stile è quello e i temi si ripresentano. Mi piace pensare che con il tempo tra le mie storie si tesse una rete che le raccoglie e unisce tutte». Dove e quando Festival Chiassoletteraria dall’11 al 15 maggio. Peter Stamm sarà ospite domenica alle 15.20 allo Spazio Officina. www.chiassoletteraria.ch Annuncio pubblicitario

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CULTURA

Il supermercato, luogo di osservazione privilegiato Pubblicazione

Il nuovo racconto di Annie Ernaux, tra scaffali e carrelli della spesa, riflette sulla società contemporanea

Laura Marzi

Ci sono delle autrici dal talento così potente e cristallino che potrebbero scrivere anche della loro spesa al supermercato e comunque varrebbe la pena leggerle. Sembra una frase fatta, una sorta di paradosso, e invece nel caso di Annie Ernaux si rivela vero. Guarda le luci amore mio per L’orma Editore, tradotto da Lorenzo Flabbi, è il diario che la grande scrittrice francese ha tenuto per un anno ed è dedicato proprio alle sue visite regolari al centro commerciale di Cergy, dove abita, più precisamente all’Auchan. Annie Ernaux si dedica a questo progetto come se fosse una sorta di sfida: «mi ero chiesta perché i supermercati non fossero mai presenti nei romanzi che si pubblicavano, quanto tempo ci volesse affinché una realtà nuova potesse assurgere alla dignità letteraria». Questa domanda se la pone molti anni prima di scrivere questo testo, addirittura negli anni ’, quando assiste a una scena dolorosa, proprio in un supermercato: un ragazzo di vent’anni che dice a una sua coetanea che sicuramente il bambino che lei aspetta non è suo e che quindi se ne laverà le mani. Ernaux riflette sul fatto che forse il supermarket non è mai stato considerato un luogo abbastanza interessante per essere descritto in un romanzo perché, tuttora, l’incombenza della spesa, di occuparsi di compra-

re il necessario per tenere in ordine la casa o per risolvere l’annosa questione: «cosa far da mangiare stasera, domani, questa settimana?» pesa ancora per lo più sulle spalle delle donne. E si sa che le questioni femminili non sono mai considerate abbastanza interessanti o autorevoli. Invece Ernaux vede avvenire all’Auchan in cui si reca regolarmente qualcosa che non accade altrove: nel comune di Cergy, nella regione dell’Île de France, si registrano circa  nazionalità. L’autrice nota che in nessun altro posto, a parte quel centro commerciale, tutte quelle persone appartenenti a etnie, culture e religioni diverse si incontrano, condividono un’attività, uno spazio, dei desideri… A colpire, all’interno di questo breve testo dedicato all’attività delle compere di scorte alimentari, è la profondità e la lucidità dell’autrice: «siamo una comunità di desideri e non di azione» scrive Ernaux in un periodo storico in cui il desiderio, con un ritardo di circa quarant’anni rispetto al momento in cui le femministe della seconda ondata ne avevano parlato e scritto, riemerge come se fosse ancora un tema rivoluzionario. Ernaux con poche parole in un diario dedicato all’Auchan di Cergy smentisce questo inganno, sottolineando come il supermarket sia un luogo di osservazione privilegiato per comprendere quanto le merci e il sistema neoliberista abbiano plasma-

Una sorridente Annie Ernaux. (Keystone)

to il nostro modo di stare al mondo e quindi di desiderare. Ernaux ricorda che essendo nata nel , l’anno più buio della seconda guerra mondiale per la Francia e non solo, la sua fantasia infantile era di entrare in un negozio e mangiare dagli scaffali ogni prelibatezza. Osserva che adesso la nostra libertà sotto controllo, «la paura interiorizzata» sono talmente potenti che ci aggiriamo nei grandi ma-

gazzini tra scaffali pieni di cibo senza mai osare consumare nulla di ciò che ci circonda. A muovere la scrittrice francese in questo suo percorso narrativo tra i corridoi del suo supermarket di fiducia è anche una forma di affetto per quel posto, che la accoglie per esempio quando non riesce a scrivere e ha bisogno di distrarsi, di perdersi restando in un luogo familiare. Ernaux

