Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Una mostra al Museo di Valmaggia riscopre l’intensa attività dell’architetto Paolo Zanini
Ambiente e Benessere L’emicrania e la cefalea sono un problema per molte persone: ce ne parlano Claudio Gobbi, (Neurocentro, EOC) e Chiara Zecca (Centro Cefalee NSI EOC)
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 7 giugno 2021
Azione 23 Politica e economia Il viaggio di Biden in Europa, tra digital tax e Vladimir Putin passando per i vaccini
Cultura e Spettacoli A Lugano la prima retrospettiva dedicata all’enigmatico artista Luigi Pericle
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Svalbard, le isole della libertà
di Francesca Mazzoni pagine 16-17
Un gran Macello di Peter Schiesser Più i giorni passano, più il mistero si infittisce e più cresce lo sconcerto: la fulminea demolizione, il 29 maggio, dell’ala occupata dagli autogestiti al Macello di Lugano si sta trasformando in un pasticcio dalle conseguenze imprevedibili, poco degno di uno Stato di diritto. Certo, le relazioni fra le autorità cittadine e gli autogestiti corrono da decenni sul filo del rasoio, la Lugano delle banche e delle boutique non ha mai digerito la presenza di uno spazio autonomo al di fuori delle proprie regole, ma con la decisione definitiva di destinare l’area ad altri scopi il conflitto, anestetizzato per anni, è nuovamente riemerso. Ovviamente, se nell’intimo nessuna delle due parti riconosce il diritto all’esistenza dell’altra, il dialogo è impossibile. Forse una ha avuto più torti dell’altra, è difficile stabilirlo, ma la conseguenza è lo scontro frontale. Tuttavia, se dagli autogestiti ci si può aspettare atteggiamenti fuori dalla legalità (benché oltre un certo grado non bisogna per forza accettarli), dalle autorità che invocano il rispetto della legalità ci si deve attendere che agiscano nel rispetto della stessa, altrimenti si pongono sullo stesso piano degli antagonisti.
Appunto: è stata rispettata la legge? Da quanto emerso, la demolizione non è stata un atto legale. Il professore di diritto Paolo Bernasconi è stato il primo ad accusare il Municipio di aver violato la legge edilizia, a ruota il Ministero pubblico, nelle persone del capo e del vice capo (a sottolineare la delicatezza della questione) Andrea Pagani e Arturo Garzoni, ha aperto un’indagine contro ignoti. Anche per capire come è nata la decisione di demolire l’ala del Macello occupata dagli autogestiti. E qui la situazione si complica: è davvero stata una reazione all’occupazione dello stabile Vanoni dopo una manifestazione degli autogestiti, quindi una decisione «emotiva»? Dapprima il sindacato Unia, poi anche «laRegione» hanno segnalato di essere in possesso di prove secondo cui il vice comandante della polizia comunale ha preavvisato una delle tre ditte edili che hanno demolito il Macello prima dell’occupazione dello stabile Vanoni. La polcom smentisce – l’inchiesta dovrà stabilire anche questo. C’è poi l’aspetto centrale: chi ha suggerito di procedere alla demolizione? Davvero la polizia cantonale? E in quel caso, su ordine o indicazione di chi? Non vorremmo che un’azione che puzza di illegale sia venuta dai vertici del Dipartimento delle istituzioni, come qualcuno insinua: sarebbe
grave che chi è incaricato di vegliare sul rispetto delle leggi prenda una decisione che vada in senso contrario. Poi c’è l’aspetto politico. La decisione di demolire non è stata discussa dall’intero Municipio, il liberale radicale Roberto Badaracco e la socialista Cristina Barzaghi Zanini non sono stati interpellati, poiché (è stato detto) si erano già detti contrari. Strano modo di interpretare il ruolo di un Municipio, che è un organo collegiale e in quanto tale deve prendere le decisioni discutendone insieme. O vogliamo introdurre il concetto di Municipio à la carte? Poi c’è la dimensione cantonale: il Consiglio di Stato ha discusso dei fatti, ma finora è restato sul vago; intanto i granconsiglieri leghisti hanno abbandonato i lavori parlamentari perché delusi che non sia stato difeso a sufficienza il sindaco Marco Borradori, nonostante il presidente del Gran Consiglio Nicola Pini abbia chiaramente condannato ogni violenza e disordine – una tensione di cui non si sentiva il bisogno. Queste premesse non permettono di sperare che fra molinari e città il dialogo possa (ri)nascere. Possiamo solo augurarci che nonostante tutto la situazione non degeneri ulteriormente. E che l’indagine del Ministero pubblico porti la necessaria chiarezza.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 giugno 2021 • N. 23
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Società e Territorio La storia di Novaggio Un’opera in tre volumi curata da Siro Camillo Muschietti ripercorre le vicende della comunità malcantonese tra vicende storiche, ricordi personali e aneddoti curiosi pagina 7
Passeggiate svizzere Oliver Scharpf questa settimana ci accompagna a CransMontana alla scoperta dell’ex sanatorio Bella Lui che oggi, dopo un restauro a regola d’arte, è un ostello della gioventù pagina 9
La riscoperta di Paolo Zanini Mostre La Fondazione Archivi Architetti
Ticinesi presenta a Cevio un protagonista della trasformazione di Lugano d’inizio Novecento
Elena Robert Due bauli e una valigia di documenti. Potrebbe sembrare una modesta riscoperta, avvenuta nella soffitta della casa di famiglia, se si pensa alla intensissima attività professionale di Paolo Zanini (Cavergno 1871-Lugano 1914). Per vent’anni e fino alla sua prematura scomparsa, è infatti architetto di successo nella trasformazione urbana e edilizia del Ticino tra Ottocento e Novecento, in particolare a Lugano e a Locarno. Si distingue anche per il suo impegno e ruolo in giurie, associazioni culturali, commissioni tecniche come quella, nuova allora, istituita per varare il Piano regolatore di Lugano. Dalla consegna, nella primavera del 2019, di disegni, manoscritti, lettere, libri e foto alla Fondazione Archivi Architetti Ticinesi (AAT) riguardanti venticinque progetti, è scaturita una ricerca estesa. L’esito è confluito nella mostra aperta recentemente a Cevio, appagante per ricchezza di materiali e spunti, i cui contenuti provengono oltre che dal Fondo Zanini dell’AAT, da diversi archivi in particolare quello della Divisione edilizia privata del Comune di Lugano. Nel catalogo che l’accompagna un saggio dello storico dell’architettura Riccardo Bergossi mette a fuoco proprio lo sviluppo della Lugano civile e religiosa d’inizio secolo. Per la Fondazione AAT, stando ai curatori della mostra Raffaella Macaluso, Angela Riverso Ortelli, Giulio Foletti, Lorenzo Cotti, il lavoro su Paolo Zanini sarebbe solo agli inizi. Va riconosciuto che ora, perlomeno, si sono create basi stimolanti per ulteriori approfondimenti. Al momento sono una quarantina le sue opere censite dal Cantone: grazie alla ricerca intrapresa, tra quelle progettate, realizzate e non, demolite e ancora esistenti, gli interventi accertati sono diventati una sessantina distribuiti sul territorio ticinese in una ventina di comuni. Un capitolo a sé è rappresentato dalla trentina di splendide tavole, disegnate con cura (dettagli architettonici inclusi) e
spesso acquarellate, del periodo della formazione dell’architetto a Milano, tra il 1890 e il 1895, all’Accademia di Belle Arti di Brera e alla Scuola superiore d’Arte applicata all’Industria. Insieme a documenti d’epoca, si possono ammirare nell’esposizione al Museo di Valmaggia, accostate alle affascinanti immagini in bianco e nero di grande formato degli edifici di Zanini tuttora esistenti, scattate dal fotografo Marcelo Villada Ortiz che ne ha colto e valorizzato la contemporaneità. Tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale anche il Canton Ticino si trasforma in un grande cantiere, con Lugano in testa, che diventa una delle più importanti mete turistiche del Paese. L’avvento della ferrovia, lo straordinario potenziamento della rete stradale, unitamente a una congiuntura euforica nell’edilizia dei servizi e delle abitazioni, in ambito civile e religioso, concorrono a delineare il nuovo volto cittadino. Viene così favorito il successo, soprattutto, di architetti giovani come Paolo Zanini, attivissimo al pari di altri professionisti della sua generazione quali Giuseppe Bordonzotti, Adolfo Brunel, Otto Maraini, Americo Marazzi, Giuseppe Pagani, Bernardo Ramelli, Paolito Somazzi. Tutti progettano capillarmente sul lungolago, nell’area tra Viale Franscini e il Cassarate (ad esempio lungo la nuova Via Lucchini), sulla collina di Loreto, sul declivio di Castausio. Paolo Zanini, buon allievo di Camillo Boito a Brera, rimane ancorato agli insegnamenti accademici, dimostra di appartenere alla cultura lombarda e ai modelli rinascimentali, esprimendosi attraverso un linguaggio eclettico con marcata attenzione però alle novità, nelle concezioni dell’abitare, nel gusto del Liberty, nei nuovi materiali come la pietra artificiale delle decorazioni sulle facciate. Riesce ad essere innovativo pur rimanendo legato alla tradizione. Sono beni protetti dal Cantone il Cimitero (1895-1899), il Famedio e la facciata di San Rocco (1910), a Lugano. Per tre opere, Palazzo Resinelli a Bellinzo-
Paolo Zanini, Edificio per Panorama, progetto del 1895, realizzato durante la sua formazione all’Accademia di Brera. (Fondazione Archivi Architetti Ticinesi)
na (1910) realizzato con l’ing. Secondo Antognini, tra i primi edifici ticinesi realizzati con parti in cemento armato, la Chiesa di San Michele a Bignasco (1904) e l’ampliamento del Cimitero a Balerna (1911) esistono proposte di tutela cantonale, mentre altri sette oggetti sul territorio firmati dall’architetto sono protetti a livello locale. Villa Farinelli a Muralto è del 1896: nel catalogo una testimonianza inedita della proprietaria racconta il vissuto della prestigiosa residenza. Palazzo Pagnamenta, in centro a Lugano, con le sue sorprendenti volute liberty, risale al 1908. Dispiace invece che alcuni suoi interessanti villini liberty sempre
a Lugano siano caduti sotto le ruspe. Nell’unica foto trovata dello stimato e impegnato architetto Paolo Zanini, il patrizio di Cavergno si presenta con tutta la sua fierezza valmaggese, corporatura forte e grandi baffi. La sua attività professionale è contraddistinta da molti riconoscimenti e lodi, le critiche sono però sempre dietro l’angolo, com’è naturale che sia per chiunque lavori al fronte. Nel 1914 non resiste al peso di divergenze con suoi colleghi, sfociate in dolorose calunnie e offese nei suoi confronti, circostanze che unite a dissesti finanziari subiti lo portano a togliersi la vita nel suo studio di via Lucchini.
Dove e quando
Paolo Zanini architetto Cavergno 1871-Lugano 1914, Museo di Valmaggia, Cevio, fino al 31 ottobre 2021 (mado 13.30-17.00, festivi inclusi, aperture fuori orari possibili per gruppi). Mostra (con fotografie di Marcelo Villada Ortiz) e catalogo a cura di Raffaella Macaluso, Angela Riverso Ortelli, Giulio Foletti, Lorenzo Cotti per la Fondazione Archivi Architetti Ticinesi ©2021 Fondazione AAT e Museo di Valmaggia. Sabato 19 giugno escursione Sulle tracce dell’architetto Paolo Zanini in Valmaggia. www.museovalmaggia.ch e www.fondazioneaat.ch
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 giugno 2021 • N. 23
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Torna lo sciopero delle donne 14 giugno Sono trascorsi due anni dalla grande manifestazione nazionale del 2019,
la data è ormai un appuntamento fisso per organizzazioni femminili, collettivi e gruppi di lavoro che ogni giorno lottano a favore dei diritti di genere
Le prossime proposte di Forum elle Agenda Uscite
a Chiasso, Brissago e sul San Salvatore
Laura Di Corcia Sono passati due anni da quel famoso 14 giugno 2019, una manifestazione a carattere nazionale che anche qui in Ticino aveva registrato il massiccio dispiegarsi di forze e sensibilità diverse. In totale, avevano aderito persone per un numero di mezzo milione, unite da uno scopo ben preciso: lottare contro la discriminazione di genere, a tutti i livelli. Oggi, all’alba di un nuovo 14 giugno, in cui si torna in piazza a manifestare, è giusto farsi delle domande, chiedersi a che punto siamo e che cosa si è ottenuto in questo periodo di tempo, segnato, fra le altre cose, da una pandemia globale che ha paralizzato non solo l’economia, ma la società tutta. L’occasione è ottima: cade infatti il trentesimo anniversario dal primo sciopero a livello nazionale svizzero, quello del 1991, che era stato portato avanti con l’incoraggiante slogan «Se le donne vogliono, tutto si ferma». Lo sciopero che avrà luogo fra una settimana non è certo un episodio singolo, la classica cattedrale nel deserto, ma un appuntamento calato in un contesto ampio in cui i collettivi e i gruppi di lavoro formatisi nel 2019 hanno continuato a lavorare sul territorio in direzione di una lotta alle discriminazioni. «Lo sciopero del 14 giugno 2019 è stata la miccia che ha fatto in modo che il movimento femminista si risvegliasse, trovasse nuove energie, in modo da continuare a lavorare per i diritti di genere», spiega Sheila Dotta, del collettivo «Io l’8 ogni giorno», conosciuto anche come collettivo «Io lotto». E oggi infatti le associazioni e i gruppi tornano a rivendicare le istanze che componevano il manifesto di due anni fa e che sono raggruppabili sostanzialmente in quattro macro-aree. «Abbiamo prima di tutto il problema del lavoro» – sottolinea Pepita Vera Conforti, volto noto dell’attivismo femminista e attiva presso l’associazione «Nate il 14 giugno». «Tutto quello che ha a che vedere, quindi, con le condizioni di lavoro, la possibilità di accedere a certe posizioni, la parità salariale. Rivendicazioni presenti già nello sciopero del ’91». In effetti, se rispetto a trent’anni fa c’è stato un margine di miglioramento, la disparità in questo ambito è ancora un tema in agenda per chiunque voglia una società più equa e lo dimostra la questione dell’AVS e delle donne, oggi più che mai sul tavolo della discussione. «Poi c’è il tema del lavoro non remunerato, strettamente legato a quello della cura: tutto il contributo femminile che incide sull’economia nazionale, ma che rimane invisibile». Da non dimenticare l’ambito dell’integrità della persona fra cui rientra il tema della violenza sulle donne. «Su questa tematica ci siamo soffermate molto, come collettivo “Io lotto”, organizzando una serie di incontri che si sono tenuti lo scorso autunno, incentrati sul tema della violenza domestica, della violenza sul po-
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
La folla tinta di viola che due anni fa aveva invaso Bellinzona come tante altre città svizzere. (Keystone)
sto di lavoro e della violenza sessuale. Incontri che hanno portato anche alla pubblicazione di un libro, Libere dalla violenza (cartaceo, ma consultabile anche online su www.iolotto.ch, ndr) – spiega Sheila Dotta – In Svizzera, nonostante la firma della convenzione di Istanbul, non riconosciamo ancora come stupro un reato sessuale in cui la vittima non si difenda fisicamente contro la violenza stessa. Invece ogni atto sessuale senza consenso deve venire catalogato come stupro, perché sappiamo benissimo che le varianti durante le violenze sessuali sono tantissime e che una donna può avere una reazione di freezing, ovvero la paralisi di ogni movimento per paura di subire violenze ancora maggiori». E infine c’è l’area che riguarda l’orientamento sessuale e le scelte in questo senso, che pure caratterizzano la lotta per la parità dei diritti.
In questi anni il numero delle donne laureate ha superato quello degli uomini, ma la struttura sociale è vetusta e la parità di genere nel mondo del lavoro è ancora lontana «In Svizzera lo sciopero del 2019 è arrivato un po’ in ritardo rispetto allo sciopero globale delle donne, partito nel 2016 – aggiunge Chiara Landi del Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
sindacato Unia – La società sta cambiando, è cambiata, ma c’è una grossa resistenza dai blocchi di potere che non vogliono perdere i privilegi. È questo che ci ha portato ad organizzare lo sciopero del 2019. Lo dicevamo anche allora: quello non era un punto di arrivo, ma di partenza. Se la manifestazione pubblica è la parte che emerge, sotto i riflettori, è anche vero che non può bastare. C’è tutto un lavoro da fare nel concreto, nel quotidiano, attraverso le attività che noi svolgiamo sempre ma che grazie allo sciopero hanno avuto un’eco più importante. I temi di genere, questo possiamo dirlo, hanno acquisito una rilevanza nel dibattito pubblico che prima non avevano». Lo sciopero di due anni fa è avvenuto poco prima che giungesse il Covid, che non ha dato una mano alla causa femminile, come è stato rilevato da più parti. Se non ci fosse stata questa calamità con la quale la società ha dovuto fare i conti, lo sciopero del 2019 ne avrebbe guadagnato quanto a incisività? «Le donne non sono precipitate nell’invisibilità per colpa della pandemia – precisa Chiara Landi – Le donne non sono in realtà mai uscite da una situazione di discriminazione. La pandemia ci ha aiutato a mettere in luce, a puntare un faro su queste problematiche di cui abbiamo sempre parlato». Le donne, in effetti, durante il Covid, sono state le più colpite in termini di posti di lavoro. «La rete nata il 14 giugno è una rete di organizzazioni e associazioni – aggiunge Vera Pepita Conforti – Come tale, quindi, può portare avanti una se-
rie di tematiche scegliendo all’interno di una sorta di catalogo delle rivendicazioni. E quindi come associazione “Nate il 14 giugno” torniamo a organizzare attività e conferenze su quegli aspetti e su quelle aree che fanno parte delle quattro macro-aree di cui parlavamo prima, spaziando dalla violenza ai femminicidi, al lavoro di cura, ecc. Durante la pandemia, per esempio, l’ambito sociosanitario si è imposto per la sua importanza; ebbene, è un ambito sotto-pagato e non sufficientemente riconosciuto». Ma perché ha senso scioperare di nuovo? «Perché il pensiero patriarcale è davvero tanto radicato e sradicarlo è un lavoro lungo, che si fa nel tempo», sintetizza Sheila Dotta. Ogni organizzazione in questi due anni ha lavorato sodo e in maniera autonoma, per esprimere il concetto che la questione femminile non è una moda passeggera, un vezzo, ma una tematica importante che riguarda la società intera. «Una cosa che mi ha stupita è la presenza dei giovani, più massiccia rispetto al 2019 – aggiunge Pepita Vera Conforti – Dopo anni in cui ci si crogiolava nell’illusione che la parità fosse stata raggiunta, ci si è resi conto che non è vero. E le giovani si chiedono cosa vorrà dire per loro lavorare, conciliare l’ambito professionale e quello familiare». In questi anni il numero delle donne laureate ha superato quello degli uomini, ma la struttura sociale è vetusta. «Le giovani sono consapevoli che c’è un lavoro da fare, e questo chiaramente è confortante». Che quindi lo sciopero abbia di nuovo inizio.
editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
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Si avvia verso la conclusione la prima parte della serie di incontri per il 2021, promossa dall’associazione femminile di Migros, la cui sezione ticinese è diretta da Gaby Malacrida. Socie (e simpatizzanti) del sodalizio potranno partecipare a una visita al m.a.x museo il prossimo giovedì 17 giugno, ore 17.00. L’esposizione in corso ha l’obiettivo di presentare la produzione incisoria dell’Antico nel Settecento e nell’Ottocento, ripercorrendo il fenomeno storico della reinterpretazione e della fortuna critica del classico. La visita guidata avverrà a cura della Dr.ssa Nicoletta Ossanna Cavadini, direttrice del museo e co-curatrice, assieme a Susanne Bieri, della mostra. Il ritrovo è fissato direttamente presso il m.a.x. museo di Chiasso. Giovedì 24 giugno 2021, nel pomeriggio, è prevista invece una gita alle Isole di Brissago per conoscere la storia della Baronessa de Saint Léger. A lei si deve il Parco Botanico sull’Isola di San Pancrazio (Isole di Brissago). Le partecipanti saranno accompagnate da Daniela Calastri, autrice di libri per bambini e di La baronessa delle isole, una monografia dedicata proprio alla vita di questa donna famosa, proprietaria delle isole dal 1885 al 1927. Partenza e ritorno in torpedone; iscrizioni entro martedì 15.06.2021. Venerdì, 2 luglio 2021, ore 18.45: Cena in vetta al San Salvatore. Il comitato di Forum elle Ticino desidera festeggiare il ritorno alla normalità con la salita in Funicolare e la tradizionale cena. Il ritrovo è fissato per le 18.45 alla stazione di partenza di Paradiso (le socie che arriveranno in auto potranno parcheggiare gratuitamente, spazio permettendo, nel parcheggio della stazione di partenza). Salita in vetta con partenza tassativamente alle 19.00. Alle 19.30, nella veranda del ristorante, cena in comune con due menu a scelta. Il costo della cena include il menu e la risalita in vetta andata e ritorno. Le bevande sono a carico delle partecipanti. Rientro al termine della cena, ultima corsa ore 23.00. Iscrizioni entro giovedì, 24.06.2021. Informazioni
email: simona.guenzani@forum-elle. ch; Tel. 091 923 82 02.
