Azione 23 del 7 giugno 2022

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Anno LXXXV 7 giugno 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

Pagine 4 – 5 ●

SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

La riduzione o perdita dell’olfatto potrebbe indicare l’insorgere della malattia di Parkinson

Still life, ovvero addomesticare la realtà fermando la vita nell’istante dello scatto, dopo averci meditato

Negli USA l’ennesima strage in una scuola riapre il dibattito sul controllo delle armi

Ad Ascona una mostra celebra i colori e il tratto felice dell’artista tedesco Loris Corinth

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Ti-Press

Nuovi obiettivi per i Comuni

Fabio Dozio

I dilemmi etici della guerra in Ucraina Peter Schiesser

La guerra in Ucraina dura da ormai oltre tre mesi, ed ora che si concentra soprattutto nell’est del paese si valuta che durerà senz’altro ancora mesi, qualcuno ipotizza anni; a poco a poco trascinerà nel suo vortice tutti noi europei. Da cui non si salveranno neppure le nostre coscienze, per i dilemmi etici, umani e umanistici, infine pratici che dobbiamo e dovremo affrontare. Non subiremo carestie, rivolte per il pane, come è possibile che accada in molti paesi arabi e africani, ma sentiremo gli effetti che avrà sulle nostre economie e nel nostro portafoglio. Intanto, stiamo già assistendo ad una rivoluzione nell’architettura della sicurezza in Europa. Convinti della neutralità per decenni, finlandesi e svedesi chiedono l’adesione alla Nato per timore della Russia putiniana, due terzi dei danesi hanno votato in favore dell’adesione alla politica di difesa europea, la Germania si riarma e arma gli ucraini sfidando i fantasmi del suo Novecento, in Svizzera centristi e liberali-radicali come pure la consigliera federale Viola Amherd postulano un avvicinamento alla Nato pur non volendo

aderirvi, le Camere federali votano in favore di un aumento delle spese militari. La guerra non è più un fantasma che si pensava esorcizzato per sempre. Si insinua lentamente il dubbio che la pace in Europa seguita alla seconda guerra mondiale sia stata solo un bellissimo episodio, nella storia insanguinata dell’umanità. E la fine di questa illusione ha un impatto sulle coscienze. Il pacifismo dell’ultimo dopoguerra, diffuso dalle generazioni post-conflitto e assorbito dalle società europee, aveva vinto per implosione di una delle due superpotenze belligeranti (era pur sempre una Guerra fredda, con conflitti regionali in cui Stati Uniti e Unione Sovietica si misuravano). Ora che la guerra è tornata in Europa e chi aggredisce non si fa nessuno scrupolo a distruggere e uccidere indiscriminatamente, il pacifismo non ha una risposta adeguata alla realtà geopolitica, al sistema di valori democratici, alla stessa dignità umana. Continua ad averne eticamente, perché la guerra, ogni guerra è la negazione dei principi di umanità, anche laddove la si ammanta di eroismo. Ma il paci-

fismo può entrare in conflitto con altri principi etici. È etico non armare chi vuole difendersi ad ogni costo e senza armi verrebbe massacrato? Preferendo una resa alla distruzione e ai massacri, è etico condannare milioni di persone a vivere sotto il giogo di una nazione nemica in casa propria? Sono dilemmi che toccano la coscienza. Che rendono impotente il pacifismo in questo frangente. Un’impotenza vissuta già trent’anni fa, con le guerre nei Balcani. Un primo shock per le generazioni «pace per sempre» in Europa. Il fatto che fossero circoscritte a una regione ha permesso, una volta finite, di considerarle un episodio che non poteva scuotere le fondamenta dell’Europa. La guerra in Ucraina invece sì, dà loro un pesante scossone – speriamo che reggano. Ma i dilemmi etici sono propri anche di chi ha scelto di sostenere la guerra di difesa dell’Ucraina, i governi fornendo armi, noi nel pensiero. Ci si deve infatti chiedere se è etico accettare che migliaia di persone vengano uccise, città e villaggi distrutti, un paese ridotto in miseria per difendere valori come la

libertà, la democrazia e l’autodeterminazione. L’etica come valore è quindi sul lato perdente, al momento. Predominano altri valori e calcoli: rinunciare ad opporsi alla guerra di Putin significherebbe esporsi a nuove guerre, poiché il presidente russo ha dimostrato di non fermarsi se non trova resistenza; permettere che la Russia invada e occupi l’Ucraina invoglierebbe altri capi di Stato a fare altrettanto, in particolare la Cina, ciò che gli Stati Uniti non possono tollerare (anche se lo hanno fatto pure loro in Iraq e in forma diversa in Afghanistan); lasciar stroncare una democrazia nascente non è accettabile per un’Europa che si è incamminata sul cammino dell’integrazione, delle economie ma anche dei valori democratici, per superare le tragedie della prima metà del Novecento. Eppure, ad un certo momento la guerra stancherà. I morti e i mutilati impressioneranno più degli eroi. Fino a che cesserà, magari per sfinimento. A quel momento, il pacifismo potrà tornare a illuminare le menti e i cuori delle persone, per provare a creare una nuova pace duratura.


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azione – Cooperativa Migros Ticino

SOCIETÀ ●

Incontri Sandy Altermatt, nota voce della RSI, ci racconta come è nato il suo amore per la radio

Parole e discriminazione Le implicazioni linguistiche del Rapporto della Commissione federale contro il razzismo

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Donne e scienza Sono tanti e a volte poco conosciuti i meriti femminili nella storia delle missioni spaziali

Viaggiando in barca a vela Alle Isole egee, nuovi progetti a favore dell’ecosistema marino e dell’aria che respiriamo

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«Avere naso» per il Parkinson Medicina

Una riduzione o perdita dell’olfatto potrebbe essere segnale dell’esordio di questa malattia neurodegenerativa

Maria Grazia Buletti

La malattia di Parkinson è caratterizzata da un danno progressivo neurologico al cervello, che aumenta col passare del tempo. «È una patologia neurodegenerativa che cresce più rapidamente dell’Alzheimer per ragioni che possiamo solo presupporre». A parlare è il professor Alan Kaelin, direttore medico e scientifico del Neurocentro della Svizzera Italiana all’EOC, il quale elenca il ventaglio dei fattori di rischio responsabili del suo incremento e riconducibili a questa malattia: «L’invecchiamento della popolazione è il fattore di rischio più importante: si stima che l’1 per cento delle persone sopra i 65 anni ha prevalenza di Parkinson. L’aumento di questa patologia è favorito da una diagnosi più precoce e migliore di un tempo (diagnostica più specifica, sensibilizzazione dei medici per comprendere meglio la patologia ora considerata anche senza la presenza di tutti i suoi sintomi). Sono pure complici i fattori genetici o legati al sistema immunitario, in combinazione con quelli ambientali predisponenti (come inquinamento, pesticidi, metalli pesanti…)».

Vi sono pazienti che hanno sviluppato il Parkinson poco dopo aver contratto il Covid-19; fra 5-10 anni la correlazione potrebbe diventare evidenza scientifica Uno degli ostacoli al trattamento del Parkinson è proprio la diagnosi della malattia quando questa si è ormai sviluppata e, secondo il neurologo «sono i sintomi motori a impattare sulla qualità di vita e ciò fa sì che la si consideri ancora, a torto, una malattia puramente dell’apparato locomotore, dimenticando tutti i disturbi pre-motori neurologici e mentali come depressione e ansia, problemi di equilibrio e di memoria, insonnia e perdita dell’olfatto». Su quest’ultimo sintomo si riaccende il grande interesse della ricerca (complice la pandemia da Covid-19 che ha fra le sue più importanti manifestazioni proprio la perdita di gusto e olfatto), insieme al già ipotizzato e ormai molto discusso legame di probabile causa infettiva del Parkinson. «Diverse ricerche scientifiche ci hanno confermato che una riduzione o la perdita dell’olfatto potrebbe essere un segnale molto precoce di esordio della malattia di Parkinson, a meno che non si sia affetti, per esempio, da un raffreddore o da una malattia delle vie respiratorie superiori». Da sempre centro di attenzione degli specialisti otorinolaringoiatri, il naso, organo dell’olfatto, oggi risveglia un grande interesse anche nei

