Anno LXXXV 23 maggio 2022
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
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MONDO MIGROS
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SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
Medicina d’urgenza: l’importanza dell’accoglienza e della presa a carico al Pronto soccorso
Località ungherese, dagli anni Novanta Sopron funge da meta prediletta per i confinanti austriaci
Sri Lanka, una crisi che viene da lontano, aggravata dal debito con la Cina e gli errori del governo
Alla scoperta dell’anima letteraria di New Orleans, musa di grandi scrittori come Capote e Williams
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La Nato si allarga l’Europa si riarma
Il flirt? Un quasi innocente gioco di ruolo
Peter Schiesser
Sebastiano Caroni – Pagina 15
Lo immaginavamo: l’invasione russa dell’Ucraina ridisegna l’architettura della sicurezza in Europa. Svezia e Finlandia hanno formalmente deciso di chiedere l’adesione alla Nato. La volontà dei governi e dei parlamenti è fortemente sostenuta dai sondaggi popolari. È la conferma della volontà egemonica del Patto Atlantico, o piuttosto la dimostrazione che la Nato viene vista come l’ombrello di difesa da un aggressivo imperialismo russo? Che la Svezia voglia rinunciare a 200 anni di neutralità e la Finlandia a una neutralità che dapprima le era stata imposta ma poi è diventata fortemente voluta per tener quieto l’orso russo, rende più credibile la seconda opzione. Come ha detto il presidente finlandese Saali Niinistö rivolto ai russi, «questo lo avete provocato voi, guardatevi allo specchio». La reazione del Cremlino è stata contenuta: non cambia molto, tutto dipenderà se l’infrastruttura militare si avvicina ai nostri confini. Di fatto però, il confine fra Russia e Nato si allunga di 1340 chilometri, il Mar Baltico diventa area Nato, eccezion fatta per Kaliningrad e San Pietroburgo. La sindrome d’accerchiamento di Putin verrà certamente confermata, e al contempo si ribalta sull’Europa, con la subitanea decisione dell’Ue, come anche della Svizzera, di aumentare le spese militari per far fronte all’aggressività della Russia. Vi ricordate quando il presidente francese Macron definì la Nato in stato di coma cerebrale? L’invasione dell’Ucraina l’ha risvegliata bruscamente dal sonno, sotto la guida decisa dell’Amministrazione Biden. Parallelamente, anche i singoli Stati europei hanno annunciato di aumentare il bilancio militare, come Washington chiede da tempo, a cominciare dalla Germania, il cui governo rosso-verde-nero ha annunciato aumenti per 100 miliardi di euro all’an-
no. La Commissione europea stima che vi saranno aumenti per 200 miliardi di euro per i prossimi anni. Il problema di fondo che si pone è: cosa rende funzionante gli eserciti, più armi o prima di tutto un’adeguata interoperabilità, una capacità cibernetica di rilevamento della situazione e coordinamento delle operazioni fra cielo terra e mare? Benché i paesi dell’Unione europea e la Gran Bretagna siano con 227 miliardi di dollari al secondo posto della classifica delle spese militari (la Russia spende 43 miliardi), hanno seguito soprattutto interessi nazionali e della propria industria bellica. Risultato: ci sono 17 diversi tipi di carri armati, 20 di aerei da combattimento, 29 di navi militari. Non esattamente quel che ci vuole per coordinare una difesa comune. In Svizzera la situazione è analoga. Il Consiglio nazionale ha votato una mozione per aumentare le spese militari di due miliardi, da 5,4 a 7,4, con l’obiettivo di raggiungere l’equivalente di 1 per cento del Pil entro il 2030 (circa 9 miliardi). Con un po’ più di tempo, in giugno il Consiglio degli Stati dirà la sua, tenendo forse maggiormente conto degli interrogativi di fondo: è possibile aumentare le spese militari senza tagliare i fondi per le università, per la socialità, per l’aiuto allo sviluppo, come invece vorrebbe l’Udc, o senza aumentare le tasse, come teme chi sa leggere i conti della Confederazione? L’Udc vuole una difesa forte autonoma, la ministra della difesa Viola Amherd un avvicinamento alla Nato, ma non l’adesione. Una difesa autonoma per un paese piccolo come il nostro è possibile, viste le forze in campo? Ma un avvicinamento a una Nato ancora poco coordinata che forme dovrebbe avere? E infine: è davvero verosimile che i carri armati russi arrivino fino a Berna? Quindi, serve aumentare già ora le spese militari?
Rinnoviamo a tutti i soci l’invito a partecipare alla votazione generale Migros. Le schede di voto possono essere consegnate deponendole nelle apposite urne esposte nei punti vendita, nel qual caso si riceve una tavoletta di cioccolato oppure per corrispondenza (data del timbro postale). L’ultimo termine per la spedizione o la consegna della scheda è
SABATO 4 GIUGNO 2022
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VOTAZIONE GENERALE 2022
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azione – Cooperativa Migros Ticino
MONDO MIGROS
Un po’ di Ticino a Forum elle Assemblea 2022
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Gaby Malacrida è stata eletta all’unanimità membra del Comitato Centrale
Sulla scia di una serie di visioni che hanno permesso alla Migros di diventare ciò che è oggi, nel 1957 Gottlieb Duttweiler rivolse molto più di un pensiero anche alle donne («il grande e particolare compito della donna consiste nel curare oltre agli affari anche la cultura»), dando vita all’Associazione svizzera delle cooperatrici Migros, poi diventata Forum elle, «una piattaforma di scambio femminile apartitica, aconfessionale e indipendente». Le proposte di Forum elle sono molto diversificate da sezione a sezione, e, nel segno del networking di donne di età, formazione ed estrazione sociale diversa, comprendono visite museali, viaggi culturali e visite strutturate a enti e istituzioni di interesse pubblico. Forum elle negli anni è cresciuto sempre di più, fino a diventare un’associazione che conta più di 7000 socie, di cui 240 in Ticino. Martedì 10 maggio Bellinzona ha ospitato la 65esima assemblea annuale nazionale, accogliendo negli spazi della suggestiva sala del Consiglio Comunale a Palazzo Civico e a Castelgrande ben 100 delegate provenienti da tutta la Svizzera. Per l’occasione hanno preso la parola il Consigliere di Stato Christian Vitta e il Sindaco di Bellinzona Mario Branda, e hanno presenziato la presidente dell’Assemblea dei Delegati FCM Marianne Meyer e il Presidente del Consiglio di Cooperativa di Migros Ticino Avv. Danilo Zanga. All’ordine del giorno c’era anche la nomina di
La neoeletta Gaby Malacrida con la presidente centrale Beatrice Richard-Ruf. (Foto Carpi)
Appuntamenti ◆ Colazione in piazza organizzata dall’Associazione Triangolo
brief: logo differenziato per utilizzo Logo originale da mantenere come principale
60 mm
A A S S S S O O C C II A A ZZ II O ON N EE
un membro del comitato centrale, finora storicamente «spartito» tra rappresentanti dei cantoni germanofoni e francofoni. All’unanimità è stata votata Gaby Malacrida, da anni instancabile ed entusiasta responsabile della sezione ticinese dell’associazione: il Ticino può così fieramente contare su una figura carismatica e di peso nel comitato centrale. «Forum elle in qualche modo si trova a una svolta», ci ha raccontato Gaby Malacrida all’indomani dell’elezione unanime, che l’ha colta un poco di sorpresa, «dobbiamo infatti lavorare affinché si creino i presupposti per un ricambio generazionale. La nostra offerta dovrà essere ancora più diversificata e contemplare attivi-
tà che possano coinvolgere più generazioni. Qualche tempo fa ad esempio abbiamo dato alle nostre socie la possibilità di fare un salame al castello Montebello di Bellinzona: la risposta è stata grande, e ci ha fatto piacere vedere donne di addirittura tre generazioni diverse impegnate nel progetto». Forse è proprio il gap generazionale ad avere un po’ penalizzato l’associazione, che negli ultimi anni, complice certamente anche la pandemia, ha visto una flessione delle nuove iscritte. «Cercheremo di contrastare il fenomeno», aggiunge Gaby Malacrida, «perché credo davvero nell’importanza di una piattaforma di scambio per le donne. Durante la pandemia ogni sezione
era libera di gestirsi come meglio credeva, e devo dire che, fortunatamente, siamo riuscite a realizzare alcune Logo per il servizio attività grazie adomiciliari una suddivisione delle cure palliative donne in gruppi molto piccoli. Occorre trovare degli escamotage, e in questo caso ci siamo riuscite, cosa di cui andiamo particolarmente fiere». Come iscriversi Per diventare socie di Forum elle basta collegarsi al sito Logo per il servizio psicooncologico www.forum-elle.ch/it/chisiamo/diventare-socia/ e inviare la propria iscrizione. Per una più ampia galleria fotografica dell’evento andare su www.azione.ch Logo per il servizio volontariato
La gioia di camminare
Walking Mendrisiotto ◆ Dopo due anni di pausa, l’amata manifestazione ritorna domenica 12 giugno 2022 con quattro percorsi completamente rinnovati Logo per il servizio sociale
Domenica 12 giugno 2022 è in programma la sesta edizione di BancaStato Walking Mendrisiotto, sostenuta fra gli altri sponsor anche da Migros Ticino. Un evento completamente rinnovato con un nuovo villaggio (situato al Centro Sportivo Adorna a Mendrisio) e quattro nuovi tracciati di diverse distanze e difficoltà. La novità principale dell’edizione 2022 riguarda proprio i tracciati, che sono stati rivisti e rinnovati, attraversando nuove località, finora mai toccate dall’evento. Il percorso famiglia (5,3 km), pianeggiante e accessibile a tutti, tocca tre quartieri di Mendrisio. Chiasso (8,7 km) va da Chiasso a Mendrisio percorrendo il parco valle della Motta. Besazio (11 km), di media difficoltà, attraversa quattro quartieri di Mendrisio e raggiunge Besazio percorrendo vecchie mulattiere e sentieri spesso costeggiati da vigneti. Meride (16,7 km) è un tracciato con un dislivello di ca 500 m, tocca sette quartieri di Mendrisio e si spinge a ridosso del Monte San Giorgio.
Un brunch di inizio estate per il prossimo
Informazioni Iscrizioni
online
tramite www. e www.biglietteria.ch o tramite la polizza di versamento (v. flyer evento). Iscrizioni a Walk&Dog solo online per max 100 cani iscritti. Chi si iscrive entro il 29 maggio riceve a casa il pettorale con nome e la carta giornaliera Arcobaleno (valida il giorno dell’evento). Dopo il 29 maggio iscriLogo per la sezione zioni solo online fino all’8 giugno, o Sottoceneri il giorno dell’evento con un supplemento. La quota d’iscrizione include una t-shirt in tessuto tecnico, pettorale con nome e carta giornaliera Arcobaleno, un buono pasto, rifornimenti e servizio sanitario lungo il percorso. Per la categoria «Walk&Dog» è inoltre previsto un premio ricordo anche per il cane. Logo per la sezione walkingmendrisio.ch Sopraceneri
Immagine da una vecchia edizione di BancaStato Walking Mendrisiotto. (Foto Garbani).
L’edizione 2022 proporrà anche la categoria «Walk&Dog», pensata per gli amici a 4 zampe e i propri padroni. Il tracciato (5,3 km) è pianeggiante e prevede zone d’ombra, così come zone ristoro per cani e padroni e un servizio di pronto intervento veterinario.
Concorso «Azione» mette in palio alcune iscrizioni all’evento. Per partecipare al concorso inviare una mail con i propri dati a giochi@azione.ch (oggetto: Walking Mendrisiotto) entro le 24 di mercoledì 25 maggio.
TRIANGOLO TRIANGOLO
volontariato ee assistenza assistenza per volontariato per ilil paziente paziente oncologico oncologico
Chi l’ha detto, che il piacere di stare insieme non possa coniugasi con una raccolta di fondi? A Shanno S O C Ipensato A Z I O Ngli E È quello che TRIANGOLO organizzatori dell’imminente Brunvolontariato e assistenza perdiilqualità paziente oncologico ch di Pentecoste, che avrà“inluogo lumarchio cure palliative” nedìservizio 6 giugno nella centralissima cure palliative domiciliari Piazzetta San Carlo di Lugano. Una colazione che vede l’Associazione Triangolo, attiva nel volontariato e nell’assistenza per il paziente oncologico (vedi l’intervista A S S O C I ai A Z coniugi I O N E Osvalda e Marco Varini, psico-onTRIANGOLO cologa e oncologo, apparsa su «Aziovolontariato e assistenza per il paziente oncologico ne» del 16 maggio 2022), in sinergia servizio psicooncologico con alcuni sponsor, tra cui Migros Ticino e, più precisamente, i Nostrani del Ticino. Il ricavato della manifestazione sarà interamente devoluto all’Associazione, al fine di «impleS S O C I Aattività Z I O N di E mentare le sue Anumerose accompagnamento dei malati duranTRIANGOLO volontariato assistenza per il paziente oncologico te il loro epercorso, spesso impegnativo su diversi fronti», ci ha spiegato servizio volontariato Amanzio Marelli, fra i volontari del Triangolo, e per l’occasione, co-organizzatore dell’evento. La colazione, che vedrà la presenza di Carla Norghauer e prevede diA S S O C I A Z I O N E verse attività per i più piccoli, vuole TRIANGOLO essere un momento di giovialità e alvolontariato e assistenza per il paziente oncologico legria, ed è pensata per tutti: pazienti, parenti eservizio amici, sociale ma anche semplici simpatizzanti desiderosi di godere della bella atmosfera di una mattinata di inizio estate mangiando bene e rivolgendo un pensiero al prossimo. A S S O C I A Z I O N E
TRIANGOLO
volontariato e assistenza per il paziente oncologico
Concorso sezione Sopraceneri
Colazione in piazza. Il gusto della solidarietà. Brunch organizzato dall’Associazione Triangolo con i Nostrani del Ticino. Lunedì 6 giugno 2022 A S S O C I A Z I O N E (in caso di cattivo tempo domenica 19 giugno), Lugano, Piazzetta San volontariato e assistenza per il paziente oncologico Carlo. Dalle 9.00 alle 12.00. Entrata: singola CHFSottoceneri 20, famiglie CHF sezione 50. «Azione» mette in palio alcuni ingressi gratuiti. Per partecipare al concorso inviare una mail con i propri dati a giochi@azione.ch entro le 24 di mercoledì 25 maggio 2022.
TRIANGOLO
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azione
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Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Simona Sala, Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Natascha Fioretti Ivan Leoni
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Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera Fr. 48.– Estero a partire da Fr. 70.–
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SOCIETÀ ●
Una famiglia alle Azzorre Esther e Davide con le loro tre figlie dal 2020 vivono sull’isola di Sao Miguel dove gestiscono una gelateria: li abbiamo incontrati
Scienza e gioventù Il concorso nazionale offre grandi opportunità ai giovani studenti accompagnandoli in un percorso di crescita e di studio
Forze Speciali Reportage: abbiamo seguito un’esercitazione sul lago di Lugano dei Gruppi di Intervento della Polizia cantonale
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Il sapere e il saper fare
Medicina d’urgenza ◆ Il Pronto soccorso è un luogo di passaggio dove si intraprendono le prime manovre diagnostiche e terapeutiche per migliorare lo stato di salute del paziente Maria Grazia Buletti
In sala d’attesa c’è chi attende il proprio turno per essere visitato, qualche parente aspetta seduto, un’urgenza arriverà con l’elicottero: è il via vai quotidiano di ogni Pronto soccorso ospedaliero. «Lo dice la parola: si tratta di un servizio a disposizione di qualunque paziente, di qualunque età, che giunge alla porta del nostro ospedale con una situazione di sofferenza acuta per malattia, trauma o malessere psicologico, anche se di piccola entità. Ognuno ha il diritto di essere accolto e gestito per ogni evento acuto che potrebbe determinare un danno o una sofferenza alla persona», così ci spiega la dottoressa Roberta Petrino, primario del Pronto soccorso / medicina d’urgenza all’Ospedale Regionale di Lugano, dove la incontriamo con la dottoressa Sara Rezzonico, caposervizio al Pronto Soccorso dell’Ospedale Regionale Bellinzona e Valli. Sulla natura del servizio stesso di medicina d’urgenza cantonale dell’EOC la dottoressa Rezzonico puntualizza che si parla di «un servizio aperto 24 ore su 24, dove è costantemente garantita la presenza di medici assistenti che lavorano sotto la supervisione di medici senior delle differenti specialità rappresentate in ospedale, mentre l’équipe infermieristica è in parte composta da infermieri specializzati in cure urgenti». Si tratta di un servizio molto avanzato nell’ambito del quale, spiega Petrino «troviamo esperti in grado di trattare il paziente critico, la cui storia clinica non è nota (come lo è invece per il medico di famiglia), che giunge con un quadro clinico spesso complesso e che prevede l’assunzione di decisioni tempestive con l’obiettivo di evitare un rapido peggioramento delle sue condizioni. Per questo, possiamo dire di essere confrontati con un evento della vita che succede nel “qui e ora”». Il medico che vi opera è una figura poliedrica chiamata a farsi carico delle difficoltà a cui può andare incontro date dalla conoscenza molto limitata della persona che si presenta. «Siamo un po’ come detective: il paziente giunge con una serie di patologie (chi si spiega bene e chi meno), sta a noi individuare diagnostica e terapia adeguata a tempistica, sicurezza del paziente e sostenibilità economica. Questo, nel breve lasso di tempo che ci è concesso per riuscire a comprendere quale patologia (da lieve a mortale) sia all’origine della sofferenza sempre soggettiva del paziente», spiega Rezzonico. A confronto stanno l’obiettivo di tale presa a carico e la corsa contro il tempo: «Dobbiamo riuscire a identi-
La dr.essa Roberta Petrino, primario del Pronto soccorso – medicina d’urgenza all’OR Lugano (a sin.) e la dr.essa Sara Rezzonico, caposervizio al Pronto Soccorso dell’OR Bellinzona e Valli. (Luigi Baldelli)
ficare precocemente quelle situazioni che potrebbero rapidamente peggiorare e tutte quelle di per sé critiche». Ciò, in ogni ambito medico: «Medicina interna (dai dolori addominali, all’infarto e via dicendo), patologie ad appannaggio più chirurgico, distinzione da ciò che è traumatologia da ciò che non lo è, e così via». Questa casistica a ventaglio impone il saper attribuire delle priorità. Parliamo del triage che regola l’accettazione vera e propria del paziente per stabilirne il grado di criticità attraverso una prima valutazione sia sintomatica sia oggettiva delle sue condizioni. «Il personale pre-ospedaliero e infermieristico del Pronto soccorso effettua questa valutazione secondo criteri ben definiti che tengono conto dei parametri vitali (pressione, saturazione ossigeno, frequenza cardiaca) e del tipo di sintomi presentati dal paziente. Attraverso algoritmi e la valutazione stessa dell’infermiere, questi dati convergono nel punteggio «sets» (ndr: acronimo di «Swiss Emergency Triage Scale», il sistema di classificazione dei pazienti in base alla gravità usato in Svizzera). “Uno” rappresenta la massima gravità, “Quattro” caratterizza il paziente
con sintomatologia lieve che potrebbe poi rientrare a domicilio». Sono naturalmente esentati dal triage tutti quei pazienti che giungono in situazione fortemente critica, con l’elicottero o l’ambulanza: «Essi sono immediatamente presi a carico e valutati dal team medico-infermieristico, in quanto la loro vita può essere in pericolo immediato». Il criterio di gravità fa sì che al Pronto soccorso non si possa stimare un tempo di attesa. «Il triage permette di comprendere come organizzare il lavoro, quale paziente merita l’assistenza immediata e quale dovrà attendere un po’ di più. Tutti, però, saranno visitati perché la medicina d’urgenza è un servizio a disposizione di chiunque», ribadisce la dottoressa Petrino che sottolinea come: «Malgrado non si riceva su appuntamento, nessuno viene respinto; magari si dovrà aspettare un tempo più o meno lungo, perché al Pronto soccorso il flusso di pazienti è sempre variabile e il numero di arrivi è imprevedibile, così come lo sono le patologie mediche, chirurgiche o traumatologiche che possono presentarsi di giorno in giorno». Quindi, entrambe le nostre interlocutrici invitano a una riflessione:
«Anche se noi vorremmo riuscire a vedere tutti subito, il limite logistico e di risorse lo impedisce». E Rezzonico tocca pure il tema della medicina del territorio che non deve essere soppiantata dalla medicina d’urgenza, in quanto due specialità molto diverse e complementari: «Al buonsenso del singolo sta dunque di capire quando la situazione potrebbe essere urgente e quando invece il problema (non acuto ma cronico) possa essere delegato alla valutazione del proprio medico curante. Mentre la medicina sul territorio offre una continuità della cura, il Pronto soccorso può fornire solo nell’immediato una prestazione di altrettanta alta qualità. Così, potendo contare su ampie conoscenze tecnico-specialistiche, il medico d’urgenza è in grado di effettuare valutazioni rapide, mentre il medico di famiglia rimane il punto di riferimento delle cure successive». Nulla è lasciato al caso e al Pronto soccorso ci si occupa di ogni aspetto dell’accoglienza e della presa a carico: «Cerchiamo di coinvolgere il paziente e soprattutto fargli sentire presenza e vicinanza dei suoi famigliari: egli indicherà un’eventuale figura di riferimento, autorizzandoci a parlare con
lei, se del caso». La dottoressa Petrino non si esime dal ricordare i recenti eventi legati alla pandemia, che hanno dimostrato l’importanza di questi aspetti relazionali permettendo loro di emergere: «In Italia, dove lavoravo durante la pandemia, siamo stati noi del Pronto Soccorso i primi a istituire la videochiamata ai parenti per quei pazienti gravi dei quali era chiara l’immediata esigenza di comunicare coi loro cari». Rezzonico conferma infine che «l’alleanza terapeutica con la famiglia permette a un referente famigliare di entrare nel triage; raccontare la storia del paziente toglie l’ansia delle cose non dette e mette al riparo dalla maggior parte dei problemi causati dai possibili errori di comunicazione». Dal canto suo, Petrino conclude chiedendo di non dimenticare «che la vicinanza umana al paziente è un pezzo di cura ed è imprescindibile». Informazioni Martedì 24 maggio, alle 18.30, avrà luogo una conferenza pubblica virtuale, con le dottoresse Roberta Petrino e Sara Rezzonico. Vedi link: https://bit.ly/3wis070
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MONDO MIGROS
Amore al primo assaggio
Novità ◆ I broccoli Bimi sono versatili e ricchi di sostanze nutritive. Li trovate ora nuovi in assortimento di produzione regionale
I broccoli Bimi sono coltivati dall’azienda ortofrutticola Krauss di S. Antonino. Broccoli Bimi Ticino, 200 g Fr. 4.90
Situata a S. Antonino, l’azienda ortofrutticola Krauss da oltre trent’anni rifornisce Migros Ticino di buoni e sani ortaggi della nostra tradizione, coltivati nel rispetto della natura, quali pomodori, zucchine, melanzane e varie tipologie di insalate. Dinamica e attenta ai nuovi trend, l’azienda quest’anno si è lanciata nella coltivazione di una tipologia di cavolo non ancora diffuso alle nostre latitudini, i broccoli Bimi. Interessante mix tra cavolo cinese e broccoli, questi ortaggi sono considerati
una vera bomba vitaminica – contengono il doppio di vitamina C rispetto alle arance –, ma sono anche ricchi di sali minerali, fibre e altre sostanze vegetali secondarie, tanto da essere considerati degli autentici superfood. Sono inoltre facili da preparare e posseggono un ottimo sapore che piace anche ai più piccoli. Dei Bimi si mangia tutto, senza nessuno scarto, e si possono gustare anche crudi. Hanno una consistenza croccante, un bel colore verde e il leggero aroma dolciastro si avvici-
na di più a quello degli asparagi verdi piuttosto che ai broccoli. I Bimi possono essere cucinati in mille modi e richiedono meno tempo di cottura rispetto ad altri tipi di cavolo, ciò che permette di preservare meglio le preziose sostanze nutritive. Versatili e appetitosi
Come accennato prima, i Bimi si apprezzano in tante maniere differenti, da soli o come ingredienti in svariate ricette, pur rimanendo fedeli al loro delicato gusto e alla con-
sistenza croccante. Insomma, che siano crudi, appena sbollentati, bolliti, al vapore, fritti, saltati in padella o anche grigliati o cotti al microonde, i broccolini Bimi seducono e ispirano tutti gli amanti della buona cucina. Voglia di una sfiziosa insalata a base di broccoli Bimi? Per due persone cuocere al vapore 150-200 g di broccoli Bimi per 3-4 minuti finché risultano ancora croccanti. In una padella antiaderente tostare brevemente qualche gheriglio di noci e
mettere da parte. Nella stessa padella cuocere 100 g di pancetta a dadini fino a renderli croccanti. Preparare un dressing a base di olio di oliva, succo di limone, un cucchiaio di senape in grani e miscelare bene. Condire i Bimi – a piacere con l’aggiunta di qualche foglia di insalata – con il dressing e girare per far insaporire bene. Disporre i broccoli Bimi in due piatti fondi e completare con del formaggio di capra a pezzetti, i dadini di pancetta e le noci tostate frantumate grossolanamente.
Pesce alla griglia Attualità
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Il pesce grigliato è una gustosa alternativa alla carne, ideale per la cucina leggera dell’estate
La stagione delle grigliate è ormai ricominciata alla grande, con tanta voglia di preparare pietanze sempre variate. Per coloro che amano dedicarsi a questo piacevole passatempo e apprezzano il pesce, la Migros è un ottimo indirizzo dove acquistare nu-
merose specialità ittiche adatte alla cottura al grill. Tra le varietà di pesce particolarmente idonee alla griglia vi sono quelle a carne soda, come per esempio il salmone, l’orata, il branzino, la trota salmonata, la ricciola, la sogliola, lo scorfano o ancora lo
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sgombro. Per quanto riguarda i condimenti, si consiglia di non eccedere per non coprire il delicato sapore naturale del pesce: un poco di sale, pepe e qualche goccia di succo di limone o limetta spesso possono bastare. Per chi ama le erbette fresche, il timo, l’aneto e l’origano si sposano bene con il pesce. Inoltre il pesce può essere cotto senza l’aggiunta di troppi grassi, ciò che permette di ottenere piatti leggeri ma non per questo meno succulenti. Nella preparazione dei pesci interi, praticate delle incisioni sui lati, in modo che gli aromi dei condimenti o della marinata penetrino nella carne in modo uniforme. Una volta aromatizzato a piacimento, grigliate il pesce sulla zona più calda del grill, girandolo un paio di volte, spostandolo in seguito ai lati della griglia e proseguendo la cottura a fuoco medio. Evitate di girarlo troppo spesso per non romperlo. Come alternativa, si può utilizzare l’apposita griglia per pesce, che permette di girare la vivanda facilmente senza che attacchi alla griglia. In generale per i pesci interi o i tranci più grandi sono sufficienti ca. 15 minuti di cottura. Il pesce ben cotto si stacca bene dalla griglia e la sua carne si sfalda facilmente.
La ricetta Orata con pomodorini e carciofi Ingredienti per 4 persone • 4 orate di ca. 600 g • sale • pepe • 100 g di cuori di carciofi sott’olio sgocciolati • 100 g di pomodorini cherry • 100 g di pasta di olive verdi • 4 cucchiai d’olio d’oliva Come procedere
Sciacquate i pesci con acqua fredda e asciugateli con carta da cucina. Conditeli con sale e pepe. Tagliate i carciofi e i pomodorini a fettine sottili e mescolateli con la pasta di olive. Riempite le cavità ventrali dei pesci con la farcia e spennellateli d’olio. Cottura
Grigliate i pesci a fuoco medio-alto da entrambi i lati per ca. 18 minuti.
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MONDO MIGROS
Il mio GOOD MOOD quotidiano Novità
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Buona per la pelle e l’ambiente: ecco la nuova linea di prodotti cosmetici dalla fragranza sensuale
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“Ho mostrato la medaglia al mondo, ma acquisto nel Mio supermercato!” Noè Ponti 21 anni medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Tokyo
Non mettiamo frontiere alla crescita del Ticino!
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SOCIETÀ
Azzorre: l’altrove è qui
Incontri ◆ Nell’arcipelago portoghese conosciamo la giovane famiglia di Davide ed Esther Spinedi-Butti, trasferitisi dal Ticino nell’autunno del 2020 con le loro tre bambine e titolari di una gelateria che è anche un luogo d’arte Stefania Hubmann
Sono atterrati alle Azzorre per una vacanza, spronati verso questa meta da altri, ma una volta lasciato l’aeroporto sono stati avvolti dalle mille sfumature bluastre delle rigogliose ortensie che in giugno caratterizzano le isole dell’arcipelago vulcanico situato in mezzo all’Atlantico. La scelta di cambiare luogo nonché stile di vita, che stentava a trovare il posto ideale dove concretizzarsi, è apparsa all’improvviso chiara e condivisa. Esther e Davide, nati e cresciuti nel Mendrisiotto, vivono da un anno e mezzo con le loro tre bambine – Alaska, Nouméa e Siena – sull’isola di São Miguel. Li abbiamo incontrati a fine aprile nella loro gelateria in una delle viuzze del capoluogo azzorriano Ponta Delgada durante una vacanza che solo alla vigilia della partenza ha conosciuto questo valore aggiunto con la curiosità di cercare in Google «ticinesi che vivono alle Azzorre». La giovane famiglia Spinedi-Butti (40 anni Davide, 38 Esther) non è l’unica ad aver scelto il solitario arcipelago portoghese quale destinazione di un viaggio di sola andata partendo dalla Svizzera italiana. La stessa Esther ci racconta della presenza sull’isola di una famiglia di Bellinzona e di una coppia grigionese amica dei suoi genitori. Sono questi ultimi, dopo essere andati più volte a trovare i loro amici, ad aver spinto quattro anni fa la giovane coppia verso le Azzorre. Il viaggio ha da sempre unito Esther e Davide, come dimostrano i nomi delle tre figlie in omaggio ad altrettanti luoghi che sono rimasti nei loro cuori. Conosciutisi ventenni, hanno girato il mondo con il sogno divenuto sempre più reale di stabilirsi altrove. Mentre la piccola Siena (due anni) abbozza i primi disegni su un foglio del nostro quaderno degli appunti, Esther ripercorre l’itinerario delle loro avventure partendo dagli Stati Uniti, dove hanno vissuto e viaggiato fra il 2007 e il 2008 durante un congedo di sei mesi di Davide, all’epoca impiegato quale postino addetto al recapito. San Francisco, Los Angeles, Las Vegas, i grandi parchi, due mesi a New York per imparare l’inglese e poi da lì alla scoperta della costa est. Nei cinque anni seguenti torneranno negli USA diverse volte addentrandosi anche negli Stati centrali come Utah, Colorado e Wyoming. Il primo affascina in modo particolare Davide, ma ancora non è il luogo percepito come possibile «casa». «Eravamo alla ricerca di un luogo diverso dal Ticino – spiega Esther – un luogo caratterizzato da spazi grandi e aperti. Per questo abbiamo compiuto anche una crociera in Alaska, scegliendo poi questo nome per la nostra primogenita nel 2015. In viaggio di nozze siamo andati in Oceania: Australia, Nuova Zelanda fino in Nuova Caledonia. A Nouméa (nome scelto nel 2018 per la
Esther e Davide con le tre figlie: Alaska, Nouméa e Siena. In basso Davide e Siena con la nuova «bici-gelato»
seconda figlia) avevamo per certi versi trovato il “nostro” posto, ma era davvero troppo lontano. Poi nel 2018 sono arrivate le Azzorre. Siamo tornati l’anno seguente prima di trasferirci nell’autunno 2020 e ora non sentiamo più il bisogno di spostarci».