Programma completo su www.forum-elle.ch, sezione Ticino. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 giugno 2021 • N. 23
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Idee e acquisti per la settimana
Freschezza di stagione
Attualità I cetrioli nostrani giungono sulle nostre tavole a poche ore dalla raccolta
con il loro mix di proprietà benefiche e gustative
Azione 25% Cetrioli nostrani sciolti, al kg Fr. 2.95 invece di 3.95 dall’8 al 14.6
sato, gratinato o alla panna. Si abbina bene a formaggi freschi, aneto, menta, yogurt e pesci grassi. Rinfrescante e dissetante, ha una polpa dal leggero sapore amarognolo che può essere contrastato facendo spurgare le fette dell’ortaggio con un poco di sale. Non occorre sbucciare il cetriolo, poiché i suoi principali componenti sono contenuti proprio nella buccia. Il suo elevato tenore di acqua ne fa un ortaggio poverissimo di calorie, pertanto ideale per tenere a bada la linea. Inoltre, contiene sali minerali, in particolare potassio, e vitamine. Non conservare il cetriolo in frigorifero o vicino alle mele altrimenti tenderebbe a marcire in fretta. L’Azienda agricola Mocettini di S. Antonino è oggi gestita da Renato e dal figlio Samuel. (AdvAgency.ch/Däwis Pulga)
Si ritiene che i cetrioli fossero già coltivati in India oltre 3000 anni fa. In Europa furono introdotti agli inizi del Medioevo grazie alle popolazioni bizantine. Oggi i cetrioli sono particolarmente diffusi nell’Europa centromeridionale, dove trovano le condizioni climatiche ideali per una crescita rigogliosa. Esistono diverse tipologie di cetrioli, che si suddividono in quelli a frutto lungo, medio e corto, quest’ultimi utilizzati soprattutto nell’industria dei sottaceti. Tra le varietà più diffuse, coltivate e consumate alle nostre latitudini, vi sono i cetrioli nostrani, che si caratterizzano per la loro dimensione media e la buccia leggermente spinosa. Inoltre contengono pochi semi. In Ticino vengono coltivati in
serra, su suolo o hors sol, tra la metà di maggio e la fine di settembre. Il cetriolo è particolarmente esigente in fatto di clima e suolo. Una crescita regolare è possibile solo a partire da 12 °C. La coltivazione avviene in verticale su dei sostegni, metodo che permette di avere piante più sane e facilitare la raccolta dei frutti. La produzione annua ticinese di cetrioli nostrani si aggira attorno alle 250 tonnellate, che corrisponde ad una superficie coltivata di ca. 25’000 metri quadrati. Consumo e benefici
Il cetriolo si prepara molto in fretta e si consuma principalmente crudo e in insalata. Può essere anche mangiato cotto, per esempio come cetriolo bra-
Ricetta rinfrescante
Con i cetrioli si possono preparare molte appetitose ricette, tra cui una zuppetta fredda (nella foto) da servire come rinfrescante e leggero antipasto estivo.
Un produttore della regione
L’azienda agricola di Renato Mocettini a S. Antonino è una delle varie produttrici ticinesi di cetrioli nostrani, che coltiva i propri ortaggi secondo le norme della produzione integrata IP-SUISSE, vale a dire nel massimo rispetto dell’ambiente e degli animali. Oltre a S. Antonino, l’azienda possiede terreni anche a Gudo, Cadenazzo e Magadino. «La nostra è un’attività a conduzione familiare fondata negli anni Cinquanta che oggi, con l’entrata di mio figlio Samuel in azienda, è giunta alla quarta generazione», ci spiega Renato. «Il cetriolo nostrano è un ortaggio importante della nostra produzione, accanto a diverse tipologie di pomodoro, insalate, zucchine, finocchi e cavolfiori. Lo coltiviamo su una superficie di ca. 800 metri quadrati, in serra, con due cicli produttivi annuali, uno primaverile e l’altro autunnale».
Ingredienti per 8 persone 2 cetrioli nostrani 1 cipollotto 1 mazzetto di aneto 2 cucchiai di succo di limone 1 dl di panna semigrassa 2 dl di brodo di verdura sale e pepe
Preparazione Pelate il cetrioli, dimezzateli e privateli dei semini. Tagliateli a pezzettini insieme con il cipollotto. Tritate l’aneto. Frullate i cetrioli con il cipollotto, l’aneto, il succo di limone, la panna e il brodo. Mettete in frigo per un’oretta, salate, pepate e servite nei bicchieri.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 giugno 2021 • N. 23
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Idee e acquisti per la settimana
Tisane rinfrescanti e benefiche
Attualità Le due bevande nostrane alle erbe officinali sono perfette per la stagione calda
grazie al loro sapore naturale e al basso contenuto di zucchero
Azione 20%
Tisana Nostrana alle erbe bio o Tisana Nostrana alla malva bio 6 x 50 cl Fr. 9.10 invece di 11.40 Dall’8 al 14.6
Flavia Leuenberger Ceppi
Sono sempre di più i consumatori che apprezzano le bevande naturali con poco zucchero aggiunto per dissetarsi all’insegna del benessere. Rinfrescanti e dal sapore autentico, non c’è niente di meglio delle due tisane dei Nostrani del Ticino da sorseggiare durante le giornate estive, sia a casa, che al lavoro, nel tempo libero, così come a scuola. Elaborate a partire da un infuso di erbe officinali coltivate in Ticino secondo i dettami della produzione biologica, preservano tutto il sapore naturale dei pregiati ingredienti utilizzati. La tisana alle erbe contiene estratti di melissa, lippia citriodora (o verbena odorosa), salvia, menta citrata e menta piperita, un sapiente mix considerato particolarmente benefico per l’apparato gastro-intestinale come pure dall’effetto antitraspirante e rinfrescante. La malva, presente in abbondanza anche nei nostri campi e giardini, è invece
Ricette nostrane «stellate» Lo chef Lorenzo Albrici della Locanda Orico di Bellinzona ha creato per gli aficionados dei prodotti della regione due ricette a base esclusivamente di ingredienti dei Nostrani del Ticino. Le pietanze, realizzate presso la cucina del suo ristorante sotto forma di video tutorial, sono semplici e veloci da preparare e assolutamente alla portata di tutti. «Leggerezza, elevata qualità degli ingredienti e rispetto del gusto originale degli stessi sono i miei punti di forza», afferma lo chef bellinzonese. La scorsa settimana vi abbiamo presentato un delicato secondo composto da tataki di manzo nostrano, cipollotti, pomodorini cherry, balsamico e pane Val Morobbia; mentre questa settimana potrete scoprire un raffinato dessert in grado di accontentare i gusti di ogni commensale: una finissima zuppetta di fragole profumata allo sciroppo di sambuco con gelato fior di latte, sbriciolata di frolla al limone della Valle Bedretto e meringata dorata. Buona visione… e buon appetito!
Guarda a nd la seco ta su et videoric .ch/ o idelticin nostran ttualita a
alla base dell’altra tisana nostrana. È una pianta riconosciuta per le sue virtù emollienti e calmanti di stomaco e intestino, nonché antinfiammatorie delle vie respiratorie e leggermente lassative. Entrambe le bevande sono preparate senza l’utilizzo di coloranti e conservanti, ma solamente con l’aggiunta di poco zucchero caramellato. Le tisane nostrane sono elaborate dalla Sicas SA di Chiasso, azienda fondata nel 1962 e unica produttrice svizzera di succhi di frutta a partire da frutta fresca, nonché delle apprezzatissime gazose targate Nostrani del Ticino disponibili nei più svariati aromi nei supermercati Migros. Nei processi produttivi viene posta massima attenzione alla salvaguardia dei valori nutrivi delle materie prime e alla sostenibilità, grazie all’utilizzo delle più moderne tecnologie che contribuiscono a ridurre l’impatto ambientale.
Scoprite il nuovo sito dei Nostrani del Ticino
ino.ch nostranideltic Dopo diverse settimane dedicate al suo sviluppo, dal 31 maggio il nuovo sito internet dedicato ai Nostrani del Ticino è diventato una bella realtà. Accessibile in modo semplice e intuitivo da tutti i dispositivi – pc, tablet e smartphone – il portale ha l’obiettivo di far conoscere alla clientela l’ampio assortimento di prodotti della regione in vendita nei supermercati Migros del Cantone. Per farlo, sono disponibili diverse funzionalità: nella parte dedicata al «Marchio» si potrà scoprire la storia dei Nostrani e la sua importante evoluzione
negli anni; sotto la sezione «Prodotti» troverete buona parte delle oltre 300 specialità locali, facilmente consultabile grazie alla suddivisione per categoria merceologica. Anche i «Fornitori» sono ben evidenziati nella parte a loro riservata; mentre di particolare interesse assume la rubrica «Attualità» che verrà costantemente aggiornata con articoli di approfondimento del settimanale «Azione», novità del momento, promozioni e attività varie. Vi auguriamo buon divertimento navigando sul nostro nuovo sito web!
Le settimane dei Nostrani del Ticino 31. 5 – 13.6. 2021
30% 3.20
invece di 4.60
20% Salametti al Merlot prodotti in Ticino, in conf. da 2 x ca. 90 g, per 100 g
25% 2.95
invece di 3.95
invece di 11.40
invece di 2.90
Formaggella bio Nostrana Ticino, per 100 g
33% Cetrioli Nostrani Ticino, al kg, sciolti
20% 9.10
2.30
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5.90
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6 x 50 cl
Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. Offerte valide solo dall‘8.6 al 14.6.2021, fino a esaurimento dello stock
3.80
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invece di 3.95
Formagín ticinés (Formaggini ticinesi), prodotti in Ticino, 200 g
26% Zucchine bio Ticino, al kg, sciolte
20% Tisana Nostrana alle erbe bio o Tisana Nostrana alla malva bio
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 giugno 2021 • N. 23
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Società e Territorio
Una memoria voluminosa
editoria Mille pagine di vicende di una comunità malcantonese, redatte con entusiasmo,
per soddisfare la curiosità dei suoi abitanti e degli appassionati di letture storiche
Alessandro Zanoli Nella Prefazione a questo triplo volume davvero monumentale colpisce simpaticamente l’affermazione del sindaco di Novaggio: «Novaggio è speciale». Ma quale dei 108 comuni ticinesi non lo è? Sicuramente speciale è però l’impegno che Siro Camillo Muschietti ha dedicato alla redazione di una monografia per molti versi simile ai numerosi volumi che varie comunità del nostro cantone si sono dedicate di recente, ma assolutamente particolare nella sua forma complessiva grazie alla personalità del suo autore. Novecento pagine sono tante, ma finisce sempre così quando ci si mette a spulciare gli archivi e a organizzare un racconto attorno a luoghi, persone, fatti di molti secoli. I pur piccoli comuni della nostra regione hanno molto da raccontare: tutto sta a scoprire in che modo organizzare queste storie. Nel caso di questo volume, Muschietti ha dato ai contenuti un taglio non solo pensato per storici o studiosi, ma che si rivolge in modo divulgativo a tutta la popolazione del paese, in primo luogo, e poi a tutti i fan delle ricerche storiche. Ne risulta una struttura molto scorrevole e curiosa con varie interruzioni, divagazioni, precisazioni, spiegazioni e ricordi personali dell’autore e in cui chiunque può trovare spunti anche divertenti. Sapete, ad esempio, che soltanto dal 1939, in occasione dell’Esposizione nazionale di Zurigo (la mitica
La copertina del primo volume del libro.
«Landi»), i comuni svizzeri sono stati obbligati ad avere un proprio gonfalone? Per creare quello di Novaggio venne incaricato un esperto di araldica che decise di usare come emblema del paese
una gazza, volatile con cui gli abitanti di Novaggio vengono storicamente associati (l’uccello, se da una parte ha la fama di ladro matricolato, dall’altro ha anche quella di essere particolarmente
chiacchierone). Qualche protesta sorse in paese a proposito del disegno proposto, perché nel bozzetto iniziale l’uccello raffigurato somigliava più a un corvo. E quindi iniziarono subito discussioni e polemiche di tipo estetico... Ecco: laddove altri volumi simili ospitano saggi affidati a professionisti del settore, questo libro invece affronta, anche con simpatia, le vicende comunali, riportando episodi curiosi. Gli abitanti del comune potranno trovare tra le sue pagine l’usuale corredo di fotografie d’epoca su persone e luoghi, mentre i lettori più preparati potranno procedere velocemente saltando le spiegazioni più di dettaglio, che sono indicate nel testo con riquadri identificati dal simbolino di un paio di occhiali. Muschietti, infatti, prende il discorso piuttosto alla larga e per raccontare la storia del suo paese prende l’avvio dalle vicende di storia ticinese e Svizzera molto remote. D’altro canto inserisce spesso annotazioni personali, in altri riquadri che vanno sotto la rubrica «Ricordo che...». Questi sono forse i passaggi più vivaci e godibili. Un altro elemento che contraddistingue questo libro è la fortuna di poter utilizzare le poesie di Armida Ryser de Marta, poetessa del luogo conosciuta e premiata: in suoi inserti danno al racconto un tocco di preziosità in più. Lo studio è composto come detto da tre volumi. Nel primo troviamo le vicende storiche e le spiegazioni sulla nascita del paese e sulla storia del Mal-
cantone. Nel secondo la descrizione della Novaggio nel 900, con i momenti delle guerre a fare da capitoli principali e con lo sviluppo economico che ne è seguito e che ha trasformato la struttura del paese in modo determinante. Come in molti altri studi di questo genere, fonte primaria sono le trascrizioni dai resoconti delle assemblee comunali, in cui si trova il consueto elenco di fatti e situazioni più o meno problematiche. Muschietti si è spinto anche oltre, consultando i registri del Consiglio parrocchiale e i documenti del Patriziato (cui appartiene) evidenziando anche qui i momenti che gli sono sembrati salienti di questa attiva costruzione di una comunità. Il terzo volume dello studio è dedicato al mondo del lavoro e dell’intrattenimento: vi si trovano capitoli dedicati al commercio, alle poste, alle banche, alla musica, al carnevale, insomma tutto quello che fa la storia minuta e condivisa della comunità malcantonese. L’ultimissima sezione del libro si chiude con 100 aneddoti, raccolti sullo stile dei libri di Plinio Grossi in cui tutti i lettori troveranno spunti e occasioni di divertimento e sorpresa intorno alla vita di questa comunità così ricca di storia e di vicende. Bibliografia
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 giugno 2021 • N. 23
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Società e Territorio Rubriche
Approdi e derive di Lina Bertola La rincorsa all’utilità In molti ci stiamo vaccinando per proteggere noi stessi e gli altri. A volte ci sottoponiamo anche al cosiddetto tampone per poter incontrare persone a rischio o per partire in vacanza. E indossiamo diligentemente la mascherina, sempre allo scopo di una reciproca protezione. Queste azioni, di per sé non molto gradevoli, sono mezzi utili per ciò che è un buon fine. Possiamo allora affermare che si tratta di comportamenti buoni? La risposta non è così scontata perché, se di fatto sono da considerare comportamenti buoni, lo sono però solo per le conseguenze che rendono possibili. Il valore risiede tutto negli scopi che ci prefiggiamo. In altre parole, il valore dei comportamenti ritenuti utili dipende dal valore delle conseguenze che rendono possibili. I mezzi non trattengono in sé alcun valore. Sono semplici mezzi. Il valore sta nelle finalità, negli scopi delle nostre scelte. È lì che abita il senso della vita, fin nei suoi
piccoli dettagli. Eppure l’utilità è oggi considerata di per sé un valore, direi il valore più riconosciuto e più gettonato. Se utile, un’azione è immediatamente considerata buona. Questa pervasiva valorizzazione dell’utilità può avere ricadute sulla percezione di altri valori che non sono mezzi utili ma, al contrario, sono espressioni della nostra umanità. Sopraffatte dalla rincorsa all’utilità, molte domande sul senso delle nostre scelte restano così sullo sfondo, spesso nemmeno pronunciate e forse nemmeno pensate. Tutto ciò può rivelarsi un limite nel nostro modo di abitare la vita. Nella scuola, ad esempio, dove una logica basata sull’utilità dello studio (per passare gli esami, per vincere un concorso, per acquisire una bella posizione economica) rischia di soffocare il senso stesso dell’esperienza della conoscenza; rischia di non lasciarci riconoscere il suo intrinseco valore, di non lasciarci sostare in atmosfere
che ci consentano di viverla nella sua ricchezza umanistica, come esperienza che nutre il nostro mondo interiore. Le derive utilitaristiche della scuola sono un sintomo preoccupante di un atteggiamento, peraltro molto diffuso, che si manifesta in tutte quelle situazioni in cui la domanda «che senso ha?» lascia facilmente il posto ad un convinto «a che cosa serve?». Chiedersi a che cosa serva è infatti una domanda che anticipa e scavalca ogni altra possibile motivazione; lascia sullo sfondo altri perché, riconducibili a quel «devo perché devo» in cui Kant riconosceva la forza della legge morale. Vale la pena di richiamare alcune derive della tecnologia e della sua visione del progresso. Come ben sappiamo, la disponibilità di mezzi sempre più efficaci viene spesso considerata essa stessa un fine, un obiettivo irrinunciabile. E questo perché lo scopo più o meno dichiarato del progresso tecnologico
è quello di rendere possibili ulteriori progressi. Ma se di progresso davvero si tratta, qual è la meta? Progresso per andare dove? In questa prospettiva autoreferenziale, in cui il presente si impadronisce anche del futuro, diventa difficile trovare una risposta. Una caricatura divertente dei possibili effetti della visione utilitaristica l’ha offerta il sociologo Serge Latouche raccontando di un inventore di rasoi elettrici sempre più performanti che gli riducevano il tempo della rasatura mattutina allo scopo di avere più tempo per progettare nuovi tipi di rasoio, ancora più veloci ed efficaci, che a loro volta gli concedessero ancor più tempo per inventarne di migliori. Al di là di simili derive, l’utilitarismo, attento alle conseguenze delle nostre azioni, resta un’importante prospettiva etica con solide radici nella modernità. Ce lo ha ricordato l’emergenza sanitaria che ha permesso di mantenere
chiara sia la differenza tra mezzi e fini sia il loro rapporto, lasciando aperto un orizzonte di senso in cui poter riconoscere i comportamenti buoni e le nostre responsabilità, nelle piccole e grandi scelte della vita. Questa consapevolezza è impegnativa, perché i principi possono entrare in conflitto con le conseguenze e a volte ci espongono a veri e propri dilemmi etici. Come quello che assale un ipotetico Giovanni a cui la zia, sul letto di morte, dona i risparmi di un’intera vita di sacrifici facendosi promettere di usarli per finalmente impegnarsi a concludere gli studi. Giovanni ringrazia, promette, dà la sua parola d’onore, senonché, poco dopo la morte della cara zia, il suo migliore amico perde il lavoro, è senza soldi, ha un bambino, e gli chiede un aiuto. Che fare? Mantenere la promessa, esprimere fedeltà alla parola data, oppure contribuire ad alleviare le difficoltà dell’amico? Scelta difficile, eppure inevitabile.
da Alfred Roth nel 1927 per la Embru di Rüti che è la stessa delle sdraiospaghetti. Ruba tutta la scena però, la finestra a pieni vetri, alta due metri e venti, suddivisa in cinque rettangoli incorniciati da legno verniciato color meringa. Da dove si vede il grande balcone da sogno la cui vista è al riparo dai larici. Spalanco subito la portafinestra per far entrare l’aria reputata di Crans-Montana e uscire fuori. La vista, al pianterreno, non è delle più spettacolari ma basta e avanza ed è quasi più riposante così. Se volete vedere come si deve il panorama con una trentina di cime innevate tra le quali il Monte Bianco o il Weisshorn con la luce che rimane fino a tardi ad accarezzare la neve, basta salire al terzo piano dove c’è una terrazza sempre con diverse sedie a sdraio tipo spaghetti. Ceno sulla sdraio sanatoriale disegnata da non so chi, con del polpo alla galiziana portato da casa. E vado a letto con le galline. Il letto, nonostante l’apparenza punitiva, è comodissimo. Cinguettii serali mi sorprendono per somiglianza con il freejazz. Una bella luce tipo Vallotton
entra nella stanza. E così, sdraiato nel letto di un ex sanatorio elogiato dallo storico e critico dell’architettura Sigfried Giedion e tra l’altro primo edificio in Svizzera a utilizzare un’ossatura in acciaio saldato, mi torna in mente il sorriso di una foto in biancoenero della Flörli morta novantaduenne a Zurigo. Sconosciuta come scultrice, va ricordato il suo straordinario talento, le sue poche sculture lasciano senza fiato. Più che gli effetti benefici della climatoterapia, sento i sintomi di un colpo di sole. All’alba corro tra gli jumbo chalet addormentati battezzati, alcuni, con nomi insensati che potrebbero ispirare un saggio antropologico o etnologico: Villa d’Este, Valderrama, Montezuma, Residence Corfou. Supero con la giusta rabbia la sabbia da mare, le odiose sdraio in rattan sintetico, e l’orda di Trachycarpus fortunei nei vasi di plastica di un improbabile beach club ai bordi dello stagno catturato con grazia da Hodler nel 1915. Dove laggiù, nonostante tutto, l’orlo dell’acqua si fonde ancora con le montagne sul far del mattino.
Betty erano gli assi della squadra. Un giorno vengono convocate da Herman Goldstine, il loro contatto con l’esercito, e la moglie Adele. Herman chiede alle ragazze di preparare un calcolo balistico in tempo per la dimostrazione dell’ENIAC alla comunità scientifica, che si sarebbe tenuta dodici giorni dopo. Una richiesta molto impegnativa per non dire impossibile. All’evento avrebbero partecipato noti scienziati, dignitari e vertici dell’esercito. Betty Snyder ventotto anni e Betty Jean Jennings ventuno, accettano, lavorano al progetto giorno e notte per due settimane e la dimostrazione della traiettoria balistica è un grande successo. L’indomani le prime pagine dei giornali non parlano d’altro ma nessuno parla delle due Betty. Fotografate insieme ai colleghi maschi, le foto pubblicate ritraggono soltanto uomini in vestiti eleganti e decorazioni militari in posa vicino alla macchina.