arriva a immaginare la possibilità che i bambini di oggi forse rimpiangeranno i sabati al centro commerciale, se l’abitudine di andarci verrà soppiantata da quella di fare la spesa online o di usufruire del servizio a domicilio, paragonando la possibile futura nostalgia degli scaffali sterminati dell’Auchan di Cergy con quella delle botteghe, dei tempi in cui si andava a prendere il latte «con un bricco di metallo». Ciò che rende davvero interessante questo testo è che Ernaux riesce a connotare di un reale interesse sociale e politico l’esperienza della spesa al supermercato, prima di tutto perché si tratta di un luogo che almeno apparentemente abbatte le frontiere sociali: le persone benestanti e le famiglie indigenti vanno nello stesso posto a comprare il cibo, è un dato di fatto. All’interno del supermercato, però, i prodotti discount si trovano accanto al reparto per animali e hanno un packaging decisamente diverso da quelli a prezzo pieno, di marca. Inoltre, è diversa l’esperienza del rapporto con la merce, che Ernaux descrive in termini di: «umiliazione inflitta dalle merci. Costano troppo, quindi io non valgo niente». Bibliografia Annie Ernaux, Guarda le luci amore mio, L’orma Editore, Roma, 2022. Annuncio pubblicitario

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CULTURA

Gli infiniti segnali di Nižinskij Pubblicazione

Torna in libreria per Lindau la biografia del grande danzatore

Daniele Bernardi

Era nato a Kiev, in una famiglia di origini polacche. Entrambi i genitori erano danzatori, così come lo sarebbero stati lui e sua sorella Bronislava. Anche il fratello Stanislav, probabilmente, avrebbe avuto un uguale destino se un fatale – e tragicamente simbolico – incidente non ne avesse segnato lo sviluppo psichico (precipitato in tenera età dalla finestra del terzo piano, si risvegliò da un coma di tre giorni irrimediabilmente compromesso).

«Il tema della follia è un confine lungo il quale Nižinskij si muove non solo nella scrittura del Diario, ma anche nella sua precedente vita artistica» Figlio quindi di girovaghi che percorrevano la Russia imperiale di teatro in teatro, per tutti egli fu presto «il Dio della danza», grazie alle sue capacità fuori dall’ordinario. Attorno al suo nome, indissolubilmente legato alla compagnia dei Ballets Russes del geniale impresario Sergej P. Djagilev, da sempre aleggia il bagliore della leggenda, poiché sfortunatamente (e stranamente) non resta pellicola che ne immortali la danza. Molto è stato scritto di lui e a più riprese: la moglie Romola de Pulszky negli anni ’ e ’ gli dedicò due biografie, di cui una introdotta da una nota di Paul Claudel; la sorella, nelle sue bellissime memorie, ne descrive l’infanzia comune così come la reciproca intesa artistica; vi sono anche i ricordi di chi collaborò con lui, come Tamara Karsavina o Igor Stravinsky; e poi gli studiosi: da Françoise Reiss a Vera Krasovskaya, da Peter Ostwald a Lucy Moore. Non da ultimo esiste un celebre e doloroso diario, le cui traversie editoriali si sono protratte fino agli anni ’.

Ciò nonostante, quando ci si avvicina alla figura di Vaclav F. Nižinskij (-) si ha la sensazione di non poterla mai afferrare, come se questa fosse quella di un fantasma. Forse perché chi è stato toccato dalla follia – molti certamente lo sapranno: impazzì irreversibilmente nel , mentre soggiornava in Svizzera con moglie e figlia in attesa che la guerra finisse – è destinato a vivere in perenne esilio, come separato dalla vita alla radice. Oggi però, a distanza di anni dalla sua prima uscita per la casa editrice L’Epos (), torna felicemente nelle librerie un importante contributo a lui dedicato: Vaclav Nižinskij. La biografia (Lindau, ), del critico torinese Sergio Trombetta. Libro appassionante, estremamente accurato e ben scritto, esso è fra i pochi di un autore di lingua italiana integralmente dedicato all’argomento. Come in altri profili (fanno eccezione il monumentale Vaslav Nijinsky: A Leap into Madness del sopraccitato Ostwald e qualche altro lavoro, come il ben più recente Il corpo geniale di Liliana Dell’Osso e Daniela Toschi) Trombetta, da specialista di danza quale è, da un punto di vista cronologico dedica comprensibilmente poche – ma puntuali e significative – pagine agli anni di malattia del ballerino per concentrarsi invece sulla sua folgorante e breve carriera. Eppure, fin dalla nota introduttiva mette giustamente in guardia il lettore premettendo che «il tema della follia (…) è un confine lungo il quale Nižinskij si muove non solo nella scrittura del Diario, ma anche nella sua precedente vita artistica». Infatti, per Trombetta, è attraverso l’intessersi di questa fra danza, storia personale e scrittura che Nižinskij si fa profeta mandando «infiniti segnali» al futuro (e come non pen-

