Azione 20 del 16 maggio 2022

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Anno LXXXV 16 maggio 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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VOTAZIONE MIGROS

Pagine 2 – 3 ●

SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Osvalda e Marco Varini raccontano la nascita e lo sviluppo dell’Associazione Triangolo

Basket in carrozzella? Ce ne parla Alan Mazzolini che indossa la casacca dei Ticino Bulls

La nostalgia «sovietica» di Putin e la necessità per l’Occidente di trattare con Mosca

Lo scrittore indiano Amitav Ghosh ci racconta del suo ultimo saggio La maledizione della noce moscata

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Non è quantité négligeable

I cori in Ticino dopo la pandemia

Simona Sala

Guido Grilli – Pagina 5

Max Giger, medico in pensione e coautore dello studio, un uso inadeguato dei neurolettici porterebbe addirittura a un aumento della mortalità. Al quotidiano zurighese «Tages-Anzeiger» numerose assistenti di cura hanno raccontato (in forma anonima) di essere consapevoli di somministrare spesso e con facilità medicamenti che sul lungo termine possono portare a sofferenze di diverso grado, ma di esservi in qualche modo costrette. Così come hanno raccontato di essere consapevoli del fatto che un residente aggressivo o turbato si potrebbe tranquillizzare in molti modi: con una canzone, un gioco, un bagno, una passeggiata. Attività però sempre più destinate a restare lettera morta perché, come racconta ognuna delle intervistate, semplicemente, manca il tempo: i residenti sono troppi, il personale troppo poco, e allora si lavora come si riesce, ma mai come si vorrebbe. È sempre una questione di costi, e secondo Max Giger, quando c’è la resa dei conti le persone anziane finiscono per essere quantité négligeable. Ma nessuno, dopo quanto successo durante la pandemia, vuole che siano quantité négligeable, così come non lo è il personale curante, però, affinché non sia così, l’unica via d’uscita da questa situazione passa dai finanziamenti pubblici. Residenti e personale curante devono vivere e lavorare insieme nelle migliori condizioni, e noi, che non apparteniamo né all’una né all’altra categoria, dobbiamo averne cura.

INVITO AI SOCI PER LA VOTAZIONE 2022 Gentile socia, egregio socio, riceve in questi giorni il materiale per la

VOTAZIONE GENERALE 2022 relativa all’esercizio 2021 della Cooperativa Migros Ticino, con l’invito a rispondere alla seguente domanda: 1. «Approva i conti dell’esercizio 2021, dà scarico al Consiglio di amministrazione e accetta la proposta per l’impiego del risultato di bilancio?» Socie e soci sono inoltre chiamati a esprimersi su due ulteriori temi: – la proposta di modifica parziale dello statuto della Cooperativa per permettere il voto, l’ammissione (iscrizione a registro dei soci) e la corrispondenza anche in forma elettronica (dal 01.01.2023). – la proposta di modifica parziale dello statuto della Cooperativa per permettere la vendita di alcolici nelle filiali di Migros Ticino (dal 01.07.2022).

Il materiale di voto sarà inviato per posta a tutti gli aventi diritto di voto, in base al registro dei soci, al più tardi dieci giorni prima della scadenza della votazione. Eventuali reclami concernenti schede di voto non ricevute o inesatte sono da indirizzare all’Ufficio elettorale di Migros Ticino, 6592 Sant’Antonino, al più presto sei giorni lavorativi e al più tardi tre giorni lavorativi prima dello scrutinio. Su questo numero di Azione sono pubblicati i conti 2021, la relazione dell’Ufficio di revisione e la proposta del Consiglio di amministrazione per l’utilizzo dell’utile di bilancio, così come la relazione annuale della Cooperativa. La votazione si svolge secondo le disposizioni dello statuto e del regolamento per votazioni, elezioni e iniziative. Questi documenti possono essere consultati presso i punti vendita, presentando la quota di partecipazione o la tessera di socio. Sono disponibili anche su www.migrosticino.ch unitamente a numerose altre informazioni sulla Cooperativa e sulle sue attività nel 2021. Secondo l’art. 30 dello statuto, il Consiglio di amministrazione ha nominato un Ufficio elettorale che sorveglia lo svolgimento della votazione e che si compone delle seguenti persone: Avv. Filippo Gianoni (presidente), Myrto Fedeli (vicepresidente), Edy Barri, Roberto Bozzini, Pasquale Branca (membri). In virtù del carattere storico della votazione generale 2022 – in particolare la consultazione democratica sulla revoca del divieto di vendere alcolici nelle filiali Migros – invitiamo ogni

Ti-Press

La notizia è di quelle che dovrebbero perlomeno farci venire il senso di colpa. Dopo due anni di prescrizioni, limitazioni, isolamento, paura e addii, le case anziani si stavano finalmente riaprendo al mondo. Per i residenti un ritorno alla vita a lungo atteso, e cui non tutti hanno avuto la fortuna di partecipare. Chiunque frequenti una casa di riposo sa che la fine del periodo buio si è visto nelle cose piccole solo all’apparenza, come la riapertura delle sale da pranzo, che ha permesso di ritornare a mangiare insieme, la ripresa di attività di gruppo, le prime gite fuori porta, a vedere che il mondo era ancora lì. Si è riaperto insomma uno spiraglio su un’esistenza che per molti mesi aveva avuto il sapore di un’ingiusta prigionia. Ma ecco che quasi all’indomani di queste prime timide libertà è apparso uno studio del Centro di competenza nazionale Vecchiaia senza violenza che, per quanto da alcuni forse minimizzato, denuncia un’altra forma di prigionia all’interno delle case di riposo. Come evidenza lo studio, il 37% degli abitanti delle 619 case di riposo coinvolte (area svizzero tedesca), ha già ricevuto dei neurolettici, pur non soffrendo di schizofrenia. Questi medicamenti, infatti, hanno facoltà calmanti e tranquillanti, e possono avere effetti positivi se utilizzati per periodi brevi, cosa che però a quanto pare non accade, per cui si innescano effetti collaterali devastanti come apatia, confusione e giramenti di testa. Secondo

socio della Cooperativa a volersi avvalere della straordinaria opportunità di manifestare la propria volontà e così facendo contribuire a definire il futuro di Migros Ticino. Il Consiglio di cooperativa (a larga maggioranza) e il Consiglio di amministrazione (all’unanimità) di Migros Ticino raccomandano ai soci di votare SÌ e permettere così la vendita di bibite alcoliche nei supermercati della Cooperativa. Voglia compilare al più presto la scheda di voto e depositarla nelle apposite urne esposte nei nostri punti vendita. Così facendo ci aiuta a risparmiare spese postali permettendoci di offrire una tavoletta di cioccolato. Le urne sono a disposizione durante il normale periodo di apertura delle nostre sedi. Ultimo termine per la spedizione o consegna della scheda (giorno di votazione): SABATO 4 GIUGNO 2022. Con la partecipazione al voto le socie e i soci non solo fanno uso del proprio diritto di voto, ma esprimo anche l’apprezzamento per l’impegno di tutti i collaboratori di Migros Ticino, per il quale ringraziamo. Sant’Antonino, 16 maggio 2022 Cooperativa Migros Ticino Il Consiglio di amministrazione


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azione – Cooperativa Migros Ticino

MONDO MIGROS

Alcol alla Migros

Le raccomandazioni delle cooperative ◆ Gli organi delle dieci cooperative Migros hanno espresso le loro raccomandazioni di voto: la maggioranza raccomanda un sì e altre tre lasciano libertà di voto. Una panoramica

«All’interno del Consiglio di cooperativa abbiamo discusso le varie ragioni a favore e contro la vendita di alcolici. A favore parla il pensiero visionario di Gottlieb Duttweiler, per il quale era molto importante soddisfare le esigenze del cliente. E anche secondo noi, poter comprare tutto in un solo negozio è in linea con lo spirito dei tempi. La maggioranza del Consiglio si è quindi espressa per la vendita di bevande alcoliche e raccomanda di depositare un sì nell’urna». Luzia Rast, presidente del Consiglio di cooperativa di Migros Svizzera orientale «Raccomandiamo un sì perché Dutti non aveva a cuore solo il benessere del popolo, ma anche il benessere della sua azienda. Il suo spirito pionieristico era sempre aperto ai cambiamenti e alle novità. È giunta l’ora di fare questo passo». Monika Guth, presidente del Consiglio di cooperativa di Migros Basilea «Condividiamo gli argomenti del nostro Consiglio di amministrazione, in particolare quelli riferiti alla concorrenza. La vendita di alcolici permetterebbe alla Migros di offrire ai suoi clienti un assortimento completo e una maggiore comodità, poiché potranno fare tutta la spesa in un unico posto». Elisabeth Bétrix, Monika Guth, presidente del Consiglio di cooperativa di Migros Vaud «Dopo un intenso dibattito sulla votazione riguardante l’alcol, il Consiglio di cooperativa di Migros Aare ha deciso di non formulare alcuna raccomandazione. I soci della cooperativa dovrebbero poter esprimere il loro voto dopo aver soppesato tutti i fatti. Naturalmente, i membri del Consiglio esprimeranno la loro opinione personale con il proprio voto nell’urna». Anja Fischer, presidente del Consiglio di cooperativa di Migros Aare «Su una questione importante come questa, ogni socio della cooperativa dovrebbe poter votare in modo assolutamente libero. Il Consiglio di cooperativa ritiene quindi giusto non dare alcuna raccomandazione di voto

e confida nella lungimiranza dei singoli, affinché votino in modo che la Migros possa continuare a soddisfare con successo i suoi compiti». Vanessa Guizzetti Piccilli, presidente del Consiglio di cooperativa di Migros Neuchâtel-Friburgo

«Il divieto di vedere alcolici non è più attuale. La clientela Migros deve poter fare tutta la spesa in modo responsabile nello stesso posto. Per questo raccomandiamo un chiaro sì». Helen Graber, presidente del Consiglio di cooperativa di Migros Lucerna

«Contribuire a uno stile di vita sano è uno dei valori della Migros. Se il divieto di vendere alcolici sia adatto a questo scopo ancora oggi, lo decideranno i soci della cooperativa». William Monnier, presidente del Consiglio di cooperativa di Migros Ginevra

«L’alcolismo non è più una piaga sociale come un tempo. Possiamo supporre che, tendendo conto del contesto odierno, Gottlieb Duttweiler non avrebbe rinunciato alla vendita di alcolici». Mélanie Zuber, presidente del Consiglio di cooperativa di Migros Vallese

«La Migros deve stare al passo con i tempi, come voleva anche Gottlieb Duttweiler. Pertanto siamo favorevoli alla vendita di bevande alcoliche nelle nostre filiali». Danilo Zanga, presidente del Consiglio di cooperativa di Migros Ticino

«Migros deve rimanere al passo con i tempi, come voleva anche G. Duttweiler. Auspichiamo quindi la vendita di bibite alcoliche nelle nostre filiali». Danilo Zanga

«Raccomandiamo di permettere la vendita di bevande alcoliche e quindi di votare sì. Solo con un sì potremo consentire ai clienti Migros di fare responsabilmente tutta la spesa nello stesso posto». Daniel Schindler, presidente del Consiglio di cooperativa di Migros Zurigo

E la gente, cosa pensa?

Sandy (32) «Pur consumando alcolici, sono contraria alla vendita di alcol nelle filiali Migros: secondo me sarebbe un peccato stravolgere una filosofia e dei principi per proporre prodotti che si possono trovare anche altrove».

Giulio (75) «Io sono favorevole, anche perché già oggi la Migros vende le torte al kirsch, quindi non cambia niente. Io voterò sì».

Fatima (37) e Carina (55) «Siamo contrarie all’introduzione dell’alcol perché se non l’hanno venduto fino a oggi, non vediamo perché dovrebbero cambiare le cose».

Nadir (36) «Per me la Migros farebbe bene a vendere alcol. Io abito in centro e per me sarebbe più comodo potere fare la spesa e comprare anche l’alcol, piuttosto di dovere andare in un altro negozio. Voterò dunque sì».

Voto, ammissione e corrispondenza in forma elettronica In occasione della votazione generale 2022, le socie e i soci della Cooperativa sono chiamati ad esprimersi anche sulla modifica parziale dello statuto per permettere il voto, l’ammissione (iscrizione a registro dei soci) e la corrispondenza in forma elettronica. Se approvata, la modifica parziale dello statuto entrerà in vigore il 1° gennaio 2023. Finora le procedure di voto, ammissione e corrispondenza sono state in forma cartacea. Tali alternative cartacee saranno mantenute anche in futuro. Si tratta di un passo verso la digitalizzazione del rapporto con i soci, per semplificare le procedure e di conseguenza creare una maggiore vicinanza con la Cooperativa. Il contatto tra l’azienda e i suoi soci è previsto tramite account Migros. Un nuovo canale di informazione, che permette maggiore immediatezza e un grande vantaggio a livello di utilizzo di carta e quindi di impatto ambientale. La segretezza del voto resta garantita. L’e-voting, o voto elettronico, in futuro andrebbe ad affiancare la procedura attuale, per corrispondenza o tramite consegna della scheda nelle urne presenti nelle filiali. Socie e soci potranno quindi decidere se partecipare con voto elettronico o cartaceo, mentre il materiale di voto sarà come finora spedito per posta. Ciò dovrebbe comportare un aumento del tasso di partecipazione alle votazioni, di conseguenza un rafforzamento del processo decisionale democratico di Migros.


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MONDO MIGROS

Pro e contro

Argomenti dei sostenitori e dei contrari ◆ Sulla questione della vendita di alcolici nelle filiali Migros esistono molte opinioni differenti. Di seguito si possono trovare gli argomenti principali che emergono con maggior frequenza nella discussione tra sostenitori e contrari alla vendita di alcolici

Sugli scaffali della Migros vedremo presto bevande alcoliche? (Sala)

Chi sostiene la vendita di alcolici nelle filiali Migros fa riferimento a … … le esigenze della clientela: i clienti preferiscono acquistare tutto in un unico luogo. Molti alla Migros desidererebbero acquistare anche bevande alcoliche, senza dover recarsi a tal fine in altri negozi, allungando inutilmente il percorso. … i tempi che cambiano: l’introduzione del divieto di vendita di alcolici risale a quasi 100 anni fa, quando la situazione in Svizzera era completamente diversa. L’abuso di alcolici era molto diffuso. Oggi i tempi sono cambiati e il divieto di

vendita di alcolici non è più adeguato. Anche lo stesso «Dutti» era disposto ad accettare una modifica del divieto e nel 1948 mise ai voti la vendita del vino. … la responsabilità: da impresa responsabile Migros offrirebbe bevande alcoliche con moderazione e nel rispetto delle esigenze regionali. … il piacere: le bevande alcoliche vengono consumate al giorno d’oggi in modo ragionevole e sono per molti un elemento essenziale di un buon pranzo o una buona cena. Di questi tempi il divieto appare come una paternalistica tutela della clientela.

… la credibilità: attualmente il Gruppo Migros vende già alcolici, per esempio nel suo supermercato online, da Denner e da Migrolino. Offrire bevande alcoliche anche nelle filiali Migros sarebbe quindi del tutto logico e coerente. … la concorrenza: non potendo offrire alcolici nelle filiali, come invece fanno i concorrenti svizzeri e stranieri, la Migros è svantaggiata di fronte agli altri commercianti al dettaglio. Questi, diversamente dalla Migros, possono offrire alla propria clientela un assortimento completo comprendente anche bevande alcoliche.

Chi è contrario alla vendita di alcolici nelle filiali Migros menziona … … l’identità: molte persone si identificano con la Migros proprio perché non vende alcolici. Introducendo la vendita di bevande alcoliche la Migros rinuncerebbe alla sua caratteristica unica e distintiva e diventerebbe sempre più come qualsiasi altra impresa. … la tradizione: se in futuro la Migros vendesse alcolici, non rispetterebbe la volontà del suo fondatore

Gottlieb Duttweiler che introdusse il divieto nel 1928. … il rischio di dipendenza: se in Svizzera si offrissero ancora più alcolici se ne favorirebbe il consumo e aumenterebbero di conseguenza i rischi per la salute della popolazione. I negozi Migros sono l’unico luogo in cui gli alcolisti o le persone astemie possono ancora fare la spesa senza essere tentati di acquistare alcolici. … l’attuale offerta Migros: la Migros consente già sufficienti pos-

sibilità di acquisto di bevande alcoliche al di fuori delle proprie filiali. Ad esempio nelle filiali Denner e Migrolino oppure su Migros Online. … il pensare solo in termini economici: con la vendita di alcolici la Migros vuole realizzare un maggiore fatturato così come fanno molte altre imprese. … l’assortimento: se vengono vendute anche bevande alcoliche, nelle filiali più piccole si deve ridurre il rimanente assortimento.


Le settimane dei Nostrani del Ticino

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–.10

di riduzione

Tutti gli iogurt Nostrani

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Prodotti genuini a km zero Migros Ticino


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SOCIETÀ ●

Mario Agliati e la sua Lugano Un rapporto strettissimo indagato nella piccola e densa pubblicazione «Ul gir da la Lüzzina»

Il caffè delle mamme Lo faccio per me è il nuovo saggio dedicato alle madri dalla psicoterapeuta Stefania Andreoli

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La borsetta del Chihuahua Si sprecano i pregiudizi su questa razza canina, che possiede invece qualità caratteriali interessanti

All’ascolto del paziente Incontro con Osvalda e Marco Varini, fondatori dell’Associazione Triangolo

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La tenacia dei cori e i benefici del canto Movimento corale ◆ Clara Tadini, neopresidente della Federazione ticinese società di canto, fa il punto della situazione dei cori in Ticino dopo l’interruzione imposta dalla pandemia Guido Grilli

«Canta che ti passa», ma quel che non passava mai era la pandemia. Come sono dunque sopravvissute le società di canto della Svizzera italiana ai periodi di restrizione disposti dal Consiglio federale? Il virus non ha spazzato via i cori, come il vento le foglie, tuttavia se prima i sodalizi erano 60 ora sono scesi a 54 e i coristi da 1700 sono calati a 1500, con una riduzione media vicina al 15%. A tracciare il bilancio e a proporci un’ampia panoramica del movimento corale è Clara Tadini, neopresidente della Federazione ticinese società di canto, 34 anni, che dirige tre cori e canta dall’età di 17 anni. «L’anno scorso, tra la primavera e l’estate – dichiara – abbiamo svolto un sondaggio telefonico, contattando tutti i cori affiliati per fare il punto sulle conseguenze della pandemia. Abbiamo esplorato diversi temi, tra cui l’andamento dell’attività corale. E ci sono state risposte molto diverse fra loro perché l’ambiente è molto variegato e ci sono livelli diversi. Alcuni cori si sono arrangiati secondo le proprie disponibilità economiche, ma soprattutto gli aspetti delle competenze tecnologiche di ogni corista hanno fatto la differenza, dal momento in cui le prove di canto si sono trasferite online. Gli stop causati dalla pandemia sono iniziati nel marzo 2020, quando c’è stato il lockdown, sono poi proseguiti con le restrizioni della primavera 2021 e lo scorso autunno con nuove chiusure. Le conseguenze sono state soprattutto finanziarie: i cori hanno perso i concerti, i soldi delle sale prove e molti non sono più riusciti a pagare il maestro. Sul sito della Confederazione era addirittura scritto a chiare lettere: vietato cantare. Questa per noi è stata una botta per l’autostima, anche perché tante attività, penso a quelle sportive, erano consentite mentre la nostra veniva preclusa». Come hanno reagito le società? «I cori, ognuno in base al proprio livello, erano organizzati essenzialmente in tre modi: ci sono quelli che hanno smesso completamente di fare prove con uno stop di quasi un anno; c’è chi si è trovato a piccoli gruppi in presenza, con la mascherina, le distanze o all’aperto; altri si sono organizzati per fare coro online. Alcune società hanno invece sperimentato situazioni ibride». Avete dunque dovuto cantare per lunghi periodi con la mascherina? «Sì, non è stato agevole. Per molti cori è stata una prova difficile e infatti tanti hanno deciso di cessare le prove, dal momento che non si poteva can-

Concerto finale del Festival svizzero di cori giovanili e di bambini del 2017 svoltosi a Lugano. (Keystone)

tare liberamente. Questo ha comportato anche conseguenze per i maestri che, in assenza di attività, non hanno potuto essere pagati e, salvo rimborsi per documentati concerti annullati a causa della pandemia, non hanno potuto beneficiare delle indennità di lavoro ridotto. Per molti, sia anziani sia giovani, il periodo del Covid ha coinciso con l’abbandono dell’attività. Ma molti cori hanno invece reagito con tenacia e si sono battuti a tutti i costi per continuare l’attività canora, arrangiandosi come hanno potuto, mantenendo allenata la voce. Il consuntivo non è insomma drammatico. Credo che occorra attendere ancora un annetto per osservare le reali conseguenze della pandemia. Ora infatti, dallo scorso gennaio-febbraio, siamo finalmente tornati alla normalità». Negli statuti si evidenzia quanto lo scopo della vostra attività sia di «coltivare, sviluppare e divulgare il canto corale, stabilire e rafforzare i vincoli di amicizia e di fratellanza fra le società affiliate». Quali benefici si ottengono cantando in un coro? «Appartenere a un coro è come essere in una piccola tribù. Il canto corale è una sorta di rituale. Ripetendosi, convoglia e rafforza i legami. È provato anche a livello scientifico che cantare

insieme rappresenta un beneficio, dagli aspetti puramente fisici, come la salute polmonare, alla circolazione, alla tenuta del cuore, ad altri aspetti non meno trascurabili, come il miglioramento dell’umore, come il rilascio degli ormoni della felicità e del piacere che rappresentano la base del nostro benessere. C’è inoltre la socialità: svolgere un’attività insieme è benefico se è fatto con il cuore e con la passione». Tra i vostri cori, molti possiedono tradizioni antiche, che sfiorano il secolo… «Proprio l’anno prossimo il Gruppo canzoni e costumi ticinesi di Bellinzona compirà 100 anni e nel 2024 anche la Federazione ticinese delle società di canto raggiungerà lo stesso traguardo. Ci sono inoltre società che a breve festeggeranno importanti anniversari e altre che hanno già superato il mezzo secolo. Anche i cori giovanili hanno ormai venti o trent’anni. Negli ultimi tempi si sono pure formati alcuni nuovi cori, attraverso rimescolamenti di coristi: alcune società, sciogliendosi, sono rinate con altri componenti, mentre altri cori hanno visto l’arrivo di direttori giovani che stanno rilanciando l’attività. Oggi la tendenza dei cori guarda alla modernizzazione e si stanno cono-

scendo influenze di altre realtà, come l’Italia, che possiede un’attività corale molto più ampia della nostra. Come Federazione collaboriamo con società della provincia di Varese e del Piemonte, dove i repertori sono davvero molto variati». Si può entrare a far parte di un coro a qualsiasi età o ci sono limiti? «Normalmente si entra in un coro – escludiamo i cori giovanili, per cui si parla di predisposizione o della volontà dei genitori ed escludiamo la fascia 18-40 anni che coincide spesso con gli studi e col mettere su famiglia – il maggior numero di coristi è perlopiù rappresentato dagli over 40. Resta il fatto che i cori ticinesi, popolari, amatoriali sono per tutti. Si può cantare a qualsiasi età, con qualsiasi conoscenza o non conoscenza di base della musica. Se c’è un mito da sfatare è quello secondo cui l’intonazione è innata. Non è assolutamente vero, perché la voce si può imparare a educare. Qualcuno potrà avere l’orecchio più fino o meno, ma l’intonazione è qualcosa che si forma. A meno naturalmente di avere problemi fisici alle corde vocali, tensioni o paralisi, altrimenti il canto è per tutti, non conosce frontiere di nessun genere. Abbiamo anche coristi italiani affiliati alle no-

stre società e un paio di anni fa abbiamo avuto ottime esperienze con coristi rifugiati». Uno degli eventi corali più importanti a livello nazionale è il Festival svizzero di canto a Gossau (www.sgf22.ch), promosso dall’Unione svizzera dei cori: «Quest’anno – spiega Clara Tadini – si svolge dal 20 al 29 maggio e, oltretutto, in tandem con il Festival dei cori giovanili. È un appuntamento al quale tutti i cori possono partecipare – per questa edizione anche alcune delle nostre società si sono iscritte. Naturalmente rappresenta un investimento non indifferente, fra spese di viaggio e soggiorno. La manifestazione contempla esibizioni e concerti che vedono la presenza sia di cori dall’estero sia svizzeri. È un’occasione di scambio culturale interessante, in cui si possono ascoltare repertori diversi. Non si tratta di una competizione, bensì di un evento in cui si possono ricevere feedback del proprio canto da professionisti del settore, consigli utili e una sorta di pagella. Rappresenta invece una vera e propria competizione il Festival di Aarau, che vede gareggiare i diversi cori partecipanti. Un appuntamento e una sfida che si rinnovano ogni quattro anni».


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azione – Cooperativa Migros Ticino

MONDO MIGROS

Un sapore unico e inimitabile

Pane della settimana ◆ Il pane Val Morobbia è rustico come la vallata da cui prende il nome. Graziella Rizzi, responsabile aziendale JOWA Ticino, ci ha parlato di questa popolare specialità

23 Fino al

Graziella Rizzi è responsabile aziendale presso la JOWA Ticino di S. Antonino.

maggio

Signora Rizzi, il Val Morobbia è uno dei pani più venduti da Migros Ticino. Perché è così apprezzato dalla clientela? Penso sia un pane apprezzato dalla clientela Migros per il suo carattere di pane artigianale, prodotto esclusivamente con ingredienti del territorio, legato nella forma, nell’aspetto e nel gusto ai pani di una volta, ai pani più «antichi». Questa bella pagnotta dalla crosta un po’ scura e spolverata di farina, acquista la sua armonia visiva grazie ai suoi bei tagli pronunciati lungo la superficie.

Flavia Leuenberger Ceppi

Quali sono i suoi ingredienti e come viene prodotto? La farina di frumento ticinese utilizzata per la sua produzione è una farina grigia, con un tenore di sali minerali più elevato rispetto alla più usata e comune farina bianca, a cui si aggiunge una parte di farina di segale che favorisce la colorazione più scura e un maggior assorbimento dei liquidi. La produzione di questo pane richiede una lavorazione curata e attenta, con tempi di lievitazione molto lunghi che favoriscono la fermentazione lattica responsabile degli aromi che determinano il gusto e la digeribilità del prodotto finito e della sua bella e sviluppata alveolatura.

Pane Val Morobbia (Pan Val Muröbia) 550 g Fr. 4.30 Il pane Val Morobbia è disponibile in tutti i supermercati Migros nel formato «famiglia» da 550 g, come pure in quello da 320 g

Come si gusta al meglio? Si gusta sia appena sfornato, in tutta la sua croccantezza, ma è buono anche dopo un paio di giorni, poiché i suoi aromi e la sua freschezza permettono di mantenerlo un pane eccellente. Il pane Val Morobbia si mantiene infatti fresco a lungo grazie alla sua tipica e caratteristica umidità interna. È anche uno dei suoi pani preferiti? Personalmente è un pane che amo molto, soprattutto abbinato ai formaggi e ai salumi genuini, ma anche in occasione una buona grigliata estiva lo abbino volentieri alle carni o lo preparo sul camino come bruschetta con del pomodoro fresco e un filo d’olio d’oliva.

Prepara del pane anche a casa? Lavorando al panificio JOWA e producendo così tante buone varietà di pane, confesso di non dedicarmi anche a casa alla preparazione di un pane casalingo tutto mio. Al massimo se voglio proprio coccolarmi un poco, nei giorni di festa preparo una bella treccia! Come deve essere un buon pane secondo lei? Un buon pane per me è fatto di farine coltivate in armonia con la natura, possibilmente ricche di sali minerali – quindi scure o integrali – può contenere diversi cereali e la sua lievitazione deve essere naturale. Insomma, un ottimo pane ha bisogno di ottimi ingredienti, di tempo e di tanta cura. Perché il pane è essenziale nella nostra alimentazione? Il cambiamento delle abitudini alimentari ha portato alla riduzione dei consumi, ma non va dimenticato come il pane sia una fonte significativa di carboidrati e, insieme a pasta e riso, in molti paesi è parte integrante della nostra alimentazione quotidiana.

Scopri lo spot del pane Val Morobbia Tra i nuovi spot TV realizzati in occasione delle settimane dei Nostrani del Ticino, figura anche quello sul pane Val Morobbia della JOWA. Scoprilo scansionando il codice QR sottostante con il tuo cellulare!

Il Ticino da bere Attualità

Voglia di gazosa nostrana?

Impossibile resistere alla freschezza e all’inconfondibile sapore delle gazose made in Ticino, bevande che spopolano ovunque durante la stagione estiva. Le amatissime gazose dei Nostrani del Ticino sono prodotte con grande esperienza e competenza dalla Sicas SA di Chiasso, azienda familiare fondata nel 1962, da sempre particolarmente attenta a coniugare rispetto delle risor-

se naturali, tradizione e moderne tecnologie di produzione. Tutte le bevande vengono prodotte con ingredienti semplici e genuini quali acqua, zucchero e aromi naturali, senza far capo a conservanti. La gazosa nostrana è disponibile nella classica bottiglia di vetro da 28 cl, negli aromi limone, mandarino, lampone, sambuco, mirtillo, moscato e uva.