Nati nel Mendrisiotto Esther e Davide hanno girato il mondo con il sogno di stabilirsi altrove La nuova vita a Ponta Delgada e nella vicina Lagoa (dove vivono), avviata durante gli anni della pandemia, ha risentito di questo evento, cogliendone però anche alcuni aspetti favorevoli. Mentre Davide è impegnato nella produzione di gelato per il week-end, Esther prosegue il suo racconto: «Tut-
ti sono sempre stati molto carini, sia con noi, sia con le bambine. Da settembre, quando sarà ammessa anche Siena, frequenteranno la stessa scuola. Essendo arrivati nell’ottobre del 2020, Alaska, con i suoi 5 anni, era consapevole del cambiamento. Lasciata la scuola dell’infanzia di Meride, ha frequentato il nuovo istituto a periodi alterni a causa del Covid-19, ciò che le ha permesso un inserimento graduale. È stata inoltre ben preparata e seguita dalla scuola ticinese. Prima della partenza la classe ha trattato il tema dei vulcani, Alaska è stata salutata con una festa e contatti regolari via Skype sono stati mantenuti per il resto dell’anno scolastico». La scuola privata di Ponta Delgada soddisfa pienamente le aspettative e le esigenze della famiglia Spinedi-Butti. «Gli orari serali sono flessibili, l’istituto ospita diversi animali e una serra di-
dattica, i genitori possono fermarsi per un caffè, utilizzare la palestra e a volte pranzare con i bambini».
«Le Azzorre sono una terra di nuove opportunità per tutte le età. Fra i nostri amici ci sono persone che hanno lasciato alle spalle professioni come ingegnere e dentista per aprire un agriturismo» I contatti esterni, sempre a causa della pandemia, per il momento sono più intensi con altri espatriati. Vi sono due associazioni che li riuniscono: un gruppo expat frequentato soprattutto da statunitensi – le Azzorre distano solo 2400 km dal continente nordamericano – e un altro gruppo di Famiglie expat. «Siamo arrivati parlando inglese ma non portoghese – prosegue una solare Esther – quindi al momento le mie amiche sono più che altro di origine internazionale, dal Canada a Israele, dal Belgio alla Germania, all’Estonia. L’anno scorso si è verificato un vero e proprio boom di arrivi; da una decina di famiglie riunite per Pasqua nel 2021 si è passati agli attuali 200 iscritti. Le Azzorre sono una terra di nuove opportunità per tutte le età. Fra i nostri amici vi sono coppie che hanno lasciato alle spalle professioni come ingegnere e dentista per aprire un agriturismo. In autunno partirà finalmente un corso di portoghese per expat (rinviato a causa della pandemia) al quale siamo iscritti anche Davide e io. Alaska, adesso in prima elementare, lo par-
la bene e con Nouméa lo usa anche a casa dove parliamo italiano». Italiano sentito spesso pure durante la nostra permanenza alla gelateria. Perché una gelateria come attività? Anche in questo caso Esther e Davide si sono lasciati in parte guidare dall’istinto e dal destino. «La prima idea era di aprire un Bed & Breakfast con focus sulle famiglie e sulle biciclette, grande passione di Davide. Abbiamo però capito subito che qui i tempi sono lunghi. Tutto è molto lento, con pregi e difetti di questa attitudine a dipendenza delle situazioni. Una volta, a maggio 2019, sono scesa solo due giorni per vedere un terreno che però nel frattempo era stato venduto. Le nostre ricerche sono proseguite fino a gennaio 2020, quando abbiamo saputo che la gelateria, aperta da una ragazza piemontese quattro anni prima, era in vendita». Ecco quindi Esther e Davide con la responsabilità di un’attività in proprio controbilanciata dalla soddisfazione che ne deriva. Il locale è accogliente e offre un ottimo gelato artigianale con alcuni gusti propri delle Azzorre, legati ai dolci locali e all’indigena produzione di ananas. Sono già stati introdotti alcuni cambiamenti nell’arredo e altri seguiranno. Le fresche e colorate opere appese alle pareti richiamano la nostra attenzione. Scopriamo così che la gelateria è anche un luogo d’arte dove gli artisti possono presentare a turno le loro creazioni. Quando a settembre anche Siena frequenterà la scuola, Esther intende dedicarsi maggiormente alla gelateria, ampliando l’offerta dolciaria. Con la nuova «bici-gelato» si possono già raggiungere i passeggeri delle navi da crociera che sbarcano al porto. Le Azzorre sono storicamente un punto di approdo nella traversata atlantica con Horta, sull’isola di Faial, ultimo porto prima del mare aperto. Con un’attività lontana dalle loro formazioni iniziali – carrozziere verniciatore lui, impiegata di commercio lei – Davide ed Esther incarnano il desiderio riuscito di cambiare modo di vivere, non da ultimo a beneficio della propria famiglia. La natura lussureggiante – spettacolari i laghi che occupano i crateri dei vulcani – il mare, un clima temperato tutto l’anno e insediamenti a misura d’uomo, sono per Esther e Davide sinonimo di una migliore qualità di vita. Nuovi progetti li attendono e fra un anno saranno probabilmente raggiunti dai genitori di Esther, la madre già pensionata, il padre prossimo a questa scadenza. A noi hanno regalato con simpatia la loro avventurosa storia, condivisa dapprima con il piccolo gruppo con il quale siamo andati alla scoperta delle Azzorre guidati, forse non a caso, da un tour leader ricco di entusiasmo che, abbandonate le vesti del manager, ha trasformato in professione la sua passione per i viaggi. Annuncio pubblicitario
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Anno LXXXV 23 maggio 2022
Settimanale di informazione e cultura
azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ
L’amore oggi
Intervista ◆ La giornalista Tamara Tenenbaum ci parla del suo libro La fine dell’amore Laura Marzi
Al fianco dei giovani ricercatori
Formazione ◆ L’importante ruolo del Concorso nazionale di Scienza e gioventù che sostiene giovani studenti nella ricerca del proprio futuro Loris Fedele
Per 3 giorni, dal 21 al 23 aprile 2022, 117 giovani ricercatori provenienti dalle scuole medie superiori e da istituti di formazione professionali di 17 cantoni svizzeri si sono confrontati nella finale del 56esimo Concorso nazionale di Scienza e gioventù. La partecipazione svizzera italiana si è distinta: 7 menzioni d’onore e 6 premi speciali. «Per i partecipanti, le emozionanti giornate della finale non rappresentano la fine di un cammino, ma l’inizio di un incredibile percorso di ulteriore crescita, grazie alle offerte e alle occasioni che si presenteranno loro proprio a seguito di questa esperienza». Sono parole di Mariasole Agazzi, responsabile per la Svizzera italiana di Scienza e gioventù insieme al «veterano» Ferdinando Lehmann. Mariasole parla per esperienza: nel 2019 ha partecipato al Concorso dove è stata premiata per un lavoro legato alla cosmologia. I contatti avuti durante l’anno di preparazione del suo progetto, oltre agli incontri e al viaggio premio ricevuto per il suo ottimo lavoro, l’hanno confermata nelle sue scelte accademiche e sono tutt’ora preziosi per i suoi studi al Politecnico di Zurigo. Ferdinando Lehmann ci spiega il successo dei lavori provenienti dalla Svizzera italiana: gli insegnanti che suggeriscono ai loro allievi di affrontare l’impegno del Concorso nazionale di Scienza e gioventù sanno bene di che cosa si tratta e di conseguenza incoraggiano a iscrivere i lavori giusti. Un lavoro di maturità ben fatto, da 6 scolasticamente parlando, non è per forza adatto per il Concorso. Le parole chiave che fanno accedere alla sfida di Scienza e gioventù, perché di una sfida si tratta, con gli altri e con sé stessi, sono innovazione, creatività e originalità. L’originalità, precisa Lehmann, non è da intendere nel senso di non aver copiato niente, ma sta nello spirito, nelle domande che nascono in chi guarda il lavoro presentato e si chiede: ma come ha fatto il giovane a pensare una cosa del genere e a organizzarla in un certo modo? Perché si è posto questi interrogativi? Se poi l’idea possiede un potenziale di sviluppo, per il candidato il gioco è fatto. I lavori sono selezionati e scelti in workshop che si tengono in ogni regione linguistica. A questo punto inizia un altro tipo di lavoro, che dura circa tre mesi, durante i quali il candidato, affianca-
to da un esperto, affina e completa il suo progetto. Nell’ambito della finale del Concorso nazionale tutti i lavori prescelti verranno divisi non più per lingua, ma in 7 categorie espressione di diverse discipline. La preparazione, il Concorso e ciò che ne segue saranno valori aggiunti per il futuro di ogni giovane. Me lo ha confermato Mariasole Agazzi, che rimarca come coloro che partecipano a questa esperienza dimostrino già una mentalità orientata alla ricerca, una volontà di approfondire e di perfezionare il proprio lavoro. Ma soprattutto dimostrano di essere disposti a mettersi in gioco, un’attitudine fondamentale che Scienza e gioventù desidera promuovere. Gli sbocchi si manifestano subito dopo il Concorso che, oltre alla menzione d’onore, assegna ai più meritevoli dei premi speciali scelti in sintonia con gli interessi del candidato. Per esempio, quest’anno, a Daniel Barta, del Liceo di Lugano 2, il quale ha presentato un lavoro legato ai viaggi spaziali nel Sistema Solare, è stato assegnato un premio speciale che consiste in una settimana internazionale di astronautica presso la rampa di lancio di Andoya, in Norvegia. Ad Aki Bücher, studentessa mesolcinese della Scuola cantonale grigionese di Coira è stata invece data la possibilità di una visita allo Student Project House e la partecipazione a un Inspiration Event sull’imprenditoria del Politecnico Federale di Zurigo. Perché questo premio speciale? Perché Aki, dopo aver scoperto che nel procedimento delle confezioni dei salmoni allevati si buttavano via le uova, non abbastanza interessanti economicamente e commercialmente, si è chiesta se non si potessero recuperare in qualche modo. Studiando, ha scoperto che le uova in questione sono ricche di acidi grassi polinsaturi e di sostanze nutrienti. Ha ideato una ricetta, l’ha realizzata, ottenendo dei crackers a base di uova di salmone, appetibili, che mantengono i valori nutrizionali e sono facili da conservare. Non ha trascurato di fare scrupolose verifiche organolettiche del prodotto. Nel suo percorso Scienza e gioventù le ha affiancato come esperta la Dr.essa Greta Canelli, una specialista di scienze alimentari che seguiva un post-doc all’ETH Zurigo e che ora lavora per una multinazionale dell’alimentazione. Inutile dire che,
entusiasta dell’esperienza, Aki vede già la sua strada tracciata. Scienza e gioventù le ha dato il premio menzionato per fornirle un assaggio di quel Politecnico che lei si appresta a frequentare dal prossimo autunno. Tra i premiati ci sono anche due ragazzi ticinesi del Liceo Lugano 2 che hanno presentato un lavoro dal titolo Dalla spirulina all’energia elettrica. Spirulina è il nome generico di un organismo unicellulare, il cianobatterio Arthrospira platensis, dal quale si ricava una biomassa essiccata comunemente usata come integratore alimentare. Martino Camponovo e Ramon Fitze, con una realizzazione pratica assolutamente originale e in tutta autonomia, hanno voluto unire l’alimentazione e l’energia rinnovabile. In tal senso la coltivazione di cianobatteri fotosintetici commestibili è stata da loro combinata con la raccolta dell’ossigeno prodotto, convertito poi in energia elettrica in una cella redox. I due giovani sono passati dalla teoria al concetto, fino alla realizzazione pratica di un sistema completo, riuscendo infine ad accendere un LED con la corrente prodotta. Il loro premio speciale consiste in uno stage di ricerca in una delle 250 imprese affiliate a Scienceindustries al quale due settimane dopo il Concorso si è aggiunto il sorprendente invito a rappresentare la Svizzera nell’ambito della World Water Week di Stoccolma che ogni anno dal 1991 tematizza l’uso sostenibile delle risorse idriche. Chissà cosa riserverà loro il futuro? Scienza e gioventù resterà al loro fianco. Tutti i giovani partecipanti possono infatti richiedere a Scienza e gioventù un contributo finanziario per continuare la propria ricerca. Inoltre entrano a far parte degli Alumni, la rete che riunisce tutti i partecipanti negli anni al Concorso nazionale, permettendo a chi lo vuole di continuare a mettersi in gioco e di creare nuovi contatti. Ormai la rete degli Alumni raggruppa almeno tre generazioni di studiosi, dai primi partecipanti all’edizione 1974 agli straordinari giovani dei giorni nostri. Mariasole Agazzi mi ha confessato che tra le tantissime possibilità che le si sono aperte questa sia la cosa più bella di tutte: sentirsi membro di una comunità che ti permette di proseguire il tuo percorso con persone animate dallo stesso spirito di condivisione e sostegno reciproco.
Lei scrive che in un mondo che è cambiato molto, l’idea di coppia è rimasta pressoché immutata… Ovviamente le nostre idee sulla coppia si sono modificate negli ultimi decenni, ma credo che le famiglie siano cambiate molto di più. Quarant’anni fa, quando il divorzio era ancora illegale in molti paesi o comunque considerato immorale, l’opzione di risposarsi e di allevare i figli di qualcun altro non era ben vista, adesso nella società occidentale accade molto di frequente. Invece, ancora ci si aspetta che a crescere dei figli, concepiti non importa in quale relazione, siano due persone che si amano, che convivono e che praticano la monogamia. Una famiglia formata da tre adulti è ancora molto rara. Una coppia che coinvolgesse una terza persona nel proprio ménage e lo comunicasse ai propri figli verrebbe considerata deviata, oppure due amici che vivono e crescono insieme i figli senza coinvolgimento amoroso verrebbero considerati strani. Insomma, le famiglie sono cambiate molto, ma le coppie no e lo stesso accade con le aspettative sulla coppia.
Wikipedia
Martino Camponovo e Ramon Fitze del Liceo Lugano 2 sono stati premiati da Scienza e gioventù per il loro lavoro «Dalla Spirulina all’energia elettrica» e rappresenteranno la Svizzera nell’ambito della World Water Week di Stoccolma (www.sjf.ch)
Il suo libro sta facendo scalpore: Tamara Tenenbaum è una giornalista argentina di 33 anni, nata e cresciuta in una comunità ebrea ortodossa che in La fine dell’amore. Amare e scopare nel XXI secolo, pubblicato in italiano da Fandango Libri, si interroga sulla coppia, sui ruoli di genere, la maternità… Lo fa a partire da una bibliografia ricca, ma anche mettendo in gioco sé stessa, le sue relazioni e la sua storia personale.
In La fine dell’amore lei evidenzia che nell’educazione data alle ragazze e nella pornografia mainstream la violenza e il piacere sono connessi. Come pensa si possa spezzare questo legame? Come chiarisco nel mio libro, non sono necessariamente contraria all’erotizzazione della violenza, se c’è consenso. Da ragazzina guardando le soap opera ho imparato che un uomo che ti ama deve essere geloso e controllante. Oppure in un bar, un uomo per essere attraente deve essere aggressivo per sedurti, se non ci prova invece è effemminato o troppo tiepido. Credo che questo genere di stereotipi stiano cambiando e fortunatamente non c’è più tolleranza nei confronti della violenza senza consenso. Molte donne sanno che un uomo che non ti tratta alla pari non solo è violento, ma anche molto noioso. Credo che di questi tempi molte desiderino un partner che le aiuti, le incoraggi, con cui divertirsi. La verità più dolorosa nascosta dietro l’amore romantico è che una volta che si smette di confonderlo con il desiderio cieco
di non restare sole, è estremamente difficile trovare la persona giusta, sia per una donna sia per un uomo. In ogni caso riconoscere una relazione che si fonda sul rispetto e la parità è un buon inizio! Lei esprime un’idea secondo la quale nel nostro sistema occidentale vige un’etica della bellezza. Può parlarcene? È un concetto coniato dalla filosofa Heather Widdows. Semplificando, potremmo dire che un’etica è un insieme di valori, secondo cui alcune cose sono preferibili, perché sono corrette, giuste, buone, virtuose e altre invece sono sbagliate. Widdows sostiene che nell’epoca contemporanea la bellezza funziona esattamente così. La bellezza delle donne è ammirata da sempre, ovviamente, ma non è mai stata considerata un valore etico, con tanto di doveri o obblighi morali e i corrispettivi sensi di colpa o di orgoglio. Invece adesso molte donne si sentono in colpa di non fare il loro meglio per essere belle, perché non vanno in palestra o non curano la loro pelle, i capelli, non mangiano sano… Può spiegarci perché sarebbe molto meglio se ovunque venisse celebrata quella che definisce una maternità mediocre? Si tratta di un’idea della filosofa francese Elisabeth Badinter. Quando ho letto il suo libro Le conflit, la femme et la mère (Flammarion, 2010) ho subito pensato alle mie amiche che hanno figli e che si sentono costantemente in colpa di non essere delle madri perfette che stanno a casa, che cucinano solo verdure biologiche, che non fanno mai vedere la tv ai loro figli... Mi sono resa conto che molte pensano di essere delle cattive madri se hanno una vita propria, come se essere indipendenti, avere una carriera, delle amicizie, degli interessi e una vita sessuale potesse essere solo un ripiego, mentre i loro figli starebbero meglio con una sorta di schiava, disponibile 24 ore al giorno. È interessante, non solo perché sono cresciuta negli anni ’90 e mia madre era molto fiera del suo lavoro e un grande esempio per me e le mie sorelle, ma anche perché lei è una pediatra. Ho visto molti tipi diversi di madri a casa mia e non c’è davvero nessuna correlazione tra l’essere una madre sempre disponibile ed essere una buona mamma. Rinunciare alla propria vita non solo non è un bene per una donna, ma non lo è neanche per i suoi figli. Mi piace l’idea di celebrare la maternità come una condizione che è necessariamente imperfetta e incompleta, nessun blog di mamme dovrebbe convincere le donne del contrario! Veramente vogliamo tutte impazzire d’amore? Non sono sicura che tutte e tutti lo vogliano, ma io di sicuro sì! Penso che la cultura dominante educhi le donne a essere ossessionate dall’amore (molto più degli uomini) e che il desiderio di innamorarsi sia davvero complesso e contraddittorio: da una parte si vuole essere in due, per sentirsi al sicuro in un mondo di incertezze. Dall’altra, molti di noi vogliono anche la passione, il brivido dell’amore romantico. Quando, come me e molte della mia generazione, desideri la sicurezza e la compagnia, ma anche l’emozione delle nuove avventure, allora diventa difficile.
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SOCIETÀ
Operazione Timone Reportage
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Nel cuore delle forze speciali ticinesi: un’esercitazione dei Gruppi di Intervento della Polizia cantonale
Didier Ruef, testo e foto
È un giorno di primavera come un altro a Lugano. Alcune decine di turisti si godono il sole sul ponte superiore del Morcote, uno dei tredici battelli della flotta della Società di Navigazione del Lago di Lugano. Il battello segue il litorale, scivola accanto a Villa Favorita, i navigatori possono vedere Paradiso all’orizzonte, nella scia della nave. Mentre il Morcote lascia la baia di Lugano e si dirige verso Gandria, un uomo si alza improvvisamente dal suo posto e punta una pistola contro i passeggeri. Aggressivo e violento, urla e inveisce, terrorizzando i viaggiatori. Allertato dalle grida, un marinaio chiama il capitano. Quest’ultimo capisce subito la gravità della situazione, senza esitare chiama il 117, numero del centro di emergenza della polizia cantonale, e riferisce che il suo battello è confrontato con una presa d’ostaggi. Questo duro scenario in cui l’Eden si trasforma in inferno è stato immaginato dal capitano Andrea Cucchiaro, capo del Reparto Interventi Speciali della Polizia cantonale, per quella che è stata battezzata Operazione Timone. L’obiettivo dell’esercitazione è quello di simulare un evento reale che gli agenti di polizia d’élite potrebbero dover affrontare un giorno. L’esercitazione richiede un intervento rapido e mirato, con tempi precisi, contraddistinto dall’arrivo simultaneo dei gruppi d’intervento sul Morcote. Portati dall’elicottero che sorvola in perpendicolare il battello, gli agenti di polizia si calano lungo una corda per assicurare il ponte superiore della barca, mentre altre due squadre a bordo di gommoni accostano il Morcote intervenendo dalla poppa e guadagnando il ponte inferiore con apposite scale. Molti specialisti militari fanno risalire le origini delle forze speciali contemporanee ai diversi reggimenti d’élite attivi durante la Seconda guer-
ra mondiale, tra i quali il più famoso è certamente il SAS, lo Special Air Service britannico, passato alla storia per l’addestramento che fornirono a francesi e americani. Dopo il 1945, la maggior parte delle forze speciali furono sciolte, ma i conflitti di decolonizzazione e le crescenti tensioni della Guerra fredda portarono presto alla loro riattivazione. La tragica presa di ostaggi ai Giochi Olimpici di Monaco nel 1972 segnò una svolta in questo senso: da quel momento in poi la lotta contro il terrorismo è diventata centrale anche nell’attività delle forze
speciali, che hanno ampliato la gamma dei loro interventi. Fu in questi stessi anni, per la precisione nel 1974, che il Ticino creò le unità d’élite del Reparto Interventi Speciali. I loro membri sono riconoscibili dai caschi, dai giubbotti antiproiettile, dalle armi speciali in loro dotazione, ma soprattutto dal passamontagna che nasconde i loro volti, per proteggerne l’anonimato. I compiti di queste unità sono molteplici e vanno dalla cattura di criminali in condizioni rischiose all’intervento in casi di rapimenti, presa
d’ostaggi o allarmi bomba, scorta e protezione di personaggi pubblici e l’impiego di tiratori scelti. Mediamente i Gruppi di Intervento sono impegnati in un’operazione a settimana. Prossimo importante appuntamento: il 4 e 5 luglio per garantire la sicurezza durante la quinta conferenza sull’Ucraina a Lugano alla quale dovrebbe partecipare anche il presidente Zelensky. Mentre le esercitazioni come quella alla quale assistiamo sono organizzate circa quattro volte all’anno. Il gruppo, che attualmente conta una trentina di membri, tutti uomini, garantisce una capacità di intervento 24 ore su 24 ed è posto alle dirette dipendenze di un «triumvirato» composto dal consigliere di Stato Norman Gobbi, capo del Dipartimento delle Istituzioni, dal comandante della polizia cantonale Matteo Cocchi e dal capitano Andrea Cucchiaro, capo del Reparto Interventi Speciali. Tutti i membri delle forze speciali hanno completato la formazione di base della polizia, che in Svizzera dura due anni: il primo in una delle sei scuole di polizia del Paese, il secondo sul campo nei corpi della Polizia cantonale. Una volta prestato il giuramento, i poliziotti ticinesi possono
fare domanda per entrare nel Reparto Interventi Speciali. La maggior parte di loro lavora prima come agenti di polizia e matura anni di esperienza professionale per poi candidarsi al concorso interno. Per due giorni, i candidati sono sottoposti a prove scritte e fisiche, sessioni di tiro, sotto stress costante e con poco sonno, al fine di valutare le loro capacità professionali così come le loro capacità emotive e la resistenza mentale. Una volta intervenuti sul Morcote, la quindicina di agenti speciali mettono in sicurezza il battello e i suoi passeggeri, senza esitare a usare la forza e i mezzi coercitivi se l’assalitore resiste. Tuttavia, la protezione delle persone rimane la loro priorità, anche rispetto alla neutralizzazione stessa dell’aggressore. Una volta che il criminale è stato arrestato e non vi è più pericolo per i passeggeri, l’Operazione Timone finisce. Gli agenti di polizia e i loro istruttori si riuniscono per un debriefing tecnico, allo scopo di ripercorrere le varie fasi dell’intervento correggendo e migliorando eventuali aspetti tecnici e tattici. Informazioni Su www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica.
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Anno LXXXV 23 maggio 2022
SOCIETÀ / RUBRICHE
Approdi e derive
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azione – Cooperativa Migros Ticino
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di Lina Bertola
La vetrina del mondo e la scrittura nell’anima ◆
Ho scoperto recentemente che il 23 maggio è la giornata mondiale delle tartarughe. Una data scelta in modo ufficiale per promuovere conoscenza e rispetto verso questi antichi rettili, di cui alcune specie sono a rischio di estinzione. Incuriosita, sono andata ad informarmi meglio su questa consuetudine di riempire il calendario con giornate mondiali, spesso promosse e sostenute anche dall’ONU. Accanto alle date assegnate a temi dal richiamo ecologico (il 20 maggio, ad esempio, è stato dedicato alle api) esistono anche diverse giornate in cui si «festeggiano» sentimenti e valori, come la gentilezza, la carità, la tolleranza e il volontariato. Disseminate nelle diverse stagioni, possiamo però trovare anche dediche meno riflessive e più celebrative, ad esempio in ambito gastronomico, come la giornata della pizza, quella della pasta, e addirittura un «carbonara day». Potrei continuare elencando giornate mondiali dedicate
a diversi sport, dal tennis allo squash o alla bicicletta, insomma ce n’è per tutti i gusti. Succede così che un importante tema ambientale, su cui sarebbe opportuno prendersi il tempo per fermarsi a riflettere, giunti a mezzanotte debba lasciare la scena ad altre cose della vita, magari ad aspetti più ludici o ad abitudini prosaiche, sapientemente intercalate tuttavia da giornate dal sussulto etico, che ci richiamano ai valori della convivenza. La volontà di sensibilizzare su questioni fondamentali per la sopravvivenza del pianeta o di incoraggiare i valori della convivenza, si intreccia, tra le pagine del calendario, con il bisogno di promuovere prodotti di varia natura e comportamenti piacevoli, spesso alimentato da più o meno esplicite intenzioni pubblicitarie e commerciali. Il calendario delle giornate internazionali dedicate tende in questo modo a generare mescolanza e appiattimento di esperienze tra loro
assai diverse: al piacere per uno spaghettino al dente è concesso lo stesso spazio/tempo di quello assegnato a un pensiero gentile o a un gesto caritatevole. Alla bontà di un bel piatto di carbonara, lo stesso spazio di senso riconosciuto a un’azione buona per proteggere l’ambiente. Ogni aspetto della realtà, neutralizzato nella sua natura specifica, viene abbellito da narrazioni tipiche del linguaggio della promozione. La presenza frammentaria di questo magma indifferenziato di «eventi», sempre ben accolti, e pour cause, dai mezzi di informazione, mi fa pensare, a distanza di più di cinquant’anni, all’analisi di Guy Debord a proposito della società dello spettacolo. Il filosofo francese intendeva lo spettacolo non tanto come prodotto di cui fruire, quanto piuttosto come il modo in cui si strutturano le nostre relazioni; con incredibile lungimiranza aveva intravisto gli effetti di un mercato prossimo
venturo sempre più globale in cui tutti gli oggetti sarebbero diventati merci da esibire, da promuovere e da vendere. Oggetti tanto materiali quanto immateriali: anche l’acquisizione delle conoscenze offre crediti agli studenti, divenuti in qualche modo anche loro clienti, clienti del sapere. Tutto il reale sembra configurarsi come merce da esibire e da promuovere, sulla scia di quel processo inaugurale che fu, nel 700, la nascita delle vetrine. La vetrina è potente metafora dell’esibizione che si consuma in fretta nel susseguirsi di mode che fioriscono e subito tramontano. Scorrendo il calendario di queste ricorrenze ci accorgiamo di essere davvero invitati dentro una vetrina del mondo cui partecipare in modalità spettacolo. Ma quando la nostra attenzione è consegnata a un tempo frammentario che ci espone a un approccio consumistico alla vita, che ne è della sensibilizzazione, del suo compito etico?
Perché domani, sì, è un altro giorno, ma esistono per fortuna presenze e durate che riescono a prescindere dalla caducità effimera del calendario. Questo può accadere quando la memoria ci riconcilia con il nostro mondo interiore. Il giorno della Memoria, forse proprio per questo suo nome che evoca il luogo profondo della verità, si sottrae alla giostra che abita la superficie del tempo. Anche perché ci parla di una immane tragedia storica e la storia tiene viva la memoria, sempre più minacciata da mille distrazioni. Per concludere questa incursione nei rituali del calendario, mi piace allora ricordare la data di nascita di Platone che, secondo la cronologia dello storico Apollodoro (II sec. A.C.), dovrebbe cadere in questi giorni di fine maggio. Platone è il filosofo che sulla memoria ha lasciato un pensiero luminoso e intramontabile. La memoria, diceva il suo Socrate, è «scrittura nell’anima».