L’articolo, pieno di imprecisioni, non attribuisce alle due Betty il merito del gigantesco lavoro. Qualche giorno dopo l’università organizza una grande cena per festeggiare l’evento, dei vertici dell’esercito e dei membri della comunità scientifica intenti a mangiare zuppa di aragoste non manca nessuno a parte le sei dell’ENIAC. Non sono state invitate, persino i Goldstine le snobbano. Betty Jean Jennings nella sua biografia decenni dopo avrebbe scritto «era come se quel giorno si fosse fatta la storia che poi ci aveva investite e lasciate sulla scia». Dice bene Giulia Blasi nella prefazione quando ci ricorda che nel nostro immaginario collettivo internet e innovazione tecnologica fanno il paio con un uomo geniale in uno scantinato. Non è così e questo libro si riappropria di una verità storica, di un punto di vista necessario dissotterrando le storie sepolte, riannodando i fili e ricollegando i cavi.
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf L’ex sanatorio Bella Lui a Crans-Montana Flora Steiger-Crawford (1899-1991), nata a Bombay e detta Flörli, è la prima donna a diplomarsi in architettura al Politecnico di Zurigo nel 1923. Capello corto, frangetta sbarazzina, sguardo chiaro, l’anno dopo sposa un suo compagno di studi, Rudolf – detto Rudi – Steiger (1900-1982), con il quale realizza, insieme anche ad Arnold Itten (1900-1953), il sanatorio Bella Lui a Crans-Montana. Stazione climatica fondata nel 1896 dal tisiologo ginevrino Théodore Stephani, trasformata poi in località sciistica da jet-set la cui rinomanza tocca l’apice forse negli anni sessanta con l’apparizione sulle piste di una bellissima Jacqueline Kennedy o con Jean-Paul Belmondo immortalato in pullover che serve la raclette, deturpata a partire dagli anni settanta da promozioni immobiliari stile jumbo chalet e disneyzzata fino alla nausea, dove cammino ora soffocato da tutta questa bruttezza del benessere. Meno male, trovo presto, tra larici e pecci, il Bella Lui. Bauhaus, color senape, niente di che da fuori ma appena entro, a metà pomeriggio ai primi di giugno, sono
salvo. Respiro di nuovo. Inaugurato il primo giugno 1930, oggi l’ex sanatorio Bella Lui (1525 m) a Crans-Montana, dopo un restauro a regola d’arte, è un ostello della gioventù dove adesso non c’è nessuno. E allora così, deserto e silenzioso, m’investe in tutta la sua bellezza basilare con in più il famoso panorama di montagne innevate, il cielo, e le cime delle conifere che entrano dalle ampie finestre unendosi al meraviglioso mobilio. Le prime percezioni, appena entrato, sono legate all’odore del linoleum. Poi ho notato le porte a vetro in legno dipinto in azzurro ghiaccio e le maniglie sinuose lucide in acciaio cromato che ti conducono, come d’incanto, nella hall-salotto dove ci sono diverse sedie di Max Ernst Haefeli già presenti a suo tempo. Bene d’importanza nazionale dal 2002, il Bella Lui ha avuto un passato da sporthotel e ospitato alcuni ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento. Il nome con cui è stato battezzato questo edificio di tre piani con pianta a elle disegnato dal trio di trentenni architetti zurighesi, non è una svista per dire «bello lui» o
un refuso per l’espressione dello slang giovanile «bella lì». In dialetto desueto vallesano significa «bella luce» ed è anche il nome di una montagna non lontana. La reception apre alle 16.30, ammazzo il tempo in terrazza, svaccato sua una delle spaghetti-chaise longue note anche come Altorfer Stuhl per via del suo inventore, Huldreich Altorfer jr. Prendo il sole. La terrazza-tetto sopra il refettorio, sovrasta il laghetto Grenon. Mi sveglia il tipo dell’ostello. Non vedo l’ora di entrare nella camera numero uno. L’unica con il mobilio originario disegnato da Flora Steiger-Crawford. La scrivania, in legno verde oliva, con il piano di lavoro laccato in nero opaco è un pezzo da museo. È infatti esposta nella collezione del Museum für Gestaltung di Zurigo. La particolarità è un cassetto, con specchio integrato, che si apre sollevando il piano di lavoro. Anche il comodino ultrabasico, l’armadio per i vestiti, e uno sgabello sono verde oliva, intonati con le pareti beige. Il letto, anche in stile Neues Bauen-monacale, è molto convalescenziale, quasi carcerario. È il Roth Bett 455, disegnato
La società connessa di Natascha Fioretti La grande signora del software e altre storie Non conoscevo Claire L. Evans e non conoscevo Giulia Blasi. Ora grazie al volume Connessione. Storia femminile di internet so che la prima, classe 1984, autrice del libro, è una scrittrice e musicista statunitense, collabora con varie testate tra cui il «Guardian» e «Vice» e fa parte del collettivo cyberfemminista DeepLab. Giulia Blasi, classe 1972, è invece conduttrice e autrice per radio e televisione, femminista attenta alle questioni di genere. Uscito in italiano per Luiss Press, il «Wall Street Journal» lo ha definito un libro che celebra le donne le cui menti hanno dato vita alla scheda madre del computer proponendo una serie di appassionanti ritratti di matematiche, innovatrici e cyberpunk poco note. Vi ricorderete di Aurélie Jean e degli algoritmi. Per aiutarvi pensate alla citazione di Jack Lemmon «Quando arrivi in alto ricordati di mandare giù l’ascensore». Nel suo romanzo, l’esperta di model-
lizzazione matematica e simulazione numerica raccontava della sua visita all’Università di Harvard dell’autunno del 2011 per ammirare finalmente da vicino Mark I, uno dei primi computer in assoluto costruito durante la Seconda guerra mondiale. Se Aurélie Jean, classe 1982, ci racconta dei suoi miti, Claire L. Evans ne mette a fuoco storie e origini. A partire dall’ammiraglio Grace Hopper, matematica, informatica e militare statunitense soprannominata «la grande signora del software». Quando durante la Seconda guerra mondiale entrò in Marina, pensò che si sarebbe occupata di decrittare codici nemici. In verità divenne la terza programmatrice del primo computer al mondo, il Mark I. In poco tempo Grace divenne il braccio destro del comandante Howard Aiken, scrisse i codici che risolsero alcuni dei problemi matematici più spinosi della guerra e scrisse il manuale
ancora mancante per il funzionamento della macchina. Ma la storia che voglio raccontarvi a partire da Grace è un’altra ed è legata ad un altro computer. Si tratta dell’ENIAC (Electronic Numerical Integrator and Computer) una macchina grande come una stanza piena di guaine e acciaio la cui costruzione era stata finanziata dall’esercito per elaborare numeri per lo sforzo bellico. Senza entrare nei dettagli, la differenza sostanziale era data dalla velocità di calcolo: il Mark I elaborava tre calcoli al secondo, l’ENIAC ne gestiva cinquemila. In visita all’Università della Pennsylvania, oltre all’ENIAC Grace scoprì un’altra cosa: non era la sola programmatrice donna al mondo. Soltanto nel 1944, nel laboratorio dell’ENIAC lavoravano almeno cinquanta donne tra redattrici, assemblatrici, segretarie e tecniche. Sei di loro avevano il compito di preparare i problemi matematici per il computer, le due
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 giugno 2021 • N. 23
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Ambiente e Benessere Il vino di Plinio il Vecchio Nella sua opera monumentale la Naturalis historia dedica alla viticoltura un intero volume pagina 15
Terra delle opportunità Alle Svalbard convivono genti di ogni dove, unite dal freddo che li rende solidali e dalla libertà riconquistata
Il vapore orientale Cuocere senza grassi è una tecnica cinese sempre più di moda anche da noi
economiche e super car Nel mercato delle elettriche calano i prezzi, mentre spunta la prima Ferrari ecologica
pagine 16-17
pagina 18
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Cefalea, quando preoccuparsi? Medicina Il mal di testa può avere
un impatto negativo sulle nostre vite; curarlo tuttavia si può
Maria Grazia Buletti Si stima che il mal di testa o cefalea sia un disturbo molto frequente e spesso motivo di consultazione dal medico curante: la forma più comune, l’emicrania, colpisce fino al 12% degli uomini e il 18% delle donne, mentre la cefalea tensiva è sperimentata dall’80% della popolazione. Le cefalee si distinguono in due tipologie, spiega Chiara Zecca, neurologa responsabile del Centro cefalee del Neurocentro all’Ospedale Regionale di Lugano, che differenzia le primarie come comuni, più frequenti e meno preoccupanti da quelle secondarie: «Le due forme principali di cefalea primaria sono la cefalea tensiva e l’emicrania. Possono essere favorite da diversi fattori, fra cui uno stile di vita stressante o una predisposizione genetica. L’emicrania si presenta con dolore generalmente intenso e pulsante che peggiora con il movimento, la luce, o i rumori. La cefalea tensiva è in genere più lieve e meno limitante». Dal canto suo, il primario del Neurocentro Claudio Gobbi sottolinea la relazione tra stile di vita e insorgenza di una cefalea primaria: «Nella storia evolutiva dell’uomo, il dolore rappresenta solitamente un campanello d’allarme, un segnale che il corpo trasmette per dire che qualcosa non funziona correttamente. In alcuni frangenti, la cefalea potrebbe pertanto significare che non stiamo conducendo una vita consona al nostro benessere psicofisico». Può essere dunque utile interrogarsi sullo stile di vita e chiedersi se non si stiano superando ad esempio i propri limiti. Anche se, ribadisce Zecca: «Merita una valutazione medica ogni cefalea inabituale, cioè mai sperimentata prima o dalle caratteristiche diverse dal solito, specialmente se iperacuta o accompagnata da altri sintomi neurologici o non neurologici come febbre alta. In questi casi, serve infatti escludere prima di tutto una cefalea secondaria, cioè espressione di un’altra malattia. Necessita poi dell’attenzione medica ogni cefalea primaria che interferisce con la qualità di vita e la funzionalità della persona, ad esempio in famiglia o sul lavoro, a causa della sua intensità o frequenza». La gestione della cefalea primaria
dipende molto dalla sua frequenza e intensità: «L’emicrania con frequenza occasionale e intensità lieve si cura spesso con analgesici comuni; più raramente si ricorre a farmaci specifici (triptani) o alla presa a carico specialistica da parte del neurologo». Per contro, la cefalea secondaria è spesso ma non obbligatoriamente determinata da apparizioni repentine, inabituali e con dolori intensi a proposito dei quali Gobbi puntualizza: «Le cefalee secondarie sono fortunatamente meno frequenti ma possono essere legate a cause pericolose soggiacenti (ad esempio infezioni, emorragie, tumori o altre patologie) e devono pertanto essere riconosciute e trattate tempestivamente». Entrambi concordano sull’importanza di recarsi dal medico quando si tratta di una cefalea insolita, come Gobbi chiarisce: «Ogni nuova o diversa cefalea potrebbe nascondere insidie che vanno individuate raccogliendo un’accurata storia della cefalea (anamnesi) del paziente da parte del medico di famiglia, il quale a sua volta valuterà la necessità di coinvolgere il neurologo in casi non chiari». Poiché i diversi tipi di mal di testa presentano caratteristiche differenti, è importante che chi ne soffre sia in grado di descriverli con accuratezza al medico. «È utile tenere un “diario del mal di testa” in cui riportare la frequenza, le caratteristiche degli episodi, l’assunzione di farmaci contro il dolore e i fattori scatenanti», suggerisce Gobbi che vede così facilitato il percorso verso una corretta diagnosi e presa a carico terapeutica. Chiarita la natura della cefalea (primaria o secondaria), il medico valuta l’uso e l’efficacia delle terapie, come analgesici o triptani. «Un uso improprio può accentuare la cefalea e, in ogni caso, la terapia deve sempre essere stabilita dal medico in relazione a fattori diversi, fra i quali tipo e frequenza di dolore, sintomi associati, fattori scatenanti ed eventuali patologie coesistenti», sottolinea Zecca. In seguito alla consultazione da parte del neurologo, che stabilisce gli eventuali accertamenti da condurre, si apre un ventaglio di scelte terapeutiche mirate, a cominciare dalla eventuale indicazione ad assumere terapie farmacologiche di preven-
Il professor Claudio Gobbi, Primario al Neurocentro della Svizzera italiana (EOC), e la professoressa Chiara Zecca, responsabile Centro Cefalee NSI EOC. (Stefano Spinelli)
zione: «Oltre ai farmaci disponibili da anni (scelti in modo individualizzato), per la prevenzione dell’emicrania disponiamo dei nuovi antagonisti del recettore del peptide correlato al gene della calcitonina (CGRP). Si tratta di farmaci definiti “molecole intelligenti”, che agiscono in modo mirato bloccando il principale segnale del dolore emicranico che quindi non viene generato. Sono farmaci usati in Svizzera “solo in seconda battuta” e “approvati con limitatio” per l’uso cioè nei casi più difficili e per un tempo limitato, a causa dell’alto costo e della ancora limitata esperienza d’uso nel lungo termine». Per Gobbi è una restrizione «arbitraria»: «Il sistema assicurativo svizzero sospende il rimborso del farmaco dopo un anno e il paziente si trova spesso a dover rinunciare a una terapia molto efficace che dal profilo medico si sarebbe dovuta scalare secondo tempistiche individualizzate in base alla risposta terapeutica». Una limitazione
che la Società svizzera cefalee ha chiesto di rivedere: «Questa classe di farmaci resta spesso l’ultimo rimedio efficace per molti pazienti, in una patologia che ne limita sensibilmente la qualità di vita e il lavoro (l’emicrania è la seconda causa di assenza dal lavoro)». Zecca ricorda che si tratta di: «Pazienti molto selezionati, con emicrania non banale, per i quali è spesso deleteria la sospensione arbitraria del farmaco a un anno dalla prima assunzione». Un cenno alle opzioni non farmacologiche, disponibili in Svizzera ma molto più usate in altri Paesi: «Alcune tecniche di neuromodulazione (stimolazioni elettriche con dispositivi che vengono appoggiati in aree definite del capo) sono molto efficaci nel prevenire e anche trattare la cefalea, utili soprattutto nella popolazione pediatrica e nelle donne incinta per le quali l’assunzione di farmaci è più limitata». Infine, Zecca parla della cefalea secondaria da Covid: «È un comune
sintomo dell’infezione che talvolta può perdurare per qualche tempo anche dopo la guarigione dalla fase acuta». Sulle mascherine: «Indossare la mascherina può favorire l’insorgenza di un attacco di cefalea in alcuni pazienti, ma non è cosa comune né chiaramente dimostrata. Per contro, è fondamentale non sottrarsi alle cure o agli accertamenti necessari per timore di contrarre il Covid andando in ospedale, come spesso è accaduto durante la prima ondata. L’arbitraria autogestione è pericolosa e invitiamo tutti a non perdere il contatto coi curanti». A tal proposito, il 10 giugno, dalle 18:30, si terrà la conferenza pubblica virtuale «Mal di testa: combatterlo, prevenirlo, quando preoccuparsi», sulla pagina Facebook EOC, dove si trovano le coordinate per accedere al Webinar. Link della conferenza pubblica:
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Ambiente e Benessere
Plinio, il primo enologo
Scelto per voi
Bacco giramondo Lo scrittore comasco dedicò ben venticinque capitoli della Naturalis
Historia alla viticoltura e al vino, più qualche altra annotazione sparsa qua e là Davide Comoli Nei nostri articoli citiamo (e citeremo) spesso il nome di Plinio il Vecchio. Certo è che questo famoso personaggio dell’antichità non ha bisogno di presentazione, ma pensiamo che in questa nostra rubrica dedicata al vino, bisogna conoscere meglio quest’uomo dai molteplici interessi. Per questo non ci pare giusto non spendere qualche parola per chi alla vite, al vino, alle tecniche di vinificazione e affinamento ha dedicato addirittura un intero libro della sua monumentale opera, la Naturalis historia. Gaius Plinius Secundus, meglio conosciuto come Plinio il Vecchio, per meglio distinguerlo dall’altrettanto celebre nipote Plinio il Giovane (61-113 d.C.), illustre letterato sotto l’impero di Traiano, nacque a Como nel 23 d.C.; al termine di una brillante carriera militare amministrativa, nel 79 fu nominato ammiraglio della flotta imperiale di stanza a Capo Miseno. Con la sua vasta cultura, spaziò in tutti i campi del sapere, lasciandoci la testimonianza nella più vasta e completa opera enciclopedica dell’antichità. Nei suoi 37 libri, l’opera affronta tutti i temi che a quell’epoca presentavano interessi scientifici. Partendo dal II libro con la cosmologia, prosegue con la geografia fisico-politica, le scienze naturali, la zoologia e la botanica, la medicina e la farmacopea per concludere
nel 37esimo libro con le pietre preziose. Nel primo libro, con geniale intuizione, Plinio compilò per ciascuno dei 36 argomenti i vari indici, inserendo anche le relative fonti. Coerente sino alla morte a una vita interamente dedicata alla scienza, fu certamente la vittima più illustre dell’eruzione del Vesuvio che nel 75 d.C. distrusse e sommerse con la lava Ercolano, Stabia e Pompei. Plinio infatti accorse con le sue navi nel generoso tentativo di salvare i superstiti, ma anche con la curiosità di vedere da vicino quello straordinario fenomeno della natura. I 25 capitoli riguardanti in modo specifico la viticoltura e il vino, li troviamo nel XIV libro, ma l’argomento peraltro non è esaurito in quella sede. Nel libro VXII infatti tratta dell’arboricoltura, e descrive dettagliatamente i problemi relativi all’esposizione delle vigne, all’innesto, ai metodi di coltivazione e alle malattie delle piante. Mentre si rimanda al XVIII libro, l’elenco degli usi medicinali della vite e dei suoi derivati, naturalmente vino compreso. Lo spazio che Plinio dedica alla vite è molto: perché? Lo spiega lui stesso: «rispetto alla quale l’Italia ha una supremazia così incontestata, da dare impressione con questa risorsa di aver superato le ricchezze di ogni altro paese, persino di quelli che producono
Plinio il Vecchio e il frontespizio della sua opera.
profumo. Del resto, non c’è al mondo delizia maggiore del profumo della vite in fiore» (N.H. XIV, 2). Nella sua opera, Plinio ha trattato pochi altri temi con altrettanta dovizia e cura. Nessun dubbio sull’importanza del vino da parte dell’autore, a cui si attribuisce addirittura lo sviluppo dell’umanità, che lui stesso evidenzia: «Noi uomini dobbiamo al vino la prerogativa di essere i soli esseri viventi che bevono senza avere sete» (N.H. XXIII, 23). Il libro dedicato alla viticoltura è da sempre sul nostro comodino, le sue pagine si leggono con molto interesse, in primis perché ci fanno conoscere il punto in cui all’inizio della nostra era si trovava la conoscenza nel campo enologico e poi perché contengono molte curiosità e una serie di vivaci annotazioni. Ad esempio, Plinio cita l’anno «magico» del vino, che continuava ed essere il 633esimo dalla fondazione dell’Urbe (per noi il 121 a.C., anno in cui era Console Lucio Opimio, i cui vini erano diventati i leggendari «opimiani»). Annata della quale ancora sul finire del I sec. d.C. si consumavano i vini «vecchi di quasi duecento anni e ormai trasformati in una sorta di miele amaro» (N.H. XIV, 55). Sui quali vini era lecito peraltro lasciarsi andare alle più bizzarre stranezze, come quella nel celebre banchetto di Trimalcione, descritto nel Satyricon di Petronio (50-60 d.C. circa), in cui vengono servite «anfore di cristallo accuratamente sigillate che portano etichette con la scritta Falerno Opimiano di cento anni». Nel XIV libro non può non stupire il lungo e dettagliato elenco delle varietà di viti già allora conosciute e presenti nella Penisola. Tra le più diffuse Plinio cita: la vite Aminea, le Nomentane, le Apiane, le Murgentine. Queste le principali e poi vengono elencate l’Albano, il Barino, il Cecubo, il Formiano, il Mamertino, ma sono moltissimi i vini che l’autore elenca nel suo XIV libro e magari in futuro li descriveremo. Addirittura, Plinio arriva a stilare una classifica che oseremmo dire potrebbe imbarazzare qualche esperto dei nostri giorni. Al primo posto pone il Cecubo, prodotto nei pressi di Terracina, poi viene il Falerno, prodotto da viti alleva-
te sulla fascia tra Lazio e Volturno; seguono i vini dei Colli Albani a pari merito con quelli della costa sorrentina. Alla fine del lungo elenco con grande saggezza Plinio scrive: «Non c’è dubbio che ad alcuni piacciono più certi tipi di vino, ad altri, altri vini e che di due vini provenienti dallo stesso tino, uno migliore, superi in qualità l’altro, per quanto affine, grazie al recipiente che lo contiene, ovvero a circostanze casuali. Motivo per cui ognuno proclamerà sé stesso giudice del vino migliore». Al termine della sua approfondita dissertazione, Plinio, individuando per primo (2000 anni or sono!) l’importante ruolo del terreno, scrive: «(sul vino) influiscono la regione e il tipo di terreno, non l’uva, è quindi inutile voler enunciare tutte le specie perché una vite dà risultati diversi secondo i luoghi». Sempre dal XIV libro, apprendiamo curiosità interessanti, scopriamo infatti che fu Giulio Cesare il primo, all’epoca del suo terzo consolato, a servire audacemente durante un banchetto 4 tipologie diverse di vino: il Falerno e il Mamertino, di provenienza italica, e il Lesbio e il Chio, vini greci (N.H. XI, 97). Sotto l’impero di Tiberio (42 a.C.37 d.C.), nacque invece la moda di bere a digiuno «e di far precedere di preferenza il vino alle vivande, procedura anche questa straniera e caldeggiata dai medici che si distinguono sempre per qualche novità» (N.H. XIV, 143). Per meglio mettersi in mostra a Tiberio (successore di Augusto), un certo Novello Attico da Milano, proconsole della Gallia Narbonense, divenne famoso per aver ingollato quasi d’un fiato, al cospetto dell’imperatore, tre corgi (= 10 l) di vino; al bevitore valse l’inequivocabile soprannome di «Tricorgius». Questa, onestamente, non la conoscevamo, ma grazie al capitolo 18 del XIV libro, veniamo ad apprendere che poco prima della battaglia di Azio (dove ne uscì sconfitto), Marco Antonio (sì, proprio quello di Cleopatra), rese pubblico un trattato scritto da lui sulla propria ubriachezza. Concludiamo, per gli interessati, dicendo che nel libro XXIII si parla delle virtù medicinali della vite e del vino in ben 23 capitoli degli 83 complessivi.