Azione 20% Tutte le gazose nostrane da 6 x 28 cl dal 17.5 al 23.5.2022


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azione – Cooperativa Migros Ticino

MONDO MIGROS

Buona grigliata nostrana! Attualità

La nuova stagione delle grigliate è aperta: nelle filiali di Migros Ticino è a disposizione della clientela una variegata scelta di tenere e succose specialità per gli amanti della carne cotta alla brace. Per ottenere un risultato di sicuro successo, oltre alle capacità del «grigliatore», è tuttavia importante anche puntare su carne di qualità certificata, come quella di origine svizzera proveniente da animali allevati nel rispetto delle singole specie. Quale complemento, per soddisfare ancora meglio le esigenze

I fan delle grigliate possono contare su differenti tagli di carni ticinesi ideali per il barbecue

dei consumatori particolarmente attenti alla sostenibilità, offriamo pure carne di provenienza regionale, ottenuta da bestiame allevato, macellato e lavorato in Ticino. Scegliendo questi prodotti, si contribuisce in modo significativo a mantenere valore aggiunto nella regione e a sostenere l’agricoltura del nostro Cantone. La gamma di carni a km zero include manzo dell’azienda agricola Aerni di Gordola e maiale allevato presso la Fattoria del Faggio di Giubiasco. I manzi sono allevati al pascolo sul

Piano di Magadino e appartengono alla rinomata razza di origini francesi Charolais, animali che si contraddistinguono per l’eccellente qualità della carne che risulta particolarmente magra, tenera e aromatica. Ampi spazi ricoperti di truciolato di legno dove muoversi liberamente, luce naturale, aria fresca e alimentazione a base di cereali e leguminose sono invece le peculiarità dell’allevamento suino bellinzonese. La lavorazione delle carni è infine effettuata dalla Terrani Carni di So-

Tenero e succoso: il filetto di Charolais conquista tutti

Gli hamburger piacciono a grandi e piccoli buongustai

Un grande classico del grill: le puntine di maiale

Le saporite costolette di maiale sono sempre un successo

L’aromatica luganighetta non può mai mancare

Irresistibile e gustosa: l’entrecôte di manzo nostrano

rengo, per quanto riguarda il manzo, mentre alla Salumi del Pin di Mendrisio è affidata quella del maiale. Entrambe le aziende possono vantare una pluriennale esperienza nel campo della lavorazione e della trasformazione della carne.

ai tagli più raffinati del manzo come filetto*, scamone, entrecôte* e costa schiena, fino agli sfiziosi hamburger e spiedini per chi ama variare dai soliti gusti… nessuno resterà scontento. Inoltre, come novità sono appena stati introdotti la tagliata e lo spiedino speziato di manzo. Gli specialisti delle nostre macellerie vi aspettano con piacere per fornirvi consigli utili e ricette invitanti per la buona riuscita delle vostre grigliate alla ticinese. *solo al banco

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La freschezza è in tavola Attualità

Che siano di mucca o di capra, i formaggini freschi non mancano mai sulla tavola estiva dei ticinesi

Flavia Leuenberger Ceppi

primo piano nella nostra Il formaggio in generale gioca un ruolo di ico, essendo già pronto alimentazione. Inoltre è un alimento prat nze nutritive preziose, come per il consumo immediato. Ricco di sosta la crescita e il mantenimento proteine altamente digeribili essenziali per i, nonché sali minerali muscolare, calcio per la salute di ossa e dent mine A, B2 e D. utili quali fosforo, potassio, magnesio e vita

I formaggi freschi rappresentano lo stadio iniziale di qualsiasi formaggio – del latte semplicemente cagliato – ed erano conosciuti ancora prima del diffondersi delle tecniche di affinamento. Questi appetitosi formaggi di consistenza molle e dal sapore gradevolmente dolce, di latte fresco, si gustano soprattutto durante la stagione calda, quando i piatti freddi, veloci e facili da preparare, sono particolarmente benvenuti sulle nostre tavole. Si consumano da

soli, al naturale, o insaporiti con pepe, spezie, erbe aromatiche e un filo d’olio, ma non disdegnano nemmeno accostamenti dolci, per esempio con marmellate, composte di frutta, miele o anche zucchero. In virtù del loro sapore delicato e leggero, seducono tutti i buongustai, a cominciare dai bambini. I formaggi freschi a base di latte di capra, rispetto a quelli vaccini, si distinguono per il sapore più pronunciato, ben definito e caratteristico. Inoltre il

formaggio caprino per molti risulta essere meglio digeribile rispetto a quello vaccino. Formaggini freschi ticinesi

Al reparto latticini dei supermercati Migros sono disponibili diversi formaggini freschi, prodotti con latte 100% ticinese dalla LATI di S. Antonino, azienda attiva nella valorizzazione della preziosa materia prima del nostro territorio. I robiolini, conosciu-

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ti anche con il nome di büscion, sono formaggini dal gusto delicato e leggero perfetti per il consumo al naturale o spalmati su del pane rustico. Sapore dolce di buon latte fresco e consistenza morbida ed elastica sono invece le prerogative dei classici formaggini, specialità di antica tradizione e capisaldi della cucina ticinese, gustati abitualmente con olio, sale e una spruzzata di pepe. Coloro che invece preferiscono i sapori

Formaggini freschi per 100 g Fr. 2.05

più marcati e particolari, non si farebbero mai mancare i büscion di capra. Morbidi e cremosi, sono una bontà spalmati su fette di pane tostato, oppure per la preparazione di fantasiosi primi e farciture. A proposito, alcune di queste specialità sono ottenibili anche nella variante esente da lattosio, indicate per coloro particolarmente sensibili a questa sostanza, certificate con il marchio aha! del Centro Allergie Svizzera.


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Agliati a tutto campo

Pubblicazioni ◆ Un volumetto uscito in occasione della mostra presso la Biblioteca cantonale di Lugano indaga il rapporto di Mario Agliati con la sua città Stefano Vassere

La mostra alla Biblioteca cantonale di Lugano dedicata al rapporto che Mario Agliati ebbe con la città si è chiusa lo scorso 14 maggio registrando un notevole successo di pubblico. Ora, a ricordarne i contenuti e lo spirito, l’Istituto ha prodotto una piccola ma densa pubblicazione che ne traccia le linee generali (è in vendita alla Biblioteca cantonale di Lugano, al prezzo di 5.– franchi). Il titolo, omonimo a quello della mostra, Ul gir da la Lüzzina riprende un detto che è tipico della città e che non esce di regola dal suo territorio storico. Agliati lo spiega nelle prime pagine del suo libro Lugano del buon tempo, libro del 1963 con prefazione di Francesco Chiesa. Il «giro» corrisponderebbe a un itinerario cittadino attribuibile a «un personaggio senza più volto», forse «una Rosa Luzzini maritata Martignoni» o un’altra «bottegaia maritata Martignoni», che «per quelle contrade doveva soler passare e che a sera, di primavera o d’estate, chiusa la sua botteguzza, e forse dopo una capatina in qualche chiesa, imprendeva il suo giretto, sommessamente chiacchierante nei quieti accenti del nostro dialetto». La passeggiata avveniva nei luo-

ghi tradizionali: la Piazza Grande (Piazza Riforma), la Via Nassa, la zona di Pessina, quella di Canova e quella di Sant’Antonio, l’odierna Piazza Dante.

Agliati fu insieme storico, pittore e attivista nelle cause di conservazione del patrimonio culturale e architettonico luganese Ma il titolo in dialetto ci dice anche molto del rapporto di Agliati con la sua città e della forma di questo rapporto. Un interesse quasi affettuoso che non risparmia indagini anche presso la comunità sociale viva, quasi un approccio sociologico e che ha nel dialetto una sua espressione particolarmente significativa. Del dialetto e delle sue espressioni Agliati si occupò in effetti molto e a vari livelli, sottolineandone il valore sociale e culturale e denunciandone una promozione passatista e di maniera. Dal volumetto emergono i vari livelli lungo i quali si strutturò il rapporto di Agliati con Lugano. Agliati fu insieme storico, attivista nelle cause di conservazione del patrimo-

nio culturale, monumentale e architettonico luganese, pittore e grafico minuto dei momenti della comunità nelle sue faccende quotidiane, attento ai rapporti linguistici e alle ricadute socioculturali come i nomi di vie e piazze e le insegne pubbliche. Queste diverse posture si svilupparono nei molti decenni di attività in diversi tipi di rapporto e diversi approcci, all’insegna di un legame di fondo di grande affetto e partecipazione. Per quel che concerne il piglio storico e documentario, Agliati si distinse anche come grande innovatore di metodo, per esempio sul piano iconografico: fu uno dei primi a usare immagini e fotografie come oggetto di studio e di interpretazione e in questo senso ancora oggi la rivista di famiglia, il «Cantonetto», si segnala per didascalie generose, veri e propri saggi associati all’immagine riprodotta. L’interesse si esprime poi anche in sentite battaglie per preservare pezzi di architettura e di storia cittadina di pregio, in parte in occasione dei cantieri di edificazione del Palazzo dei Congressi e con convinta decisione a difesa della chiesa di San Carlo in Via Nassa o dell’antico ristorante Venezia all’inizio della

Mario Agliati, Colloquio sul quai di Lugano, 1997, tempera su carta, «V/97», cm 17x24 (proprietà privata).

sioni) e di grafica minuta (Giovanni Bolzani), alla linguistica e alla toponomastica, alla biblioteca privata di Agliati, arricchendo l’insieme con un inserto a colori dedicato ai quadri, ai disegni, agli acquerelli, ai pastelli, alle tempere. Non da ultimo, chi lo leggerà avrà anche occasione di cogliere una volta di più lo stile scrittorio dello studioso luganese: un registro che si potrebbe definire virtuosamente romantico; un passo testuale che ricorda peraltro una bella tradizione della Svizzera italiana, che ebbe in Giuseppe Martinola e Raffaello Ceschi altre testimonianze.

salita verso la cattedrale su Via Peri, distrutto per far posto a edificazioni più moderne. Il volumetto edito dalla Biblioteca porta capitoli dedicati alle imprese civili (a cura di Antonio Gili), all’attività pittorica (Dalmazio Ambro-

Bibliografia Ul gir da la Lüzzina. Mario Agliati nella Lugano del buon tempo, a cura di Karin Stefanski, Diana Rüesch, Giovanni Bolzani; con contributi di Antonio Gili, Dalmazio Ambrosioni, Giovanni Bolzani; Biblioteca cantonale, Lugano, 2022. Annuncio pubblicitario

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Mamme, fatelo per voi!

Il caffè delle mamme ◆ Il nuovo saggio della psicoterapeuta Stefania Andreoli invita le donne a essere madri senza «la zavorra del mito del sacrificio» Simona Ravizza

Mamme, visto che maggio è il mese della nostra Festa, proviamo almeno a rifletterci su, come regalo a noi stesse? Il tema è se è possibile cambiare la nostra prospettiva di vita. Con il saggio Lo faccio per me appena arrivato in libreria (ed. Bur-Rizzoli, 2022), la psicoterapeuta Stefania Andreoli, 42 anni e due figlie di 10 e 7 anni, Agnese e Delfina, si rivolge a noi: «disorientate, equilibriste, creative, volenterose, sull’orlo di una crisi di nervi, ma tutte accomunate dall’ambizione di compiere le scelte più giuste per i figli». Lo fa per spingerci a «essere madri spogliate dalla zavorra del mito del sacrificio»: per Andreoli la bussola che ci deve orientare nelle decisioni di vita quotidiana non può essere più (o non solo) «lo faccio per mio figlio», ma anche e soprattutto quel «lo faccio per me» che dà il titolo al libro al quinto posto nella top dei più venduti in Italia. A Il caffè delle mamme s’impone l’interrogativo: l’invito è realistico o semplice utopia?

Secondo Andreoli le mamme dovrebbero essere capaci di ascoltare i propri bisogni Andreoli confessa senza falsa modestia (e con il rischio di risultare urticante) che lei ha sempre creduto fortissimamente di potere avere tutto: famiglia, carriera, vita. «E siccome non amo non avere ragione – scrive – poi ho fatto in modo che potessi ottenerlo». Per dimostrarlo ci consegna squarci di vita vissuta: «Ho scritto il libro con il computer appoggiato sul bracciolo del divano, con un occhio ai compiti delle vacanze di Natale e l’altro alle lenzuola da cambiare, mentre mio marito cucinava per tutti e seguiva la ricerca di storia di Agnese, più laboriosa dell’analisi grammaticale con la quale l’ho aiutata io». A Il caffè delle mamme ben sappiamo che ci sono diversi tipi di rinunce. Alcune radicali come quella di smettere di lavorare una volta diventate mamme, altre meno eclatanti ma for-

se proprio per questo più subdole: restare un passo indietro nella carriera per essere libere di non avere riunioni all’uscita di scuola dei figli; trascurare interessi, amicizie e il rapporto di coppia; sentirsi in colpa se sottraiamo tempo alla famiglia. Spesso è la vita che ci porta a prendere una direzione piuttosto che l’altra: ci condizionano l’avere più o meno aiuti intorno (un conto è avere i nonni che si possono occupare dei bambini, un altro dovere pagare una baby sitter che magari costa come il nostro stipendio); il modello di famiglia che abbiamo (essere single o separate è senza dubbio più difficile che avere un nucleo familiare solido, poco importa poi se sia tradizionale o ricostruito con un secondo matrimonio); la passione per il lavoro che facciamo (entrare in ufficio per realizzarsi è ben diverso rispetto a un mestiere che non ci dà soddisfazione); la necessità di avere uno stipendio o poterne fare a meno; essere libere professioniste o dovere timbrare un cartellino. Insomma, la complessità delle situazioni è tale da rendere impossibile avere una ricetta magica che ci dica quel che è giusto o sbagliato. Ma la nostra convinzione è che ogni strada intrapresa sia legittima purché sia frutto di una scelta consapevole. Quello da evitare è di ritrovarsi a vivere in una gabbia per ragioni storiche, culturali e legate ai falsi miti del sacrificio. Insomma, a dire addio a una parte di noi. È su questo punto che il saggio Lo faccio per me può offrirci degli spunti di riflessione utili. Lo fa in un passaggio in cui noi tutte mamme de Il caffè ci siamo immedesimate anche se fino a un minuto prima ci consideravamo donne fortunate e realizzate. Scrive Andreoli: «Eredi di un’educazione dopotutto gretta e prescrittiva che ha iniettato sottopelle il dogma che si debba rispondere a un principio del dovere, molte trovano quasi impensabile, dopo essere state in ufficio oltre l’orario scolastico, rimandare ulteriormente il rientro a casa. Alcune ragio-

Se la mamma è soddisfatta e appagata ne traggono vantaggio anche i figli. (Shutterstock)

ni le ammettono più di altre, invero. Fermarsi a fare la spesa, sì. I colloqui con gli insegnanti, sì. Un salto dai genitori che vivono lungo la strada per un saluto e sincerarsi che vada tutto bene, sì. La camicia da ritirare in tintoria prima che chiuda, sì. Due parole fuori orario con i colleghi e uno spritz, mmm. Il cambio smalto, mmm. Un’ora di zumba, mmm. Entrare a provare quel top color crema per decidere se smettere di pensarci per sempre, mmm. Un giro in libreria, dove oltretutto il reparto poesia è al piano di sotto dove non prende il cellulare, mmm». Ecco Andreoli ci invita a fare un passo in avanti banale, ma allo stesso tempo rivoluzionario: essere capaci di ascoltare anche i nostri bisogni quali che siano e senza temere il giudizio di chi ci vuole sempre dedite a tutti tranne che a noi stesse. Incredibilmente da ciò trarranno vantaggio anche i nostri figli per almeno tre motivi. Uno: «Una madre votata alla vita del figlio gli rappresenta come adulta un futuro nel quale diventare grandi equivale in buona sostanza a

fare solo grandi sacrifici, a immolarsi sull’altare delle prescrizioni dimenticandosi di essere anche titolari del diritto al godimento e a sbagliare». Così crescere sembra una fregatura! Due: liberiamo i nostri figli dal peso di averci condizionato irrimediabilmente la vita. Tre: «Per essere la madre del figlio o della figlia senza volere per lui o per lei quello che loro per se stessi non vogliono, bisogna disporre di una vita propria e di una luce non riflessa da quella emanata dall’esistenza del figlio». Solo in questo modo i nostri figli potranno davvero conoscere l’amore incondizionato che permetterà loro di fare giri del mondo sapendo di avere una base sicura dove tornare. Per Andreoli la spinta rivoluzionaria è tornare a casa perché lo si desidera, felici del ricongiungimento con il bambino perché in primis felici di sé e soddisfatte a sufficienza della giornata. E il tutto funziona decisamente meglio se a casa sappiamo che ci aspetta o arriverà anche chi amiamo: «Il personaggio di Francesca ne I ponti di Madison County, interpretato dal-

la sempre formidabile Meryl Streep, è forse tra i caratteri cinematografici che ho più detestato – ammette Andreoli –. Quello di una donna che si innamora perdutamente di un uomo, ma ha un marito, due figli adolescenti, delle compaesane pettegole e una vita in mezzo al nulla dell’Iowa che la fa decidere di restare al suo posto di moglie e madre, a fare la cosiddetta “cosa giusta” pensando per tutta la vita al suo grande amore, che non è quello con cui divide il letto, e immolandosi in nome del sacrificio di soffrire pur di non far soffrire la sua famiglia». A Il caffè delle mamme, da sempre convinto che sia sacrosanto non abdicare alla propria vita in funzione dei figli (neppure da casalinghe), resta però una consapevolezza: volere tutto, cercare di incastrare magicamente soddisfazione personale, vita di coppia e crescita serena dei figli (meglio se anche felice), è in ogni caso frutto di una fatica quotidiana. Girala e rigirala sempre qui finiamo: nella fatica quotidiana del vivere. Ma, allora, è tutta un’utopia? No, se non si tratta di sacrifici, ma di salti mortali dettati dall’amore.

Viale dei ciliegi Anna Vivarelli La luna e il soldato Giunti (Da 9 anni)

La guerra, purtroppo, è argomento più che mai richiesto nella letteratura per ragazzi. Tanti sono gli albi illustrati che la raccontano ai bambini (e tra questi segnalo La guerra che cambiò Città Tonda, degli artisti ucraini Romana Romanyshyn e Andry Lesiv, pubblicato in italiano da Jaca Book); e tanti sono i romanzi che raccontano la guerra agli adolescenti (un autore su tutti, il britannico Michael Morpurgo). Ma meno numerose sono le proposte per la fascia «middle age», 8-12, per dire. I due racconti di Anna Vivarelli che Giunti propone ora nel volumetto La luna e il soldato si rivolgono proprio a ragazzini di quell’età, e raccontano la guerra – la Seconda guerra mondiale – dal punto di vista di due bambini, una in città e uno in campagna: Magda, che passa le notti dei bombardamenti su Torino nel rifugio antiaereo; e Gabriele, che andando a raccogliere legna nei boschi s’imbatte in un soldato tedesco che ha disertato. La prospettiva

di Letizia Bolzani

narrativa, in prima persona in entrambi i racconti, gioca un ruolo fondamentale nel rendere l’assurdo tragico della guerra, che lo sguardo dei due bambini restituisce con acuta e non scontata immediatezza. Magda ci fa sentire quelle sirene «che sembravano lupi» e che la fanno balzare fuori dal letto, quasi in automatico, «la testa ancora lontana», e precipitarsi giù per le scale, con la mamma e gli altri vicini, verso la cantina, dove notte dopo notte si crea un piccolo microcosmo di varia umanità, tra le paure, le parole, gli odori del secchio per i bisogni corporali, i rumori

delle bombe. Lei si porta un quadernetto come talismano della memoria, per ricordare meglio le cose, anche se scriverci era impossibile, per via della luce fioca. E la sua memoria di bambina ci restituisce personaggi vividi, come il vecchio Signor Satta, burbero e svanito, con cui instaura un rapporto speciale; o la signorina De Lellis, modista in via Po e «sempre perfetta, sempre impettita perfino sulla panca della cantina». Dopo le cantine, non più sicure, c’è il ricovero pubblico cittadino, che ospitava duemilacinquecento persone, e che per raggiungerlo bisognava «correre per un bel pezzo di strada», e dopo ancora lo sfollamento in campagna, scenario in cui si conclude il primo racconto, «La luna», e si apre il secondo, «Il soldato». Qui il protagonista è Gabriele, che scopre nel bosco un soldato disertore tedesco e coraggiosamente decide di non fare finta di niente. La scelta di Gabriele sarà la «più tortuosa» e se la assumerà responsabilmente, perfetta metafora di quella legna che si carica sulle spalle. Ma solo così egli potrà dire di avere fatto «la propria parte».

Bruno Tognolini – Viola Niccolai Versi di bestie Topipittori (Per tutti)

Non ci sarebbero parole per descrivere questo libro splendido. Anzi non ci sono, perché questo è un libro non da descrivere, e neanche propriamente da leggere. Questo è un libro da ascoltare. Come un concerto, sacro e solenne (ma anche caldo, leggero, allegro e commovente) di voci animali. Ma non voci impostate e arroganti di noi animali umani: queste che la sapienza poetica di Tognolini fa

sgorgare dalle pagine sono voci primordiali di animali non umani. Versi di bestie, appunto. Versi nel senso di suoni e versi nel senso di ritmi. Versi poetici che una metrica precisa tiene insieme, diversa ogni volta: decasillabi e endecasillabi in marcia, con i «cuori giganti» e i «piedi pesanti» degli elefanti: «marciano insieme, corrono in branco / sfilano in fila ma alcuni di fianco…»; o ternari e ottonari sempre sdruccioli, come «rondine / c’è tanto cielo, prendine…»; o enjambement che rallentano l’andamento del «lentissimo bradipo», perché «solo / in un posto bellissimo / vale / la pena di andarci / solo / in un posto che merita / tempo / per arrivarci…» Ma questi non sono che pochi esempi, tratti da poesie più lunghe, e ce ne sono molte altre. Ogni animale è reso con un rispetto fraterno e profondo; e l’uomo qui è l’antagonista, che ammala, distrugge, inseguendo i suoi demoni di dominio, così come insegue – nella struggente poesia Versi di volpe fiamma – la volpe. Notevoli anche le illustrazioni di Viola Niccolai.


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Un cane come tanti Mondoanimale

Dalle origini controverse, il Chihuahua è una razza per nulla scontata che sta prendendo sempre più piede

«È un cane come tutti gli altri e non è sicuramente un “soprammobile” o, peggio, “da borsetta” come purtroppo e a torto pensano in tanti. E posso anche dire che è davvero “tosto”, da non sottovalutare per il solo fatto che è piccolo: per prima cosa, non sa di essere alto una spanna e un po’, ma nel suo cuore crede di essere un vero leone in grado di affrontare qualsiasi cosa. Poi, è intelligentissimo e se – con molta pazienza – si riesce a ottenere la sua fiducia e catturare la sua attenzione, allora è fatta: è un cane come un altro e, compatibilmente con la sua piccola dimensione, può fare quasi di tutto, dall’obbedienza all’Agility e, perché no, anche il cane da terapia». Marina Bontognali è istruttrice cinofila e una decina di anni fa ha fondato il Club Biby Chihuahua: un sodalizio a scopo ricreativo dedicato, per l’appunto, alla razza di cui ha descritto molto bene temperamento, carattere e attitudine. Tanto sono controverse le origini di questo cane in miniatura, quanto possiamo affermare che ora abbia davvero conquistato il mondo perché oramai se ne vedono sempre di più, accomodati nelle famiglie soli, a coppie o a terzetti (qualcuno ha detto che sono come le ciliegie: si inizia con uno e arrivano gli altri). «Per undici anni ha vissuto con noi in famiglia un Pastore tedesco. Poi, quando

ci ha lasciato, non me la sono sentita di ricominciare l’iter riservato ai proprietari di cani soggetti a restrizioni, e ho cercato un nuovo compagno di avventure che potesse pure accompagnarmi in vacanza senza grosse limitazioni», racconta Ines che ha adottato Rocco, un Chihuahua di cinque anni. «E due anni fa è arrivata Coraline, la seconda!». Aveva grandi pregiudizi, Ines, su questa razza di cagnolini che vedeva per lo più, dice: «Litigiosi, “abbaiosi”, sempre in braccio o in borsetta e vestiti come bambole». Poi ha cambiato radicalmente idea: «Adottando Rocco ho scoperto un mondo e ho compreso che tutte quelle cose strane dipendono dal proprietario, non dal Chihuahua che, invece, è un perfetto cane da compagnia e la sua piccola taglia permette di portarselo sempre con sé. Malgrado la sua infinita dolcezza, il Chihuahua non è solo un cane da coccole ma possiede altre qualità interessanti: un carattere vivace, una spiccata personalità, un coraggio ben più grande di lui e una simpatia disarmante». Anche Marina Bontognali, da esperta, sostiene che il fatto di poter vivere così tanto a stretto contatto col proprietario, di poterne condividere tantissimi momenti di vita, porta entrambi a una sintonizzazione fortissima e speciale. Ma attenzione a non sottovalutare la sua innata capacità

Sjshackleton

Maria Grazia Buletti

manipolatoria: «Dotato di vivissima intelligenza, questo cane riesce sempre ad arrivare allo scopo che si prefigge, usando di volta in volta la sua capacità di suscitare tenerezza, oppure ricorrendo a baci a profusione o a sorrisi irresistibili (ndr: proprio così, il Chihuahua sorride sollevando le labbra). Bisogna quindi sempre ricordarsi che è un cane come gli altri, e come tale va educato con pazienza e dedizione. Così come gli altri cani, necessita del giusto movimento e delle corrette attenzioni».

Scalfiti i pregiudizi che avvolgono questa razza, resta da comprenderne le origini che rimangono ancora avvolte nel mistero e tramandate da leggende più o meno verosimili che vedono come protagonista quello che è considerato il cane più piccolo del mondo. Bontognali conferma che quando si tenta di scoprire la verità sull’origine di questa razza, è facile lasciarsi cogliere dalle più svariate ipotesi senza che, comunque, vi siano sufficienti documentazioni storiche che possano poi convalidare tali teorie. Esistono comunque alcune certezze: «La Federazione Cinologica internazionale (FCI) attribuisce il Paese d’origine della razza al Messico dove peraltro è tutelata. Si dà per certo che il suo nome deriva dal capoluogo di una regione per l’appunto messicana al confine con gli Stati Uniti e che la sua storia sembra affondare le proprie radici nelle civiltà precolombiane». Difatti, sappiamo che le popolazioni come gli Inca dimostravano già prima del XII secolo un forte legame con i cani come nel caso del «cane nudo messicano» che, data l’alta temperatura del suo corpo privo di peli, veniva usato per curare svariate malattie. Per questo fu reso oggetto di culto in quanto considerato «inviato dagli dei». Sempre protagonista in ogni luogo e in ogni situazione, il Chihuahua

si prende il suo spazio e si sente membro della famiglia che lo ha adottato. Ma non solo, afferma Bontognali che, con il Club Biby Chihuahua, ha creato spazi ricreativi e di incontro per «ogni Chihuahua con o senza Pedigree. Tutto è iniziato con pomeriggi ricreativi dove venivano parecchi Chihuahua che, così, potevano giocare fra cani di simile stazza senza farsi male». Biby era la sua prima Chihuahua, vissuta fino all’età di 16 anni. «Ora c’è Lenny a tenere alto il nome del Club! E pensare che aveva sette mesi quando è stato lasciato temporaneamente a casa mia. Poi ci è rimasto e oggi ha 10 anni». Quindi, dopo il periodo di pandemia, Lenny, Bontognali e il comitato del sodalizio preparano una grande rimpatriata cantonale per festeggiare il 15esimo raduno Chihuahua. «Domenica 29 maggio saremo ad Avegno, alla Cinofila Tra da Nüm, per il raduno che non ammette altre razze», chiosa Bontognali che spera in una grande affluenza di Chihuahua e famiglie (si prega di segnalare la partecipazione a marinabontognali@gmail.com): «Per divertirci e per mostrare ancora una volta che questo cagnolino piccolo dal cuor di leone è davvero degno di essere un vero e proprio grande amico a quattro zampe, dignitoso come qualsiasi altro». Anzi, forse di più? Annuncio pubblicitario

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Il Triangolo perfetto

Incontri ◆ A colloquio con Osvalda e Marco Varini, fondatori dell’Associazione Triangolo, attiva nel volontariato e nell’assistenza in ambito oncologico

Per Osvalda e Marco Varini, psico-oncologa e oncologo, la professione è qualcosa che va oltre gli standard della maggior parte di noi. Va oltre la pensione, va oltre il tempo libero, oltre gli hobby. Forse perché al centro della loro passione comune, e per certi versi totalizzante, hanno messo una cosa sola: il benessere del/la paziente che si trova ad affrontare un percorso oncologico. Ed è così che negli anni, oltre alle cure tradizionali (ma sempre nel segno dell’innovazione medica), Osvalda e Marco Varini, coadiuvati da un nutrito gruppo di specialisti e volontari, hanno dato vita a un’organizzazione di sostegno che è diventata esempio e punto di riferimento anche fuori cantone e a livello internazionale. Li abbiamo incontrati a Lugano, attorno al grande tavolo che è un po’ il cuore della loro casa, nonché spazio di accoglienza per i volontari, per le riunioni e per lo sviluppo di nuovi progetti. Come quello di Pentecoste (vedi sotto), che vedrà la Piazzetta San Carlo protagonista di un grande brunch estivo per la raccolta di fondi. «Tutto è nato quando mio marito Marco aprì il suo studio di oncologia nel 1986», racconta Osvalda Varini. «All’epoca esisteva solo l’oncologia pubblica, e lui fino a quel momento aveva lavorato con Franco Cavalli. Io stavo recuperando i miei studi (avevo una formazione di laborantine, poi mi ero dedicata alla famiglia) perché avevo sviluppato un forte interesse per il paziente oncologico e i suoi bisogni. Frequentavo l’università di Torino e cominciai una ricerca con il Dipartimento di sociologia: si trattava di una serie di una ventina di interviste sotto la supervisione di Gino Pagliarani. Ne nacque un libro che però da alcuni non fu giudicato abbastanza scientifico, anche perché le diagnosi dei pazienti differivano molto. Iniziai quindi una ricerca più scientifica, qualitativa e quantitativa, sempre in collaborazione con l’Università di Torino, restringendo il campo d’indagine a pazienti in cura da mio marito accomunate da una diagnosi di tumore al seno. È stato un grande lavoro svoltosi sull’arco di diversi anni, poiché incontravo le pazienti più volte». La ricerca di Osvalda Varini permise al marito di individuare in modo chiaro e scientifico quali fossero i bisogni dei pazienti, e di conseguenza le strade da percorrere per aumentarne il senso di benessere e migliorarne la presa a carico. «Lo studio ha messo in evidenza vari bisogni», continua Marco Varini, «primo fra tutti quello che in Ticino non esistesse un volontariato per i pazienti oncologici». Fu così che nel 1988 nacque l’Associazione Triangolo, costituita da un primo piccolo gruppo di volontari facente capo allo studio oncologico di Varini. «Abbiamo scelto il nome “Triangolo” grazie a un paziente che durante un’intervista mi aveva spiegato come secondo lui il paziente oncologico si trovasse al vertice di un triangolo i cui altri vertici comprendevano i famigliari e il personale curante», spiega Osvalda Varini. «Secondo quel paziente questi tre vertici devono essere in equilibrio, cosa che non avviene quando ad esempio il paziente non ha una famiglia, oppure quando c’è una rete famigliare ma i rapporti con i medici sono difficili. Negli anni abbiamo costruito un forte legame tra la famiglia del paziente, il paziente, e il personale curante».

Didier Ruef

Simona Sala

In fondo si tratta di costruire una rete dalle maglie particolarmente strette, affinché nessuno rischi di inciampare lungo un percorso che per sua natura può essere delicato e doloroso, ed è per questo, come sottolinea Marco Varini, che è necessario creare dei presupposti di coerenza. «La rete che gira intorno al paziente deve essere soprattutto di coordinamento. Tutte le parti in causa devono sempre essere informate su ciò che sta succedendo, compreso il medico di famiglia, che riveste un ruolo fondamentale. Perciò ci riuniamo regolarmente per dei momenti di scambio in cui i volontari, l’oncologo, l’assistente sociale e la psico-oncologa hanno modo di confrontarsi. Nel tempo l’Associazione è cresciuta. Nel 1993 il dottor Augusto Pedrazzini, dopo l’apertura del suo studio a Locarno, diede vita a una sezione sopracenerina del Triangolo, trasformandola di fatto in un’associazione cantonale, attualmente presieduta dall’ing. Fulvio Caccia. La prima figura professionale introdotta è stata quella dell’assistente sociale, che si occupa soprattutto di situazioni di disagio economico, di compilazione di formulari, dei rapporti con l’AI, di accompagnamento dei pazienti, perfino dell’acquisto di una parrucca. Dopo è stato il turno della consulenza psico-oncologi-

Il numeri del Triangolo 4 servizi: sociale, volontariato, psico-oncologico, cure palliative domiciliari; 7 oncologi; 2 psico-oncologhe; 2 assistenti sociali; 2 dottoresse di cure palliative; 4 infermiere/i. Ca. 120 pazienti di psico-oncologia all’anno. Ca. 50 volontari attivi nell’accompagnamento e sostegno del malato. Ca. 160 casi seguiti ogni anno dal servizio sociale. Ca. 220 pazienti seguiti dal Servizio di cure palliative domiciliari.