Vaclav Nižinskij nell’illustrazione di Ledwina Costantini. (Ledwina Costantini)

sare, qui, a quei «segnali fra le fiamme» descritti dal folle Artaud ne Il teatro e il suo doppio, quando paragona l’immagine del condannato al rogo a quella dell’artista?). Imponendo sulla scena, dopo «un secolo di incontrastato regno della ballerina», «un modello di maschio assolutamente inedito

nei teatri di danza» Nižinskij annuncia una poetica dell’androginia, nella quale virilità e femminile si mescolano confondendosi; attraverso l’uso di posture basse, asimmetriche, attinge al folclore, rompendo con l’ideale stereotipato di grazia che permea il mondo del balletto; utilizzando la

fissità – si pensi alla sua ultima esibizione, quando, «in uno stato d’animo teso e delirante», sfidò il pubblico di Saint-Moritz standosene fermo per un tempo interminabile – scopre «il livello zero della danza» con enorme anticipo sui tempi. Forse oggi certe caratteristiche potrebbero sembrare scontate. «Quante volte», scrive Trombetta, «abbiamo assistito a questo tipo di provocazione. Quante volte abbiamo, per esempio, visto un danzatore di Pina Bausch arrivare davanti al pubblico e interrogarlo in silenzio, fermo, con lo sguardo? (…) Ma se si pensa che questo accadeva nel , nella sala di un hotel (...), allora le cose cambiano». In Nižinskij si manifestano aspetti che saranno fondanti per pratiche estreme come il butoh giapponese o la body art, ma pure per fenomeni pop quali Michael Jackson e Freddie Mercury. Non da ultimo – e maggiormente di questi tempi – toccano le sue considerazioni sulla guerra e il commercio, così come quelle sui problemi ambientali: nel rileggere le torrenziali pagine del diario non si può restare indifferenti ai suoi disperati appelli alla pace, alla cura per il mondo in cui viviamo. Lettura che ci conduce in un’epoca di straordinario fermento culturale e di rivolgimenti che molto possono dirci dell’oggi, Vaclav Nižinskij. La biografia è un libro riccamente documentato, che ha il pregio di avere spessore letterario senza mai cedere al romanzesco. Al suo ritorno sugli scaffali dopo lunga assenza – chi qui scrive, a suo tempo, si procurò faticosamente la prima edizione attraverso l’usato – va quindi data la meritata attenzione. Bibliografia Sergio Trombetta, Vaclav Nižinskij, Edizioni Lindau, Milano, 2022.

Il piccolo mondo antico di Nembro Pubblicazione

Il giornalista Gigi Riva racconta i morti di Covid della sua città flagellata dal virus

Angelo Ferracuti

ra desolata di Thomas Stearns Eliot, un poemetto in cinque movimenti. La globalizzazione collega direttamente e improvvisamente la Valle Seriana alla Cina nel febbraio del , colpisce quelli che Riva definisce «amici, conoscenti, o semplici volti noti nel panorama umano del mio paese». L’autore, abituato a muoversi nelle zone più calde dei conflitti, a chi paragonava questo evento a quelli bellici amava rispondere con la battuta di spirito: «Dalla guerra si esce denutriti, dalla pandemia usciremo obesi», eppure al cimitero del suo paese sulla lapide che ricorda i caduti «ci sono  nomi per la Prima guerra mondiale,  per la Seconda. Di Covid , tra la fine di febbraio e aprile , sono morte  persone su una popolazione di ’ abitanti», numeri che solo a leggerli fanno spavento. Oggi queste  vite sono tutte raccontate dentro questo libro, i loro intrecci, le loro epiche minori, il loro coraggio, la paura, i sogni, da Franco Orlandi, ex camionista, il primo morto «ufficiale», al «Roccia», alpino e muratore inossidabile, a Suslov, come era soprannominato il