neurologi e nei ricercatori, in quanto «è una delle vie più dirette fra l’esterno e il nostro cervello, con una funzione molto arcaica e molto più ampia di quella legata semplicemente al cibo e agli odori». Kaelin spiega come i recettori neuronali della mucosa nasale siano direttamente connessi con il nostro cervello: «La rapidità con cui i sensori neuronali del naso e il cervello comunicano dà luogo al riconoscimento degli odori e all’integrazione col gusto mentre mangiamo, in un’esperienza globale che comprende più sensi come visione, gusto, sapore e via dicendo. Una parte di queste informazioni olfattive va direttamente ai centri della memoria che riconoscono in modo intrinseco gli odori». La memoria olfattiva è qualcosa di innato, spontaneo, legato alle emozioni e pure distante da altre funzioni come quella della parola: «So che sento un buon odore ma non so definirlo a parole. Quando è nota la difficoltà di dare un nome a un odore, svolgiamo i test dell’olfatto sottoponendo al paziente immagini per esempio di fragola, mela o altro, i cui odori del test sono associati all’immagine». È dunque evidente da tempo, anche se spesso sottovalutata, la stretta correlazione fra olfatto, cervello e, per l’appunto, sviluppo della malattia di Parkinson. Oggi questa via ha preso nuovo slancio nella ricerca neurologica per due importanti ragioni: «La diagnosi precoce del Parkinson permette una migliore presa a carico della malattia, e sappiamo che la perdita dell’olfatto può essere un fattore molto precoce. Inoltre, il Covid-19 ci ha permesso di riflettere nuovamente sulla possibile e già ipotizzata origine virale di questa malattia: l’anosmia è infatti un sintomo molto presente nel Covid e ci obbliga a riflettere sul perché un virus possa provocare direttamente la perdita dell’olfatto. Non si tratta di una rinite, perché quei pazienti presentano spesso anosmia con naso libero. Detto ciò, anche per il Parkinson resta da indagare questa via così diretta fra mondo esterno e cervello, nel meccanismo di alcuni recettori olfattivi a cui certi virus si attaccano andando poi direttamente ai neuroni cerebrali: passaggio durante il quale danneggiano il sistema olfattorio». Il neurologo spiega un altro interessante legame con i meccanismi del Covid-19: «Vi sono pazienti che hanno sviluppato la malattia di Parkinson poche settimane dopo aver contratto il Covid-19. Parkinson che magari era latente e poi conclamatosi con lo stress (è noto che influenza, febbre, o stress psicologici possono innescare patologie latenti)». Solo fra 5-10 anni queste osservazioni del probabile ruolo del Covid nella ma-

Il professor Alan Kaelin, direttore medico e scientifico del Neurocentro della Svizzera Italiana all’EOC. (Stefano Spinelli)

lattia di Parkinson potranno diventare evidenze scientifiche. Intanto: «Questa ipotesi ci permette di indagare in quella direzione, e forse oggi abbiamo trovato nel sistema olfattivo la porta d’entrata di alcuni virus. Così è pure per quanto attiene al Parkinson: malattia probabilmente coinvolta nel meccanismo della via usata da questo Coronavirus». Si tratta di ipotesi suffragate da altre evidenze scientifiche: «D’altronde, è oramai noto che la via olfattiva gioca un ruolo pure per la rabbia:

studi in zone infettate in America hanno dimostrato che solo la presenza di gocce nelle grotte dove si trovano pipistrelli affetti da rabbia può trasmettere questa malattia all’essere umano senza che egli sia morsicato, anche se si tratta di un’evenienza molto rara». È molto importante che si siano dunque riaccesi i riflettori sulla ricerca in questi termini poiché, afferma Kaelin: «La perdita dell’olfatto ha una prevalenza di circa il 90 per cento nella malattia di Parkin-

son, sintomo che potrebbe quindi essere la chiave per la diagnosi precoce». Ed è importante perché coloro che sono nelle prime fasi avranno maggiori probabilità di trarre beneficio da studi clinici neuro-protettivi e trattamenti futuri: «Se potessimo capire cosa sta succedendo nelle persone agli esordi della condizione, potremmo lavorare sullo sviluppo di trattamenti che potrebbero impedire la progressione del Parkinson. Cosa che nessuna terapia attuale può ancora fare».


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Più qualità di vita nei Comuni

Ticino ◆ Accanto alle aggregazioni e alla riforma dei rapporti tra Cantone e Comuni, il Dipartimento delle istituzioni apre un nuovo cantiere: promuovere la responsabilità sociale dei Comuni Fabio Dozio

Come stanno i Comuni ticinesi? Sono sensibili e socialmente responsabili? Per i Comuni la responsabilità sociale dovrebbe essere scontata, perché sono le amministrazioni più vicine ai cittadini. Ma non è per niente scontato, in quanto le sensibilità sociali, culturali, ambientali e, infine, politiche, sono diverse. Perciò la Sezione enti locali del Dipartimento delle istituzioni lancia un progetto in questo ambito. Essere socialmente responsabili significa promuovere la qualità di vita delle politiche locali di sviluppo sostenibile, conformemente all’Agenda 2030 e coerentemente con l’impegno che la Svizzera ha assunto in tal senso in quanto membro dell’ONU. «Il concetto di qualità della vita – spiega l’Ufficio federale di statistica – serve a misurare il benessere della popolazione nelle sue svariate dimensioni. Il benessere, infatti, dipende sia da alcune condizioni di vita materiali che dalla percezione individuale della qualità di vita. Tra le condizioni materiali rientrano reddito e lavoro e la situazione abitativa. Le dimensioni non materiali della qualità di vita, invece, comprendono la salute, la formazione, la qualità dell’ambiente, la sicurezza personale, l’impegno civico e la conciliabilità tra lavoro e vita privata». Per capire quali sono i punti forti e i punti deboli delle amministrazioni comunali in questi settori, la SUPSI ha realizzato un sondaggio, dal giugno al settembre dell’anno scorso, che ha coinvolto 108 comuni. Hanno risposto in 81, pari al 75% del campione totale.

La Sezione enti locali ha identificato sei strumenti per aiutare i Comuni a mettere in atto politiche e azioni utili a promuovere la qualità di vita residenziale in una prospettiva di sviluppo sostenibile I temi in cui i Comuni si dimostrano più attivi sono: gli spazi verdi attrezzati, la promozione di eventi sportivi, la promozione del trasporto pubblico. Positive le risposte anche per quanto riguarda la valorizzazione del territorio, la moderazione del traffico i servizi extrascolastici. «Il Comune di oggi – ci dice Marzio Della Santa, responsabile della Sezione enti locali del Dipartimento delle istituzioni – non è quello di 30 anni fa. Ai nostri giorni l’ente comunale deve essere infatti in grado di rispondere ai bisogni dei propri cittadini che sono diventati nel tempo dei veri e propri consumatori, per certi versi molto esigenti. Quello

che la cittadinanza vuole, infatti, è vivere in un luogo a misura d’uomo con una qualità di vita elevata. In questo senso è quindi normale che i nostri Comuni siano maggiormente sensibili su alcune tematiche, come quelle che ha menzionato, che stanno molto a cuore a tutta la popolazione residente. I Comuni saranno però sempre più confrontati con un’altra sfida: rendere sostenibile l’insieme dei beni e servizi offerti alla cittadinanza. Non so quanto sia estesa la consapevolezza che in alcuni casi ciò potrebbe comportare la revisione delle prestazioni offerte e, in taluni casi, la rinuncia a quelle divenute insostenibili dal profilo sociale, ambientale ed economico». La maggioranza dei Comuni interpellati non è ancora intervenuta attivamente nei seguenti campi: riduzione del CO2, promozione della salute, riqualificazione urbanistica, adattamento ai cambiamenti climatici, integrazione degli stranieri, lotta allo spopolamento. Poco pollice verde nei nostri Comuni e anche disattenzione nei confronti degli stranieri e sul tema del ripopolamento. Un numero consistente, tra i 25 e i 30 Comuni, afferma che si sta preparando a intervenire su questi temi. Per Marzio Della Santa le sfide che attendono la nostra società sono epocali: «Comuni, Cantoni e Confederazione devono reinterpretare la propria missione. Nel caso degli enti locali si tratta in primo luogo di rendere sostenibile lo sviluppo della qualità di vita residenziale offerta alle persone e alle aziende. Da questo punto di vista i Comuni hanno potenzialmente le competenze e i mezzi per contribuire efficacemente ai cambiamenti climatici, per esempio promuovendo la produzione e l’utilizzo di energie rinnovabili, o per riqualificare gli ambienti urbani, rivalorizzando i nuclei storici. Perché questo si traduca in fatti è di fondamentale importanza che la politica comunale comprenda l’esigenza di coinvolgere e ascoltare i propri cittadini, per creare il necessario consenso attorno a scelte anche difficili che occorrerà prendere nei prossimi anni. Penso in modo particolare al coinvolgimento e all’ascolto delle nuove generazioni che dovranno vivere nel mondo che noi imporremo loro con le decisioni di oggi». Merita un’osservazione particolare la risposta alla domanda: «Avete un piano regolatore che applica il principio federale dello sviluppo centripeto?». Rispondono di sì solo 11 enti su 81. E, è bene ricordarlo, si tratta di un tema sensibile, visto che la Legge federale sulla pianificazione del territorio prescrive di dimensionare le zone edificabili secondo il fabbisogno prevedibile per almeno 15 anni. Se ci sono troppe zone edificabili, bisogna ri-