Informazioni www.triangolo.ch

ca, nata con il sostegno della Lega contro il cancro. All’inizio degli Anni 2000 sono nate le cure palliative, e grazie alla legge sulle cure a domicilio, siamo stati riconosciuti come ente d’appoggio. Siamo fieri di potere affermare che il nostro team “Servizio cure palliative domiciliari” è stato riconosciuto dalla Società svizzera di cure palliative con l’ottenimento del Label di Qualità adempiendo a tutti i criteri richiesti». La vicinanza al paziente e gli studi sull’arco di molti anni hanno permesso l’individuazione di problemi specifici, spesso legati al genere, e colti al volo dalla sensibilità di Osvalda Varini: «Negli anni 80 e 90, incontrando più di sessanta donne colpite dal tumore al seno, sono emersi i problemi legati alle cure, all’intervento e alla ripresa, ma anche la necessità, per le donne, di potere rientrare nel mondo del lavoro. Allora le pazienti erano spesso donne che dopo il matrimonio avevano smesso di lavorare. Decisi così di creare un’altra associazione, “Dialogare”, che si occupasse di realtà femminili, di reinserimento professionale, di questioni matrimoniali e offrisse un consultorio. Avevo capito la necessità di un pensiero che contemplasse la specificità di genere, anche se all’epoca venivamo guardate come delle femministe esagerate. Cominciammo con dei corsi di riorientamento professionale sul modello di quelli che già si conoscevano in Italia o in Francia, dove in quegli anni era in voga il metodo “retravailler”. L’associazione è stata attiva fino al 2015, ma le esigenze delle giovani di oggi sono cambiate». Osvalda Varini ritorna spesso sul concetto della «doppia presenza femminile», imposta o cercata nella società contemporanea: le donne non possono più lavorare solo a titolo volontario, quindi, devono essere performanti su un doppio fronte, sia in famiglia, sia sul lavoro, con delle realtà che possono a volte essere dure. «Mi piacerebbe aggiungere questa cosa», interviene con tono semiserio Marco Varini, «il mondo della donna malata ci ha permesso di scoprire anche la realtà della donna sana». Ma in cosa è cambiata la donna, di fronte alla malattia tumorale? Dall’alto della sua lunga esperienza, peraltro non ancora conclusa, ci risponde

Marco Varini: «Le difficoltà di fronte a una diagnosi tumorale sono sempre le stesse: disorientamento, domande sul perché – soprattutto se si è giovani, magari con bambini piccoli o adolescenti – , sofferenza, scombussolamento. E di fronte a queste sfide qualcuna fatica più di un’altra. Nel frattempo, sono cambiati terapie e medicamenti, ma soprattutto l’immagine generale della malattia tumorale: non c’è più uno stigma. Inoltre, oggi in generale la paziente è più preparata a livello di conoscenze». «All’inizio i pazienti non cercavano la figura della psico-oncologa», completa Osvalda Varini, «poiché si credeva che questa malattia non richiedesse l’intervento o il sostegno di uno psicologo. Oggi sono i pazienti stessi a richiederlo. A volte le paure nascono quando il percorso di cure si conclude e sorgono dubbi e incertezze. È un momento delicato, e noi offriamo uno spazio privato di parola e di elaborazione. Negli ultimi anni, inoltre, vedo sempre più spesso delle coppie che decidono di affrontare il percorso insieme. La malattia non determina necessariamente un allontanamento all’interno della coppia: “grazie” ad essa qualcuno si ritrova». I complessi e variegati servizi e attività proposti dall’Associazione Triangolo non si esauriscono però con la pur ricca offerta di volontari, assistenti sociali e personale sanitario, ma comprendono anche un’offerta di yoga, arteterapia, consulenza di trucco e molto altro. Aggiunge Osvalda Varini: «In occasione del 30esimo dell’Associazione, nel 2018, abbiamo introdotto in Ticino il metodo della Human Library, dove i libri sono costituiti da storie personali, narrate in prima persona da chi le ha vissute. Si tratta di una biblioteca umana, che “portiamo in giro”, come abbiamo fatto recentemente per le giornate autogestite dei licei cantonali. Il narratore riceve una formazione perché il racconto non duri più di mezz’ora. Chi assiste a queste narrazioni può lasciare la recensione del “libro-racconto” sul nostro sito. Il successo di questi incontri è grande, anche perché alcune storie, come quella del paziente guarito da leucemia che ha attraversato l’oceano in solitaria, hanno un riscontro straordinario». Non da ultimo, ogni anno (e ora

dopo il Covid è di nuovo possibile), il Triangolo organizza un seminario di una giornata aperto al pubblico. Quest’anno il tema dell’appuntamento (che avrà luogo in settembre) sarà Spiritualità e cura. Come sottolineano Osvalda e Marco Varini, due coniugi fermamente legati dal desiderio dell’implementazione del benessere di chi deve affrontare un percorso oncologico, il valore aggiunto dell’Associazione risiede in un unico concetto molto chiaro, ossia quello dell’individualizazzione delle cure: «Spesso purtroppo si tende a non chinarsi sui bisogni individuali del paziente, affidandosi ai protocolli. Ma è necessario parlare e discutere. Negli anni 70 e 80 non si parlava con il paziente della sua situazione, ora accade l’opposto, si parla di continuo di consenso ed esistono le checklist delle cure palliative. Ogni problematica deve essere gestita in modo individualizzato, e da sempre la nostra teoria è che il paziente deve essere seguito dall’inizio alla fine del suo percorso di malattia, e possibilmente dallo stesso medico». A fronte di uno spettro di esigenze sempre più diversificate, anche i costi dell’Associazione lievitano, motivo per cui sono importanti iniziative estemporanee come la colazione di Pentecoste, o ad esempio la Camminata solidale dello scorso 24 aprile. Tutto questo perché, come ci tiene a sottolineare Osvalda Varini in conclusione, «è importante che il paziente si senta seguito e ascoltato, e che, di conseguenza noi riusciamo a capire al meglio ciò di cui ha bisogno». Concorso Colazione in piazza. Il gusto della solidarietà. Brunch organizzato dall’Associazione Triangolo con i Nostrani del Ticino di Migros Ticino. Lunedì 6 giugno 2022 (in caso di cattivo tempo rimandato a domenica 19 giugno 2022), Lugano, Piazzetta San Carlo. Dalle 9.00 alle 12.00. Entrata: singola CHF 20, famiglie CHF 50. «Azione» mette in palio alcuni ingressi gratuiti per il brunch. Per partecipare al concorso inviare una mail con i propri dati (nome, cognome, indirizzo, no. tel.) all’indirizzo giochi@azione.ch entro le 24 di mercoledì 25 maggio 2022.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 16 maggio 2022

15

azione – Cooperativa Migros Ticino

SOCIETÀ / RUBRICHE

L’altropologo

di Cesare Poppi

Lo Stato e l’Impero ◆

16 maggio del 1527: una rivolta di piazza guidata dal partito repubblicano democratico riuscì a far abbandonare il Palazzo della Signoria di Firenze al Cardinale Silvio Passerini da Cortona, Legato pontificio e governatore di Firenze dal 1524 per volontà di Clemente VII de’ Medici. Ottenuto un salvacondotto, lasciò Palazzo Medici garantito da una tregua, portando con sé un pugno di fedelissimi – parenti, alleati e accoliti a vario titolo della famiglia di banchieri. Ad accompagnarlo, garante della sua immunità, era Filippo Strozzi, figura emergente del nuovo ordine che veniva delineandosi. Il Cardinale Passerini era già stato fatto oggetto dell’ostilità popolare dieci giorni prima per essersi rimangiato la promessa di distribuire armi di buona fattura al popolo che intendeva difendere Firenze dalle truppe di Carlo V, le quali stavano marciando

spedite verso Roma e proprio contro quel Clemente VII Medici al quale il Cardinale doveva il suo stipendio. Dei cosiddetti tumulti del venerdì 6 maggio, soppressi senza tanti complimenti dai Lanzichenecchi giurati al servizio del Papa, una vittima illustre era stato il David di Michelangelo al quale era stato spezzato un braccio: ma intanto il Popolo aveva dovuto digerirsela. Il Cardinale forse intuiva che dietro la scusa di difendere Firenze dall’Impero ci fosse anche il disegno di un «paghi uno, prendi due»: sventata la minaccia imperiale si sarebbe fatto tombola cacciando anche i Medici, da tempo men che popolari sui social di una città famosa nel mondo per la sofisticatezza delle sue fazioni. Capo Gonfaloniere di una ritrovata Repubblica Fiorentina, dopo la fine ingloriosa e tristissima di quella sorta di teocrazia repubblicana populista del Savo-

narola anti-Medici che aveva retto Firenze dal 1494 al 1498, fu nominato Niccolò Capponi, discendente di quel Pier che passò alla storia per aver preferito ascoltare le domestiche campane alle imperiali trombe di Carlo VIII. Il resto è storia. Papato o Impero? Papato Imperiale o Impero Teocratico? Impero di Uno o consenso di Molti? Braccio Secolare o Impero per volontà divina? Stato Laico o Stato Confessionale? Cosa è di Cesare? Cosa è di Dio? E – ipotesi estrema: possiamo vivere senza Cesare e senza Dio? Sovranismo o… Questi i termini – gira e rigira – fra i quali si dipana, in uno slalom fra paletti strettissimi e spesso confusi, la storia delle istituzioni, degli assetti politici globali e della loro legittimazione fin dagli inizi della riflessione sistematica sulle dinamiche di sviluppo dei sistemi di potere. Karl Marx e Max Weber: fra l’Alfa

e l’Omega del canone della sociologia che ha cercato di spiegare le ragioni delle differenze fra il cosiddetto Oriente e il cosiddetto Occidente, si inserisce la riflessione ai propositi di cui sopra di un’intellettuale dalla biografia complessa, tormentata, sofferta e, secondo alcuni, non immacolata (e si scagli la prima pietra). Di Karl August Wittfogel (1896-1988), dunque, difficile dire nisi bonum (se non bene, come si raccomandava dei morti ai tempi per scansarne la vendetta). Ma questo non è il punto che interessa all’Altropologo – a scanso di guai. Nell’opera Il Dispotismo Asiatico (Berlino, 1962) il Nostro sosteneva, in sostanza, che la Rivoluzione Agricola Neolitica (unica vera rivoluzione globale prima della Rivoluzione Industriale) avrebbe imposto regimi economici centralizzati attorno a una Figura Suprema – in saecula saecolorum Faraone, Shah, Khan, Caesar,

Kaiser, K/Zar… e via discorrendo di termini tutti fra loro legati linguisticamente. E, soprattutto, ideologicamente: Colui che ha il potere/volere/capacità/carisma di organizzare il lavoro di milioni fra liberi e schiavi al fine di mettere in atto sistemi di irrigazione per i quali una frazione di territorio produce cento laddove prima produceva cinque è – certo – dio lui stesso. Nei grandi Imperi l’idea della Sacralità del Sovrano aiuta a cementare cento e mille differenze attorno a un concetto che costa poco sforzo e ha tanti vantaggi: in primis Pax Romana. «Lo Stato sono io» – così Luigi XIV poco prima di essere ahilui smentito. Domanda altropologica e forse Confederabile ora che certi miei Altropologici amici certo considerano entrare nell’EuroClub: «Chi è lo Stato? Eccetto Luigi XIV, X, Y. Z. Zar…etc…».

La stanza del dialogo

di Silvia Vegetti Finzi

Un fidanzato violento

Gentile Professoressa, ho solo sedici anni e non so come risolvere da sola un problema che non mi fa dormire. Giorni fa io e mia sorella Olga, di 18 anni, eravamo rimaste a casa sole, una villetta isolata, perché papà e mamma erano dalla nonna paterna per ristrutturare l’appartamento dove trascorriamo le vacanze. Una di quelle notti in cui i nostri genitori erano via, sono stata svegliata da Olga che rientrava in moto con il fidanzato, un ragazzo che ha cinque anni più di lei. Quando l’ho vista, sono rimasta senza fiato: aveva la faccia gonfia e l’occhio destro era così livido che non si vedeva neanche più. Sono subito uscita dal cancello e, dato che lui era ancora lì, gliene ho urlate di tutti i colori. Non mi chieda che cosa ho detto perché erano frasi irripetibili e molte non me le ricordo nemmeno. Ma lo scontro più forte è stato con Olga che continuava a giustificarlo: lei non aveva fatto niente ma lui, per alcuni sguardi e apprezzamenti lanciati da

estranei, si era così ingelosito da diventare furibondo e prenderla a sberle e pugni. Avrei voluto raccontare tutto ai nostri genitori, ma Olga mi supplica di star zitta perché non sa come potrebbe reagire nostro padre che si fa subito prendere dalla collera. Gli abbiamo raccontato che è stato uno scontro in motorino e, poiché c’ero io a testimoniarlo, lui ci ha creduto. La cosa si chiuderà qui? Non so che pesci pigliare, cosa devo fare? / Giusi Cara Giusi, fai bene a non chiudere la questione. L’esperienza mi ha insegnato che questi individui non si fermano al primo gradino dell’aggressività ma li scalano tutti finché non interviene un provvedimento a bloccarli. Tua sorella sta correndo un grosso pericolo: l’incapacità di ammettere la colpa del ragazzo, la confusione tra botte e amore, il fatto di assumere la posizione della vittima sacrificale, la rendono inerme di fronte alla prepotenza del partner.

Mode e modi

Senza evocare gli estremi del femminicidio, sappiamo che la maggior parte delle violenze sulle donne avvengono in famiglia, tra congiunti. Ora il ragazzo di Olga non è ancora un fidanzato in senso tradizionale ma potrebbe divenire tale e successivamente assumere il ruolo di marito e padre. Una spirale che aggrava anziché risolvere la situazione. In questi casi, prima s’interviene meglio è. Sei ancora una ragazzina e non spetta a te assumere responsabilità che competono agli adulti, ai genitori innanzitutto. Ciò non toglie che sia giusto continuare a parlarne con Olga, cercando di convincerla a uscire al più presto da una storia che minaccia sventure. Mi pare di capire che, a confidarvi con i genitori, vi frena la paura che vostro padre reagisca in modo incontrollato e può darsi che abbiate ragione, ma c’è sempre vostra madre. Perché non raccontare a lei come sono

andate le cose? Temete sia così sottomessa da parlarne subito col marito autorizzandolo a reagire d’impulso all’offesa morale e fisica subita dalla figlia? Se così fosse, rivolgetevi insieme, tutte e due, a una persona solida e autorevole come potrebbe essere un o una parente, il medico di famiglia, lo psicologo della Scuola. L’importante è che non vi chiudiate nella vostra angoscia, che non vi fate ricattare dalla morale secondo cui «i panni sporchi si lavano in famiglia». Posso testimoniare che raramente un uomo violento si controlla da solo e che chi gli vive accanto rischia un’esistenza d’inferno. In particolare dobbiamo salvaguardare i figli condizionati, non necessariamente ma in molti casi, a ripetere i comportamenti paterni. Siete due ragazzine e avete la vita di fronte a voi, non lasciatevi scippare la giovinezza da una prevedibile altalena di attacchi e richieste di per-

dono. Parlo al plurale perché in questi casi, come vedi, tutta la famiglia resta coinvolta dal dolore di uno o una di loro. In generale, visto il dilagare di violenze di genere emerse e sommerse, sarebbe il caso di parlarne nella Scuola, di convincere le ragazze, spesso illuse dal «sogno d’amore», a difendere innanzitutto la loro integrità e dignità. Un appello anche alle madri d’intemperanti figli maschi, troppo spesso considerati vivaci buontemponi, goliardi un po’ irruenti, perché prendano atto che la violenza non è mai giustificabile. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

di Luciana Caglio

La settimana breve, come riempirla? ◆

Dagli USA arrivano notizie che, spesso, devono allarmare. In questi giorni, non sul piano politico, dove l’attualità riconferma, da che parte sta la democrazia. L’allarme, invece, si giustifica sul piano del costume, delle abitudini, e persino delle mentalità. Cioè quell’American way of life che varca l’Oceano e s’insedia nella vecchia Europa, orgogliosa delle sue tradizioni millenarie, intaccandole. Sono, a volte, le americanate, da cui è giusto difendersi, tipo Cancel Culture, che imperversa nelle università. Non è però il caso nei confronti di un’iniziativa, approvata recentemente dal parlamento della California. Concerne un tema caldo, anche alle nostre latitudini: l’orario di lavoro cosiddetto flessibile, da adattare alle esigenze di impiegati e funzionari, che difendono la propria autonomia. In altre parole, armonizzare attività professionale e attività del tempo libero.

Quindi, secondo il modello californiano, l’orario settimanale cala da 40 a 32 ore: in pratica una settimana di quattro giorni. «Se giovedì è già venerdì», titolava la NZZ sabato 7 maggio. Infatti, ed è significativo, la tendenza alla settimana breve si avverte proprio nella capitale dell’efficientismo elvetico. Non mancano, del resto, gli argomenti a favore di una rivendicazione che, questa volta, non reca l’impronta socialista. Anzi, sfrutta l’argomento produttività: l’orario abbreviato, ovviamente a salario completo, stimola l’impegno individuale a dare il meglio di sé. Va pure detto che, negli USA, il lavoro a tempo parziale era poco diffuso, a danno in particolare delle donne, che non riuscivano a conciliare professione e impegni familiari. In generale, si lavorava, e in molti settori si continua a lavorare più di 44 ore settimanali. Ed è, del resto, indicativo che la proposta

della settimana breve sia partita dalla California, auspicata da una categoria privilegiata: i superspecialisti della Silicon Valley. Comunque, la settimana breve rimane un’opzione volontaria. C’è ancora chi preferisce la fatica lavorativa alla fatica del tempo libero. Qui si apre un altro aspetto, a prima vista paradossale, di quella che rappresentò una conquista sociale: il sabato libero, «all’inglese», come si chiamava allora. In Ticino, risale al 1976, la decisione del Dipartimento della pubblica educazione, diretto da Ugo Sadis. Accolta con favore dalla maggioranza dei cittadini, ma non all’unanimità. Se veniva incontro alle aspettative dei ticinesi, che avevano scoperto i piaceri del weekend in montagna o al mare, d’altro canto non mancò di provocare preoccupazioni d’ordine finanziario e morale. Si crearono comitati ad hoc. Devo citare un ricordo personale: un sabato

mattina, si presentò nella redazione di «Azione» un gruppetto di oppositori: docenti, psicologi, sociologi. Denunciavano un problema non campato in aria: «Come occupare quel nuovo tempo libero: sarà un incentivo consumistico, uno spreco di tempo e danaro?». Moralismi a parte, sta di fatto che il tempo, per definizione libero, in pratica lo è sempre meno. Imponendo regole, addirittura sacrifici, si è istituzionalizzato, è una sorta di dovere che implica ostacoli inevitabili. A cominciare dalle code sulle autostrade. Annullando le illusioni di riposo ritemprante, da dedicare allo svago intelligente, all’esercizio sportivo ragionevole. Insomma, non ricarica ma stressa. Tanto da favorire la «sindrome del lunedì»: si torna al lavoro affaticati e svogliati. Se «lavorare stanca», come scriveva Cesare Pavese, non lavorare stanca ancora di più. Ora la svolta, anche tecnologica, segna

un passaggio epocale: il lavoro, non è più quello che era. E qui, la pandemia ha contribuito a modificarne aspetti, un tempo centrali. A cominciare dal luogo, l’ufficio, l’aula scolastica, l’atelier, in cui si svolgevano attività condivise con colleghi, in orari precisi. Non ultimo, in un clima competitivo. Ciò che favoriva forme d’orgoglio, da primatisti. L’identificazione con il lavoro era, spesso, totale, persino maniacale. Questo filone, che apparteneva alla mia generazione, si sta esaurendo. Fu anche quella che aveva creato il mito stakanovista, ispirato al minatore russo che, nel 1935, aveva estratto 102 tonnellate di carbone in sei ore. Una prova di forza non solo fisica: inventò una nuova tecnica per usare il trapano. La sua immagine comparve sulla copertina di «Time» nel 1976. In tempi di guerra fredda e di culto del lavoro: ormai lontani.


Cooperativa Migros Ticino 2021

RELAZIONE ANNUALE ANDAMENTO GENERALE Il 2021 ha continuato ad essere influenzato in maniera determinante dalla pandemia di COVID-19. La prima metà dell’anno è stata segnata dalla parziale chiusura di frontiere e ristoranti, così come dal forte turismo indigeno. Questo andamento ha sostanzialmente favorito i supermercati, che in termini di ricavi netti superano il valore del periodo precedente. Nel seguito l’altalenante andamento dei contagi ha portato a delle misure di protezione mutevoli che hanno continuato a penalizzare soprattutto la ristorazione e la Scuola Club. Gradualmente, con l’avanzare dei mesi, l’acquisto transfrontaliero ha ripreso vigore. La Cooperativa ha realizzato un fatturato complessivo di 508.9 milioni di franchi, superiore di 5.4 milioni di franchi rispetto all’anno precedente (+1.07%). Uno sviluppo positivo influenzato dall’importanza dell’alimentare nel mix della sua offerta e dall’ottimo sviluppo dei negozi specializzati. La crescita del fatturato ed il contenimento dei costi di esercizio hanno consentito alla redditività della Cooperativa di crescere rispetto al 2020. Il risultato operativo (EBIT: risultato operativo prima degli interessi e delle imposte) si è attestato a 7.9 milioni di franchi, mentre l’utile d’esercizio è progredito a 4.6 milioni di franchi. Nel corso dell’anno un importante avvicendamento ha interessato i vertici dell’azienda: Lorenzo Emma ha infatti passato il testimone a Mattia Keller, dal 1° dicembre direttore della Cooperativa Migros Ticino. SITUAZIONE FINANZIARIA Il cash flow generato, pari a 17.3 milioni di franchi, ha permesso di finanziare integralmente gli investimenti di com-

plessivi 5.1 milioni di franchi effettuati nell’esercizio. La somma di bilancio è aumentata passando da 180.4 a 182.8 milioni di franchi. La quota di capitale proprio è pure aumentata dal 38.2% al 40.3%, in valore assoluto il capitale proprio presenta un totale di 73.6 milioni di franchi contro i 69.0 milioni di franchi dell’anno precedente. STATO DELLE ORDINAZIONI E DEI MANDATI E ATTIVITÀ DI RICERCA E SVILUPPO Operando nel commercio al dettaglio la Cooperativa non ha né ordinazioni né mandati rilevanti da commentare e non svolge attività di ricerca e sviluppo. EVENTI STRAORDINARI L’esercizio 2021 è stato caratterizzato dalla pandemia provocata dal virus COVID-19 i cui effetti sono tuttora presenti e influenzano in modo determinante l’andamento degli affari. Nel corso del 2021 i provvedimenti presi a livello federale e cantonale per contrastare il diffondersi del virus, pur impattando in modo importante su alcune divisioni di attività della Cooperativa, non hanno causato nel complesso conseguenze negative nei suoi conti. VALUTAZIONE DEI RISCHI La Cooperativa dispone di un processo di gestione dei rischi. Il Comitato di direzione (CD) informa regolarmente il Consiglio di amministrazione (CdA) sulla situazione di rischio dell’impresa. Quest’ultimo assicura che la valutazione dei rischi abbia luogo nei termini opportuni e adeguati. In base a un’analisi sistematica della situazione, CdA e CD

hanno identificato i rischi potenziali, valutato le probabilità che si avverino così come le possibili conseguenze finanziarie. Appropriate misure adottate dal CdA permettono di evitare, diminuire o arginare questi rischi. I rischi potenziali che devono essere sopportati dalla Cooperativa vengono costantemente sorvegliati. Durante la verifica annuale della strategia aziendale il CdA considera e valuta adeguatamente i rischi potenziali. Il CdA ha effettuato la valutazione annuale il 30 novembre 2021. PROSPETTIVE L’attuale contesto economico è pesantemente influenzato dall’instabilità. I segni più tangibili dell’evoluzione attuale sono l’aumento dei prezzi delle materie prime, le difficoltà di approvvigionamento e l’incertezza legati alla pandemia e al rischio di conflitto in Ucraina. In questo contesto le maggiori sfide per Migros Ticino sono: fronteggiare la concorrenza nazionale e transfrontaliera, rinnovare e rendere più capillare la rete di vendita, adattare le superfici alle nuove tecnologie e alle mutate abitudini della clientela. Nel corso del 2022, tra le novità previste, la Cooperativa aprirà i primi punti vendita di prossimità VOI Migros Partner (supermercati di piccola taglia) e introdurrà le etichette di prezzo elettroniche.


ALLEGATO

CONTO ECONOMICO 2021

2020

(in 1 000 CHF)

(in 1 000 CHF)

508 887 6 517 515 404

503 485 3 980 507 465

-356 567 -90 046 -48 063 -12 865 7 863

-346 450 -84 422 -52 327 -18 931 5 335

91 -313 7 641

112 -313 5 134

Imposte dirette

-3 066

-1 511

Utile d’esercizio

4 575

3 623

Ricavi netti da forniture e prestazioni Altri ricavi d’esercizio Ricavi operativi Costi delle merci Costi del personale Altri costi d’esercizio Ammortamenti e rettifiche di valore Risultato operativo Ricavi finanziari Costi finanziari Risultato prima delle imposte

(2)

(3) (4) (5)

(6) (6)

16. Altre indicazioni Impegni eventuali In merito al finanziamento a favore di Miduca SA, che fornisce prestazioni di servizio alle cooperative regionali Migros nell’area delle scuole club e dell’educazione degli adulti, la FCM ha concesso a Miduca SA un prestito fino a 40 milioni di franchi. Le cooperative coinvolte nella partecipazione di Miduca SA garantiscono tale finanziamento nell’ambito della loro chiave di copertura del disavanzo, pari al 3.4%. Nell’ambito delle normali attività commerciali, la Cooperativa Migros Ticino è parte in causa di diverse controversie legali. Sebbene l’esisto di queste controversie non possa essere stimato con un grado di certezza assoluto, la Società Cooperativa Migros Ticino non ritiene che tali controversie possano avere un impatto significativo sulla sua attività commerciale o sulla sua situazione finanziaria. Per i deflussi finanziari previsti sono stati costituiti degli accantonamenti. Eventi importanti successivi alla data di bilancio Non vi sono stati eventi importanti successivi alla data di bilancio.

ALLEGATO 2021

3.

BILANCIO: ATTIVI 31.12.2021 31.12.2020 Mezzi liquidi Crediti per forniture e prestazioni Altri crediti a breve termine Scorte Totale sostanza circolante

(7)

Immobilizzazioni finanziarie Partecipazioni Immobilizzazioni materiali Totale immobilizzazioni

(9)

(in 1 000 CHF)

(in 1 000 CHF)

5 870 1 240 71 625 11 216 89 951

6 828 950 54 721 18 296 80 795

1 000 1 774 90 118 92 892

1 000 774 97 847 99 621

182 843

180 416

(8)

(10) (11)

Totale attivi

4.

Ammortamenti e rettifiche di valore Ammortamenti di immobilizzazioni materiali Ammortamenti di immobilizzazioni immateriali Totale ammortamenti e rettifiche di valore

6.

Ricavi e costi finanziari Ricavi da interessi Ricavi da dividendi Totale ricavi finanziari Costi per interessi Totale costi finanziari Totale ricavi e costi finanziari, netto

31.12.2021 31.12.2020 (in 1 000 CHF)

16 088 33 997 9 921 8 309 68 315

21 553 8 019 6 427 8 381 44 380

20 000 20 929 40 929

46 000 21 033 67 033

Totale capitale di terzi

109 244

111 413

Capitale sociale Riserve legali da utili Riserve facoltative da utili Utili riportati Utile d’esercizio Totale capitale proprio

1 042 500 55 294 12 188 4 575 73 599

1 022 500 55 294 8 564 3 623 69 003

182 843

180 416

Debiti per forniture e prestazioni Debiti onerosi a breve termine Altri debiti a breve termine Ratei e risconti passivi Totale capitale di terzi a breve termine Debiti onerosi a lungo termine Accantonamenti a lungo termine Totale capitale di terzi a lungo termine

(12) (13) (14)

(13) (15)

Totale passivi

CONTO DEI FLUSSI DI TESORERIA 2021

2020

(in 1 000 CHF)

(in 1 000 CHF)

4 575 12 865 -104 17 336 -17 193 7 080 -1 971

3 623 18 931 1 250 23 804 -32 087 1 108 10 768

-72 5 180

226 3 819

Investimenti in immobilizzazioni materiali Deflussi netti da attività d’investimento

-5 136 -5 136

-4 034 -4 034

Participazioni Variazione dei debiti finanziari a breve termine Variazione dei debiti onerosi a lungo termine Variazione del capitale sociale Deflussi netti da attività finanziarie

-1 000 25 978 -26 000 20 -1 002

– -330 – 33 -297

-958

-512

6 828 -958 5 870

7 340 -512 6 828

Utile d’esercizio Ammortamenti e rettifiche di valore di attivi fissi Variazione degli accantonamenti Cash Flow operativo Variazione dei crediti da forniture e degli altri crediti Variazione delle scorte Variazione dei debiti da forniture e prestazioni e degli altri debiti Variazione dei ratei e risconti passivi Afflussi netti da attività operativa

(5)

Variazione netta dei mezzi liquidi Mezzi liquidi al 1. gennaio Variazione netta dei mezzi liquidi Mezzi liquidi al 31 dicembre

(7) (7)

ALLEGATO 1.

Informazioni relative ai principi utilizzati per l’allestimento del conto annuale. Il conto annuale è stato allestito conformemente alle prescrizioni della legislazione svizzera, in particolare in base agli articoli del Codice delle obbligazioni relativi alla tenuta della contabilità commerciale e alla presentazione dei conti (art. 957-963b). La società cooperativa Migros Ticino non allestisce un conto di gruppo in quanto i suoi conti sono inclusi in quelli della Federazione delle cooperative Migros, che pubblica un conto consolidato in base a una norma contabile riconosciuta (Swiss GAAP FER). La presentazione dei conti esige dall’Amministrazione delle stime e delle valutazioni che possono avere un incidenza sul valore degli attivi e dei debiti, come pure degli impegni eventuali alla data del bilancio, ma anche dei ricavi e dei costi del periodo di riferimento. Se del caso, l’Amministrazione decide, a propria discrezione, l’utilizzo dei margini di manovra legali esistenti in materia di valutazione e iscrizione a bilancio. Per il bene dell’azienda e nel rispetto del principio della prudenza, è possibile procedere ad ammortamenti, correzioni di valore, nonché la costituzione di accantonamenti superiori a quanto il contesto economico richieda. 2021

2.

Ricavi da forniture e prestazioni Commercio al dettaglio Ristorazione Scuola Club Prestazioni di servizio Totale ricavi da forniture e prestazioni

2020

(in 1 000 CHF)

(in 1 000 CHF)

484 361 11 222 2 541 10 763 508 887

478 218 11 710 2 806 10 751 503 485

Ü

Altri costi d’esercizio Pigioni Manutenzioni e riparazioni Energia e materiali di consumo Pubblicità Spese amministrative Altri costi d’esercizio Totale altri costi d’esercizio

5.

BILANCIO: PASSIVI (in 1 000 CHF)

Costi del personale Stipendi e salari Oneri sociali Altri costi del personale Totale costi del personale

2020

(in 1 000 CHF)

(in 1 000 CHF)

66 379 20 879 2 788 90 046

66 464 15 465 2 493 84 422

14 387 5 308 9 347 2 225 4 439 12 357 48 063

14 305 7 765 9 787 2 349 4 360 13 761 52 327

12 865 – 12 865

18 907 24 18 931

68 23 91 -313 -313 -222

89 23 112 -313 -313 -201

31.12.2021 31.12.2020 (in 1 000 CHF)

(in 1 000 CHF)

5 546 324 5 870

6 586 242 6 828

Altri crediti a breve termine Crediti verso imprese del gruppo Crediti verso terzi Totale altri crediti a breve termine

71 151 474 71 625

53 959 762 54 721

Immobilizzazioni finanziarie Prestiti a imprese del gruppo Totale immobilizzazioni finanziarie

1 000 1 000

1 000 1 000

3.83% 7.21%

3.83% 7.21%

100.00% 100.00%

100.00% 100.00%

100.00% 100.00%

100.00% 100.00%

10.00% 10.00%

0.00% 0.00%

11. Immobilizzazioni materiali Terreni e immobili Installazioni tecniche e macchinari Altre immobilizzazioni materiali Costruzioni in corso Totale immobilizzazioni materiali

80 223 8 215 1 658 22 90 118

82 978 12 577 2 195 97 97 847

12. Debiti da forniture e prestazioni Debiti verso imprese del gruppo Debiti verso terzi Totale debiti da forniture e prestazioni

24 16 064 16 088

222 21 331 21 553

13. Debiti onerosi Conti giubilei del personale Altri debiti finanziari verso terzi Altri debiti finanziari del gruppo Debiti onerosi a breve termine Prestiti da società del gruppo Debiti onerosi a lungo termine Totale debiti onerosi

7 939 58 26 000 33 997 20 000 20 000 53 997

7 963 56 – 8 019 46 000 46 000 54 019

20 000 20 000

46 000 46 000

506 291 – 7 512 8 309

541 291 1 7 548 8 381

3 242 17 687 20 929

2 888 18 145 21 033

7.