Le Chicche rare
Pioniere del marchio «Vinatura», per contraddistinguere i vigneti che seguono i criteri della produzione integrata, Stefano Haldemann nel suo vecchio rustico a Gudo, che funge da cantina, imbottiglia vinificando in maniera separata vitigni rari quasi dimenticati. E lo fa raccogliendo su diverse parcelle, molte delle quali situate in zone alle volte ripide e impervie. Riservato e caparbio, Stefano continua a considerare il vino come un alimento accessibile a tutti, da qui la sua politica nel contenere i prezzi. Indimenticabile per noi un pomeriggio sotto il pergolato del suo rustico, trascorso a degustare la sua Bondola che profumava di ciliegie/ amarene. La sua passione per i vitigni d’altri tempi lo ha portato a realizzare «Le Chicche rare»: più di venti vitigni dell’area Lombarda/Piemontese e qualche altro legato all’immigrazione in Francia, compongono questo vino tributo a «Pro Specie Rara». «Le Chicche rare» non è un vino da abbinare a piatti raffinati e ricercati, ma è un vino da bere assolutamente fresco 13°/14°, sulla terrazza nelle serate o nei pomeriggi d’estate, abbinato a piatti semplici della nostra cultura contadina. Il suo profumo farà tornare bambini molti di noi e ricordare le cantine dei nostri nonni. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 17.50. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Melting Pot polare
Reportage Prove generali di convivenza alle isole Svalbard, frullatore di nazionalità e culture diverse
Francesca Mazzoni Sbircio dal finestrino dell’aereo. Sotto di me scorre il profilo degli ultimi fiordi della Norvegia, poi solo l’oceano. Scaliamo un parallelo dopo l’altro fino al 78°, quello di Longyearbyen, la città più importante delle Isole Svalbard. È l’ultimo avamposto abitato prima del Polo Nord, da cui dista solo mille chilometri: oltre questo punto sulla mappa non ci sono altri luoghi stabilmente abitati dall’uomo. In un mattino color pastello, dopo tre ore di volo, arrivo a destinazione in un moderno aeroporto dove il mio zaino rotola sull’unico nastro bagagli.
Longyearbyen conta circa 2500 abitanti provenienti da più di cinquanta nazioni «Sukkertoppen, Gruvfjellet, Trollsteinen»: provo inutilmente a scandire in norvegese i nomi delle morbide montagne tutt’intorno. Sulle loro cime si vedono ancora polverose miniere abbandonate e arrugginiti vagoncini. Longyearbyen nasce infatti nel 1906 come villaggio minerario per l’estrazione del carbone, grazie all’imprenditore statunitense John Munro Longyear. Oggi una di quelle cime, riconoscibile per l’avveniristica porta d’ingresso in acciaio, ospita lo Svalbard Global
La renna delle Svalbard. Su www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica. (Ottavio Giannella)
Seed Vault, un’arca di Noè inaugurata nel 2008 dove per ogni eventualità vengono conservate a −18°C le sementi delle piante commestibili di tutto il mondo. La Siria ha già chiesto i campioni di alcune coltivazioni cancellate dalla guerra. Qui al freddo tutto si conserva, anche troppo: nei tessuti dei corpi quasi intatti di alcuni soldati sono stati trovati i virus della terribile epidemia di Spagnola del 1918. Per intanto, ignari delle tensioni internazionali, i semi degli Stati Uniti sono conservati accanto a quelli della Corea del Nord. Non è l’unico caso di inedite convivenze. La cittadina, infatti, è un esperimento piuttosto riuscito di multiculturalismo: registra circa duemilacinquecento abitanti provenienti da più di cinquanta nazioni. Merito di un trattato internazionale del 1925, che affida la sovranità alla Norvegia ma concede la possibilità di sfruttamento economico agli Stati firmatari; dunque, frontiere aperte e nessun visto. Unici requisiti? Una buona forma fisica, una casa e un lavoro sicuro per mantenersi. Passeggio per il centro abitato costellato da edifici colorati in legno, tutti rialzati su palafitte per la presenza del permafrost, un terreno perennemente ghiacciato. Saremo in cima al mondo ma Internet funziona benissimo, grazie a un potente sistema di fibra ottica sottomarina al servizio della stazione satellitare, come mi spiega Dario, ventitré anni, italianissimo, qui dal 2018 e oggi cuoco in uno dei ristoranti più quotati, il Funken Lodge. Strada facendo vedo due asili, una Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere La strada principale scende dall’alto di Longyearbyen fino al fiordo. Qui a destra, Facundo Perez, uruguayano. (Ottavio Giannella)
scuola, persino l’università, con circa trecentocinquanta studenti da tutto il mondo ogni anno; e poi negozi d’abbigliamento tecnico, la posta, la banca, un ospedaletto, un centro sportivo con la piscina e perfino un negozio di alimentari thailandese. «Abbiamo una Little Thai polare. È la seconda comunità straniera dopo quella svedese», spiega Diego dinanzi al mio evidente stupore. Tutto merito dell’amore tra una donna di Bangkok e un minatore norvegese; galeotta una vacanza in Thailandia nel 1980, lui la sposa e la porta con sé. Seguendo la via tracciata dalla donna arrivarono poi anche suoi parenti, amici e conoscenti, tutti buoni lavoratori impiegati perlopiù nel turismo o nella ristorazione. A patto di sopportare il freddo e una sana dose di isolamento, qui chiunque può avere un’opportunità di ricominciare. Comincia così il racconto di Omid Abolhasani, trentano-
ve anni, barista al Fruene, una delle migliori caffetterie della città, dove ci scaldiamo con una zuppa bollente. «Sono curdo e vengo dall’Iran. Nel 2008 sono arrivato in Norvegia come rifugiato, assieme alla mia famiglia. Ma le autorità hanno respinto per due volte la mia richiesta d’asilo politico e infine mi hanno espulso». È allora che Omid ha scelto di spostarsi così a nord, alle Svalbard, pur separandosi dai suoi affetti. «Sapevo che non sarei potuto tornare sul continente per anni e che mi aspettava una vita completamente diversa. I primi tre mesi sono stati durissimi. Ma poi ho trovato, finalmente, la pace e la libertà». Oggi questa minuscola cittadina dei ghiacci è per lui «casa», una vera utopia per il popolo curdo. Nel primo pomeriggio comincia un brulicante andirivieni di persone, rigorosamente imbacuccate. È la movida del sabato artico. Una sosta al pub è
d’obbligo. «La socialità è tutto, soprattutto nella lunga notte polare, da fine ottobre a metà febbraio, quando è buio per ventiquattro ore», sottolinea Dario con in mano una bionda dello Svalbard Bryggeri, il birrificio più a nord del mondo. Come in un qualsiasi bar sotto casa, si chiacchiera del più e del meno, anche di calcio. Infatti queste isole in cima al mappamondo hanno un campionato, seppure non riconosciuto da alcuna federazione sportiva. «Sono portiere del Longyearbyen», mi dice orgogliosamente Facundo, un amico di Dario. Facundo arriva letteralmente dall’altra parte del mondo, dall’Uruguay, e lavora per un’impresa di pulizie. «Cosa mi piace? Essere immersi in un frullatore di diverse nazionalità e culture. La mente si apre e impari moltissimo» conclude con un grande sorriso stampato sulla faccia. A Longyearbyen sulla carta tutti hanno gli stessi diritti, un sogno per
chi viene dai tanti inferni del pianeta, anche se uno sguardo più attento coglie facilmente che − come nella Fattoria degli animali di Orwell − «Tutti sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». I norvegesi hanno pur sempre le chiavi di casa e conoscere la loro lingua è un indubbio vantaggio. Il sole si abbassa lentamente sull’orizzonte. Costeggiamo il fiordo, com-
pletamente ghiacciato, mentre un immacolato paesaggio si apre dinanzi agli occhi. Ci lasciamo alle spalle il composito brusio della città fino a un segnale stradale con il profilo di un orso. Un semplice cartello segna il confine naturale tra l’uomo e il più grande carnivoro della terra: nessuna recinzione, nessun muro di separazione, nessun confine. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Il dono dei cinesi al mondo Tra le mode di oggi, anche il «buono ma leggero». Continuiamo dunque la saga della cottura a vapore, sempre più in auge, dato che «trasuda» leggerezza giacché utilizza pochi grassi. Sarà un mantra di questi anni. È un dono dei cinesi al mondo. Si adatta a tutte le tradizioni, sia chiaro, ma non c’è niente da fare: i piatti così cotti hanno sempre un’aria un po’ orientale, dato che i maestri sono loro, ed è quindi giusto a loro ispirarsi. Vista la grande versatilità di questo sistema di cottura, vediamo qui dei primi piatti un po’ fusion, che ben danno l’idea.
Basta un po’ di pazienza e tempo di lievitazione per preparare due ottimi primi: Panini ai ceci e Ravioli alle verdure Una premessa: a vapore si può cuocere in una vaporiera classica o elettrica ma anche in un forno a microonde a 800 Watt, in un forno a vapore ma anche classico. Ciò detto, la classica vaporiera in bambù dei cinesi è indiscutibilmente l’utensile migliore – e costa poco. Panini ai ceci (con ingredienti per circa 450 g di impasto). Mondate e tritate finemente un mazzetto di erba cipollina. Mescolate 50 g di acqua tiepida con un cucchiaino di sale. In un altro recipiente, mescolate 50 g di acqua tiepida con 10 g di lievito di birra secco. Miscelate 195 g di farina 00 con 50 g di farina di ceci in una ciotola. Unite l’erba cipollina e disponete il composto a fontana su una spianatoia. Fate un buchino al centro e versate l’acqua con il lievito e 40 g di latte. Impastate bene, quindi versate l’acqua col sale. Lavorate ancora l’impasto fino a quando non sarà sodo e omogeneo. Formate una palla, mettetela in una ciotola e coprite con pellicola da cucina. Lasciate lievitare
in un luogo caldo. Nel frattempo, tagliate dei quadrati di carta da forno in forme di 5 x 5 cm. Dopo 2 ore, impastate di nuovo per qualche minuto e ricavate tante pagnottelle di circa 40 g l’una. Date loro una forma a goccia, praticate un buco sul fondo di ognuna fino a mezza altezza e disponetele sui quadrati di carta da forno. Fatele lievitare ancora 30 minuti. Distribuite le pagnottelle sui cestelli della vaporiera e cuocetele a vapore per 10 minuti. Servitele tiepide o a temperatura ambiente. Ravioli alle verdure. La pasta all’uovo non va molto bene per la cottura al vapore, ho provato tante volte ma rischia di creparsi la sfoglia; meglio usare pasta senza uovo e più che mai la farina di riso, un ingrediente amatissimo. Per la pasta: disponete 500 g di farina di riso a fontana in una ciotola e aggiungete 2 g di sale. Incorporate 2 cucchiai di olio di mais e 2,7 decilitri) di acqua poco alla volta. Lavorate l’impasto con le mani finché non sarà elastico e omogeneo. Avvolgetelo in un panno e lasciatelo riposare un’ora in un luogo fresco e asciutto. Per il ripieno: tagliate a fettine 100 g di patate e cuocetele al vapore per 10 minuti. Spazzolate e mondate 250 g di funghi, puliteli con un canovaccio umido e tritateli finemente. Mondate e tritate 100 g di verza, 50 g di carote, 2 cipollotti e 100 g di germogli a piacere e mescolateli con 20 g di maizena. Tritate le patate finemente e unitele alle verdure. Regolate di sale. Stendete la pasta su una spianatoia infarinata e ricavate dei dischi di circa 7 cm, aiutandovi con un bicchiere (o un coppapasta). Con un piccolo mattarello spianate ulteriormente i dischi di pasta per renderli ancora più sottili e fini. Disponete quindi un cucchiaio abbondante di ripieno al centro di ogni raviolo, chiudetelo a piacere. Mettete i ravioli in un cesto di bambù foderato con una foglia di verza e cuocete a vapore per circa 6 minuti. Servite spruzzando poco olio.
CSF (come si fa)
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Allan Bay
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Gastronomia La cucina a vapore è sempre più in auge e promette ancora molte soddisfazioni
Anche la «pizza» può essere cucinata a vapore. Ho scritto pizza fra virgolette perché sarà ben diversa da quella cotta nel forno classico a legna o elettrico: si pensi solo che si aggiungono addirittura 2 uova nell’impasto! Sarà alta, più morbida, un po’ in stile americano. È così, alcuni bravi cuochi italiani hanno incominciato a studiare come cuocere al vapore la pizza, l’onda lunga del vapore arriva dovunque, ma non
esiste ancora un risultato definitivo, si ha solo una certezza: che non assomiglia alla pizza classica. Però è buona. Vediamo come si fa. «Pizza» margherita (con ingredienti per 4 persone). Tagliate 300 g di mozzarella a cubetti e fatele sgocciolare in un colino. Mescolate 2 cucchiai di acqua fredda con un cucchiaino di sale. In un altro recipiente, mescolate un cucchiaio di acqua tiepida con 1 bustina di lievito per pizza. Disponete 600 g di farina a fontana su una spianatoia, fate un buchino al centro e versate l’acqua e lievito. Impastate bene, quindi versate l’acqua col sale. Aggiungete 2 uova leggermente battute e 4 cucchiaiate di olio di oliva. Lavorate ancora l’impasto fino a quando non sarà sodo e omogeneo. Formate una palla, mettetela in una ciotola e coprite con pelli-
cola da cucina. Lasciate lievitare in un luogo caldo per 10-15 minuti. Nel frattempo, mescolate 6 mestolate di passata di pomodoro con una presa di sale e una di origano. Ricavate dall’impasto 4 pagnottelle e stendetene ognuna col matterello tra due fogli di carta da forno. Disponete le sfoglie nei cestelli della vaporiera coperti con carta da forno. Condite con una mestolata di passata di pomodoro, versata con un movimento circolare, cospargete di cubetti mozzarella e cuocete a vapore per 35 minuti. Servite subito. Ovviamente potete guarnire questa «pizza» con quanto di più vi aggrada. Viene ottima anche con un buon ragù di carne ma anche di verdure, meno di pesce dato che la cottura poi dura al vapore per 35 minuti e il pesce anche se crudo stracuoce.
Ballando coi gusti Oggi due classiche preparazioni a base di pollo. La prima è un ragù di rigaglie, dai cento usi. La seconda è che più classica non si può: il pollo al sale.
Ragù di rigaglie
Pollo in crosta di sale
Ingredienti per 4/6 persone: 200 g di durelli di pollo · 100 g di cuori di pollo · 100 g di fegatini di pollo · vino bianco secco · 2 scalogni · prezzemolo · burro · sale e pepe.
Ingredienti per 4 persone: 1 pollo da 1 kg già eviscerato · 1 limone · salvia · ros-
Preparazione: Ecco una versione semplice. Mondate e spezzettate gli scalogni,
sbucciato e inseritevi gli spicchi di aglio. Mescolate il sale, gli albumi, la buccia del limone e gli aromi tritati. Versate 1 terzo della miscela in una teglia, adagiatevi il pollo con le zampe legate con spago da cucina e ricopritelo per intero con la miscela rimanente. Cuocetelo in forno a 200° per circa 1 ora e 30 minuti. Rompete il guscio di sale, estraete il pollo e tagliatelo a pezzi. Servite immediatamente. L’aspetto del pollo non sarà all’apparenza invitante ma il suo sapore è buonissimo. Servitelo con abbondanti salse a piacere.
cuoceteli con poca acqua per 15 minuti e frullateli. Tagliate i durelli a fettine e rosolateli in poco burro per 2 minuti. Aggiungete i cuori tagliati a metà e rosolate per 2 minuti. Unite i fegatini di pollo tagliati a listerelle (e se li avete, creste, bargigli, ovette e testicoli), rosolate ancora 1 minuto, sfumate con ½ bicchiere di vino, unite gli scalogni e continuate la cottura per 10 minuti. Regolate di sale e di pepe (e di altre spezie se volete) e profumate con prezzemolo tritato. Utilizzatelo per condire pasta, lasagne, riso, polenta e altro.
marino e timo tritati · 2 albumi · 4 spicchi di aglio in camicia · 2 kg di sale grosso.
Preparazione: Strofinate la cavità addominale del pollo con metà del limone
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Ambiente e Benessere
Grande attesa delle elettriche economiche
Buoni anche senza zucchero Prodotti I nuovi
yogurt alla frutta dell’assortimento Migros
Motori I tempi sono quasi maturi: nel giro di sei anni i prezzi dovrebbero parificarsi
a quelli delle auto a benzina o a diesel
Mario Alberto Cucchi Ci siamo quasi. Entro i prossimi sei anni i prezzi delle automobili elettriche saranno sostanzialmente allineati a quelli dei mezzi con motore tradizionale. E poi potrebbero arrivare a costare anche meno di analoghi modelli benzina e diesel. A dirlo è l’ultimo rapporto Bloomberg New Energy Finance redatto dagli analisti dell’agenzia internazionale in collaborazione con l’associazione ambientalista Transport and Environment. L’azione combinata di politiche ambientali comunitarie, strategie delle Case automobilistiche e riduzione dei costi di componenti e batterie, secondo il rapporto, porterà a uno sviluppo del mercato tale per cui la spesa necessaria per viaggiare a zero emissioni sarà, entro pochi anni, teoricamente ridotta. Un risultato che si potrebbe ottenere grazie alla diminuzione del costo delle batterie. Oggi in media si parla di 137 $/kWh e Bloomberg ipotizza che i prezzi medi per kWh diminuiranno del 50% dal 2020 al 2030, arrivando a 58 dollari/kWh entro il 2030. Un risultato che si potrà ottenere «lavorando sulla composizione chimica, sui metodi di produzione, sulla progettazione delle celle e sul packaging». Inoltre, numerose Case automobilistiche stanno investendo per costrui-
re Gigafactory dedicate alla produzione di batterie anche nel vecchio continente. Bloomberg stima anche le dimensioni del mercato europeo dei veicoli elettrici a medio e lungo termine: 4,3 milioni di veicoli «alla spina» entro il 2025, per una quota del 28% con le BEV – Battery Electric Vehicle – a rappresentare oltre la metà. La maggiore diffusione è prevista nel nord Europa, con Germania, Regno Unito e Francia, che saranno le prime a seguire il trend avviato dai Paesi scandinavi e dall’Olanda. Lo studio si sbilancia anche in una previsione forse un po’ troppo ottimistica secondo cui entro il 2030 le BEV potrebbero rappresentare il 50% del mercato ed addirittura l’85% entro il 2035. La ricetta magica prevede non solo la diminuzione del costo delle batterie ma anche una più stringente normativa comunitaria sulle emissioni di CO2 e un aumento degli impianti di ricarica. Intanto in questi giorni John Elkann, presidente della Casa di Maranello, in occasione dell’assemblea degli azionisti di Exor, ha confermato il debutto della prima Ferrari elettrica che avverrà nel 2025. L’attenzione degli appassionati resta alta sulle auto del Cavallino e lo dimostra l’ultima nata che ha guadagnato le copertine dei giornali di tutto il mondo anche se la batteria la usa solo per avviare il potente motore alimentato a
Giochi Cruciverba Forse non tutti sanno una piccola curiosità sui pompieri: scoprila leggendo, a cruciverba risolto, le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 1, 4, 7, 4, 2, 4, 8)
Intanto, è confermato il debutto, nel 2025, della prima Ferrari elettrica.
benzina. Si tratta della bellissima Ferrari Portofino M. Una versatile 2+2 equipaggiata con tetto apribile retrattile. La M in Ferrari identifica progetti che subiscono importanti modifiche tecniche volte ad aumentare le mozioni di guida senza diminuire confort e versatilità del modello da cui derivano. Così anche per la Portofino M che deriva dal modello presentato nel 2017. La M ha prestazioni migliorate e inoltre i designer hanno puntato su modifiche di stile volte a sottolineare il carattere sportivo. Lo straordinario motore da 3855 cc
discende dalla famiglia di V8 vincitore del best engine of the year per 4 volte consecutive ed è ora in grado di erogare una potenza massima di 620 cavalli (+20). Con una coppia massima di 760 NewtonMetro, la Portofino M può raggiungere una velocità massima di 320 chilometri orari. Per scattare da ferma a cento orari impiega solo 3,45 secondi che sullo 0-200 salgono a 9,8. Grazie ai freni carboceramici riesce ad arrestarsi a cento orari in soli 32 metri. Una incredibile super car ma per il canto del cigno, se mai ci sarà, c’è ancora tempo.
Per la clientela che desidera rinunciare al consumo di zuccheri aggiunti, Migros ha sviluppato tre yogurt alla frutta che non li contengono del tutto. Fruit Mix, Mango-Mela ed Exotic vengono proposti nell’assortimento di tutta la Svizzera dal mese scorso. Migros amplia dunque il suo vasto assortimento di prodotti senza zuccheri aggiunti, che non vengono dolcificati né con zucchero cristallizzato né con altri ingredienti dolcificanti come il miele, lo sciroppo di glucosio o il succo concentrato di agave. Nei prossimi anni Migros continuerà a ottimizzare le ricette delle sue marche proprie. Oltre agli yogurt, Migros si dedica intensamente da anni alla riduzione del tenore di zucchero nei cereali per la colazione.