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Terre Rare
di Alessandro Zanoli
Barriere architettoniche ◆
«Ci si potrebbe chiedere dove condurrà tutto questo [aumento nella potenza dei calcolatori], e se sia possibile prevedere che in futuro ci sarà una crescita altrettanto rapida che in passato. Un’altra domanda valida è però se riusciremo a tenere questo ritmo. Io so già che la strozzatura nella crescita della velocità nella superstrada dell’informazione è l’utente terminale. Noi possiamo assimilare solo una certa quantità di informazione». Il problema siamo noi, in altre parole. Quanto affermato da Lawrence M. Krauss nel celebre libro La fisica di Star Trek è sempre un ottimo punto di partenza per una discussione sui limiti della cultura digitale. Ci è tornato in mente aiutando una signora anziana a capire come scaricare da Postfinance i documenti necessari alla compilazione della sua dichiarazione dei redditi. L’impressione che si ricava da un’esperienza del gene-
re è illuminante e anche un po’ drammatica. Chi è abituato da tempo a lanciarsi «alla disperata» nelle interfacce più complesse dei sistemi online sa che deve tener conto di varie lacune, trabocchetti, deficienze di progettazione, a cui deve rimediare con qualche guizzo di intuito e magari di fortuna. L’utente medio dei servizi telematici sa che, per male che vada, le cose prima o poi dovrebbero funzionare. Una persona che si trovi per la prima volta nel mondo digitale, perché costretta dalle odierne scelte istituzionali di ottimizzazione, va incontro però a sorprese e perplessità a volte del tutto paralizzanti. E le domande poste dall’utente «normale» sono a volte talmente banali, che sembra difficile nessuno possa averle prevenute. Ad esempio: perché nella lista dei pagamenti in sospeso non è chiaramente espressa «a parole» la possibilità di modifica-
La nutrizionista
re l’ordine inviato, opzione che invece è stata riassunta dall’iconetta di un quadratino giallo con tre righe sopra, senza nessuna spiegazione, tanto che è solo l’intuito che ce la fa cliccare? Perché il pulsante per l’invio dell’ordine di pagamento è piazzato in basso, in fondo alla pagina, quando molte persone, possedendo un computer portatile dallo schermo orizzontale finiscono regolarmente per averlo fuori dello spazio visivo e non si rendono conto di dover scorrere la pagina verso il basso? Queste sono due delle trecento domande che ci pone una persona per altri versi ragionevolissima e perfettamente in grado di occuparsi delle faccende della propria vita… almeno fino a ieri. E a noi, che osserviamo da vicino le sue difficoltà, viene immediatamente da renderci conto di quanto inutile sforzo siamo costretti a farci carico, ogni giorno, per comprende-
re la logica perversa che guida alcuni programmatori. Detto senza mezzi termini: è una forma di violenza di cui siamo oggetto. E non lo diciamo solo per noi, ma soprattutto per le persone che nei prossimi giorni, mesi, anni, dovranno confrontarsi con dispositivi hardware e con software progettati apparentemente con intento di semplicità e praticità d’uso, ma di fatto diventati estremamente complessi per eccesso di stilizzazione. Semplificando troppo, si complica. Vale la pena di pensarci: per favore, signori programmatori, ascoltate. Nella nostra società stiamo facendo di tutto per dare modo a ogni essere umano di avere accesso libero alle strutture alberghiere e ai servizi pubblici. Abbiamo finalmente integrato a livello urbanistico il concetto di barriera architettonica e ci impegniamo per poterlo imple-
mentare nelle nuove costruzioni e, soprattutto, per adattarvi quelle vecchie. Perché tutto questo non succede a livello informatico? A qualcuno è mai venuto in mente di chiedere alla signora di cui sopra se non si sarebbe offerta come collaudatore per il sito web di Postfinance? A qualcuno viene in mente che l’uso della tecnologia non è semplicemente comprare un tablet o un computer portatile ma anche avere a disposizione gli strumenti per capire come funzionano? L’impressione reale è che là fuori ci sia una giungla dove le cose procedono più o meno a caso. Un mondo da Tempi moderni in cui, invece di essere il sistema che si adatta all’utente, è l’utente che deve subire le manchevolezze della macchina. Soprattutto smettiamo di sentirci in colpa: non siamo noi degli incapaci, sono i programmi a non tener conto delle nostre difficoltà.
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di Laura Botticelli
Il pericolo nascosto nei budini iperproteici ◆
Ai miei figli di 4 e 11 anni piacciono molto i budini high protein, li si trova in qualsiasi negozio, a noi piacciono di due marche che hanno 15g o 20g di proteine e sulle 100-150 kcal, sono senza zuccheri e hanno più gusti. Li compro per me e mio marito quando abbiamo voglia di qualcosa di dolce. Mi è venuto però un dubbio se siano consigliati anche per i bambini: non hanno zuccheri aggiunti, sono poco calorici, ma effettivamente hanno un gusto diverso dai normali budini, saranno le proteine? Le proteine servono per crescere, giusto? Posso continuare a darglieli senza problemi? / Sara Effettivamente, gentile Sara, negli ultimi anni anch’io ho notato la comparsa di yogurt, budini, drink e altri prodotti arricchiti di proteine. Mi hanno un po’ spiazzata perché assomigliano molto a prodotti dietetici speciali che si usano in ospedale o in ambulatorio per aiutare determina-
ti pazienti. Trovare alimenti piuttosto simili sugli scaffali, acquistabili e consumabili liberamente da tutti, mi ha lasciata un po’ perplessa e preoccupata perché non sono consigliabili a chiunque e i bambini fanno parte di quest’ultima categoria. Le proteine sono il principale elemento costitutivo del corpo. Aiutano a formare i muscoli, produrre ormoni, rafforzare la pelle e le ossa e a trasportare i nutrienti. I bambini vivono una fase di crescita, e i ragazzini spesso fanno pure sport, per cui è facile giungere alla falsa convinzione che potrebbe essere indicato assumere più proteine in questa fase della vita, ma attenzione, perché anche per loro il troppo stroppia. Un consumo di proteine extra, in particolare se derivate da integratori proteici, non porta a un maggiore sviluppo muscolare, mentre può invece stressare fegato e reni, oltre ad aumenta-
re il rischio di disidratazione. Si deve anche considerare che nella maggior parte dei paesi occidentali il consumo proteico è già due o tre volte superiore al necessario, e per questo, a maggior ragione, un ulteriore surplus non è indicato. Il fabbisogno proteico raccomandato dall’Ufficio federale della sanità pubblica per la popolazione varia a seconda dell’età: per suo figlio di 4 anni è consigliato un apporto di 0,86 g/kg di peso corporeo/giorno, mentre per l’altro figlio di 11 anni di età, il fabbisogno di proteine varia in funzione del sesso, ossia 0,91-0,85 g/kg di peso corporeo/giorno per i maschi e 0,900,82 g/kg di peso corporeo/giorno per le femmine. Che cosa significa in termini concreti? Le farò un esempio: se suo figlio più piccolo pesa circa 20 kg, dovrebbe assumere 17,2 g di proteine in un giorno. Un budino iperproteico con 20 g di proteine, da solo, supera
già la quantità indicata. Inoltre, sicuramente suo figlio non mangia solo il budino, magari beve il latte al mattino, poi mangia un po’ di pollo a pranzo e formaggio a cena: già solo così avrà più che raddoppiato le quantità di proteine consigliate. Oltre agli effetti secondari che ho citato sopra un apporto eccessivo di proteine nei bambini piccoli è stato messo in relazione all’obesità in età adulta, per non dire del fatto che un consumo troppo elevato di proteine all’età di 5-6 anni può portare alla pubertà precoce. Alla sua domanda se può continuare a darglieli senza problemi, come avrà intuito, le rispondo di no, non ne hanno necessità, anzi, attenzione davvero a non esagerare. Se piacciono i budini o gli yogurt è meglio prepararli in casa: anche se mette meno zucchero di quello indicato sono sempre buoni; oppure può frullare latte o yogurt
naturale con pezzi di frutta per renderli più dolci e saporiti senza esagerare quindi nell’apporto di zucchero o proteico. Per quanto riguarda le questioni secondarie: il sapore particolare è dato effettivamente dalle proteine extra. Lei e suo marito potete consumare questi prodotti, ma senza dimenticare che anche per gli adulti vale la regola del non esagerare: troppe proteine fanno male anche a noi. Io li consumerei dopo una giornata «vegana» o «vegetariana», ovvero quando, in pratica, non ha assunto nessun’altra proteina di origine animale, oppure se ha mangiato solo uova o latticini. Informazioni Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 23 maggio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino 15
TEMPO LIBERO ●
La rampicante Ipomea È nota anche con il nome «bella di giorno», poiché i suoi fiori si richiudono al tramonto
Come ricorda il Decameron Nella Firenze del 1300 esistevano precise regole dietetiche per il consumo del vino
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Colora ma non altera il gusto Una delle spezie più versatili e amate in molte cucine è l’allegra e vivace curcuma
Crea con noi Una caccia al tesoro per divertirsi nella natura: un divertimento per bambini di ogni età
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C’era una volta il flirt Tra il ludico e il dilettevole forse ha perso la… poesia
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Ciò che un tempo era considerato una forma di gioco sensuale, oggi, nell’epoca digitale,
Sebastiano Caroni
All’inizio del suo libro Storia del flirt (Editori Riuniti, 2001), la storica Fabienne Casta-Rosaz si chiede se il flirt sia o meno un gioco innocente. Dipende dai punti di vista, risponde l’autrice, ma intanto la domanda fotografa già i lineamenti di un fenomeno prettamente moderno. Il flirt, come qualsiasi altra forma di gioco, presta il fianco all’ambivalenza che nasce nel momento in cui, come nei di giochi di ruolo, ci improvvisiamo diversi dal solito, rompendo i nostri schemi abituali. Anche il flirt, in fondo, è una sorta di gioco di ruolo, motivato dal desiderio di evasione, dalla rottura della monotonia, e dalla ricerca di un brivido. Inoltre, come in quei giochi in cui ci si mette alla prova, e si mette alla prova l’altro, il flirt implica e incoraggia un certo margine di rischio, direttamente proporzionale al piacere ricercato. Tuttavia, riconoscere nel flirt un fenomeno prettamente moderno non è affatto evidente, dal momento che i giochi di seduzione, nelle loro svariate forme, sono parte integrante della nostra storia, e rinviano agli esiti creativi previsti dai ruoli sociali e dall’uso del linguaggio, tanto verbale che non-verbale. La tesi, sostenuta da Casta-Rosaz, che fa di quest’approccio un fenomeno moderno, si giustifica altrimenti, seguendo l’emergenza
e lo sviluppo storico del termine specifico. Secondo Casta-Rosaz «la parola flirt appare negli ambienti borghesi e aristocratici verso la metà del XIX secolo». Inizialmente, prosegue la storica, «quello che si indica col vocabolo flirt non era allora che un fremito, un brivido di sensualità appena confessato. Ma esso annuncia – i moralisti della Belle Époque lo hanno ben intuito – la fine di un mondo e l’inizio di una nuova era». Una nuova era che, aggiunge Casta-Rosaz, va di pari passo con lo sviluppo di un’educazione più paritaria e con la graduale emancipazione sociale, culturale e politica della donna. Se il termine flirt nel suo senso attuale di amoreggiamento ludico senza vincoli affettivi si impone in modo diffuso dalla seconda metà del XIX secolo, la sua storia affonda le radici nei secoli precedenti. Secondo una prima linea etimologica, all’origine dell’attuale vocabolo ci sarebbe la locuzione francese conter fleurette, nata nel XVII secolo con il significato di tenere discorsi particolarmente frivoli. In epoca successiva nasce poi il verbo fleureter, che mantiene il senso della locuzione da cui deriva. A dare ulteriore plausibilità a questa linea etimologica ci penserà anche il trattato di Horasse Raisson intitolato Code galant ou art de conter fleurette pubbli-
cato in Francia nel 1825, in cui l’autore racconta di una certa Fleurette, giovane donna che visse nel XVI secolo e di cui il re di Francia Enrico IV si sarebbe, in piena adolescenza, perdutamente innamorato. Ciò, peraltro, lascia intendere che conter fleurette già in origine possedeva quella sfumatura semantica associata all’amoreggiare per gioco. Ma c’è un’altra linea di sviluppo, che spiega come mai sia stato il termine inglese to flirt a imporsi e a entrare stabilmente in molte altre lingue, nonostante un senso originario del vocabolo piuttosto lontano dalla sua moderna accezione. Il verbo inglese to flirt, già attestato nel tardo medioevo, rinvia infatti all’atto di muoversi in modo contratto, compiendo gesti improvvisi e movimenti a scatti. Un’indagine etimologica più attenta rivela però come, a un certo punto, il termine abbia assunto nuove e inaspettate connotazioni. Nella seconda metà del XVII secolo, un popolare canto marinaresco alludeva all’atto femminile di muovere il ventaglio (to flirt the fan) non tanto per farsi aria, quanto per inviare agli uomini dei messaggi romantici codificati. Da qui in poi, si suppone, il termine assume e generalizza quelle sfumature giocose e cristallizza quegli atteggiamenti romantici che ne
caratterizzano l’accezione conosciuta ancora oggi. Come spesso succede con le novità che provengono dall’estero, quando nella Belle Époque il sostantivo inglese flirt si diffonde in modo significativo sul continente europeo, il termine viene accolto con un misto di entusiasmo e preoccupazione. Con gli anni, e con l’imporsi di una società fondata sul consumismo e il conformismo, la carica sovversiva e il carattere ludico di questa pratica vengono progressivamente addomesticati. Il sito di una nota rivista femminile, per esempio, afferma che «flirtare è una piccola guerra d’amore, un gioco di cui godere con leggerezza, ma anche un’arte che va sperimentata e consolidata con molto esercizio». A sentire queste parole si direbbe che il flirt, più che un piacere estemporaneo e imprevedibile, sia un atteggiamento da allenare, un dovere da coltivare con disciplina. Per flirtare con successo, continua il sito, conviene seguire cinque semplici consigli: «essere intraprendente ma non troppo, essere una seduttrice non verbale, essere preda che lascia tracce di sé, avere autostima, essere parte attiva del gioco». Ci si potrebbe chiedere se, nel mondo patinato della rivista, flirtare serva solo a perfezionare la propria autostima oppure se, all’opposto, non sia
piuttosto un vuoto esistenziale, e una fragilità identitaria, a motivarne il regolare esercizio. Non è difficile immaginare, a questo punto, che i consigli su come flirtare con successo si trovino con una certa frequenza anche sulle riviste destinate a un pubblico maschile, magari conditi con istruzioni dettagliate su come scolpire gli addominali. Per fortuna, a restituirci la poesia del flirt ci pensano prodotti culturali di ben altra fattura, come il recente film Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson. Ma c’è chi di seduzione discute con spirito critico, come la filosofa argentina Tamara Tenenbaum ne La fine dell’amore (Fandango, 2022; vedi articolo di Laura Marzi, a pagina 8), un saggio lucido e sensibile sull’amore contemporaneo. Parlando dei rapporti amorosi in epoca digitale, Tenenbaum nota en passant come nelle popolari app di incontri, «quel che hai davanti non è una persona, ma un profilo, e un profilo che non dice quasi nulla, con il quale non interagisci, e i cui gesti non è necessario leggere e capire: il profilo non bisogna sedurlo, né farlo sentire sicuro, a suo agio. Devi solo decidere (…) se comprare o non comprare». A questo punto, viene quasi voglia di abbandonarsi alla nostalgia di un tempo passato in cui la seduzione veniva affidata al movimento di un ventaglio.
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TEMPO LIBERO
Un allegro muro fiorito Mondo verde
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A partire da maggio le colorate campanelle dell’ipomea tinteggeranno ringhiere e pergolati
Anita Negretti
Se chiudo gli occhi ancora posso vederlo: un robusto grigliato di legno, alto circa tre metri, coperto quasi interamente da un magnifico e inusuale rampicante, l’ipomea (Ipomoea), che cresceva rigogliosa, carica di campanelle blu mare e creava un contrasto magnifico con la parete color giallo zafferano alle sue spalle. Ero a Marino, sui colli romani, a trovare una cara amica vivaista e là, raggiungendo a piedi casa sua, ho potuto vedere quel bel rampicante nel pieno della fioritura. Se al centro e sud Italia, così come in Grecia, Spagna e Portogallo, le ipomee sono molto usate e hanno una crescita spontanea, da noi, con inverni più freddi, hanno bisogno di alcuni accorgimenti per poter crescere rigogliose e, infatti, il graticciato romano per me così inusuale era per la mia amica scontato e quasi al limite del banale da notare. Non rustiche, le ipomee soffrono il freddo già a 7°C e le specie perenni non riescono a trascorrere indenni i mesi freddi se non vengono portate al riparo in veranda o trattate come annuali. Se coltivate in vasi, non eccessivamente ampi, basterà seminarle ai primi di aprile all’aria aperta o in piccole serre riscaldate già a febbraio – marzo, trapiantando in questo caso le giovani piantine quando avranno raggiunto i quattro-cinque centimetri di altezza.
Un buon terriccio fertile e bagnato con regolarità garantirà una crescita veramente rapida a questi rampicanti dai lunghi fusti erbacei. Le prime foglie cuoriformi compariranno già dopo due-tre settimane dalla semina e i fusti, allungandosi, si attorciglieranno sui vari supporti che troveranno, creando prima un vero muro verde di foglie e, dalla fine di maggio, un allegro muro fiorito. Sono conosciute anche con il nome «belle di giorno», poiché i loro fiori si richiudono con l’arrivo del tramonto, fatta eccezione di Ipomoea alba, detta invece «fiore di luna» che apre i suoi boccioli bianco latte e profumati la notte, producendo tralci che possono raggiungere anche i cinque metri se piantati in piena terra in una zona soleggiata e riparata del giardino, ad esempio davanti a un muro esposto a sud. Molteplici sono gli usi delle ipomee: per coprire un pluviale antiestetico, fatte crescere lungo una rete di recinzione, oppure per rivestire la ringhiera di un balcone a cui regalerà colore a basso costo, a patto di ricevere acqua quasi ogni giorno se coltivate in vaso. Della famiglia delle Convolvulaceae, comprende più di cinquecento specie, quasi tutte originarie delle foreste di America e Asia. La più classica è Ipomoea indica, dalle grandi foglie trilobate e fiori blu con l’interno
Due belle campanelle di Ipomoea indica. (Catlovers)
rosa, che possono arrivare a quattordici centimetri di diametro, con boccioli che incominciano a schiudersi dai primi giorni di luglio fino a fine novembre. I rami riescono ad arriva-
re a quattro-cinque metri di lunghezza accestendosi continuamente fino a creare un vero e proprio muro verde. Ipomoea purpurea ha invece le classiche foglie cuoriformi e fiori viola-
cei, ma comprende molte varietà, con campanelle dai vari colori, come «Arlequin» bianchi e pennellati di rosa o celeste, «Kikyo» dai colori quasi fluo e petali dai lobi appuntiti, o ancora, l’insolita «Cameo Elegance» che ha campanelle fucsia e foglie variegate di bianco crema. Anche la specie Ipomoea imperialis (commercializzata con il nome di Ipomea nil), originaria dell’Africa tropicale, presenta numerose varietà, come la «Chocolate», «Blanca» e «Scarlett O’Hara» dalle trombette rosso brillante e la deliziosa «Mount Fuji» che racchiude, nei suoi semi misti, piante di ipomea dai fiori azzurri, blu, fucsia, viola e rosa, tutti bordati di bianco. Per chi non si accontenta e vuole coltivare qualche rarità nel proprio giardino od orto, propongo di cercare semi di Ipomoea lobata, conosciuta anche con il nome di Mina lobata, che presenta fiori totalmente differenti da tutte le altre: tubolari e a grappolo, ha nuance gialle e rosso porpora. Un’altra idea è quella di piantare nell’orto Ipomoea batatas, più conosciuta come patata dolce o patata americana la cui radice è un tubero commestibile dalla buccia viola, marrone o bianca in base alla varietà e viene utilizzata in cucina bollita, fritta o al forno, mentre su larga scala viene coltivata per la produzione di farine, amido, alcol e per produrre mangimi animali. Annuncio pubblicitario
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TEMPO LIBERO
Sopron, l’estetica del confine Reportage
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Scherzosamente soprannominata «Shop-ron», questa città ungherese appare come un’enclave austriaca
Simona Dalla Valle, testo e foto
Dal finestrino del treno si osservano paesaggi solitari, composti in alternanza da boschi, campi coltivati e prati costellati da turbine eoliche. A bordo nessuno controlla i documenti di identità, la sensazione è quella di viaggiare in un altro punto dell’Austria, e non di essere già in Ungheria. Del resto, la città di Sopron, se si considerano la conformazione del territorio e i confini tra le due nazioni, è quasi un’enclave in territorio austriaco e mantiene il suo nome in tedesco un po’ sprezzante, Ödenburg, letteralmente «città desolata». In poco più di un’ora di viaggio, da Vienna si raggiunge la stazione, alle cui spalle rispetto al centro si estende la zona collinare detta Lövereck, con le sue foreste di abeti, querce e castagni. Un lungo viale porta al centro storico, fino a costeggiare la Rondella, l’antico bastione a ridosso della cinta muraria. Nelle stradine intorno alla piazza principale Fő tér si trovano numerosi edifici sacri, tra cui la Colonna della Trinità in stile barocco, l’antico monastero benedettino e, più nascosti, alcuni edifici in stile liberty. Situata a una sessantina di chilometri da Vienna e 220 da Budapest, dagli anni Novanta la città funge da meta prediletta per lo shopping dalla vicina Austria, ed è scherzosamente soprannominata «Shop-ron» (che corrisponde, tra l’altro, alla pronuncia in ungherese). I nomi delle vie del centro sono scritti in due lingue, ungherese e tedesco, così come le insegne dell’ennesimo centro di bellezza o studio dentistico. Verrebbe da chiedersi se non vi siano più dentisti che persone, in una città che conta oltre sessantamila abitanti. Ovunque si guardi spunta l’insegna di uno Zahnarzt o Fogorvos («dentista» in tedesco e ungherese) o Fogászat («odontoiatria» in ungherese), che offrono servizi di medicina estetica e trattamenti di bellezza a prezzi competitivi rispetto a quelli dei paesi dell’Unione. Sopron è considerata una delle città più antiche dell’Ungheria, e questo è particolarmente evidente nelle strade del centro storico, dove si annidano case patrizie medievali e barocche. Lo storico romano Plinio il Vecchio (23 d.C.–79 d.C.) ne documentò la presenza nella sua Naturalis Historia con la designazione di Scarabantia o Scarbantia, ma nella zona furono rinvenuti reperti risalenti all’età del rame, del bronzo e del ferro come urne e oggetti di culto. L’area intorno a Sopron fu conquistata dai Romani sotto il dominio di Augusto (63 a.C.– 14 d.C.) o Tiberio (42 a.C.–37 d.C.), i quali possono essere considerati i fondatori della città. L’importanza dell’insediamento derivava dalla sua posizione all’incrocio di importanti vie militari e commerciali, motivo per cui i romani lo dichiararono municipio nel I secolo. Il nome «Sopron» potrebbe risalire all’antico nome di persona ungherese Suprun e fu documentato per la prima volta nel 1000-1038, quando il «castri comitatus Supruniensis» fu occupato da tribù magiare che fondarono qui un castello. Durante il periodo delle migrazioni si alternarono Quadi, Unni, Ostrogoti, Longobardi, Àvari e Slavi e la fortuna della città attraversò fasi alterne fino al 1541, quando divenne parte del Regno d’Ungheria dominato dagli Asburgo. Già nel 1735, l’Università dell’Ungheria occidentale aprì le sue porte a Sopron, rendendola una popolare cit-
Le strade del centro di Sopron sono indicate in ungherese e in tedesco; sotto, decorazione della piazza di fronte alla Chiesa della parrocchia luterana di Sopron e veduta di Sopron dalla torre del Fuoco; tutto a destra la torre del Fuoco (Tüztorony); in basso, abitazioni della contea di Sopron.
tà studentesca. Nel XIX secolo furono fondate aziende importanti come la fabbrica di zucchero di János Rupprecht e Kristóf Kühn, la fonderia di campane della famiglia Seltenhofer, la distilleria di József Zettl o la fabbrica di liquori di Vilmos Hillebrand. Nel 1842 aprì la cassa di risparmio Soproni Takarékpénztár, seguita dalla filatura di seta. Il 1875 vide la fondazione della compagnia ferroviaria austro-ungarica Raaberbahn AG, tuttora operativa. Dopo la prima guerra mondiale, la città passò inizialmente all’Austria, ma con il referendum del 14-16 dicembre 1921
quasi il 73 per cento della popolazione di Sopron votò per rimanere parte dell’Ungheria. Le autorità rimasero tuttavia bilingui fino al 1946. Fin dalla sua fondazione, la città fu considerata una sorta di ponte tra l’Ungheria e i vicini occidentali. Lo stemma della città è formato da uno scudo con un sigillo d’argento raffigurante un castello, una testa femminile con una corona e una testa maschile con una barba rigogliosa, alla base dello scudo un ramo d’ulivo. L’iscrizione del sigillo «Sopron Civitas Fidelissima» fu aggiunta dal Parlamento nel 1922 dopo il referendum, per ricor-
dare la fedeltà di Sopron all’Ungheria. Anche la Porta della Fede, posta sul lato sud della Torre del Fuoco, ricorda l’importante momento storico. La composizione scultorea, raffigurante i cittadini di Sopron nell’atto di rendere omaggio alla figura mitologica dell’Hungaria, è opera di Zsigmond Kisfaludi Strobl. La base quadrata della torre, costruita sulle rovine delle mura romane e ristrutturata una decina di anni fa, fungeva da ingresso settentrionale delle mura cittadine dal XIII secolo. La forma caratteristica della torre attuale risale alla ricostruzione avvenuta in seguito all’incendio del 1676. Le guardie sorvegliavano le strade della città dall’alto del ballatoio, suonando la tromba ogni quarto d’ora e segnalando eventuali fiamme con bandiere colorate di giorno e lanterne di notte. L’urna usata nel referendum e le schede elettorali in due colori (blu e di carta sottile per l’Ungheria, gialla di cartone spesso per l’Austria) sono parte dell’esposizione permanente presso il museo Storno-haz. Per commemorare il centenario del referendum, che cade quest’anno, la Magyar Nemzeti Bank ha emesso una moneta commemorativa di forma quadrata in due versioni: una in argento, con un valore nominale di 15mila fiorini ungheresi (poco più di 43 franchi) e una in me-
tallo, con un valore nominale di 3mila fiorini (poco meno di 9 franchi). Se sul dritto vi è il ritratto di Mihály Thurner, il sindaco di Sopron che ha avuto un ruolo importante nella preparazione e nello svolgimento del referendum, il rovescio onora la memoria del plebiscito di Sopron con la rappresentazione di un gruppo di elettori. Chissà quante di queste monete ci vogliono per pagare un’otturazione? Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
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TEMPO LIBERO
Nel Decameron della Firenze medievale Il vino nella storia
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L’ironia di una bevanda il cui consumo ha trovato spazio anche in alcune delle novelle boccaccesche
Davide Comoli
I vini che compaiono nei testi letterari della Toscana medievale diventano una chiave di lettura del ruolo che essi ricoprivano nella vita quotidiana. Si può notare come il vino sia collegato a tre classi di valore. La prima è quella delle virtù terapeutiche e mediche: il vino viene infatti considerato come elemento in grado di mantenere la salute. La seconda classe è quella dei valori sociali: esistono infatti vini adatti per determinate celebrazioni, vini per la festa e vini popolari. La terza classe comprende quei vini capaci di intaccare le buone norme, dando origine a scene di lussuria e sfrenatezze varie, vini quindi che per le persone assennate vanno evitati. Si capisce dagli scritti che il bevitore medievale fiorentino aveva una scelta grande di vini. Un ritratto della vita fiorentina dell’epoca è rappresentato nel Decameron, l’opera di Giovanni Boccaccio composta da cento novelle scritte tra il 1349 e il 1353. La classificazione dei vini era all’epoca un’operazione complessa: l’aspetto fondamentale tra vini forti e vini deboli passava attraverso la concezione degli «umori», dove assumeva una forte rilevanza l’opposizione caldo/freddo, cui si sovrapponeva e quasi sostituiva l’opposizione organolettica dolce/acido. La corretta scelta del vino si doveva quindi basare sull’analisi dello stato sanitario del bevitore (età e condizioni di vita), ma si teneva conto anche della stagionalità, così pure del regime alimentare. Nel trattato di dietetica di Michele Savonarola (sembra sia stato lo zio del più famoso «Girolamo»), si trova chiaramente descritta la classificazione dei vini dell’epoca. I vini «piccoli» (cioè poco alcolici/deboli) sono caldi al «primo grado», i vini più potenti sebbene ancora relativamente «piccoli» sono caldi al «secondo grado», le Vernacce e le Malvasie (vini dolci e più alcolici) sono caldi al «terzo grado», l’acquavite o acqua ardente è calda al «quarto grado». Su queste basi il Savonarola conclude scrivendo che «il vino, prima che un piacere, diventa
Dipinto di John William Waterhouse, A tale from the Decameron (Una novella dal Decamerone), 1916.
un sostegno fondamentale per la buona salute, che conforta, corrobora, difende l’organismo». Esempi di queste regole, non sempre seguite, vengono presentate dal Boccaccio (1319-1375) nell’epidemia di peste che colpì Firenze nel XIV sec. nella prima giornata nel suo Decameron. Alcuni, «racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo», cercano di proteggersi dal morbo seguendo principi morigerati, isolandosi dagli infermi e utilizzando il vino seguendo le regole della dietetica medica del periodo in modo «temperato». Altri invece di opinione opposta preferiscono godersi la vita per quanto possibile e di «bere assai (…) e così come il dicevano mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura» Nella Firenze del 1300 esistevano comunque precise regole dietetiche per il consumo del vino. Così in estate si consigliavano vini «freddi», cioè vini deboli eventualmente con aggiunta
d’acqua, «rinfrescare alquanto con freschissimi vini» troviamo sulle pagine del Decameron. In inverno al contrario sono consigliati vini «caldi» più forti e più dolci come le Vernacce e le Malvasie, perché si pensava che questi vini avessero la virtù di scaldare il corpo in inverno, di suscitare l’appetito, di scaldare lo stomaco e di facilitare la digestione. In quel periodo la teoria di collegare il vino alle condizioni atmosferiche era condivisa da tutti e non solo dai medici. Infatti nelle fonti mediche medievali spesso si trova il consiglio di servire il vino «secondo quello che il tempo richiede». Nel Decameron il potere riscaldante e corroborante del vino «caldo» è sempre presente. Nella decima novella della seconda giornata, si racconta del giudice pisano Riccardo di Chinzica «magro, secco e di poco spirito» che dopo la prima notte di nozze passa quasi all’altro mondo, tanto che alla mattina «convenne che con Vernaccia e confetti ristorativi e con altri argomenti nel mondo si ritornava». Il vino dolce e alcolico era il più costoso e quindi più prestigioso rispetto ai vini deboli e aciduli. Come ta-
li questi vini erano segni di ricchezza e abbondanza, collegati quindi a occasioni solenni quali matrimoni oppure banchetti in onore di ospiti illustri. Sempre nel Decameron, in molte novelle si respira l’atmosfera di sfarzosi banchetti dove il «vin Greco», la «Malvasia», la «bella e buona Vernaccia», vengono offerti in «scatole di confetti e preziosissimi vini», dove «bevendo e confettando» gli ospiti si riconfortano bevendo «vini finissimi» che accompagnano grossi capponi. In una novella il Boccaccio racconta che gli ambasciatori papali in missione a Firenze insieme a messer Geri Spina, passano ogni mattina davanti alla bottega del fornaio Cisti, divenuto ricchissimo, e che viveva in modo splendido. Fra le tante cose buone possedeva «i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero nel contado». Cisti, per onorare gli ambasciatori del papa, offre il suo buon vino bianco scelto, travasandolo da un piccolo orcioletto in «quattro bicchieri belli e nuovi». Oltre a riscaldare il sangue i vini bianchi dolci e potenti sono immancabilmente collegati alla trasgressione e alla lussuria.