Il comprensorio del nuovo comune di Val Mara nato dall’aggregazione di Melano, Maroggia e Rovio votata lo scorso aprile. In basso, Marzio Della Santa, responsabile della Sezione enti locali. (Ti-Press)

durle e cioè, «dezonare». 29 Comuni affermano che questo tema è «in fase di attuazione». «Quello della pianificazione è indubbiamente uno dei temi che maggiormente riflette i meccanismi del federalismo elvetico. – precisa Marzio Della Santa – Il territorio è la risorsa principale del Comune, che ne dispone cercando di raggiungere l’obiettivo fissato dalla comunità. Per molto tempo questo è stato quello di massimizzare gli interessi individuali e collettivi, estendendo generalmente le zone edificabili a scopo residenziale o economico. Bisogni non sempre sostenibili e Comuni troppo piccoli hanno indotto i Cantoni dapprima e la Confederazione poi a intervenire per cercare di frenare un utilizzo estensivo del territorio. A livello nazionale si sono quindi poste le basi per una po-

litica di sviluppo centripeto, che i Comuni sono ora chiamati ad attuare, tra molte difficoltà di natura politica, tecnica e finanziaria. Difficoltà che in realtà vanno ricondotte alla necessità di creare un ampio consenso popolare attorno a misure ritenute spesso ingiuste da parte di coloro che vedono così minacciati i propri interessi. È dunque anche in quest’ottica che si può inserire il supporto offerto dal Cantone con il progetto di buon governo, che mira a favorire l’adozione di approcci partecipativi nei processi di definizione delle politiche comunali allo scopo di creare il necessario consenso in merito a obiettivi e misure da adottare per soddisfare i bisogni della popolazione». In che misura il sondaggio ha messo in luce differenze fra i centri e le periferie? «Dall’analisi dei dati raccolti è emersa una chiara e ampia sensibilità verso il tema della responsabilità sociale. – afferma Marzio Della Santa – L’attuazione di buone pratiche non è però distribuita in maniera uniforme. Quindi abbiamo realtà comunali che applicano iniziative consolidate che sono diventate prassi nell’Amministrazione comunale mentre in altri casi le politiche in materia sono invece ancora poco adottate». La SUPSI prosegue l’indagine fra i Comuni e solo in autunno potranno essere messe a fuoco le differenze fra città e valli. I Comuni ticinesi oggi sono 106. Nel 1980 erano 247, nel 2010 157. Il processo di aggregazione va avanti lentamente. In Ticino sopravvivono

criticità secolari. Rivalità tra villaggi, interessi personali, contrasti politici, antiche tradizioni. Il Dipartimento da anni sta spingendo perché si incrementino le fusioni comunali in tutte le regioni del Ticino. Le aggregazioni rimangono un obiettivo, assieme a quello della riforma del rapporto tra Cantone e Comuni (Ticino 2020). La responsabilità sociale è il terzo progetto da sviluppare. Il Dipartimento delle istituzioni – precisa Norman Gobbi – entro fine estate intende proporre una risoluzione governativa che sancirà l’avvio della fase esecutiva del progetto, con particolare riferimento al modello di rapporto di sostenibilità che tiene conto delle varie tipologie del Comune. In questa fase saranno coinvolti nei lavori anche alcuni rappresentanti comunali. La Sezione enti locali, da parte sua, «ha identificato sei strumenti volti a rafforzare la capacità dei Comuni di mettere in atto politiche e azioni utili a promuovere la qualità di vita residenziale in una prospettiva di sviluppo sostenibile: il rapporto di sostenibilità; il portfolio delle buone pratiche che può offrire esempi da condividere; il confronto intercomunale; la certificazione per verificare la correttezza di quanto dichiarato; la formazione e la sensibilizzazione». Inoltre verrà istituito un premio per il Comune più socialmente responsabile. Chissà se l’idea di conquistare l’alloro stimolerà le amministrazioni a darsi da fare in questo campo?

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MONDO MIGROS

La tua scarpa sportiva perfetta

Novità ◆ L’analisi 3D del piede ti permette di trovare la scarpa da corsa o outdoor più adatta alle tue esigenze. Il servizio è ora disponibile gratuitamente anche da SportXX S. Antonino. Ne abbiamo parlato con Gerardo Ceraudo, collaboratore presso il negozio specializzato della Migros

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Perché è importante scegliere delle scarpe su misura per svolgere queste attività? Con la scarpa giusta si possono migliorare le proprie prestazioni e camminare comodamente per lungo tempo, riducendo al minimo possibili dolori, ferite e infortuni che potrebbero avere conseguenze indesiderate. Cosa bisogna fare per poter usufruire dell’analisi 3D gratuita? È sufficiente prenotare un appunta-

mento sul sito dedicato di sportxx. ch (vedi codice QR). I clienti saranno accolti da un nostro collaboratore specializzato, il quale, dopo un colloquio informativo, provvederà ad effettuare l’analisi 3D. All’incontro potrebbe essere anche utile portare con sé le proprie scarpe usate, in modo da poter analizzare al meglio lo stato di usura delle stesse e ottenere preziose informazioni sullo stile di corsa e sull’appoggio del piede. Fissa ora il tuo appuntamento per l’analisi 3D scansionando il codice QR a lato. Gerardo Ceraudo, venditore specializzato presso SportXX S. Antonino.

Come viene identificata la scarpa idonea? I dati raccolti durante l’analisi permettono di fare un confronto con la nostra banca dati integrata, che contiene tutte le scarpe del nostro assortimento, misurate e classificate secondo le più moderne tecnologie. In base a questa comparazione diventa quindi particolarmente facile trovare il modello più adatto alle esigenze di ogni utilizzatore. A chi si rivolge il servizio? A tutte le persone che vogliono una scarpa perfettamente adeguata alle caratteristiche del proprio piede,

Pasta fresca artigianale Novità

Tre nuovi piatti pronti firmati Pastificio Di Lella vengono introdotti nei reparti gastronomia Migros

Maccheroni integrali alle verdure estive 250 g Fr. 6.90

Cavatelli broccoli e olive 250 g Fr. 6.90

Il Pastificio Di Lella di Sementina dal 1968 è specializzato nella produzione di pasta fresca di qualità. Artigianalità, tradizione, amore per la regionalità e passione per la cucina sono da sempre i valori su cui si base l’attività dell’azienda familiare bellinzonese.

Oltre ad alcune apprezzate tipologie di pasta fresca, tre nuovi piatti pronti Di Lella entrano a far parte dell’assortimento di Migros Ticino a partire da questa settimana: le Caserecce all’amatriciana, i Maccheroni integrali alle verdure estive e i Cavatelli ai broccoli e olive. Fresche, gustose e convenienti, queste specialità pronte in pochissimi minuti sono perfette per tutti coloro che, benché abbiano poco tempo per cucinare, non vogliono comunque rinunciare a gustare un

piatto che sia al contempo sano, genuino e completo. Tutte le pietanze sono preparate in modo creativo e goloso da esperti cuochi utilizzando solo ingredienti freschi accuratamente selezionati, possibilmente locali. Comodi e veloci da preparare, i piatti pronti devono essere solamente scaldati nel microonde per tre minuti. In alternativa è anche possibile cuocerli per qualche minuto in padella a fuoco lento. Prima di servirli, si prestano bene per essere personalizzati a piacimento.

Caserecce all’amatriciana 250 g Fr. 6.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros a partire dal 9 giugno


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MONDO MIGROS

Momento Magico in Ticino Attualità

I vincitori del Concorso Mini Me Explorer e Migros Ticino

Sono numerosi i disegni imbucati nelle urne delle filiali Migros di tutto il cantone in occasione del concorso organizzato da Migros Ticino in collaborazione con Mini Me Explorer. Disegni splendidi, raffiguranti momenti davvero magici nel nostro bel Ticino, dove i bambini si sono impegnati a immortalare artisticamente una gita o un luogo speciale. Tra tutti i partecipanti sono stati estratti a sorte 3 disegni vincitori, i quali si aggiudicano i premi offerti da Migros Ticino. ECCO I VINCITORI 1° PREMIO Buono Migros Ticino del valore di Fr. 200.– Arianna di Giubiasco, 6 anni (Biotopo di Camorino)

1° 2°

2° PREMIO Buono Migros Ticino del valore di Fr. 150.– Ryan di Gravesano, 8 anni (Parco San Grato - Carona) 3° PREMIO Buono Migros Ticino del valore di Fr. 100.– Marika di Arbedo, 4 anni (Monte Tamaro)

Ringraziamo tutti i bambini per aver partecipato a questo concorso e auguriamo di trascorrere mille altri momenti magici nei meravigliosi luoghi del Ticino.

Gita al biotopo del Parco Motto grande e ai fortini della fame di Camorino

Per arrivare al biotopo che ha disegnato Arianna, la vincitrice del concorso, bisogna recarsi all’interno del Parco del Motto grande a Camorino. Si trova in via al Mòtt dove è pre-

sente anche un parcheggio. Nel parco potete ammirare il biotopo con le sue piante acquatiche, le rane e i girini e, per la gioia dei vostri bambini, uno splendido parco giochi in legno, un vasto prato e una zona d’ombra sotto gli alberi con tavoli e panchine per picnic. Vale proprio la pena andare a

cercare questo piccolo paradiso nascosto nel bosco. Da qui potete fare una piccola passeggiata su una strada sterrata (fattibile anche in passeggino) attorno al parco oppure (per i più grandicelli) andare alla ricerca dei 5 fortini della fame, seguendo i pannelli esplicativi. Si tratta di un suggestivo

percorso di due ore circa, con un dislivello limitato, che porta a scoprire i forti edificati nel 1853 lungo la linea di difesa Dufour, il tutto con una vista spettacolare sul piano di Magadino. (Trovate l’articolo con le informazioni dettagliate sul blog: www.minimeexplorer.ch). Annuncio pubblicitario

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SOCIETÀ

Il taccuino delle parole belle e un sorriso contagioso

Incontri (4) ◆ Sandy Altermatt, una delle voci più note e amate della RSI, scoprì a New York che la radio era il suo sogno e… ritornò a casa. Era il 2001 Matilde Casasopra