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 1
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Sudoku Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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ORIZZONTALI
1. Pesce d’acqua dolce 5. Nome femminile 10. La capitale del Perù 12. Affluente della Garonna 13. Le iniziali di un attore Orlando 15. Pagamenti per usi temporanei 17. Andate per Cicerone 18. Noto servizio segreto 20. Massiccio della Bulgaria
sudoccidentale 22. Bocca in latino 23. Arredo del camino 24. Fora ed è forato 26. L’attrice Mezzogiorno
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
28. Piene fino all’orlo 30. Suffisso con significato
di somiglianza 32. Le iniziali della Spaak 33. Leonardo per gli amici 34. Sono di famiglia 35. Congiunzione latina 36. Sono delle miscredenti Verticali 1. «Contenitore» di stoffa 2. Gemelle in gonnella 3. Si ripete alzando i calici 4. Chi dimostra affetto 6. Centro della capitale
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
7. Un’esortazione 8. Ispido, fitto 9. Precedono operazioni invasive 11. Le spiegava l’Ippogrifo 14. Antica lingua francese 16. Piccola rana 19. Le iniziali dell’attrice
Angiolini 21. Aspre, acerbe 25. Due vocali 27. Anagramma di «mite» 29. Le tracce più labili 31. «Ut» per Guido d’Arezzo 34. Consonanti... dell’ultima consonante
Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
PICCOLI STRATAGEMMI – Tra amiche: «Stamattina mio marito ha trovato uno scarafaggio che avevo messo in cucina, così ha svuotato e pulito tutto!»… Resto della frase: «… DOMANI LO METTERÓ NEL BAGNO!» D A L I T R A M E
I S I D E A L I M
G A I C C A I L L S A M T R E R A I B C I E R I
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O G N O M R I N E L O O M O E R O T R A F I E R I O’ N D I N R T I A T O G N E G E E
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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 giugno 2021 • N. 23
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Politica e economia Alle origini della pandemia Torna in auge l’ipotesi della fuga del virus dal laboratorio. Cerchiamo di capire perché
L’inferno delle donne pakistane Il delitto d’onore è uno dei pilastri della società e nel Paese oltre il 90 per cento della popolazione femminile è vittima di violenza da parte dei famigliari pagina 25
Tutto da reinventare Dopo lo stop alle trattative per l’accordo quadro con l’Ue, si cercano nuove vie, ma serviranno anni
Più potere alla polizia? Le misure per combattere il terrorismo, in votazione il 13 giugno, contestate da molti giuristi e da 9 ex procuratori pubblici ticinesi pagina 27
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Joe Biden omaggia l’europa
Diplomazia Dall’11 giugno il presidente
americano sarà in Cornovaglia per il G7, in seguito volerà a Bruxelles per il vertice Nato e il summit Usa-Ue. Infine il 16 si recherà a Ginevra per incontrare Putin
Federico Rampini Per la prima volta da quando è presidente, Joe Biden fa un vero viaggio all’estero, formato pre-Covid, cioè in carne e ossa. È anzitutto un omaggio agli alleati europei, visto che tocca al Vecchio Continente l’onore di ospitare questa prima trasferta dal vivo. Si comincia dall’11 al 13 giugno con il G7 sotto la presidenza britannica in Cornovaglia. Seconda tappa Bruxelles per il vertice della Nato il 14 giugno, seguito il 15 dal summit Usa-Unione europea. Infine il 16 vola a Ginevra per incontrare Vladimir Putin. È un test importante per la politica estera della nuova Amministrazione a meno di cinque mesi dal suo insediamento. I temi sono il rilancio del multilateralismo, il rafforzamento delle alleanze anche per contenere le sfide di Cina e Russia, l’ambiente e la lotta all’emergenza climatica, la ripresa economica, il tutto sotto il tema unificante che è la rinascita delle democrazie in un mondo pieno di involuzioni autoritarie. Biden ha preparato il suo primo viaggio da presidente in Europa con un gesto distensivo sul fronte commerciale. Ha colpito alcuni alleati con un dazio punitivo per la digital tax (un’imposta sui redditi delle multinazionali operanti nel settore digitale o che fanno comunque ricorso a servizi digitali nello svolgimento delle loro mansioni), ma ha sospeso questa tassa per 6 mesi con la previsione che si troverà un accordo fra le due sponde dell’Atlantico. Il nuovo dazio del 25% su alcune categorie di prodotti si applica a sei Paesi tra cui l’Italia, e penalizzerebbe 300 milioni di importazioni annue di made in Italy sul mercato americano. Ma potrebbe non entrare mai in vigore se si confermassero le aspettative della Casa bianca su un accordo. A gestire la partita è la nuova rappresentante per il commercio estero, Katherine Tai. Secondo Tai questi dazi avrebbero una solida base giuridica per compensare il danno all’economia americana provocato dalle digital tax prelevate in quei Paesi. Sottolinea però che la priorità va data alla
ricerca di una «soluzione multilaterale per un insieme di problemi che riguardano la tassazione internazionale». Il G7 in Cornovaglia potrebbe essere preceduto da un accordo a livello di ministri economici sulla global minimum tax, un dossier che sta caro a Biden perché propedeutico ad alzare il prelievo su tutte le società Usa. La digital tax colpisce imprese soprattutto americane, visto che i colossi di big tech come Amazon, Alphabet-Google e Facebook sono concentrati sulla West Coast. Le esportazioni digitali delle 40 maggiori aziende tecnologiche Usa valgono 517 miliardi di dollari all’anno. Un altro appuntamento decisivo potrebbe essere il G20 dei ministri economici a Venezia il 9 e 10 luglio. In quella sede potrebbe essere raggiunto un accordo che includa global minimum tax e digital tax. Si andrebbe allora ad un «disarmo» dei dazi, consentito da un’armonizzazione dei prelievi sulle multinazionali. È lo scenario su cui scommette Biden e al quale lavora la sua segretaria al Tesoro Janet Yellen nel G7 dei ministri economici. Ai temi scottanti del summit di Ginevra con Vladimir Putin si aggiunge il «ransomware», l’estorsione digitale. L’America si scopre sempre più vulnerabile e molte piste portano alla Russia, caricando di un nuovo contenzioso una relazione bilaterale già tesa per l’Ucraina. Il mese scorso era toccato al più grande oleodotto che distribuisce benzina negli Stati uniti, a giugno la vittima più illustre è stato il numero uno nella produzione di carne. Tutti colpiti da hacker sofisticati, con cyber-attacchi che paralizzano la rete informatica e mettono in ginocchio le grandi aziende. La soluzione più frequente è pagare il riscatto richiesto, ma così purtroppo si alimenta una nuova industria del crimine i cui affari stanno andando a gonfie vele. I Governi sembrano impotenti. Siamo a una nuova versione – globale – dell’anonima sequestri, anche se per adesso il danno è solo economico. L’ultima vittima è la Jbs, azienda brasiliana che è il più grande allevatore mondiale di bestiame, con annessi sta-
Si tratta del primo vero viaggio all’estero di Biden da quando è presidente. (Shutterstock)
bilimenti per la macellazione e il trattamento industriale della carne. Jbs ha una presenza enorme sul mercato degli Usa, dove controlla un quinto di tutta la macellazione di bovini suini e pollame, con stabilimenti in Colorado, Iowa, Minnesota, Pennsylvania. Ben 9 fabbriche sono state chiuse in seguito all’attacco degli hacker che ha paralizzato i sistemi informatici della Jbs. È un remake della crisi avvenuta nei rifornimenti di benzina su tutta la East Coast, quando a maggio la vittima di un cyber-attacco fu la Colonial Pipeline, una delle maggiori società distributrici di carburante negli Usa. In quel caso per diverse settimane la versione ufficiale è stata che i criminali erano «soggetti privati residenti in Russia». L’Amministrazione Biden all’inizio ha evitato l’amalgama con il Governo russo, malgrado i numerosi casi di hackeraggio di Stato a opera di agenzie di spionaggio agli ordini del Cremlino. Poi però i toni di Washington si sono
induriti: «La Casa bianca chiama in causa il Governo russo sull’accaduto, il nostro messaggio è che uno Stato responsabile non ospita né protegge criminali che estorcono riscatti». Ancora non vi è una «pistola fumante», una prova del delitto, che colleghi direttamente questi hacker a Putin. Però il fatto che agiscano liberamente e impunemente a partire dal territorio russo è già di per sé una questione grave e seria, che Biden intende sollevare con il suo interlocutore. In Europa Biden vuole presentarsi anche come il leader di una Nazione che aiuta le altre a uscire dalla pandemia. Questo risponde alla necessità di restituire forza e credibilità alle democrazie. Perciò una settimana prima di lasciare l’America Biden ha annunciato che manderà 80 milioni di dosi ai Paesi poveri entro la fine di questo mese. Subito 25 milioni di dosi vanno alle aree più colpite come l’India, l’America latina, alcuni Paesi africani. «Non lo
facciamo per conquistare favori o ricavare concessioni», dice Biden. «Se distribuiamo i vaccini è perché vogliamo salvare vite umane e guidare il mondo fuori da questa pandemia, con la forza del nostro esempio e dei nostri valori». L’apertura di una nuova fase nella geopolitica americana dei vaccini coincide con una soglia significativa nella campagna delle immunizzazioni all’interno degli Usa. Ha ormai ricevuto il vaccino più di metà di tutta la popolazione residente e oltre il 60% di quella adulta. A questo punto gli Stati uniti hanno scorte di vaccini sovrabbondanti. Rafforzare le immunità nel resto del mondo è la prossima tappa. Il gesto fatto da Biden un mese fa annunciando la sospensione della tutela sulla proprietà privata sui brevetti si è rivelato solo simbolico. L’accesso ai brevetti non basta per produrre vaccini. Molto più efficace è distribuire vaccini già prodotti negli Usa, come ora Biden inizia a fare.
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Politica e economia
Virus sfuggito dal laboratorio?
Alle origini della pandemia Come mai sta tornando in auge una teoria finora tacciata di complottismo.
Il ruolo della EcoHealth alliance che finanzia progetti sulla diffusione di nuove malattie anche in Cina
Irene Peroni A più di tredici mesi da quando la Covid-19 fu dichiarata ufficialmente pandemia dall’Organizzazione mondiale della sanità, sta prendendo piede l’ipotesi, finora tacciata di complottismo, che il Coronavirus possa essere uscito per errore dal laboratorio di Wuhan. Il presidente degli Stati uniti, Joe Biden, ha fatto appello ai servizi segreti affinché moltiplichino gli sforzi per novanta giorni con l’obiettivo di fare finalmente chiarezza sulle origini del virus che ha già causato più di tre milioni e mezzo di morti. Le sue parole seguono un recente rapporto dell’intelligence statunitense citato dal «Wall Street Journal», secondo il quale tre ricercatori del laboratorio di virologia di Wuhan sarebbero finiti in ospedale già a novembre 2019. I loro sintomi sarebbero stati compatibili «sia con la Covid-19 che con una semplice influenza stagionale».
Joe Biden ha incaricato i servizi segreti di fare chiarezza. Già Trump aveva parlato di un possibile errore umano La reazione della Cina alle parole di Biden non si è fatta attendere. «Gli Stati uniti non si preoccupano affatto dei fatti o della verità, né sono interessati a un serio studio scientifico sulle origini del virus», ha dichiarato il portavoce del Ministero degli esteri cinese durante una conferenza stampa a Pechino. Eppure, malgrado lo si sia cercato ormai per più di un anno, l’animale che avrebbe fatto da trait d’union tra pipistrello e uomo non è mai stato trovato. Dunque ora è lo stesso mondo scientifico a cambiare rotta e a chiedere ulteriori indagini: diciotto scienziati di fama internazionale hanno di recente firmato un appello sulla rivista «Science». «Le teorie di una fuoriuscita accidentale da un laboratorio o di un salto di specie rimangono entrambe valide»,
scrivono. «Sapere come sia emersa la pandemia di Covid-19 è però fondamentale per adeguare strategie globali, capaci di mitigare i rischi di future epidemie». A dire il vero, allo scoppio della pandemia sia Donald Trump, allora in carica alla Casa Bianca, sia il suo segretario di Stato Mike Pompeo, avevano dichiarato senza mezzi termini i propri sospetti nei confronti dei cinesi. Trump aveva parlato di un possibile «errore di laboratorio». Pompeo aveva addirittura sostenuto che ci fossero «prove massicce» in tal senso. Ma le affermazioni del presidente Usa, già nell’occhio del ciclone per il pressappochismo con cui stava affrontando la crisi sanitaria, rimasero pressoché inascoltate. Per poter affrontare l’ipotesi della fuga dal laboratorio bisogna spiegare il concetto di gain of function («guadagno di funzione», spesso abbreviato in Gof). Gli esperimenti di Gof servono a potenziare i virus attraverso manipolazioni genetiche. Lo scopo è quello di individuare quelli più pericolosi per l’uomo e imparare a combatterli. Nonostante l’Istituto di virologia di Wuhan fosse noto per i suoi esperimenti di Gof sui virus dei pipistrelli, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), appoggiata da molti scienziati, sposò inizialmente l’ipotesi del mercato del pesce. Ipotesi ormai crollata: alcuni casi di Covid-19 erano stati riscontrati già prima che il mercato si trasformasse in un focolaio d’infezione. Ma su cosa si basava l’assunto che il virus fosse di origine naturale e perché questa affermazione è rimasta pressoché indiscussa fino a pochi giorni fa? Il 19 febbraio 2020, appena otto giorni dopo l’annuncio da parte dell’Oms che il Sars-Cov-2 poteva rappresentare una minaccia più grave di quella del terrorismo, «Lancet» pubblica una lettera dal tono perentorio, firmata da 27 scienziati di grosso calibro a sostegno dei colleghi cinesi. «Siamo uniti nel condannare fermamente le teorie complottistiche che suggeriscono un’origine non naturale della Covid-19. Scienziati di più Paesi (…) concludono in modo schiaccian-
te che questo Coronavirus, così come tanti altri patogeni emergenti, ha avuto origine nella fauna selvatica». All’epoca nessuno sapeva che l’iniziativa della lettera fosse di Peter Daszak, zoologo e presidente di una Ong chiamata EcoHealth alliance. E tantomeno che quest’ultima, la cui sede è a New York, fosse legata alle ricerche sui virus dei pipistrelli condotte in Cina. EcoHealth alliance finanzia una cinquantina di progetti sull’emergenza e la diffusione di nuove malattie in tutto il mondo. Uno di questi progetti fa capo al laboratorio di virologia di Wuhan, che ha tra l’altro ricevuto cospicui fondi dagli Usa tra il 2014 e il 2019. Si tratta di denaro proveniente dal National institute of allergy and infectious diseases (Niaid), agenzia governativa che si occupa di malattie infettive. A capo del Niaid c’è un personaggio noto a tutti: Anthony Fauci, l’immunologo che ha fatto da consigliere medico prima a Trump e poi a Biden per tutta la durata della pandemia. Lo scopo del progetto era evitare che uno di quei virus di pipistrello, capaci di passare dagli animali all’uomo, potesse diventare pandemico. Come ha spiegato lo stesso Daszak durante un’intervista filmata a dicembre 2019, dunque poco prima dello scoppio della crisi, «i Coronavirus sono piuttosto facili da manipolare». La capacità di saltare da una specie all’altra dipenderebbe proprio dalla proteina spike, prosegue Daszak. Dunque, per prevedere questo potenziale salto di specie, «inseriamo (la proteina spike) nella struttura di un altro virus e facciamo un po’ di lavoro in laboratorio». Daszak poi spiega che a questi esperimenti partecipava un eminente scienziato americano: Ralph Baric, professore presso la University of North Carolina e massimo esperto mondiale di Gof. Sia Baric che Daszak hanno collaborato e firmato studi insieme alla cinese Zheng-Li Shi, direttrice del Centro per le malattie infettive emergenti presso il laboratorio di virologia di Wuhan. Shi, soprannominata «bat woman» dagli stessi cinesi, dirigeva gli studi dei Coronavirus sui pipi-
Ecco come appare il nuovo Coronavirus. (Keystone)
strelli e faceva molto lavoro sul campo, entrando nelle grotte più impervie per raccogliere campioni di guano. Anche Baric e Daszak erano in contatto. Nel lanciare l’idea della lettera per «Lancet» a sostegno dei ricercatori cinesi, Daszak inizialmente non voleva apporre il proprio nome né quello della EcoHealth alliance per paura che ciò risultasse «controproducente». La discussione sulle firme emerge da un’indagine svolta dal gruppo investigativo no profit Us right to know, che ha reso noto lo scambio di e-mail originale. Dei due sarà solo Daszak a firmare, ma non come autore principale. Ma il ruolo di Daszak non finisce qui:
nonostante il palese conflitto di interessi, viene infatti scelto come membro della task force dell’Organizzazione mondiale della sanità che si reca in Cina a febbraio 2021 per indagare sulle origini della Covid-19. Paradossale, visto che il progetto di Wuhan, di cui lui stesso faceva parte in quanto scienziato, era stato finanziato attraverso la sua Ong. Ma la Cina aveva rivendicato e ottenuto il potere di veto sui membri del team, condizionandone la scelta. Qualora si dimostrasse che il virus sia realmente uscito dal laboratorio di Wuhan, sarà difficile accettare che la ricerca che lo ha prodotto è stata finanziata dai contribuenti americani.
O sei una escort o una megera manipolatrice Prospettive Da Carrie Symonds a Brigitte Macron, passando da Meghan Markle e Melania Trump.
I giudizi sulle compagne degli uomini al potere sono spesso durissimi. Gli stereotipi regnano ancora sovrani Luisa Betti Dakli È stata chiamata Lady Macbeth, Carrie Bolena, Miss Machiavelli e «la regina pazza che distruggerà la Corte». Stiamo parlando di Carrie Symonds, da poco moglie del primo ministro inglese Boris Johnson, che già nel 2019 andò a vivere con lui a Downing Street come «first girlfriend». La coppia, che ha già un bambino di nome Wilfred, si è sposata con rito cattolico a Westminster dopo i due divorzi e i 4 figli (o forse anche di più) di lui. Tra i due ci sono 23 anni di differenza e, malgrado Symonds sia molto più giovane del marito, è stata ribattezzata «l’eminenza grigia» del primo ministro britannico. Donna brillante, ha frequentato la prestigiosa Godolphin e Latymer School di Londra, si è laureata all’Università di Warwick, ma soprattutto a 29 anni era già a capo dell’Area comunicazione del Partito conservatore, dove ha iniziato a lavorare nel 2009. È dunque nell’ambiente politico da più di 10 anni. Quello che non le si perdona oggi è di non sapere stare dietro le quinte, zitta e buona. Tutto quello che il Governo
farebbe durante il giorno, verrebbe poi distrutto da lei la sera, quando Johnson torna a casa. Ma il quadro dell’abile megera che manipola un povero uomo sprovvisto di strumenti e arrivato a fare il premier per caso, non regge. Non è in particolare piaciuto il
contributo di Symonds al cambio della guardia dei consiglieri di Johnson. Compreso il potente Dominic Cummings, consulente senior che ha attribuito a lei tutta la responsabilità e che non ha atteso molto per vendicarsi, ad esempio accusandola di aver speso 200
Carrie Symonds a 29 anni era a capo dell’Area Comunicazione del Partito conservatore. (Keystone)
mila sterline (donate dai sostenitori del partito) per ristrutturare l’appartamento di Downing Street. Senza contare i commenti: «Carrie è una giovane bionda viziata» e «Boris? Un fantoccio nelle sue mani». Ma lo stereotipo della femme fatale che attira uomini indifesi non è una prerogativa della giovane Symonds. Stessa sorte è toccata alla duchessa del Sussex Meghan Markle, bollata come falsa, bugiarda, diabolica, responsabile di aver strappato alla famiglia reale il povero principe Harry: un altro malcapitato senza midollo. Che dire poi della «vecchia» che ha cresciuto il suo enfant prodige per plasmarlo e controllarlo: Brigitte Trogneux, moglie dell’attuale presidente francese Emmanuel Macron, più grande del marito di 24 anni. Considerata, come Symonds, una raffinata manipolatrice. Sua infatti l’idea di far correre il marito alle Presidenziali del 2017 supportato dal movimento «En marche!». Sue le decisioni di Macron che farebbe passare al vaglio della moglie ogni mossa. Lei che in pubblico non interviene ma che sceglie chi assumere e licenziare. Una donna che
ha lasciato il suo lavoro per seguire la vita politica del marito e che nelle cene mondane viene chiamata appunto «l’anziana»: epiteto scelto da François Hollande (66 anni) e la compagna Julie Gayet (48). Ma l’antipatia e l’astio per alcune first lady non finisce qui. Se certe vengono descritte come manipolatrici, altre sono dipinte come accompagnatrici o escort. Lo disse il «Daily Mail» di Melania Trump, a cui il giornale ha dovuto pagare 2,9 milioni di dollari di risarcimento. Michelle Obama fu chiamata «scimmia coi tacchi» dalla sindaca di Clay (West Virginia) Beverly Whaling costretta a dimettersi in fretta per il commento razzista. C’è poi chi ha avuto da ridire sulle calze ricamate e gli stivaletti di Jill Biden mentre scendeva dall’Air force one. Nessuno si è però ancora permesso di chiamare manipolatore o di fare apprezzamenti estetici sul marito della vicepresidente degli Stati uniti, Kamala Harris. Stiamo parlando di Douglas Emhoff, avvocato, che si è preso una lunga aspettativa dal lavoro per seguire la moglie nella sua nuova carica.