Quando il Boccaccio descrive la casa di campagna dove si rifugiano le sette fanciulle e i tre giovani che per dieci giorni racconteranno a turno le novelle del Decameron, a proposito di vini dolci dirà: «con volte di preziosi vini: cose più atte a curiosi bevitori che a sobrie e oneste donne». Più avanti aggiunge «non è bello per i giovani correre alla lussuria bevendo Malvasia fin dal mattino, ma per le donne è ancora peggio», come mostra la novella della figlia di Soldano di Babilonia, che in una cena beve vari vini mescolandoli, tant’è «più calda di vino che d’onestà temperata» e senza vergogna accetta proposte sconvenienti. Con il suo repertorio di situazioni, tipi e burle narrate di volta in volta da Panfilo, Neifile, Filomena, Dionèo, Fiammetta, Emilia, Filòstrato, Lauretta, Elissa e Pampinea, il Decameron ha conservato nei secoli la sua fama di libro «ameno». Anche gli ordini religiosi non si sottraggono alle canzonatorie, infatti il Boccaccio lancia strali contro i frati che appaiono grassi e coloriti, che possiedono scorte opulente di leccornie come «alberelli di lattovari e d’unguenti colmi, di scatole di vari confetti piene, d’ampolle e di guastadette con acque lavorate e con olii, di bottacci di malvagìa e di greco e d’altri vini preziosissimi traboccanti, in tanto che non celle di frati, ma botteghe di speziali o d’unguentari appaiono più tosto a’ riguardanti». Le regole di assunzione dei vini vengono ancora chiamate in causa nelle ultime pagine del Decameron, dove lo scrittore vuole rispondere a probabili accuse contro la morale contenute nelle novelle, Boccaccio difende la propria opera servendosi di paragoni con il vino: «Chi non sa che è il vino ottima cosa a’ viventi (…) et a colui che ha la febbre è nocivo? Direm noi, perciò che nuoce a’ febbricitanti, che sia malvagio? (…) Ciascuna cosa in sé medesima è buona ad alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva di molte; e così dico delle mie novelle». Annuncio pubblicitario
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Valida il 27 e 28 maggio 2022
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TEMPO LIBERO
L’aroma terroso e mieloso della curcuma Gastronomia
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Una spezia adatta a tutte le preparazioni di carne e pesce, come pure per arricchire paste fresche e dolci
mile al miele, la rende adatta a tutte le preparazioni di carne e pesce, come pure per preparare paste fresche e dolci. Il suo sapore sempre discreto colora ma non altera il gusto. Si trova essiccata e già macinata o sotto forma di radice fresca (quest’ultima va però conservata in frigorifero perché la curcuma perde molto velocemente le sue proprietà aromatiche). Peraltro, la radice fresca grattugiata può essere un valido alleato delle marinature. In virtù della sua volatilità, la curcuma non va fatta cuocere a lungo: dopo circa quindici minuti di esposizione al calore gran parte della curcumina viene distrutta, per questo è meglio non aggiungerla subito, anzi. Io, da estremista, la aggiungo a un minuto dalla fine della cottura di un piatto. La utilizzo veramente dovunque. Ad esempio, nei risotti di mare, e in quelli di carne, e pure nei risotti di verdure. Non ne faccio mancare nemmeno negli spezzatini di carne, e men che meno nei ragù. Ma il primo uso che ne faccio è legato a quella che per me è la salsa più universale che ci sia (sì, anche più del ketchup): parlo del relish, che metto dovunque. Eccovi la mia versione base. Tritate 2 cetrioli, metteteli in un colino, spolverateli di sale e fateli scolare per almeno 2 ore, poi sciacquateli bene. In un pentolino unite i cetrioli, ½ gambo di sedano verde tagliato a dadini, 40 ml di aceto di vino bianco o di mela, un bicchierino di acqua, 40 g di zucchero meglio se di canna e poco sale, quindi portate al bollore e cuocete per 10 minuti, mescolando. Aggiungete 1 punta di fecola di patate per addensare a puntino e mescolate il tutto con 1 pizzico fino a 1 cucchiaino raso di curcuma (la quantità dipende dai gusti). Servitela a temperatura ambiente, in tutti gli utilizzi del ketchup. La si trova anche già pronta, ma è così facile da farsi che… meglio farla.
Come si fa?
(Pixabay.com)
Chi segue questa rubrica sa bene quanto ami le spezie: arricchiscono qualsiasi preparazione senza prevalere, salvo alcune eccezioni, sia volute – tipo il mitico filetto al pepe – sia non volute (capita talvolta, cucinando a spanne, che se ne mettano troppe). Esse rappresentano per i cuochi un vero jolly, con tanto di vantaggio extra: la più parte non costano tanto; fatto che vale sia per le spezie in purezza sia per le miscele, tipo curry, masala e tante altre; le principali eccezioni costose sono lo zafferano, soprattutto quello molto buono, e la vaniglia. Qualche giorno fa, durante un noioso viaggio in auto intrapreso con due amici, abbiamo ingannato il tempo facendo un gioco: quale fosse la spezia più amata da ciascuno di noi. Tra le tante, come regola, abbiamo escluso dalle risposte soltanto il pepe, che è talmente onnipresente da posizionarsi «fuori classifica»: a tal proposito vi ricordo che esistono cinquecento tipi diversi di piper nigrum e oltre duecento «finti pepi» cioè parti di piante che hanno un sapore «peposo» pur non essendo piper nigrum – finti ma spesso buoni. Tant’è che, per la cronaca, i tre pepi che amo e utilizzo di più sono proprio «finti pepi», e per la precisione: il Timut del Nepal, il Tasmania e il Voatsiperifery del Madagascar. La mia risposta? La curcuma, per la quale stravedo. Originaria dell’Asia è una spezia ricavata dalla riduzione in polvere della radice di una pianta erbacea simile allo zenzero. La curcuma è l’ingrediente fondamentale del curry al quale dona il suo caratteristico colore, e del masala, che è simile al curry ma non piccante – onnipresente nella cucina indiana, è un mix di spezie che ogni famiglia indiana mescola «a modo suo», per cui ne esistono centinaia di milioni di versioni diverse. Il suo aroma terroso, mescolato a un profumo fresco e intenso molto si-
(Pixabay.com)
Allan Bay
Vediamo come si fanno due super piatti per chi ama le frattaglie. Gulasch di Bergese (ingredienti per 4 persone). Tagliate a pezzi 600 g di coda di bue, a dadi 250 g di costata di manzo, a dadi 300 g di cuore di manzo e a quadretti 100 g di coten-
ne. Mescolate le carni. Sciacquate 700 g di cipolline. In una casseruola di ghisa mettete sul fondo un po’ di lardo tagliato a pezzetti e burro a fiocchetti. Fate uno strato di carni, spolverizzate di sale e paprika, coprite con cipolline, spolverizzate, e così di seguito, spolverizzando sempre, fino a esaurimento degli ingredienti. Finite con le cipolline. Cuocete coperto a fuoco dolcissimo per 4 ore, mescolando e unendo di tanto in tanto acqua bollente. Servite con patate bollite. Cima farcita di frattaglie (per 4 persone). Fatevi preparare dal macellaio 800 g di punta di petto di vitello con la sacca pronta. Per il ripieno rosola-
te in burro 200 g di frattaglie a piacere, tritatele e amalgamatele con 1 cucchiaio di piselli, 1 manciata di pinoli, 1 pizzico di maggiorana, 20 g di funghi porcini secchi messi a mollo per 15’ e strizzati, 2 cucchiai di grana grattugiato, sale, pepe e 2 uova intere sbattute. Versate nella sacca, riempiendola per non più di due terzi. Cucite l’apertura della sacca con filo resistente bianco. Pungete la sacca con uno stecchino, perché non scoppi durante la cottura. Sobbollitela in 1,5 litri di brodo di verdure per 2 ore. Alla fine, sgocciolate la cima e fatela raffreddare tra due piatti con un peso sopra: deve essere schiacciata. Servitela fredda, a fette.
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Ballando coi gusti
Oggi due ricette semplici a base dell’amato pollo, che piace proprio a tutti, tutte e due profumate con senape.
Pollo alla senape ed erbe
Insalata di pasta, pollo, sedano e noci
Ingredienti per 2 persone: 1 pollo da 1 kg già eviscerato – senape – 40 g di olio – burro – erbe miste a piacere – sale e pepe.
Ingredienti per 4 persone: 250 g di pasta tipo risone – 300 g di petto di pollo a fettine – 3 gambi di sedano bianco – 80 g di gherigli di noci – 4 cucchiai di maionese – 1 cucchiaino di senape – il succo di mezzo limone – erba cipollina – olio di oliva – sale e pepe.
Con un trinciapollo tagliate tutto il dorso del pollo. Apritelo a libro, togliete l’osso dello sterno e appiattitelo con un batticarne: se potete, fatevelo fare dal macellaio. Preparate un’emulsione con senape, poca acqua e gli aromi misti. Scaldate in un’ampia padella l’olio e il burro e appoggiatevi il pollo dalla parte della pelle. Pennellatelo con cura con l’emulsione e sistemate sopra un peso o un coperchio. Cuocete per 40 minuti, girandolo per almeno 4 volte fino a che non sarà ben dorato. Tagliate il pollo a pezzi, salate, pepate e servitelo irrorato con il fondo di cottura.
Cuocete la pasta in acqua bollente salata, scolatela al dente, mettetela in un colino e fermatene la cottura sotto acqua di rubinetto. In una padella scaldate 1 cucchiaio di olio e cuocete il petto di pollo per 3 minuti da ambo i lati, salatelo leggermente. Tagliate il petto di pollo a listarelle e mettetelo in una ciotola con il suo fondo di cottura. Tagliate il sedano a rondelle, spezzettate i gherigli di noci e uniteli al pollo. Versate nella ciotola la maionese, la senape, 4 cucchiai di olio, pepe e il succo del limone e mescolate. Vuotate l’insalata in una ciotola pulita e unite la pasta. La quantità della maionese può variare, adattandosi al vostro gusto.
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TEMPO LIBERO
Caccia al tesoro… naturale Crea con noi
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Chi sarà il più veloce a trovare una chiocciolina? Ecco un gioco per divertirsi in mezzo alla natura
Giovanna Grimaldi Leoni
Procedimento Stampate il cartamodello (lo trovate su www.azione.ch) su un foglio A4 preferibilmente con uno spessore/ grammatura superiore ai 120g. Con le matite o i pennarelli colorate i disegni contenuti nei tondi. Questa caccia al tesoro è pensata per essere svolta in campagna, o in un bosco, ma anche un prato cittadino si presterà altrettanto bene. Volendo potete aggiungere altri soggetti a piacere.
Il tutorial di questa settimana vi permette di creare una simpatica caccia al tesoro da fare nella natura. Non importa se siete in montagna, per boschi, in campagna o semplicemente nel giardino di casa, questo gioco permetterà ai bambini di divertirsi e guardare con occhi attenti
Una volta colorati tutti i disegni tagliate le 4 file orizzontalmente con una forbice o un taglierino e rivestitele con un nastro adesivo trasparente in modo che si conservino meglio nel tempo. A questo scopo potete naturalmente utilizzare anche della pellicola adesiva. Ritagliate i tondi. Con la colla calda o una colla universale applicate i tondi sulla superficie dei tappi e se è necessario rifilateli. Preparate tutti i tappi allo stesso modo, quindi infilateli in un sacchetto di cotone che, se vorrete, potrete far decorare ai bambini con pennarelli per la stoffa.
il territorio che li circonda. Foglie, insetti, fiori, piume… chi sarà il più veloce a trovare l’elemento che è stato pescato? Un simpatico modo per occupare il tempo trascorso in natura e coinvolgere bambini anche di età diverse tra loro.
«Sai Carlo, ieri la mia ragazza mi ha lasciato mentre ordinavamo una pizza!» – «Ma davvero? E tu come l’hai presa?» Trova la risposta dell’amico leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 6, 3, 7, 6, 1, 6)
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30. Primo cardinale inglese 31. Punto d’appoggio della leva 33. Nome femminile 34. Giorno lavorativo VERTICALI 1. Dolce intriso di rum 2. 99 romani 3. Nome di donna 4. Un problema adolescenziale 5. Lo è la sorte avversa 6. Due vocali 7. Si dice di un uomo anziano 8. Un terzo di undici 9. È una lunga via di Roma 11. Regola, precetto
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Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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Siete prontissimi per una fantastica caccia al tesoro… naturale. Buon divertimento!
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
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ORIZZONTALI 1. Una guida per veicoli 7. Parte del cranio 10. Arbusto con fiori a grappolo 11. Letto al contrario non cambia 12. Acido desossiribonucleico 13. Il cuore del drone 14. Targa di La Spezia 15. Se le dà lo spocchioso 17. Strati sottili di copertura 18. Le iniziali dell’imitatrice Aureli 19. Universo, spazio siderale 20. Le iniziali del giovane Angela 21. Preposizione articolata 22. Ballo di coppia caraibico 23. Simbolo chimico del cloro 24. Cerimonioso col gentil sesso 25. Un verso con le fusa... 27. Sessanta in numeri romani 28. Contrapposte alle altre 29. Preposizione
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• Tappi dei succhi di frutta (diametro 4cm) • Un sacchetto di tela • Stampante • Matite colorate • Nastro adesivo trasparente largo o pellicola adesiva trasparente • Colla a caldo • Sacchetti di cotone (I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
Idea in più Rivestite con cartoncini colorati alcuni tappi extra. Saranno delle pedine Jolly, il bambino se pesca questo tappo dovrà cercare un elemento che contenga quel colore.
Giochi e passatempi Cruciverba
Materiale
13. Calche, folle 14. C’è anche quella Mercalli 16. Riposo, distensione 17. Coperture architettoniche 19. Piante con fusto cavo 21. Si lega in reste 22. Pratica fisioterapica di origine finnica 23. Non precisamente 25. Alberi da frutto 26. Strumento musicale 29. Puro a Parigi 30. Le iniziali del giornalista Giannino 31. Santa... in Argentina 32. Le iniziali della Lanfranchi della tv
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Soluzione della settimana precedente ABISSI MARINI – La sacca che avvolge l’uovo dello squalo si chiama: BORSELLINO DELLA SIRENA.
N U O O S L M A I R N E T
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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TEMPO LIBERO
Viaggiatori d’Occidente
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di Claudio Visentin
Il diritto di restare
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Viaggiare è un diritto? La Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a Parigi nel 1948, sembra affermarlo. Nell’articolo 13 leggiamo che «Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese». L’articolo 24 poi si preoccupa anche delle risorse necessarie: «Ogni individuo ha diritto al riposo e allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite». Sulla carta è tutto chiaro, poi come sempre la realtà è più complessa. Per cominciare la Dichiarazione universale dei diritti umani riflette una visione occidentale e liberale del mondo; di fatto è un’estensione della
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e quindi discende dalla Rivoluzione francese del 1789. Anche per questo ha molto faticato a mettere radici nei Paesi islamici o comunisti. Inoltre, per sua stessa ammissione, la dichiarazione disegna un orizzonte ideale, lasciando ai singoli Stati la responsabilità di tradurlo in realtà; insomma si basa sulla buona volontà, non proprio un solido fondamento. Di per sé la Dichiarazione universale dei diritti umani non fa differenza tra un viaggio breve e l’emigrazione definitiva, ma è evidente che nel nostro tempo il diritto di migrare non è riconosciuto a tutti; si cerca semmai di limitarlo e regolarlo. L’idea che il viaggio sia un diritto ha invece preso piede. Nel 2017 Taleb Rifai, Segretario generale dell’Organizzazione mondiale del turismo (UNWTO – United Nations World Tourism Or-
Passeggiate svizzere
ganization), sosteneva senza incertezze che viaggiare è un diritto umano «come quello al lavoro o alle cure mediche». Chiedeva semmai di farlo in forme sostenibili e rispettose, aiutando la crescita delle popolazioni visitate. E proprio l’idea di viaggio come diritto universale ha portato con sé il rapido sviluppo del turismo accessibile, ovvero tutti quei servizi necessari ai disabili per viaggiare. Il nuovo libro dell’antropologo Vito Teti (La restanza, Einaudi) arricchisce ulteriormente questo quadro, introducendo una nuova prospettiva. Perché c’è anche chi di partire non ha proprio nessuna intenzione e, se fosse per lui, non lascerebbe mai il paese dov’è nato. Altri hanno scelto di restare in una periferia difficile per cambiarla, impegnandosi nel sociale. Altri ancora si sono inventati una nuova vita in qualche valle remota, lasciando maga-
ri una grande città, e adesso lottano ogni giorno con la mancanza di servizi essenziali: negozi, scuole, ospedali, trasporti, Internet. Chi resta, per esempio le donne degli emigranti, deve trovare nuovi equilibri di vita, dare un nuovo senso a luoghi ed esperienze quotidiane. Restare non è una pigra accettazione del proprio destino, è spesso una scelta, difficile e lacerante, frutto di volontà e spirito d’iniziativa. Partire e restare potrebbero essere insomma i due volti dello stesso fenomeno. Al diritto a partire corrisponderebbe allora un nuovo diritto a restare. Chi resta è molto meno visibile di chi parte, non ha su di sé l’attenzione dei media, non è al centro di controversie e discussioni. Ma potrebbe coltivare conoscenze preziose per il futuro. Per esempio molti ritengono – con ottime ragioni – che il cambiamen-
to climatico sia la vera emergenza del nostro tempo, prima e più della pandemia o della guerra. In questa prospettiva, i piccoli gesti quotidiani di chi resta – contrastare con efficacia gli incendi e le inondazioni, razionalizzare l’uso dell’acqua, curare il suolo eccetera – potrebbero diventare improvvisamente essenziali. Al contrario il tempo dei grandi viaggi internazionali potrebbe essere vicino alla fine. Così almeno crede Vito Teti: «Un giorno, forse, quella appena passata sarà ricordata come l’epoca dei viaggi, rispetto a un nuovo presente in cui viaggiare, spostarsi, fare turismo diventerà sempre più complicato, difficile, risolto in altri modi. Finita l’esplosione del viaggiare per diporto, che pure significava scambi, incontri, conoscenza, ci si troverà, forse, a fare i conti con sé stessi e si dovranno inventare nuove ragioni di restare».
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di Oliver Scharpf
Gli iris dei Giardini Merian ◆
La più grande collezione di iris in Europa si trova a qualche passo da Basilea, su un prato parte del comune di Münchenstein. Brüglingen si chiama questa zona, un tempo proprietà dell’uomo d’affari-agronomo-filantropo Christoph Merian (1800-1858) e oggi della Fondazione che porta il suo nome, dove cammino un pomeriggio di metà maggio. In pieno sole, ordinati secondo il colore in diversi filari, su un prato un po’ troppo perfettino per i miei gusti, ecco gli iris dei Giardini Merian (275 m) in piena fioritura. D’istinto vado verso i primi iris sul blu. Sono Iris germanica noti anche come Iris barbata. Gruppo elatior leggo sul cartellino rettangolare in metallo, vale a dire più alti. Sotto, oltre al nome dell’iris – inciso in caratteri più grandi rispetto al resto – sul tipico cartellino da giardino botanico piantato in terra, c’è anche l’anno d’ibridazione, il
nome dell’ibridatore, e la sigla del suo paese di origine. Il blu misterioso del Pierre Menard (1948) mi cattura: Faught, USA. Eva Faught (1888-1978), batteriologa nata a Shelbyville, nell’Illinois, e morta a Cuernavaca, in Messico, è stata una ibridizzatrice di iris dalla breve carriera folgorante, nota soprattutto per la modernità dei suoi blu. Ipercritica del suo lavoro, girava con un machete: tra le migliaia di iris nati nel suo giardino ne registra solo nove varietà. Il Pierre Menard, secondo gli irisologi, rimane il suo capolavoro. Pierre Menard mi dice qualcosa ma adesso, così su due piedi, non mi viene in mente. Per di più sono colpito dai petali bicolori del Twist of Fate (1979): tre petali spioventi di un viola-blu profondo vellutato quasi nero, tre eretti che sfumano in un color lavanda. Oltre al raggruppamento per tonalità,
Sport in Azione
nel campo di iris, c’è un ordine cronologico. Dai primi iris ornamentali della storia all’ultima moda. Il punto di partenza di questa collezione che oggi conta millecinquecento varietà, è il dono di Helen von Stein-Zeppelin (1905-1995). Contessa ibridizzatrice nipote dell’inventore del dirigibile che prende il suo nome, nel 1969, regala all’ex giardino botanico di Brüglingen, tutta la sua magistrale collezione coltivata nei pressi di Sulzburg. Sud-ovest della Germania, nella regione del Markgräflerland, tra vigneti di Müller-Thurgau a quaranta chilometri da qui. Una varietà che incontro ora, non ancora fiorita, si chiama proprio Helen von Stein. Helen Mcgregor (1942) mi conquista per la purezza del suo azzurro chiaro pallido: iris opera di Robert J. Graves, chirurgo, dedicato alla moglie. California Blue, Lohengrin, Night Fall, The Black Douglas, Attention Carolina, c’è da perder-
si tra questi nomi e chissà quali storie e giochi del destino. Ecco, ora mi ricordo: Pierre Menard è un autore inventato di un racconto di Borges apparso per la prima volta sulla rivista «Sur» nel maggio 1939. Prima di spostarmi verso gli iris selvatici, riemerge netta e precisa, la ragione del richiamo istintivo agli iris blu, a parte la predilezione per questo colore. È per via degli iris di van Gogh, dipinti nel maggio 1889 nel giardino dell’ospedale psichiatrico del monastero Saint-Paul de Mausole a Saint Rémy-de Provence. La mia visione degli iris è figlia di quel quadro che resta negli occhi, con quell’iris bianco come voce di contralto e l’ondeggiare in primo piano del blu dei petali spiegazzati e il verde delle foglie lanceolate che ti avvolge in un turbine di stupore. In realtà gli iris di van Gogh per me sono sempre stati più belli degli iris veri. E gli iris sel-
vatici, in verità (anche se qui, va da sé, manca la spontaneità e la sorpresa della natura) mi attraggono forse di più di quelli coltivati. Chiedo comunque a un giovane giardiniere, i desideri primari degli Iris germanica: «Terreno sabbioso, sole, nessuna erbaccia in giro» mi risponde. Desidererei una nuvola che copra per qualche minuto il sole, così da ammirarne meglio i colori, la piega dei petali, persi entrambi un po’ per la troppa luce. Il punto di fuga del campo di iris è Villa Merian, dove lì davanti certe mattine c’è un mercatino di pomodori rari. Esili, di un delicato violetto, i petali di un iris iraniano. Interessantissimi anche gli iris selvatici californiani, dalmati, e uno timido del Missouri che mi ricorda Meride. Eppure, benché imparagonabili, niente raggiunge la meraviglia improvvisa, salendo sul Monte San Giorgio, degli Iris graminea.
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di Giancarlo Dionisio
Il gusto lungo della vittoria ◆
Il «quattro a uno» del Lugano sul San Gallo è passato agli archivi. La Coppa svizzera è in bacheca. Rimane il gusto lungo delle emozioni intense di un’indimenticabile domenica di primavera. Quelle di diecimila ticinesi che si sono recati a Berna. Quelle di molti altri che hanno vibrato a casa o in Piazza della Riforma. Ho scritto ticinesi, anche se la stragrande maggioranza di loro aveva in petto un cuore bianconero, che batteva all’unisono con quello degli undici ragazzi in campo. Ma si è avuta la sensazione che, forse per la prima volta, a livello cardiaco ci fosse qualche anomalia. Qualche macchiolina disseminata qua e là. Nulla di preoccupante, anzi! Sul treno, per strada, allo stadio del Wankdorf, c’erano anche parecchi sostenitori delle altre squadre cantonali. Ho assistito all’incontro casuale tra due tifosi normalmente schierati su un’altra sponda calcistica. Dopo
un primo istante di comprensibile imbarazzo, uno di loro ha spezzato il silenzio: «Incö sem tücc insema. Dai che la portum a cà». Dentro queste parole c’era la frustrazione per il fatto che al Ticino, un trofeo così importante, nel calcio, mancava da 29 anni. Ma anche la consapevolezza che l’occasione per ripartire era lì da cogliere. Nel nostro cantone abbiamo dei grandi campioni individuali, non li sto nemmeno a citare. Ma chi trionfa da solo è figlio di sé stesso. Del suo talento, dei suoi geni, della sua determinazione, magari anche del caso che ha creato le condizioni giuste nel momento giusto. Negli sport di squadra si suona un’altra musica. La partitura è più complessa. Il Football Club Lugano ha trionfato in un mondo in cui, da alcuni decenni, si sta riducendo il posto per i cosiddetti «parenti poveri». Fino a pochi anni fa, le imprese riu-
scivano ai cugini bianco-giallo-neri dell’HC Lugano, oggi costretti a lottare ad armi impari contro società finanziariamente più robuste. Per queste ragioni il percorso intrapreso dai ragazzi del «Crus» deve fungere da esempio. A volte le vicende sportive hanno una valenza che supera il mero aspetto agonistico. Secondo i titoli di alcune testate giornalistiche «il Lugano ha riscritto la storia». Può sembrare iperbolico a chi tende a sottovalutare o a snobbare il fenomeno sportivo. Ma in fondo c’è del vero. La storia insegna. Gino Bartali, vincendo il Tour de France del 1948, evitò che si aprisse una profonda crisi politica in seguito all’attentato perpetrato ai danni di Palmiro Togliatti, leader del Partito Comunista Italiano. Mezzo secolo fa, una semplice partita di ping pong riuscì a stemperare la tensione politica tra Cina e Stati Uniti. La vittoria
del Lugano in Coppa Svizzera non ambisce alle prime pagine dei media internazionali. Tuttavia, nel nostro piccolo, grazie a questa conquista, oggi, ci sentiamo, più vicini ai nostri Confederati d’Oltralpe. È ora di «guardare avanti senza voltarsi mai». Il pensiero corre al Vallese, dove Sierre, Martigny e Briga, demograficamente ricordano Locarno, Mendrisio, e Bellinzona prima dell’aggregazione, e dove Visp ha lo stesso numero di abitanti di Chiasso. Ebbene, da loro «calcio» si scrive «Sion». Da noi si lotta allo sfinimento all’ombra dei campanili. La via è però tracciata. Non si scappa. Nell’élite del calcio nazionale c’è e ci sarà posto per una sola società ticinese. Oggi si chiama FC Lugano, in virtù di una selezione naturale dalla quale è emersa la struttura obiettivamente più solida. Domani potrebbe chiamarsi FC Ticino, in virtù di un’eventuale inte-
sa fra le parti. Sono pronto a essere smentito, ma sono convinto che la prima opzione continuerà ad avere il sopravvento. L’importante è che nell’immediato futuro, chi reggerà le sorti dei Bianconeri sia cosciente del fatto che lo sport non è, e non deve essere, come sosteneva George Orwell, «una guerra senza spari». Tuttavia, come rituale identitario, possiede una forza devastante. Nel bene e nel male. Il clima di festa che si è respirato prima, durante, e dopo la finale di Coppa dovrebbe penetrare nel DNA di chi l’ha vissuto. Affinché diventi virale. Società nuova, stadio nuovo, rinnovato entusiasmo dovranno essere un’opportunità per stare bene insieme. Ne abbiamo bisogno. Il Crus, e il suo alter ego Cao Ortelli ne sono consapevoli. Saranno loro i primi garanti. Con i loro ragazzi faranno di tutto affinché ciò avvenga.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 23 maggio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino 23
ATTUALITÀ ●
Africa, tra guerre e fame Ai conflitti interni e alla siccità si aggiunge la guerra in Ucraina, che blocca le esportazioni di cereali
Contro Russia e Cina Il Giappone si sta impegnando a costruire in Asia un fronte comune contro le due grandi potenze
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Una Brexit annacquata Per ovviare alle difficoltà di approvvigionamento, Londra semplifica le importazioni
Le banche diversificano Le banche cantonali ricavano i profitti essenzialmente dai crediti ipotecari, ma la tendenza cambia
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In coda per un po’ di cherosene per la cucina, Colombo, 17 maggio. (Keystone)
Sri Lanka, un disastro annunciato L’analisi
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Il Paese del sud-est asiatico, scosso dalle proteste, è sull’orlo del baratro anche a causa dell’imperialismo cinese
Francesca Marino
«La crisi è destinata a peggiorare prima che si vedano dei miglioramenti». Così il premier dello Sri Lanka Ranil Wickremesinghe, eletto in fretta e furia nel bel mezzo del peggior disastro economico che il paese abbia mai registrato, commentava alla «BBC» la situazione corrente. Le proteste nel paese, anche violente, vanno avanti ormai da tempo. Proteste contro il presidente Gotabaya Rajapaksa e la sua famiglia – che da anni occupa i posti chiave della politica e dell’economia dello Sri Lanka – colpevoli, secondo la popolazione, di avere condotto il paese alla bancarotta. In senso letterale e non in senso figurato. Manca letteralmente il cibo, e non da qualche giorno. Manca il carburante, destinato a esaurirsi completamente nel giro di qualche ora. Mancano le medicine e quelle che ci sono sono diventate talmente care da non potere essere acquistate dalla maggior parte della popolazione. I prezzi degli alimenti base si sono triplicati e manca anche il gas per cucinare. I dimostranti chiedono le dimissioni immediate di Rajapaksa, ma è piuttosto improbabile che il corrotto e detestato esponente di una delle dinastie politiche più longeve del paese abbandoni il suo posto. Per evitare le proteste ha dichiarato lo stato di emergenza e scaricato al neo-premier Wickremesinghe la patata bollente. Il problema, ridotto all’osso, è che lo Sri Lanka dipende quasi completamente dalle importazioni estere per
quanto riguarda il fabbisogno di generi alimentari, carburante e che, al momento, non dispone più di riserve di moneta estera per pagare le importazioni suddette. Rajapaksa, per spiegare il disastro, se la prende con la pandemia che ha bloccato per due anni i viaggi azzerando virtualmente una delle principali voci attive della bilancia commerciale di Colombo: il turismo. Vero, ma non completamente. Perché nel caso dello Sri Lanka si tratta, e da qualche anno ormai, di un disastro annunciato. Tutto comincia, più o meno, con l’ambizioso progetto di costruzione, anni fa, del porto di Hambantota (nel meridione del paese), parte dell’ancora più ambizioso progetto cinese di sviluppo e connettività denominato «Belt and Road Initiative» (BRI) o «Nuova via della seta».