Che cos’è per Sandy la radio? Il mio sogno, ma… non l’ho capito subito. Adesso però, guardandomi indietro, capisco che tutto quello che ho fatto – e magari anche quello che non ho fatto – ha concorso a portarmi lì, dietro a un microfono, a parlare con ogni persona che è all’ascolto in quel preciso momento e alla quale vorrei portare almeno un po’ di gioia. Visto che non hai capito subito che la radio era quel che volevi fare, come ci sei arrivata a capirlo? Oggi direi: saltando di palo in frasca fino al 12 settembre del 2001. Fai il conto che la mia famiglia – papà, mamma e sorella – era una famiglia di viaggiatori e che io sono cresciuta trilingue: tedesco (il papà), inglese (la mamma) e italiano (la scuola). Giunta in quarta ginnasio sono stata bocciata. Non dimenticherò mai quel giorno d’inizio estate. Ero, a Viganello, sul ponticello della scuola con la mia amica di sempre – Angela. Ci viene incontro il direttore, Lauro Degiorgi. «Tu – mi dice guar-

Scheda Nata a: Zurigo. Età: 52 e un po’. Abito: in Capriasca. Lavoro: alla RSI. Hobby: Tutto quello che si costruisce! (Mobili, siti internet, vestiti, trasmissioni, relazioni…). Rimpianto: Non me ne vengono in mente. Sogno nel cassetto: Ricordarmi le cose. Amo: Sempre! Non sopporto: Quando son di fretta e mi rimane una manica impigliata in una maniglia, l’ipocrisia e le puzze (quelle reali e quelle metaforiche). La mia foto preferita: sono due: 1. io bambina al parco giochi, in una posizione da super eroe; 2. con Hamos e la musica in sottofondo (Estival). Ero incinta e ancora non lo sapevamo.

dandomi – vieni con me». È stata la prima volta che Angela e io ci siamo separate. Non starò a raccontarti tutti i dettagli. Ho rifatto la quarta (che l’anno dopo sarebbe diventata media) e poi mi sono iscritta alla Commercio di Massagno. Lì sono sopravvissuta per quattro mesi. No. Non faceva per me. Mio padre mi aiutò, ma pose una condizione: scegliti una scuola che ti porti a conseguire un diploma. E così feci. Dopo la commercio ho ufficializzato con altrettanti diplomi di lingue il mio tedesco, l’inglese e il francese (che avevo imparato a scuola) e poi, con l’italiano come lingua madre, ho conseguito il diploma federale di telefonista. Ma, visto che ho sempre dovuto mantenermi e amo viaggiare, mi sono cercata un lavoro e, per due anni, ho lavorato alla Crossair. La radio quando arriva? Per caso, intorno al 1994. Una novità che arriva sempre grazie alle lingue (che nel frattempo erano diventate 5 in quanto, dopo un soggiorno di sei mesi in Guatemala, si era aggiunto lo spagnolo). È a Rete3 che ho iniziato ed è qui che, piano piano, ho imparato le dinamiche, le regole e i trucchi della radio. Però avevo mille cose in testa. Volevo capire, imparare, viaggiare. La mamma del mio ex mi disse: «Se non lo fai adesso non lo farai più» e così ho chiesto alla RSI un congedo di un anno. Il 5 gennaio 2000, dopo il Capodanno che segnò il cambio di secolo in piazza della Riforma, sono partita alla volta di New York. Obiettivo: frequentare il Lee Strasberg Theatre and Film Institute, il fratellino dell’Actor Studio (anche perché, senza l’attestato di una scuola, non avrei potuto restare per un anno). Tu e New York. Una storia d’amore durata quanto?… No, aspetta. Non è stato amore tra me e New York. Non lo è stato quando ci sono stata la prima volta, nel 1988. Non lo è stato quando ci sono tornata 12 anni dopo. Vivevo all’East Village e ho sempre avuto l’impressione di una città abitata da gente sola. Però volevo mettermi alla prova. Il Lee Strasberg Theatre è stato, per me, una delusione, ma in compenso ho conosciuto Michel Comte, fotografo svizzero con il quale – e per il quale – ho lavorato, a New York, fino al settembre del 2001. Mi stai dicendo che eri a New York l’11 settembre? Sì, ero a New York e, probabilmente, quell’11 settembre ha segnato anche la svolta nella mia vita. Non tanto il giorno degli attacchi e del crollo delle torri gemelle, ma il giorno successivo, il 12 settembre. Sì, è stato proprio il 12 settembre. Per le vie di New York le auto circolavano con bandiere a stelle e strisce e stendardi con la scritta Revenge (vendetta). Ho avuto, in quel momento, un profondo senso di disagio. Ero disorientata ed è in quel momento che ho capito cosa significasse la neutralità svizzera. E così ho deciso di rientrare in Svizzera. Arrivata allo studio di Michel, gli ho detto: «Io torno a casa» e

Foto SUPSI

«Proprio brava questa presentatrice. Chi è?». «Sai che non lo so? Adesso chiedo al produttore… È Sandy Altermatt. Lavora in radio». «E non la conosci?». La conosco, ma non l’ho mai vista dal vivo. In radio siamo… voci. Brandelli di un dialogo dai toni sommessi in una sala anfiteatrale del Palazzo dei congressi di Lugano. È il dicembre 2009 ed è in corso la cerimonia di consegna dei diplomi della SUPSI (Scuola universitaria professionale). A salire sul palco, per la prima volta, anche gli allievi dell’Accademia Teatro Dimitri di Verscio. E lì, sul palco, c’è proprio Sandy Altermatt, quella signora dal sorriso da bimba che il pubblico dell’Estival Jazz ha imparato a conoscere come l’interlocutrice del dopo concerto o come la ragazza che si trovò a presentare il Festival del film di Locarno. Sì, proprio lei che – nessuno sa come faccia – riesce a veicolare il suo sorriso anche via radio. Già, la radio…

lui mi ha risposto: «Torno anch’io». Un paio di mesi dopo, il tempo di riaprire gli aeroporti, ho lasciato New York e sono andata a Zurigo, dove viveva mio papà, e ho aperto/allestito, lo studio fotografico di Michel Comte. Lucia Vietri, la sua produttrice, quando le ho comunicato che avevo finito e tornavo a Lugano mi ha detto: «No, no. Non puoi lasciarci. Tu vieni a lavorare con me a Parigi». Ci sono andata. Sono restata lì per cinque mesi, ma… lo stipendio non copriva neppure i costi dell’affitto e così, squattrinata e libera sono tornata in Ticino dove non avevo neppure una casa. Mi ha ospitato Monica – l’altra mia amica storica – e ho passato un’estate a girare in bici e a leggere e studiare in biblioteca finché ho capito. Il mio mondo, il mio posto era la radio piena di musica e… sono tornata in quella casa che per me era, allora, Rete3.

ché. Raccontare e basta. Grazie ai cinque anni di Albachiara in coppia ho imparato a uscire dalla trappola della scaletta scritta minuto per minuto. Poi, a dirla tutta, a essermi stato d’aiuto è stato anche il mio sore del ginnasio, il prof. Buletti (quello che mi aveva bocciato in quarta). Lui mi aveva fatto notare che non sapevo distinguere tra linguaggio scritto e linguaggio parlato. Era vero, ma io sono riuscita a trasformare un limite in opportunità e così, a parte qualche collega più attento, in pochi si sono accorti che, per anni, ho parlato al microfono leggendo. Poi, per facilitare quell’empatia di cui ti dicevo, dal 2004 ho sempre con me un taccuino che aggiorno quando, leggendo un libro, m’imbatto in parole e frasi belle. È il mio taccuino delle «parole belle». Penso che il linguaggio fluido e le belle parole migliorino la vita.

Sogno realizzato? Sogno che sto realizzando. Riuscire a trasmettere, con la voce, emozioni vere in un colloquio fondato sull’empatia. Parlare senza leggere alcun-

Ma se la radio è il tuo sogno, la tua casa, perché ci sono tanti palcoscenici nella tua vita? Perché il contatto diretto con il pubblico è un’esperienza unica, puoi la-

sciarti andare un po’ di più perché la reazione è immediata, e poi, adoro capire cosa e dove migliorare. Ti racconto un episodio. Qualche anno fa, a Mendrisio, ho presentato la cerimonia di scambio d’auguri di fine anno. C’era tantissima gente e, alla fine, sono rimasta lì e molti sono stati coloro che ho salutato personalmente. Tra loro un signore non più giovanissimo. Quando mi ha raggiunta mi ha preso le mani e se le è messe sul cuore. «La Sandy! Ma che bello! Lei non sa come sono felice in questo momento. Cara, cara Sandy che mi tiene compagnia. E adesso la conosco di persona. Che gioia!». Non sono riuscita a dirgli niente. Sono stata capace soltanto di sorridergli tra le lacrime (sue e mie) e poi abbiamo cominciato una bella chiacchierata. Conoscere le persone che ti ascoltano alla radio. Dare un volto al tuo pubblico. Anche questa, per me, è la radio. Poi è proprio grazie a uno di questi palcoscenici che ho conosciuto il mio compagno, Hamos Meneghelli. Era lui il produttore di quella cerimonia del 2009, per me la più bella di sempre.

Tre momenti chiave di una vita Sandy, hai disposizione 666 battute per illustrare tre momenti topici della tua vita: 1. Quando ho realizzato di essere incinta – La consapevolezza che una personcina cresce dentro di te, e che da figlia diventi madre ha una bella carica di mistero. 2. Quando ho capito che si-può-fare!