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Idee e acquisti per la settimana
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Politica e economia
Se la vita di una donna vale pochi spiccioli
Contro la cultura dello stupro
Prospettive Il ruolo della comunicazione
L’analisi In Pakistan oltre il 90 per cento della popolazione femminile nella battaglia anti-brutalità
è vittima di violenza. Il delitto d’onore è uno dei pilastri della società
Romina Borla Francesca Marino Si chiama, o più probabilmente si chiamava, Saman. Aveva 18 anni, e di lei non si sa più nulla. La ragazza, di origine pakistana, aveva chiesto aiuto ai servizi sociali per ben due volte, per sfuggire a un matrimonio combinato dalla famiglia. Viveva in una struttura protetta ma era tornata a casa, fidandosi della famiglia, per recuperare alcuni documenti. Da allora si sono perse le sue tracce. In seguito i suoi genitori sono tornati in fretta e furia in Pakistan per un presunto lutto. Di lei, per il momento, resta solo un post su Instagram dei suoi piedi che calzano scarpe da tennis e quasi danzano sulla strada. Hashtag #italiangirl. Prima di Saman, in Italia, c’era stata Hina, ammazzata dai genitori perché, come Saman, voleva essere libera di studiare e di scegliere la propria vita. Come Sana, riportata in Pakistan da Brescia con un trucco e sgozzata dal padre e dal fratello. Come Farah, che è stata più fortunata perché è stata riportata in Italia dall’Ambasciata. Avevano ucciso il bambino che aspettava da un ragazzo italiano ma lei era ancora viva. O Memoona, che ha chiesto aiuto alla sua scuola ed è stata riportata in Brianza. E la lista potrebbe essere molto più lunga. Il copione è, più o meno, sempre uguale: la ragazza vuole studiare, lavorare, frequentare i coetanei, sposare un ragazzo di sua scelta. Si inventa un matrimonio o un funerale in Pakistan e si lascia là la ragazza. Per essere data in moglie contro la sua volontà o, più spesso, per essere uccisa quasi impunemente. Perché, in Pakistan, quella contro le donne è una vera e propria guerra combattuta con l’arma letale del delitto d’onore. Circa tre donne vengono uccise ogni giorno per motivi legati all’onore familiare e più di mille donne l’anno muoiono per delitti travestiti da «incidenti domestici». Ogni due ore una donna viene rapita, seviziata o stuprata. Ogni otto ore qualcuna è vittima di uno stupro di gruppo. Più del novanta per cento della popolazione femminile è vittima di qualche forma di violenza da parte dei famigliari. Il comportamento femminile considerato come disonorevole comprende relazioni extraconiugali presunte o reali, la scelta di un marito contro il volere dei genitori, la richiesta di divorzio. O, anche, l’essere stata vittima di uno stu-
C’è chi rischia la vita ogni giorno per la libertà di scegliere. (Shutterstock)
pro. Stupro che nel 2007 è stato finalmente considerato dal Parlamento un delitto da codice penale e non un’offesa contro la morale, punibile secondo l’ordinanza Hudood (la quale ha lo scopo di implementare la Sharia, la legge islamica). Secondo l’Hudood la prova dello stupro è a carico della donna che lo subisce. La vittima deve presentare, per provare di essere stata violentata, quattro testimoni musulmani e di sesso maschile. Altrimenti viene processata d’ufficio per adulterio, crimine per cui la stessa legge prescrive la lapidazione. Secondo l’ordinanza Hudood, in generale, la testimonianza di una donna vale metà di quella di un uomo e l’adulterio, o il sesso prematrimoniale, vengono considerati un crimine contro lo Stato e puniti di conseguenza. Per i rappresentanti dei partiti islamici tradizionalisti, inoltre, non esiste la violenza domestica. Attribuire a una donna il diritto di denunciare il marito o di chiedere il divorzio in caso di maltrattamenti, mina alle fondamenta i sani principi su cui si basa la società pakistana. La prima donna che è andata a registrare una denuncia per violenza domestica a Lahore è stata rimandata a casa perché le botte, se non arrivano alla tortura, costituiscono parte integrante della normale dialettica di coppia. Non ci si deve quindi stupire se gente come i genitori di Hina, di Saman o di Sana pensa di poter regolare «alla pakistana» le proprie «questioni d’onore» anche in Italia o all’estero. E se la famiglia tutta congiura nel coprire i colpevoli. Il delitto d’onore è uno
dei pilastri della società pakistana. Nel 2016 aveva fatto scalpore il caso di Qandeel Baloch, ammazzata dal fratello per aver disonorato la famiglia. Qandeel era una influencer e appariva in televisione o sui social media truccata e in «abiti succinti». La famiglia ha supplicato i giudici di perdonare il suo assassino in base alla legge, emendata dopo la morte della giovane, che permette all’assassino di non scontare alcuna pena pagando alla famiglia della vittima il «prezzo del sangue». Quanto vale in Pakistan la vita di una donna? Pochi spiccioli, pagabili da chiunque. E non si tratta di casi isolati o circoscritti a settori disagiati della società. Il premier Imran Khan di recente è andato in Tv a dire che l’incremento esponenziale dei casi di stupro (impuniti) nel Paese è da attribuirsi ai «valori osceni» propagandati dall’India, dall’Occidente e dai film di Hollywood. Aggiungendo che se le donne osservassero rigidamente le regole islamiche in fatto di abbigliamento e condotta, e cioè la segregazione totale, non ci sarebbero stupri. D’altra parte Imran Khan si è anche rifiutato di confutare la teoria di un mullah locale che considera il Coronavirus una punizione divina per i «misfatti» compiuti dalle donne. Quelle relativamente poche coraggiose che in Pakistan marciano ogni 8 marzo al grido di «non c’è onore nei delitti» e di «mera jism, meri marzi» (mio il corpo, mia la scelta). Quelle che, per la libertà di scegliere, rischiano ogni giorno la vita. Come Hina, Saman, Sana, Farah e Memoona.
Violenza domestica e femminicidi non accadono solo in Pakistan o in Italia (vedi p. 29). In Svizzera in media ogni mese una donna perde la vita per mano del compagno o dell’ex (Statistica criminale di polizia 2020). Mentre in Ticino, l’anno scorso, gli interventi della polizia cantonale «per disagi in famiglia» sono stati 1’105 (in media tre al giorno). Nella maggioranza dei casi le vittime erano donne. E si tratta solo della punta dell’iceberg. Uno studio commissionato dall’Ufficio federale di giustizia rivela infatti che solo il 20 per cento dei casi di violenza domestica viene notificato alle forze dell’ordine. La violenza sulle donne ha profonde radici nella disparità tra i sessi presente all’interno della società ed è perpetuata – come spiega l’Ufficio federale per l’uguaglianza tra donna e uomo – da una cultura che tollera e giustifica la violenza di genere e si rifiuta di riconoscerla come un problema. Una cultura sostenuta dal linguaggio e dalle immagini trasmesse da media e pubblicità. «Un bagaglio che ci tramandiamo di generazione in generazione e che rende abituali rappresentazioni della femminilità e della mascolinità stereotipate, limitanti». Ad affermarlo Flavia Brevi, fondatrice di Hella Network, una rete per la comunicazione inclusiva che riunisce migliaia di professioniste e professionisti (www.hellanetwork.com). «La cultura in cui viviamo sottolinea spesso la fisicità della donna. Nella pubblicità, ad esempio, lo sguardo è quasi sempre maschile, nonostante si sappia che sono soprattutto le donne a decidere per gli acquisti. Una ricerca del 2014 dell’Art Directors Club italiano indica
Flavia Brevi, fondatrice di Hella Network.
che i prototipi più usati nella pubblicità per descrivere le donne sono le modelle e le grechine (cornici ornamentali). Mentre l’uomo è descritto come professionista, modello e sportivo: si mette dunque in risalto caratteristiche come la determinazione e l’essere attivo. La donna invece è molto spesso l’oggetto passivo e desiderabile dello sguardo maschile». Fino ad essere totalmente deumanizzata in certe reclame. Pensiamo – solo per fare alcuni esempi di qualche anno fa – alla pubblicità di una nota marca di abbigliamento di lusso con una violenza sessuale di gruppo o all’immagine della donna ammazzata per promuovere il black friday. «Queste rappresentazioni perpetuano la cultura della violenza e dello stupro», spiega l’intervistata. Ma anche il modo di raccontare i fatti dai media ha le sue responsabilità. «Esiste un problema nella narrazione quotidiana della violenza di genere che crea ulteriore violenza verso le donne. Ad esempio, in un caso di femminicidio si tende a mettere l’accento su come era vestita la vittima, su quanto alcol ha assunto o sul fatto di essere uscita da sola. Così facendo si sposta l’attenzione dal crimine a ciò che la donna ha fatto, come se ne avesse almeno in parte la responsabilità. Oppure si usano ancora espressioni come vendetta passionale o raptus di gelosia… Non c’è nulla di romantico nella violenza, ricordiamolo». È necessario, secondo Brevi, che chi lavora nella comunicazione sia consapevole delle sue responsabilità e che si sforzi di offrire modelli alternativi. «Il motto di Hella Network è: la comunicazione è figlia della società in cui nasce ma può mostrarle come essere migliore. Osservo che nella società si sta facendo largo la necessità di una comunicazione meno escludente e violenta. Le grandi aziende stanno già da tempo operando per eliminare gli stereotipi e aumentare la diversità al loro interno. Ci sono poi delle realtà che pensano ancora che per differenziarsi sia lecito tutto: nel bene o nel male purché se ne parli, insomma. Mentre diverse ricerche provano che le pubblicità stereotipate e con forti discriminazioni allontanano le persone. Nel mezzo ci sono quelli che ci provano ma non ci riescono o pensano che basti fare un’operazione di facciata. Fondamentale invece applicare delle politiche aziendali volte davvero all’inclusione, sia per quel che riguarda la rappresentanza ai vertici sia la parità salariale». Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 giugno 2021 • N. 23
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Politica e economia
Relazioni bilaterali da reinventare
CH-Ue Dopo la fine delle trattative per un accordo istituzionale,
ci si interroga su come mantenere e sviluppare il dialogo con Bruxelles
Marzio Rigonalli L’interruzione dei negoziati con Bruxelles in vista di un accordo quadro è stato uno di quei momenti forti che entrano nella lista degli eventi importanti, positivi o negativi, che caratterizzano la storia recente della Confederazione. Le reazioni sono state molteplici, in maggioranza negative, e gli interrogativi sulle ragioni che hanno indotto il Consiglio federale a prendere questa decisione, sulle scelte che converrà operare e sul futuro che ci attende, si sono susseguiti a un ritmo sostenuto. L’attenzione si è portata in particolare sulle conseguenze possibili che il paese, la sua economia e, in definitiva, la sua popolazione dovranno vivere in tempi ancora difficili da circoscrivere. Prima però conviene ricordare, in modo succinto, quello che è successo. Il Consiglio federale ha negoziato con l’UE per ben sette anni con l’intento di ottenere un accordo che consolidasse la via bilaterale. Una via che è ampiamente approvata dalla maggioranza della popolazione. Alla fine è tornato a casa con le mani vuote, senza ottenere neanche un risultato parziale. In altre democrazie un simile governo sarebbe stato sfiduciato. Il sistema politico svizzero, però, non prevede questa prassi. I consiglieri federali in carica non devono quindi temere per la loro posizione, an-
che se dimostrano di non essere capaci di svolgere pienamente il loro mandato. La decisione di rompere il negoziato con Bruxelles non è stata presa all’unanimità, bensì alla maggioranza del collegio. Forse da quattro consiglieri federali, i due rappresentanti dell’UDC ed i due rappresentanti del PLR. Quattro persone che non rappresentano la maggioranza della popolazione svizzera e che non hanno ritenuto opportuno coinvolgere né le due commissioni di politica estera delle Camere federali, né il parlamento stesso. Eppure l’importanza della posta in gioco, e la sua programmazione come obiettivo di questa legislatura, avrebbero richiesto un maggiore coinvolgimento dei poteri istituzionali. Che cosa intraprenderà ora il Consiglio federale? Tre sono le iniziative che sono state annunciate. La prima consiste nel verificare il quadro giuridico degli attuali accordi bilaterali e di adeguare, là dove è possibile, il diritto svizzero al diritto europeo. Lo scopo è di limitare gli ostacoli che l’economia svizzera potrà incontrare con i partner europei. La seconda iniziativa prevede di versare all’UE il miliardo di coesione (1,3 miliardi in dieci anni), destinato a finanziare progetti economici nei paesi dell’Est. L’importo è stato bloccato dal parlamento nel 2019 in risposta al rifiuto della Commissione europea di
prolungare l’equivalenza della regolamentazione borsistica svizzera. Il Consiglio federale intende sbloccare questi soldi senza chiedere una contropartita e proporrà alle Camere federali di pronunciarsi durante la sessione di settembre. Con la terza iniziativa il Consiglio federale intende avviare con l’UE il dialogo politico al più alto livello possibile. Si può supporre con il coinvolgimento dei ministri degli esteri. Queste misure non costituiscono certo un piano B, in grado di rappresentare un’alternativa all’accordo quadro. Sono tentativi sparsi, fatti con l’intento di contenere i danni che le probabili reazioni dell’UE causeranno alla Svizzera in svariati settori, dall’economia alla ricerca, alla collaborazione internazionale, alla credibilità, all’affidabilità ed all’immagine internazionale del nostro paese. Sono contromisure che non leniscono la delusione che la rottura del negoziato ha provocato in una larga parte della classe politica e che possono soddisfare soltanto coloro che vedono nell’UE un gigante dal quale conviene stare il più lontano possibile. Riuniti in sessione a Berna, molti parlamentari hanno espresso il loro disappunto ed hanno chiesto un dibattito urgente sulle ragioni della rottura della trattativa, nonché un’inchiesta da parte delle commissioni di gestione. Il tentativo consentirà di
Qualsiasi via la Svizzera prenderà, necessiterà anni per essere concretizzata. (Keystone)
dar sfogo a molte frustrazioni ma non modificherà la decisione del governo. Altri hanno proposto un’iniziativa costituzionale per costringere il Consiglio federale a rivedere la sua posizione e a riprendere il negoziato. Anche in questo caso non si arriverà a nessun risultato concreto, perché i tempi sono lunghi, e si misurano in anni, prima di poter arrivare ad una decisione popolare. L’incertezza maggiore deriva ora dalle future reazioni dei 27 paesi dell’UE. Saranno fedeli alla tesi sostenuta fin ora che senza un accordo quadro la via bilaterale è destinata a morire, oppure saranno diverse? Costringeranno la Svizzera ad assumere lo statuto di uno Stato terzo, oppure tracceranno un altro percorso? Le risposte a questi interrogativi non arri-
veranno presto. Diventeranno concrete solo dopo mesi, addirittura dopo anni, quando probabilmente anche la popolazione comincerà a vivere gli effetti della nuova situazione. La Svizzera è e rimane un piccolo paese al centro dell’Europa, con un’economia molto legata all’economia europea e con valori condivisi con il vecchio continente. Il suo benessere materiale, il suo livello di vita dipende in gran parte dai rapporti che riesce a stabilire con l’Europa e non certo con i paesi situati sugli altri continenti, attraverso i cosiddetti accordi di libero scambio. È una realtà che non può essere ignorata e che deve impedirci di pensare che possiamo decidere tutto da soli senza dover tenere conto delle connessioni che abbiamo con il mondo che ci circonda. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 giugno 2021 • N. 23
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Politica e economia
Per rafforzare la lotta al terrorismo
Votazioni federali Le nuove misure di polizia sono contestate anche da esperti di diritto – In forse la votazione?
Alessandro Carli Il 13 giugno prossimo, la Svizzera potrebbe decidere di rafforzare la lotta al terrorismo. Ciò significa che la polizia potrebbe agire a titolo preventivo contro persone che rappresentano una minaccia terroristica. Sebbene le misure preventive abbiano sollevato accese critiche, stando ai sondaggi, la revisione della legge, combattuta da referendum, dovrebbe essere ampiamente accolta dal popolo. Ma potrebbe esserci un intralcio: a tre settimane dal voto, nove ex procuratori pubblici ticinesi hanno presentato un ricorso contro la votazione popolare sulle misure di polizia per la lotta al terrorismo. Ne chiedono l’annullamento per «chiare e manifeste irregolarità riguardanti la procedura». Se la loro richiesta di sospendere la procedura di voto e di rinviarla ad altra data fosse accolta (o di annullare il risultato della votazione se la stessa dovesse svolgersi), si dovrebbe ricominciare tutto da capo. Secondo il Servizio delle attività informative della Confederazione (SIC) la minaccia del terrorismo resta elevata anche in Svizzera. Per incarico dell’Ufficio federale di polizia (fedpol), l’Istituto svizzero di diritto comparato (ISDC) ha redatto nel 2018 una perizia legale nel campo della prevenzione del terrorismo, paragonando le legislazioni di Germania, Francia, Italia, Austria e Gran Bretagna. La perizia legale è stata aggiornata all’inizio di quest’anno. Con la legge federale sulle misure di polizia per la lotta al terrorismo (MPT) è stata creata una nuova base legale, grazie alla quale la polizia potrà intervenire
con più efficienza a titolo preventivo. La Svizzera disporrà così di strumenti per reprimere il reclutamento, la formazione e lo spostamento in vista di un atto terroristico, come pure le attività di finanziamento. Le persone che sostengono organizzazioni criminali o terroristiche saranno passibili di una pena privativa della libertà di dieci anni al massimo. Le nuove misure, della durata di sei mesi prorogabili una sola volta, possono essere imposte anche ai bambini a partire dai 12 anni. Esse consentono alla polizia di intervenire in modo più tempestivo se vi sono indizi concreti che individui costituiscano una minaccia terroristica. A titolo preventivo, queste persone potranno essere convocate per colloqui o obbligate a presentarsi regolarmente alla polizia, a non lasciare la Svizzera e a non recarsi in determinati luoghi. Nei casi più estremi, potranno essere poste agli arresti domiciliari. La richiesta di residenza coatta dev’essere sottoposta dalla fedpol al giudice dei provvedimenti coercitivi del Cantone di Berna, affinché ne verifichi la legalità. È limitata a tre mesi, prorogabili due volte, ed è applicabile anche ai giovani a partire dai 15 anni. Le legge sulle MPT permetterebbe a fedpol di sottoporre persone potenzialmente pericolose a una sorveglianza elettronica (cellulari). I potenziali terroristi comunicano tra di loro via messaggeria criptata. La nuova legge autorizzerà inoltre fedpol a svolgere in Internet e nei media elettronici indagini mascherate. Nell’ambito della prevenzione del terrorismo, disposizioni del genere sono esplicitamente
Le consigliere federali Amherd e Keller-Sutter in visita alla fedpol. (Keystone)
regolate soltanto in Francia e in Italia. Temendo che queste misure preventive possano spalancare la porta a decisioni arbitrarie, due comitati – «NO alle pene preventive» e «per lo Stato di diritto e la proporzionalità» – hanno impugnato il referendum, sostenuti dalla sinistra e dai Verdi liberali. La proposta di legge è criticata anche da numerosi esperti indipendenti dell’ONU e da professori di diritto. Gli oppositori ammettono la necessità di misure preventive, ma accusano il Consiglio federale e il parlamento di reagire al terrore instaurando un «clima di paura e di sospetto generalizzato». Secondo loro, il progetto viola la separazione dei poteri, dato che quasi tutti i provvedimenti possono essere ordinati dalla polizia e non da un giudice. Inoltre, la definizione di atto terroristico è talmen-
te estesa che qualsiasi cittadino può essere sospettato. Possono così essere prese di mira le azioni degli attivisti del clima, ma anche certe campagne provocatorie dell’UDC, oppure adolescenti annoiati che cercano di mettersi alla prova compiendo qualche bravata. I fautori del referendum sono dunque convinti che il testo apra le porte a «uno Stato poliziesco», «calpesti la nostra democrazia» e instauri la «presunzione di pericolosità» al posto di quella di innocenza. Essi deplorano l’assenza di protezioni per i minorenni. Consiglio federale e maggioranza dei partiti borghesi ricordano che le violenze compiute dai minorenni sono in continuo aumento: adolescenti sono già stati implicati in affari di terrorismo e sovente sono suscettibili d’essere radicalizzati più facilmente. La legge in
votazione – sottolineano – non propone cose nuove, visto che l’attuale diritto dei minorenni già fissa la responsabilità penale. Nel complesso, il testo mette a disposizione della lotta contro il terrorismo un arsenale che la polizia già dispone nell’ambito dell’hooliganismo e della violenza domestica. Per i fautori, pur con le misure imponibili ai bambini a partire dai 12 anni e il domicilio coatto dai 15 anni, la MPT è conforme alla Costituzione federale, alla Convenzione dell’ONU sui diritti dell’infanzia e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. I provvedimenti sono limitati nel tempo, proporzionati e possono essere contestati davanti al Tribunale amministrativo federale. La necessità di agire contro la minaccia terroristica sembra dunque convincere la maggioranza dell’elettorato, sebbene – come sostengono i nove ex procuratori pubblici ticinesi nel loro citato ricorso – con «false informazioni le autorità federali e cantonali abbiano compromesso la libera formazione della volontà degli elettori e l’espressione fedele del voto». Nello specifico, sia nel messaggio al parlamento, che nell’opuscolo informativo del governo e nelle comunicazioni presenti sul sito del Consiglio federale, gli ex procuratori ravvisano «informazioni fuorvianti», allo scopo di «convincere l’elettorato che la polizia è in grado di intervenire solamente dopo che sia stato commesso un atto terroristico». Per gli autori del ricorso, questo argomento fa ovviamente presa sull’elettorato. Si tratta ora di sapere se anche il loro ricorso sarà in grado di farne altrettanta e non solo sugli elettori. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 giugno 2021 • N. 23
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Politica e economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Differenze regionali nel costo della vita Siamo ormai alle soglie dell’estate e della seconda stagione di vacanze che passeremo in Svizzera. Il turista ticinese che, per le vacanze, valicherà il San Gottardo si accorgerà rapidamente che, da Hospental in giù, il suo franco perde valore. Sicuramente lo noterà appena consumerà la sua prima tazzina di caffè. Invece di costare i soliti 2 franchi e mezzo o tre franchi, che paga a casa sua, gli toccherà sborsare almeno 4 franchi e mezzo per ottenerla. È altrettanto evidente che il confederato che scenderà per le vacanze in Ticino farà l’esperienza contraria: dal passo del San Gottardo in giù il suo franco varrà di più. Che esistano differenze nei prezzi del medesimo prodotto all’interno della Svizzera è una realtà che sfugge ai più. Questo perché, si pensa, la maggioran-
za della popolazione è sedentaria. La realtà è invece che, da un capo all’altro del nostro paese, esistono, per molti prodotti e servizi, differenze di prezzo consistenti. Pensate: da Chiasso a Basilea e da Ginevra a S. Margrethen la benzina, l’affitto, la cassa malati e cento altri prodotti e servizi hanno un costo diverso. Un recente studio del Credito svizzero ha poi messo in evidenza un’altra realtà interessante. Le differenze nel costo della vita possono manifestarsi anche a breve distanza. Basta talvolta superare il confine di un Cantone per trovare un’altra situazione quanto ad affitti e a premi per l’assicurazione contro le malattie. E sull’Altipiano i confini cantonali sono molto vicini. Per non parlare di quanto possa variare il gravame delle imposte, tra un comune e l’altro, all’interno del mede-
simo Cantone. L’obiettivo dei ricercatori del Credito svizzero era però un altro. Ad essi interessava mettere in evidenza quanto resta a una famiglia del suo reddito, a seconda del luogo dove abita, una volta dedotte le spese obbligatorie (come le imposte e le assicurazioni) e quelle necessarie per coprire i bisogni primari (le spese per la casa, per la mobilità e per l’educazione dei figli). Questa quota di reddito disponibile varia notevolmente da Cantone a Cantone. In generale essa è maggiore nei Cantoni Alpini e della Svizzera centrale che in quelli dell’Altipiano e del Giura. Maggiore è la quota del reddito che resta, una volta dedotte le spese obbligatorie e primarie, e maggiore è, per i ricercatori del Credito svizzero, l’attrattività finanziaria del Cantone in questione. Nella ricerca le differenze sono misu-
rate non in franchi, o con una percentuale, ma con un indice di attrattività. In base allo stesso si può stabilire una classifica dei Cantoni secondo il costo della vita. Dalla stessa si apprende che il Cantone meno caro è Appenzello interno e quello con il costo della vita più elevato Ginevra. In questa classifica il Ticino figura al decimo posto e quindi nel gruppo dei Cantoni meno cari. Ricordiamo che gli stessi sono in generale Cantoni rurali. Che il Ticino, Cantone preminentemente urbano (il piano direttore parla addirittura del Cantone come di una città-Ticino), faccia parte del gruppo dei Cantoni meno cari è in sé una contraddizione. La stessa può però essere facilmente spiegata. Il Cantone Ticino è un Cantone urbano che non può però vantare i livelli salariali alti degli altri Cantoni
urbani. Si può assumere che il livello generale dei prezzi resta, in Ticino, al disotto della media svizzera perché il livello salariale è pure inferiore alla media nazionale. Questo contribuisce a riequilibrare la situazione in materia di potere di acquisto. Per effetto dei prezzi più bassi praticati nel Cantone, il potere di acquisto del ticinese non è lontano da quello medio svizzero. O se, volete, per riprendere l’argomentazione del Credito svizzero, finanziariamente parlando, la sua attrattività residenziale, con un indice di reddito disponibile superiore a 1 (il valore massimo, quello di Appenzello interno si avvicina a 2) è buona. Nonostante ciò, pensiamo che i ticinesi continueranno a spendere una parte del loro reddito disponibile andando a fare la spesa in Italia dove l’espresso costa meno di 2 franchi.