Mezzi liquidi Mezzi liquidi cassa o presso istituti finanziari terzi Mezzi liquidi presso Banca Migros Totale mezzi liquidi

8.

9.

10. Partecipazioni Società Federazione delle Cooperative Migros, Zurigo Quota capitale Diritti di voto ACTIV FITNESS TICINO SA, S. Antonino Quota capitale Diritti di voto Mitico Ticino SA, S. Antonino Quota capitale Diritti di voto Miduca SA, Zurigo Quota capitale Diritti di voto

La scadenza degli impegni finanziari a lungo termine è la seguente: esigibili da 1 a 5 anni Totale 14. Ratei e risconti passivi Ricavi Scuola Club Interessi Affitti Altre delimitazioni Totale ratei e risconti passivi 15. Accantonamenti Rendita transitoria AVS Altri accantonamenti Totale accantonamenti

Debiti da leasing finanziari e da altri impegni leasing non disdicibili entro un anno Saldo debiti di leasing Impegni per contratti d’affitto Totale debiti di leasing

1 026 35 66

1 006 36 81

1 127

1 123

191 98 274 98 465

16 105 125 105 141

2021

Onorari dell’ufficio di revisione Onorari di revisione Totale onorari di revisione

31.12.2021 31.12.2020 (in 1 000 CHF)

(in 1 000 CHF)

12 187 4 575 16 762 -5 000 11 762

8 564 3 623 12 187 – 12 187

Riporto dall’esercizio precedente Utile d’esercizio Utile a disposizione dei soci Dotazione alle riserve facoltative da utili Riporto all’esercizio nuovo

2021

2020

(in 1 000 CHF)

(in 1 000 CHF)

442 2 107 2 549 2 478

479 1 973 2 452 2 449

SPESE DEL PERCENTO CULTURALE Cultura, sociale ed economia Formazione (Scuola Club) Totale 0,5% della cifra d’affari determinante

RELAZIONE DELL’UFFICIO DI REVISIONE Relazione dell’Ufficio di revisione sul conto annuale In qualità di Ufficio di revisione abbiamo svolto la revisione dell’annesso conto annuale della Società Cooperativa fra produttori e consumatori Migros Ticino, costituito da conto economico, bilancio, conto dei flussi di tesoreria e allegato, per l’esercizio chiuso al 31 dicembre 2021. Responsabilità dell’Amministrazione L’Amministrazione è responsabile dell’allestimento del conto annuale in conformità alle disposizioni legali e allo statuto. Questa responsabilità comprende la concezione, l’implementazione e il mantenimento di un sistema di controllo interno relativamente all’allestimento di un conto annuale che sia esente da anomalie significative imputabili a frodi o errori. L’Amministrazione è inoltre responsabile della scelta e dell’applicazione di appropriate norme contabili, nonché dell’esecuzione di stime adeguate. Responsabilità dell’Ufficio di revisione La nostra responsabilità consiste nell’esprimere un giudizio sul conto annuale sulla base della nostra revisione. Abbiamo svolto la nostra revisione conformemente alla legge svizzera e agli Standard svizzeri di revisione. Tali standard richiedono di pianificare e svolgere la revisione in maniera tale da ottenere una ragionevole sicurezza che il conto annuale non contenga anomalie significative. Una revisione comprende lo svolgimento di procedure di revisione volte ad ottenere elementi probativi per i valori e le informazioni contenuti nel conto annuale. La scelta delle procedure di revisione compete al giudizio professionale del revisore, inclusa la valutazione dei rischi che il conto annuale contenga anomalie significative imputabili a frodi o errori. Nella valutazione di questi rischi il revisore tiene conto del sistema di controllo interno, nella misura in cui esso è rilevante per l’allestimento del conto annuale, allo scopo di definire le procedure di revisione appropriate alle circostanze, e non per esprimere un giudizio sull’efficacia del sistema di controllo interno. La revisione comprende inoltre la valutazione dell’adeguatezza delle norme contabili adottate, della plausibilità delle stime contabili effettuate, nonché un apprezzamento della presentazione del conto annuale nel suo complesso. Riteniamo che gli elementi probativi da noi ottenuti costituiscano una base sufficiente e appropriata su cui fondare il nostro giudizio. Giudizio di revisione A nostro giudizio, il conto annuale per l’esercizio chiuso al 31 dicembre 2021 è conforme alla legge svizzera e allo statuto. Relazione in base ad altre disposizioni legali Confermiamo di adempiere i requisiti legali relativi all’abilitazione professionale secondo la Legge sui revisori (LSR) e all’indipendenza (art. 906 CO congiuntamente all’art. 728 CO), come pure che non sussiste alcuna fattispecie incompatibile con la nostra indipendenza. Conformemente all’art. 906 CO, congiuntamente all’art. 728a cpv. 1 cifra 3 CO e allo Standard svizzero di revisione 890, confermiamo l’esistenza di un sistema di controllo interno per l’allestimento del conto annuale, concepito secondo le direttive dell’Amministrazione. PricewaterhouseCoopers SA

16. Altre indicazioni Personale della Cooperativa Migros Ticino Collaboratori fissi Apprendisti Collaboratori a tempo parziale con retribuzione oraria Totale posizioni a tempo pieno

UTILIZZO DELL’UTILE DI BILANCIO

2020

(in 1 000 CHF)

(in 1 000 CHF)

23 23

22 22

Ü

Roberto Caccia Perito revisore Revisore responsabile

Roberto Buonomo Perito revisore

Lugano, 17 marzo 2022

Cooperativa Migros Ticino Via Serrai 1, Casella postale 468, CH-6592 Sant’Antonino Tel. +41 (0)91 850 81 11 info@migrosticino.ch www.migrosticino.ch

migrosticino

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18 Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 16 maggio 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

TEMPO LIBERO ●

Alla Capitolare di Verona Un viaggio nella più antica Biblioteca al mondo di area culturale latina ancora in attività

Le sfumature delle Alcee Il loro aspetto rustico richiama alla memoria i bordi misti all’inglese e i giardini del Nord

Pagina 20

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Croccanti puntarelle Ottimi sono i germogli della catalogna con la mozzarella, in un’insalata alla senape e al miele

La via dei fiori Roberta Santagostino spiega la visione culturale che si cela nell’arte asiatica dell’Ikebana

Pagina 22

Pagina 23

Alan Mazzolini.

Con la casacca dei Ticino Bulls Altri campioni

Il giocatore di basket in carrozzella Alan Mazzolini racconta la sua esperienza sportiva

Davide Bogiani

Applausi, coreografie, incitamenti. L’atmosfera è decisamente vivace. L’entusiasmo è contagioso. Gli Amici dei Ticino Bulls cantano e ballano e spronano i giocatori della squadra del cuore a essere ancora più incisivi, diretti e determinati soprattutto nelle fasi offensive del gioco. Il tabellone indica una differenza di sei canestri a vantaggio degli avversari, in trasferta dal Canton Lucerna alla palestra del Palabasket a Bellinzona per sfidare i padroni di casa nel Campionato svizzero. Ma i Ticino Bulls non mollano: gli incitamenti dei fans riempiono il campo di un piacevole frastuono. Anche i giocatori ci mettono del loro, mescolando le proprie voci secche e atletiche con il fracasso metallico degli scontri tra i giocatori. Sì, metallico, perché quando le carrozzelle di basket si scontrano e sbattono l’una contro l’altra per bloccare gli avversari nelle rispettive fasi di gioco, fanno questo rumore. Il basket in carrozzella dà spettacolo, e lo fa con una squadra ticinese, quella dei Ticino Bulls (che fa parte del Gruppo paraplegici Ticino), che ancora una volta tira

fuori dal proverbiale cilindro una miscela di tecnica e tattica tali da spingerli alla rincorsa del titolo di campioni svizzeri. Tra i giocatori, vi è anche Alan Mazzolini. Lo abbiamo incontrato a fine partita. Il 39enne di Chiasso, rimasto paralizzato alle gambe nell’aprile del 2000 a causa di un incidente, si è avvicinato a questo sport molti anni fa, dopo il rientro dal suo percorso riabilitativo svoltosi al Centro per paraplegici di Nottwil. «Sì, è andata così» ci spiega Mazzolini. «Per mia fortuna ho conosciuto un ragazzo che giocava a basket in carrozzina nel Gruppo paraplegici Ticino e mi sono quindi sempre più appassionato a questa disciplina sportiva». Da allora la carriera sportiva di Alan Mazzolini è in continua accelerazione. Solo un anno dopo l’incidente, l’atleta prende parte al Campionato svizzero di basket in carrozzella. Trascorre qualche mese, e a soli 18 anni approda in nazionale svizzera, fino a quando alcune squadre italiane mettono gli occhi su di lui. Mazzolini per un periodo milita quindi anche nel Campionato italiano, per poi rien-

trare con la casacca della squadra del cuore, quella dei Ticino Bulls. Ma vediamo in che cosa consiste il basket in carrozzella: «Si tratta di uno sport molto fisico e di contatto, con frequenti scontri tra i giocatori. Tuttavia, la sicurezza viene garantita grazie all’utilizzo di speciali carrozzelle, che sono molto diverse da quelle di tutti i giorni. La loro caratteristica principale è la campanatura delle ruote, che permette maggiore stabilità e agilità nei movimenti. Inoltre le due rotelline davanti e dietro evitano il ribaltamento all’indietro e in avanti. Infine una sorta di parafango anteriore attutisce i continui contrasti fra i giocatori. Ciascuna carrozzella è fatta su misura dell’atleta in base alla sua disabilità ed è munita di cinture per evitare che negli scontri o nelle cadute si possa essere sbalzati fuori dalla sedia». Basket in carrozzella e per normodotati: cerchiamo di capirne meglio le differenze: «In realtà fra il basket in carrozzella e quello per normodotati c’è poca differenza, ci spiega il giocatore dei Ticino Bulls. Si gioca cinque contro cinque, l’altezza dei canestri

è di 3,05 metri, il campo è quello da basket con l’area dei due punti, il tiro libero e la linea dei tiri da tre. Il tempo di gioco è di 40 minuti in quattro quarti da 10 minuti ognuno. Le differenze sono sostanzialmente nei punteggi di ogni singolo giocatore. In base alle disabilità di ciascun atleta – continua Alan Mazzolini – viene stabilito un punteggio chiamato classificazione del giocatore, cha va da zero a cinque. La somma dei cinque giocatori in campo non deve superare in 14,5 punti. Con una classificazione da 0 a 1,5 si intende giocatori con poca mobilità della parte superiore del corpo e quindi con una lesione della colonna vertebrale alta. Dal 2 al 3 la mobilità superiore è più elevata in quanto la lesione spinale è più bassa e questo permette di usufruire meglio della parte superiore del corpo. Invece dal 3,5 al 5 normalmente sono le disabilità meno d’impatto sulla mobilità, come ad esempio un’amputazione di una gamba, poliomielite o altre problematiche. Il 5 viene attribuito a chi non ha una disabilità; questo significa che una persona che cammina normalmente può giocare al basket in carrozzella».

Per quanto concerne le regole, le differenze sono minime rispetto a quelle osservate nel gioco per i normodotati. I passi nel basket in carrozzella equivalgono alle spinte in carrozzella. Quindi, dopo due spinte occorre palleggiare, oppure passare la palla o tirare a canestro. Mazzolini rientra finalmente negli spogliatoi, accompagnato dagli applausi della tifoseria dei Ticino Bulls. Assieme a lui rientra tutta la squadra, formata da giovani leve, ex giocatori di basket per normodotati e da giocatori più navigati. Al seguito, lo staff: allenatori, massaggiatori e aiutanti. Ma non finisce qui: ad accompagnare Alan Mazzolini nello spogliatoio sono anche i suoi obiettivi sportivi, ovvero anzitutto quello di partecipare a un Campionato europeo con la casacca della nazionale svizzera e, un giorno, forse nemmeno troppo lontano, quello di prendere parte alle paralimpiadi o ai mondiali. Un po’ di Ticino alle prossime paralimpiadi di Parigi o Los Angeles? È il nostro augurio, per i Ticino Bulls e per gli Amici dei Ticino Bulls.


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azione – Cooperativa Migros Ticino 19

Storie di frontiera Reportage

Tra strade di ghiaccio, indigeni e hippie nella tundra del più sperduto angolo del Canada

Francesca Mazzoni, testo e foto

Gli occhi si perdono nel piatto paesaggio imbiancato della tundra. Il Mackenzie Bison Sanctuary è la riserva naturale con la più grande mandria libera di bisonti al mondo, ma nel mio caso è un buco nell’acqua (gelata). Pur avendo già percorso moltissimi chilometri, di questi bestioni neanche l’ombra. E allora meglio tornare indietro verso Yellowknife. Il termometro segna dieci gradi sotto zero, decisamente troppi per me, eppure pochi; dicono sia un inverno caldo in modo anomalo, se pensiamo che nel 1947 la temperatura crollò fino a meno cinquantuno… Insomma né animali leggendari, né freddo estremo; devo scovare un’altra buona ragione per giustificare i quattro aerei e le infinite ore di volo per arrivare fin qui, nei Territori del Nord-Ovest, forse la più remota area del Canada. La sparuta segnaletica lascia un ristretto margine di scelta: nord o sud. Verso nord non ci sono strade normali, solo piste sul ghiaccio d’inverno (sempre più a rischio a causa del riscaldamento globale). Appare all’improvviso una pompa di benzina che fa anche da caffetteria ed emporio per il piccolissimo villaggio di Behchoko. Ordino un hot dog da mangiare al volo e nel frattempo do uno sguardo agli scaffali: rossetti, mascara e smalti glitterati accanto a pellicce di volpe e topo muschiato. Sbircio anche nel banco del congelatore, ricolmo di gigantesche confezioni di carne vendute alla modica cifra di venti dollari canadesi ciascuna (circa quindici franchi). Vorrei scambiare due parole con il giovane commesso, un po’ incuriosito dalla mia presenza, ma è impossibile. Io vengo rapita dalla fame e lui da una signora sdentata con la sigaretta accesa tra le dita che reclama la sua spesa in tono concitato. Dopo un’oretta arrivo a Yellowknife, poi continuo verso nord. «Dettah è un luogo dove i turisti potrebbero sentirsi a disagio» ammette senza mezzi termini la Lonely Planet. Ma per il momento ho preoccupazioni più immediate, per la precisione gli scricchiolii, qualcuno più acuto e altri quasi impercettibili, mentre le gomme del fuoristrada scivolano sulla superficie ghiacciata del Grande lago degli schiavi. In inverno il lago diventa una specie di autostrada dove le automobili sfrecciano accanto a slitte trainate da cani. È una distesa azzurra che brilla sotto il sole di marzo, senza cartelli stradali o corsie di marcia. Vige la legge della tundra e il buonsenso di frenare in caso di pernice, come recita l’adesivo sul retro del pick-up che mi precede. Per cinque chilometri si è sospesi su una quarantina di centimetri di ghiaccio, il minimo indispensabile per transitare in sicurezza, fin quando si comincia a intravedere uno sterrato di sabbia e sassi, poi le prime case del villaggio. A Dettah vive una delle principali comunità indigene della baia di Yellowknife. Cammino tra casette in legno scrostate, targhe dipinte a mano e pelli d’animali appese a seccare su rastrelliere. C’è un bel viavai di persone che entrano nell’unico edificio in cemento. Mi avvicino senza dare nell’occhio, ma non faccio in tempo a sbirciare oltre la porta d’ingresso che

m’imbatto in una signora anziana dagli occhi a mandorla, scuri e profondi. «Entra, sei benvenuta», dice porgendomi la mano. File di tavoli apparecchiati, un buffet lunghissimo, bambini che corrono qua e là, giovani e anziani gli uni accanto agli altri: forse una festa paesana. Gli adulti si alternano al microfono cantando o parlando in una

lingua che ignoro, ogni tanto una rullata di tamburi per svegliare gli animi. La signora mi fa cenno di seguirla. Ha i capelli nerissimi raccolti in una morbida treccia con una spilla di perline colorate. «Piacere, Liza. Di dove sei?». Le spiego che sono italiana e resterò da queste parti per una decina di giorni. «Gli europei qui sono pochissimi»

replica, mentre mi aiuta a togliere il giaccone. «Non c’è molto per divertirsi. Yellowknife è l’unica città di questa immensa provincia canadese. Non è un posto facile qui, ma c’è sempre quello spirito di frontiera, soprattutto nella zona di Old Town. Al posto di pionieri e minatori, in quelle baracche colorate ora ci sono giovani, artisti e gente strana, a metà tra un cowboy e un hippie». Approfitto della sua gentilezza per togliermi qualche curiosità sulla vita in questi sperduti angoli del Canada, terra delle comunità indigene delle Prime nazioni, degli ingordi cercatori d’oro sulla strada per il Klondike e dei leggendari piloti dei bush plane, sfrontati avventurieri del cielo capaci di atterrare senza pista su qualsiasi terreno accidentato. «Siamo un po’ sopra le righe, fuori dai binari. Un campionario ben assortito» risponde mostrandomi alcune fotografie appese alle pareti. Ne indica una con una grigia torretta d’acciaio. «Yellowknife aveva una delle migliori miniere d’oro di tutta la nazione. Resta solo arseni-

co, tantissimo arsenico nel suolo, uno dei peggiori veleni al mondo», sottolinea con voce spezzata. Cambio argomento e chiedo cosa stiano festeggiando. «Un membro della comunità ci ha lasciato la scorsa settimana. Condividiamo tutto, è l’unico modo per sopravvivere nella tundra» risponde con un sorriso ritrovato. L’atmosfera allegra mi ha portata fuori strada. «Il fratello del defunto ha cacciato e cucinato il caribù per tutti. Mangia con noi» mi dice indicando la sedia. Ho un attimo di smarrimento. Sono le 16.05 di un sabato qualsiasi e io mi trovo a sette fusi orari dall’Italia a una specie di commemorazione funebre davanti a un piatto di stufato di renna. Poi però penso a mia nonna Francesca, siciliana e contraria a qualsiasi no pronunciato dinanzi al sacro comando del cibo. E ovunque tu sia, certe regole non cambiano, alla frontiera come a casa. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 16 maggio 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

TEMPO LIBERO

Un’altra Verona Itinerari

Un viaggio, attraverso i libri, nella storia millenaria della Biblioteca Capitolare

Luigi Baldelli, testo e foto

«Sì, siamo la più antica Biblioteca al mondo, di area culturale latina, a essere ancora oggi in attività, ripeto, in attività». Esordisce così, Monsignor Bruno Fasani, Prefetto della Biblioteca Capitolare di Verona, situata accanto al Duomo. Perché Verona non è solamente la città di Giulietta e Romeo o dei grandi spettacoli lirici all’Arena. È anche un viaggio, attraverso i libri, in una storia millenaria. Un viaggio all’interno della Biblioteca Capitolare, che nasce nel 362 d.C. come Scriptorium, e gestita da Canonici del Capitolo, dove i frati amanuensi trascrivevano sulle pergamene i testi sacri per i futuri sacerdoti. E proprio uno di questi frati, Ursicino, lascia la prima testimonianza dello Scriptorium, quando terminato di scrivere la vita di San Martino, stilata da Sulpicio Severo, e la vita di San Paolo, redatta da San Girolamo, nell’ultima pagina aggiunge la data «esattamente ha terminato di scriverlo qui, in questa Biblioteca, il 1. Agosto 517, come è riportato sull’ultima pagina del Codice», mi spiega Don Bruno. «Certo, come tante altre biblioteche abbiamo anche codici più antichi, come ad esempio il Codice XXVIII, il più antico codice che riporta una parte del De Civitate Dei di Sant’Agostino, ed è dell’inizio del V secolo d.C. Ma il codice di Ursicino ci dice in maniera lampante che qui, a Verona, in questa Biblioteca, abbiamo il più antico libro prodotto e scritto nello stesso luogo». Nella Biblioteca sono presenti più di 1250 Codici (il nome codice deriva dai fascicoli di pergamena legati tra di loro), a partire dalla fine del 200 e inizio del 300. «Non potrei fare certo una classifica dei libri più importanti che sono presenti qui alla Capitolare» mi dice Monsignor Fasani mentre camminiamo nelle piccole sale della Biblioteca, avvolti dalla luce soffusa, dove i libri riposano a una temperatura costante, per preservarne il materiale. «Ma certamente direi che le più straordinarie sono La copia di Istituzioni di Gaio, unico diritto romano del 2 secolo d. C. e ricopiata nel 4 secolo nello Scriptorium, e poi la De Civitate Dei di Sant’Agostino del 420 circa d. C. Questa è la copia più anti-

ca al mondo di un’opera di Agostino, definita dagli studiosi una reliquia» e gli si illuminano gli occhi mentre lo dice. «Poi potrei continuare con I Vangeli Purpurei, della seconda metà del 400 d. C. un grosso tomo scritto in argento e oro e immerso nella porpora». Si ferma, mi guarda e chiede: «Sa perché nella porpora? Perché era il colore degli imperatori. Pensi che nel 1444 San Bernardino, quando lo vede si commuove fino alle lacrime e dice: “Ho visto un evangelistario tutto aruiento e auro”». Oramai è un fiume in piena Don Bruno e aggiunge: «L’imperatore Teodorico ha giurato su questi vangeli nel 494 d. C. quando è diventato imperatore d’Italia». Dietro una porta blindata, che custodisce gli antichi e preziosi libri, mi mostra Il Codice Spagnolo, scritto nella seconda metà del 600, arrivato in Italia nel 700, passando per Cagliari, Pisa, per approdare a Verona, dove un amanuense che doveva copiarlo si prese la briga di scrivere «Separeba boves, alba pratilia araba, albo vesorio teneba et negro semen seminaba» che tradotto vuol dire «Teneva davanti a sé i buoi (le dita della mano), arava i bianchi prati (le pagine del libro), teneva un bianco aratro (la penna d’oca) e seminava il seme nero (cioè l’inchiostro)». «Questa – mi fa notare Monsignor Bruno Fasani – non è solo una frase che dipinge lo scrivano, ma è la prima traccia della lingua volgare italiana e la prima traccia al mondo della lingua romanza». Camminando ancora attraverso il viaggio nella storia si scopre che l’ottavo secolo è stato quello del massimo splendore per questo luogo. Carlo Magno dice che tutti devono andare a studiare allo scriptorium di Verona, definendolo la Nuova Atene del mondo. Passano gli anni e i secoli con alti e bassi per lo scriptorium che comunque si arricchisce sempre di più di opere provenienti dalla Francia, Nord Europa, Baviera. I libri diventano sempre più curati e si realizzano miniature che diventano il fiore all’occhiello del luogo. Ma è nel 1200 che da scriptorium si trasforma in Biblioteca, diventando luogo di studio, consultazione e conservazione di testi. Altra data importante è il 1303, quando per la prima volta arriva a Ve-

rona il Sommo Poeta, Dante, in fuga da Firenze dopo la sconfitta dei ghibellini a opera dei guelfi, così come ritorna nel 1305 e poi di nuovo nel 1312 per fermarsi fino al 1318. Ed è durante questo suo ultimo soggiorno che scrive proprio qui, a Verona, parte del Purgatorio e del Paradiso. Intanto nel nostro giro siamo arrivati fino al Salone Principale, dove siamo circondati da librerie di legni scuri e lucidi, alte fino al soffitto e piene di antichi libri. Domando: «Ma Dante è passato di qui, dalla Biblioteca?» Monsignor Fasani mi guarda prima dritto negli occhi e poi con un ampio gesto delle mani, guardandosi intorno, mi dice: «Non abbiamo prove certe ma fino al 1800 questa era la Biblioteca più preziosa al mondo e vuoi che Dante non sia passato di qui? E poi, – continua il Monsignore – il Sommo Poeta tenne il suo discorso Quaestio de aqua et terra nella chiesetta di Sant’Elena, che era sempre del Capitolo dei Canonici cui faceva capo la Biblioteca, quindi…». Quindi, poi, scopro che non solo Dante è passato di qua, ma anche Petrarca ha lasciato il suo segno, quando arrivato a Verona nel 1340 scopre all’interno della Biblioteca le Lettere di Cicerone e «…decide di tradurle. Ma non abbiamo solo quelle, ci sono molti testi suoi di quegli anni, dettati da lui ai suoi scrittori» mi informa Don Bruno, che sprigiona passione e amore per questa Biblioteca a ogni parola. Non pago mi regala altre informazioni preziose: 100mila volumi presenti, circa 300 incunaboli (i primi libri realizzati con l’arte della stampa modellati sui manoscritti) datati dal 1450 al 1500. Una ricchezza che fece gola anche a Napoleone, il quale, alla fine del 1700, fece portare a Parigi 31 codici e 20 incunaboli. Recuperati solo in parte: fu grazie allo scultore Canova, il quale, dopo intercessione presso l’Imperatore d’Austria, riuscì poi a fare restituire alla Biblioteca quasi tutti i codici. L’unico piccolo rammarico di Monsignor Fasani è quello di «non avere nella Capitolare neanche un libro originale di William Shakespeare, qui, nella città di Giulietta e Romeo. Abbiamo tentato diverse volte,

ma senza successo. Io però non demordo e chissà, forse un giorno riusciremo a coronare questo sogno» mi dice osservando fuori dalla finestra del suo studio l’impetuoso fiume Adige. Ci stiamo per salutare, ma ho ancora una domanda: «Mi dia un motivo per venire a visitare la Biblioteca Capitolare di Verona, oltre che per vedere con i propri occhi queste opere d’arte», e lui, da uomo di cultura, immediatamente risponde: «Come dicevano i Longobardi: si hanno libri perché si è potenti o si è potenti perché si hanno i libri, che tradotto vuol dire sono i soldi o la cultura che ti fa potente? La bellezza e la cultura vanno alimentate e noi siamo qui a disposi-

zione». E poi, aggiunge, con un tono di voce delicato: «Quando vedi con i tuoi occhi un documento di 1600 anni di età è un’emozione indescrivibile». Ora è davvero arrivato il momento dei saluti, ma prima, da buon uomo di marketing oltre che di chiesa, Don Bruno mi ricorda il sito della Biblioteca (www.bibliotecacapitolare.org), dove si possono prenotare le visite e avere come guida Monsignor Fasani, felice di trasmettere le sue conoscenze e l’amore per questo piccolo gioiello italiano. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.


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Ricetta della settimana - Insalata di puntarelle e mozzarella ●

Ingredienti

Preparazione

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Per 4 persone

1. Tritate la cipolla e l’aglio. Dimezzate il peperoncino per il lungo, privatelo dei semi e tritatelo. Tagliate le puntarelle a strisce.

I membri del club Migusto ricevono gratuitamente la nuova rivista di cucina della Migros pubblicata dieci volte l’anno. migusto.migros.ch

1 cipolla rossa 1 spicchio d’aglio 1 peperoncino 500 g di puntarelle 2 c d’aceto balsamico 6 c d’olio d’oliva 2 c di succo di limone 1 cc di miele 1 c di senape sale 4 mozzarelle di circa 150 g ciascuna

2. Mescolate l’aceto balsamico con l’olio, il succo di limone, il miele e la senape. Mescolate le puntarelle e il trito di cipolla, aglio e peperoncino con la salsa. 3. Condite con sale e pepe e servite l’insalata con la mozzarella. La mozzarella può essere sostituita anche con la burrata. Preparazione: circa 20 minuti. Per persona: circa 33 g di proteine, 44 g di grassi, 8 g di carboidrati, 580 kcal/2400 kJ.

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TEMPO LIBERO

Altissime Alcee Mondoverde

Rustiche e vivaci, resistono al freddo, ma possono spezzarsi sotto la forza del vento

Anita Negretti

Grazie alla loro altezza, si parla di più di due metri di fusto erbaceo, le Alcee si aggiudicano il primo posto nella competizione tra le erbacee perenni, spiccando tra le aiuole e rallegrandole grazie ai loro colori vivaci e divertenti. Originarie dell’Europa, le Alcee si presentano come piante biennali o perenni. Sono rustiche e in grado di resistere fino a –20 C°. Hanno uno sviluppo veloce se coltivate in pieno sole. Importante è però dotarle di un palo tutore, che permetta loro di resistere ai venti; basterà anche solo una semplice canna di bambù, alla quale legare i fusti per impedire che si spezzino.

Alcea rosea «nigra». (Jacilluch)

Con l’arrivo della primavera crescono molto in fretta; le loro foglie, lunghe fino a venti centimetri, sono ruvide e pelose Appartengono alla famiglia delle Malvaceae e con le malve condividono i fiori, entrambi dalla forma di imbuto, con i classici cinque petali leggermente frastagliati al bordo. Semplici o ricchi di petali, i suoi fiori assumono sfumature dal bianco, come in Alcea rosea «Chater’s White», ai toni del giallo fino a raggiungere i più classici colori rosa. In questo senso, vi consiglio di cercare le piantine di A. r. «Chater’s Rosa» o la vigorosa Alcea «Parkrondell», ricchissima di steli e fiori semplici in grado di raggiungere in una sola primavera i 225 centimetri di altezza. In fiore da giugno a settembre, e oltre, si possono acquistare nei vivai o nelle floricolture sotto forma di pian-

tine già radicate oppure si può decidere di seminarle. In questo ultimo caso si procede in tarda primavera interrando i singoli semi all’interno di cassette riempite di terra soffice e in posizione semi-ombreggiata: in 5-10 giorni radicheranno. Alla terza settimana andranno ripicchettati in singoli vasi dal diametro di 10-12 cm e nell’autunno o nella primavera dell’anno successivo si potranno mettere direttamente a dimora in piena

terra, garantendogli bagnature regolari e una buona dose di concime per supportarne la crescita. Durante l’inverno le foglie delle Alcee tendono ad appassire e i fusti si devono potare bassi, visto che la loro vigoria nei mesi freddi è tutta concentrata nell’apparato radicale. Con l’arrivo della primavera cresceranno molto velocemente, emettendo prima le foglie (lunghe fino a venti centimetri, ruvide, pelose e dalla forma lobata),

mentre poi, in cima agli steli, si formeranno i boccioli fiorali. All’interno di un’aiuola andranno a occupare una posizione centrale e un buon accostamento può essere eseguito con delle graminacee, come Miscanthus e Pennisetum o con altre erbacee perenni. Echinacea, rudbeckia, gaure ed hemerocallis diventano ottime compagne con sfumature ed esigenze simili. Inoltre, grazie all’altezza di queste alte essenze, si potranno ma-

scherare facilmente i pali tutori degli steli delle Alcee. L’aspetto rustico richiama molto i bordi misti all’inglese e infatti dall’Ottocento a oggi vengono assai utilizzate nei giardini del Nord Europa e grazie ai loro fiori sono parecchi i pittori che li hanno inseriti nei loro quadri: Renoir, ad esempio, ne era un grande estimatore, proprio come Goethe che li fece piantare lungo la strada che portava alla sua abitazione, rimanendo meravigliato ed estasiato ogni volta che fiorivano. Chiamati anche malvone o bismalva, racchiudono nel loro nome botanico, Alcea, la derivazione greca del verbo guarire «althein». Molte sono infatti le sue qualità medicamentose soprattutto utili per eliminare malattie della gola e dei raffreddori. Come già detto, queste piante sono rustiche e richiedono una coltivazione semplice. Tuttavia temono un fungo, la Puccinia malvacearum, che porta alla formazione di escrescenze scure su foglie e fusti. Irrigazioni adeguate e un trattamento preventivo a base di solfato di rame accompagnato al taglio delle foglie basali per i primi 30-40 centimetri dal suolo, riducono notevolmente la comparsa di questa malattia. Altro terribile nemico è legato alla presenza di lumache e chiocciole, da tener lontane con preparati biologici o ricorrendo a esche chimiche. Per chi volesse incominciare a coltivarle, consiglio di cercare piantine o sementi del gruppo Chater’s , tutte a fiore doppio, mentre chi desidera cercare qualche varietà veramente insolita, può provare a seminare Alcea rosea «Nigra» con petali nero velluto.