Quasi tutto – Io e la mia super amica Monica, adolescenti, dopo aver visto un film ambientato a NY, abbiamo capito, in modo illuminante, che bastava prendere un aereo per finire lì, in quel mondo che sembrava inarrivabile. Quell’aereo poco dopo ci ha portate a Manhattan negli anni 80. Epico.

3. Quando ho potuto lasciare la scuola commerciale dopo pochi mesi con il complice sostegno di mio padre – Aveva scritto una lettera al direttore, annunciando la mia dipartita con una serie di lodevoli motivazioni. Avevo capito che non era la mia strada e la sua (inaspettata!) presa di posizione mi ha fatta volare.


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Le parole della discriminazione

Pubblicazioni ◆ Il Rapporto annuale della Commissione federale contro il razzismo e le implicazioni linguistiche e comunicative della discriminazione Stefano Vassere

Il Rapporto sulla discriminazione razziale in Svizzera, appena pubblicato dalla Commissione federale contro il razzismo e da humanrights.ch, non ha l’ambizione del valore statistico, perché si limita a registrare le segnalazioni ai consultori del territorio. L’incremento dei casi trattati nel Rapporto (dagli 87 del 2008 ai 630 dell’anno scorso) ci può dire dunque di un aumento degli episodi o semplicemente di un aumento delle segnalazioni o delle due cose insieme. Certo è però che ci si può fare un’idea delle casistiche e dei modi di affrontarle, il che è come accostare il fenomeno con taglio qualitativo e certamente «parlante». Colpisce ad esempio molto l’emergere con sempre maggiore insistenza della scuola e dei contesti formativi come ambienti dove avvengono questi fatti e, di conseguenza, cresce l’attenzione verso i modi di insegnare l’educazione contro il razzismo e la discriminazione sociale in generale. Un dato generale interessante riguarda le forme della discriminazione: se il primato spetta ancora alle disparità di trattamento (256 casi), sono quasi duecento le fattispecie che concernono ingiurie, ed espressioni a vario titolo linguistiche e comunicative, cui si aggiungono i casi di esternazioni e gestualità. Ecco, forse le due di-

rezioni che varrà la pena tenere d’occhio sono quelle del mondo della formazione, che è terreno emergente ma anche milieu dove sarà più importante e forse anche agevole intervenire, e l’ambito del razzismo linguistico. Significativo è il caso della giovane svizzera nera vessata sul posto di lavoro dal suo principale con commenti razzisti sulle persone di origine africana dove risuona spesso la parola negro (nella versione in italiano, in quella in tedesco del Rapporto è N-Wort e in quella in francese nègre). Il termine è richiamato in un altro caso: quello del genitore che chiede alla maestra della scuola dell’infanzia di non far sedere suo figlio accanto a un ragazzino nero, utilizzando, anche in questo caso, quella parola (che non useremo più qui di seguito). Altri esempi si trovano con agio nel Rapporto e nel sito humanrights. ch, molto ricco di documenti e di dati. Però il caso dell’uso di quell’appellativo può essere sottolineato nel suo carattere esemplare, cioè di che cosa si possa fare, soprattutto in contesto educativo, per affrontare in modo intelligente il razzismo. Parole come queste infatti, hanno due caratteristiche principali: sono parole che accumulano valenze storiche corrispondenti alle epoche nelle quali sono state utilizzate e sono parole che con-

Il Rapporto evidenzia che nel 2021 le forme di discriminazione più frequenti sono state le disparità di trattamento e le ingiurie che avvengono in diversi ambiti.

servano questi significati anche quando la società crede di essersene liberata. Questa parola non è un semplice continuatore etimologico, la versione moderna di un termine antico, perché quell’esito è il semplice e non marcato nero. L’uso della parola in questione ci richiama tutti a epoche di violenza e sofferenza e soprattutto ci ripiomba nelle vicende della schiavitù, dei ghetti urbani, delle discriminazioni. Costituisce, al di là di tutti i tentativi di assoluzione, un insulto. Certo, si è detto, il Rapporto è più

esemplificativo che statisticamente significativo. E andrebbe integrato con numeri e approfondimenti. C’è per esempio un libro sorprendente appena uscito, curato da Derald Wing Sue e Lisa Beth Spanierman che si intitola in versione italiana Le microaggressioni. La natura invisibile della discriminazione (Milano, Raffello Cortina, 2022); è molto utile per una serie di prospettive che si affacciano solo ora al dibattito, e che però lo arricchiscono nel taglio scientifico e in quello della prassi di ogni giorno: il fatto

che spesso le manifestazioni di razzismo non si «vedono»; la relativizzazione dell’importanza dell’anonimato come soluzione al problema nei social network; la rassegna critica delle obiezioni più ricorrenti («Basta con il politically correct!», «Non esagerate», «Su questo tema sei ipersensibile» ecc.); il punto di vista degli aggressori e le autoassoluzioni. Un tema, insomma, che converrà seguire. Informazioni www.ekr.admin.ch Annuncio pubblicitario

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Si balla e si mangia, a Monte Carasso Open Air ◆ Dopo due lunghi anni di attesa torna l’amata manifestazione musicale

«Estate» in qualche modo fa anche ri-

Samantha Cristoforetti saluta i figli prima della partenza per la Stazione spaziale internazionale. (Keystone)

Il sogno delle astronaute

Donne e scienza ◆ La partenza di Samantha Cristoforetti e i meriti femminili nella storia delle missioni spaziali Loris Fedele

I tempi sono maturi per una vera parità tra uomo e donna nei lavori ad alto livello in campo scientifico e tecnico? La domanda si è posta di recente alla luce di una polemica sulla partenza dell’astronauta Samantha Cristoforetti per la Stazione spaziale internazionale (ISS). Tutto è nato da una fotografia apparsa sul sito web ilmessaggero.it accompagnata da una frase provocatoria: «Ragazze, quando vi dicono che dovete scegliere tra carriera e famiglia, mostrate loro questa foto.

L’Agenzia spaziale europea in occasione della giornata della donna nel marzo dello scorso anno ha segnalato 5 donne che ricoprono ruoli importanti al suo interno: non sempre è stato così Vale più di mille parole». La foto ritraeva Cristoforetti che da un furgoncino saluta i figli, di 1 anno e 5 anni, in braccio al marito e all’amico astronauta Luca Parmitano che, ovviamente, restavano a terra. I social si sono scatenati, criticando una mamma che lascia per diversi mesi i propri figli piccoli per andare nello spazio. Sono piovute domande all’astronauta sulla gestione della famiglia. Cristoforetti in conferenza stampa aveva già risposto di avere un ottimo partner e aveva aggiunto: «Siamo molto grati ai nostri compagni e compagne per gestire la casa quando siamo assenti a inseguire il nostro sogno». Al di là delle sterili polemiche, o forse proprio per queste, la vicenda è stata una grande opportunità per mostrare che i tempi stanno cambiando ma che la mentalità di molte persone non sta mutando tanto velocemente quanto i tempi. Soprattutto se si tratta di giudicare una donna che opera in contesti tradizionalmente giudicati maschili. Di fatto nessuno ha mai chiesto a Luca

Parmitano, che sulla Stazione spaziale c’è stato ben due volte e per parecchi mesi, se si fosse sentito in colpa nei riguardi della moglie americana e delle due figlie lasciate a casa. Abbandoniamo la polemica e ricordiamo che, con tutti i mezzi audiovisivi a disposizione, già da anni è possibile per il partner seguire quotidianamente da casa il lavoro dell’amato/a sulla ISS. Abbiamo avuto modo di seguire nel 2006, per la RSI, una situazione del genere, vissuta a terra durante una missione. Michael Lopez-Alegria, astronauta americano di origini spagnole, aveva lasciato temporaneamente la moglie Daria e il figlio Nicolas di 7 anni per passare oltre 6 mesi sulla Stazione spaziale internazionale. Daria Lopez-Alegria è svizzera. Laureata in fisica a Ginevra, aveva lavorato diversi anni per l’Agenzia spaziale europea. Considerata la lunga assenza di Michael aveva deciso di lasciare Houston, dove vivevano, per passare la durata di un anno scolastico in Svizzera, a Ginevra, dove abitavano anche i suoi genitori. Eravamo andati a trovare Daria. A casa aveva un secondo televisore sintonizzato su un canale dedicato della Nasa Tv, che trasmetteva in diversi momenti della giornata le immagini in diretta dalla ISS. In più la Nasa le aveva fornito un telefono speciale con il quale, a ore non sempre prevedibili, tuttavia almeno una volta al giorno, i familiari potevano parlarsi. Mentre eravamo lì arrivò una telefonata di Michael. Durò meno di 5 minuti, il tempo della copertura satellite, poi la linea fu tagliata. Per quel giorno finiva così: gioia e rassegnazione si mescolavano. Daria aveva anche la possibilità di un contatto e-mail col marito. Oggi i collegamenti e le possibilità di contatto sono sicuramente migliori. Un altro ideale contatto col padre e marito avveniva quando periodicamente la ISS sorvolava la Svizzera. Esiste un sito che indica esattamen-