il suo sangue sul pavimento. Negli anni scorsi ho letto di troppe storie analoghe. Roma, 8 ottobre 2010. Alla stazione Anagnina della metro scoppia una banale discussione nella coda per i biglietti. Un pugile ventenne, Alessio Burtone, colpisce con un tremendo pugno un’infermiera romena, Maricica Hahaianu. La donna resta a terra nell’indifferenza dei passanti, agonizza a lungo senza soccorso, muore. Il pubblico ministero chiede vent’anni per omicidio preterintenzionale. Burtone ne prende nove. Ridotti a otto in appello. Il 27 febbraio 2013 ottiene gli arresti domiciliari. Dal 26 gennaio 2015, a quattro anni e tre mesi dall’omicidio, è un uomo libero. Oleg Fedchenko, ucraino, pugile per hobby, 25 anni, ha litigato con la fidanzata. Scende in strada a Milano, in viale Abruzzi, deciso a uccidere la prima donna che incontrerà. Pare la trama di un horror, o una fiaba per spaventare i bambini. Ma è tutto vero. È il 6 agosto 2010, le vie sono quasi deserte, i milanesi in vacanza. Emlou Arvesu, filippina, sta tornando a casa stanca dopo una giornata di lavoro.
L’ucraino comincia a colpirla e non smette fino a quando la povera donna muore. Ma, siccome è giudicato incapace di intendere e di volere, o almeno tale era in quel momento, non va in carcere. Vengono chiesti per lui 15 anni di manicomio criminale, ne avrà cinque. Dopo due anni e mezzo sarà estradato in Ucraina e subito liberato. Ha ucciso una donna: non ha fatto un giorno di carcere, non ha pagato un euro di risarcimento. Nessuno si è fermato a Roma, la notte del 29 maggio 2016, per aiutare Sara Di Pietrantonio, 22 anni, aggredita, strangolata, cosparsa di alcol e bruciata dall’ex fidanzato. Non si è fermato nessuno neppure a Bologna, la notte della primavera 2009 in cui un tunisino, già due volte arrestato e prontamente liberato, violentò una ragazzina di 15 anni. Fino a quando un automobilista, definito dai giornali «un eroe», si decise non a intervenire di persona, ma almeno a chiamare il 113, la polizia di Stato. A Napoli un passante coraggioso si era fermato per aiutare Emiliana Femiano, 25 anni – una bella ragazza dai tratti mediterranei, ciglia nere, pelle
olivastra, denti bianchissimi, sorriso allegro – ferita con dieci coltellate da un corteggiatore respinto. Condannato a 8 anni di carcere, messo ai domiciliari, evaso senza controlli, per prima cosa è andato a cercare Emiliana. E l’ha uccisa. Lucia Annibali ha fatto imprigionare l’uomo che aveva tentato invano di cancellare la sua grazia e piegare la sua dignità. Sto parlando di Luca Varani, l’ex fidanzato che pianificò l’agguato ingaggiando gli albanesi Altistin Precetaj e Rubin Talaban perché il 16 aprile 2013 aggredissero Lucia con l’acido. La donna ha reagito e parte del suo riscatto è stata la sua elezione in Parlamento. Ma ci sono centinaia di donne come lei che non sono entrate nella memoria nazionale. Il motivo è semplice: sono troppe. E non rappresentano un giallo: si sa già chi è l’assassino. Ogni due giorni in Italia una donna viene uccisa da un uomo che non accetta un rifiuto o un abbandono. E in Spagna i numeri sono analoghi. Nei Paesi anglosassoni va un po’ meglio. Però la questione non è soltanto latina. È universale.
una diminuzione degli agenti nocivi». Quarant’anni dopo, l’orizzonte è mutato radicalmente, imponendo decisioni rapide e non più differibili. Tuttavia la strada non è in discesa. All’approssimarsi dell’appuntamento con l’urna, ecco che emergono interessi e contrasti, com’è il caso su un oggetto considerato strategico in votazione popolare il prossimo 13 giugno. Alludiamo alla Legge sul CO2. Sono conflitti che rispecchiano filosofie divergenti in tema di intervento pubblico. I contrari sostengono l’idea che lo Stato non debba punire attraverso balzelli chi non si allinea per tempo ai nuovi parametri miranti ad ottenere il calo delle emissioni di gas a effetto serra. Anche un’altra corrente di pensiero ritiene sbagliato prelevare nuove tasse: si dovrebbe invece puntare sull’innovazione tecnologica, attraverso un massiccio ricorso alla leva degli incentivi; solo percorrendo questa via virtuosa sarà possibile raggiungere gli obiettivi auspicati.
È molto probabile che i risultati del voto faranno emergere nuove spaccature (i politologi le chiamano «cleavages») tra gli agglomerati e le aree discoste, tra i quartieri di recente edificazione o riqualificazione e i sobborghi trascurati dalle politiche urbanistiche. Ma il cammino verso «un mondo diverso», come rivendicano, giustamente, le giovani generazioni, non è privo di insidie e anche di contraccolpi indesiderati. I ceti benestanti possono facilmente e gioiosamente cavalcare l’onda verde: auto elettriche, pannelli solari, edifici a basso consumo energetico, domotica, fibra ottica, dispositivi elettronici in ogni stanza. Le classi inferiori devono invece far quadrare i conti a fine mese. La rivolta dei «gilets jaunes» in Francia è scaturita da un aumento del prezzo del carburante che dissanguava soprattutto le regioni escluse dalle reti di trasporto metropolitane. Insomma, non esistono scelte socialmente neutrali. L’ambientalismo non fa eccezione.
In&outlet di Aldo Cazzullo La strage delle donne continua Sono scene che ormai accadono per strada. In pieno giorno, davanti a tutti, senza che nessuno intervenga. Lo scorso 29 maggio è successo a Roma, all’uscita da un supermercato. Marito e moglie hanno cominciato a litigare, lui ha estratto un coltello e ha colpito lei a morte. Era una donna di quarant’anni originaria dello Sri Lanka. Tre giorni dopo l’assassino si è impiccato nel carcere di Frosinone con un lenzuolo. So che non è un fenomeno soltanto italiano. Ma in Italia sta assumendo frequenze e dimensioni impressionanti. E lo stesso accade in altri Paesi europei. C’è una questione di sicurezza: per le donne è ancora troppo difficile ottenere protezione e giustizia dalla legge. Ma c’è anche, a monte, una questione culturale. La violenza contro le donne è innanzitutto una piaga che chiama in causa e impegna gli uomini, anche quelli che violenti non sono, ma che hanno comunque il dovere di isolare e cambiare quelli che lo sono. Le forze dell’ordine e la magistratura non bastano, anche se la legge del «codice rosso» 2019 (volta a rafforzare le
tutele processuali delle vittime di reati violenti, con particolare riferimento ai reati di violenza sessuale e domestica) concede in Italia la giusta priorità alle denunce delle donne molestate. Ma molte donne la denuncia non la fanno neppure, perché pensano che sia inutile. E vanno incontro a un destino che non si sono scelte. È accaduto, nel febbraio 2021, a una commerciante genovese, Clara: 69 anni, vedova da venti, mamma di Marco, un uomo con la mente di un bimbo. È una storia che mi ha particolarmente colpito. Clara si era scelta un compagno sbagliato, un ex portuale con il vizio del gratta e vinci, e l’aveva lasciato. Lui aveva cominciato a perseguitarla. Una serie di sfregi. Orinava sulla vetrina del suo negozio di scarpe, le rigava la macchina, le rompeva la serratura. Clara si è preparata alla fine: si è pagata il funerale, ha nominato un tutore per il figlio. È andata come lei aveva previsto. Lui è entrato in negozio, l’ha spinta in un angolo, l’ha massacrata con cento coltellate. I cronisti hanno visto soltanto la foto sorridente di Clara nell’ultima fotografia, i fiori davanti alla sua saracinesca abbassata,
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti La speranza è verde, ma non per tutti Ci sono parole ed espressioni che marcano un’epoca. Quella in cui siamo ora immersi è segnata, anzi dominata, da «digitalizzazione» e da «sostenibilità». Non c’è intervento statale, piano aziendale, programma di ricerca che non faccia riferimento a questi terminifeticcio, capaci di evocare un futuro «green», dove finalmente sarà possibile riconciliarsi con la natura senza provocare danni irreparabili. La direzione di marcia era intuibile da tempo, ma pochi credevano che fosse già alle porte, e che divenisse parte della quotidianità di ciascuno di noi. La pandemia ne ha accelerato il cammino, consegnandoci a domicilio scenari che fino a qualche anno fa deliziavano soltanto una ristretta cerchia di visionari. Noi naturalmente speriamo vivamente che il «Recovery Plan» europeo mantenga le promesse e contribuisca a risollevare le stremate economie del continente senza smarrirsi nel dedalo degli sprechi e delle occasioni mancate. Purtroppo non riu-
sciamo a scacciare dalla mente qualche brutto sospetto, sembrandoci esagerata la retorica che accompagna gli annunci dei vari governi e l’enfasi posta su vecchi ministeri riverniciati di verde. Non sappiamo se nelle università si insegni ancora una materia intitolata «storia dell’economia e delle idee economiche». L’augurio è che conservi ancora un suo spazio, proprio per evitare le pomposità di certe sortite. La storia (recente) ci dice che l’allarme per le sorti del nostro ambiente circolava da tempo nei cenacoli e in talune commissioni parlamentari. Già nel 1980 un postulato del Consiglio nazionale chiedeva al governo centrale di allestire un rapporto in cui venissero formulate proposte per favorire una transizione possibilmente indolore da una «crescita prevalentemente quantitativa ad una crescita orientata alla qualità». Il Consiglio federale accolse il principio, inserendolo nelle linee direttive 1987-1991. In buona parte rimase
lettera morta, ma qualche suggestione fece breccia nel muro dell’indifferenza, stimolando interventi che segnalavano un cambiamento di vedute nell’affrontare, per esempio, la questione energetica. A questa prima, timida conversione alle istanze del nascente ecologismo non erano estranee analisi e raccomandazioni maturate nel Club di Roma, esposte nel volume I limiti dello sviluppo (1972). Non era la prima volta che si rifletteva sulla differenza tra crescita e sviluppo, su quantità e qualità. Ma ora si esigeva dai governi che quelle idee non rimanessero confinate nelle cerchie accademiche, ma che filtrassero nei programmi di legislatura. Di qui la parola d’ordine fatta propria dai politici di allora, la crescita qualitativa («Qualitatives Wachstum»), definita nel documento ufficiale come «ogni miglioramento duraturo della qualità di vita, conseguibile attraverso la riduzione delle risorse non rinnovabili o non rigenerabili, accoppiata ad
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 giugno 2021 • N. 23
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Cultura e Spettacoli Quel che resta A Lugano è sorta un’installazione dadaista di natura involontaria
Le mucche danzanti Sta per uscire nelle nostre sale Anche stanotte le mucche danzeranno sul tetto di Aldo Gugolz, vincitore al Trento Film Festival
Il loop di Mozzi Le ripetizioni, il nuovo libro di Giulio Mozzi, è finalista al Premio Strega pagina 39
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Tra arte e spiritualità
Mostre Al Museo d’arte della Svizzera
italiana la prima retrospettiva elvetica dedicata a Luigi Pericle
Alessia Brughera Quella di Luigi Pericle (nato Pericle Luigi Giovannetti) è una figura decisamente peculiare e per certi versi enigmatica nell’ambito dell’arte del secondo Novecento. Avvicinatosi alla pittura poco più che bambino (nella sua biografia si legge che riceve la prima commissione per un dipinto a dodici anni), l’artista svizzero, nato a Basilea nel 1916 da padre italiano e da madre di origini francesi, è stato anche un illustratore di talento. Nel 1952, infatti, con la creazione del personaggio di Max la marmotta, protagonista dell’omonimo fumetto senza testo, acquista ampia notorietà non soltanto in Europa ma anche negli Stati Uniti e in Giappone, pubblicando le sue vignette su giornali del calibro del «Washington Post» e dell’«Herald Tribune». Uomo versatile e dai molteplici interessi, Pericle è molto giovane anche quando incomincia a occuparsi di filosofia antica e di religioni dell’Estremo Oriente, diventando un grande conoscitore del buddismo zen. Con il tempo, e in maniera importante a partire dalla metà degli anni Sessanta, alla sua ricerca pittorica si affiancano così la pratica meditativa e gli studi spirituali, un territorio, questo, che verrà esplorato da Pericle lungo tutto la sua esistenza e che darà vita a esiti interessanti nella sua produzione artistica. Teosofia, alchimia, astrologia, ufologia nonché medicina cinese, cabala e dottrine delle antiche civiltà egiziana e greca, tutte discipline affini nella tensione verso il superamento dei limiti della realtà oggettiva, costituiscono per l’artista un universo in continua espansione da cui attingere insegnamenti e stimoli per la propria vita privata e professionale. Non c’è da stupirsi, allora, se a metà Novecento Pericle, all’apice del successo, decide di trasferirsi con la
moglie, anch’essa pittrice, ad Ascona, dove si dedica all’arte e all’approfondimento delle scienze a lui care risentendo del forte ascendente mistico del Monte Verità, luogo che dall’inizio del secolo si poneva come un polo magnetico per gli amanti della natura e della contemplazione. Ad Ascona Pericle vive dapprima gli anni che lui stesso definisce «del cambiamento radicale», quelli che vanno dal 1958 al 1965, segnati dalla frequentazione di noti critici e galleristi e dalla realizzazione di importanti esposizioni, soprattutto in Inghilterra, poi il periodo di allontanamento dalla vita mondana, quello che dal 1965 lo vede ritirarsi dal sistema dell’arte per vivere e dipingere in solitudine quasi completa. Proprio nell’abitazione che Pericle sceglie come dimora, Casa San Tomaso sul Monte Verità, è stato ritrovato nel 2016, in circostanze fortuite, il ricco patrimonio di lavori dell’artista, da lui stesso scrupolosamente ordinato prima di morire senza lasciare eredi. Sono emersi così quadri, disegni e centinaia di documenti inediti, tra cui scritti di ufologia e ricette omeopatiche, che costituiscono la summa del pensiero di Pericle nonché la testimonianza della sua poliedrica ed eccentrica personalità. A mancare all’appello sono i quadri figurativi degli esordi, e così non poteva essere altrimenti visto che nel 1959 l’artista decide di distruggerli nella loro totalità (risparmiando solo una natura morta) perché da lui considerati non più idonei a rappresentare la sua pittura. Con il nucleo di opere rinvenuto ad Ascona è stato possibile avviare un progetto di studio, conservazione e valorizzazione del lavoro di Pericle (gestito dall’associazione no profit a lui intitolata) e dar vita a mostre che presentano al pubblico la sua produzione, a oggi ancora poco conosciuta. Tra queste c’è la prima retrospettiva elvetica dedicata
Luigi Pericle, Senza titolo (Matri Dei d.d.d.), 1974, Tecnica mista su masonite, Archivio Luigi Pericle, Ascona. (Foto © Marco Beck Peccoz).
all’artista, ospitata al MASI a Lugano e organizzata in collaborazione con l’Archivio Luigi Pericle e con il Museo Villa dei Cedri di Bellinzona in occasione dei vent’anni dalla scomparsa del maestro svizzero. Le opere esposte nella rassegna luganese ripercorrono la ricerca artistica di Pericle dagli anni Sessanta, quando il pittore inizia una nuova fase della sua produzione accostandosi alla corrente informale e alle tendenze dell’astrazione lirica (con cui, non a caso, spartisce il bisogno di trasmettere una concezione spirituale della realtà), fino agli anni Ottanta, quando incomincia ad abbandonare la pratica artistica per concentrarsi sulla stesura di un romanzo autobiografico e visionario che concluderà nel 1996. Si tratta di lavori in cui sono spesso presenti chiari rimandi alle discipline studiate con passione da Pericle e che
quindi, oltre a documentare le precise scelte stilistiche attuate dal pittore, risultano emblematiche del contesto speculativo in cui sono maturate. Questo è vero per le opere degli anni Sessanta, tele in cui l’artista, oltre a indagare a fondo la materia e il concetto di tridimensionalità, ricorre a una netta semplificazione formale utile a evocare la dimensione trascendentale dei suoi soggetti, evidenziata anche dalla scelta di intitolare i dipinti di questo periodo a un’entità superiore apponendovi sul retro la scritta Matri Dei dono dedit dedicavit. Ed è vero ancor di più per i lavori del decennio successivo, realizzati su un supporto di fibre di legno pressate per dar vita a rappresentazioni di architetture astratte, simboli, forme totemiche e profili di città legate ai miti che emergono dalla sovrapposizione di strati cromatici molto densi.