Autentici falsi derivati Giochi di parole

Flessioni grammaticali generate da scarti e aggiunte

Ennio Peres

aggiungendo in coda un opportuno gruppo di lettere, corrispondente a un suffisso. I giochi basati su tale principio appartengono alla vasta categoria dei falsi derivati, che comprende anche termini ricavati mediante l’apposizione di opportuni prefissi, tra i più comuni dei quali possono essere citati i seguenti: – falso accrescitivo (matto = mattone; persa = persona; salmo = salmone); – falso diminutivo (botto = bottino; cane = canotto; gazza = gazzetta); – falso iterativo (belle = ribelle; dotto = ridotto; sotto = risotto); – falso anteriore (benda = prebenda; cariato = precariato; datore = predatore). Diversi anni or sono, la redazione della rivista ludica «GiocAreA» nel meritorio intento di svecchiare le ob-

solete strutture dell’enigmistica abituale, coniò una grande quantità di estrosi falsi derivati. Qui di seguito, riporto alcuni simpatici esempi di falsi di tale filone, che sfruttano sia suffissi sia prefissi: – falso balbuziente (cena = cecena; mento = memento, perone = peperone); – falso bleso (arido = avido; carie = cavie; rendita = vendita); – falsa compagnia (certo = concerto; chiglia = conchiglia; sole = console); – falso denigratore (catino = bucatino; colica = bucolica; Dino = budino); – falsa ideologia (anta = antologia; ape = apologia; paté = patologia); – falsa infiammazione (contro = contrite; parto = partite; rapa = rapite); – falso raffreddore (attento = addendo; papà = babà; porto = bordo);

– falso ricovero (mensa = mensile; oste = ostile; vino = vinile); – falsa specializzazione (arto = artista; baro = barista; rivo = rivista); Questi schemi, oltre a essere alquanto spiritosi, sono perfettamente utilizzabili per confezionare dei giochi enigmistici analoghi a quelli tradizionali, come i seguenti quattro (di tipo popolare) che vi propongo, senza esplicitare il meccanismo del falso derivato utilizzato. Provate a risolverli. 1. Falso contrario (di Cheemer il Micco) «Caro Romeo…» Fra voi e lei ci voglio xxxxx miglia; voglio che stiate xxxxxxxx da mia figlia! 2. Falso sostenitore (di Nino er Sepe) «Falso sostenitore»

Queste carte, nel cestino io le xxxxx: non è vero che appoggio il tuo xxxxxxxx! 3. Falso estinto (di Sabatino di Gorgo) «Panorama di Civitavecchia» Ci sta il porto, il Forte, il xxxx e una grossa ciminiera / che continua, ahinoi, a xxxxxx: ogni dì, da mane a sera. 4. Falso verbo (di Cheemer il Micco) «Riparazioni inefficaci» Il tuo rimedio non può funzionare: se si è rotto del cane il guinzaglio, riattaccarlo con la xxxxx al xxxxxxx, mi sa che è un grande sbaglio. Soluzione 1. tante = distante 2. getto = progetto 3. mare = fumare 4. colla = collare

Come molti sanno, quando per effetto di un cambio di lettera finale, una determinata parola si trasforma in un’altra di diverso significato, ma con l’aspetto di una sua potenziale declinazione al maschile o al femminile (ad esempio: costo = costa; mento = menta; colletto = colletta), il gioco viene chiamato: falso cambio di genere. In maniera analoga, quando una parola si trasforma in un’altra di significato diverso, ma con l’aspetto di una sua potenziale declinazione al plurale o al singolare (ad esempio: vita = vite; vénti = vènto; colla = colle), il gioco viene chiamato: falso cambio di numero. Esiste un’ampia gamma di altre false flessioni grammaticali che vengono tutte generate, scartando la lettera finale della parola di partenza e

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L’arte Zen dell’impermanenza

Ikebana ◆ L’espressione poetica e armoniosa di alcune composizioni floreali può aiutarci a vedere la vita con altri occhi, ce ne parla Roberta Santagostino Eliana Bernasconi

Ikebana è il nome dell’antichissima arte tradizionale giapponese della disposizione dei fiori, dove linee, forme e colori sono ricercati e seguiti con amorosa cura per raggiungere una composizione vegetale finale e trasmetterci la loro segreta espressione poetica, che ha seguìto i ritmi segreti e le forme della natura. Come sempre, l’etimologia ci fornisce chiarimenti fondamentali: il termine Ikebana deriva da «Ikeru», far vivere e «hana», fiori viventi, ma significa anche «via dei fiori», intesa come cammino verso la conoscenza interiore e la serenità. La nascita e la storia dell’Ikebana è antichissima. Dalla Cina e dall’India arriva in Giappone all’incirca nel sesto secolo dopo Cristo. Ha origine dalla pratica rituale di un’offerta floreale agli Dei. Agli inizi assolutamente preclusa alle donne e riservata alle sole classi superiori come monaci, sacerdoti e samurai, nel corso dei secoli viene estesa a tutti i ceti. Quest’arte non potrebbe che essere nata in Asia, perché è dalla filosofia dello Zen, cioè dalle scuole buddiste giapponesi e cinesi rielaborate dal leggendario monaco indiano Bodhidharma, che l’Ikebana ha assorbito l’idea di tempo come impermanenza e continuo divenire, tipico della cultura del Sol Levante. Questa conce-

zione si esprime nella celebre affascinante Festa dei ciliegi che si celebra ogni 23 marzo a Tokyo (e in alcune delle principali città giapponesi a Primavera). È una festa ammirata e percepita come meravigliosa anche e soprattutto nella misura in cui è destinata a non durare. Come avviene nell’universo, dove le forze di cielo e terra si armonizzano, nella pratica dell’Ikebana tutto deve essere ugualmente armonioso e deve dialogare con gli elementi della natura. Roberta Santagostino insegna Ikebana, è autrice di Piante e fiori dell’Ikebana. Tradizioni, leggende, curiosità e lei stessa crea delicate e incantevoli composizioni floreali. Da sempre attratta dall’essenzialità e dalla bellezza dell’estetica giapponese, è partita dalla sua professione di grafica per poi avvicinarsi con grande curiosità al Giappone, studiandone da vicino il linguaggio e le manifestazioni culturali: «Praticando quest’arte – ci ha spiegato – si acquisisce una particolare sensibilità verso la natura durante il passare delle stagioni. In Ikebana infatti si utilizzano molto spesso rami e fiori spontanei, si ricerca e si crea bellezza in un’asimmetria equilibrata, la natura stessa è piena di bellezza e di relazioni asimmetriche ma armoniose. Ikebana è un’arte tradizionale profondamente rispettata e

gelosamente conservata dai giapponesi che tutt’ora la praticano seguendo corsi e direttive di diverse scuole, alcune delle quali hanno origini molto antiche. È stata un’italiana – continua Roberta Santagostino – Jenny Banti Pereira, a introdurre negli anni Sessanta l’Ikebana in Italia diffondendola poi anche in Europa. Oggi quest’arte è praticata in molti paesi; in Italia sono presenti scuole importanti di Ikebana come Ikenobo, Sogetsu, Ohare e Wafu». In Occidente si potrebbe considerare l’Ikebana qualcosa di puramente decorativo e statico; niente di più errato: si tratta di una pratica artistica in perenne evoluzione, che attinge a una sorgente infinita di forme compositive, dove il rapporto con la natura, che sottende ogni forma d’arte giapponese, è un costante punto di riferimento. Sempre più persone sono attratte da questa disciplina accessibile a chiunque, perché risveglia la creatività interiore che dorme in ognuno di noi, fa sperimentare nuove dimensioni, ci fa scoprire come è ogni volta sempre nuova la visione della natura e lo stupore davanti alla bellezza di un fiore. «L’impermanenza – conclude Roberta Santagostino, che ha dedicato la sua vita a quest’arte – è una delle caratteristiche più forti dell’Ike-

Giochi e passatempi Cruciverba

Per scoprire come si chiama la sacca che avvolge l’uovo dello squalo, risolvi il cruciverba e leggi le lettere evidenziate. (Frase: 10, 5, 6)

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19. In bioccoli se è grezza 21. Neppure una volta 22. Intimidazioni 24. Abbreviazione di laureato 25. Uno in tedesco 26. Pesi... puliti 27. Legno pregiato VERTICALI 1. Massimo attore 2. Lotto di terreno 3. Astro... al tramonto 4. Pienamente felici e soddisfatte 5. Periodi di tempo 7. Iniziali della moglie di Ri-

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cky Tognazzi 10. Rimedio universale 12. Ogni tanto è piena 13. Nome a Parigi 14. Impiegare, adoperare 15. Eliminano i cigolii 16. Trasformano il fare in favore 17. Sommo Poeta 19. Il letto dei wagons 20. Cavità anatomica 22. Me, io a Parigi 23. Si ripete brindando 24. Le iniziali del 45esimo presidente USA

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ORIZZONTALI 1. Nella gamba e nel braccio 3. Termine generico che indica qualsiasi cosa 6. Il grizzly è americano 8. Preposizione francese 9. In coppia con lui 10. È anche di Spagna 11. Le iniziali dell’attore Abatantuono 12. Le linee perimetrali 13. Mutati, rinnovati 17. Rilievi sabbiosi 18. Capitale della Norvegia

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Bibliografia Roberta Santagostino, Piante e fiori dell’Ikebana. Tradizioni, leggende, curiosità, editore Jouvence, 2017, 176 pp.

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sottrazione e della semplicità, dell’uso minimo dei materiali, dell’idea che non dovremmo sprecare la vita delle piante come non dovremmo sprecare la nostra stessa vita».

Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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bana: anche la più bella composizione è destinata a scomparire in breve tempo e noi non dobbiamo affezionarci ad essa; l’atteggiamento di sereno distacco è un insegnamento importante che la sua pratica ci regala, per questo e per il potere di oltrepassare il risultato del gesto arrivando alla nostra anima è considerata un’arte Zen. È stato evidenziato come ci faccia sperimentare la bellezza della

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

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Una composizione floreale di Roberta Santagostino, secondo l’arte dell’Ikebana.

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Soluzione della settimana precedente L’INNO DEGLI ITALIANI – Goffredo Mameli è solo l’autore del testo dell’inno nazionale italiano la musica… Resto della frase: …FU COMPOSTA DA MICHELE NOVARO. F A B B R I C H E

U C S I A R E A P I S T I A P A C S I R E L A R E O S A V S R A D I C O L

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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ATTUALITÀ ●

Stati Uniti non così allineati Anche l’America ha al proprio interno delle componenti filo-russe che tifano contro l’Ucraina

Un diritto in discussione La sentenza «Roe v. Wade», che dal 1973 garantisce il diritto all’aborto negli Usa, potrebbe essere ribaltata

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Meloni a capo del governo? Un ritratto della leader di Fratelli d’Italia, partito in testa ai sondaggi che attira i delusi di Lega e FI

​ ommersi dai referendum S Una riflessione sulle caratteristiche della nostra democrazia diretta e sui suoi punti deboli

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Con Mosca bisogna trattare L’analisi

Affinché il negoziato abbia senso è però necessario che l’occidente capisca cosa vuole dalla Russia e cosa può ottenere

Lucio Caracciolo

A un certo punto, speriamo presto, gli ucraini e i loro mentori americani ed europei dovranno negoziare con Vladimir Putin (nella foto). E viceversa. Nessuno può prevedere quando e a che condizioni sarà possibile farlo. Ma a meno che la guerra in Ucraina vada fuori controllo, magari estendendosi su altri fronti, prima o poi vedremo negoziatori russi e ucraini a un tavolo. E forse, subito dopo, anche Joe Biden e Putin riprenderanno a parlarsi per stabilire il tipo di relazioni che sarà ragionevole instaurare dopo l’avventurosa aggressione russa del 24 febbraio. Scopriremo allora che il movente essenziale di quell’attacco non aveva specificamente a che fare tanto con l’Ucraina, con la Nato o con gli assetti di sicurezza in Europa. La ragione di fondo dell’aggressione ha molto a che fare con la persona Putin, con la sua storia e la sua molto peculiare visione del mondo. In una parola, con la sua insaziabile pretesa di riconoscimento. Di rispetto. Per sé e per la Russia, con cui si identifica, e che oggi largamente si identifica con lui, per quanto tempo non sappiamo.

Tutto nasce dall’esperienza del crollo dell’Unione Sovietica. Dunque della forma novecentesca dell’impero russo. Putin non ha mai digerito quella catastrofe. Da persona di notevole intelligenza e realismo, sa che la Federazione Russa è solo una frazione, in termini di potenza, di quel che fu l’Unione Sovietica. Ma pretende che sia rispettata come grande potenza. È su questa base che per i primi anni della sua presidenza ha bussato ripetutamente alla porta dell’America, nella speranza di vedersi riconosciuto un ruolo almeno formalmente paritario nel palcoscenico mondiale. Ruolo da fondarsi essenzialmente sulla potenza atomica. Senza successo. Dal 2007 a oggi Putin, progressivamente disilluso, amareggiato e infine furibondo, si è allontanato gradualmente da quella traiettoria. Il 24 febbraio ha deciso di tagliare i ponti. E come spiega Fjodor Luk’janov – uno dei suoi più ascoltati consiglieri, oggi come tutti gli altri meno ascoltato di prima – nel volume di Limes dedicato al «caso Putin», invadendo l’Ucraina ha voluto segnalare al mondo che esiste un’alternativa all’egemonia

americana e che lui quell’alternativa intende incarnare. La Russia si vuole avanguardia di un nuovo ordine, insieme alla Cina e a gran parte del fu Terzo Mondo. Gli storici stabiliranno se e quali errori abbia compiuto l’Occidente in questi anni nella relazione con la Russia. Nessuno dei quali, naturalmente, può legittimare l’aggressione all’Ucraina. Ma può certamente contribuire a spiegarla. Questo però riguarda il passato. Guardiamo avanti.

La Russia si vuole avanguardia di un nuovo ordine, insieme alla Cina e a gran parte del fu Terzo Mondo La domanda è allora: varrà la pena trattare con Putin? L’esperienza di questi ultimi anni non ci dovrebbe spingere a considerarlo un esercizio inutile, anzi pericoloso? Probabilmente molti, specie in America e nei paesi dell’Europa baltica, Polonia in testa, la pensano così. Credono sia possibile far fuori Putin e con

lui, forse, lo stato russo. Per virare sul caso russo la celebre battuta di Andreotti sulla Germania, costoro amano tanto la Russia che ne vorrebbero una dozzina. Tanti frammenti di impero russo ridotti allo stato coloniale, all’impotenza. Ammettiamo che abbiano ragione. Che sia possibile rovesciare, con il regime, anche lo stato russo. Ma almeno di non immaginare che quell’enorme spazio – undici fusi orari – sprofondi nelle viscere della Terra, resta la questione: abbiamo la voglia, la forza e i soldi per gestire tante piccole o meno piccole Russie? E per farne che? O le lasciamo diventare terre di nessuno, aperte a ogni scorribanda? E le seimila testate nucleari russe, che fino faranno? Ce le divideremo in un’asta globale? Se ne deduce che prima o poi con Putin, o con chiunque sieda al Cremlino, noi occidentali dovremo trattare. A partire dai nostri interessi, senza alcuna corrività, che d’altronde qualsiasi leader russo – specie se Putin – non rispetterebbe. Ma perché il negoziato abbia senso e porti a ristabilizzare un mondo in via di impaz-

zimento, sarà necessario fissare prima fra noi che cosa vogliamo o non vogliamo dalla Russia, e che cosa possiamo ottenere.

Molti, specie in America e nei paesi dell’Europa baltica, credono sia possibile far fuori Putin e con lui, forse, lo stato russo L’impressione è che in America come fra gli europei non vi siano idee molto chiare al riguardo. Ma un posto a tavola a Mosca comunque spetta, salvo appunto avventurarsi nella sua liquidazione, e sperando che nel frattempo non si suicidi in una guerra intestina il cui prezzo ricadrebbe anche sul resto del pianeta. La base di ogni negoziato dev’essere l’assoluta franchezza che nasce dal reciproco rispetto. L’esito non lo conosciamo, ma certamente Putin e la sua Russia non saranno mai pari dell’America né paria nel mondo. Da tale premessa sarà bene cominciare a riflettere su quello che potrà essere il molto provvisorio end state del conflitto in corso.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 16 maggio 2022

ATTUALITÀ

L’America che tifa per Putin L’analisi

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azione – Cooperativa Migros Ticino

Ma più insidiosa è la tentazione isolazionista che ha radici antiche

Il cantiere Europa Prospettive

Come si può rafforzare l’Unione?

Marzio Rigonalli

Quanto è unita l’America nel fronteggiare l’invasione russa in Ucraina? All’apparenza i primi segnali di dissonanza nella coalizione anti-Putin sono europei, mentre l’America procede compatta. Il Congresso degli Stati Uniti ha dato una rara prova di coesione bipartisan quando ha approvato a larga maggioranza un nuovo maxi-pacchetto di trasferimenti all’Ucraina: 40 miliardi di dollari (in parte armi, in parte aiuti economici), perfino più di quanti ne avesse chiesti Joe Biden. La Camera di Washington ha approvato gli aiuti con 368 sì e 57 no, uno schieramento imponente in cui sono confluiti anche molti parlamentari dell’opposizione. Non era scontato in un’epoca storica in cui democratici e repubblicani sono divisi su tutto. Ma qualche crepa appare anche negli Usa. La presidente della Camera Nancy Pelosi è andata a Kiev per incontrare il leader ucraino Zelensky e confermargli la solidarietà dell’America. Ma la delegazione che accompagnava la terza carica istituzionale degli Stati Uniti era composta esclusivamente da parlamentari democratici. Al seguito di Pelosi nella trasferta ucraina non figurava un solo esponente dell’opposizione. Anche l’America ha al proprio interno delle componenti filo-russe, che tifano contro l’Ucraina in questo conflitto. L’estrema sinistra ha una galassia di opinionisti come Branko Marcetic, il quale teorizza un complotto americano «per trasformare l’Ucraina in un pantano stile Afghanistan per la Russia, magari scatenare un cambio di regime a Mosca, e così mandare anche un segnale alla Cina». Un altro personaggio tipico di questo mondo è Glenn Greenwald, che la sinistra radicale trattò come un eroe ai tempi delle rivelazioni di WikiLeaks contro lo spionaggio americano. Greenwald collaborava con Edward Snowden, la «gola profonda» che poi andò a vivere a Mosca. Greenwald è rimasto negli Usa, è un ospite regolare della tv di destra «Fox News», nei cui talkshow denuncia «il ruolo crescente degli Stati Uniti per indebolire la Russia».

Il 9 maggio, giornata che l’Europa festeggia ogni anno in ricordo della dichiarazione di Robert Schuman – ex ministro degli esteri francese che nel 1951 pose le basi del progetto d’integrazione europea – è stata una buona occasione per riflettere sullo stato di salute e sul futuro dell’Ue. L’occasione è stata favorita anche dalla guerra in Ucraina, che ha costretto l’Unione a una reazione senza precedenti, fondata sulla condanna dell’aggressione russa, su severe sanzioni contro Mosca, sulla difesa dell’integrità territoriale e della sovranità dell’Ucraina, sugli aiuti economici e militari forniti a Kiev, nonché sull’accoglienza di milioni di profughi costretti ad abbandonare il loro paese. L’azione dell’Ue e di altri paesi europei che non fanno parte dell’Unione è stata esemplare da più punti di vista. Innanzitutto per la presa di coscienza dell’importanza della posta in gioco, ossia della minaccia che la Russia fa pesare sull’integrità di uno stato sovrano, quindi sulla democrazia e la libertà, che sono i principi sui quali si fonda l’Occidente. Poi per l’importanza degli aiuti forniti. Infine per la solidarietà che è stata espressa al di là di relazioni e di interessi nazionali non necessariamente convergenti. La reazione dell’Ue ha però messo in luce anche le debolezze dell’attuale progetto d’integrazione europea, gli ostacoli che frenano la sua azione e i passi che andrebbero compiuti – sia sul piano interno sia su quello esterno – per consentire all’Europa di avere una rilevanza geostrategica e di non dover subire i nuovi equilibri internazionali che si stanno profilando.

Bandiera della Federazione Russa. (Shutterstock)

sca per «congelare» l’avanzata russa e stabilizzare la situazione europea. L’obiettivo di indebolire la Russia, evocato di recente dal segretario alla difesa Lloyd Austin, si è imposto per rassicurare tutti quei paesi vicini a cui Putin ha più volte esteso le sue minacce: Polonia, Paesi Baltici, Romania. Il partito putiniano d’America è ancora più radicato nella destra trumpiana. Nell’Ohio il pupillo di Donald Trump è J. D. Vance, e difende la classica linea isolazionista del suo protettore: «Make America great again» significa stare alla larga dalle guerre «che non ci riguardano», concentrare le risorse sulla rinascita dell’industria nazionale e dei posti di lavoro perduti con la globalizzazione. Un’altra trumpiana, la deputata della Georgia Marjorie Taylor Greene, sostiene che l’Ucraina ha «provocato» l’invasione della Russia. Trump è un po’ più ondivago. All’inizio della guerra disse che Putin era «un genio» e Biden «un incapace». Di recente ha definito l’aggressione all’Ucraina «un genocidio», proprio come il presidente in carica. Però continua a smarcarsi dalle azioni di Biden. Lo ha fatto in modo esplicito suo figlio Donald Junior (molto attivo nella campagna elettorale), che ha dichiarato: «L’Ucraina è uno dei paesi più corrotti del mondo, non dovremmo mandarle aiuti». L’universo dei social di estrema destra è sempre ricettivo verso la propaganda di Mosca, per esempio continua a riprendere le fake news russe su laboratori di armi batteriologiche creati dagli americani in Ucraina. Una vittoria repubblicana alle elezioni di metà mandato non si tradurrà per forza in un dietrofront della strategia di Washington. Politica estera e sicurezza nazionale sono terreni sui quali il presidente ha l’ultima parola, e Biden rimarrà in carica per altri due anni. Né bisogna dare per

scontato che prevalga la corrente putiniana dentro il partito repubblicano: quando c’era Trump alla Casa Bianca i suoi tentativi di «flirt» con Putin fecero inorridire molti parlamentari del suo partito. Più insidiosa è la tentazione isolazionista che ha radici antiche nella storia della destra americana. Trump risvegliò questa tradizione con i suoi ripetuti attacchi alla Nato. La realpolitik, insieme alla convinzione che la vera sfida del futuro è con la Cina e non con la Russia, possono spingere a un disimpegno americano dall’Europa: sarebbe la strada opposta rispetto a quel che chiedono i paesi più vulnerabili di fronte all’espansionismo russo, lungo la fascia che unisce Helsinki e Stoccolma, Riga, Tallinn, Vilnius, Varsavia, Bucarest. Altre capitali, da Berlino a Parigi e Roma, possono interrogarsi sulla tenuta dell’atlantismo americano nel lungo periodo. Tanto più che una critica alla linea tenuta sull’Ucraina viene anche da personaggi vicini all’establishment democratico, come l’opinionista del «New York Times» Thomas Friedman. Quest’ultimo mette in guardia Biden contro il pericolo di scivolare verso un conflitto diretto con la Russia. Secondo lui Washington non deve farsi dettare la propria strategia dal presidente ucraino Zelensky: deve aiutarlo a ricacciare indietro i russi, poi a negoziare la pace più equa possibile e basta. Ma non allargare la Nato all’Ucraina. Altri temono che lo stesso ingresso della Finlandia e della Svezia possa risucchiare l’America verso responsabilità sempre maggiori, costringendola a difendere – in caso di attacco russo – un numero di nazioni ancora più vasto. In fondo, per com’è andata finora, questa guerra è una rivincita per «the Blob», quella potente lobby globalista che è trasversale, bipartisan, legata al ruolo «imperiale» degli Usa, e che criticò la ritirata da Kabul.

azione

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Trump all’inizio della guerra disse che Putin era «un genio» e Biden «un incapace», di recente ha definito l’aggressione all’Ucraina «un genocidio» Il mondo della sinistra radicale, molto forte nelle università, per decenni ha istruito il processo all’America quale unica nazione imperialista sulla faccia della terra, e non è pronto a rinnegare i propri dogmi. Deve trovare le prove di un complotto Usa dietro l’aggressione all’Ucraina, e per questo cancella l’evidenza: all’inizio dell’invasione russa Biden era convinto che Putin avrebbe vinto in poco tempo. Ci furono preparativi per mettere in salvo Zelensky in Polonia. La diplomazia di Washington stava ipotizzando una serie di concessioni da fare a Mo-

Keystone

Federico Rampini

Le novità che potrebbero essere introdotte nell’Unione, per migliorarne il funzionamento, sono state evidenziate da due eventi concomitanti: la fine della Conferenza sul futuro dell’Europa e il discorso che il presidente francese Emmanuel Macron ha tenuto il 9 maggio a Strasburgo, davanti al Parlamento europeo, nella sua veste di presidente dell’Unione. La Conferenza ha riunito 800 eletti, esperti e cittadini, che hanno lavorato durante un anno e che adesso hanno presentato una serie di proposte per rendere l’Unione più democratica ed efficiente. Nel suo discorso Macron ha ripreso una parte di quelle propo-

ste e ne ha aggiunto altre. Tre sono le principali novità verso le quali si vuol andare. La prima è la revisione dei trattati dell’Unione, che molti ritengono necessaria per potersi adeguare alla nuova realtà internazionale. La seconda porterebbe all’abolizione del voto all’unanimità, per sostituirlo con il voto alla maggioranza qualificata in settori essenziali come la politica estera e la fiscalità. Oggi ogni stato membro dispone del diritto di veto. Un solo governo può quindi bloccare un provvedimento voluto da tutti gli altri stati membri, come per esempio il varo di sanzioni contro uno stato terzo. L’ultima novità permetterebbe di creare una Comunità politica europea alla quale potrebbero aderire tutti quegli stati che vogliono diventare membri dell’Ue ma che non sono ancora in grado di adeguarsi ai parametri richiesti, per esempio per quanto concerne lo stato di diritto o la lotta contro la corruzione. La Comunità risponderebbe a quella voglia d’Europa che hanno espresso stati come l’Ucraina, la Moldavia, la Georgia e i paesi balcanici. Sul piano internazionale, l’invasione russa dell’Ucraina ha compattato i 27 stati membri dell’Ue e ha risuscitato la Nato. Ha però anche evidenziato dipendenze e impreparazioni in particolare in due settori, quelli della difesa e dell’energia. Per la difesa del continente europeo si è rivelato ancora una volta determinante il ruolo della Nato come forza deterrente alle ambizioni imperialistiche del Cremlino. Un ruolo che oggi attira anche paesi con una lunga tradizione neutrale, come la Svezia e la Finlandia. Alcuni stati dell’Ue hanno reagito aumentando il bilancio militare e rafforzando il dispositivo orientale del continente, ma ben poco è stato fatto sulla strada verso una maggiore integrazione delle forze militari europee e una maggiore autonomia in seno alla Nato. Il settore energetico ha dimostrato una preoccupante dipendenza dal gas e dal petrolio russi. Una dipendenza che intralcia l’esecuzione delle sanzioni decretate dopo l’aggressione dell’Ucraina e che mette a dura prova l’intesa tra i 27 stati membri dell’Unione. Accedere all’autonomia energetica, senza chiedere troppi sacrifici ai cittadini, sarà un compito difficile da realizzare. Ci vorrà tempo e una continua volontà politica da parte di tutti i governi. L’immagine che emerge oggi dall’Unione europea è quella di un cantiere, di una «ricostruzione» cosparsa di sfide da affrontare per poter rafforzare l’indipendenza e il ruolo internazionale dell’Europa. Il cammino non sarà facile, perché le opposizioni interne sono forti. Lo ha dimostrato anche una prima presa di posizione di una decina di stati che si sono subito dichiarati contrari alla revisione dei trattati Ue. I prossimi mesi ci diranno quale sarà il ritmo impresso alla volontà di cambiamento e quali sono le reali possibilità di arrivare ai primi risultati concreti.

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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

Diritto di aborto a rischio ◆

La Corte suprema potrebbe ribaltare la sentenza «Roe v. Wade»

Luisa Betti Dakli

Nel 2012 negli Usa l’ultraconservatore Rick Santorum, tra le nomination repubblicane per le presidenziali, in campagna elettorale affermava: «Le donne violentate non devono abortire perché il bambino che arriva è un dono di dio». Oggi quello che sembrava impossibile si sta avverando. La Corte suprema potrebbe pronunciarsi contro la storica sentenza «Roe v. Wade» – che dal 1973 garantisce il diritto all’aborto negli Stati Uniti (diritto confermato dalla sentenza del 1992 nel caso «Planned parenthood v. Casey» in cui si sottolinea che gli Stati non possono applicare limitazioni all’aborto) – partendo dal parere espresso sulla proposta di legge del Mississippi che limita a 15 settimane il diritto a interrompere la gravidanza, anche in caso di stupro o incesto. Gli orientamenti della massima istanza giuridica statunitense sono stati rivelati da «Politico.com» che è venuto in possesso della prima bozza presentata dal giudice Samuel A. Alito Jr. il 10 febbraio, secondo cui la «Roe v. Wade» non è solo «estremamente sbagliata» ma dovrebbe essere ribaltata (spetterebbe cioè ai cittadini e ai loro rappresentanti, i legislatori a livello statale, decidere sull’aborto). Dei 9 giudici presenti alla discussione, i conservatori Alito, Clarence Thomas, Brett M. Kavanaugh, Neil M. Gorsuch e Amy Coney Barrett – ovvero la maggioranza – si sono dichiarati pronti a spazzare via il diritto all’autodeterminazione delle donne negli Usa in una decisione che arriverà non prima di giugno. Quei giudici hanno preso di mira anche la

Dal 2002

È in vigore il «regime dei termini»

Romina Borla

«Planned parenthood v. Casey», secondo cui le persone hanno la libertà di fare «scelte intime e personali», contestando così anche i matrimoni gay e gli atti sessuali privati tra persone dello stesso sesso. Subito dopo la diffusione delle indiscrezioni da parte del «Politico», proteste si sono tenute nelle strade di New York, Boston, Nashville, Dallas, New Orleans, e i leader democratici al Senato, Charles E. Schumer e la presidente Nancy Pelosi, hanno dichiarato: «La Corte suprema è pronta a infliggere la più grande restrizione dei diritti negli ultimi 50 anni, non solo alle donne ma a tutti gli americani». Dal canto suo Joe Biden ha invitato a difendere il diritto all’aborto parlando dell’azione della Corte come di una più ampia minaccia per i diritti, dalla contraccezione al matrimonio, in quanto «ogni altra decisione relativa alla nozione di privacy viene messa in discussione». Il presidente americano tenta così di cavalcare l’onda, chiedendo agli elettori di decidere sulla questione, naturalmente scegliendo candidati pro-choice (favorevoli all’autodeterminazione) nelle elezioni di medio termine di novembre. Elezioni che si prospettano difficili per Biden che, secondo i sondaggi, ha perso molti consensi per la sua incapacità ad affrontare inflazione e criminalità nonché per le sue posizioni sul conflitto in Ucraina. La decisione della Corte potrebbe rilanciare la campagna democratica in vista del voto di Midterm? Assolutamente sì. Il cattolico Biden, che da quando è presidente non ha mai pronunciato la parola «aborto» finora, sa

Proteste davanti al Palazzo della Corte suprema a Washington. (Keystone)

che i democratici adesso non hanno i numeri al Congresso per approvare alcunché riguardo all’interruzione di gravidanza, per cui se la nazione vuole che la «Roe v. Wade» sia codificata ci vogliono «più senatori pro-choice e una maggioranza alla Camera». Ma quanto è credibile un presidente cattolico osservante che ha più volte affermato di essere personalmente contrario all’aborto e che nel 1982 ha votato un emendamento costituzionale che consentiva ai singoli stati di ribaltare proprio la sentenza in questione? In realtà lo scoglio più grande per varare una legge che sancisca questo diritto è la modifica della regola della maggioranza assoluta in Senato, dove qualsiasi nuovo statuto richiede 60 voti, mentre i 100 membri sono equamente divisi tra repubblicani e democratici. Proprio settimana scorsa una battaglia è stata vinta dai conservatori: il Senato ha bloccato il «Women’s Health Protection Act», provvedimento che voleva trasformare in legge federale la «Roe v. Wade». La misura proposta dai democratici è stata affossata con 51 voti contrari e 49 favorevoli. Se la «Roe v. Wade» venisse a cadere, ogni Stato potrebbe legiferare in maniera indipendente, quindi le norme che restringono (o vietano) il diritto all’interruzione di gravidanza sarebbero confermate in una ventina di Stati americani. Tra questi il Texas, dove chi aiuta una donna ad abortire può essere perseguito, o l’Oklahoma, che ha approvato un divieto totale, ma anche il Kentucky, il Mississippi, l’Ohio e l’Alabama, dove l’aborto è vietato anche in caso di stupro o incesto con pene fino a 99 anni per i medici. In Georgia il divieto è sulla base dell’heartbeat, il battito cardiaco dell’embrione che si potrebbe percepire nelle prime 6 settimane, quando la donna non sa neanche di essere incinta, una norma che era stata bocciata in Ohio nel 2011 dagli stessi conservatori che la trovavano estrema e che oggi è un modello legislativo per una quindicina di Stati. Restrizioni dell’aborto approvate pur sapendo che la «Roe v. Wade» avrebbe potuto bloccarle. Ma Donald Trump è riuscito, durante il suo mandato, a portare i giudici conservatori alla maggioranza nella Corte suprema (oggi 6 su 9), nominando Amy Coney Barrett, Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh. E adesso non c’è più nulla di sicuro.