te ora, posizione e tempo del possibile avvistamento della Stazione spaziale internazionale per cui, se il passaggio succede quando è buio e non ci sono nuvole, si può vedere il suo puntino brillante percorrere un arco nel cielo. Un appuntamento che Nicolas non perdeva, accompagnandolo da un sonoro «ciao papà» gridato dal terrazzo di casa. Torniamo ora alle scienziate di successo, rimaste a lungo nello spazio lasciando a casa il marito, partendo dalla moscovita Yelena Kondakova. Nel 1995-96 restò sulla stazione spaziale russa Mir per 169 giorni. Ingegnere di un’alta scuola tecnica, fu la prima donna in assoluto a fare un volo di lunga durata. Era sposata con l’astronauta Valeri Ryumin, allora in attività e di 18 anni più anziano. Ebbero una figlia. Diventata «Eroe della Federazione russa» Yelena Kondakova fu poi eletta nel Parlamento. Se l’avventura nello spazio è stata per lo più in mano agli uomini, soprattutto perché cominciò con astronauti e cosmonauti tutti militari, le poche donne riuscite a parteciparvi si sono spesso imposte all’attenzione mondiale. Fu il caso, per esempio, della francese Claudie Haigneré. Talento precocissimo: maturità conseguita a 15 anni, quinto anno di Medicina a 20. Come specialista in reumatologia e in fisiologia neurosensoriale, Haigneré lavorò per 6 anni in un ospedale parigino e come ricercatrice al Centre national de la recherche scientifique (Cnrs). Divenuta astronauta del Centro francese e in seguito dell’Agenzia spaziale europea, nel ’96 effettuò un primo volo di 16 giorni sulla stazione spaziale russa Mir. Due anni dopo seguì a Mosca l’istruzione completa per diplomarsi ingegnere di bordo. Con questa formazione sarebbe diventata nel 2001 la prima donna a salire sulla Stazione spaziale internazionale. Sposata e con una figlia, da ex-astronauta Haigneré entrò in po-

litica e nel 2002 ottenne la prestigiosa nomina di ministra della ricerca e tecnologia del governo francese, poi nel 2004 di delegata agli affari europei. Dal 2009 presiede La città delle scienze e dell’industria di Parigi. Per avere successo, l’impegno richiesto alle donne è sempre stato maggiore rispetto ai colleghi maschi. Nel giovane campo dell’astronautica, alla caccia di talenti di entrambi i sessi, l’Agenzia spaziale europea sta cercando di sottolineare i meriti femminili. Nel marzo dello scorso anno, in occasione della giornata della donna, ha segnalato al pubblico il nome di 5 donne che all’interno dell’Agenzia ricoprono ruoli importanti. Non è sempre stato così. Nel 2016, grazie a un film di successo tratto da un libro (Hidden Figures, nella titolazione italiana Il diritto di contare) tutti abbiamo scoperto che per mandare il primo americano in orbita e l’uomo sulla Luna la Nasa si avvalse dell’eccellente lavoro dietro le quinte di tre sconosciute donne di colore: Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson, tutte matematiche che lavoravano nel principale Centro di calcolo dell’Agenzia spaziale americana. Nel 1961 l’Unione Sovietica era riuscita a mandare il primo uomo nello spazio. Le tre donne ebbero un ruolo fondamentale nel riscatto americano: in particolare Johnson che, da sola e in tempi record, verificò e corresse i parametri di rientro per la capsula di John Glenn, in orbita nel 1962, che erano stati calcolati con il primo grande computer del Centro. Johnson avrebbe poi calcolato anche le traiettorie per le missioni lunari Apollo 11 e Apollo 13. Erano gli anni ’60 ma solo nel 2015, dopo l’uscita del libro che la ricordava, Katherine Johnson a 97 anni ottenne da Barack Obama una alta onorificenza e le venne intitolato un importante centro di ricerca della Nasa. È morta a quasi 102 anni nel 2020.

ma con open air, soprattutto in Svizzera, dove le manifestazioni musicali all’aperto non si contano ormai più, o meglio, non si contavano. I due anni di pandemia infatti si sono riverberati anche sui concerti sotto le stelle, spesso annullati o possibili solo in forma ridotta. Ma quest’anno le prospettive sembrano finalmente migliorate, e dunque anche i promotori dell’Open Air Monte Carasso, dopo due anni di immobilità forzata, hanno deciso di rimettere in moto la macchina organizzativa di un festival che sull’arco di tre giorni vedrà avvicendarsi band ticinesi, svizzere ed estere. L’appuntamento è da giovedì 16 a sabato 18 giugno (dalle 21 alle 3 di mattina), e a fare da cornice alla lunga serie di concerti che abbracceranno diversi generi musicali, sarà ancora una volta l’antico e suggestivo Convento delle Agostiniane di Monte Carasso, i cui spazi ospiteranno anche un’area dedicata allo street food (come ogni open air che si rispetti!). Nove le band della line up, di cui un terzo dal Canton Ticino, Monte Carasso rappresenta infatti una vetrina importante alle nostre latitudini, dove ci sono sempre meno palchi e occasioni di esibirsi dal vivo. Giovedì il ruolo di protagonisti sarà dei Pepper Dreams (Ti, folk pop), dei Death by Chocolate (Berna, alternative rock) e dei Pink Jelly Bean (Ti, hard rock). Si continuerà venerdì con Charlie Roe (Ti, indie pop), Velvet Two Stripes (San Gallo, garage rock) e i Gran Noir (ZH, rock). Durante la serata conclusiva si esibiranno i Tune Circus (D, alternative rock), i Mainfelt (Sud Tirolo, folk rock) e i Between A Moment (BE, rock). Concorso «Azione» mette in palio alcuni biglietti per l’Open Air Monte Carasso che andrà in scena dal 16 al 18 giugno 2022. Per partecipare al concorso inviare una mail con oggetto «Monte Carasso» all’indirizzo giochi@ azione.ch con i propri dati (nome, cognome, indirizzo, numero di telefono) entro le 24 di mercoledì 8 giugno 2022. Per info sull’evento: openairmontecarasso.ch In collaborazione con


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Navigando con il vento Ambiente

Non sono chimerici i viaggi ecosostenibili per salvaguardare i mari, come sta già avvenendo nelle isole dell’Egeo

Eliana Bernasconi

Per secoli la Grecia spostò merci nel Mediterraneo unicamente con le navi a vela collegando i continenti con scambi commerciali e culturali. È stato anche grazie alla direzione dei venti che sospingevano le navi e alla forza lavoro delle braccia dei rematori che l’uomo ha tracciato nei secoli la sua storia, esplorato gli oceani, conquistato nuovi continenti. Soltanto a fine Ottocento comparvero le prime imbarcazioni moto-meccaniche e le grandi navi si dotarono dei motori a vapore; terminava così l’epoca della navigazione a vela, per avviare l’utilizzo commerciale di navi sempre più grandi, con enormi container per migliaia di tonnellate di carico.

Come tutti, anche la Grecia iniziò ad approfittare della navigazione a motore, che porta tuttavia con sé uno strascico negativo. Per alimentare questi potenti motori servivano carburanti come petrolio e combustibili fossili, con la conseguente continua immissione di azoto e anidride carbonica che ha provocato danni ambientali difficilmente calcolabili, sconvolto gli equilibri dell’ecosistema marino, danneggiato la salute dei mari e l’aria che respiriamo. La sensibilità ambientale di questi ultimi decenni ha avviato però nuove tendenze. Scopriamo così che vi è ai nostri giorni chi si impegna con passione per mostrare come l’antico modo di navigare potrebbe tornare a rivivere, e come l’uso dei motori Diesel potrebbe essere ridotto e l’inquinamento dei mari fermato. Non si tratta solo di un’ambiziosa utopia, o di chi pratica la navigazione a vela per sport e passione. No, si tratta di un impegno preciso preso da parecchio tempo da appassionati che navigano nei laghi, nei fiumi, nell’Atlantico e nel Mediterraneo, usando unicamente energia eolica, con emissioni a impatto zero: un mare affrontato senza combustibili fossili è un sogno che non appare irrealizzabile. Viviamo oggi un momento magico per la storia della navigazione a vela, questa tipologia di trasporto marittimo è in grande espansione, è molto praticata ad esempio nelle isole del mar Egeo di cui qui ci occupiamo. Ne abbiamo parlato con il dottor Stavro Rantas, nato a Ikaria nel 1949, medico in Ticino per molti anni con studio a Chiasso e Caslano, che si dedica ora a tempo pieno a progetti sociali innovativi per la salute, il benessere e la longevità. Il dottor Rantas fa parte del comitato di un’orga-

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Un progetto ambizioso ma non impossibile che in futuro prevede la creazione di nuovi posti di lavoro per risanare l’ambiente grazie all’impatto zero di CO2 generato dalla barca a vela

nizzazione a sfondo sociale NoProfit (Aegean Cargo Sailing) che ha per scopo l’uso di mezzi di navigazione non inquinanti. «Il nostro scopo – spiega Rantas – è trasportare prodotti locali su barche a vela, per far rivivere una rete millenaria di rotte commerciali marittime. In tutto il mondo organizzazioni simili con nomi diversi trasportano merci tra la Costa atlantica e il nord Europa con velieri da carico senza motore: oggi cinque barche a vela di questo tipo, quattro tradizionali e una molto moderna, attraversano regolarmente anche l’Oceano Atlantico viaggiando esclusivamente a energia eolica lungo le coste europee, dalla Scandinavia al Portogallo. Sono venuto a contatto con Aegean Cargo Sailing» continua Rantas «grazie al felice incontro con il capitano Loucas Gourtsojannis, una

conoscenza per me importante e preziosa. Il capitano Loucas ha alle spalle un passato di ingegnere metallurgico e consulente di aziende innovative nella ricerca industriale in Belgio, ma nel 2010, a 54 anni, ha scoperto di voler vivere per sempre a contatto con il vento, il mare e le stelle, ha superato la paura di navigare in mari difficili e nel 2017, sulla sua barca a vela “Pelago”, ha intrapreso la prima spedizione attorno a sei isole dell’Egeo: Kea, Andros, Tinos, Mykonos, Ikaria, Samos. Da allora naviga in barca a vela tra queste isole in nome dell’energia pulita, diffondendo e scambiando prodotti ecologici senza scopo di lucro per valorizzare il lavoro degli abitanti e creare fra loro reti di scambio. Ha in tal modo pianificato il futuro e spera di poter vedere le nuove generazioni continuare le sue imprese».