Interessante è poi la selezione di disegni esposta in mostra, chine su carta che mettono in evidenza le tante analogie tra l’attività di illustratore e quella di pittore, due ambiti che, sebbene l’artista abbia sempre voluto tenere separati tanto da firmare le opere appartenenti all’uno e all’altro con nomi differenti, rivelano il medesimo tratto marcato ed essenziale. Un tratto capace di generare immagini che si dissolvono verso l’astrazione e che tendono, come sempre nell’arte di Pericle, a superare gli angusti confini del mondo visibile. Dove e quando
Luigi Pericle. Ad astra, Museo d’arte della Svizzera italiana – Palazzo Reali, Lugano. Fino al 5 settembre 2021. Orari: ma-me-ve 11.00/17.00; gio 11.00/20.00; sa-do-festivi 10.00/18.00. www.masilugano.ch
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Cultura e Spettacoli
L’estetica della bellezza
Mostre Le macerie di Lugano, un’imperdibile esposizione di stampo dadaista
Gianluigi Bellei Che cos’è la bellezza? Come si manifesta? Dove la possiamo vedere, incontrare? Difficile rispondere. Siamo su di un terreno inclinato e scivoloso dove le definizioni si sprecano e nei secoli divergono. Così come nelle diverse parti del mondo e delle culture. Umberto Eco nella sua Storia della bellezza ci racconta del probabile stupore di un marziano di fronte a un dipinto di Picasso raffigurante un nudo femminile e la descrizione di una bella donna in un romanzo d’amore dello stesso periodo. «Non capirebbe quale sia il rapporto fra le due concezioni di bellezza». D’altronde la Venere callipigia greca non è sicuramente simile alle raffigurazioni umane all’interno dell’affresco dell’inferno di Giovanni da Modena nella chiesa di San Petronio a Bologna. Né ha le stesse fattezze della Venere di Maravany di 23’000 anni prima di Cristo o delle Tre grazie raffigurate da Jean-Jacques Pradier nel 1831. Il bello è il buono, secondo gli antichi greci espresso nell’ideale della Kalokagathia. Scrive Teognide nel V secolo prima di Cristo che «ciò che è bello è amato e ciò che bello non è, non è amato». Ma è per tutti così? Nel 2001 i Talebani distruggono le due gigantesche statue di Buddha di Bamiyan ritenute blasfeme. In Occidente si è parlato di scandalo ma per i distruttori era un atto dovuto. L’11 settembre del 2001 Al Qaeda attacca le torri gemelle di New York e allora si parlò di atto sublime come di fron-
te alla visione del Naufragio di Caspar David Friedrich. In questi giorni assistiamo alla ripresa delle esposizioni. In giro per il mondo ce ne devono essere di bellissime, ma una è sicuramente da vedere e questa volta è proprio vicino a noi a Lugano. Si tratta delle macerie di una parte del ex Macello cittadino occupato fino a pochi giorni fa dai giovani che si proclamano autogestiti. Niente di eccezionale, intendiamoci. Già nel Settecento si apprezzavano le rovine, magari di una chiesa gotica, e Friedrich Schiller scrive nel 1792 «che ciò che è triste, terribile, perfino orrendo ci attira con un fascino irresistibile». E accompagnare un delinquente sul luogo del suo supplizio? Folle intere seguono il suo incedere per scrutarne le sofferenze. Naturalmente ci sono dei precedenti illustri. Sicuramente alle nostre latitudini tutti avranno visto la mostra di Christo a Lugano. Beh, è stato proprio lui a creare le prime barricate a Parigi nel 1962 ostruendo una via con dei barili di petrolio. Le macerie di Lugano servono proprio come barricate per non far entrare questi ragazzi strani. In entrambi i casi gli artisti sono una coppia. Christo assieme Jeanne-Claude nel primo e Marco con Karin nel secondo. Assieme a un nugolo di comprimari. D’altronde lo sa bene Guy Debord il quale sostiene che nella società dello spettacolo «il gesto di chi distrugge è più importante dell’opera che viene distrutta». Splendidi quei detriti accatastati fatti di pezzi di muro, fili, murales:
Un caos primordiale ante litteram. (Bellei)
un caos primordiale ante litteram. Ma ancora di più i bagliori notturni con il rumore della ruspa che distrugge, scardina, con uomini armati di oggetti baluginanti che scortano i giganti di ferro. Un’operazione dadaista con quel misto di romanticismo che piace ai dandy dell’arte. Una performance di quelle che resteranno nella vostra mente a lungo come quelle di Marina Abramović o di Joseph Beuys. Questi artisti nostrani si muovono come i padroni dell’arte: sfacciati, egocentrici, senza regole. Parallelamente
un gruppo di cantanti italiani gridano osannati da tutti: «Siamo fuori di testa!». È bello sapere che i vincitori operino fuori dalle leggi, che parlino di dialogo ma non siano in grado di realizzarlo; perché i potenti non ne hanno bisogno. Dialogano abbastanza fra loro. Insomma, una bella mostra da visitare. Mica come quelle solite noiose che ci offrono reliquie del passato o misteriosi oggetti contemporanei. Dato che non hanno ancora realizzato il catalogo, personalmente consiglierei comunque di prendere al suo posto
un piccolo ricordino da far vedere agli amici. Basta un frammento di muro da mettere accanto a quello di Berlino, se l’avete. Quando sono andato l’ultima volta li vendevano ancora. Se capita, e se siete fortunati o se lo conoscete, potete farvelo firmare dall’autore. Aumenterà sicuramente di valore nel tempo. Dove e quando
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 giugno 2021 • N. 23
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Cultura e Spettacoli
Lassù sull’alpe Arena
Cinema Nel documentario di Aldo Gugolz Anche stanotte le mucche danzeranno sul tetto
Orme di peso e letture da rivedere
il racconto della dura vita di montagna
In scena L’arte come
Nicola Falcinella
vettore di inclusione senza compromessi
Recente vincitore del prestigioso Trento Film Festival, dopo avere esordito a quello di Nyon, arriva giovedì nelle sale del Ticino il bel documentario Anche stanotte le mucche danzeranno sul tetto di Aldo Gugolz girato nell’Onsernone e a Locarno. Il film sarà accompagnato dall’autore per alcune presentazioni: mercoledì alle 21.30 al Lido San Domenico a Gandria, giovedì alle 20.30 al Cinema Teatro Mignon & Ciak a Mendrisio e venerdì, ancora alle 20.30, al Cinema Otello di Ascona. Il regista lucernese ha seguito Fabiano, allevatore che porta le sue bestie al pascolo sull’alpe Arena e sta per avere un figlio dalla compagna Eva. Sullo sfondo, come un’ombra che crea una sensazione di thriller, il ritrovamento del corpo del pastore macedone Nikola scomparso all’improvviso nell’estate 2017. Aldo Gugolz, come ha conosciuto questo luogo e questa storia?
Nel 1989 con un amico compii una gita molto bella alla scoperta di questi monti e trascorsi una notte nella capanna su questo alpeggio. Conobbi l’alpigiano Giorgio, che era lì prima di Fabiano, che sull’alpe guarì dalla dipendenza da eroina: l’alpe era un luogo felice, si viveva in armonia con la natura, lontano da tutto. Dopo quasi 30 anni sono tornato e ho trovato una situazione diversa, con uomini provenienti da diversi paesi, e ho avuto l’idea di un film sugli uomini che passano l’estate con gli animali. Girando è cambiato tutto e l’idea che avevamo in mente non c’era più, perché era comparsa Eva. E si è saputo della scomparsa di Nikola. Non volevamo soffermarci troppo sulla vicenda già trattata da «Falò» e dai media: non era il nostro scopo, volevamo documentare la vita di una famiglia in alpeggio, che vuole fare il formaggio e stare nella natura pur con tutte le difficoltà. Abbiamo girato per circa due anni e mezzo, seguendo la loro vita. La nascita del bambino a Locarno è stata una bella occasione per creare il contrasto tra i due mondi. Loro fanno molta distinzione tra i due mondi, due mondi che
Giorgio Thoeni
Fabiano è allevatore sull’alpe Arena. (firsthandfilms.ch)
non si mischiano bene. Fabiano diceva che non vedeva l’ora di tornare in alpe. Fabiano come ha accettato l’idea del film?
Gli ho spiegato che volevamo fare un film sulla sua vita, mostrarla per come è, ed è stato subito d’accordo. Lo sfondo del film è il caso di Nikola, con il punto di vista di Fabiano. Volevo mostrare come si può vivere con il senso di colpa, senza pressare, ma osservando come continua la sua vita. Non volevo fare un film alla Heidi che mostra un mondo bello, perché non è così. Quell’estate ha piovuto molto, ma ho filmato anche giornate belle. Nel montaggio si vedeva che il film perde tensione con troppo bel tempo. La giornata di transumanza e di salita all’alpe è stata molto bella e tutti erano felici, ma stonava nel montaggio, perché questo è anche un film sulla paura. In novembre, al termine di una proiezione, una donna mi ha detto che questa è la verità, poiché la vera vita sull’alpe è quando è brutto e piove. Il bel tempo è una pausa, un’illusione. Se ci andiamo in gita pochi giorni è bello, ma se stai là con la paura di essere colpito da un fulmine è diverso. La scena
di Dominik che si perde e racconta del fulmine è quasi un parallelismo con quel che è successo a Nikola. Da idillio diventa tutto pericoloso, basta un passo sbagliato e sei perso. Anche Fabiano mi ha detto che non è tutto così negativo, ma ci sono anche queste cose e volevo raccontarle.
Come ha reagito Fabiano alla visione del film?
Non gli è molto piaciuto vedere come è, non vuole più parlare del passato. È una persona chiusa ma onesta, non avrei potuto fare il film senza di lui, libero e aperto in quello che dice. Le persone che offrono la loro vita per un documentario poi non ne vogliono più sentire parlare e questo è un problema per il regista. Ma il film ha bisogno di una tensione e il pubblico vuole vedere qualcosa di interessante e che emozioni. Il documentario può aiutare a capire com’è la vita lì, ma resta soggettivo, è arte, non c’è un’obiettività assoluta. Ci siamo chiesti anche come raccontare della presenza di Tobias, questo criminale che era passato da lì e del quale si è saputo solo alla fine: non si può dire molto, ma non si poteva
nascondere o ignorare. Abbiamo cercato nel montaggio di raccontare sia la valle come sogno hippie, come era stato per i genitori di Fabiano, sia come luogo dove qualcuno può provare a nascondersi. Come potrà essere accolto dal pubblico ticinese?
Non so, esso potrà vedere una realtà ticinese che è nascosta. Un film è una possibilità di scoprire qualcosa che normalmente non si vede. Il documentarista può prendersi il tempo e stare a osservare quel che un visitatore non vede in poche ore o giorni. Un film è anche l’esperienza, non solo fatti, poiché non è un reportage: ti tocca emozionalmente, ti fa pensare a cose universali, ciascuno si può sorprendere con i propri pensieri. Sono contento che finalmente si possa mostrare nelle sale e spero che un tema locale possa richiamare gli spettatori. In sala è importante il suono, che fa rivivere la vita dell’alpe con la natura e gli animali. Sembra che gli animali ne sappiano più di noi, che siano un po’ mistici. E se volete sapere com’è la situazione, prendetevi il tempo, camminate e salite all’alpe Arena.
Nell’ossessione di Terry
Netflix Uno, cento, mille Figli di Sam: un true crime ad alto livello ansiogeno Fabrizio Coli David Berkowitz, il Figlio di Sam. Tra il 1976 e il 1977 il famigerato serial killer ha terrorizzato New York, uccidendo sei persone e ferendone altre sette. Si trattava di aggressioni apparentemente casuali, per lo più a giovani coppie sorprese in macchina in luoghi appartati e freddate a colpi di 44 Magnum. Arrestato il 10 agosto del 1977, Berkowitz dichiarò di aver preso ordini dal cane del vicino, secondo lui un demone che gli parlava. È tutt’ora in carcere. La mini serie true crime, Figli di Sam: verso le tenebre, torna ora su questa storia già sfruttata da cinema e tv. Il caso ha costituito lo sfondo di Summer of Sam di Spike Lee e anche nel documentario in quattro puntate targato Netflix l’accento non cade tanto sul killer. Certo, non mancano i dettagli degli efferati omicidi o della personalità di Berkowitz che scriveva lettere di sfida alla polizia. Ma il vero protagonista è Maury Terry, giornalista scomparso nel 2015 e sconosciuto ai più fuori dagli Stati Uniti. Inimicandosi gran parte del dipartimento di polizia di New York, Terry ha dedicato la vita a cercare di rovesciare la versione ufficiale del killer solitario e a dimostrare senza successo la sua verità. Cioè
che Berkowitz non avesse agito da solo ma fosse invece la punta dell’iceberg di un enorme complotto satanista. Ex redattore della rivista aziendale dell’IBM, Terry sente subito puzza di bruciato. Uno degli identikit diffusi durante il regno di terrore del Figlio di Sam, pseudonimo con cui il killer si è ribattezzato, non somiglia per niente a Berkowitz, bensì a uno dei suoi vicini di casa, uno dei figli del proprietario del famoso cane. Negli anni, la tela in cui Terry intesse fatti verificabili e congetture si estende a dismisura. Vi confluiscono la morte violenta del vicino di
Berkowitz, un’oscura chiesa chiamata The Process fondata da alcuni ex membri di Scientology, un’altrettanto misteriosa setta dal nome di The Children, il brutale omicidio di una studentessa in California… Si arriva perfino a tirare in ballo la Manson Family, ma le prove inconfutabili di questi collegamenti scarseggiano. A stuzzicare Terry, in più ci si mette lo stesso Berkowitz, che gli scrive dal carcere e alla fine accetta di incontrarlo. Ricorrendo al consueto arsenale di materiali d’archivio, interviste e testimonianze, il regista Joshua Zeman
Still da Figli di Sam, disponibile su Netflix. (Netflix)
confeziona un prodotto ansiogeno e serrato ma anche sovrabbondante di informazioni che, poste tutte sullo stesso piano, risultano poco a fuoco. Per di più il suo ruolo non è neutro. Proprio a lui, che negli anni ne è diventato amico, Terry ha lasciato in eredità tutto il suo archivio e Zeman sembra intenzionato a rendergli una giustizia tardiva. Ma per quanto si sforzi non riesce a cancellare la palpabile frustrazione di Terry, che forse sognava un Pulitzer mentre le sue indagini – raccolte nel libro The Ultimate Evil – sono state pane per tabloid e talk show viscerali. Alla fine, la parola che riassume Figli di Sam è ossessione: l’ossessione personale di Terry, che sprofonda in un pozzo senza fondo, attaccandosi alla bottiglia e mandando a rotoli il suo matrimonio, ma anche l’ossessione generale del pubblico per i serial killer e i crimini violenti che tanto ci disgustano quanto ci attraggono. I dubbi però restano. Sotto le mille teorie complottiste, alcune intuizioni di Terry si sono dimostrate esatte, come quella sul colpevole dell’efferato omicidio della studentessa californiana, catturato anni dopo. Solo perché sei paranoico, non vuol dire che qualcuno non ti stia osservando davvero.
La sesta edizione del festival internazionale di arti inclusive Orme può vantarsi di essere stata la prima rassegna in presenza ad andare in scena, affrontando la sfida con le regole restrittive ma attirando l’interesse del pubblico fino a spingere gli organizzatori del Teatro Danzabile a replicare l’offerta giornaliera. Inserito nel progetto IntegrART del Percento culturale Migros che riunisce 4 festival che coinvolgono persone con disabilità (Lugano, Berna, Basilea, Ginevra), Orme ha dedicato questa edizione all’arte di immaginare, volgendo lo sguardo a un futuro culturale diverso di un mondo inclusivo dove l’arte lascia il segno. Molti gli appuntamenti e le occasioni di riflessione e molta la qualità, fra cui Talenti imprevedibili, Paper Landscapes, una produzione della coreografa Annie Hanauer in collaborazione con Teatro Danzabile. È una breve pièce che raggruppa un ensemble di performer disabili e studenti della zurighese ZHdK alla ricerca delle tracce dei confini della normalità attorno a un equilibrato divenire di studiati movimenti corali. Sulla falsariga dei ricordi, dei loro punti di rottura e dei possibili cambiamenti si articola invece Erinnerungen Schwirren (I ricordi che ronzano) della compagnia Tanzbar_Bremen, una coreografia per tre danzatori: sequenze eleganti e misurate in un gioco in cui i corpi si cercano attorno a un’ipotesi di memoria. Let Me Be, ultima proposta in cartellone, ha offerto una
Un intenso momento di Erinnerungen schwirren. (IntegrArt)
performance fortemente significativa imperniata sulla domanda di come si può descrivere uno spettacolo di danza a una persona cieca. Tre quarti d’ora di profonda intesa fra due danzatori: Camilla Guarino e Giuseppe Comuniello. Una giostra di movimenti coordinati e in perfetta simbiosi dove Comuniello, straordinario performer non vedente, muove il corpo della Guarino con una precisione e un affiatamento strepitosi, una prova appassionante accompagnata da un’audioguida in cuffia. Improvvisazione fra le righe
Per Margherita Saltamacchia la lettura scenica è ormai divenuta una comfort zone che piace al Teatro Sociale di cui l’attrice è una sorta di Musa apprezzata dalla platea bellinzonese (Il dolore, Il fondo del sacco, Frankenstein…) che recentemente è tornata ad applaudirla in White Rabbit Red Rabbit di Nassim Soleimanpour. Il quarantenne scrittore iraniano è l’autore di un testo, tradotto e proposto sulla scena in più lingue, che deve esser letto senza che l’interprete possa prima prenderne visione. Un esperimento al buio, insomma. Senza pathos e dalla sostanza un po’ fragile, la narrazione tenta di coinvolgere la platea consenziente fra le righe di una facile metafora di sopraffazione. Indubbiamente originale l’idea teatrale, brava e coraggiosa l’attrice... ma non basta.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 giugno 2021 • N. 23
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Cultura e Spettacoli
Coazione a ripetere
Pubblicazioni Le ripetizioni, libro in cui Giulio Mozzi ha investito ben ventitré anni, è il lizza per il Premio Strega
Roberto Falconi «È la storia di un personaggio che si chiama Mario, che va a Roma e poi ritorna». Giulio Mozzi, a chi glielo chiede, (auto)ironicamente riassume così la trama delle quattrocento pagine con le quali, a sessant’anni, e dopo una vasta produzione di racconti, esordisce come romanziere. Il libro di una vita, frutto di ventitré anni di lavoro, lontanissimo dai romanzi che oggi vanno per la maggiore: dai gialli che scalano le classifiche delle vendite, ai testi più o meno dichiaratamente ibridati con fatti di cronaca, meglio se nera; soprattutto, un romanzo scomodo e destabilizzante, tanto che il Comitato direttivo del Premio Strega, per il quale è in lizza, ne ha indicato la destinazione solo a un pubblico adulto.
Molte cose sono ambigue in questo libro dal tempo sospeso e con un protagonista irrisolto Mozzi costruisce un racconto dai tratti fortemente ambigui, capace, come solo la buona letteratura sa fare, di fornire pochissime risposte e di lasciare il lettore impantanato in un groviglio di dubbi. Mario è nato il 17 giugno (come Mozzi), vive a Padova (come Mozzi), si sposta spesso a Roma per la sua attività di scrittore e di conferenziere (come Mozzi). Mario dipende da quasi tutti i
personaggi che lo circondano: è servo di Viola e del suo apparente equilibrio, tanto che (forse) la sposerà; è servo di Bianca, che lo ha lasciato prima di mettere al mondo Agnese, (forse) avuta da lui; è servo di Santiago e delle sue perversioni sessuali. Il romanzo è scandito da quarantuno capitoli tutti centrati sulle relazioni di Mario: La storia di Viola, 1; La storia di Santiago, 1; La storia di Viola, 2; ecc., disposti in modo non lineare. Il problema, come è stato giustamente notato, è che la somma di tutte queste vicende non dà «la storia di Mario», personaggio irrimediabilmente irrisolto, condannato alle «ripetizioni» del titolo per salvarsi dalla paura di vivere; e forse proprio per questo amante dei libri lunghi e complessi, capaci di colmare i suoi vuoti esistenziali, emblematicamente riflessi dalla struttura sincopata del romanzo. Ambiguo appare poi il tempo (tutto accade quasi sempre il 17 giugno), sempre sospeso tra un presente e un passato difficilmente distinguibili; ambigua e non identificabile è la voce narrante, tanto che è lo stesso Mario a diffidare dei racconti in terza persona, perché «non gli piace che il narratore si accomodi comodamente in una posizione esterna, per manipolare con sussiego i suoi burattini»; variamente modulati tra i capitoli, infine, appaiono lo stile e la partitura sintattica. Tutto concorre, insomma, a costruire una serie di forze centrifughe che convergono, con solo apparente paradosso, nel mettere a fuoco l’ambiguità sulla quale
La copertina del libro di Giulio Mozzi.
è precipuamente costruito il romanzo, ossia quella tra realtà e finzione, che riconduce, in ultima analisi, alla questione della percezione del mondo e della possibilità di rappresentarlo. Quanto siamo sicuri di quel che abbiamo vissuto? Mario, nel capitolo iniziale, vera
e propria chiave di lettura sulla quale saranno impostate le scelte successive, è convinto della presenza di un bosso in un parco della sua infanzia a San Daniele del Friuli. Il ricordo scatta quando, da adulto, proustianamente ne incontra di nuovo il profumo. Torna
su quei luoghi, ma scopre che lì un bosso non c’è mai stato. Resta pertanto da chiedersi se un ricordo di cui eravamo convinti smetta di essere vero nel momento in cui ne verifichiamo la fallacia. Ambigua, dunque, non poteva che essere anche la conclusione del romanzo, costruita su due capitoli dai significati volutamente antitetici: nel penultimo, Mario resta ammirato dall’opera del suo amico Gas (il Grande artista sconosciuto), una sorta di Venere nascente «da acque nere e buie» che sembra almeno aprire a un orizzonte di possibilità e di rinnovamento; nell’ultimo, Mario e Santiago si rendono protagonisti dell’ennesima scena atroce, la più indicibile. A ben vedere, l’ineluttabile destino di Mario è già tutto iscritto nella gabbia costituita dal quadrilatero delle donne che attraversano la sua vita, e per le quali appare evidente il capovolgimento del valore evocativo dei nomi. La donna (apparentemente) equilibrata e pacifica si chiama Viola; quella passionaria e tormentata si chiama Bianca. Poi, rovesciando il modello manzoniano, Agnese assume il ruolo di figlia; e, soprattutto, Lucia è l’amore giovanile di Mario, ma irrimediabilmente e precocemente perduto in un incidente stradale, probabile scaturigine di quel dolore da anestetizzare per tutta una vita attraverso la coazione a ripetere. Bibliografia
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