Lo Sri Lanka dipende quasi completamente dalle importazioni estere per quanto riguarda il fabbisogno di generi alimentari e carburante Il caso di Hambantota è ormai diventato tra gli esperti un caso da manuale per spiegare la «trappola del debito» in cui la Cina spinge i governi tanto incauti da firmare per la BRI. Per finanziare la costruzione di Hambantota il governo dello Sri Lanka ha preso in prestito denaro, a termini più che onerosi, dalle banche cinesi. Tro-
vandosi quasi subito in cattive acque. Visti i ricavi immediati quasi nulli a fronte dell’investimento, si è trovato nell’impossibilità di ripagare il debito. A quel punto, Pechino ha chiesto il porto come garanzia del prestito, costringendo il governo ad affidarne la gestione (e i ricavi) per 99 anni alla China Harbor Engineering Company (CHEC). E si trattava soltanto dell’inizio. CHEC ha difatti «vinto» nel giugno 2021 un nuovo progetto di sviluppo per un’autostrada sopraelevata di 17 km a Colombo. I termini dell’accordo attribuiscono a CHEC la proprietà dell’autostrada, per recuperare il capitale e avere dei profitti riconsegnando alla fine l’autostrada al governo dello Sri Lanka dopo 18 anni. Ma c’è di più: CHEC è difatti una sussidiaria della China Communications Construction Company (CCCC) di proprietà statale. Con la stessa tecnica, la CCCC ha costruito l’aeroporto internazionale di Mattala e sta costruendo la città portuale di Colombo. Si tratta della stessa CCCC che nel 2020 è stata inserita in una lista nera dall’amministrazione Trump per aver costruito illegalmente isole militarmente strategiche nel Mar della Cina meridionale. La CCCC è stata inserita in una lista nera anche in Bangladesh nel 2018, per aver tentato di corrompere un alto funzionario del governo quando la società stava negoziando con Dhaka l’espansione di un’importante autostrada nella capitale. CHEC e CCCC sono stati prota-
gonisti anche nello Sri Lanka di vari scandali per corruzione e per aver pesantemente interferito nella vita politica del paese: si dice difatti che abbiano finanziato, nel 2015, la campagna elettorale dell’ex presidente Mahinda Rajapaksa, fratello dell’attuale presidente Gotabaya. Che, nel gennaio scorso, in un disperato tentativo di scongiurare la crisi, aveva chiesto al ministro degli esteri cinese Wang Yi in visita nello Sri Lanka la ristrutturazione del piano di restituzione del debito per far fronte al rapido deterioramento della situazione finanziaria. Aveva chiesto condizioni agevolate per il pagamento delle esportazioni cinesi verso lo Sri Lanka, che ammontavano a circa 3,5 miliardi di dollari, e che Pechino consentisse, previo stretto protocollo anti-Covid, il ritorno dei turisti cinesi nel paese. Ovviamente Wang Yi, dopo aver dichiarato in conferenza stampa che la «trappola del debito» è tutta propaganda occidentale e aver promesso una nave carica di riso, è ritornato a casa. A peggiorare il tutto sono state anche le politiche scriteriate e populistiche di Gotabaya che nel 2019, pur di essere eletto, aveva promesso (e ha effettuato) consistenti tagli alle tasse: una perdita netta stimata, secondo lo stesso governo, di circa 1,4 miliardi di dollari. Non solo. Nel pietoso tentativo di arginare il bisogno di moneta estera per pagare le importazioni (e per ripagare i cinesi), Rajapaksa e il suo governo hanno preso ulteriori
misure inutili quando non dannose. Hanno cominciato col bandire l’importazione di tutti i beni non necessari (tra cui le scarpe), col mettere in atto politiche monetarie non degne di questo nome e, soprattutto, col bloccare le importazioni di fertilizzanti chimici. In particolare hanno deciso di sospendere le importazioni di fertilizzanti cinesi trovati, oltre che costosi, decisamente scadenti chiedendo aiuto all’India. Che ha non solo provveduto ai fertilizzanti ma, sempre in gennaio, aveva momentaneamente scongiurato la crisi finanziaria con varie aperture di credito elargendo aiuti finanziari di circa 1,9 milioni di dollari a Colombo. Ma non è bastato. I 6,5 miliardi di dollari che lo Sri Lanka deve a Pechino pesano come un macigno, e la proposta cinese di aumentare le riserve di moneta estera di Colombo scambiando la rupia dello Sri Lanka contro moneta cinese (la stessa proposta era stata fatta tempo fa dalla Cina al Pakistan) non è stata bene accolta. Il governo di Colombo ha chiesto ulteriore aiuto all’India, alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale e i cinesi, si dice, non l’hanno presa bene. Intanto il premier Wickremesinghe dichiara che la sua priorità, al momento, è «assicurare tre pasti al giorno» alla popolazione. Che, se il resto del mondo non interviene, rischia di ritrovarsi in un futuro non troppo lontano a dover utilizzare moneta cinese e lavorare, vestire e mangiare al modo di Pechino.
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ATTUALITÀ
La tempesta sull’Africa
Le narcoguerre
Pietro Veronese
Angela Nocioni
Guerra e fame ◆ L’invasione russa dell’Ucraina, che ha comportato il crollo delle esportazioni di cereali, si somma alla siccità che colpisce nuovamente il continente nero, riducendo milioni di persone alla fame
In Somalia la siccità miete vittime da mesi. (Keystone)
Per la terza volta consecutiva, la stagione delle piogge è stata un disastro nel Corno d’Africa. La terra è rimasta all’asciutto, i semi non hanno germogliato e i raccolti sono andati in malora. Il bestiame è morto di sete. Interi villaggi si sono messi in marcia in cerca di aiuto. Da mesi, le organizzazioni umanitarie lanciano allarmi inascoltati. Una siccità così grave non si vedeva da quarant’anni e milioni di persone tra Etiopia, Kenya e Somalia – 15, forse 20, secondo un calcolo approssimativo – sono alla fame. A questa situazione già critica si è aggiunto nelle ultime settimane il crollo delle esportazioni di cereali dall’Ucraina, per l’effetto combinato del blocco dei porti sul Mar Nero, operato dalla flotta militare russa, e dell’abbandono dei campi da parte della popolazione contadina messa in fuga dalle bombe e dai carri armati. Una tempesta perfetta e mortale si è addensata così qualche migliaio di chilometri a sud, sulla parte più fragile dell’Africa orientale: ma le opinioni pubbliche europee lo ignorano. Mentre l’informazione è battente e costante sul conflitto in Ucraina, essa tace su quanto accade nel resto nel mondo. Un sondaggio promosso dalla ong bitannica Christian Aid, di cui ci informa il “Guardian”, rivela che appena otto cittadini del Regno Unito su dieci sono consapevoli della situazione nel Corno d’Africa – mentre nove di quegli stessi dieci sanno tutto sulle battaglie in corso da Kiev a Mariupol. La situazione nel resto d’Europa non dev’essere migliore. Quella contro la fame è solo la prima delle «guerre dimenticate» che l’indifferenza del mondo – o meglio, l’attenzione esclusiva alla guerra in Ucraina – sta condannando a esiti ancora più tragici. La solidarietà dovuta alle vittime del primo conflitto che si combatte in territorio europeo dal 1945 non è ovviamente in discussione. Resta il fatto che la quasi totalità delle risorse disponibili – finanziarie, ma anche emotive – è oggi dirottata verso Kiev e dintorni, a danno di tutto il resto. Non a caso le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie internazionali rivolgono appelli costanti ai governi, affinché non dimentichino altre zone di sofferenza e bisogno presenti nel mon-
do. La scomparsa di milioni di tonnellate di grano ucraino dal mercato cerealicolo globale sta causando un vertiginoso aumento dei prezzi alimentari. Ma quello che da noi è un rincaro della pasta, altrove significa fame. In Zimbabwe il costo della pagnotta è raddoppiato. In Egitto i fornai diminuiscono il peso della forma di pane piuttosto che aumentarne il prezzo. Il presidente ugandese invita i suoi concittadini ad accontentarsi della polenta di cassava. In Kenya molti hanno giù dovuto rinunciare al primo e più fondamentale degli alimenti. Nelle campagne, le famiglie mangiano il pollame perché non si trova più granoturco per il mangime. Questo non significa soltanto che la carestia è alle porte, ma anche che lo stesso ammontare di euro in aiuti è oggi in grado di comprare una minore quantità di farina e di mais, dunque di soccorrere meno persone. Stesso discorso vale per l’olio di semi, che comincia a scarseggiare anche nei nostri supermercati ed è tanto più insostituibile là dove non si conosce quello d’oliva.
Quella contro la fame non è l’unica guerra dimenticata: in numerosi paesi africani si combatte, lontano dai riflettori, mentre l’Occidente rivolge tutta la sua attenzione al primo conflitto militare in Europa dalla seconda guerra mondiale Ma quella contro la fame è una guerra in senso soltanto metaforico – almeno nella speranza che l’acuta situazione di bisogno non si tramuti in rivolta, com’è accaduto di recente nello Sri Lanka. Molte, troppe, sono le guerre vere che si combattono in giro per il mondo, con il loro carico di bombe, morte, violenze inenarrabili contro la popolazione inerme, milioni di fuggiaschi, devastazioni, tracolli economici, vite spezzate, destini arenati nei campi profughi. Se ne contano al momento 34, Ucraina compresa. Alcune sono state al centro dell’attenzione pubblica negli anni recenti, come la Siria, l’Afghani-
stan, e oggi sono ignorate anche se niente affatto finite. Una, la guerra civile dello Yemen, è vicinissima al Corno d’Africa, seppur separata dallo stretto braccio di mare del Mar Rosso: dura da sette anni, anche lì si muore di fame, specie i bambini, e vi è coinvolto con feroci bombardamenti aerei un alleato dell’Occidente, l’Arabia Saudita, dunque non se ne parla. Così come della maggior parte di questi conflitti non sappiamo nemmeno che esistono. I più numerosi sono in Africa: 12 i Paesi in guerra, in 7 aree di crisi (cifre che prendiamo dall’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, atlanteguerre.it). Che sappiamo di quanto succede nel nord del Mozambico? Eppure, nella spaventosa situazione creata dalla rivolta islamista in quella regione che si è scoperta ricchissima di gas naturale, sono oggi presenti le divise di ben 24 eserciti. Oltre 2.000 soldati e poliziotti ruandesi, una missione di addestramento Usa, osservatori militari dall’Uganda, specialisti da undici Paesi europei e truppe da dieci nazioni africane vicine. Il conflitto, che era stato dato avventatamente per risolto, continua, con numerosi attacchi, sparatorie e vittime in questo mese di maggio. E poi l’est della Repubblica Democratica del Congo, preda di milizie e bande armate in quello che è il più longevo dei conflitti africani. La feroce guerra civile della Repubblica Centrafricana, dove è presente una forza di pace Onu, come del resto in Congo (quest’ultima la più grande al mondo). E l’Etiopia, che vede coinvolta anche l’Eritrea; il Sud Sudan, la Libia, la Somalia, il Ciad, il Burundi; e Mali, Somalia, Burkina Faso, Niger, Nigeria, ciascuno alle prese con la propria insurrezione islamista variamente collegata all’Isis o ad Al Qaeda. Eccetera. Tragedie di cui sanno soltanto gli specialisti e le organizzazioni umanitarie, che si sforzano invano di rompere il muro del silenzio. Per questo il presidente ruandese Paul Kagame si è sentito in dovere di dichiarare di recente che «il mondo è retto da tre grandi sistemi. Il primo è la democrazia. Il secondo è l’autocrazia. E il terzo è l’ipocrisia». Difficile dargli torto.
America Latina ◆ Molti sono i conflitti armati in corso e sempre vedono coinvolte le innumerevoli bande criminali attive nel traffico di droga
Nell’America latina stanca di guerra, di guerre in corso non dichiarate ma che fanno moltissimi morti ce ne sono parecchie. In Colombia, in Messico, in Venezuela, in Salvador. Se poi si accettasse di considerare come guerra guerreggiata la violenza feroce che l’esercito transnazionale dei cartelli narcos impone ai civili in quasi l’intero continente tranne poche isole felici di pace, l’America latina si potrebbe definire un continente in pieno conflitto armato contro i suoi abitanti civili. Inquadriamo solo qualche quadro di guerra, impossibile descriverli tutti anche solo sommariamente. Cominciamo dalla Colombia dove è stato firmato un difficilissimo accordo di pace nel 2016 dopo decenni di naufragate trattative tra Bogotà e le Forze armate rivoluzionarie della Colombia, un esercito informale di guerriglieri che teneva insieme vecchi slogan sovietici e il business della coltivazione delle piante di coca. L’accordo è in gran parte fallito. Frange dissidenti si sono rifiutate di deporre le armi e continuano a combattere in zone isolate ma vaste della Colombia dove la presenza dello Stato è inesistente. Combattono per assicurarsi porzioni di piantagioni di coca e controllo del territorio. Combattono contro l’esercito, contro le varie polizie e contro altri gruppi guerriglieri che la pace con il governo non l’hanno firmata, uno di loro è l’Esercito di liberazione nazionale. Soltanto al confine tra le regioni di Antoquia e Chocò, un gruppo di miliziani chiamato «autodefensas guainistas» e brandelli dell’Esercito di liberazione nazionale si scontrano brutalmente da cinque anni e hanno disseminato la selva di mine che uccidono puntualmente civili ignari. Le prime vittime della guerra mai chiusa tra vari gruppi guerriglieri (che poi sono narcoguerriglieri), eserciti narcos ed esercito statale sono i leader civili di organizzazioni sociali, sindacalisti, difensori di diritti civili. Da quando è stato firmato l’accordo di pace ad oggi sono ufficialmente oltre 1300 gli attivisti morti per voler difendere il loro territorio dalla guerra che, sulla carta, è finita nel 2016. Nel Salvador, dove il governo del presidente Nayib Bukele ha adottato politiche che hanno limitato l’indipendenza del potere giudiziario, e dove ogni giorno organizzazioni della società civile, attivisti e giornalisti indipendenti vengono uccisi, il governo si vanta di aver ridotto il numero di omicidi. La rivista «El Faro» spiega da dove nasce la riduzione del numero di morti. Ci sarebbe stato un patto segreto tra il governo di Bukele e i leader della pandilla, gang, Mara Sal-
vatrucha (MS-13) e delle due fazioni di Barrio-18 (18-Sureños e 18 Revolucionarios) per dare vantaggi personali ai capi delle bande in cambio di una tregua. In una popolazione di sei milioni e mezzo di abitanti ci sono, secondo le stime ufficiali, sessantamila pandilleros attivi nel 94% dei municipi del Paese, mentre altri diciottomila sono in carcere. Una situazione di violenza endemica equivalente a causa delle bande metropolitane che anche lì si chiamano pandillas e fanno morti quotidianamente, esiste in Honduras. In Venezuela, sparita dalle cronache europee non perché la drammatica crisi sociale e politica si sia risolta, le regioni di confine con la Colombia e lo stato Zulia in particolare vivono una guerra terribile di bassa intensità tra narcos locali, narcos colombiani, trafficanti di ogni genere e paramilitari sbandati che non hanno più capi politici ai quali rispondere e vagano come mercenari in cerca di un arruolamento nel mercato più prospero che al momento è quello del contrabbando. Un far west che provoca morti civili ogni giorno. La violenza endemica arriva al parossismo in Messico che può ormai davvero definirsi un narcostato. E quando un narcostato non detiene il monopolio della forza sul territorio e sulla popolazione civile necessariamente confligge e ciò provoca morti civili e terrore. Oramai le scorribande narcos che gli abitanti della capitale guardavano con distaccato orrore perché comunque si svolgevano nelle terre del nord, vicino al confine con gli Sati Uniti, dove ci sono preziosi corridoi di traffico di stupefacenti, oppure nel sud, in Chiapas, vicino al Guatemala, si spingono fin sull’orlo di Città del Messico. Con mitragliatrici scatenate, cadaveri in strada, mattanze. L’America latina rimane la regione con il tasso di omicidi più alto al mondo, le città che nel 2021 hanno registrato il record di omicidi sono messicane. Nella lista delle dieci città più pericolose del pianeta stilata da worldatlas.com sette sono messicane. Celaya, con una popolazione di 639mila abitanti e un tasso di 109,38 omicidi per ogni centomila abitanti, sta al primo posto. Lì il Cartél de Jalisco Nueva Generación è in guerra con il Cartél de Santa Rosa de Lima. Tijuana, la città che condivide una frontiera di ventiquattro chilometri con San Diego, è al secondo posto. Lì operano i due cartelli rivali di Tijuana e Sinaloa. Vengono poi Ciudad Juárez, Ciudad Obregón, nello stato di Sonora, Itapuato, nello stato di Guanajuato, altro teatro della lotta tra il Cártel de Santa Rosa de Lima e il Cártel de Jalisco Nueva Generación.
Operazione anti-narcos a Guadalajara: le città latinoamericane con il più alto tasso di omicidi sono messicane. (Keystone)
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ATTUALITÀ
Un’alleanza asiatica contro Russia e Cina Giappone ◆ Con l’intenzione di tornare ad essere il paese di riferimento per l’Occidente in oriente, il premier Fumio Kishida ha lanciato una campagna diplomatica nel sud-est asiatico per contrastare le due potenze Giulia Pompili
Solitamente restio ad accogliere rifugiati, il Giappone ha aperto le porte agli ucraini: nella foto, studentesse ucraine a una lezione di cultura nipponica. (Keystone)
La guerra della Russia in Ucraina sta disegnando un nuovo mondo, fatto di nuove alleanze e di una nuova diplomazia, non più guidata dall’economia e dal business ma dalla politica e dagli interessi di sicurezza. Molti paesi asiatici – soprattutto nel sud-est asiatico – hanno finora mantenuto una posizione di neutralità rispetto al conflitto, perché lo guardano da lontano, come una faccenda regionale che riguarda il disordine europeo. Ma c’è anche chi, invece, ha cambiato completamente la sua prospettiva e la sua strategia di politica estera. Sin dalle prime fasi della guerra in Ucraina, il Giappone guidato da Fumio Kishida è uscito dall’isolamento diplomatico in cui si era ritirato soprattutto dopo le dimissioni dell’ex primo ministro Shinzo Abe, il più longevo dei leader sin dal Dopoguerra. L’esecutivo di Kishida ha deciso di aderire a quasi tutte le sanzioni occidentali contro la Russia, si è esposto nelle dichiarazioni pubbliche, ha espulso i diplomatici russi sul proprio territorio, ha inviato armi non offensive (anche parecchie attrezzature che hanno attirato critiche per la loro scarsa utilità, per esempio le «mascherine smart», un tipo di protezione anti-Covid molto tecnologico che traduce in un’altra lingua le parole di chi la indossa). Per un paese di solito molto restio all’accoglienza degli immigrati, questa volta Tokyo ha deciso di accogliere il maggior numero possibile di rifugiati ucraini. Anche l’opinione pubblica giapponese, secondo i sondaggi, appoggia la decisione. Nel 2014, dopo l’invasione della Crimea, il Giappone non era stato così netto. L’allora primo mini-
stro Shinzo Abe aveva scelto la strada della diplomazia, di lasciare un canale di dialogo aperto con Mosca, per via di una questione che da decenni ormai determina la postura internazionale giapponese. Russia e Giappone, alla fine della Seconda guerra mondiale, non hanno mai firmato un trattato di pace. C’è stata soltanto una dichiarazione, nel 1956, che però non ha mai risolto il problema di quelle che Mosca chiama isole Curili e Tokyo Territori del nord: un gruppo di isole nell’arcipelago che unisce l’Hokkaido, la regione più settentrionale del Giappone, e la penisola della Kamchatka, l’estremo oriente russo. A chi appartengano quelle isole è conteso, e Abe era riuscito a intavolare un negoziato con Putin che era andato avanti per anni.
La condanna dell’invasione russa dell’Ucraina ha definitivamente reso impossibile un accordo sulle isole Kurili La presa di posizione del governo Kishida sulla guerra d’invasione russa in Ucraina ha definitivamente affossato la possibilità di un accordo. La Russia ha emesso un divieto d’ingresso nel paese per 62 figure istituzionali giapponesi, compreso il primo ministro. Il Giappone ha ricominciato a definire le isole contese come «isole occupate illegalmente». In realtà le trattative tra i due paesi erano finite già da un pezzo: nel 2019, quando sembrava che fosse arrivato finalmente il momento di un accordo, il Cremlino aveva fatto saltare il tavolo dei negoziati, per
ragioni ancora non chiare. Secondo fonti del governo giapponese, Putin non aveva mai voluto davvero accordarsi con Tokyo: la sua era soprattutto una «recita diplomatica». Il Giappone di Kishida sta cambiando, e non solo nel suo rapporto con la Russia. Perché il governo di Tokyo ha anche iniziato una campagna diplomatica tra i paesi del Pacifico, per reclutare sempre più paesi nella coalizione anti-Mosca. Secondo gli osservatori, l’obiettivo di Kishida è far tornare il Giappone centrale, il punto di riferimento dell’Occidente a oriente, e rafforzare un’alleanza di paesi «che la pensano allo stesso modo» contro le autocrazie e quei leader «che vogliono modificare unilateralmente lo status quo». Vuol dire: contro la Russia e contro la Cina. Il primo ministro giapponese ha dedicato la prima parte della sua tradizionale missione durante la Golden week – le festività nipponiche della prima settimana di maggio – a un viaggio nel sud-est asiatico. Tokyo ha cercato di convincere Indonesia, Vietnam e Thailandia, i tre paesi che hanno imboccato la strada della neutralità nel conflitto in Ucraina, del fatto che quello che ha fatto la Russia non è molto diverso da quello che sta cercando di fare la Cina, per esempio, nel Mar cinese meridionale. La militarizzazione dell’area va avanti da anni, non è cruenta come i bombardamenti di Putin, ma l’obiettivo del leader cinese Xi Jinping è più o meno lo stesso: aumentare l’influenza e il controllo. Subito dopo il 24 febbraio sembrava quasi che l’obiettivo numero uno della Casa Bianca in politica estera fosse tornata la Russia, dopo anni di priorità data al contenimento
della Cina. Ma l’attività diplomatica della prima e della terza economia del mondo di queste settimane svelano il vero obiettivo: la costituzione, dall’America all’Asia orientale passando per l’Europa, di una coalizione contro i paesi aggressivi e autoritari che si muovono secondo le loro regole, la legge del più forte. Il presidente americano Joe Biden ha compiuto il suo primo viaggio in Asia da quando è diventato presidente: ha iniziato dalla Corea del sud – dove il presidente neoeletto Yoon Suk-yeol vuole rafforzare i rapporti bilaterali con Stati Uniti e Giappone – e poi ha proseguito a Tokyo. È la costituzione dell’ennesimo acronimo, l’Ipef, l’Indo-Pacific Economic Framework, una cornice economica all’interno della quale Washington vuole rafforzare la sua presenza nel Pacifico contrastando le attività cinesi. E su questo il Giappone appare sempre più allineato all’America. Durante il primo colloquio in sei mesi tra il ministro degli Esteri giapponese, Yoshimasa Hayashi, e la sua controparte cinese, Wang Yi, il capo della diplomazia nipponica ha chiesto a Pechino di assumere un ruolo «responsabile» nella guerra in Ucraina. La Cina non ha ancora preso una posizione netta da quando la Russia ha iniziato l’invasione il 24 febbraio scorso, anzi: questa ambiguità è servita a Pechino per aumentare la propaganda anti-americana e anti-Nato. All’ultima riunione dell’Alleanza atlantica a Bruxelles, per la prima volta nella storia ha preso parte anche il capo di stato maggiore del Giappone, il generale Koji Yamazaki. Difficile immaginare un messaggio più chiaro per Russia e Cina.
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azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
Controlli alla frontiera a senso unico Brexit
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Perché la Gran Bretagna rinvia ancora i check sulle importazioni dall’Unione europea e quali sono le conseguenze
Barbara Gallino
Sono però già state costruite da un pezzo tutte le infrastrutture per le ispezioni delle merci in arrivo dal continente I check sui prodotti alimentari e agricoli europei sarebbero dovuti partire nei prossimi mesi: il primo luglio per le carni, il primo settembre per i latticini e il primo novembre per il pesce e tutti gli altri alimenti. Adesso saranno posticipati alla fine del 2023. Oltre due anni dopo il termine del periodo di transizione. Erano stati ritardati già in un primo tempo nel giugno del 2020 sulla scia del Covid, con ulteriori estensioni del termine di inizio nel marzo e nel settembre del 2021. Il mancato avvio delle ispezioni britanniche al confine ha creato uno squilibrio nella modalità del flusso dei beni in uscita e in entrata, in quanto la Ue – a differenza della Gran Bretagna – ha implementato i controlli alla frontiera senza ritardi, subito dopo Brexit. Il risultato? I controlli unilaterali penalizzano gli esportatori britannici che sono soggetti a rigide procedure per vendere i prodotti alimentari nel continente, mentre i concorrenti europei continuano ancora ad avere accesso al mercato britannico senza costi e intralci rilevanti. Rees-Mogg ha difeso il rinvio, millantandone i benefici per l’economia britannica nonostante ci sia un «libero scambio unilaterale», anziché bilaterale, e ha bollato l’Ue di protezionismo per il suo eccessivo rigore. La verità, tuttavia, è che la Gran Bretagna così fa affidamento in toto sugli standard di sicurezza europei dei prodotti agricoli importati, suscitando l’ira dei produttori del regno che – oltre a criticare l’iniquità del sistema – reputano che i check siano vitali invece per la biosicurezza della nazione. L’Associazione dei veterinari britannici e il Sindacato degli agricoltori UK, infatti, sostengono che una frontiera sostanzialmente aperta con la Ue comporta il rischio di fare entrare nel Regno Unito pericolose malattie di animali e piante, come la peste suina africana, già dilagante in alcune parti dell’Europa. Ma il ministro per le Opportunità di Brexit minimizza, sottolineando che in ogni caso la Ue
Keystone
Fra il malcontento dei sudditi di sua maestà verso il governo britannico a seguito dei party a Downing Street in piena pandemia, e l’impennata dei prezzi che ha portato l’inflazione a toccare il 7% nel Regno Unito, i conservatori sono determinati a fare almeno di Brexit un successo. O quantomeno, darne la parvenza. Ed ecco che Jacob Rees-Mogg – ministro per le Opportunità di Brexit e da sempre uno degli uomini più vicini al premier Boris Johnson – ha annunciato il rinvio dei controlli al confine sulle importazioni dalla Ue. Per la quarta volta. Il motivo? Consentirebbe di risparmiare, secondo lui, 1 miliardo di sterline all’anno, evitando di infierire così sulla spirale dei costi già in corso. Peccato però che in previsione dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea siano state già costruite da un pezzo tutte le infrastrutture per le ispezioni delle merci in arrivo dal continente. A spese dei contribuenti britannici, naturalmente, e dei porti che avevano già cominciato a reclutare il personale addetto.
è «un mercato altamente regolato» e auspicando una riduzione dei controlli e delle tariffe doganali per tutte le merci in arrivo, anche da paesi extra-europei. Tuttavia non tutti all’interno del governo conservatore sembrano condividere con convinzione le sue posizioni totalmente pro-deregulation. Anne-Marie Trevelyan, ministra per il Commercio Internazionale, dimostra ad esempio una maggiore cautela, subordinando uno scenario di questo tipo alla stipulazione di trattati commerciali ad hoc. Quel che è certo, però, è che i confini britannici – a prescindere da controlli fisici o meno – si avviano verso la digitalizzazione: meno burocrazia e movimento delle merci più scorrevole.