Una delle barche a vela impiegate per il trasporto di genti e merci.

«Sempre tramite il capitano – continua Rantas – sono venuto a contatto con marinai ecologisti che da dieci anni utilizzano esclusivamente la forza del vento per viaggi in mare, anche in oceano Atlantico, e comandano piccole imbarcazioni in grado di raggiungere 18 isole del mar Egeo con un movimento circolare interno verso i porti del Mediterraneo, trasportando con la vela prodotti genuini locali da un’isola all’altra, (a volte si uniscono persone che desiderano trascorrere vacanze in barca a vela, lavorare con l’equipaggio, o avvicinarsi al modo di coltivare i terreni e di cucinare dei contadini, conoscendo da vicino la vita quotidiana degli abitanti delle isole, al di là dei consueti percorsi). Con questi viaggi si viene a creare fra le varie isole una rete di relazioni impossibili da realizzare nel passato, quando ogni singola isola poteva comunicare unicamente con la Grecia continentale tramite il grande porto del Pireo». Qualche anno fa per valorizzare i prodotti locali della sua isola, Rantas con altre persone ha creato a Ikaria una cellula locale di Slow Food, la comunità mondiale agricola e gastronomica diffusa in tutto il mondo, fondata nel 1987 da Carlo Petrini, (autore di libri come Voler bene alla terra o Terra futura, Giunti editore). Slow Food salvaguardia la biodiversità, raccoglie e cataloga i cibi a rischio di sparizione, ridà valore alla genuinità del gusto e al piacere perduto della lentezza, protegge i prodotti «Farm to Fork» (dal terreno al piatto). «Era inevitabile che proprio a Ikaria – prosegue Rantas – che è uno scalo principale di Aegean Cargo Sailing e ospita la cellula loca-

le di Slow Food, una piccola cooperativa agricola di donne che producono prodotti genuini, ci incontrassimo con il capitano Loucas e iniziassimo a collaborare in favore degli abitanti per contribuire alla conoscenza e alla diffusione dei loro squisiti prodotti». «Questi viaggi in barca a vela – continua ancora Rantas – hanno avuto luogo anche malgrado la pandemia. Come quando la barca Pelago, condotta sempre da Loucas, ha navigato da Ikaria al porto di La Spezia attraversando il canale di Corinto, Cefalonia, Calabria, Messina, Capri, Roma; recentemente è stato portato a termine un altro viaggio su una barca a vela di quindici metri; causa lavori in corso all’Istmo di Corinto la nave ha dovuto affrontare il giro del Peloponneso, ma con l’aiuto dei venti favorevoli è approdata felicemente al porto di La Spezia in soli dieci giorni. E un altro viaggio ancora è in preparazione». Tutte queste iniziative «rientrano nella così definita e in grande espansione Economia Blu Emergente o Blue-Economy, un progetto ambizioso ma non impossibile che in futuro prevede la creazione di nuovi posti di lavoro per risanare l’ambiente grazie all’impatto zero di CO2 che genera la barca a vela. Sono iniziative e progetti che ci stimolano a continuare per portare il nostro piccolo contributo al problema del cambiamento climatico e della biodiversità autoctona. Il dio Eolo – conclude Rantas ricordando con commozione e orgoglio suo nonno che nel lontano 1920 lavorava come trasportatore navigando a vela fra le varie isole – ci guarda e ci protegge». Annuncio pubblicitario

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SOCIETÀ

«Ur Bar», un monte che rivive

Territorio ◆ Il Monte Barro, tra Torricella e Sigirino, è stato oggetto negli ultimi anni di un importante intervento di recupero e valorizzazione premiato da proQuercus Elia Stampanoni

Sovrastato dalle più note cime del Monte Ferraro e con vista sul Tamaro o la regione del Lema, il Barro è un piccolo monte della valle del Vedeggio, situato tra Torricella e Sigirino. Un colle che si erge fino ai 650 metri d’altitudine e che si può raggiungere da entrambi i lati, salirci e ridiscendere, oppure anche girarci attorno. Da poco questo è più facile e anche più interessante, dato che nel 2018 è iniziato un progetto di valorizzazione, promosso dal Patriziato di Sigirino in collaborazione con quello di Torricella-Taverne, che ha permesso di salvare la zona, abbandonata per anni e ormai sopraffatta dall’avanzata del bosco. Il querceto esistente, particolarmente pregiato per la presenza di tutte e quattro le specie endemiche presenti in Svizzera, è stato recuperato e anche la vasta selva castanile ha ritrovato il suo splendore. Alle operazioni di dirado ed esbosco, sono poi seguiti ulteriori interventi volti a ridare vitalità all’intero comparto, in modo che torni a essere vissuto dalla popolazione, dal turista e anche dal settore agricolo. L’area è infatti già ora gestita da due allevatori locali, i quali la sfruttano con il loro bestiame, che trova foraggio sui pendii e sui terrazzamenti erbosi, nelle selve e nei pascoli boscati recuperati. Una sorta di ritorno al pas-

sato dato che, come dimostrano foto storiche e il ritrovamento di numerosi castagni e querce monumentali, l’area di progetto era già un tempo gestita «a selva» dagli agricoltori del luogo. Per agevolare l’uso a scopo turistico e di svago, i sentieri sono stati ripristinati, garantendo l’accessibilità a Ur Bar (come è spesso indicato sui cartelli segnaletici) sia da Sigirino, più precisamente dalla frazione di Osignano, sia da Torricella. Sul posto è inoltre pianificata, nel corso di quest’estate, la posa di un breve percorso didattico di circa 600 metri, incentrato sulla Quercia e che segnalerà le quattro specie esistenti così come alcuni esemplari degni di nota. Si creerà in tal modo una rete escursionistica circolare e verranno in aggiunta fornite interessanti informazioni relative al progetto, agli aspetti naturalistici e alle querce, tramite dei cartelli tematici disposti all’entrata del perimetro e in modo strategico lungo il percorso. Il tracciato andrà a toccare o avvicinare anche altri elementi naturali d’indubbio interesse, come i due biotopi creati nei paraggi, oppure la presenza di alcune particolari specie vegetali, tra le quali rientrano come detto le quattro specie di querce endemiche della Svizzera, ossia Farnia (Quercus robur), Rovere (Q. petraea), Roverella (Q. pubescens) e Cerro (Q.

La Genovésa sulle pendici del Monte Barro in territorio di Torricella. (E. Stampanoni)

cerris). Proprio questa peculiarità ha convinto nel 2020 l’associazione proQuercus a premiare il progetto del Patriziato di Sigirino che, come citato nella motivazione «mira a coniugare biodiversità, paesaggio, patrimonio culturale e turismo». Grazie al all’intervento di valorizzazione, proQuercus è convinta che sul Monte Barro possa essere conservata e rivalutata questa formazione forestale molto rara e preziosa, che qui si estende su una superficie di circa 10 ettari, su un totale di 67 ettari del monte.

Di vitale importanza per il buon esito del progetto è stata anche la possibilità di portare l’acqua in vetta, per dissetare sia i visitatori, sia gli animali. Già ora il colle è stato attrezzato con una fontana, alcuni tavoli e diverse panchine distribuite su tutta la superficie, in modo che sia possibile riposarsi ammirando il panorama al termine dell’ascesa, non lunga e difficile ma comunque impegnativa e da intraprendere con il dovuto equipaggiamento e un’adeguata preparazione.