novantaduenne Giulio Bonomi «per la stretta somiglianza con il severo depositario dell’ortodossia sovietica» Michail Andreevic, falegname autodidatta e comunista scissionista seriale, anche lui morto di Covid, o il «Firlo», «settantadue anni, ex funzionario della Farnesina con missioni in Venezuela, Cina, Guinea», Silvio Adobati, gregario di Fausto Coppi fondatore del Dancing Europa, oppure monsignor Achille Belotti, «cappellano degli emigranti in Belgio, a Waterschei», invece che l’in-

(Shutterstock)

La Pandemia, come tutti gli stati di eccezionalità, di forza maggiore, ha generato immaginari e storie. Storie di medici, di malati, storie di famiglie, di giovani e vecchi, di agonia e di morte, soprattutto, storie nelle storie, quelle del passato, ferite dentro le comunità, piccole e grandi. Di questo enorme giacimento di esistenze Gigi Riva, reporter e inviato speciale di guerre e questioni mediorientali per il «Giorno» e «L’Espresso», di cui è firma autorevole, ma anche autore di romanzi, L’ultimo rigore di Faruk (Sellerio), Non dire addio ai sogni (Mondadori) tra gli altri, isola un microcosmo che conosce, il suo, quello delle radici, essendo originario di Nembro, un piccolo paese in provincia di Bergamo tra i primi colpiti duramente dal Covid , con il quale ha un rapporto intimo, di conoscenza profonda, e qui stabilisce un campo narrativo ad ampio raggio, fa di un piccolo mondo, una geografia interiore, il mondo intero, che diventa un libro ibrido tra giornalismo d’inchiesta e reportage, Il più crudele dei mesi (Mondadori Strade Blu,  pp,  euro), che è anche l’incipit de La ter-

tellettuale Tullio Carrara, il bibliotecario che anche da pensionato teneva lì gratuite lezioni di latino, perché «I soldi servono per vivere dignitosamente. Il resto, al vans tot. Avanza tutto», debitamente citati dal primo all’ultimo con la data di decesso e in ordine di morte al fondo del libro. Così come dal «piccolo mondo antico del cortile» l’anziana madre dell’autore, la José, un altro prezioso occhio che scruta nel microcosmo lombardo e racconta la peste silenziosa che decima soprattutto i suoi coetanei, attacca corpi già debilitati, quelli della popolazione anziana di Nembro, perché «Tutto l’Occidente è anziano». Una Spoon River nostra contemporanea e corale, che è subito Storia, dove si incontrano nello stesso punto di fuga i destini di chi ha un ruolo di responsabilità all’interno della comunità, quindi politici, preti, medici, l’impiegata dell’anagrafe, il presidente del Motoclub che fu campione del mondo, ma anche la dama della San Vincenzo, il factotum del cine-teatro, l’ostetrica, in un luogo appunto ancora socialmente coeso e comunitario, dove come riferisce il sindaco di Nembro Claudio Cancelli, parlando

della vivacità del suo paese, «le possibilità di aggregazione che erano la nostra forza, si sono trasformate in un punto di debolezza», aumentando la possibilità di contagio. Ne viene fuori anche un romanzo sociale della provincia italiana, quella operosa fatta di  aziende,  dipendenti e  milioni di fatturato l’anno, «fabbriche d’eccellenza come Cartiere Pigna, Polini Motori, Persico Group», gente che, come avverte il sindaco di Bergamo Gori, ha «una cultura del lavoro da essere diventata, da punto di forza, una fragilità, perché ci ha reso difficile capire che dovevamo fermarci». Il romanzo della vita che si ferma, si spegne all’improvviso in «un marzo sfavillante di luce, di sole già caldo, di giornate inutilmente allungate. Raro nella sua possente esplosione vitalista a queste latitudini. Il più crudele dei mesi era un ossimoro. Rinchiusi nelle loro case, i nembresi guardavano dalla finestra la stagione che fioriva come fossero pesci in un acquario». Bibliografia Gigi Riva, Il più crudele dei mesi, Milano, Mondadori, 2022.