Infatti, se la prospettiva è la digitalizzazione, il timore è che il rinvio dei check fisici sia in realtà sine tempore, con la conseguenza di lasciare
del tutto inutilizzate le dispendiose strutture costruite appositamente presso i porti e sprecando così milioni di sterline di finanziamenti pub-
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Rees-Mogg fa spallucce e va dritto per la sua strada. Sa che Brexit è stata l’arma vincente dei Tories e del suo leader Johnson «Quando il Regno Unito ha lasciato l’Unione europea abbiamo riacquistato il diritto di gestire le nostre frontiere come viene meglio a noi, incluse le importazioni da oltremare», ha puntualizzato Rees-Mogg in una nota. «Le aziende britanniche e i cittadini sono stati colpiti nella vita di tutti i giorni da un’impennata dei prezzi causata dalla guerra della Russia in Ucraina e dal conseguente aumento del costo dell’energia. Pertanto sarebbe sbagliato imporre nuovi intralci amministrativi, con il rischio di disagi nei porti e ripercussioni sulla catena di forniture», ha precisato, puntualizzando che il governo sta accelerando sulla digitalizzazione delle frontiere con nuove tecnologie volte a tagliare i costi a carico di imprese e consumatori e «massimizzare i benefici dell’uscita dalla Ue». L’ennesimo posticipo dei controlli UK e la prospettiva di uno scenario digitale sono stati accolti con favore dagli operatori dell’Eurotunnel, attraverso il quale transita un quarto degli scambi commerciali fra la Gran Bretagna e l’Unione europea, fomentando invece inquietudine negli ambienti portuali.
blici e privati. Alcuni degli scali più importanti, come il porto di Portsmouth, non escludono pertanto di fare causa al governo per recuperare i loro investimenti, che appaiono sempre più a fondo perduto. Secondo UK Major Ports Group, l’ente che rappresenta i più importanti scali del regno, il settore portuale, infatti, ha investito almeno 100 milioni di sterline in aggiunta ai 200 milioni di stanziamenti pubblici, per erigere fabbricati attrezzati per i controlli e assumere il personale addetto. Rees-Mogg, tuttavia, fa spallucce e va dritto per la sua strada. Sa che Brexit è stata l’arma vincente dei Tories e del suo leader Johnson. L’inflazione alle stelle? Addebitabile principalmente al Covid e al conflitto russo-ucraino. Ingorghi alle dogane? Senza restrizioni alla frontiera e digitalizzando i controlli, il problema non si pone. Quanto ai malumori nel Nord Irlanda che hanno portato al recente trionfo di Sinn Féin alle ultime elezioni a Belfast, il ministro ha ribadito più volte che il governo britannico non esclude di rivedere il protocollo nord-irlandese sancito con la Ue, fautore di un confine di fatto nel mare irlandese fra la nazione britannica e il resto del Regno Unito. Tanto, secondo lui, è «improbabile» che la Ue reagisca con una guerra commerciale contro la Gran Bretagna.
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ATTUALITÀ
Le banche cantonali si adeguano ai tempi e ampliano le loro attività Finanza ◆ La diversificazione è un imperativo anche per uscire dal classico finanziamento ipotecario e parare eventuali problemi del mercato immobiliare Ignazio Bonoli
Il settore immobiliare svizzero ha conosciuto, in questi ultimi anni, una forte crescita. L’espansione era dovuta in gran parte a tassi di interesse eccezionalmente bassi. Più volte la situazione ha fatto temere una grave bolla speculativa che, prima o poi, sarebbe potuta scoppiare. La stessa Banca Nazionale ha avvertito gli istituti bancari del pericolo crescente di una situazione anormale. Sintomo evidente di questi sviluppi è per esempio anche il fatto che il confronto dei costi tra il finanziamento di un’abitazione in proprio era più favorevole dell’affitto di un’abitazione analoga, il che ovviamente ha fatto aumentare la tendenza verso l’acquisto o la costruzione di abitazioni in proprietà. È però bastato il leggero rialzo dei tassi ipotecari per riportare questo mercato in una situazione normale. In un contesto particolare come quello sommariamente descritto, come si sono comportate le banche, in particolare quelle maggiormente impegnate nel settore immobiliare?
Le 24 banche cantonali traggono ancora oggi in media il 62 per cento delle loro entrate dai crediti ipotecari Una recente indagine condotta dalla Neue Zürcher Zeitung su sette banche cantonali, tra le maggiori in Svizzera, permette di constatare che queste banche hanno cercato di diversificare le loro attività rispetto a quella tradizionale della raccolta di risparmio e di investimento immobiliare. Va detto che le banche cantonali, ma anche le banche Raiffeisen, sono quelle maggiormente impegnate in questo tipo di attività. Va anche aggiunto che in questa indagine occupa un posto preminente la Banca cantonale di Zurigo (ZKB), un istituto che non è soltanto la maggiore banca cantonale in Svizzera, ma che può anche essere catalogato fra le grandi banche del paese, come del resto è
avvenuto anche per l’Unione svizzera delle banche Raiffeisen. Il pericolo di una sovraesposizione nel settore ipotecario è stato avvertito da queste banche che hanno cercato di diversificare le loro fonti di reddito. Si è quindi subito potuto constatare che più la banca è grande, maggiori sono le possibilità di queste diversificazioni. Nell’Associazione svizzera delle banche cantonali, le 24 banche che ne fanno parte continuano comunque a derivare in media il 62% delle loro entrate dal differenziale sui tassi di interesse, gran parte del quale è dovuta al classico investimento ipotecario nel settore immobiliare. Seguono a grandi distanze le commissioni e i servizi (26%), gli affari commerciali (10%) e le altre fonti di entrate (2%). Le banche cantonali (nel loro insieme) sono, quindi, ancora in gran parte legate alle attività basate sul differenziale fra i tassi di interesse. La constatazione non vale però per tutte le banche cantonali. Come già accennato, le maggiori banche cantonali hanno maggiormente diversificato le loro attività. La ZKB, all’inizio degli anni 90, attingeva ancora le sue entrate nella misura di due terzi dal classico differenziale sui tassi di interesse, mentre oggi questa quota è scesa a meno della metà delle entrate. Anche la Banca cantonale vodese (BCVD) ha avuto un’evoluzione analoga a quella zurighese, ma altre banche cantonali mostrano tassi di dipendenza dal differenziale sui tassi di interesse ancora superiori al 60%. La Banca dello Stato del canton Ticino è vicina al 65% (su commissioni e servizi 26%, altri 9%). Per uscire da questa situazione, la ZKB ha sviluppato soprattutto il «Private Banking», analizzando soprattutto i segmenti più elevati della propria clientela ai quali propone servizi bancari particolari. La banca è comunque già ben introdotta presso la clientela con disponibilità attorno a 100’000 franchi. Settore nel quale può contare su un tasso di penetrazione del mercato del 50% nella zona della città di Zurigo.
La Banca cantonale di Zurigo, considerata di importanza sistemica, ha sviluppato in particolare il «private banking». (Keystone)
La ZKB non è però una banca cantonale tipica. Dalle autorità federali è stata inserita fra le banche «sistemiche», il che ha ulteriormente aumentato la centralizzazione rispetto al servizio alla clientela locale. Comunque anche altri istituti cantonali procedono nella stessa direzione. Tra gli esempi citati nel servizio vi è la Banca cantonale di San Gallo, tra le cui caratteristiche figura anche una forte proporzione di stranieri (tedeschi), molto significativa nella gestione patrimoniale. Anche per questa banca una svolta decisiva è stata data dalla crisi immobiliare della fine degli anni 90. Già nel 2001 la banca ha potuto ridurre l’importanza del differenziale degli interessi tra risparmi e crediti ipotecari al 62%. In seguito, l’acquisto della Zürcher Privatbank Hyposwiss, con un buon portafoglio variegato, le ha permesso anche di superare i confini cantonali. L’obiettivo era quello di ridurre al 50% l’importanza degli affari sui tas-
si di interesse, soprattutto attraverso la gestione patrimoniale. Obiettivo raggiunto nel 2007. I nuovi regolamenti sui depositi di stranieri non domiciliati hanno provocato l’abbandono di una gran parte dell’attività della Hyposwiss. Per sostenere la clientela in Germania, la banca ha costituito due filiali in Germania, attive a Monaco e Francoforte. Oggi, 8 dei 56 miliardi di franchi gestiti provengono dalla Germania, in conformità con i regolamenti europei, ma grazie alla fiducia nel «posto sicuro» e nel franco in Svizzera. La Banca cantonale di Lucerna ha invece scelto un’altra strada, costituendo un centro di competenze per prodotti strutturati. Tanto la ZKB, quanto la BCVD dispongono di una grande esperienza nei «derivati», della quale approfittano anche le banche cantonali di Argovia e Basilea. La banca lucernese vorrebbe invece completare per sé, per altre banche e gestori indipendenti, oltre ai propri
clienti, l’intera catena di prodotti da reddito. Oggi ci si potrebbe chiedere se il ritrovato aumento dei tassi di interesse possa provocare un ripensamento nelle banche cantonali. È comunque presto per dirlo, tanto più che la strada della diversificazione è sicuramente la strategia adeguata e il mercato immobiliare potrebbe conoscere qualche problema. La diversificazione permette invece di allargare la sfera della clientela, che spesso chiede anche una gestione attiva del proprio patrimonio. Il che non impedisce comunque a banche, che si identificano con un importante ente pubblico, di conservare la tradizionale prudenza, tanto più che l’allargamento delle attività le espone a situazioni difficili, come per alcune è successo in materia fiscale con gli Stati Uniti. Senza dimenticare che, allargando il campo di attività, entrano in concorrenza con altri istituti che non godono di una protezione particolare, come quella offerta dai cantoni.
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Tra poco andrò in pensione e ho intenzione di riscuotere in contanti una piccola parte del capitale di previdenza. Qual è il modo migliore per investire questo denaro? Presumo che nella ripartizione tra rendita e capitale abbia scelto in modo da coprire con la rendita le spese del fabbisogno quotidiano. Ne vale la pena, poiché questo denaro è garantito fino alla fine della vita. Il rischio di investimento rimane invece alla Cassa pensioni. Riguardo al capitale: oltre al denaro riscosso in contanti, dispone eventualmente anche di fondi su conti o polizze di libero passaggio e di fondi
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Per ridurre al minimo i rischi è consigliabile un’ampia diversificazione
del pilastro 3a. Come in tutti gli investimenti, per ridurre al minimo i rischi è consigliabile un’ampia diversificazione di questi strumenti finanziari. Ciò è particolarmente importante nell’attuale situazione di volatilità sui mercati. A questo scopo si prestano bene ad esempio i fondi strategici che comprendono azioni, investimenti a tasso fisso come i titoli di stato o i corporate bond e le attività liquide. Per aumentare la rendita AVS e della Cassa pensioni e generare un reddito supplementare, si utilizzano i cosiddetti piani di prelievo basati su fondi. Le quote di fondi vendute a cadenza regolare servono a fi-
Angie Schweizer, consulente alla clientela Banca Migros, esperta per i temi d’investimento.
nanziare una rendita supplementare flessibile. L’ammontare dei prelievi lo stabilisce personalmente. Non sussiste inoltre l’obbligo di effettuare prelievi e non ci sono durate fisse. Entrando nei dettagli, consigliamo di suddividere il patrimonio in tre parti. La prima parte è quella da consumare nei primi dieci anni dopo il pensionamento e serve a integrare la rendita. Per via dell’orizzonte d’investimento a breve termine, negli investimenti è opportuno puntare sulla sicurezza, con una quota azionaria inferiore al 25%. La seconda parte viene utilizzata per far crescere il patrimonio da consumare in un secondo tempo. L’idea
è di lasciare il denaro sul conto durante i primi anni del pensionamento, utilizzandolo a partire all’incirca dai 75 anni. L’orizzonte d’investimento più lungo consente una quota azionaria superiore, pari a circa il 65%. La terza parte del patrimonio è il denaro di cui non ha bisogno né a breve né a medio termine. Può investirlo in un piano d’investimento in fondi come base per le emergenze, oppure utilizzarlo per i suoi hobby. Consiglio Per trovare la soluzione su misura per lei, coinvolga il suo consulente alla clientela.
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Settimanale di informazione e cultura
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ATTUALITÀ / RUBRICHE
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Il Mercato e la Piazza
di Angelo Rossi
All’orizzonte, 80’000 frontalieri ◆
L’evoluzione demografica continua a tener banco tra gli oggetti politici di attualità nel nostro Cantone. Due settimane fa il dibattito che stava orientandosi verso un problema in sé secondario, quello della cosiddetta «fuga dei cervelli», è stato rianimato dalle previsioni, molto preoccupanti, consegnate in uno studio dell’evoluzione dell’offerta e della domanda di lavoro nei prossimi cinque anni, preparato dalla Supsi. Intendiamoci: i risultati dello studio sono preoccupanti nella misura in cui queste previsioni dovessero confermarsi. E non solo rispetto alla variante massima, quella cioè nella quali il divario tra le lame delle due forbici – quella dell’offerta e quella della domanda di posti di lavoro – risulta massimo, ma anche nel caso della variante minima che anticipa pur sempre un fabbisogno di manodopera da soddisfare, tra cinque anni, dell’ordine
delle 33’000 unità (il dato corrisponde all’aumento dei posti di lavoro, rispetto a oggi, più il numero delle persone attive che andranno in pensione e che, in principio, dovrebbero essere sostituite). Di questa previsione dei ricercatori della Supsi sappiamo solo quello che hanno pubblicato i giornali. Comunque, statistiche alla mano, non sembra che i loro risultati siano infondati. Se consideriamo come la domanda (i lavoratori) e l’offerta di lavoro (quella che proviene dai datori di lavoro) sono evolute nel corso degli ultimi 15 anni, possiamo affermare che i risultati delle varianti dello studio Supsi non sono certamente lontani dalle previsioni che si potrebbero fare estrapolando le tendenze di evoluzione in atto. Addirittura questo continuerebbe a valere anche se si tenesse conto degli eventuali brevi colpi di freno nelle assunzioni, imposti dalle misure an-
ti-pandemiche. Aggiungiamo ancora che l’attendibilità di queste previsioni viene rafforzata dal fatto che il periodo di previsione è brevissimo: si tratta di soli 5 anni, quindi praticamente di dopodomani. Stando agli autori dello studio, tra 5 anni, per far fronte al fabbisogno di 33’000 nuove forze di lavoro, ci sarebbero solamente 28’000 lavoratori alla ricerca di un posto di lavoro. Mancherebbero dunque al mercato del lavoro ticinese almeno 5000 lavoratori per poter equilibrare l’offerta di posti di lavoro proveniente dalle aziende. Stiamo quindi avviandoci verso un mercato del lavoro con almeno 80’000 frontalieri. Di fatto però le dimensioni del disequilibrio sono maggiori perché, secondo i ricercatori della Supsi, i giovani che, nel Cantone, terminano la loro formazione sono «disallineati» rispetto alle offerte di posti di lavoro delle aziende. Sul mercato del lavo-
ro locale si registrerebbero eccessi di domande di lavoro, da parte dei giovani, nei settori fiscale, bancario, assicurativo, del marketing e della pubblicità, ma anche nelle professioni che richiedono una formazione in scienze umane, artistiche e sociali. Questi giovani lavoratori in esubero sono probabilmente quelli che alimentano i flussi della fuga dei cervelli. Per contro si registra una scarsità di domande di impiego per quelle occupazioni per cui non è necessaria una formazione con una specifica specializzazione. Siccome non abbiamo ancora avuto la possibilità di leggere lo studio della Supsi non siamo in grado di precisare di quali occupazioni si tratti. Su questo aspetto sarà bene ottenere maggiori informazioni. E, in particolare, sui salari che vengono offerti a lavoratori senza una specifica specializzazione. Perché, secondo noi, nella scelta della formazione pro-
fessionale la vocazione conta di certo molto, ma anche le probabilità di carriera e, dulcis in fundo, il salario hanno il loro peso. Lo studio della Supsi, sollecitato da un’associazione di datori di lavoro, conferma due tesi che, da anni, vengono propagate dagli stessi. Stando alla prima, la domanda di posti di lavoro da parte della manodopera locale sarebbe insufficiente a coprire il fabbisogno crescente in lavoratori dell’economia ticinese, la quale, quindi, non può far altro che ricorrere, in misura crescente, alla manodopera frontaliera. La seconda tesi sostiene inoltre che il sistema educativo e della formazione professionale del Cantone non avvia i giovani residenti verso le professioni che vengono maggiormente richieste dall’economia e rappresenta quindi un attestato di parziale inefficacia per i servizi dell’orientamento professionale, pubblici e privati.
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In&Outlet
di Aldo Cazzullo
È tempo di trattative serie ◆
Qualcosa sta cambiando in Europa nella valutazione della guerra. Non è in discussione la solidarietà con gli ucraini aggrediti e la condanna dei russi aggressori. Ma è giusto porsi alcune domande. È possibile stare dalla parte degli ucraini, e nello stesso tempo lavorare per il cessate il fuoco? Non solo è possibile. È doveroso, ed è il miglior servizio che noi europei possiamo rendere agli ucraini; oltre che a noi stessi. I reportage e le testimonianze degli inviati sul campo non lasciano dubbi sulla brutalità e sui crimini compiuti dalle truppe russe. Aggressioni sistematiche a donne, anziani, bambini; stupro usato come arma di guerra; atrocità che in Europa non si vedevano dal tempo delle guerre civili balcaniche degli anni 90. Tutto questo non può essere relativizzato o giustificato; può solo essere denunciato con forza. L’invasione dell’Ucraina è stata per Putin sia un crimine, sia un errore. Se
davvero era pronta per lui una trappola, il satrapo di Mosca è andato a infilarcisi dentro; come capiscono anche gli esponenti più avveduti del suo entourage, chiamati adesso a fare professione di fede in pubblico se vogliono salvare il posto e la vita. Ora la priorità per tutti è interrompere i massacri, far tacere le armi, fermare la guerra, avviare una trattativa seria; la cui necessaria premessa è il cessate il fuoco. I più interessati a fermare la guerra sono ovviamente quelli che ne pagano il prezzo più alto. In primo luogo, il popolo ucraino, che ha dato una prova di resistenza al limite dell’eroismo. In secondo luogo, l’esercito russo, che non è composto solo da criminali, e ha già perduto molti uomini e bruciato molte risorse. In terzo luogo, l’Europa. Non è in discussione la fedeltà atlantica. Mai come adesso si comprende quanto sia importante l’alleanza delle democrazie. Cedere a Putin signi-
Il presente come storia
ficherebbe mettere in discussione il progetto di pace, di libertà, di democrazia, di sviluppo che da settant’anni è alla base dell’Europa. L’Europa è sempre avanzata nelle crisi: se con la pandemia ha iniziato a fare debito comune, con la guerra in Ucraina si deve dotare sia di strumenti militari condivisi, sia di mezzi decisionali più rapidi. È anche vero, però, che gli interessi dell’Unione europea e quelli degli Stati Uniti e dei loro alleati britannici non coincidono del tutto. Certo, fermare Putin è un interesse comune. E lo è anche armare gli ucraini, in modo che la loro resistenza possa portare i russi al tavolo delle trattative e indurli a un compromesso. Ma una guerra lunga, magari un anno come prevede Johnson, non logorerebbe soltanto i russi, come auspicato da Biden. Imporrebbe un alto prezzo di sangue agli ucraini, e un doloroso costo sociale agli europei. Non si tratta solo di spe-
gnere i condizionatori d’estate; la crisi energetica minaccia interi settori, e posti di lavoro a centinaia di migliaia. È chiaro che non si può darla vinta a Putin. Ma non si può neppure smettere di parlare con lui. È quello che ha sostenuto il Papa. È quello che sta facendo Emmanuel Macron, la cui rielezione è stata positiva per l’Europa. È quello che sta pensando di fare il cancelliere Olaf Scholz, che tra i leader occidentali è il più in difficoltà. Dell’eredità della Merkel, che ha rivendicato e raccolto, fa parte anche la dipendenza dell’industria tedesca dal gas russo. A complicare il quadro ci sono i due leader storici dell’Spd, il partito di Scholz: il presidente della Repubblica Steinmeier ha litigato con Zelensky per poi fare pace; l’ex Cancelliere Schroeder – che prese oltre 20 milioni di voti, mentre Scholz non è arrivato a 12 – ora fa l’impiegato di Putin, e nonostante questo gli ucraini gli hanno affidato una mediazione ri-
velatasi inutile. Né finora hanno portato frutti altre mediazioni, che potrebbero però rivelarsi preziose: quella di Israele, che tra Russia e Ucraina affonda le proprie radici storiche – Golda Meir era nata a Kiev, il leader del sionismo Zabotinsky era di Odessa –; e quella di Erdogan (la Turchia è nella Nato ma non aderisce alle sanzioni contro Mosca). Insomma, i canali di dialogo esistono. Usarli non significa tradire gli ucraini, ma aiutarli, e nello stesso tempo proteggere gli interessi europei. Perché è l’Europa a pagare il costo delle sanzioni, dell’aumento dei prezzi del gas e del grano, della crisi dei profughi, che ovviamente vanno accolti. È sull’Europa che incombe il rischio dell’escalation nucleare. È all’Unione europea che toccherà, se davvero l’Ucraina entrerà a farne parte, finanziare la ricostruzione. Siccome tra alleati ci si dice la verità, queste cose a Biden e a Johnson vanno dette.
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di Orazio Martinetti
Verso la fine del benessere elvetico ◆
L’unica disfida pre-elettorale tra Macron e Le Pen ha preso le mosse dalla diminuzione del potere d’acquisto dei francesi. Questione non nuova, ma che negli ultimi tempi ha assunto dimensioni angoscianti. La guerra in corso in Ucraina fa presagire il peggio: se entro breve non si dovesse arrivare a un cessate il fuoco (la pace è altra cosa), il «granaio d’Europa» chiuderà le porte, per riaprirle chissà quando. Già ora, con gli impianti portuali sotto assedio, l’esportazione è quasi cessata. Alla devastazione delle campagne ha contribuito anche la siccità. La crescita di mais, frumento, orzo e colza è largamente compromessa. Le conseguenze saranno disastrose, soprattutto nei paesi in cui la dieta quotidiana è fondata sul consumo di cereali panificabili. Ma le ripercussioni non risparmieranno
nemmeno le più ricche economie occidentali. La curva del rincaro sta salendo di giorno in giorno, e riguarda ormai un paniere che comprende, oltre agli alimentari, il carburante e l’olio da riscaldamento, innescando un generale effetto-cascata sui bilanci delle famiglie. Discorso analogo per le materie prime e per i fertilizzanti. I prossimi mesi saranno decisivi per capire quale strada imboccherà la vicenda, se quella di un graduale rasserenamento tra le parti, pur nel quadro di un conflitto a bassa intensità, oppure quella di una recrudescenza insensata. In questa seconda eventualità, il prossimo inverno sarà glaciale, sia sul fronte dei prezzi, sia sul fronte dell’approvvigionamento delle materie suddette. Finora l’economia elvetica, considerata nel suo complesso, ha retto. Anzi, il
paese è riuscito a superare le fasi critiche senza macerare in lunghe depressioni. La conclusione del trentennio glorioso (1946-1973) produsse alcune domeniche senz’auto, ma non intaccò l’apparato industriale e il sistema creditizio della Confederazione. Anche le successive crisi e mini-recessioni non provocarono strappi irreparabili nel tessuto produttivo; anzi, in taluni settori – orologi, farmaci, meccanica di precisione – provvidero a stimolare sia la ricerca che l’innovazione del prodotto. Nemmeno gli scenari negativi più foschi, come quello paventato dopo il rifiuto di aderire allo Spazio economico europeo nel 1992, corrosero lo zoccolo della prosperità nazionale. Certo, qualche cantone rimase indietro, ma comunque senza mai fuoriuscire dall’orbita nazionale. Quella traiettoria che il sociologo anglo-tedesco Ralf
Dahrendorf, nel suo volume Quadrare il cerchio (1995), aveva racchiuso nella formula «benessere economico, coesione sociale e libertà politica». Una formula, riferita ai paesi dell’universo Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), basata sulla tendenza alla piena occupazione, contrasto alla «nuova povertà» e soprattutto estensione della previdenza sociale, in poche parole dello «Stato sociale» o «Welfare State». Ebbene, questa economia del benessere, fondata sulla minimizzazione dei guasti generati dal sistema capitalistico, rischia ora di andare in frantumi. I segnali sono allarmanti, anche nel nostro paese. Per molte persone si sta profilando un veloce scivolamento lungo un insaponato piano inclinato. I nuovi rincari vanno infatti ad aggiungersi a una vecchia piaga divo-
ratrice di reddito: alludiamo all’assicurazione malattia, il cui ennesimo aumento – previsto del 5-10% – colpirà anche le famiglie che finora erano rimaste sopra la linea di galleggiamento. È dunque molto probabile che si vada verso la fine del «Wohlstand» elvetico, quel modello di modesta agiatezza che dal secondo dopoguerra in avanti ha permesso di allargare la fascia che va sotto il nome di «ceto medio», la «pancia» della società. Uno strato abitato dalla maggioranza della popolazione che se la guerra dovesse proseguire rischia di sfarinarsi, di non più auto-sostentarsi senza l’ausilio di sussidi e quindi di precipitare nei segmenti bassi della piramide sociale. La politica dovrà prima o poi decidersi a intervenire per limitare i danni e per affrontare seriamente il tema delle disuguaglianze crescenti.
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Anno LXXXV 23 maggio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino 35
CULTURA ●
Parigi celebra le artiste Al Musée du Luxembourg una mostra ci racconta i folli anni Venti e le sue artiste innovative
Tom Cruise torna a Cannes Il Festival del cinema omaggia l’attore americano che sulla Croisette lancia il sequel di Top Gun
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Storia del pianeta blu Andri Snær Magnason ci racconta la sua moderna favola ecologica uscita per Iperborea
Una donna dirige al LAC Mirga Gražinyté-Tyla e la City of Birmingham Symphony Orchestra suoneranno questa sera
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I fantasmi letterari di New Orleans
Feuilleton ◆ Da Truman Capote a Ernest Hemingway da Tennessee Williams a William Faulkner, la città sulle rive del Mississippi è stata la musa ispiratrice di molti scrittori
La porta cigola piano. Per un attimo il baccano festoso di St. Peter Street si intrufola nella bottega silenziosa. Joanne Sealy, capelli biondo cenere, alza gli occhi dal libro che sta leggendo per un fugace benvenuto. È lei il volto della libreria più famosa di New Orleans. In città la conoscono tutti, lavora in questo minuscolo negozio da oltre trent’anni. Un luogo speciale, nascosto nel Pirate’s Alley, il «vicolo del pirata» nel Quartiere Francese. Un piccolo gioiello, che al nutrito assortimento di narrativa e poesia, affianca una selezione di edizioni rare. Qui si comprano libri e si ricevono in dono memorie. Il negozio ha aperto i battenti negli anni Novanta grazie all’avvocato Joseph DeSalvo, appassionato bibliofilo. «Il proprietario ha voluto trasformare quella che fu la casa dello scrittore William Faulkner in un posto speciale per chiunque ami i libri e la letteratura», dice Joanne. Mentre indugiamo tra gli scaffali, la libraia ci invita a guardare a terra, al pavimento scuro di pietra. «È ancora quello che calpestava Faulkner; lo abbiamo conservato così com’era, per preservare l’atmosfera». Tra queste mura prese forma La paga del soldato (1926), l’opera prima di un autore che sarebbe poi diventato uno dei più importanti romanzieri americani del XX secolo, premiato con il Nobel nel 1949 e con il Pulitzer nel 1955 e nel 1963. Arrivò a New Orleans nel 1924, saldando il sodalizio con il suo mentore, il narratore Sherwood Anderson, considerato uno dei padri della letteratura statunitense. Faulkner fu tra le voci che meglio raccontarono il Sud, partendo dall’ispirazione di luoghi come il Mississippi, dove era nato, e New Orleans in Louisiana, dove aveva vissuto. «Faulkner e Anderson non sono stati gli unici scrittori a innamorarsi di questa bellissima città. New Orleans ha accolto e ispirato decine di letterati», spiega Joanne. C’è chi ha scelto di chiamarla casa per sempre, chi si è lasciato stregare per breve tempo. Non c’è angolo che non sia stato toccato dalla penna di un grande scrittore: da Anne Rice (scomparsa lo scorso anno), regina del gotico e autrice di Intervista col Vampiro, che qui nacque, al drammaturgo Tennessee Williams, che vi trascorse quarant’anni, al poeta Walt Whitman che fu per breve tempo redattore di un quotidiano locale, solo per citarne alcuni. D’altronde questa è da sempre l’enclave americana dell’arte e della creatività. Lo si percepisce ancora oggi, passeggiando lungo i fascinosi viali del Quartiere Francese, incorniciati dalle caratteristiche case con i balconi in ferro battuto; perdendosi tra le mille bancarelle dei pittori di Jackson Square che incorniciano il piazzale della cat-
tedrale di Saint Louis; lasciandosi abbracciare dal ritmo del jazz che effluisce dai bar di Bourbon Street, dai club di Frenchmen Street o da quello degli artisti di strada, capaci di andare avanti per ore anche quando piove. La più europea delle città americane è un luogo unico al mondo, un ordito di arte, musica, gastronomia e letteratura. Fondata nel 1718 come colonia francese intitolata al Duca di Orleans, è la città della festa per antonomasia. Dal Carnevale al Mardi Gras, al New Orleans Jazz and Heritage Festival, passando per decine di altre celebrazioni inclusa la Voodoo Experience, dedicata agli antichi riti vudù creoli. «A New York, gli eccentrici, quelli autentici, sono ignorati. A Los Angeles vengono arrestati. Solo a New Orleans è permesso loro di sviluppare le eccentricità fino a farle diventare arte», sentenziava Tennessee Williams. Il drammaturgo arrivò in città nel 1938 per immergersi completamente nella scrittura, finanziato da un gettone della Works Progress Administration. Visse in diverse abitazioni di Vieux Carré, come si chiamava il Quartiere Francese, che ispirò la sua opera più amata. Al 632 di Saint Peter Street, infatti, scrisse la prima stesura del capolavoro Un tram chiamato desiderio, ambientato proprio in città. Ancora oggi gli «streetcar», i celebri tram colorati, attraversano New Orleans in lungo e in largo, regalando ai visitatori un’esperienza magica, quasi fosse un salto a ritroso nel tempo. «A New Orleans – ammetteva l’intellettuale che era nato in Mississippi – ho trovato il tipo di libertà di cui avevo sempre avuto bisogno… mi ha dato un soggetto, un tema, che non ho mai smesso di sfruttare». Effettivamente Williams visse intensamente la città, abbracciandone ogni aspetto. Inclusa la policroma scena gastronomica che scaturisce dalla effervescente commistione di culture: afro-americana, francese, spagnola. È questo intreccio che dà vita al sapore meticcio e speziato dei piatti creoli e cajun, preparati nei numerosi ristoranti. Come quelli che ancora oggi serve
Keystone
Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni, testo e foto
Galatoire’s, uno dei locali preferiti da Tennessee Williams (al 209 di Bourbon Street), che vi cenava spesso in solitudine, accomodato in un tavolinetto accanto alle vetrate, diventato oggi uno dei più richiesti dai clienti. Il ristorante offre da un secolo un menù franco-creolo che include le pietanze amate dall’autore teatrale, ovvero la
Trout Almondine e la Shrimp Remoulade. Proprio in Un tram chiamato desiderio, Stella porta Blanche a cena da Galatoire’s. Saporiti trota e gamberi sono ancora disponibili a chi voglia regalarsi una «full immersion» nelle atmosfere di Williams. I ristoranti, d’altronde, hanno avuto un ruolo primario sulla scena letteraria di New Orleans. Da Antoine’s (al 713 di Saint Louis Street), ad esempio, è stato ambientato il giallo di Frances Parkinson Keyes Pranzo da Antonio. Sono famosissime ancora oggi le Ostriche Rockefeller (coperte con una salsa verde di burro, prezzemolo, erbe e spinaci, poi grigliate col pangrattato) che qui furono inventate. Una passeggiata letteraria di New Orleans, però, non può non concedersi una lunga sosta nel luogo che meglio di tutti racconta la storia dotta, ovvero l’hotel Monteleone. L’edificio sorge al 214 della seducente Royal Street, il boulevard che custodisce le più belle botteghe d’arte del Quartiere Francese. Aperto nel 1886 da un calzolaio di origine siciliana di nome Antonio Monteleone, questo albergo fa da sfondo a circa 173 racconti e romanzi ed è la sede del Tennessee Williams Literary Festival che si celebra in primavera. Hanno soggiornato qui William Faulkner, Tennessee Williams, Sherwood Anderson, Ernest Hemingway, Eudora Welty. Truman Capote (ritratto nella foto con in braccio un gatto) raccontava addirittura di esservi nato. In realtà la madre, colta dalle doglie di parto, fu prontamente trasportata in un vicino ospedale. La versione dell’autore di Colazione da Tiffany, però, ha retto
per anni, contribuendo ad arricchire il fascino di questo hotel. Soprattutto del suo Carousel Bar, adorato dagli artisti del passato e ancora oggi, attrazione amatissima. Il bar è davvero un carosello che lentamente gira, con 25 seggiolini ognuno diverso dall’altro, dipinti da artisti locali. L’esperienza, di fatto unica, è stata fermata in decine di pagine di letteratura come il racconto The Purple Hat di Eudora Welty, il dramma La rosa tatuata di Tennessee Williams, la short story La notte prima della battaglia di Ernest Hemingway. Una volta assicurato il proprio posto sul carosello, si potrà ordinare un fortissimo Sazerac, il primo cocktail americano mai composto e drink ufficiale di New Orleans, che dal 1838 combina whiskey o cognac, assenzio, zucchero e Peychaud’s Bitters. I fortunati che, oltre a bere, resteranno anche a dormire in hotel «scelgono spesso di soggiornare in una delle suite letterarie, dedicate a Faulkner, Capote, Williams, Hemingway e Welty», spiega Lisa Thompson, responsabile della comunicazione. Le più belle, affacciate sul Mississippi, oggi accolgono i nuovi artisti, le celebrità e chiunque possa permettersi il prezzo di una Penthouse. Eppure per godersi la New Orleans letteraria, non occorre un grande budget. Bastano passione e un paio di scarpe comode. Il resto lo farà la bellezza di questi luoghi, imprescindibili per chiunque ami gli Stati Uniti. D’altra parte come disse una volta Tennessee Williams: «L’America ha solo tre città: New York, San Francisco e New Orleans. Tutto il resto è Cleveland».