Keystone

Usa

Le regole in Svizzera

Il dibattito sul diritto all’aborto infiamma gli animi negli Stati Uniti, come spiega l’articolo accanto. E continua a essere argomento sensibile anche alle nostre latitudini. Ma quali sono le regole valide nel nostro paese? Secondo le disposizioni del Codice penale svizzero attualmente in vigore – si legge sul sito dell’Ufficio federale di giustizia – «l’interruzione della gravidanza non è penalmente punibile se, entro 12 settimane dall’inizio dell’ultimo ciclo, la donna presenta una richiesta scritta in cui fa valere uno stato d’angustia (come termine di paragone, la sentenza «Roe v. Wade», ora in discussione negli Usa, consente l’aborto fino alla 24esima settimana circa, ndr). Il medico deve previamente tenere un colloquio approfondito con la donna e fornirle tutte le informazioni utili. Alla donna viene inoltre consegnato un elenco degli organismi e delle associazioni che offrono aiuto morale o materiale». È quello che viene chiamato «regime dei termini», accettato dal popolo elvetico il 2 giugno 2002. Per quello che riguarda la copertura dei costi, l’interruzione di gravidanza è rimborsata dalle casse malati (l’iniziativa popolare «Il finanziamento dell’aborto è una questione privata», che intendeva stralciare i costi della pratica dall’assicurazione di base, è stata respinta nel 2014). Dati dell’Ufficio federale di statistica alla mano, nel 2020 in Svizzera sono state registrate 11’143 interruzioni di gravidanza (301 in Ticino). Nel 2005 rispettivamente 10’818 e 592. «Il numero di aborti, legali e illegali – si legge sul Dizionario storico della Svizzera (DSS) – è stato stimato a 60’00080’000 attorno al 1930 e a 50’000 nel

1966. Gli aborti legali furono circa 17’000 nel 1966, 16’000 nel 1978 e nel 1980, 14’000 nel 1985, 13’000 nel 1990, 12’000 nel 1995, 13’000 nel 1996 e nel 1998». Questa chiara tendenza alla diminuzione, spiegano gli esperti, è dovuta alla prevenzione (corsi di educazione sessuale, centri di pianificazione famigliare ecc.) e alla diffusione di metodi anticoncezionali più sicuri. Ora facciamo un passo indietro, a prima dell’introduzione del «regime dei termini». Nel 1942 entrò in vigore il Codice penale svizzero che sostituiva le leggi penali cantonali dell’Ottocento, le quali fino ad allora avevano regolato singolarmente, e in maniera differenziata, l’interruzione di gravidanza (in genere – ricorda il DSS – esse «punivano soprattutto la persona che lo procurava e ammettevano talvolta l’indicazione medica. Vaud 1844; Ticino 1873; Ginevra 1874; Neuchâtel 1891»). Sul sito dell’amministrazione federale si trova un saggio che spiega: «Nuova (dal 1942, ndr.) non è solo la possibilità di un aborto legale (...), ma anche l’istituzionalizzazione giuridica dell’aborto terapeutico legale sotto controllo statale, il quale richiede: la consultazione di un secondo medico che deve essere uno specialista, una perizia scritta, l’autorizzazione del medico specialista da parte di un’istanza statale, l’accordo scritto della donna incinta» (vedi Donne. Potere. Storia. La storia della parità in Svizzera 1848-2000, 3.8 Interruzione della gravidanza). In ogni caso il saggio sottolinea come nel 2000, in materia di aborto, la Svizzera aveva una delle regolamentazioni più restrittive d’Europa che però corrispondeva sempre meno alle pratiche comunemente accettate nei vari cantoni. Annuncio pubblicitario


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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

La prima donna a guidare il governo? Italia

Un ritratto di Giorgia Meloni, da «protetta» di Silvio Berlusconi a guida del partito al comando nei sondaggi

Alfio Caruso

Nel dicembre 2012 Giorgia Meloni (nella foto) fondava, nell’indifferenza di tanti, un movimento patriottico fin dal nome, Fratelli d’Italia. La circondavano vecchi arnesi della destra nostalgica, che spesso contavano il doppio dei suoi anni. E se costoro non avevano molto da rimetterci, dispersi come erano dentro il Popolo della libertà berlusconiano, Meloni appariva l’unica che avesse da perdere e non poco. Appena trentacinquenne, con un’esperienza triennale da ministra della Gioventù nell’ultimo governo Berlusconi (2008-2011), era il nome nuovo della destra, l’acclamata sostituta di Gianfranco Fini, travolto politicamente dalla ribellione contro re Silvio e umanamente dall’ingordigia dei familiari e della moglie, culminata nella sottrazione al partito dell’attico di Montecarlo, regalo di un’anziana sostenitrice. Ma Meloni non accettò di starsene a cuccia di Berlusconi, malgrado gli dovesse le principali tappe della propria carriera. La rottura avvenne sull’appoggio del PdL al governo presieduto dall’economista Mario Monti durante la peggiore crisi della repubblica. Le elezioni del 2013 consegnarono a Meloni meno del 4% dei voti. Da lì, però, incominciò la lunga marcia, che la porta oggi a guidare il partito al comando nei sondaggi (22,6%), coccolato dall’inestinguibile classe degli arrampicatori che hanno già formato file infinite per salire sul carro di Giorgia.

A 15 anni aderì al Fronte della gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano, fondato dai reduci del fascismo Un simile successo è frutto della sua coerenza nell’attivare un’opposizione intransigente, spesso in contrasto con le manovre saltabeccanti di Matteo Salvini (Lega) e Berlusconi, ma ancor più è frutto della sua abilità po-

Fratelli d’Italia attinge i tanti voti della sua attuale supremazia fra i delusi della Lega e di Forza Italia. (Keystone)

litica. Meloni, a parole, ha rotto con la fastidiosa eredità del ventennio di Mussolini, mentre nella pratica continua ad accoglierne gli accoliti, i nipotini irredimibili. Di conseguenza Fratelli d’Italia non partecipa alla celebrazione del 25 aprile, in cui si omaggia la Resistenza e la vittoria sul nazifascismo; i suoi rappresentanti nelle amministrazioni rilanciano il vecchio slogan «Boia chi molla!»; i raduni e le commemorazioni sono caratterizzati dal saluto con il braccio alzato, spesso accompagnato dall’ovazione squadristica «eia, eia, eia alalà». Un armamentario datato, tuttavia ben conosciuto da Meloni. A 15 anni infatti aderì al Fronte della gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano, fondato negli anni Quaranta dai reduci del fascismo. Una scelta maturata nel popolarissimo quartiere romano della Garbatella, dove lei e la madre traslo-

carono dopo l’abbandono del padre Francesco, commercialista trasferito alle Canarie per rifarsi una vita. Furono anni di formazione molto duri, di contrapposizione anche violenta con i movimenti di sinistra. A Meloni servirono per conquistare il rispetto dei giovani camerati e per imparare l’equilibrio fra il rinnovamento impostato da Fini e la coltivazione, magari lontano da occhi indiscreti, dei vecchi rituali. Di conseguenza, sparito Fini, l’anima radicale della destra accolse convintamente la sua ribellione alla supremazia berlusconiana. I risultati sono stati superiori a ogni aspettativa: ha soprattutto pagato l’intelligente decisione di non aderire al governo di salute pubblica varato da Sergio Mattarella con Mario Draghi. Fratelli d’Italia è così diventata l’unica forza di opposizione, prontissima ad assurgere a voce contraria nella gestione della pandemia

e più ancora dei vaccini: no-vax e nopass sono corsi a ingrossarne le file trasformandola, almeno nelle intenzioni, da terza ruota a mosca cocchiera del raggruppamento. La partecipazione di Salvini e Berlusconi al gabinetto Draghi, con gli immancabili compromessi rispetto ai programmi iniziali, ha consentito di attingere fra i delusi della Lega e di Forza Italia i tanti voti della sua attuale supremazia. Pure la pubblica contrarietà di Meloni alla seconda elezione presidenziale di Mattarella ha permesso di mettere all’angolo Salvini, che ha finito con l’accettare la soluzione deprecata fino al giorno prima. Per Meloni ha rappresentato la vittoria più vistosa. Tale da indurre lo stesso Salvini a ipotizzare una federazione con Berlusconi – la Lega è data al 15%, FI all’8% – per scongiurare l’affermazione di Fratelli d’Italia e consentirgli di competere per

il primo posto all’interno della coalizione. L’antico patto – ammesso che sia ancora valido – prevede che il segretario del partito più votato sia anche il presidente del consiglio in caso di vittoria. Però i sondaggi più recenti per le elezioni della primavera 2023 sostengono che il trend ascensionale di Fratelli d’Italia sia così lanciato da collocarlo al di sopra anche della federazione Lega-FI. Insomma, Meloni sembra avere tutte le chances per essere la prima donna in Italia a guidare il governo. E lei da mesi si muove per migliorare l’immagine e far dimenticare i peccatucci ideologici del passato: ha preso le distanze da Marine Le Pen; ha accentuato l’europeismo del fronte conservatore, che presiede a Bruxelles; ha convintamente difeso l’invio delle armi all’Ucraina distinguendosi dal titubante Salvini, prima schierato con il sì, poi con il nì. Per superare questo stallo fatto di gelosie e di sospetti vengono convocati vertici regolarmente annullati nelle 24 ore precedenti. Ognuno dei tre convitati affetta la massima disponibilità a trovare un punto d’incontro, che immancabilmente si trasforma in punto di scontro. I propositi di larga intesa nascono al mattino e muoiono la sera. Lo dimostra la guerra di religione divampata nell’indicare il candidato sindaco di Palermo e il candidato alla presidenza della Sicilia. Per il primo ha prevalso l’esponente di un partitino di centro appoggiato da Meloni; ma per il secondo i proconsoli berlusconiani preferirebbero perdere piuttosto che riconfermare l’attuale presidente, Nello Musumeci, antico sodale di Meloni. Per lei, comunque, il trabocchetto vero è rappresentato dalla legge elettorale. L’attuale – al 75% proporzionale, al 25% maggioritaria – conforta le sue ambizioni obbligando le forze politiche ad associarsi. Non per niente è allo studio un ritorno al proporzionale puro, che con l’obbligo di ricercare una maggioranza in Parlamento potrebbe bloccarla anche se risultasse la più votata.

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 16 maggio 2022

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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

Tra overdose di referendum e astensionismo Svizzera

Una riflessione sulle caratteristiche della nostra democrazia diretta e sulle sue debolezze

Ogni tre mesi arriva puntuale nella buca delle lettere: la busta con il materiale per le prossime votazioni federali. È un appuntamento fisso nelle domeniche degli svizzeri e delle svizzere (che ieri si sono espressi su cinema, trapianti e Frontex). Nel 2021 si è votato su 13 oggetti a livello federale, su 7 nel 2022 (finora), a cui se ne sono aggiunti molti altri a livello cantonale e comunale. Per qualcuno andare al voto è un dovere, per altri è un diritto della nostra democrazia. Una democrazia diretta che può essere però sfiancante. Dopo aver messo la scheda nell’urna, l’elettorato, come una sorta di Sisifo, è costretto a ritornare al punto di partenza per rifare tutto da capo: documentarsi, farsi un’opinione e poi compilare la scheda.

La contrapposizione politica e i partiti in costante campagna elettorale rischiano di mandare in tilt il sistema A chiamarci al voto sono spesso i partiti e i movimenti politici che negli ultimi anni hanno individuato nel referendum facoltativo uno strumento per mobilitare la base. Nel 2021 abbiamo votato su 7 referendum. È il numero più alto dal 1992, anno in cui il popolo ha dovuto esprimersi su 10 oggetti. Ma come mai siamo sommersi da tanti referendum? Lukas Golder, condirettore dell’istituto di ricerca Gfs.bern, indica che un motivo va ricercato nella nuova composizione del parlamento federale, composizione che ha reso il lavoro nelle commissioni più difficile. Un tempo, lontani dalla luce dei riflettori, i parlamentari e le parlamentari sapevano trovare compromessi che accontentavano un po’ tutti, mentre ora la discussione è più polarizzata. Stando al politologo, dall’autunno 2019 le camere federali stanno cercando un loro equilibrio e così il parlamento, considerato una macchina del compromesso, non funziona più come dovrebbe perché nei suoi ingranaggi si sono infilati dei granelli di sabbia. Stando agli esperti, la contrapposizione politica e i partiti in costante campagna elettorale rischiano di mandare in tilt il sistema visto che quasi un oggetto su due viene respinto alle urne, bloccando per anni le riforme. Dall’inizio di questa legislatu-

ra la quota di successo dei referendum è del 43 per cento, quando dal 2011 al 2020 si attestava sul 26 per cento. In parte si tratta di una conseguenza della pandemia che ha politicizzato una parte dell’elettorato che solitamente non prendeva parte alle votazioni. Inoltre, a causa delle misure anti-Covid, la discussione si è spostata sempre più online, sui social media, nelle cosiddette bubble dove si è confrontati con persone con opinioni uguali, bolle che non favoriscono il pluralismo di idee. Infine per le autorità è stato più difficile influenzare il dibattito pubblico visto che non potevano incontrare la popolazione. C’è chi parla di un’overdose di referendum, così com’era stato il caso con la legislatura precedente con le iniziative. Per questo motivo ci si può chiedere se non sia necessario aumentare il numero di firme necessarie o ridurre il tempo a disposizione per raccoglierle. Lukas Golder indica che una misura simile limiterebbe ai gruppi meno influenti e con meno mezzi le possibilità di partecipare al dibattito politico e di promuovere le loro rivendicazioni. Oltre a un aumento dei referendum facoltativi, durante la pandemia si è registrata una maggiore partecipazione alle votazioni federali. Nel 2021 l’affluenza media è stata del 57,2 per cento, mai così alta dall’immediato Dopoguerra. Nel decennio 20112020 la partecipazione in Svizzera si attestava sul 46 per cento. I motivi di tale assenteismo sono molteplici. Non si tratta necessariamente di disinteresse nei confronti della politica. Stando alle ricerche svolte nel Canton Ginevra e nella città di San Gallo, dove i politologi hanno la possibilità di consultare le carte di legittimazione, l’80 per cento dell’elettorato è andato a votare almeno una volta negli ultimi cinque anni. Ciò significa che solo il 20 per cento dell’elettorato non vota mai. Si tratta quindi di una partecipazione selettiva e occasionale, quando insomma l’oggetto in votazione appassiona e attira l’attenzione della gente. I politologi spiegano così anche i picchi di affluenza alle urne su tematiche che hanno polarizzato l’opinione pubblica durante la crisi pandemica, quali la modifica della legge Covid-19 con una partecipazione record del 65,7 per cento. Sono quindi i grandi temi a «ripoliticizzare» la popolazione, in passato sono stati, ad

Keystone

Luca Beti

esempio, il traffico con le trasversali ferroviarie alpine, l’ambiente con la protezione delle torbiere, la difesa con l’iniziativa per l’abolizione dell’esercito o la politica estera con lo scrutinio sullo Spazio economico europeo. Le indagini demoscopiche hanno evidenziato un altro elemento: chi butta il materiale di voto nella carta straccia non lo fa necessariamente perché non crede nelle autorità politiche. Anzi, la scarsa partecipazione va letta come un segnale di fiducia nei confronti delle istituzioni e del sistema democratico. A preoccupare i politologi è invece il rovescio della medaglia della democrazia diretta. Una parte dell’elettorato, soprattutto i giovani, le donne e le persone con un reddito basso e poco istruite, non partecipa al dibattito pubblico perché si sente impreparato e impaurito dalla crescente complessità dei temi in votazione. Ciò potrebbe promuovere l’esclusione di una fascia di popolazione poco rappresentata anche nei consessi politici. I politologi sostengono che tale tendenza va combattuta con l’educazione civica. Se volgiamo

lo sguardo sulle elezioni cantonali notiamo che la percentuale di coloro che non fanno uso del loro diritto di voto è ancora maggiore. Gli astensionisti sono stati quasi il 70 per cento nei cantoni Berna e Vaud dove si è votato nel mese di marzo. Le elezioni cantonali sono state snobbate da due elettrici ed elettori su tre. Eppure i governi e i parlamenti cantonali hanno avuto un ruolo importante durante la pandemia visto che hanno dovuto decidere su alcune misure di contenimento della diffusione del nuovo coronavirus, ad esempio sull’obbligo di portare la mascherina e sulla strategia di depistaggio nelle scuole o sullo svolgimento di eventi. Marc Bühlmann, direttore di «Année politique suisse», non è sorpreso della scarsa affluenza alle urne poiché le elezioni cantonali sono spesso delle rielezioni dei candidati e delle candidate uscenti. Secondo il politologo, le elezioni cantonali sono spesso uno sterile rito democratico perché incapace di cambiare, in maniera decisiva, gli equilibri in Consiglio di stato o in Gran consiglio. Anche qui i motivi

del crescente astensionismo nelle elezioni cantonali – fatta eccezione per i Cantoni Vallese e Ticino – sono molteplici. Gli esperti ricordano la perdita di identificazione nel proprio cantone a causa dell’elevata mobilità delle persone, soprattutto nell’Altopiano. Si parla anche di una tendenza alla «glocalizzazione», ossia ci si interessa soprattutto ai temi globali e nazionali e in parte alle questioni nel quartiere e nel comune, ma non a ciò che succede a livello cantonale. Un fenomeno favorito anche dai mass media. Le misure di risparmio e la centralizzazione li hanno obbligati a trascurare le tematiche cantonali che, di riflesso, hanno aumentato il disinteresse da parte dell’elettorato. Per frenare l’erosione di elettrici ed elettori, Lukas Golder ha lanciato di recente l’idea di organizzare dei «Super Sunday» in cui l’elezione si terrebbe lo stesso giorno in vari cantoni di una regione, per esempio in tutta la Svizzera francese o nella Svizzera orientale, con l’obiettivo di aumentare l’attrattiva e l’interesse mediatico del voto cantonale. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Un bilancio a 345 gradi sulla pandemia ◆

In movimento nonostante il lockdown è un agile volume nel quale un gruppo di autori ticinesi e confederati ha cercato di fare un bilancio dell’impatto che ha avuto la pandemia, delle sue conseguenze e dei possibili cambiamenti a medio e lungo termine. In generale l’impatto di un fenomeno nuovo può essere quello di rafforzare o di indebolire tendenze già in atto, oppure di sopprimere o creare determinati sviluppi. Per complicare le cose bisogna poi aggiungere che l’impatto su un certo fenomeno può ritrasmettersi su altri. Per fare un esempio basterà ricordare che la pandemia, specie nel primo anno, ha ridotto in modo drastico il numero dei passeggeri in aereo e ha fatto aumentare in modo sensibile i pernottamenti in albergo in tutte le regioni turistiche del nostro paese. Non è quindi facile fare un bilancio esaustivo degli effetti della pandemia. Tuttavia questo è proprio il proposi-

to dei curatori e degli autori di questo libro. Preciseremo dapprima che nessuno di loro fa il processo al virus nel senso di provare a trovare di chi sia stata la colpa della sua apparizione e della sua diffusione. Tuttavia nel suo contributo Roman Rudel suggerisce che una causa del recente aumento della frequenza di trasmissioni di virus da animali all’uomo è rappresentata dalla continua, drammatica distruzione dell’habitat naturale nel quale vivono gli animali. L’esame delle cause si ferma però qui. La maggior parte dei contributi delle tre parti del libro mette a fuoco invece, come si è già ricordato, le conseguenze della pandemia nei campi di ricerca degli autori. Per esempio il settore della salute al quale è dedicato il contributo di Maria Caiata Zufferey e Luca Crivelli. Dopo aver esaminato l’impatto del Covid sul sistema ospedaliero mettendo

in rilievo gli aspetti positivi della risposta sanitaria che il Ticino ha saputo dare all’insorgere della pandemia, i due autori analizzano la reazione individuale alle misure di salute pubblica sottolineando come una delle difficoltà principali sia stata quella della comunicazione. La prima parte del volume contiene anche il contributo di Spartaco Greppi e Christian Marazzi sull’impatto della pandemia sullo stato sociale e quello di Danuscia Tschudi sugli effetti del Coronavirus sull’uguaglianza di genere. I tre contributi della seconda parte, quello già citato di Rudel, che si occupa anche del problema dell’energia, e quelli di Sergio Rossi sull’evoluzione dell’economia svizzera, rispettivamente quello di Pietro Nosetti sull’andamento della piazza finanziaria, vengono definiti «strutturali» probabilmente perché si occupano, non dell’immediato, ma di quanto potrebbe succedere nel me-

dio e nel lungo termine. Nella terza parte infine si trovano quattro contributi che hanno in comune la prospettiva territoriale con una doppia accezione. Dapprima quella della distanza con due contributi sui mutamenti nella mobilità. Il primo, di Rosita Fibbi, indaga l’impatto del Covid sulle correnti migratorie e sulla vita dei migranti in Svizzera. I problemi rimangono in sostanza quelli di prima della pandemia. Remigio Ratti mette invece a fuoco i cambiamenti manifestatisi nella mobilità, soprattutto durante il periodo delle restrizioni. Dopo aver presentato i risultati d’assieme, la sua attenzione si concentra su due vettori importanti: le ferrovie e l’aviazione. Interessanti sono anche i riscontri per l’aeroporto di Agno che, nel 2020, dopo una lunga serie di esercizi deficitari, avrebbe ritrovato le cifre nere. Non tutto il male viene quindi per nuocere. La seconda accezione della prospetti-

va territoriale è quella della frontiera. In questo caso si tratta però delle frontiere interne al paese stabilite dal federalismo. Le diversità di approccio tra i cantoni, rilevano Sean Müller, Rahel Freiburghaus e Adrian Vatter nel loro testo, hanno contribuito, per finire, a ottimizzare l’efficacia delle misure anti-virus. Infine, come spiega Marco Marcacci, il confine che in materia di competenze separa il Ticino da Berna è stato, anche nel caso della pandemia di Covid, all’origine di incomprensioni che sembra però si siano risolte in un batter d’occhio. In conclusione si può affermare che il volume, curato da Oscar Mazzoleni e Sergio Rossi, contiene un panorama a 345 gradi della pandemia. Secondo noi, per quel che riguarda il Ticino, per completarlo manca solo un esame di quanto è avvenuto nel mercato fondiario-immobiliare e nel settore turistico.

Affari Esteri

di Paola Peduzzi

La rivoluzione immobile dell’Irlanda del Nord ◆

L’Irlanda del Nord è uscita trasformata dal voto di inizio maggio. Ha fatto un passo verso il futuro e uno nel bel mezzo del suo passato, tanto che qualcuno ha parlato di rivoluzione immobile. Questa definizione non rende merito al successo ottenuto dal Sinn Féin, il braccio politico dell’Ira, che per la prima volta diventa il più grande partito dell’Ulster e che porta con sé più del 50% di candidature femminili, oltre che una leadership tutta al femminile. Il Sinn Féin è stato uno dei protagonisti del negoziato che ha portato agli accordi del Venerdì santo nel 1998, che posero fine alla guerra civile tra cattolici e protestanti, con lo scioglimento dell’Ira, il gruppo militare cattolico che per 30 anni aveva combattuto, anche con attacchi terroristici, contro la permanenza dell’Irlanda del Nord nel Regno Unito. Per questo il Sinn Féin è presente anche in Irlanda – anzi, va forte anche in Irlanda e potrebbe ottenere un risultato altret-

tanto storico alle prossime elezioni che si terranno tra tre anni – e ha questa forma transnazionale che lo ha reso al contempo moderno (le liste transnazionali sono una conquista di queste settimane dell’Ue) e antico, perché rimane una struttura fortemente gerarchica che per molti anni è ruotata attorno al suo leader, Gerry Adams. Nel 2014 il potere è passato a Mary Lou McDonald, indicata direttamente (e senza possibilità di appello) da Adams, che aveva una storia molto lontana dall’Ira e che ha potuto così iniziare a emanciparsi dal passato. L’esito di questo viaggio, pieno di delusioni e di intoppi, è arrivato all’ultimo voto, con la vittoria sul Dup, il Partito democratico unionista, e la possibilità di nominare ora il primo ministro, cioè la leader locale del Sinn Féin Michelle O’Neill. Soltanto che il Dup non vuole. Nella resistenza del Dup, il partito che ha espresso il primo ministro negli ultimi 15 anni grazie alla

sua maggioranza relativa, c’è tutto il significato della rivoluzione immobile dell’Irlanda del Nord. Il sistema uscito dagli accordi di pace prevede una divisione esatta del potere: il partito che vince sceglie il premier, il secondo sceglie il vicepremier e poi si deve governare insieme. A vivere insieme, insomma, poi si imparerà ad andare d’accordo. Soltanto che ora che il Dup deve accettare il primato del Sinn Féin non vuole farlo, pure se nei fatti non cambia molto nell’esercizio del potere. Così il rischio è che, senza accordo, si torni a votare nei prossimi sei mesi e il Dup naturalmente conta di vincere. C’è poi la Brexit, o meglio il Protocollo nordirlandese che ha permesso di portare a termine l’accordo sul divorzio tra Regno Unito e Ue. Come si sa, il confine dell’Irlanda del Nord con l’Irlanda è da sempre il punto in cui tutto il costrutto fantasioso della Brexit crolla, in quanto è l’unico confine fisico del Regno Unito. Bisognerebbe mettere

quindi dogane e controlli, ma anche i «brexiteer» più convinti sanno che il confine controllato sarebbe un disastro e quindi hanno acconsentito a firmare questo protocollo che di fatto mantiene l’Irlanda del Nord nel mercato unico europeo e nell’Unione doganale europea. Detto altrimenti: l’Irlanda del Nord è più come l’Irlanda che come il Regno Unito. E infatti il Dup, che pure è alleato con il premier britannico Boris Johnson che ha firmato il protocollo, ha fatto cadere il governo dell’Ulster per via del protocollo e adesso si rifiuta di lavorare con un governo guidato da un partito nazionalista che sogna l’unità tra le due Irlande. Così il sistema si blocca. Ma quando si parla di rivoluzione immobile proprio a questo si fa riferimento: il sistema è disegnato per rimanere bloccato perché soltanto così può funzionare. Sembra una contraddizione ma è la ragione per cui si è ottenuta e conservata la pace dagli accordi del Venerdì

Santo a oggi, cioè dal 1998. Ed è la ragione per cui in Irlanda del Nord la scelta è sempre tra il compromesso o il caos. Quella è la terra in cui la violenza non è un ricordo remoto, in cui le divisioni settarie sono condannate da tutti ma sono allo stesso tempo il principio su cui si fonda il modello di potere, in cui i nazionalisti vincono ma non possono ambire all’unione delle due Irlande e dove gli unionisti perdono ma non per questo sono meno potenti. La stanchezza nei confronti di questo stallo fatto a sistema perché unico garante della pace si vede nell’ascesa dell’Alliance Party, un partito liberale, aconfessionale, centrista nato negli anni Settanta proprio per provare a superare il settarismo. All’ultima elezione l’Alliance Party è arrivato terzo, per la prima volta ha un consenso solido, ed è l’unica alternativa che l’Irlanda del Nord si è concessa per uscire dalla sua rivoluzione immobile.