R E P O R TA G E P U B B L I C I TA R I O

La terapia craniosacrale si è dimostrata efficace nel trattamento di vari schemi di dolore e malattie come pure nell’alleviamento dell’ansia e degli stati di esaurimento. Rafforza inoltre il sistema immunitario e favorisce la riabilitazione dopo infortuni e operazioni. Può contribuire a ristabilire l’equilibrio fra corpo, mente, anima ed ambiente.

Come passare dallo stress e dall’ansia alla fiducia Un paziente, chiamiamolo il signor P., soffre di stress e di conseguenza spesso di ansia, agitazione fisica, disturbi del sonno, sudorazione improvvisa e disturbi respiratori. Il suo medico gli consiglia di provare la terapia craniosacrale, in quanto uno studio della dottoressa Heidemarie Haller ha dimostrato che la terapia craniosacrale è in grado di alleviare durevolmente non solo dolori cronici, ma anche fastidiosi stati di ansia e disturbi del sonno. Dopo il trattamento, i soggetti hanno descritto «sentimenti come pace e fiducia».

Accompagnamento sicuro e benevolo

Passo dopo passo verso la fiducia (in sé)

Al termine della seduta il signor P. si sente più tranquillo e sereno. Grazie ad altre esperienze del genere consce e integrate, con il passare del tempo sarà più facile per lui (ri)trovare uno stato di equilibrio leggero anche al di fuori delle sedute terapeutiche. Inoltre, insieme alla sua terapista, ha elaborato strategie adattive individuali in grado di sostenerlo durevolmente nella propria quotidianità e in momenti di ansia e stress. Il signor P. si sente così meno in balia degli eventi. Impara ad ascoltare il proprio corpo e inizia ad avere più fiducia in esso e in sé stesso.

Durante la sua prima seduta di terapia craniosacrale, il signor P. parla con la terapista dei suoi sintomi. Mentre racconta, la terapista gli chiede più volte di fare una pausa e di percepire quali emozioni e sensazioni corporee provoca il racconto. Se le palpitazioni e la stretta alla gola si intensificano troppo, lo convoglia in modo mirato verso una delle sue risorse. Lo invita a percepire il terreno sotto i piedi o fa con lui un breve esercizio di respirazione. Inoltre, riprende sue affermazioni importanti, di modo che il signor P. si senta preso sul serio e capito.

La terapia craniosacrale è un metodo

Percepire sé stessi significa anche riconoscere i propri limiti

rimborsano una parte dei costi.

La terapia craniosacrale sostiene i suoi clienti non solo tramite un accompagnamento verbale ed empatico, ma anche e soprattutto con un tocco consapevole. Il tocco in un contesto protetto aiuta a percepire il proprio corpo. Spesso è così possibile accedere a ciò che le persone stanno affrontando nell’inconscio, sia che si tratti di preoccupazioni represse che di angosce nella vita quotidiana. Insieme è possibile individuarle e trasformarle lentamente. Percepire il proprio corpo significa sentire sia sé stessi che le proprie esigenze e i propri limiti.

della terapia complementare riconosciuto a livello federale. Di regola le assicurazioni complementari

In caso di gravi disturbi di ansia o sintomi di stress si dovrebbe ricorrere a un sostegno psicologico/psichiatrico. Come terapia orientata al corpo, la terapia craniosacrale può aiutare in modo integrativo. Ulteriori informazioni: www.craniosuisse.ch

Si dà spazio alle emozioni e alle percezioni fisiche

Dopo il colloquio iniziale il signor P. si sdraia sul lettino. Presto sente come le attività nel suo corpo rallentano. Il suo respiro diventa più profondo, i pensieri diminuiscono e i suoi sensi si accentuano. Però non appena il signor P. inizia a lasciare andare qualcosa, si spaventa. Emergono i ricordi. Il suo polso accelera e il suo respiro diventa superficiale. La terapista gli conferma di continuo a parole e tramite il contatto con le mani che è al sicuro e che viene accompagnato con benevolenza. Lo invita a orientarsi nel «qui e ora» e a guardarsi intorno nella stanza. I momenti di quiete diventano lentamente più lunghi.