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Anno LXXXV 23 maggio 2022
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azione – Cooperativa Migros Ticino
CULTURA
Il Romanticismo svizzero in trasferta Mostre
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Ben 75 capolavori della Fondazione Oskar Reinhart di Winterthur esposti nelle sale del Centro San Gaetano a Padova
Agostino Savoldelli
Capita a volte di incontrare persone che hanno dato parecchio alla loro nazione, coniugando interessi finanziari personali con azioni di utilità sociale e in due campi diametralmente opposti, l’industria e l’arte, quasi a compensazione l’una dell’altra. Così fu la vita di Oskar Reinhart (1885-1965) che, seguendo le orme paterne, continuò l’attività della sua fiorente industria tessile nel cantone di Zurigo, ma fino a un certo punto, precisamente fino al 1924, quando decise di dedicarsi prevalentemente alla sua passione per il collezionismo d’arte che già aveva cominciato il suo genitore. Fu così che piano piano si creò un patrimonio di disegni, di sculture e soprattutto di pitture che lui stesso definì dal «contenuto poetico ed emozionale». Non la tenne solo per sé, ma edificò nella sua residenza Am Römerholz, a nord di Winterthur, un’ala apposita aperta ai visitatori. Inoltre, visto che credeva all’utilitas publica dell’arte, nel 1951 diede vita alla Fondazione che porta il suo nome per gestire il lascito al Kunst Museum della sua città.
Molti sono i pittori svizzeri presenti al Centro San Gaetano, si va dalla pittura di paesaggio di Alexandre Calame, Robert Zünd e Rudolf Koller a una serie di stupendi ritratti come Louise la figlia dell’artista Proprio da quest’ultima istituzione pubblica proviene la selezione di 75 dipinti operata da Marco Goldin, curatore dell’esposizione in corso al Centro San Gaetano di Padova, gestita dalla società Linea d’ombra di cui Goldin è fondatore. Le opere in
trasferta coprono un raggio temporale di un secolo e mezzo, a partire da alcuni esemplari di fine Settecento come Il ghiacciaio di Grindelwald del connazionale Caspar Wolf (1774), fino ai primi anni del Novecento con le cinque donne in blu dallo Sguardo verso l’infinito (1916) del bernese Ferdinand Hodler. Il corpo centrale della mostra, che permette al visitatore di avere una panoramica lunga cent’anni sull’arte svizzera e tedesca, è invece rappresentativo dell’intero Ottocento, secolo che ha visto il trionfo del Romanticismo in ogni campo artistico, basti pensare alla musica, alle opere liriche, alla letteratura, alla filosofia e, appunto, alle composizioni pittoriche con predominanza dei paesaggi e dei ritratti. Passando in rassegna le sette sezioni in cui Goldin ha suddiviso la rassegna patavina, scorrono sotto i nostri occhi campagne, boschi, montagne e vette innevate, villaggi e città, un insieme di pitture in cui l’anima e la sensibilità dell’autore si rispecchiano nei colori impressi sulla tela come in Le bianche scogliere di Rügen (1818) di Caspar David Friedrich, tra i massimi esponenti del romanticismo tedesco (presente con cinque capolavori) che vede il mare come simbolo dell’infinito a cui anela l’uomo. Sempre lui in Città al sorgere della luna (1817) e Porto al chiaro di luna (1811) dipinge il nostro satellite naturale come fosse un ponte luminoso verso la vastità dell’universo. Proprio con la corrente romantica, nata in Germania e poi diffusasi in tutta Europa, la natura e i paesaggi, ma pure i ritratti, vengono assurti a testimoni di una nuova sensibilità espressiva che fa leva sul sentimento interiore, sull’emozione, sulla fantasia e sulla spiritualità rediviva, tutte
Giovanni Segantini, Paesaggio alpino con donna all’abbeveratoio, 1893. In basso Ferdinand Hodler,Louise DelphineDuchesal, 1885. (© SIK-ISEA Zurigo)
istanze un po’ neglette dall’illuminismo razionalista settecentesco, ed è da questi presupposti che viene il
sottotitolo della mostra Storie di lune e poi di sguardi e montagne. Molti sono i pittori svizzeri presenti al Centro San Gaetano, si va dalla pittura di paesaggio di Alexandre Calame, Robert Zünd (Prato al sole, 1856) e Rudolf Koller a una serie di stupendi ritratti come Louise la figlia dell’artista (1874) e Le piccole magliaie (1892) e pitture d’ambiente come L’asilo (1890) di Albert Anker, uno dei più popolari artisti che ha saputo trasmettere in modo poetico l’identità nazionale. Un nutrito numero di quadri è dedicato a Hodler con alcuni ritratti e le alte vette dell’Oberland bernese – La Jungfrau da Mürren (1911) – che assieme alle vedute del Maloja di Giovanni Segantini infondono un senso di pace e di beatitudine che sconfina nell’e-
terno. Ci sono anche alcuni stupendi ritratti di Giovanni Giacometti come La vecchia (1912) e una sezione monografica sul basilese Arnold Böcklin con le sue raffigurazioni mitologiche che manifestano l’attaccamento del pittore al mondo classico. Lasciamo a voi la possibilità di scoprire il resto della mostra. E che sollievo entrare oggi in una rassegna d’arte con tutte quelle immagini orrende che ci passa l’attualità. Dove e quando Dai Romantici a Segantini. Storie di lune e poi di sguardi e montagne. Capolavori dalla Fondazione Oskar Reinhart, Centro San Gaetano, via Altinate 71, 35121 Padova. Fino al 5 giugno 2022. Info orari: www.info.lineadombra.it
Tierisch! Mostre bestiali a Basilea Esposizioni
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La città si accosta al mondo animale tra passato e presente
Marco Horat
momento che in tutto il mondo sono molti gli strumenti realizzati con parti di animali; il Museo della Farmacia infine presenta i vari preparati medicinali a base animale che l’uomo confeziona da sempre. E l’Antikenmuseum cosa propone? «Nell’antichità classica non erano tanto gli animali domestici a essere rappresentati quanto quelli selvatici, spiega Bignasca. È rara la scena di un contadino con pecore o capre; si vedono piuttosto leoni, tori, stambecchi, pantere, serpenti. Importante è il loro valore simbolico: la forza, l’agilità, l’audacia e quindi la regalità e il potere che ne derivava a chi era in relazione con loro». Come del resto già in Oriente e in Egitto. Il passo successivo ci porta alle creature fantastiche che uniscono caratteristiche diverse di animali più o meno feroci: i centauri, le chimere, le sfingi, i grifoni. «Questi ibridi sono mostri che fanno paura ma al tempo stesso affascinano. Per fare un esempio: i grifoni, testa d’aquila e corpo di leone, si credeva custodissero il mitico oro degli Sciti in terre lontane, misteriose e sconosciute. Simboleggiano il diverso, ciò che è estraneo alla propria cultura, quello che non è umano, che vive nei boschi e che quindi
bisogna combattere e distruggere affinché la civiltà si affermi. Non a caso sono gli eroi greci che lottano con queste creature: Odisseo, Eracle, Teseo, Edipo». Ma il discorso è anche più complesso e ci porta ad argomenti di grande attualità, visti i tempi di incertezza nei quali viviamo, che trascendono il mondo animale e ci toccano direttamente: «Secondo me i mostri e quello che significano – di-
ce il Direttore – sono anche proiezioni della nostra psiche in momenti particolari della storia. Eracle ha eliminato tante di queste creature per salvare la civiltà, ma facendolo è diventato peggiore di esse: violento, ubriacone, violentatore di donne e uccisore di figli. Dove c’è luce c’è anche ombra insomma e la linea di demarcazione tra il bene e il male è sottile come la cresta dell’Eiger; ci vuole poco per cadere dalla parte
© 2021 Museum der Kulturen Basel
Questa volta a Basilea l’hanno fatta grossa: quattro musei si sono riuniti per allestire altrettante mostre dedicate agli animali. «Cercavamo un tema di attualità – dice Andrea Bignasca, Direttore dell’Antikenmuseum – che coinvolgesse il nostro museo ma anche il Museo delle culture, il Museo storico della città e quello Universitario della Farmacia con le loro collezioni. Gli animali sono oggi spesso al centro di polemiche per i metodi di allevamento di massa impiegati e al nostro consumo sconsiderato di carne, alla troppa vicinanza con molte specie che può portare a contrarre virus pericolosi, come anche l’esperienza recente ci ha insegnato». Per non dire del tema dibattuto della caccia, degli esperimenti sugli animali, della presenza di predatori nelle nostre valli, del ruolo degli animali nei circhi e negli zoo, del business che ruota attorno al cibo in scatola per gli animali domestici. Un tema vasto, dunque, declinabile in mille sfumature. A ognuno il suo: il Museo delle culture spazia su diverse culture europee, asiatiche e africane: come sono presenti gli animali sia dal punto di vista pratico sia simbolico; nella parte storica viene dedicata attenzione ai suoni e alla musica, dal
sbagliata. Nei mostri l’uomo vede il pericolo, riversa le sue ansie profonde, ma mette pure la fantasia». Si potrebbe dire anche che vede nel mostro una sfida tentatrice e la voglia di prevalere per affermarsi». Una mostra è fatta di reperti: ceramiche, pitture, sculture ecc. Andrea Bignasca racconta quali sono i pezzi più significativi in mostra «L’esposizione è costruita su un climax ascendente a livello di scenografia e di suoni e passa dal fascino delle favole di Esopo al combattimento contro il Minotauro o la Chimera. Fascino e alienazione sono gli ingredienti-chiave per leggere il percorso emotivo che, naturalmente, è corredato da opere d’eccezione come ad esempio il pithos arcaico con Teseo che sconfigge il Minotauro salvando i fanciulli di Atene grazie al filo di Arianna; oppure l’anfora di Megara Hyblaea, anch’essa arcaica, che accosta il mito di Teseo a quello di Eracle che uccide il leone di Nemea, salvando la regione dal flagello». Dove e quando Tierisch! Per non perdere nessuna delle quattro mostre, tre delle quali terminano in giugno, consultare il sito www.tierischbasel.ch
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azione – Cooperativa Migros Ticino
MONDO MIGROS
IDRATAZIONE PROFONDA La forfora non è solo un fastidio estetico, perché spesso si accompagna a prurito. All’origine del problema può esserci un’eccessiva secchezza del cuoio capelluto o, viceversa, un’iperproduzione di sebo. Spesso, invece, il responsabile è un fungo che vive sul cuoio capelluto della maggior parte delle persone senza dare disturbo ma che, se prolifera eccessivamente, dà origine al fenomeno della forfora. La buona notizia è che esistono prodotti su misura per ovviare all’inconveniente
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Deterge, ripristina l’equilibrio della flora cutanea e apporta al cuoio capelluto tutta l’idratazione di cui ha bisogno. Shampoo idratante Dermaxpro Head & Shoulders 225 ml Fr. 6.95
2
IL BALSAMO
Protegge il cuoio capelluto e, grazie alla sua ricca texture, rende i capelli soffici e setosi.
3 1
La speciale formula dei prodotti è studiata per ripristinare l’equilibrio idrico del cuoio capelluto e rafforzare la barriera cutanea. Il principio attivo piroctolamina contrasta la proliferazione fungina e aiuta il cuoio capelluto a tornare in equilibrio. A dargli manforte provvedono aloe vera e vitamina E.
Balsamo idratante Dermaxpro Head & Shoulders, 200 ml Fr. 6.95
3
LA MASCHERA RIVITALIZZANTE
Grazie all’apposito applicatore va ad agire esattamente là dove il cuoio capelluto ne ha più bisogno. Al termine del tempo di posa si sciacqua – e il sollievo è immediato. Maschera antiforfora idratante Dermaxpro Head & Shoulders, 145 ml Fr. 7.95
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azione – Cooperativa Migros Ticino
CULTURA
Le «folli» pioniere del secolo scorso
Mostre ◆ Parigi celebra le artiste che hanno ridefinito la figura femminile anticipando le più attuali espressioni di libertà individuale. Lucia Pesapane, curatrice associata dell’esposizione parigina, ci racconta l’esposizione Alessia Brughera
Gli anni Venti del Novecento sono stati caratterizzati da un’estrema vivacità culturale e sociale. La Grande Guerra si era da poco conclusa e forte era il desiderio di divertirsi e di godersi la vita. La capitale di questa effervescenza era Parigi, città magnetica, disinibita e accogliente. Negli «années folles» che vanno dalla fine del primo conflitto mondiale al crollo della borsa di Wall Street nel 1929, le donne incominciano a ritagliarsi una parte da protagoniste. D’altronde la guerra non aveva soltanto trasformato in maniera radicale il mondo del lavoro, ma aveva anche sollecitato un profondo mutamento nei costumi così come nei concetti di famiglia e di matrimonio, liberando un’energia femminile che traeva la sua linfa dalla coscienza del grande valore della donna nella società. Proprio attorno al ruolo primordiale di alcune di queste «nuove donne» è costruita la mostra Pionnières. Artistes dans le Paris des Années folles al Musée du Luxembourg di Parigi, una rassegna che dà visibilità a quelle artiste innovative e provocatorie che sono state capaci di cogliere lo spirito della loro epoca e trasmetterlo nelle loro opere. Queste pioniere sono state le prime a vestirsi come desideravano, a esprimere liberamente la loro sessualità, a raggiungere l’indipendenza economica. Erano donne colte, ambiziose ed emancipate che hanno rappresentato il mondo come loro, e non gli altri, lo vedevano. Senza compromessi e senza finzioni. A raccontarci la mostra è la storica dell’arte Lucia Pesapane, curatrice associata dell’esposizione parigina che ha il merito di guardare le donne con lo sguardo delle donne. Che aria si respirava nella Parigi degli anni Venti del Novecento? Con il trattato di Versailles un nuovo equilibrio geopolitico aveva fatto sì che in quegli anni a Parigi, più che in ogni altra capitale europea, convergessero intellettuali e artisti, spesso in fuga dal puritanesimo, dalla repressione dei costumi o dal proibizionismo dei loro Paesi. La Ville Lumière era vista come una città di libertà e di tolleranza. L’omosessualità era già relativamente consentita, quindi si po-
anni Venti del Novecento e i nostri anni Venti. Questo secolo di differenza ci fa ha fatto capire che oggi non abbiamo inventato nulla. Parliamo di gender fluid, di intersezionalità, di terzo genere, di non binarietà: tutti o molti di questi concetti erano nati già a quell’epoca ed erano cose già sperimentate da un certo gruppo di artiste. Claude Cahun, fotografa e scrittrice francese, dichiarava che «neutro» era il solo genere che le si addiceva. L’omosessualità e la bisessualità erano vissute da pittrici quali Tamara de Lempicka e Romaine Brooks. Era un modo di portare al limite la ricerca di libertà che le donne stavano testando. Purtroppo, poi, gli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, con i totalitarismi e la Seconda guerra mondiale, soffocheranno questa voglia di sperimentare diverse identità.
Suzanne Valadon, Jeune femme aux bas blancs, 1924. (© musée des Beaux-Arts, Nancy / photo G. Mangin)
teva vivere un’emancipazione che altre metropoli non concedevano. Qui, per la prima volta, le accademie private permettevano alle donne di frequentare gli atelier di nudo. Quelli erano anche gli anni della nascita di nuovi generi musicali, come il jazz, dei café-concert, dei cabaret. C’era tanta voglia di divertirsi: Parigi era una festa, come diceva Ernest Hemingway. Gli sconvolgimenti del primo Novecento hanno portato numerosi cambiamenti a livello sociale, avviando una rivoluzione nel concepire il ruolo della donna. Perché sono definite «pioniere» le artiste presenti in mostra? Con la Grande Guerra le donne escono dallo spazio domestico, privato. Il primo conflitto mondiale rivoluziona il mercato del lavoro, consentendo loro di accedere anche a
quelli che fino ad allora erano considerati ambiti esclusivamente maschili. Ad esempio molte donne devono prendere il posto degli uomini in fabbrica. Per la prima volta, quindi, sono consapevoli del loro ruolo politico e in questo contesto si assiste a una forte accelerazione nella ricerca dell’affermazione dei loro diritti. Le artiste in mostra sono pioniere proprio perché incarnano questa nuova coscienza della forza delle donne, rispecchiando la loro volontà di essere parte importante della società. Esattamente un secolo fa, queste donne erano all’avanguardia anche per aver già affrontato con estrema disinvoltura temi legati ai concetti di identità e di genere… La mostra è proprio incentrata sulla tematica dell’identità. Abbiamo cercato di trovare dei parallelismi tra gli
Dal confronto tra gli anni Venti del Novecento e gli anni Venti che stiamo vivendo cos’altro emerge, anche dal punto di vista della visibilità delle artiste donne? Il mondo un secolo fa usciva da un conflitto e da una pandemia, l’influenza spagnola. Era sì un periodo dorato, però erano già presenti gli spettri dei totalitarismi. Quando facevamo le ricerche per questa mostra eravamo in piena pandemia da Covid e abbiamo assistito alla messa in crisi della democrazia in molti paesi. Oggi viviamo nell’epoca post Me Too in cui il ruolo della donna è ridefinito e ripensato per arrivare a una vera parità tra i generi. Le battaglie per i diritti devono continuare a essere sostenute perché purtroppo succede ancora che traguardi ottenuti con fatica vengano rimessi in discussione. Dal punto di vista artistico le cose sono sicuramente migliorate nonostante ci sia ancora una certa disparità tra uomini e donne nelle acquisizioni dei musei o nel mercato dell’arte. Indifferenti a convenzioni e stereotipi, le artiste in mostra hanno conferito una nuova immagine alla figura femminile. Come sono riuscite a tradurre nelle loro opere l’audacia che le contraddistingueva? Sono riuscite a farlo soprattutto nel modo in cui hanno rappresentato il
loro corpo e quello delle altre donne. Penso ad esempio a uno dei ritratti più iconici della mostra, La chambre bleue di Suzanne Valadon. In questo dipinto viene raffigurata una moderna odalisca in pigiama con un fisico dalle rotondità evidenti: è una donna non perfettamente truccata e pettinata, con la sigaretta in bocca. Vicino a lei non ci sono fiori ma libri. Non osserva lo spettatore, non si mette in scena. La Valadon dipinge il corpo di un’altra donna in maniera sincera e realistica. Spesso queste artiste ritraggono anche il proprio corpo nudo, con forme poco perfette e pose non convenzionali. Nelle loro opere non c’è più lo sguardo desiderante dell’uomo ma, come diremmo oggi, un female gaze. Così le artiste possono anche permettersi di dipingere i peli pubici o il momento che segue il piacere sessuale, proponendo una donna reale, non idealizzata. Nella mostra parigina ci sono artiste note e altre meno conosciute. Con quale criterio sono state selezionate? Sebbene nella rassegna ci siano anche nomi conosciuti, come Tamara de Lempicka o Suzanne Valadon, quello che volevamo fare era dare visibilità a tante artiste che negli anni Venti del Novecento lavoravano, esponevano, guadagnavano bene ed erano molto apprezzate, ma che sono state poi dimenticate. Abbiamo cercato di ridare voce a queste figure perché la storia dell’arte le ha tralasciate. In mostra, per esempio, c’è un’artista che si chiama Chana Orloff, di origine ucraina. Negli anni Venti aveva un successo incredibile, tanto che aveva fatto costruire il suo atelier parigino da Auguste Perret, uno dei maestri dell’architettura di quel periodo. Era una scultrice e tutte le grandi personalità del tempo facevano a gara per avere un suo busto o un suo ritratto. Oggi è completamente sconosciuta. Ecco, come lei tante altre artiste devono ritrovare lo spazio che meritano nella storia dell’arte. Dove e quando Pionnières. Artistes dans le Paris des Années folles. Musée du Luxembourg, Parigi. Fino al 10 luglio 2022. www. museeduluxembourg.fr
Fotografie della natura in versi francesi Traduzioni
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Esce da Cheyne Editeur Minimalia, raccolta poetica di Alberto Nessi
Alessandro Zanoli
È sempre un avvenimento importante quando un autore di casa nostra viene tradotto all’estero. Non succede spesso, e quando succede ci dà la bella impressione che si allarghino gli orizzonti, sempre un po’ ombelicali, della nostra letteratura cantonale. È il caso di Minimalia firmato da Alberto Nessi (nella foto) che esce dall’editore francese Cheyne nella traduzione di Christian Viredaz. Come ci ha spiegato lui stesso tutto è nato da un progetto originale dell’artista e performer Silvano Repetto. Questi, con una iniziativa letteraria che potremmo anche definire un’incursione, visto che esula dal settore d’attività per cui lo conosciamo, aveva ideato nel
2020 una serie di volumetti di poesia in cui avrebbe voluto accogliere versi di dodici poeti europei. Per l’occasione, pensando al secondo volumetto della serie, chiese a Nessi se non avesse qualche testo particolare. Partendo da questa proposta il poeta ticinese aveva recuperato nel suo archivio alcuni brevi componimenti, scritti nel corso degli anni. Sono versi un po’ diversi da quelli che gli conosciamo, brevissime composizioni, che ricordano gli haiku giapponesi, senza però osservarne la rigida struttura metrica. Per il lettore, che ritroverà nella raccolta i temi e i modelli cari alla poetica di Nessi, i suoi richiami alle minuzie del mondo vegetale e animale,
i suoi ritratti affettuosi e malinconici di personaggi del suo Mendrisiotto, tale forma minimalista (da cui il titolo Minimalia, appunto) non sarà un’enorme sorpresa. Potremmo dire però che proprio la brevità espressiva mette in risalto la sua lirica: la vena narrativa, che è sempre una costante del suo poetare, vi si stempera e si esalta invece l’immagine visiva, l’incontro con il particolare inaspettato. In qualche modo si tratta meno di racconti è più di fotografie in versi. Per quello che riguarda la traduzione di Viredaz, che conosce bene Nessi e che ha già volto in francese altre sue poesie, il lavoro è stato estremamente cauto e preciso. L’importante era
naturalmente saper rendere la concisione dei testi originali. La bella edizione a fronte permette a noi italofoni di apprezzare il risultato e di sentire «musicato» in francese il delicato ricamo di parole. Per i francesi, sarà certamente interessante fare l’esperienza di una poesia così semplice e vicina al proprio linguaggio parlato. Nulla sembra andare perso e anzi in qualche modo il testo guadagna in lirismo, estraniandosi un poco dalla sua ticinesità (o almeno è una nostra impressione, noi che conoscendo lo sfondo reale in cui si ambientano le sue poesie proviamo qualche brivido in più ogni volta che riusciamo a identificare gli oggetti e i personaggi di cui Nessi
ci parla). Un’occasione per vedere con occhi diversi e sentire con orecchie diverse come «suona agli occhi» di lettori di altre latitudini la poesia del nostro paese. Bibliografia Alberto Nessi, Minimalia, Ed. Cheyne, Devesset, 2022.
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Anno LXXXV 23 maggio 2022
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CULTURA
«Per come lo intendo io, Apertura senza lode Tchaikovsky’s Wife di Kirill il cinema si vede solo in sala» Cannes/2 Serebrennikov promette bene per la Palma d’oro ◆
Cannes/1 ◆ La Croisette omaggia Tom Cruise che torna al Festival dopo 30 anni e lancia il sequel di Top Gun
Nicola Falcinella
Tra i protagonisti delle prime giornate al 75esimo Festival di Cannes anche Tom Cruise. Attore che divide i cinefili, ma apprezzato dai migliori registi al mondo. Basti pensare che ha lavorato con tutti: da Martin Scorsese, a Stanley Kubrick, passando per Francis Ford Coppola, Steven Spielberg, Ridley Scott, Sydney Pollack, Michael Mann e Paul Thomas Anderson. Sulla Croisette è atterrato in elicottero dopo 30 anni (quando arrivò con Nicole Kidman a presentare Cuori ribelli di Ron Howard) per accompagnare Top Gun: Maverick (in arrivo nelle sale della Svizzera italiana) e si è concesso al pubblico (i 1.068 posti della sala Debussy erano tutti occupati) in una masterclass. Dopo una standing ovation iniziale ha ripercorso la sua carriera mettendo l’accento su alcuni concetti chiave. In particolare, ha evidenziato come non si sia mai dato alle piattaforme streaming, ma che continua a fare film solo per le sale cinematografiche. Un’idea molto apprezzata a Cannes, visto che è l’unico festival che resiste e non mette in concorso opere prodotte da piattaforme. «Per come intendo io il cinema, lo si può vedere solo in una sala. Del resto, sono cresciuto in questo modo e negli anni ho apprezzato la storia del cinema guardando molti film del passato, sin dai tempi di Charlie Chaplin e Buster Keaton. E ancora oggi adoro il cinema: a volte metto il mio cappellino, vado in incognito nella sala cinematografica e mi siedo in platea con il pubblico». Alla domanda se i produttori della Paramount gli avessero chiesto di mettere il film sulle piattaforme, dopo i continui rinvii dovuti alla pandemia, Cruise ha risposto ridendo: «Non hanno osato. Sapevano che non sarebbe mai successo. È vero, è stato un periodo difficile per i cinema, ma sono stato nelle sale, ho parlato con chi vendeva popcorn e lavorava alla cassa e li ho tranquillizzati. Quando un film come Mission Impossible o Top Gun sono pronti voglio vederli solo al cinema». Ha anche sottolineato come la sua passione per la settima arte sia iniziata molto presto: «Già a quattro anni
Keystone
Nicola Mazzi
volevo pilotare aerei e partecipare a un film. Mi piaceva molto anche arrampicarmi sugli alberi e scrivere storie con i vari personaggi. Mi ricordo che in quegli anni andavo spesso al cinema che mi pagavo con i lavoretti che facevo per i vicini. Poi, a 18 anni, ho iniziato a viaggiare grazie al cinema e ho capito quale sarebbe stata la mia strada». Una strada che lo avrebbe portato molto in alto e lontano. «Vero, ma ho studiato tanto e ho cercato sempre di imparare qualcosa di nuovo. Sin dai primi film – ha sottolineato Cruise – curiosavo dietro le quinte, chiedevo ai tecnici qualsiasi cosa: avevo sete di conoscenza, volevo capire come funzionasse la macchina-cinema. Non solo, mi piaceva viaggiare e conoscere altre culture, altre lingue, i differenti sistemi cinematografici». Partendo da questi principi Tom Cruise ha evidenziato più volte la sua idea di cinema: «Per me sul set hanno tutti la stessa importanza. Il film è un prodotto che scaturisce da più teste e grazie al lavoro dei tecnici. Ecco perché mi piace parlare di team e non del lavoro di un singolo. Anche il sequel di Top Gun è il frutto del lavoro di moltissime persone ed è la conclusione di un processo durato molti anni». Del resto, ha aggiunto, dopo il successo del primo all’epoca i produttori avevano insistito per un sequel, ma i tempi non erano maturi. «Non mi senti-
vo pronto e infatti ho dovuto studiare ancora molto per realizzarlo». È poi entrato nel merito di alcuni dei suoi film più famosi. Per esempio, ha ricordato come in Eyes Wide Shut, Kubrick gli fece ripetere diverse scene più volte. «Anche quello fu un lavoro di squadra. Con Stanley e Nicole abbiamo lavorato davvero moltissimo per trovare il tono giusto di ogni scena e quindi di tutto il film». Per quanto riguarda le sue note peripezie sul set, dove non vuole controfigure, ha detto: «Era il mio sogno da bambino che, grazie al cinema, è diventato realtà. Mi buttavo dalle piante, adoravo la velocità e negli anni queste passioni le ho trasformate in lavoro imparando a guidare aerei, buttandomi col paracadute, e trovandomi in altre situazioni al limite». Una masterclass sicuramente interessante anche se l’impressione che ci ha lasciato, uscendo dalla sala, è di qualcuno che avesse imparato una parte e la mandasse a memoria. Non per nulla, i concetti che abbiamo sintetizzato, sono stati ripetuti più volte, anche quando la domanda non lo richiedeva. Anche l’outfit (maglia, pantaloni, scarpe e calze nere) erano stati sicuramente studiati per l’incontro con una platea di appassionati di cinema. Ecco, abbiamo intravisto molto l’attore e poco l’uomo. Stanley Kubrick gli avrebbe sicuramente fatto ripetere la scena.