Zig-Zag

di Ovidio Biffi

«Quel» diabete che si ripresenta ◆

Proviamo a dimenticare le visioni e le interpretazioni sinora avute sul conflitto che Putin ha scatenato in Ucraina. Dimentichiamo anche la sfilata poco armata del 9 maggio a Mosca, con un Putin dipinto quasi sul punto di chiedere scusa se non di mettersi a piangere. E trascuriamo abbracci e fiori scambiati fra dirigenti politici europei e americani con il presidente ucraino Zelensky. Proviamo a mettere a fuoco unicamente l’Ue, cioè uno dei bersagli, con la Nato, che Putin voleva colpire. E chiediamoci: a che punto sta l’Europa? È davvero baldanzosa come i suoi rappresentanti che volano a Kiev? Vive di luce propria o sta sfruttando la messa in ombra di Putin dopo le distruzioni e i bestiali attacchi contro inermi civili in Ucraina iniziati il 24 febbraio scorso? E soprattutto: è davvero di nuovo coesa e più determinata come i me-

dia continuano a sottolineare quando evidenziano uno degli sbagli di valutazione commessi da Putin? Non avendo spazio sufficiente e nemmeno gli attrezzi necessari per azzardare risposte a tutti questi interrogativi, cerco di non offrire versioni o concetti probabilmente già dispensati da più autorevoli esperti. Inizio segnalando uno strano mutamento: se per oltre due mesi l’impressione di una maggior coesione emergeva chiaramente da quanto le varie cancellerie europee decidevano (in materia di accoglienza profughi, di aiuti umanitari e anche di forniture di armi a Kiev), è bastato che i vertici dell’Unione europea giungessero davanti a delibere potenzialmente in grado di porre il Cremlino con le spalle al muro (il blocco degli acquisti energetici dalla Russia) per ritrovare la triste immagine di una comunità europea arroccata

sulle precedenti posizioni. Il seguito è ora tutto da scrivere, anche se non mancano indicazioni. Ad esempio l’invito del presidente francese Macron, dall’alto della sua indipendenza energetica e della ancor più convincente «force de frappe» nucleare, a non cercare la pace umiliando Putin, è un segnale di come l’Unione europea probabilmente cercherà di procedere. Rimane però sempre da chiarire un lato oscuro e anche preoccupante. Da diversi anni – prima per la valanga dei populismi, poi per le derive favorite da un indebolimento continuo delle economie – l’Europa si muove in uno scenario pieno di incertezze, spesso accresciute dalla convinzione che gli estremismi e i fantasmi legati a fascismo e comunismo possano tornare a minacciare libertà e democrazia in un mondo globalizzato in cui tecnica e scienza credevano di aver soppiantato

le ideologie politiche. A movimentare questo scenario, secondo l’economista Geminello Alvi, contribuisce soprattutto un sempre più esteso e ambiguo riflusso dei nazionalismi, sospinti dal presupposto che un governo autoritario possa essere la scelta migliore «per salvarsi in un mondo percepito come in marcia verso la rovina e preda di noia, caos e confusione». È un pericolo aleggiato ripetutamente, per fortuna senza risvolti drammatici, sulle recenti elezioni presidenziali francesi, e ormai presente in quasi tutta l’Europa, in particolare nella vicina Italia. Un’ennesima conferma – al di fuori delle sempre più aberranti esibizioni di tifosi negli stadi e di «invitati» nei talk show televisivi – è giunta con il programma politico di Fratelli d’Italia che, a parte la roboante premessa, lancia anche questo progetto riguardante mondo del lavoro e giovani: «Va

costruito un sistema organizzato (…) basato su un sistema di intelligenza artificiale che a regime rintracci l’elenco dei giovani che terminano ogni anno le scuole superiori e l’università. (…) Il giovane non potrà più scegliere se lavorare o meno, ma sarà vincolato ad accettare l’offerta di lavoro per sé, per la sua famiglia e per il paese»! Un «impegno» che subito mi ha ricordato una folgorante messa in guardia: «“Il fascismo è morto per sempre” dichiara il signor Z alla moglie. “Però se fossi al governo farei attenzione lo stesso… Così, a occhio e croce, mi sembra che la rivoluzione fascista sia stata rinviata a causa del cattivo tempo”. Poi ci ripensa e aggiunge: “Vedi, cara, il fascismo è il diabete di molti italiani, è una malattia del ricambio…”». L’avvertenza è contenuta in un articolo scritto da Ennio Flaiano nel 1944.


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CULTURA ●

Georgia O’Keeffe Per pochi giorni ancora alla Fondazione Beyeler c’è la retrospettiva dedicata all’artista

Le recensioni di Manganelli Le altre concupiscenze è il secondo volume uscito per Adelphi che raccoglie i testi del critico letterario

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I misteri di Ernest Durig Ritratto dello scultore svizzero famoso per il busto di Mussolini e per essere stato allievo di Rodin

Trento Film Festival Dedicato ai temi di montagna, il Festival quest’anno ha spento 70 candeline ed è tornato in presenza

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La maledizione della noce moscata

Bosco di alberi di noce moscata (Keystone). A sinistra un primo piano di Amitav Ghosh, in basso la copertina del romanzo L’isola dei fucili.

Feuilleton ◆ Per Amitav Ghosh la violenza coloniale e la concezione dell’accumulo senza fine sono alla base della questione ambientale moderna Natascha Fioretti

La prima volta che Amitav Ghosh, classe 1956, nato a Calcutta, ha toccato con mano le conseguenze del surriscaldamento climatico è stato nelle sue amate Sunderbands, la più grande foresta di mangrovie del mondo sul delta dei fiumi Gange, Brahmaputra e Meghna durante le ricerche per il suo romanzo Il Paese delle maree (2004). «C’erano già molti segnali preoccupanti, l’intrusione salina, l’innalzamento del livello del mare e da allora a più riprese l’arcipelago è stato colpito da terribili uragani e monsoni». La foresta di mangrovie a rischio erosione torna anche ne L’isola dei fucili (2019) e nel suo più recente Jungle Nana (2021), una sorta di favola che ci parla dell’equilibrio, del bilanciamento tra i bisogni dell’uomo e quelli degli altri esseri umani. «Queste favole sono molto rare nelle culture moderne dove l’idea di equilibrio è stata completamente abbandonata. Ai bambini si insegna a essere ambiziosi, a essere bravi in tutto, a scalare la montagna più alta… non c’è l’idea del limite». Lo scrittore, tra i maggiori protagonisti della letteratura indiana contemporanea, ha chiuso ieri in bellezza la sedicesima edizione di Chiassoletteraria e noi lo abbiamo incontrato per chiedergli, in particolare, del suo nuovo saggio La maledizione della noce moscata. Parabole per un pianeta in crisi. Una vita tra Brooklyn e Calcutta: come cambia la percezione della guerra in Ucraina? C’è una grande differenza. Gli Stati Uniti attribuiscono tutta la responsabilità alla Russia, la sua invasione viene vista come come un atto senza precedenti, un’aggressione non provocata, ingiustificata. Il governo indiano invece ha detto che continuerà ad avere relazioni con la Russia. E sull’aggressione non provocata ricorda che la stessa cosa avvenne quando l’Europa attaccò la Libia e gli USA l’Iraq. Poi c’è la questione dell’estensione della NATO vissuta da Putin come una provocazione e contro la quale in passato aveva più volte messo in guardia. Per quanto mi riguarda questa guerra è una vera catastrofe ambientale. Purtroppo tutta l’attenzione, anche quella mediatica, si è spostata altrove. Questione climatica, pandemia, ora la guerra, il mondo globalizzato sta mostrando tutti i suoi limiti?

Come tutti coloro che si occupano della crisi planetaria mi aspettavo che sarebbe arrivato il tempo in cui avremmo assistito al disfacimento del nostro mondo e delle nostre certezze; solo, devo ammettere, non pensavo che sarebbe accaduto così presto. Certamente la pandemia è stata un grande acceleratore in questo processo di sgretolamento che alla crisi planetaria ha sommato altre ostilità. Non solo i tempi si sono accelerati, ma le prospettive non sono buone, andrà sempre peggio, non so cosa possiamo aspettarci dal futuro. Ricordo le parole di Papa Francesco di qualche anno fa «Siamo entrati nella Terza guerra mondiale». Ne La grande cecità (Neri Pozza) dice che l’arte non si occupa del clima e dell’ambiente. In un’intervista qualche tempo fa alla British Library ha affermato che una delle ultime grandi opere a essere entrate nel merito sia Furore di Steinbeck. Vale per l’America perché in altre parti del mondo l’attenzione per le questioni ambientali non è mancata. In India in passato c’è sempre stata una forte tradizione a occuparsi di questi temi nei romanzi. Negli Stati Uniti c’è stata una precisa volontà di depoliticizzare l’arte. Ne La maledizione della noce moscata ci dice che i problemi legati al clima e all’ambiente di oggi hanno le loro radici nel nostro passato e nel colonialismo. Come è possibile? Alla base della questione climatica di oggi c’è un problema di natura geopolitica. Faccio un esempio: quando i paesi industrializzati chiedono all’India, all’Indonesia o alla Cina di tagliare le loro emissioni di CO2, loro rispondono: Perché pro-

prio noi dobbiamo intervenire e ridurre le nostre emissioni? Le nostre emissioni pro capite sono più basse dei paesi industrializzati che per anni hanno inquinato e sfruttato i paesi asiatici e africani quando erano poveri e deboli. La questione climatica è di natura geopolitica e affonda le sue radici nel colonialismo. Una tesi che sta prendendo piede nel discorso pubblico americano dando vita a movimenti molto forti in difesa della giustizia climatica che tematizzano il colonialismo. Purtroppo però nel flusso del mainstream le persone non sembrano riconoscerne l’importanza, credono di risolvere la questione ambientale con qualche nuova tecnologia. Viviamo in un mondo fatto di apparenze in cui si vuole credere di risolvere tutto attraverso i rapporti IPCC o gli incontri COP. L’incontro delle Nazioni Unite a Glasgow è stato un completo fallimento. La realtà è che gli Stati Uniti hanno sanzionato così tanti paesi creando un clima di ostilità tale per cui è difficile chiederne poi la collaborazione. Prima di tutto bisognerebbe creare un terreno comune per una comprensione internazionale. Ci spieghi meglio l’origine coloniale dell’urgenza ambientale di oggi. Il colonialismo ha rappresentato una forma di intervento molto forte sul nostro ambiente. Quando gli inglesi

conquistarono il Nord America non furono per nulla contenti del paesaggio. Hanno fatto di tutto per trasformarlo in una seconda Inghilterra con degli interventi molto invasivi che hanno avuto un impatto sull’ambiente globale. La crisi di oggi poggia interamente sul nostro passato. Gli orribili episodi di violenza coloniale europea perpetrati in Asia, America, Australia, Nuova Zelanda e Africa, il saccheggio di quelle terre centinaia di anni fa, lo sterminio sistematico delle loro popolazioni indigene hanno posto le basi per la crisi climatica che minaccia il mondo di oggi. Per due secoli i coloni europei hanno attraversato il mondo, considerando la natura e la terra come qualcosa di inerte da conquistare e consumare senza limiti e gli indigeni come selvaggi la cui conoscenza della natura era inutile. È stata questa visione del mondo coloniale di accumulare e consumare senza fine a portarci dove siamo ora. Qual è il messaggio della maledizione della noce moscata? Le noci moscate venivano prodotte esclusivamente nelle isole Banda che formano un piccolo arcipelago nella parte orientale dell’Indonesia. Nel 1621 gli olandesi decisero di monopolizzare il commercio di questa spezia e così raggiunsero l’arcipelago e sterminarono le popolazioni del luogo. Queste persone che per millenni avevano vissuto una vita prosperosa e di benessere, furono spazzate via e il loro albero della vita diventò la loro maledizione. In un certo senso è quanto accade oggi. Trattiamo l’ambiente e l’atmosfera globale come se fossero risorse infinite da sfruttare senza limiti, tutta la terra è caduta sotto il giogo della maledizione delle risorse. Nel romanzo L’isola dei fucili (Neri Pozza) c’è un passaggio in cui si dice che certe storie, come alcune forme di vita, hanno una particolare vitalità che permette loro di sopravvivere. Lei crede nel potere delle sue storie? In ogni cultura ci sono certe storie che prendono una vita propria. Que-

sto è certamente vero per la storia del mercante e di Manasa Devi. La storia è molto antica, risale agli inizi della cultura dell’India orientale. Ma continua a esistere come una parte vibrante della cultura popolare, essendo spesso resa in film e opere teatrali. Negli ultimi anni è stata anche trasformato in un serial televisivo molto popolare. Questo dimostra che continua a toccare delle corde. Per me conta il fatto che i temi ambientali vi giocano un ruolo importante. In un certo senso questa storia riguarda anche la ricerca di un equilibrio tra il mondo umano e quello non umano. Quando Deen, commerciante di libri rari, si imbatte nella leggenda di Manasa Devi e nella richiesta di Nilima di fare delle ricerche, inizia la lotta interiore tra la sua parte razionale e quella irrazionale. Una gli dice di prendere il volo e tornare a casa, l’altra di restare e approfondire la questione. È questo uno dei nostri grandi problemi, che pretendiamo di essere sempre razionali dimenticandoci la nostra essenza e le nostre radici? L’idea che il mondo moderno sia «razionale» è essa stessa una specie di illusione. Non ci potrebbe essere prova migliore di questo del cambiamento climatico. Se il mondo fosse gestito razionalmente allora sicuramente questo sarebbe il più grande problema in ogni sfera della vita – politica, economica, tecnologica. Ma quello che vediamo in realtà è che la maggior parte dei nostri leader «razionali» ha semplicemente voltato le spalle al problema. Invece sono stati Papa Francesco e il Dalai Lama – i cui punti di vista sono fondati sulla fede piuttosto che sulla «razionalità» – i più vocali sull’argomento. Infatti, a mio parere, l’enciclica «Laudato Si’» del Papa è, per molti versi, il trattamento più «razionale» del cambiamento climatico che sia stato scritto finora. Bibliografia Amitav Ghosh, The Nutmeg’s Curse. Parables for a Planet in Crisis, John Murray, London, 2021.


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CULTURA

I fiori e l’astrattismo di Georgia O’Keeffe In mostra

Figura eccezionale dell’arte americana moderna, la fondazione Beyeler le dedica una grande retrospettiva

Marinella Polli

È da non perdere per l’estrema chiarezza dell’allestimento e per il contenuto, l’attuale retrospettiva di Georgia O’Keeffe, fra le prime artiste ad abbracciare la fede del modernismo, alla Fondazione Beyeler di Riehen. Allestita in coproduzione con il Centre Pompidou di Parigi, il Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid e il Museo Georgia O’Keeffe di Santa Fe, la mostra è mirabilmente curata da Theodora Vischer e raduna numerose opere – alcune delle quali sono state finora raramente esposte – fra dipinti a olio, disegni e acquerelli provenienti prevalentemente da collezioni private e musei statunitensi.

«Raramente ci si prende il tempo per vedere davvero un fiore. L’ho dipinto abbastanza grande perché gli altri vedano quello che vedo io» L’affascinante percorso espositivo inizia nella prima sala con l’astrattismo lirico di acquerelli e carboncini degli anni Dieci del secolo scorso. Sono lavori molto eloquenti che già mettono in luce lo stile e l’inventiva, la forza suggestiva e il processo creativo della straordinaria artista che, fra le prime a imboccare la via del modernismo, ha avuto un ruolo cruciale per l’evoluzione dell’arte contemporanea in America. La O’Keeffe è certo una pittrice innovativa, originale e, nonostante alcuni critici la considerino l’esponente più in vista della scuola del «precisionismo», in fondo anche fra le meno inseribili in una scuola specifica. Georgia O’ Keeffe è anche la prima donna a ottenere attenzione nel mondo maschilista della New York dei suoi esordi. Attenzione e rispetto ottenuti non da ultimo grazie al cele-

bre fotografo e gallerista newyorchese Alfred Stieglitz che già nel 1916 espone una serie di carboncini della giovane pittrice nella Galleria 291 di New York da lui diretta. Stieglitz (che nel 1924 diventa suo marito, non prima di averne fatto la sua modella e musa) è in effetti subito in grado di guardare oltre quelle esuberanti gigantografie floreali e oltre la precisione di linee e forme, proponendone un’analisi diversa, più profonda, e aprendo in tal modo la via ai critici, in particolare anche ai movimenti femministi. Sono proprio questi ultimi che incominciano a vedere nei fiori della O’Keeffe, oltre a un suo appassionato rapporto con la natura, anche un sensuale simbolismo al femminile. Giorgia O’Keeffe respinge comunque, a volte anche perentoriamente, qualsiasi allusione a simboli sessuali femminili, esortando a non vedere nei suoi lavori quello che lei non vede. E alla rassegna della Beyeler va fortunatamente anche il merito di sottolineare molti altri aspetti contenutistici e formali delle opere dell’artista statunitense, evidenziando in particolare un fatto importantissimo per la stessa pittrice: la frontiera fra realismo e astrattismo è oltremodo effimera e dunque sempre perfettamente superabile. Quelle gigantografie floreali dipinte nei loro dettagli in modo talmente iperrealistico fanno infatti paradossalmente perdere la realtà più immediatamente tangibile dell’oggetto rappresentato che invece assume un carattere molto più emozionale, psicologico e profondo. A tal punto che, al di là di semplici linee e forme, dei giochi di luce e colori è sempre percepibile un’esplosione di emozioni, stati d’animo, tensioni e energia. L’attenzione è sempre quella medesima riservata alla riproduzione meticolosissima di steli, foglie, corol-

Oriental Poppies, olio su tela, 1926. (© Georgia O’Keeffe Museum)

le, stami e pistilli dei famosi fiori, sia che l’artista dipinga alberi nel corso delle diverse stagioni, la luna o i raggi del sole, le ambientazioni esotiche con pianure deserte o colline rocciose, le ossa e i teschi di animali oppure cieli e nuvole intraviste dal finestrino di un aeroplano. O, ancora, angolazioni e illuminazioni, grattacieli o altre forme architettoniche ispiratele dalle strade e dagli edifici di New York. Sia che riproduca i paesaggi del New

Mexico, in cui si trasferirà definitivamente dopo la scomparsa di Stieglitz, rimanendovi fino alla morte avvenuta a Santa Fe nel 1986, sia che raffiguri l’amatissimo Lake George conosciuto onda per onda, spiaggia per spiaggia, pietra per pietra, l’artista riesce a evidenziarne perfettamente il nucleo, l’essenza, invitandoci perciò a un’osservazione, come detto, più spirituale e introspettiva. In occasione dell’esposizione de-

dicata a Georgia O’Keeffe è stato pubblicato un esaustivo catalogo in tedesco e in inglese con splendide riproduzioni di tutte le opere esposte. Dove e quando Georgia O’Keeffe, Fondazione Beyeler, Baselstrasse 101, Riehen, Basilea. Lu-do 10.0018.00, me 10.00-20.00. Fino al 22 maggio 2022. www.fondationbeyeler.ch

Il dono inatteso di chi sopravvive all’altro Pubblicazione

Mariella Cerutti Marocco torna in libreria con nove racconti

Guido Monti

primevano. La sua voce… “Sorridi, sorridi, ora…”». Molti dialoghi nel libro si arrestano per mancanze improvvise, lontananze irrecuperabili, per divenire quindi monologhi interiori, quasi preghiere laiche che girano nella testa di chi rimane. E allora il libro nasce da questo incontro, tra i fatti della quotidianità e l’idea che li alimenta. Naturalmente nessuno dei due elementi prevale sull’altro. Non troveremo mai pagine teoriche, prive di qualsivoglia mordente narrativo. E neanche pagine meramente descrittive, poiché ogni volta che siamo posti davanti a un accadimento, in verità ne leggiamo subito dei significati psicologici sottesi. Come quando nel racconto Quel treno della notte, un gruppo di ragazze adolescenti torna da una settimana bianca e quel viaggio però indirizzerà i destini di una di esse: «…All’interno del treno era sceso il silenzio,… solo qualche bisbiglio si udiva tra le ragazze. Anche Eva dormiva. Le scintille scoppiarono all’improvviso… Una stella luminescente,… seguita da uno schianto terribile. Poi il silenzio e il buio assoluto, su tutta la “Freccia”». Non solo, lo stesso titolo del libro, ci suggerisce anche che i punti di svol-

ta di ogni esistenza, per lo più imponderabili e ingovernabili, si condensano proprio in quel tempo che è fuori da ogni progettualità e rifluisce talvolta nella dimensione del dolore, che non è l’inferno dello spirito ma attenzione, il suo cielo. Dai traumi a tratti disperanti, il personaggio che rimane, ne esce ricco di nuove svolte e la scrittrice come già accennavo, con abilità ne fotografa il momento assieme an-

che però al punto di caduta di chi invece non ce la fa. La sua abilità, sta nel saper risalire dalla ricca e placida storia di ognuno, a quel suo attimo cruciale sempre dentro l’hic et nunc, come nel caso del banchiere Emanuele con la compagna Sara: «…“I miei viaggi a Parigi, in questi ultimi mesi erano e sono per sottopormi a una chemioterapia… “Ci sono poche speranze”, le disse Emanuele…».

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La poetessa Mariella Cerutti Marocco, dopo il felice esordio col romanzo Fratelli allo specchio, conferma ne Il dono inatteso, (SEM editore, pp.109, euro 16) postfato da Maurizio Cucchi, spiccate capacità narrative, ma notiamo anche con piacere, nella successione dei nove racconti, innestarsi un sotteso flusso poetico, che conferisce loro certamente una capacità di visione aumentata. E ciò che più caratterizza le storie, intervallate da una breve ma intensa sezione poetica, dal titolo Tracce verticali. Passaggi lirici, non sono certo le molteplici relazioni sociali, economiche, amorose, che pur sembrano avere, a una prima lettura, posizione preminente. Difatti queste costituiscono sempre la quinta di qualcos’altro che certo potremmo chiamare tempo dell’introspezione. E sono gli stessi personaggi ad alimentarlo, duramente colpiti dai vuoti della vita, come quando Leah si perde nella memoria tra i sentieri della campagna toscana: «…Ricordava i momenti della sua adolescenza difficile, ricordava il padre e il fazzoletto bianco con il quale asciugava le lacrime di lei bambina, quando la solitudine e le incomprensioni degli altri la op-

Ecco allora qual è anche il dono inatteso per chi sopravvive all’altro, sapersi ricostituire, assumendo su di sé un poco la traccia delle identità sparite, come estremo gesto d’amore, forse anche punto di crescita. Certo questo libro potremo pure definirlo il libro della precarietà di ogni individuo e dei suoi grandi progetti, destinati a finire nell’oblio dei giorni. Ma anche così letto ne trarremo beneficio. Una narrazione difatti che metta al centro la fragilità con le sue molteplici manifestazioni, rappresenterà sempre un valido strumento per le nostre vite oramai consumate dentro le tante dimensioni dell’effimero. Questo riflettono e riportano umilmente i personaggi di Mariella Cerutti Marocco, la luce di una acquisita e matura consapevolezza della precarietà del vivere. Quasi sembra vogliano dirci: solo da questa raggiunta dimensione dove noi ci troviamo, si può ancora gioire, piangere, vivere, autenticamente. Bibliografia Mariella Cerutti Marocco, Il dono inatteso, Società editrice milanese, Milano, 2021.


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CULTURA

Concupiscenze librarie Pubblicazione

Raccolte in due volumi Adelphi le recensioni di Giorgio Manganelli

Pietro Montorfani

Un’antologia era, per Giorgio Manganelli, «una legittima strage», uno strazio autorizzato nel corpo vivo dell’opera di uno scrittore. Ci credeva e non ci credeva, se è vero che pianificò per sé alcune selezioni prelevate dalla sua vastissima attività di critico e di recensore: Laboriose inezie, dedicato all’arco lungo tra Omero e Collodi, pubblicato nel 1986, e il novecentesco Hoggidiani, che invece non vide mai la luce nonostante fosse giunto a una fase avanzata di elaborazione del progetto. Da quell’ideale mancato è partito Salvatore Silvano Nigro per immaginare, in due tappe, una raccolta delle recensioni manganelliane mai apparse in volume: il primo tomo, Concupiscenze librarie, è uscito da Adelphi nel 2020 in occasione dei trent’anni dalla morte; il secondo invece, per il centenario della nascita, fresco di stampa, porta il titolo complementare di Altre concupiscenze e più che un ulteriore volume pare infatti una succosa appendice del primo. A chi si chiedesse che tipo di recensore fosse l’autore di Hilarotragoedia, linguista di formazione, nonché il più tradizionalista tra i protagonisti dell’avanguardia letteraria italiana degli anni Sessanta, si potrebbe rispondere tranquillamente che fu un recensore atipico, e proprio per questo sommamente interessante e meritevole, a decenni di distanza, delle nostre attenzioni. Fu innanzitutto un

lettore accanito e vorace, con la giusta dose di erudizione e di spregiudicatezza, miscelati in un mix originale e sapiente. Lui stesso un teorico del genere, riteneva la recensione un esercizio solo in apparenza minimo, anzi, nobilmente «minore», una letteratura nella letteratura capace di veicolare il giudizio critico per mezzo di una retorica assai prossima a quella della narrazione. Soprattutto, la recensione era un genere dichiaratamente disonesto e fazioso, perché ancorato al punto di vista dell’io che legge, giudica e infine condivide. Senza che questo rappresentasse per lui il benché minimo problema, semmai un valore aggiunto: «Se io fossi un “praziano” (dopo tutto, ho perfino finto di fare l’anglista) sarei, con queste pagine, del tutto felice; ma non lo sono, e mi chiedo perché. Mettiamo in conto la mia naturale rozzezza…» (Concupiscenze librarie, p. 79). Nel montare questa ricca selezione a due ante, nella quale si apprezzano gli accostamenti brillanti e gli impliciti e sotterranei percorsi di lettura, Salvatore Silvano Nigro ha provato a dare ragione della «fame» di Manganelli, del suo essere onnivoro e insieme feticista, un librofilo passionale e goloso sin dal primo contatto (fisico, tattile) con le opere di carta stampata. Si vedano ad esempio le pagine dedicate alla collana di tascabili Penguin, oppure alla nuova copertina del Giovane Holden o ancora

alla Parola dipinta di Padre Giovanni Pozzi: «Prima di toccare, come mi sarà possibile, della materia del libro che mi sta ora davanti, desidero discorrere brevemente della “cosa” fatta di pagine scritte che reca quel titolo. È un libro, in primo luogo, solido, ben legato, di quattrocento pagine, del peso di circa settecento grammi. Quando lo si apre, produce quel lieve, delizioso scricchiolio libresco, che Charles Lamb pretendeva di ascoltare anche nell’alto dei Cieli» (Concupiscenze librarie, p. 84). Quest’ultimo caso è invero esemplare, perché parlare della scatola (la «cosa») è già un omaggiare e un interpretare il contenuto del testo di Padre Pozzi, incentrato proprio sulla forma dei testi nella storia. Un critico di questa finezza, costretto per ragioni professionali a divenire «un lettore veloce di libri lenti», non poteva perdere troppo tempo con la letteratura di consumo («La cruna dell’ago di Ken Follett è un eccellente thriller, ma se tolgo la trama resta la pagina bianca») e si trovava inevitabilmente più a suo agio in mezzo ai classici, continuamente riproposti e «recensiti» quasi fossero delle vere e proprie novità librarie. In quella che Nigro definisce una «turnée grandiosa» durata un cinquantennio attraverso le principali testate italiane (dal «Mondo» a «Tempo presente» a «L’Espresso» passando per «Il Messaggero» e il «Corriere della

Dettaglio di copertina che mostra un’illustrazione raffigurante dei jinn tratta da un manoscritto del Kitaˉb al-Bulhaˉn (XIV secolo d.C.).

Sera»), Manganelli si è fatto paladino di riscoperte e valorizzazioni senza cedere mai alle mode del momento, bensì inseguendo un suo personale pantheon di scrittori forti e non per forza canonici, anzi, aperto persino a quelli scomparsi da poco o agli autori di un solo libro. Un atteggiamento, il suo, che noi lettori ticinesi di «Azione» dovremmo poter cogliere e apprezzare al volo, poiché è quanto di

più simile alla postura critica e morale di un Giovanni Orelli, colui che non per nulla, in quarant’anni di peregrinazioni letterarie altrettanto vaste e curiose, è stato una sorta di Manganelli dislocato al di qua del confine. Bibliografia Giorgio Manganelli, Altre concupiscenze, Adelphi, Milano, 2022. Annuncio pubblicitario

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CULTURA

Segreti e parabole dell’ultimo allievo di Rodin Personaggi

Storia dello scultore Ernest Durig, autore del busto di Mussolini e di quelli dei presidenti americani Hoover e Truman

Benedicta Froelich

Nel lontano 1933, lo scrittore e avventuriero T.E. Lawrence ebbe a rimarcare in tono esasperato quanto poco bastasse a farsi una buona, come una cattiva, reputazione – e come entrambe fossero, infine, assolutamente inutili. Una riflessione che sembra calzare a pennello per una figura controversa come quella del fenomenale scultore svizzero Ernest Durig, il quale, proprio in quegli anni, fu protagonista di una parabola umana e artistica destinata a causare grande perplessità anche in epoca moderna.

Si può dire che, a tutt’oggi, siano davvero poche le certezze riguardo alla misteriosa figura di Ernest Durig Nato a Zurigo nel 1894, Durig era, ironicamente, figlio di un poliziotto; ma l’irrequietezza tipica dell’artista lo tormentava fin dall’infanzia, tanto che, appena diciottenne, giunse in autostop a Parigi, dove diede per la prima volta prova di quell’impavida testardaggine che gli avrebbe permesso di farsi strada nel mondo dell’arte: riuscì infatti ad attirare l’attenzione di un mito come Auguste Rodin, al quale divenne totalmente devoto, al punto da seguirlo in un viaggio a Roma nel 1915. Così, dopo una parentesi come guardia svizzera in Vaticano, Ernest si fermò per qualche tempo in Italia, a Firenze, dove avrebbe vissuto avventure rocambolesche, ritrovandosi perfino internato in manicomio a causa della propria evidente eccentricità. Ma fu allora che giunse la vera svolta nella vita del nostro aspirante scultore: infatti, nulla poteva ormai fermare le ambizioni di Durig, il quale, da quel momento in poi, decise

di investire tutto sul dettaglio più saliente del proprio curriculum, ovvero lo status di «ultimo allievo di Auguste Rodin» – a riprova del quale poteva offrire una fotografia scattata a Roma, che lo ritraeva accanto all’anziano Maestro. Negli ultimi anni, in molti hanno messo in dubbio la veridicità delle asserzioni di Durig, insinuando ch’egli fosse nulla più che una conoscenza casuale di Rodin; a tutt’oggi, è solo uno dei tanti enigmi che circondano la figura sfuggente dell’artista zurighese. Quel che è certo è che da quel momento, le porte del bel mondo si aprirono davanti a Durig, la cui intraprendenza avrebbe spesso condotto a disavventure quasi comiche – come quella volta che, durante il periodo trascorso a Berna, poco dopo il matrimonio con una facoltosa poetessa presentatagli da Rainer Maria Rilke, egli decise di farsi pubblicità posizionando abusivamente alcune monumentali sculture lungo un ponte cittadino, solo per vederle gettare nel fiume dalla polizia appena poche ore dopo. E se il mancato riconoscimento delle sue qualità da parte del mondo rimaneva un problema reale per l’ancora misconosciuto scultore svizzero, fu proprio la frustrazione per lo scarso riscontro economico a suscitare in Durig la grande intuizione destinata a rivelarsi una delle migliori truffe artistiche di sempre. Nel 1934, Ernest decise infatti di fornire al pubblico una prova tangibile del proprio legame con Rodin: una serie di disegni di cui, a suo dire, il Maestro gli aveva fatto dono come pegno di amicizia, e che avrebbe esposto in diverse mostre negli Stati Uniti. Il fatto che all’epoca si conoscesse ancora poco dello stile grafico di Rodin fece sì che talune incertezze nel tratto apparissero frutto

Ruth Bryan Owen posa per Ernest Durig. (Wikipedia)

dell’estro dello scultore francese; e del resto, fu solo dopo la morte di Durig che, con il ritrovamento tra i suoi effetti personali di circa 150 disegni a firma di Rodin, la reale portata della sua opera di falsario venne infine alla luce. Proprio da tale scoperta nasce il dilemma del trattamento oggi riservato dall’opinione pubblica a Ernest – il quale, dopo il successo delle mostre da lui promosse, era riuscito a imporsi come scultore di discreta fama, in grado di vantare meriti artistici grazie al proprio lavoro personale. Di fatto, vi fu un tempo in cui lo stesso uomo

che oggi viene ricordato soltanto come abile falsario era invece oggetto di entusiastici articoli sulla stampa statunitense: nel 1928 Durig aveva infatti deciso di lasciare la natìa Europa per l’America, stabilendosi a Washington D.C. Negli States, Ernest avrebbe tenuto mostre personali di tutto rispetto, e suscitato una certa ammirazione da parte dei contemporanei, come avvenne con l’imponente monumento alla Pace da lui eretto nella cittadina di Greenwood (Wisconsin) nel ’37; e quando, nel ’39, si recò con la famiglia nel New Hampshire in vista di un’importante mostra a Boston, la

gente di Portsmouth fu così orgogliosa della sua visita da mettergli a disposizione uno studio privato in città. Furono quelli gli anni in cui Ernest ottenne le commissioni più importanti, anche grazie alla sua insistenza nel rincorrere le maggiori personalità di allora affinché posassero per lui: tra le sue opere più note si ricordano il busto di Mussolini e quelli dei presidenti americani Hoover e Truman, quest’ultimo provvisto di occhiali rimovibili. Purtroppo, dopo le morti premature della moglie e dell’amata figlia adottiva Rosemarie, Ernest ebbe un crollo emotivo, e nel 1962 si spense in solitudine e povertà; ma la sua fama sembrò rimanere salda – almeno fino al ’65, quando un famigerato articolo apparso sul settimanale «Life» lo condannò come «truffatore». Certo, forse è vero che, in quanto privo di reali guizzi stilistici o immaginifici, il lavoro di Durig è appena dignitoso, seppur tecnicamente ineccepibile; e benché l’autore si possa oggi definire come vanaglorioso, è difficile non provare una certa simpatia per il disperato bisogno di plauso e riconoscimento che lo animava, e che, infine, gli ha permesso di concludere la sua vita da artista rispettato – proprio come aveva, in fondo, sempre sognato. Si può dire che, a tutt’oggi, siano davvero poche le certezze riguardo alla misteriosa figura di Ernest Durig: eppure, qualunque sia stata la natura dei suoi rapporti con Rodin, una sola cosa appare innegabile – ovvero, il fatto che egli aveva realmente appreso molto dal suo supposto mentore; e che, ironicamente, sono stati proprio tali insegnamenti a permettergli di rimanere nella storia come uno dei migliori, nonché più celebri, falsari d’arte di sempre.