Le fasi di quiete rafforzano le difese immunitarie

In tali fasi di quiete, anziché ormoni dello stress, vengono prodotti i cosiddetti ormoni del benessere. Il sistema nervoso è di nuovo in grado di regolarsi meglio e l’intero organismo di rigenerarsi. Ciò migliora anche il funzionamento delle difese immunitarie.

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 9 maggio 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

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CULTURA

Casals, violoncellista libero che scelse il silenzio Musica

Un docu-film su Netflix ripercorre l’incredibile storia del musicista e compositore spagnolo

Giovanni Gavazzeni

In un salotto vista spiaggia e mare, come in un luminoso dipinto di Joaquin Sorolla, la voce della radio grida: «Camerati, preparatevi! Trasformeremo Madrid in un giardino, Bilbao in una grande fabbrica, Barcellona in un cantiere. Preparate le tombe!» È l’inizio del docu-film La forza del Silenzio (Netflix). La «voce» è quella vera del generale Gonzalo Queipo de Llano, famoso per le centinaia di messaggi radiofonici con cui dai microfoni di Radio Unión invitava falangisti e insorti a uccidere «quei cani di rossi idioti» durante la Guerra civile spagnola. «Se Pablo Casals mi venisse davanti reprimerei subito la sua agitazione: gli taglierei le braccia, tutte e due, fino ai gomiti». Provenendo le minacce da uno dei più feroci collaboratori del Caudillo Franco, responsabile della mattanza in Andalusia (dove venne ucciso il poeta Federico Garcia Lorca), si capisce perché il sunnominato Pablo Casals, che con quelle due mani era diventato il più famoso violoncellista del suo tempo, prese la dolorosa decisione di abbandonare la casa mostrata all’inizio nella natia El Vendrell, cittadina marina circondata di oliveti nell’amata terra di Catalogna. Casals adolescente fu protetto dal grande compositore Isaac Albenitz e patrocinato dalla regina Maria Cristina di Borbone. La fama mondiale lo consacrò apostolo di Bach, le cui

sei Suite per violoncello diffuse come Vangelo quotidiano, e membro del famoso Trio formato con il pianista Alfred Cortot e il violinista Jaques Thibaut. Casals era un uomo profondamente convinto della missione sociale della musica, per la cui diffusione fondò nel ’ l’Associazione operaia dei Concerti e nel ’ la celebre Orchestra Casals a Barcellona, e fermamente convinto che la musica non fosse al di sopra di tutto: decise di non suonare più dopo il colpo di stato bolscevico del ’ in Russia e dopo la salita di Hitler al cancellierato nel ’ in Germania. Fedele alla democrazia spagnola e ammirato da parecchi franchisti e monarchici, alla caduta della Repubblica non fu mutilato come sognava Queipo de Llano, ma condannato a una multa colossale per ridurre al minimo le sue risorse economiche. Invece di trattare col Regime e mantenere il suo tenore di vita, Casals e la moglie presero la dura via dell’esilio, stabilendosi, poco dopo il confine con la Francia, nei Pirenei occidentali, a Prades del Conflent. In un modesto villino, Casals si prodigò senza sosta per raccogliere aiuti per il mezzo milione di spagnoli che vivevano internati nei campi «di concentramento» francesi in condizioni morali e igieniche «da Inferno dantesco». Casals vide la deportazione in Ger-

Discorso filosofico sulla sedia

In scena ◆ L’architetto-designer Riccardo Blumer fra corpi nudi al Teatro San Materno Giorgio Thoeni