Il 75esimo Festival di Cannes, dopo l’annullamento del 2020, l’edizione essenziale e a ranghi ridotti dello scorso anno (ma con organizzazione quasi impeccabile e atmosfera perfetta per godersi i film), torna all’antico, con i grandi numeri pre-Covid, dagli spettatori agli ospiti ai film presentati. Il programma, che prosegue intenso fino a sabato quando saranno consegnate le Palme, è ipertrofico, con un numero sempre maggiore di film nelle diverse sezioni, a discapito della visibilità delle produzioni con meno budget per promuoversi. L’apertura è stata riservata a Coupez! del francese Michel Hazanavicius, che si era rivelato con OSS 117, parodia di 007 e aveva raggiunto l’Oscar con The Artist. Un regista che vorrebbe dimostrarsi eclettico facendo film diversi l’uno dall’altro (da uno fiacchissimo sulla guerra in Cecenia a un’inutile presa in giro di Jean-Luc Godard) e stavolta affronta il remake, con Romain Duris, Bérénice Béjo e tanti altri, del giapponese Zombie contro zombie. Nel film una troupe è sul set di zombie, una pellicola a basso budget, quando si affacciano dei «veri» zombie. Si dovrà andare indietro di un mese per capire la nascita di un progetto e le tante implicazioni, a partire dal lavoro del regista che a suo dire deve essere «veloce, economico e decente» fino ai rapporti familiari che vengono a galla. Il film nel film è abbastanza divertente, il dietro le quinte anche di più, nel mezzo si dilunga inutilmente con un’ironia poco efficace. Insomma, un’apertura senza infamia e senza lode per il Festival. Il concorso per la Palma d’oro, che vede in lizza 21 titoli, è iniziato con Tchaikovsky’s Wife del russo dissidente,
tanto che è costretto a vivere all’estero, Kirill Serebrennikov. Il regista, conosciuto per Summer – Leto, Parola di Dio e Petrov’s Flu, esplora la relazione tra il celebre compositore e la moglie Antonina Miliukova, già portata sullo schermo nel 1970 da Ken Russell. Giovanissima, la donna conosce il musicista a una festa, ne rimane folgorata e inizia un insistente corteggiamento di lettere e richieste di incontri, finché Čajkovskij acconsente a un matrimonio sorprendente e di facciata. Antonina non si rassegna ai presagi (si spegne la candela durante il rito del matrimonio ortodosso), alle assenze e ai rifiuti, è convinta di essere riamata e si chiude in un’ossessione, mentre la Russia zarista è oppressiva e costringe tanti in povertà. Serebrennikov realizza un melodramma barocco ed eccessivo, pure troppo visionario, molto ben confezionato e illuminato dalla protagonista Alyona Mikhailova, quasi sempre in scena, con uno sguardo che la candida alla Palma di migliore interprete. Mentre la Svizzera non ha film in gara, l’Italia è rappresentata da Nostalgia di Mario Martone che passa martedì e dalle coproduzioni Les amandiers di Valeria Bruni Tedeschi e Le otto montagne di Charlotte Vadermeersch e Felix Van Groeningen, dal romanzo di Paolo Cognetti sulla scoperta della montagna da parte di un ragazzo di città. Più interessante l’opera della spesso sorprendente attrice e regista che colloca a metà anni ’80, tra gli allievi del Théâtre des Amandiers di Patrice Chéreau a Parigi, una storia sulla giovinezza che vola via, sull’amore da vivere con leggerezza, la passione per il teatro: un ritratto di un’epoca e di una generazione con lo spettro dell’Aids.
Il cast di Tchaikovsky’s Wife. Da sinistra gli attori Alyona Mikhailova e Odin Biron, il regista Kirill Serebrennikov e l’attore Filipp Avdeev. (Keystone)
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Una moderna favola ecologica
Personaggio ◆ Lo scrittore islandese Andri Snær Magnason è tornato in libreria e noi lo abbiamo intervistato Angelo Ferracuti
La storia del pianeta blu (Iperborea) è il nuovo libro di Andri Snær Magnason (nella foto), scrittore e militante ambientalista a fianco della cantante Björk e candidato alle ultime presidenziali islandesi. La favola ecologica racconta la vita di Brimir e Hulda, due bambini che vivono su un’isola abitata solo da loro coetanei eterni e liberi in un habitat incantato fatto di boschi, animali fantastici, albe dorate. Mangiano, dormono e giocano quando ne hanno voglia, fin quando non arriva un’astronave con a bordo Gaio Fracasso, un adulto che promette loro di realizzare i sogni, come quello di volare, in cambio di una goccia della loro giovinezza che servirà ad altri bambini lontani, costretti a vivere perennemente al buio. Una storia di formazione, con sentimenti contrastanti che convivono tra loro – egoismo, senso del possesso, ma anche le difficili scelte responsabili della maturità – che invita a riflettere sullo sfruttamento delle risorse della terra a causa dell’uomo, e del fragile equilibrio in cui vive il pianeta, tema da sempre caro all’autore di Reykjavík che abbiamo intervistato. Nel suo nuovo libro, ma già anche nel precedente Il tempo e l’acqua (Iperborea) per parlare di cambiamento climatico è partito da metafore della tradizione letteraria e dalle mitologie islandesi, così come dall’esperienza dei suoi antenati, escursionisti e custodi della natura. È questo il compito di uno scrittore, affrontare i problemi attraverso le storie? Ho pensato che fosse mio dovere quantomeno cercare di comprendere questi problemi, come scrittore su questo pianeta e in questo preciso momento storico. Se nel prossimo secolo il pH degli oceani cambierà più di quanto abbia fatto negli
Angelo Ferracuti e Andri Snær Magnason durante il loro incontro nel bar di Reykjavik, luogo prediletto dell’autore per scrivere.
ultimi 50 milioni di anni, avremo un evento mitologico. La mitologia ha a che fare con gli elementi, storie di creazione, di distruzione e noi ne stiamo vivendo una. Stiamo assistendo agli eventi più drammatici nella storia geologica del nostro pianeta e la velocità del cambiamento ha proporzioni bibliche. Gli umani si sono evoluti 5 milioni di anni fa – più di 100 mila generazioni fa – e il semplice fatto che un singolo individuo osservi il cambiamento oceanico è già di per sé più di quanto le parole possano spiegare. Ha scritto che «se in poco tempo abbiamo creato la bomba atomica per distruggere il mondo, perché non dovremmo essere capaci di salvarlo il prima possibile?» Come si fa a rimuovere 1000 gigatonnellate di anidride carbonica nell’atmosfera nei prossimi 50 anni?
Nei prossimi decenni, il mondo deve eliminare tutte le emissioni di CO2. Se non saremo in grado di farlo potremmo perdere ogni cosa. Tutto. Allo stesso tempo dobbiamo rimuovere dall’atmosfera mille gigatonnellate di CO2, le quali continueranno a causare surriscaldamento durante il secolo, nonostante i nostri sforzi di abbassarne le emissioni. Quando uno studente chiede: perché dobbiamo studiare l’algebra? La risposta è semplice: abbiamo mille gigatonnellate di CO2 da rimuovere e nessuno sa come farlo. Ma perché studiamo l’etica? Perché chi ha studiato troppa algebra potrebbe inciampare in una soluzione che non sarebbe etica. Dobbiamo piantare alberi, ristabilire le paludi, dobbiamo cambiare i nostri sistemi di trasporto e implementare l’architettura degli edifici in modo da ridurre il bisogno di
riscaldamento e raffreddamento. Dobbiamo costruire macchine che si alimentano della CO2 presente nell’aria, e abbiamo già dei prototipi di questo tipo. In Islanda, una nuova struttura ne riduce circa quattromila tonnellate l’anno. Poi, mescolano la CO2 con l’acqua irrorandola nel terreno, dove si trasforma naturalmente in pietra CaCO3 (carbonato di calcio). Dunque, quello stabilimento è concreto, sono pur sempre quattromila tonnellate. Se fosse mille volte più grande ridurrebbe le emissioni di quattro milioni di tonnellate, quasi il corrispettivo dell’intera Islanda. Tuttavia, dovrebbe essere mille volte più grande per rimuovere quattromila gigatonnellate ed essere unità di misura su scala mondiale. Ha affermato che nelle nostre nazioni, quelle occidentali, «Decidiamo di salvaguardare una zona solo quando ne vediamo l’utilità pratica: la sua trasformazione in un parco nazionale o in un’attrazione turistica; e l’utilità dev’essere quantificabile, almeno in termini di profitto». La società dei consumi è diventata insostenibile? Viviamo in un sistema razionale. Un’educazione, un’economia, un’industria, dei media e una scienza razionali, o almeno così crediamo. Pensiamo di essere più svegli dei nostri antenati, più saggi dei «primitivi» che credevano all’esistenza dello spirito della foresta, un dio nella montagna o una forza nella cascata che doveva restare indisturbata, perché altrimenti sarebbero successe cose terribili. Quindi abbiamo mappato e misurato ogni cosa per scoprire che non esiste nessun dio della montagna nel nostro foglio Excel, né tantomeno uno spirito della foresta. O almeno così crediamo. Ci
siamo convinti che non c’è niente di sacro all’infuori del nostro desiderio di depredare la foresta, scavare la montagna e arginare la cascata, riempire la valle di oggetti usa e getta che una volta facevano parte della natura. Ma indovinate un po’, sta accadendo qualcosa di terribile: i ghiacciai si stanno sciogliendo, il livello degli oceani si sta alzando, le tempeste si fanno più intense. E con il senno di poi, sarebbe stato più razionale credere che almeno il 47,8% della natura fosse sacra e lasciarla così com’era. Ma ora è troppo tardi e fatichiamo a ristabilire un legame, e forse il sentimento di sacralità faceva parte del sistema immunitario della natura ma noi ne abbiamo distrutto moltissimo. Penso che le persone in futuro considereranno la creazione dell’economia usa e getta e di consumo del ventesimo secolo, come una delle eredità più irrazionali nella storia dell’umanità. La guerra in Ucraina quanto ha peggiorato la situazione climatica? Per far fronte alla crisi ambientale abbiamo bisogno di una forte dedizione, abbiamo bisogno di pace e cooperazione e non possiamo permetterci di buttare via denaro in carri armati, missili anticarro e tutto lo spreco tremendo a cui stiamo assistendo. Dovremmo renderci conto della necessità di eliminare velocemente i combustibili fossili, e quando questo tipo di necessità verrà visto come parte della sicurezza nazionale, andando a intaccare il budget della difesa, ci renderemo conto che cose che reputavamo impossibili d’un tratto diventano possibili. Bibliografia Andri Snær Magnason, La storia del pianeta blu, Iperborea, Milano, 2022. Annuncio pubblicitario
Kendrick canta il futuro
Musica ◆ Dopo una pausa di cinque anni il rapper di Comtpon, Premio Pulitzer nel 2017, torna con un doppio album Simona Sala
e ritriti, in qualunque lingua si esprimano – è dichiarata all’inizio di United in Grief (Uniti nel dolore): «I been going through something / 1855 days» (Ho attraversato qualcosa / 1855 giorni), che sono poi il tempo che si è preso per mettere su famiglia e scendere a patti con la condizione di afroamericano. Ne risulta, in un’ora di musica, un vibrante e ipnotico miscuglio di jazz, funk, gospel, pezzi recitati (come We Cry Together) e basi Anni 90 che ricordano un certo 2Pac, ma sempre sulla
Renell Medrano
Un verso di N95, la seconda traccia del nuovo album di Kendrick Lamar, uscito lo scorso 13 maggio, riassume solo una delle cause care al rapper di Compton: «The black and the white, the wrong and the right» (il bianco e il nero, il giusto e lo sbagliato, ndt). Fra i paladini di Black Lives Matter, K-Dot infatti non poteva fermarsi a una sola issue. E ben lo raccontano le 18 tracce di Mr. Morale & The Big Steppers, fra gli album più attesi dell’anno e meglio accolti dalla critica (come sempre, d’altronde), ma anche con le maggiori aspettative e il minor investimento promozionale immaginabile. I profili social di Lamar, infatti, sono stati fermi per mesi, e lui si è limitato a qualche singolo o featuring, conducendo una vita come sempre distante anni luce dai riflettori (in netto contrasto con tutta la scena rap e trap, che dei riflettori e di tutto ciò che risplende e luccica ha fatto la propria ragione di vita), quasi circondato da un alone di mistero. La pressione derivante dall’essere ormai oltre il mainstream di trap e rap – ancorati a temi e linguaggi triti
linea di un rap teso, contraddistinto da un flow vertiginoso e inconfondibile. Come è stato detto nella trasmissione Rap Life Review (YouTube), questo album va ascoltato «lontano dalla società», là, dove con tutta probabilità è nato. Non può e non deve fare da sottofondo, né per i suoi contenuti, né per la struttura formale, poiché va sviscerato e interpretato, alla scoperta di un discorso in musica complesso e doloroso. E Lamar lo fa partendo dalla propria storia, che affonda le radici in vicende famigliari di abusi (quello subito da sua madre), di queerness (come in Auntie Diaries), di salute mentale e di relazioni sentimentali tossiche. Ma si parla anche della pressione derivante proprio dal fatto di essere così bravo e unanimemente rispettato, come in Savior, dove dichiara che sì, Kendrick fa riflettere, ma non è il nostro salvatore. Ed è forse per questo che, sulla copertina, alla corona di spine del Salvatore, è accostata la pistola infilata nei pantaloni, a ricordare le strade da cui tutto partì, appena 34 anni or sono. K-Dot potrà anche non avere salvato nessuno, ma la sua musica, quella sì.
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CULTURA
Nuovo teatro da tredici paesi Spettacoli
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A Milano il Festival Indicativo presente
Giovanni Fattorini
Strehler 100 è il titolo del programma della durata di un anno (dal 14 agosto 2021 al 14 agosto 2022) che il Piccolo Teatro di Milano ha concepito per celebrare il centenario della nascita del suo fondatore (Trieste,14 agosto 1921). Momento culminante di Strehler 100 è il Festival internazionale intitolato Indicativo presente: per Giorgio Strehler (paesaggi teatrali), che ha avuto inizio il 4 maggio e si concluderà il 31 (sabato14 si è celebrato anche il settantacinquesimo anniversario della fondazione del Piccolo). Progettato da Claudio Longhi, nuovo presidente dello Stabile milanese, il Festival vuole essere una vetrina di alcune delle realizzazioni più significative, a livello globale, della recente produzione di spettacoli dal vivo. Vi partecipano 22 artisti provenienti da 13 paesi: Belgio, Brasile, Burkina Faso, Capo Verde, Francia, Grecia, Iran, Irlanda, Italia, Polonia, Portogallo, Svezia, Uruguay. Tratto unificante dei 25 spettacoli in cartellone (sei dei quali prodotti o coprodotti dallo Stabile milanese) è che non sono (fatta eccezione per Nora, regia di Theodoros Terzopoulos) messinscene o rielaborazioni di testi drammatici del passato, ma creazioni che guardano al tempo presente. Il Festival si è aperto con The Future, spettacolo coprodotto da Piccolo e firmato da Constanza Macras, coreografa argentina (Buenos Aires,1970) che dalla metà degli anni Novanta vi-
ve e lavora a Berlino, dove ha fondato la compagnia Dorkypark. Tema di fondo è il tempo (passato, presente e futuro), sviluppato attraverso una serie di quadri in sé compiuti che mescolano danza, musica registrata e dal vivo, parola recitata e cantata (con un eccesso di citazioni recitate in tono predicatorio o sentenzioso), arti visive e performance. In estrema sintesi: uno spettacolo ambizioso e confuso, per molti aspetti epigonale, e coreograficamente approssimativo.
Il Festival vuole essere una vetrina di alcune delle realizzazioni più significative, a livello globale, della recente produzione di spettacoli dal vivo Decisamente più interessante e coinvolgente è lo spettacolo scritto e diretto da Mariano Pensotti, drammaturgo e regista argentino (Buenos Aires, 1973), considerato uno dei più brillanti talenti teatrali dell’America Latina. Intitolato come il romanzo di Virginia Woolf (The Years) pubblicato nel 1937, Los años (Gli anni) è una commedia in 13 scene che racconta una storia ambientata nel 2020 e nel 2050. I personaggi principali sono Manuel (un architetto che nel 2020 ha quasi trent’anni), la figlia Laura
(che nel 2020 non è ancora nata), e un bambino che vediamo solo in alcuni frammenti cinematografici. La scena disegnata da Mariana Tirantte finge gli interni di quattro locali di uguale cubatura: due al piano inferiore (i living room) e due al piano superiore (le camere da letto). Nelle due stanze alla sinistra di chi guarda si svolge l’azione del 2020; in quelle a destra (che differiscono solo per pochi arredi dalle stanze a sinistra) l’azione del 2050. Poco distante dall’edificio, a sinistra, c’è un pianoforte con cui di quando in quando vengono eseguiti alcuni brani musicali. Accanto al pianoforte, Laura, che abbandonando di frequente il suo ruolo di Narratrice entra rapidamente in scena nei panni di sua madre Claudia (che nel 2020 è prossima al parto) o di sé stessa trentenne (nel 2050). Nel 2020, collaborando con un amico tedesco incaricato di realizzare un documentario sugli edifici di Buenos Aires che sono imitazione di quelli europei, Manuel riprende casualmente, all’interno di un edificio fatiscente, un bambino di 8 o 9 anni che si aggira tutto solo sottraendosi al suo sguardo. Quando riesce ad avvicinarlo viene a sapere che si chiama Raul e che ha perso ogni contatto con la madre e il fratello maggiore. Giorno dopo giorno, Manuel lo filma nei suoi percorsi e si adopera per rimediare in vario modo al suo isola-
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Un momento dello spettacolo Los años.
mento sociale. Presentato a un festival cinematografico, il documentario di cui è protagonista Raul riscuote un successo tale da convincere Manuel ad abbandonare la professione di architetto per quella di documentarista. Diventato docente di cinematografia in un’università tedesca di provincia, nel 2050 Manuel torna nella sua casa di Buenos Aires per rivedere Raul: vuole sapere che ne è stato di lui. Scoprirà che è morto suicida. L’esile trama è arricchita dalla presenza di alcuni personaggi secondari e da fitti dialoghi di notevole agilità, in cui vengono trattati (o meglio sfiorati, o appena accennati) temi quali l’architettura, il teatro, il cinema, la pandemia, il contesto socio-poli-
tico argentino, la povertà, la trasformazione e il decadimento di uomini e cose, ecc. Ho parlato di personaggi principali e secondari. A dire il vero, nessuna delle figure in campo (nemmeno Manuel, con la sua ossessione) mi sembra conseguire (benché gli attori siano davvero bravi) lo spessore di un vero «personaggio». Ciò che avvince maggiormente sono gli aspetti formali del testo e dello spettacolo: la frequente e rapida successione di scene ambientate in anni diversi e la fluida naturalezza con cui le immagini filmiche si inseriscono nel vivo dell’azione scenica. Informazioni wwww.piccoloteatro.org
Danza che passione Spettacoli ◆ Cosa ci è piaciuto degli appuntamenti in cartellone nel mese della danza in Ticino Giorgio Thoeni
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In calendario dal 10 al 15 maggio Festa danzante Ticino organizzata nella nostra regione da Tiziana Conte con la sua équipe ha potuto regalare a una variegata platea le sue singolari dinamiche disseminandole fra spazi teatrali, musei, parchi, piazze e persino facciate di edifici. Da Lugano a Mendrisio, Locarno, Bellinzona e Chiasso è stata così una fioritura di interessanti eventi creati per avvicinare il pubblico alla danza. Ci siamo soffermati su due spettacoli allestiti sul palco del Teatro Foce (in collaborazione con il LAC), specchio di una contemporaneità in cui la creatività fa il paio con una costante e approfondita ricerca. Dal pluripremiato Beast Without Beauty (Bestie senza bellezza) della C&C Company
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Un momento di ARIA.
di Carlo Massari, una dimensione cinematografica del primo impatto che si sviluppa in una frenetica, irriverente e ponderata riflessione sulle miserie umane attraverso archetipi del male. Primo fra tutti nell’incontro hitleriano con la razza eletta in una variante tra solitudini beckettiane e inquietudini orwelliane. Quasi una emblematica proiezione sulle drammaticità del presente. Uno spettacolo volutamente forte, ambiguo, ibrido e dalla dinamica perfetta nella coreografia di Carlo Massari con Emanuele Rosa, affiatati e instancabili interpreti di un meticoloso progetto di arte anfibia ovvero di una realtà postdrammatica che coniuga varie discipline. Altro discorso con ARIA della Cie Prototipe Status di Jasmine Morand, un bell’assolo di Fabio Bergamaschi incentrato sulla percezione della velocità da parte di un pilota automobilistico fra leggerezza, impatto con l’aria e la resistenza dettata dalla gravità. Una prova di fisicità misurata, dinamica e post-futurista, sul soffio di tre maxi ventilatori. Per concludere non potevamo dimenticare l’insolito incontro fra la danza e la letteratura celebrato al San Materno di Ascona con il noto scrittore e critico Silvio Perrella per una sorta di rilettura filosofica di Italo Calvino. Un viaggio fra parole e gestualità con la complicità coreografica di Tiziana Arnaboldi e due danzatori della sua compagnia, Francesco Colaleo e Maxime Freixas, votati alla costruzione di geometrie in movimento.
Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 23 maggio 2022
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CULTURA
Una donna sul podio Concerti
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Mirga Gražinyté-Tyla stasera dirige il concerto al LAC
anni dopo Andris Nelson, che proprio in questa stagione ha trionfato a Lugano Musica con la Filarmonica della Scala, addirittura dopo sole tre prove. Maddock ha rivelato ai media inglesi che già la sera del primo concerto con Gražinyté-Tyla gli orchestrali gli avevano inviato mail appassionate: «Il concerto più entusiasmante dell’anno!», «La vorremmo, siamo in un pub e non parliamo d’altro». Lei (nella foto) è stata all’altezza delle aspettative, osando: in un concerto ha fatto precedere la quinta sinfonia di Beethoven dalla Marcia funebre di Purcell, nella quarta di Mahler aveva sostituito il soprano, malato, con un
solista Gabriela Montero, volto noto al pubblico luganese come presenza immancabile nelle gloriose edizioni del Progetto Martha Argerich. «Quando Stephen Maddock, capo della CBSO, mi chiamò, gli attaccai il telefono in faccia: avevo la febbre, ero stesa a letto, “lo richiamerò domattina” mi dissi; così feci e può immaginare la sorpresa quando mi propose di assumere la guida dell’orchestra: avevamo suonato appena due concerti assieme». La storia della formazione britannica può forse edulcorare lo stupore: nel 1980 aveva ingaggiato Simon Rattle, allora sconosciuto 24enne poi assurto al timone dei Berliner Philharmoniker; anche Sakari Oramo, nel 1998, venne scelto dopo due concerti; dieci
bambino del coro delle voci bianche, ed è lei stessa a cantare nel disco dedicato a Weinberg. «Quando sono sul podio canto sempre, anche semplicemente tra me e me, e il mio desiderio è “far cantare” l’orchestra, ispirare il senso della melodia e il fraseggio arioso. D’altronde mio padre è direttore di coro, mia madre è pianista e canta, e in generale in Lituania la tradizione corale è fiorente. Ho trascorso tutti i minuti della mia infanzia con i miei genitori, mi portavano ai concerti, alle prove, ai concorsi e nelle tournée, ho diretto il mio primo coro a tredici anni». Fa sorridere sapere che nonostante l’amore per il canto e la musica, Tyla in lituano significa «silenzio» e l’ha aggiunto lei al suo cognome
© Ben Ealovega
«Sarà Mirga Gražinyté-Tyla a rimuovere finalmente dal nostro vocabolario il concetto di direttore donna» profetizzava il BBC Music Magazine. Al di là della spiccata sensibilità anglosassone per le tematiche di genere, la presenza di una donna sul podio calamita ancora attenzioni e curiosità; soprattutto se non è un passaggio estemporaneo: la 35enne lituana è dal 2016 la guida stabile della City of Birmingham Symphony Orchestra, con la quale si presenta oggi al LAC, ospite di Lugano Musica per una serata ad alta gradazione romantica con la terza sinfonia di Brahms a seguire il primo concerto per pianoforte di Ciajkovskij,
«perché amo il silenzio e sento il bisogno di rifugiarmici, ogni tanto; all’inizio pensavo anche che avrebbe reso il mio cognome più semplice da ricordare, ma credo di essermi sbagliata: mi chiamano tutti Mirga». Chi si immagina che Mirga sia cresciuta con un destino già scritto si sbaglia: «I miei non volevano che studiassi musica, volevano che intraprendessi una strada più sicura, forse anche più redditizia. In Lituania il sistema scolastico è ancora come quello sovietico, a 6 anni si viene già instradati in scuole speciali per coltivare i talenti artistici; così fui mandata in un istituto dove si privilegiava il francese e la pittura. Fino a 11 anni non ho suonato uno strumento, però proprio a quell’età decisi che sarei diventata musicista: credevo che una qualsiasi altra strada mi avrebbe allontanato dalla mia famiglia, che avevo sempre visto e vissuto immersa nella musica». Il talento, probabilmente iscritto nei suoi cromosomi, si rivela subito, Dudamel la sceglie come assistente a Los Angeles, vince il premio Nestlé, poi si susseguono gli ingaggi stabili a Berna, Zurigo, quindi Heidelberg e Salisburgo; quando ci furono dei problemi di collegamento ferroviario tra la città tedesca e quella austriaca, per due mesi fece la pendolare in bicicletta: «Mi divertivo, sono stati anni privilegiati: in Germania lo stato supporta considerevolmente le istituzioni musicali e in ogni città ci sono orchestre e teatri; a Salisburgo, su qualunque taxi salissi, potevo parlare di Mozart e dintorni col conducente». Per lei dirigere non significa imporre una propria visione, ma condividere, ascoltare, fare un percorso insieme; a differenza di suo padre. «Lui è un comandante, ritma il tempo al pianoforte se il coro non è abbastanza veloce; ha un’idea forte e la vuole realizzare. Io più che leader mi sento partner». Dove e quando Mirga e Gabriela con Birmingham: il talento è donna, stasera al LAC alle 20.30.
(I. Hoehn © Luzerner Th.)
Enrico Parola
Lucrezia violata Musica
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L’opera da camera di Benjamin Britten
Marinella Polli
The Rape of Lucretia, il capolavoro di Benjamin Britten è in scena al Luzerner Theater ancora fino a mercoledì. Opera da camera varata nel 1946 a Glyndebourne con la regia dello stesso Britten, con il nostro Ernest Ansermet sul podio e con Peter Pears, il compagno del compositore, nel ruolo del Coro maschile, la trama di questa opera da camera su libretto di Ronald Duncan è presto riassunta: la virtuosissima Lucretia, figura dell’antica Roma all’epoca del dominio etrusco, viene violentata nel suo letto dal conquistatore Tarquinius mentre sogna il ritorno del marito Collatinus. Il brutale stupro verrà poi strumentalizzato da romani ed etruschi e Lucretia si toglierà la vita. È articolata in quattro scene commentate da due Cori impersonati ognuno da un solo cantante e ripartite in due atti drammaturgicamente geniali. Tarquinius, Collatinus e Junius da un lato fanno parte dell’universo maschile, in contrasto, anche musicalmente, con il più sommesso mondo femminile rappresentato da Lucretia, dalla di lei anziana nutrice e da un’ancella. Sfruttando sapientemente le possibilità timbriche e dinamiche di ogni strumento, il giovane maestro e pianista statunitense Jesse Wong garantisce un’esecuzione della magnifica e complessa partitura non solo precisa ed efficace, ma anche di straordinaria forza drammatica. Wong è sempre assecondato da una
Luzerner Sinfonieorchester costituita per l’occasione da una compagine ristretta di strumenti: flauto, oboe, clarinetto, fagotto, corno, percussioni, arpa, due violini, viola, violoncello, contrabbasso e pianoforte. Eccellenti, sia vocalmente sia scenicamente, anche tutti gli interpreti. In primis Solenn’ Lavanant Linke, espressiva e introspettiva, assolutamente plausibile nella sua irriducibile castità poi brutalmente violata; sempre all’altezza anche Eyrun Unnarsdottir nella parte del Coro femminile, Robert Maszl in quella del Coro maschile, Christian Tschelebiew nei panni di Collatinus, Vladyslav Tlushch in quelli scomodi di Tarquinius e tutti gli altri. Di grandissimo impatto la regia di Sarah Derendinger conosciuta come specialista di istallazioni video. Appunto attraverso proiezioni video davvero stimolanti, ma essenziali e raffinate, la Derendinger evidenzia eloquentemente gli aspetti morali, sociali, politici e di genere degli accadimenti, peraltro analizzando con grande equilibrio temi come bellezza e innocenza violate e speranza di redenzione, quest’ultimo tema un martellante filo conduttore in quasi tutta l’opera teatrale di Benjamin Britten. Sarah Derendinger è la prima di una serie di artisti specialisti di installazioni video che verranno chiamati ogni anno ad allestire un’opera al Luzerner Theater.
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