A San Mamete l’incontro tra due violoncelli Musica

Nell’intimo e suggestivo spazio della chiesa per Le mille e una nota suoneranno insieme Mattia Zappa e Isabel Gehweiler

Enrico Parola

«Quando ho letto che i restauri erano terminati mi sono precipitato a vedere San Mamete; dire che l’impatto abbia superato le attese potrebbe sembrare la classica “frase fatta”, ma davvero possiamo parlare di un gioiello di art ed architettura romanica – uno dei non pochissimi di cui possiamo gloriarci qui in Ticino. Lì il pensiero che immediatamente mi è venuto alla mente è stato: bisogna celebrare la riapertura di San Mamete con la musica, solo la bellezza delle note può essere paragonata alla bellezza di questo luogo». Da tali considerazioni è nata la rassegna Le mille e una nota; l’ha ideata Massimo Turuani, presidente dell’associazione I Solisti della Svizzera Italiana, organizzatore anche di Note d’autunno a Sorengo e di eventi memorabili come i Galà lirici in favore del Cardiocentro di Lugano o dell’IRB di Bellinzona, con cui ha portato in riva al Ceresio stelle dell’opera quali Leo Nucci, Vittorio Grigolo, Gianluigi Gelmetti e José Carreras. «Il titolo deriva dall’avvicinarci idealmente ai mille anni dalla fondazione della chiesa, anniversario che cadrà nel 2055» prosegue Turuani, «L’ambito sarà quello consentito da-

gli spazi architettonici della chiesa: piccoli gruppi cameristici, repertorio barocco per iniziare, ma che potrà aprirsi nei tre appuntamenti che stiamo preparando per il prossimo anno già al classicismo e guardare anche a romanticismo e Novecento storico». Questo sabato alle 20.30 la serata inaugurale, con un ricercato duo per violoncelli: Mattia Zappa, virtuoso ticinese nonché primo violoncello alla Tonhalle di Zurigo, duetterà con la collega Isabel Gehweiler. «Un’amica, un’abile violoncellista e anche una talentuosa compositrice: nel 2007, diciannovenne, ha ricevuto l’Europäischen Förderpreis für Junge Künstler, da quasi dieci anni tiene seminari alla Hochschule di Zurigo su temi legati all’improvvisazione musicale. Eseguiremo un brano che Isabel ha scritto quando aveva 7-8 anni: una pagina per nulla infantile, che mi affascina moltissimo. Non è il compitino che ci si aspetterebbe da una bambina, basta leggere i quattro momenti in cui si articola e che denotano una facilità inventiva precoce e notevole: Fantasia, Romanze, Burlesque, Reminiszenz». Prima di analizzare gli aspetti più squisitamente tecnici, Zappa sviluppa una riflessione più ampia e genera-

Uno scatto dei due violoncellisti Isabel Gehweiler e Mattia Zappa.

le: «Innanzitutto è bello poter tornare a far musica: ormai sono mesi che i teatri sono riaperti e la capienza è al 100%, però i lockdown nell’ambito concertistico hanno lasciato il segno; da questo punto di vista provo un piacere incredibile nel poter riabbracciare il mio pubblico, tanto più in un luogo così bello e così intimo come San Mamete, che per le dimensioni costringe a una prossimità estrema tra esecutori e ascoltatori». Zappa tiene a innestare questa riflessione su di un’altra, precedente e ugualmente incidente: «I problemi legati alla pandemia si sono aggiunti a difficoltà ataviche della vita musicale, dall’invecchiamento e con-

trazione del pubblico fino alle difficoltà sempre maggiori a reperire fondi, col risultato che è diventata una sfida sempre più ardua e rara proporre nuove iniziative e raggiungere nuovi spazi; lanciare un nuovo ciclo, di cui il mio concerto è solo l’abbrivio, in un luogo così ha un significato grande». Luogo che secondo il violoncellista ticinese è ideale per valorizzare il duo di violoncelli: «Perché ha un’acustica perfetta, che coniuga la ricchezza di armonici tipica delle chiese a un’estrema nitidezza, qualità che non sempre gli edifici religiosi riescono ad assicurare. L’incontro tra due violoncelli è spettacolare: sono gli strumenti ad ar-

co con un’estensione più ampia e col timbro più simile alla voce umana, quindi riescono a spaziare da un registro molto grave a uno acuto e quando duettano sembrano davvero due voci che cantano assieme. Allo stesso tempo possono creare armonie complesse e profonde: come aveva dimostrato Bach nelle sue splendide Suite, il violoncello sa creare polifonie grandiose, se sono due l’architettura armonica diventa ancor più complessa e stratificata; proprio per questo suonare in una chiesa come San Mamete è ideale, perché esalta e amplifica ulteriormente questo aspetto». Il programma impaginato da Zappa e Gehweiler abbraccia tre secoli di storia musicale: «Partiamo dalla Sonata in sol maggiore di Jean Barrière: apprezzato a Versailles, in particolare da Luigi XV, morì appena quarantenne nel 1747 a Parigi. La Paraphrase an die Jugend di Gehweiler si incastona tra il Duo op. 22 di Kummer e la Sonata in do maggiore di Boccherini. Al centro i cinque Duetti di Reinhold Glière, che nacque a Kiev nel 1875 e morì nel 1956 a Mosca; due città oggi così lontane, che la musica cercherà di unire con un ponte di note, come tante altre volte ha saputo fare».


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TUTTA LA FORZA DELLA NATURA Negli ultimi tempi sempre più cosmetici puntano sugli ingredienti di origine vegetale, e a ragione: i principi attivi naturali riuniscono in sé efficacia e rispetto dell’ambiente

Lavanda La lavanda carezza le narici con il suo profumo rasserenante e dona lucentezza ai capelli, l’olio di semi di broccoli ha un naturale effetto anti-crespo.

Tè verde

Al tè verde viene attribuito un effetto tonificante e stimolante sul metabolismo della pelle. Pare che i tannini di cui è ricco rafforzino la capacità rigenerativa della cute e aiutino a contrastare i temuti radicali liberi.

Shampoo alla lavanda Urtekram 250 ml Fr. 9.80

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Avena

Dell’estratto di avena si dice possieda proprietà calmanti e antinfiammatorie atte a promuovere la rigenerazione cutanea e la guarigione delle ferite, il che ne fa un ingrediente ideale per i prodotti destinati alla pulizia della pelle. Gel detergente Hej Organic Sensitive 150 ml Fr. 9.95

Calendula

Un classico per la cura della pelle e delle ferite: grazie alle sue proprietà antinfiammatorie e lenitive, la calendula è da sempre una grande alleata della cute irritata e sensibile. Balsamo labbra I am Natural Cosmetics 4.8 g Fr. 3.20

Foto: Yves Roth, Getty Images

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MONDO MIGROS

Bellezza di natura

Aloe vera

Il prezioso gel per cui il giglio del deserto è giustamente famoso si estrae dalle foglie fresche appena tagliate e private del rivestimento superficiale. Il gel di aloe vera idrata a fondo trattenendo l’acqua all’interno della cute, calma le infiammazioni e promuove la guarigione delle ferite.

Mandorle

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Grazie al suo elevato contenuto di vitamina E, il leggero olio di mandorle dolci rimpolpa i tessuti e previene l’invecchiamento cutaneo causato dall’esposizione alla luce solare. Lozione corpo Balance Sante 150 ml Fr. 6.90

Salvia

La forza della salvia è concentrata nel suo olio essenziale, che possiede anche proprietà antibatteriche. Per questo è un valido alleato contro l’odore di sudore e, non a caso, è presente in molti deodoranti. Deodorante vapo limetta & salvia I am Natural Cosmetics 75 ml Fr. 5.90

Argan

L’olio estratto dai semi dei frutti dell’Argania spinosa è un autentico concentrato di antiossidanti. Oltre a idratare intensamente, pare sia in grado di stimolare la rigenerazione cutanea e migliorare la tonicità della pelle. Sapone solido da doccia Alviana all’olio di argan, 100 g Fr. 3.90

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A differenza dei prodotti convenzionali, i cosmetici naturali non contengono petrolati, ingredienti di sintesi, né sostanze geneticamente modificate. Ai principi attivi provvedono gli oli essenziali delle piante, la cui efficacia viene potenziata attraverso la combinazione con acidi grassi e sostanze vegetali secondarie. I grassi vegetali, fra l’altro, sono simili a quelli naturalmente presenti nella pelle e vengono assorbiti facilmente. Il termine cosmesi naturale non è giuridicamente definito né protetto a norma di legge. Sono pertanto le certificazioni a stabilire le linee guida per ingredienti e modalità di produzione, in base ai quali un prodotto si configura come «vegano» e/o «biocosmetico». Si parla di «biocosmesi» se almeno il 95% dei fitoingredienti proviene da coltivazioni biologiche controllate. Tuttavia, la percentuale di ingredienti bio è generalmente altrettanto elevata anche nei prodotti di cosmesi naturale. La Migros propone un vasto assortimento di marchi certificati di entrambe le categorie. Già solo per il modo in cui vengono prodotti, gli ingredienti convenzionali non sono certo amici dell’ambiente. Le microplastiche, per esempio, inquinano l’acqua, di svariate sostanze si sospetta che possano essere addirittura dannose per la salute. Inoltre i prodotti di sintesi non sono sempre biodegradabili. Un ulteriore punto a favore della cosmesi naturale è che molti produttori utilizzano confezioni e contenitori ecologici.


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CULTURA

Sette decenni e neanche una ruga Cinema

Il Trento Film Festival è tornato con un grande assente: la figura dell’alpinista tradizionale

Mario Casella

Cult+ magazine culturale online Smart TV ◆ In cerca di pubblici giovani Marco Züblin

Dopo due anni di formula a distanza per la pandemia, il Trento Film Festival, dal 29 aprile all’8 maggio, è tornato a riempire le sue sale. Non sono state poche le proiezioni e gli eventi da «tutto esaurito» per l’edizione chiusasi l’8 maggio che ha celebrato i settant’anni di vita dello storico appuntamento con il cinema di montagna. Sette decenni, ma gli schermi non hanno mostrato nemmeno una ruga. Anzi, la riscoperta della natura e dell’effetto tonificante dell’attività all’aria aperta, ha attirato migliaia di appassionati. La brillante storia del festival è finita anche in galleria con una sorprendente esposizione intitolata Scalare il tempo. Una galleria nel senso reale e figurato del termine: in un vecchio tunnel dismesso che fiancheggia il corso del fiume Adige, i visitatori hanno potuto rivivere i momenti più rappresentativi della rassegna internazionale. Un’infilata di immagini, suoni e libri, incorniciata dai manifesti ufficiali di ogni edizione. Si scopre così che il suggestivo manifesto dell’edizione 2022 disegnato da Milo Manara, uno dei più grandi fumettisti e illustratori italiani, è una sorta di premio di consolazione dopo quello realizzato per l’edizione del 1997, che ritraeva una seducente figura femminile, poi sostituita in extremis da un più puritano disegno dell’illustratore francese Samivel. Quest’anno Manara, di origini altoatesine, ha accettato l’invito degli organizzatori e ha proposto una versione meno provocatoria del manifesto bocciato. A convincerlo è stata l’urgenza dei tempi in ambito climatico. La minaccia dell’equilibrio della natura ha trasformato l’attraente figura femminile del manifesto censurato in una «creatura lieta, ma impaurita e diffidente: prima ci seduceva, ora ci guarda come intrusi», parole di Manara. E il cinema di montagna in questi tempi difficili come sta? È riuscito a rinascere dopo due anni di produzioni bloccate? La risposta vista sugli schermi è un sì. La qualità del film proposti è stata molto alta. La novità più importante è però un netto cambiamento di rotta nella cinematografia di genere: le vette e la natura sembrano essere diventate un semplice scenario. Uno sfondo che, pur nel suo innegabile fascino, mette in risalto vicende umane di valore universale. Storie in

Qui a fianco una scena del film Gaucho americano che si è aggiudicato la Genziana d’oro per il miglior film. Sotto la locandina del Festival firmata da Milo Manara.

cui – almeno stando ai giudizi della giuria internazionale – l’alpinista non emerge come un prototipo umano degno di grandi riconoscimenti. Spiccano piuttosto le vite di pastori, artisti, donne e uomini impegnati in viaggi spirituali e altre individualità che vivono la montagna non come l’arena di un circo verticale, quanto piuttosto come un territorio che permette di guadagnarsi da vivere o un ambiente che alimenta l’anima. Appartiene a questo filone la storia dei due gauchos cileni, Joaquin e Victor, che partono dalle selvagge montagne patagoniche per lavorare nell’industria dell’allevamento di pecore nel Nord America. Con il film Gaucho Americano il regi-

sta cileno Nicolàs Molina si è aggiudicato la Genziana d’oro per il miglior film. La tenera e ironica interpretazione del mito del cowboy vissuto attraverso gli occhi dei due gauchos di generazioni diverse, ha convinto esperti e pubblico. L’alpinista tradizionale è senz’altro il grande assente del palmarès finale. A imporsi nella categoria Alpinismo, popolazioni e vita di montagna è infatti stato il documentario del regista cinese Jin Huaqing. Con il suo Dark Red Forest racconta la vita di 20’000 monache buddiste di un monastero su un altopiano in Tibet. Un racconto che emoziona per il suo splendore visivo e per l’indagine spirituale. Stesso scenario, gli altipiani tibetani, per la Genziana d’oro – categoria esplorazione o avventura, andata al poetico e suggestivo viaggio del fotografo Vincent Munier e dello scrittore Sylvain Tesson sulle tracce del leopardo delle nevi. La panthère des neiges della regista francese Marie Amiguet emoziona per la qualità delle fotografie scattate da Munier e fa riflettere grazie alle parole profonde dell’avventuriero Teysson. Scorrendo il lungo elenco dei premi minori colpisce la latitanza dei film con una chiara connotazione alpinistica. Eppure qualche spunto ci sarebbe stato come quello dell’avvincente La liste: everything or nothing, con gli sciatori estremi

svizzeri Jérémy Heitz e Sam Anthamatten o come il toccante The Last Mountain che ritraccia la tragica storia famigliare degli alpinisti britannici Alison Hargreaves e Tom Ballard, madre e figlio, entrambi morti in Himalaya. L’edizione 2022 del Festival ha inaugurato anche una nuova sezione che apre le porte ai produttori giovani attivi sul Web e soprattutto sul canale YouTube. In questa nuova categoria a finire sul gradino più alto è stato lo scenario della Valle Bedretto, con il video Iceberg Lake in Switzerland di Bruno Pisani. Il fenomeno degli iceberg formatisi nel laghetto glaciale sul Passo del Geren, racconta al pubblico giovane un fenomeno che testimonia l’impatto del riscaldamento globale sull’arco alpino. Dall’alto dei suoi settant’anni Trento ha insomma voluto premiare la riflessione sul nostro vivere tra le montagne più che il tocca e fuggi della prestazione, del grado, dell’adrenalina. Una visione diversa e che sembra allinearsi a un modo nuovo e più diffuso di vivere la natura e la montagna. Organizzatori e giuria hanno messo sul piedistallo natura, ambiente, cultura e società. Quando hanno poi voluto onorare le storie di puro alpinismo lo hanno fatto per l’intensità di alcune storie umane. La conferma che anche gli alpinisti sono uomini e donne come altri.

Il servizio pubblico audiovisivo non vive più nella sola trasmissione dei contenuti «in lineare», ma ricerca modi per elaborare e trasmettere tali contenuti a un pubblico che ormai utilizza modalità alternative di fruizione; in particolare tramite l’online diventato imprescindibile «espèce d’espace», per dirla con Perec. Un’offerta che, in buona misura, tende a recuperare un pubblico giovane, ma il metodo influenza il merito: i contenuti online sono spesso proposti in modi che sembrano voler replicare quelli un po’ disorganizzati con i quali il pubblico di riferimento di quel vettore tende ad accedere ai contenuti. In sostanza, si assiste a una giustapposizione di interventi senza chiavi di lettura, senza una spina dorsale editoriale che permetta la comprensione dell’insieme dei materiali e dia una visione dei principi che informano la scelta dei contributi. Prendiamo il magazine culturale Cult+ della RSI, un contenitore espressamente dedicato al pubblico giovane, che riunisce contributi culturali di varia natura, sia locali, sia nazionali sia internazionali. «Magazine culturale online dedicato a chi fa e fruisce cultura nella Svizzera italiana. Che sia cultura underground o pop. Locale o internazionale. Old o New school», lo definisce l’azienda. «Pillole» che si caratterizzano, al di là della dimensione informativa, per una bella attenzione alla ricerca visuale, alla qualità e alla modernità del linguaggio. Uno spazio variamente alimentato, in funzione di una periodicità non legata alla modalità classica di «riempimento» di un magazine ma piuttosto – sembra – alla casualità un po’ torrentizia dell’estro dei realizzatori. Chicche musicali sulle nuove tendenze, ricognizioni in ambito musicale e contributi su letteratura, arti, fotografia, società. Un contenitore in cui sono stivati e stipati stimoli per un pubblico curioso di essere sorpreso ma non aiutato con adeguate guide cultural-sociologiche a una lettura più complessiva, organica e consapevole dei materiali offerti, o del contesto generale da cui tali materiali sgorgano. In questa casualità assai «moderna» non pare prioritaria l’attenzione agli aspetti formativi e di mediazione culturale, anch’essi ancorati nella mitologica concessione SSR, e che meriterebbero forse più generale cura. Annuncio pubblicitario


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CULTURA

In fin della fiera

di Bruno Gambarotta

Hello Barbie!

Trascorro tutto il mio tempo libero nel tentativo di non farmi sorprendere dalle novità. Ho la sensazione che il tempo proceda con un moto uniformemente accelerato. Sto ancora imparando a usare un nuovo aggeggio quando arriva la versione aggiornata incompatibile con la precedente. Per accendere il televisore devo manovrare sei cambia canali. Sono fortunato, un amico mi ha inserito in una rete sulla quale scienziati, economisti, sociologi e altri esperti si scambiano informazioni e segnalazioni di prima mano. Anche se dialogano abitando sullo stesso pianerottolo, la lingua usata è sempre l’inglese. Ulteriore fortuna: il traduttore automatico Google è a portata di clic. Potrei anche intervenire esponendo le mie opinioni. Me ne guardo bene, scoprirebbero subito che sono un imbucato. Una volta però ho avuto la tentazio-

ne di dire la mia. È stato quando un corrispondente ha spedito a tutti una segnalazione e un commento: «Dalla Cina arriva l’app del “Vivere Civile” in un gioco a punti per classificare il comportamento virtuoso dei cittadini, grazie a un software di riconoscimento facciale e a telecamere piazzate ovunque. Per fortuna non siamo mai soli ma grazie a Google spiati giorno e notte da sensori cellulari, browser, siti web». Pensavo di scrivere: «Lo sappiamo. I cinesi copiano. La mia maestra delle prime tre classi delle elementari si chiamava Bussone Culasso. Se stavi al tuo posto senza dare noia ti premiava dandoti un bigliettino con la scritta Bravo. Con 10 Bravo avevi diritto a portare per tutto il giorno appesa al petto una coccarda tricolore. Lo sanno tutti: per orientare verso il bene una persona, che sia un ragazzo o un adulto, è molto più

efficace premiarla anziché punirla. La punizione ti sfida a tentare di eluderla, farla franca. Il premio lo esibisci, te ne fai un vanto». Ho desistito, intanto da altri corrispondenti della rete arrivavano aggiornamenti: sia il Comune di Roma che quello di Bologna progettavano di munirsi del dispositivo. Ma da una talpa del Comune abbiamo saputo che la città di Torino arriverà per prima ad adottare l’app, perché è in perfetta sintonia con il nostro ideale di vita. Ci sarà tra noi torinesi una gara per arrivare in cima alla classifica. Chi ha la fortuna di avere un anziano a portata di mano se lo porterà in tram per girare la scena di cedergli il posto, più volte, dal mattino alla sera, camuffandolo. Foraggeremo ragazzi discoli perché vadano in giro a spargere rifiuti per farci inquadrare mentre li riponiamo nei cestini, ci faremo

riprendere mentre mandiamo bacini alle signore che multano le auto nei parcheggi blu a tagliando scaduto da 10 secondi. La visita ai musei fa punteggio? E noi, provvisti di abbonamento, entreremo in tutti quelli aperti e ne usciremo dopo cinque minuti. Saremo spietati nell’andare in giro a spegnere luci, a chiudere termosifoni. L’adozione dell’app Honest Turin è volontaria, ci mancherebbe. Abbiamo il diritto di essere cittadini virtuosi. Un altro corrispondente segnala una bellissima notizia: è nata Hello Barbie! Non è solo una Barbie parlante ma è capace di fare domande, rispondere e interagire, imparando a riconoscere i gusti della sua padroncina, può raccontare favole e barzellette. Nel suo pancino ha un server che contiene 8mila domande, ricorda quello che piace o non piace a chi l’interpella e impara ad assecondare le sue inclina-

zioni. Sono finalmente cancellate la fatica e la frustrazione spese nel discutere con chi non la pensa come noi. Per ora Hello Barbie! parla solo in inglese, ma sono sicuro che non tarderà ad arrivare la versione italiana. Voglio essere tra i primi ad averne una. Immagino i nostri dialoghi. Barbie: «Caro Bruno, ricordati le raccomandazioni del tuo medico, devi bere tanta acqua lontano dai pasti.» Io: «Grazie. Secondo te, se al posto dell’acqua bevo del prosecco va bene lo stesso?». Lei: «Va ancora meglio! Il prosecco è ricco di virtù curative». Con la mia Barbie sapiente si apre il capitolo dell’abbigliamento. È finita l’epoca dei «Non mi dirai che stai uscendo così conciato. Non ti vergogni?». Sarà sufficiente una semplice domanda alla mia amica: «Come sto?». Lei: «Una meraviglia, sei uno splendore».

Xenia

di Melania Mazzucco

Malik

Non racconta mai come è arrivato in Italia, neanche quando fra noi si creerà una certa confidenza. Da alcuni accenni capirò che ha percorso la rotta balcanica. A piedi, e poi nell’intercapedine di un tir. È il più anziano del suo gruppo: quando lascia il suo paese, il Bangladesh, ha già trent’anni. Gli altri sono appena maggiorenni, qualcuno nemmeno. Mi sono chiesta a lungo perché fosse emigrato così tardi. Forse recalcitrante, trascinato dal flusso sempre più ingente dei suoi connazionali. Forse entusiasta, travolto dal sogno collettivo di riscatto. È gracile, minuto, scuro di pelle, con gli occhi fiammeggianti e un elmo di capelli nerissimi – lucidi e folti. Il viaggio è stato organizzato nei minimi dettagli, e così l’inserimento nel mondo del lavoro. Se così si può dire: non hanno documenti, non esistono. Sono fantasmi bambini: non parlano la lingua, dipendono in tutto dai

loro boss. Che li portano al lavoro all’alba, li riprendono la sera. Dormono tutti insieme, in un casamento di periferia. Abbinati due a due, li smistano a vendere aglio di provenienza cinese, tre teste sigillate in un sacchetto di cellophane, nei mercati rionali della capitale. Malik fatica a imparare la lingua, perfino le frasi necessarie, non sa chiedere né agganciare i potenziali acquirenti, non riesce a smerciare i suoi sacchetti. A giugno i boss li deportano sulla costa. Per tre mesi, fino al tramonto, batte le spiagge del litorale, sovraccarico di asciugamani, parei, braccialetti, accendini. È sempre vissuto in un villaggio di campagna, non ha mai visto il mare. E nemmeno donne svestite, scosciate, distese a rosolarsi sotto il sole. Quel tripudio di corpi e forme odorose lo sconvolge e lo ossessiona. Al rientro in città, diventa assiduo in una moschea anonima, alloggiata in uno scantinato. L’imam

A video spento

gli ingiunge di tenersi puro, e di limitare al massimo i contatti con le donne bianche. Possono corromperlo. Sono tutte prostitute. Quando me lo riferisce, discutiamo animatamente. Ti inganna, lo avverto. Non è così. Malik non ha parametri di confronto. Gli crede. Però al mercato come in spiaggia le donne sono le uniche a rivolgergli la parola e ad acquistare i suoi prodotti. A poco a poco escogita una strategia che non lo compromette: crea un legame oculare, ma per pochi istanti, mentre supplica, poi ringrazia, con dignitoso distacco. Sono solo, confessa, vorrei tanto una moglie. Ma non potrà essere di qui. Col passare degli anni i ragazzi arrivati con lui si liberano dalla schiavitù dell’aglio e si disperdono. Alcuni diventano assistenti nei banchi degli ortolani, e poi titolari, altri gestiscono minimarket, che – pur misteriosi e sempre vuoti – proliferano in ogni isolato della città. Malik no. È anal-

fabeta, troppo vecchio per iniziare la scuola e anche per la trafila di garzone. Colleziona fogli che gli ingiungono l’espulsione. Due volte lo truffano al momento di aggiustare i documenti. Cambia spiaggia, risalendo la costa verso nord, e mercato rionale, scivolando in quartieri fuori dal raccordo anulare. Lo perdo di vista. Quando lo ritrovo ha una frezza di capelli bianchi sulla tempia – come me, siamo coetanei – e cammina claudicando, impedito da una lieve zoppia. Mi saluta con l’identico sorriso. Nulla – oltre la malattia – pare essergli accaduto. Mi dice che non è ancora mai tornato in Bangladesh. Potrà farlo solo quando potrà sposarsi, e non è ancora il momento. Desidera il ritorno almeno quanto lo teme. Ti stai curando? gli chiedo. Sì, ha trovato un bravo dottore, ormai è in regola. Ma forse dovrà subire un trapianto di rene. Malik mi porta dietro il banco della

frutta ed estrae dalla giacca una busta, piena di banconote da cinquanta euro. Sono parecchi soldi. Bastano e avanzano per il biglietto aereo. Mi chiede di accompagnarlo al money transfer all’angolo. Li manda a casa, dice, con orgoglio. Il figlio si sposerà il mese prossimo. Non mi ha mai parlato di un figlio. Era molto piccolo, quando è morta la moglie. Lo ha lasciato al fratello. Non lo vede da vent’anni. Se non avessero inventato gli smartphone con le videochiamate neanche lo riconoscerebbe. Ogni testa di aglio che mi hai comprato, sorride, ha pagato la scuola di mio figlio. Ha studiato, lui, non abita più al villaggio. Capisco solo adesso che Malik ha ceduto la propria vita al figlio – sublimazione estrema del ruolo di genitore. Così ogni volta che soffriggo l’aglio penso alla rinuncia di Malik. E l’odore che si sprigiona mi dà le vertigini.

di Aldo Grasso

Beppe Fenoglio, singolare scrittore del Novecento ◆

A proposito di centenari: tutti parlano di Pier Paolo Pasolini sulla cui opera è fiorita negli anni una produzione critica che non ha il pari con quella relativa a nessun altro scrittore del Novecento italiano. Pochi, però, parlano di quello che si sta affermando come il più singolare scrittore italiano del Novecento: Beppe Fenoglio. Una questione privata è uno dei suoi più grandiosi romanzi d’amore, quando l’amore recava sofferenza e non discorsi sull’amore. In Fenoglio tutto è postumo: il successo, il risarcimento, i sensi di colpa della critica. Strano destino il suo: da vivo, ha faticato come una bestia per pubblicare i libri, per superare le diffidenze dell’establishment, per vedersi riconosciuto come scrittore; da morto ci viene incontro con tratto monumentale. Fenoglio nasce ad Alba nel 1922, figlio di un macellaio, frequenta il liceo classico solo perché un maestro

elementare ne intuisce le doti e convince la madre a «farlo studiare». Ha una grande passione per la letteratura, la poesia, il teatro, il cinema; si butta su autori di lingua inglese, li traduce, li assimila in un suo mondo immaginario che ha però i contorni delle Langhe. Arriva la guerra, deve interrompere gli studi, viene arruolato nel regio esercito come allievo ufficiale, partecipa alla Resistenza, torna alla vita civile con il sogno di diventare scrittore ma nel disincanto del dopoguerra trova lavoro solo come procuratore in una ditta che vende vermouth e spumanti. Finalmente nel 1952 pubblica da Einaudi I ventitré giorni della città di Alba con un risvolto di Elio Vittorini che, ambiguamente, ne decanta le lodi: «Un gusto barbarico che persiste come gusto di vita non solo nel costume del retroterra piemontese». Ma subito arriva la prima fucilata, anonima, su «l’Unità»

di Milano diretta da Davide Lajolo e autore dell’articolo: «Beppe Fenoglio, dice una nota di presentazione sulla copertina del libro, esercita ad Alba il mestiere di procuratore presso una ditta vinicola. Noi non sappiamo se questo mestiere egli lo esercita onestamente, oppure vende del vino annacquato. Certo è che in fatto di racconti non possiamo parlare di onestà: e questo libro lo dimostra… Pubblicare e diffondere questo tipo di letteratura significa non soltanto falsare la realtà, significa sovvertire i valori umani e distruggere quel senso di dirittura e onestà morale di cui la tradizione letteraria può farsi vanto». Sta di fatto che quando Vittorini gli pubblica nel 1954 La malora accompagna il libro con una nota insolitamente dura e ingenerosa, dove Fenoglio viene accomunato ai «provinciali del naturalismo… col modo artificiosamente spigliato in cui si esprime-

vano a furia di afrodisiaci dialettali». «È sufficiente rileggere le sue pagine, scrive Nunzia Palmieri su “Doppiozero”…, per comprendere come la sua ricerca andasse nella direzione di una scrittura che fosse in grado di ancorarsi al mondo allontanandosi dalle prospettive consuete di rappresentazione… C’è un animismo di fondo che attraversa le sue pagine e le plasma attraverso una scrittura materica, sempre fuori chiave rispetto agli orizzonti di attesa dei suoi primi critici-lettori, che non riescono a collocarla in nessuna delle categorie acquisite, con abbagli e fraintendimenti che Fenoglio sente per tutta la vita come una ferita aperta». Quando Una questione privata esce postuma, Italo Calvino rompe la diffidenza che fino ad allora aveva caratterizzato i rapporti con Fenoglio (dell’editore Giulio Einaudi ma anche un po’ di Livio Garzanti) e con grande onestà ammette: «Il libro

che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita». Calvino riconosceva allo scrittore langarolo il merito di essere riuscito «a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava». Scomparso prematuramente, per un lungo periodo i suoi libri sono stati sorvegliati da certe ziette della critica accademica con i pesanti maglioni di lana della filologia, le pancere delle varianti e delle note in margine. E pochi a urlare che Fenoglio è soltanto un grande scrittore. Finalmente ora si comincia a dar conto del suo duro viaggio stilistico dentro la lingua per approdare a un italiano acuminato, scarnificato, essenziale, eppur ebbro di «ribollente maestà».


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