Nudo, nudi: chi? Io, tu, noi, altri. Dal leggìo illuminato sul proscenio del Teatro San Materno di Ascona risuona la voce di Riccardo Blumer all’inizio del suo viaggio nelle connotazioni fra corpi nudi. È il senso dell’incontro proposto dalla stagione di Tiziana Arnaboldi per la bomboniera bauhaus sempre pronta ad accogliere il dialogo tra le arti. Lui, l’accademico, immerso in un appassionato confronto con le forme, ci svela uno stato che sembra quasi perseguitarlo: «Ho sempre cercato di lavorare facendo design. È un percorso cadenzato dall’adorazione del corpo e della parola in relazione con gli oggetti, combinazioni per una scacchiera di significati connotativi che si rinnovano continuamente e pronti per partite sempre diverse. Gli oggetti nascono nudi co-

Un momento dello spettacolo.

me noi tutti come per una condizione finita», esordisce Blumer. In realtà la loro manutenzione ordinaria li porta ad assumere stati differenti, soggetti a un respiro costante animato da continui significati. Come la sedia. È un corpo oppure ha un corpo? Un tema, la sedia, che era già stato oggetto di una presentazione su quello stesso palco. Allora Blumer indagava sulla leggerezza tecnologica, sulla sperimentazione di materiali, sulle qualità, sulla storia della sedia nel corso di un’avventura che attraversava la storia dell’uomo in tutte le sue fasi. In questo caso l’architetto-designer pone in rassegna i concetti che hanno costituito le fondamenta di un libro d’arte dove fotografia e connotazione sono alla base di un progetto sulla forma, il corpo e la parola. Connotazioni, questo il titolo del volume uscito per Artphilein Edition, è frutto di un meticoloso lavoro sulle pagine (Andrea Poletti) e sulla fotografia (Paolo Mazzo) nella ricerca del rapporto tra la sedia, declinata in vari modelli e la materia, il corpo, l’azione. Il volume presenta  foto dove la trasversalità è il soggetto di un discorso dalla dimensione filosofica e post moderna, un incontro tra antropologia culturale e gioco delle forme, dello spazio, del linguaggio. La serata si snoda su  sedie, sulle loro particolarità e su una dinamica dove lo spazio diventa musica per i corpi danzanti di Nuria Prazak con Lisa Arnaboldi.

Pau Casals in un’immagine del docu-film La forza del silenzio. (Netflix)

mania degli internati spagnoli come schiavi del lavoro, mentre il suo ex-amico-sodale Cortot assumeva il massimo ruolo di potere musicale nel governo collaborazionista di Vichy che fiancheggiava quelle deportazioni. Terribile fu la sua delusione quando le potenze vincitrici non rimossero Franco, costringendolo per protesta al sacrificio più grande: non suonare più

in pubblico, sopravvivendo con lezioni private. Anche in «silenzio» Casals rimase la spina nel fianco di Franco, spiato da funzionari, consoli e ambasciatori, prima e dopo il trasferimento nel ’ con la terza moglie Marta a Porto Rico. Fu il violinista Alexander Schneider a trovare lo stratagemma per riportarlo alla musica in pubblico,

convincendolo a onorare, nel ’, il bicentenario della morte di J.S. Bach. Schneider gli portò in dono un pianoforte nuovo e un’edizione delle opere di Bach dove avevano messo la loro firma tutti i grandi musicisti che ammiravano il suo esempio: in testa Toscanini, Bruno Walter, Koussevitzky, Mitropoulos, Rubinstein. Le condizioni però che Casals aveva poste erano quasi insormontabili: avrebbe suonato solo fra amici e nessuno avrebbe percepito compensi. Piovvero adesioni e munifiche presenze (la regina Elisabetta del Belgio e Maria José di Savoia), nonostante le minacce franchiste. Ogni anno il fiore dei solisti di tutto il mondo venne gratis a Prades, mostrando solidarietà a quella manifestazione musicale tramutata in silenzioso atto d’accusa contro tiranni e guerrafondai. Ambasciatore di pace, tenace catalanista, generoso animatore di incontri musicali nello spirito di Prades (Porto Rico e Marlboro), Casals morì a  anni circondato da cordoglio unanime, al contrario del dittatore Franco, imbalsamato pochi mesi dopo nella pompa del mausoleo della Valle dei Caduti. Pau Casals riposa nella natia Vendrell, dove le sue spoglie furono traslate nel ’ e una Fondazione che porta il suo nome ne ricorda la figura straordinaria di artista universale. Annuncio pubblicitario

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