Ai piedi del Monte Barro si trova un altro interessante luogo legato a un passato ancora più lontano. Scendendo verso Torricella lungo i sentieri sul versante a est, s’incontreranno delle deviazioni per il Castello di Taverne, una fortificazione di cui si hanno poche notizie, ma la cui nascita si fa risalire tra il 1300 e il 1400 (vedi «Azione» 47 del 2014). Un comparto che, dopo i primi interventi di salvaguardia e ripristino degli accessi, sta cercando un nuovo rilancio con un recente progetto di riqualifica, sempre sotto l’impulso dell’Associazione Castrum Tabernarum. Più contemporanei sono invece le costruzioni in zona «La Genovésa» a Torricella: si tratta di nove appariscenti arcate in sasso distribuite su due livelli e resistite all’abbandono. Come indicato in un articolo a cura di Giovanni Mariconda apparso sul «Corriere del Ticino» del 19 luglio 2017, si tratta di costruzioni risalenti alla fine del 19esimo secolo, edificate presumibilmente quali terrazzi da adibire a orto. La loro speciale forma è il frutto dell’abilità di alcuni uomini giunti dalla Liguria e impegnati nei lavori di elettrificazione della linea ferroviaria del San Gottardo. Artigiani che, per arrotondare, nei momenti liberi proponevano le loro abilità alla popolazione locale. Annuncio pubblicitario

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SOCIETÀ / RUBRICHE

Le parole dei figli

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di Simona Ravizza

Giudizio

«Mi stai giudicando!». L’accusa può rimbalzare contro mamme e papà già prima dell’ingresso nell’adolescenza: Enea, il mio bimbo di 8 anni, usa la frase come un’arma potentissima quando vuole farmi sentire in colpa per un’osservazione. Con la crescita può andare solo peggio. E spesso il giudizio è una Parola dei figli che, più che essere pronunciata, frulla nel cervello e fa male al cuore. È l’atteggiamento con cui bambini e Gen Z pensano che noi ci rapportiamo a loro. Può essere una semplice percezione, oppure una realtà opprimente. E siccome questa rubrica nasce per dare voce a loro, faccio un mini-sondaggio che si estende a compagni di scuola e amici di Clotilde, la mia quasi 14enne: che cosa scatena il pensiero di essere giudicati? Frasi come «non essere drammatico/a!» e «non esagerare!» le vivono

come uno sminuimento dei loro sentimenti: il giudizio che ci intravedono è che per noi i loro drammi sono di poco conto. «Ma sei stupido/a?» e sbotti simili li vedono come il tentativo di invalidare le loro opinioni. «Ma dove esci vestito/a così?» la considerano un’invasione di campo: vestirsi è anche una libertà espressiva, e ognuno ha il diritto a uno stile proprio: non esistono vestiti troppo eccentrici (o semplicemente orrendi), quello è il nostro modo di pensare e noi siamo di un’epoca diversa (quella dei boomer!). «Ti impegni troppo poco!» detto al momento di un brutto voto suona come una sottovalutazione delle loro difficoltà che va di pari passo con le nostre aspettative narcisistiche sul rendimento scolastico dei figli. E dietro domande come «Ma quanto mangi?» vedono un’ammissione da parte nostra (pericolosissima) sul loro

essere troppo grassi/e anche se non lo sono per nulla. La lista di esempi può continuare all’infinito. E sono convinta che per chiunque di noi genitori pronto ad autoassolversi («Io? Mai pensate/dette queste cose»), c’è un figlio pronto a smentirci. Non sei abbastanza oppure sei troppo: i figli patiscono le nostre aspettative deluse, ma anche un orgoglio eccessivo nei loro confronti. Dietro entrambi c’è in qualche modo il giudizio sul loro essere, uno sguardo che li può condizionare. Riflettiamo bene su cosa vuol dire giudicare la vita e le azioni degli altri: è l’affermazione del proprio modo di essere e di vedere il mondo che viene ritenuto migliore/giusto e sottende una critica più o meno esplicita a tutto ciò che non corrisponde alle nostre idee o ai nostri gusti. Non è difficile allora capire perché il giudizio, soprattutto rivolto

da genitore a figlio, può essere vissuto da chi lo riceve come un attacco. È qualcosa che fa sentire costantemente gli occhi addosso in modo inclemente o con troppe attese da soddisfare. Francesca Valla, insegnante di scuola primaria, counselor, scrittrice e formatrice in corsi di educazione genitoriale, esperta in diversi programmi tv e nota al grande pubblico come Tata Francesca, sul profilo Instagram @ tatafrancescav (oltre 64mila follower) supporta le famiglie: «Se vuoi conoscere veramente chi è tuo/a figlio/a non giudicarlo/a – scrive –. Solo così si sentirà libero/a di diventare sé stesso/a». Seguono 7 motivi sul perché è importante smettere di giudicare: il giudizio frena il dialogo, genera risentimento, rallenta la crescita individuale, mina l’autostima, soffoca i talenti, blocca la creatività e non lascia spazio all’autenticità.

Nel cartoon Red, produzione Disney e Pixar dello scorso febbraio (da non perdere!), la tredicenne Mei Lee combatte quotidianamente tra l’essere la figlia modello e obbediente di sua madre e il caos della propria giovinezza: la felicità arriverà quando finalmente la protagonista riuscirà a ribellarsi ai giudizi materni e ad affermare sé stessa senza più il timore di essere giudicata (rivendicando addirittura la sua libertà di essere un panda rosso). E la mamma a sua volta imparerà che se si vuole un rapporto trasparente e aperto con i figli non bisogna giudicare. All’obiezione che non può sempre andarci tutto bene (e ci mancherebbe!), le Parole dei figli ci ricordano che c’è modo e modo di dire le cose: provare a metterci nei loro panni ci può aiutare a essere meno giudicanti, liberi certo di esprimere le nostre ragioni ma senza imporre la nostra visione del mondo.

Terre Rare

di Alessandro Zanoli

L’influencer gioca per sé ◆

A distanza di dodici giorni dall’invito rivolto a Chiara Ferragni da Liliana Segre non sono state ancora segnalate risposte ufficiali della nota influencer italiana. Qualcuno dei nostri lettori avrà seguito la vicenda: il 19 maggio scorso, in occasione di una sua vista al Binario 21 di Milano (https://museobagattivalsecchi.org/binario-21/), il museo allestito alla stazione centrale di Milano per ricordare il luogo da cui sono stati deportati e indirizzati ai campi di sterminio centinaia di ebrei italiani, la Senatrice italiana Segre aveva espresso il desiderio che Ferragni e il marito Fedez visitassero il luogo della memoria e ne diffondessero la conoscenza tra i milioni dei loro «seguaci». La prima reazione alla proposta era stata proprio di quest’ultimo, che aveva invitato al contrario la Segre a partecipare al proprio video-podcast «Muschio

selvaggio». Segre ha declinato l’offerta. A lei interessa proprio vedere entrambi i coniugi al Binario 21, in modo da poter contare sulla loro presenza per diffondere la conoscenza di questo luogo e delle sue implicazioni storiche e sociali. Per combinazione, proprio in questi stessi giorni è apparso in libreria un interessante volume che potrebbe farci capire come andrà a finire la faccenda, ma, soprattutto, quali sono i meccanismi che regolano i rapporti tra influencer e l’ecosistema informativo che li circonda. Si tratta di una ricerca compiuta dal giornalista e direttore del quotidiano italiano «Domani», Stefano Feltri. Il suo Il partito degli influencer. Perché il potere dei social network è una sfida alla democrazia, edito da Einaudi, ci fornisce un approfonditissimo giro di orizzonte sul fenomeno e soprattutto cerca di individuare quei meccanismi nasco-

Approdi e derive

sti che non tutti gli utilizzatori di social conoscono. L’attenzione di Feltri vuole essere apparentemente di stimolo e di suggerimento anche ai legislatori, affinché siano più chiare per loro le zone grigie tra informazione e pubblicità, in cui gli influencer si muovono. L’analisi di Feltri è utilissima per tutti noi, perché vuole abituarci a riflettere perlomeno su una questione: il successo degli influencer si basa sulla loro capacità di farci percepire come «autentica» la loro presenza comunicativa. Pensiamo alle polemiche sorte in passato sulle prese di posizione di Fedez in materia di uguaglianza dei diritti: il rapper rivendicava la legittimità dei suoi attacchi all’establishment partitico. «Come libero cittadino posso dire quello che voglio» è il suo assunto principale. Proprio su questo dato punta la sua attenzione Feltri e ribadisce: gli influencer non

sono veramente liberi di dire quello che vogliono, fanno volutamente del loro discorso un veicolo di propaganda unilaterale, condizionato dai loro contratti di sponsorizzazione. Analizzando nel dettaglio da questo punto di vista alcune delle attività dei Ferragnez e di altre conosciute personalità nel mondo dei social (quali Estetica Cinica o Giulia De Lellis) Feltri mette in luce un’attività in cui proprio l’autenticità delle scelte è perlomeno dubbia. Il grande numero di seguaci raggiunto dagli influencer è la loro dote e il lavoro più grosso è quello di mantenere la posizione di preminenza, cercando di non scontentare i fan, e di non scalfire il «capitale di persuasione» che fa gola ai loro sponsor economici. «Quante persone del mio seguito mi criticheranno se accetterò l’invito?»: la domanda così pazzescamente cinica è proprio quella che, probabil-

mente, si sta ponendo la simpatica imprenditrice milanese (a cui il marito è sembrato correre in aiuto con un’offerta apparentemente compensatoria ma, vista da un altro punto di vista, in grado di smuovere vivacemente a suo vantaggio i contatori di visualizzazioni del suo podcast). Per tornare al saggio del giornalista italiano, la sua riflessione si muove un passo più in là: «Finché questi influencer con milioni di follower si dedicano soltanto a promuovere marchi di moda o cosmetici, i rischi sono contenuti, ma più si avvicinano alla politica o a temi sensibili, maggiori sono le conseguenze dello squilibrio di influenza». Il suggerimento di Feltri è che la legislazione cominci a considerare il modo in cui regolare certe dinamiche mediatiche. Possono muovere l’opinione pubblica in direzioni nuove e inaspettate: Capitol Hill insegna…

di Lina Bertola

Saper ascoltare

Capita a volte di rimanere perplessi anche di fronte a un bel ragionamento. Ne riconosciamo la correttezza, la logica stringente, ma in qualche modo non riusciamo a capirlo, o meglio non lo sentiamo come nostro. Capisco, diciamo a noi stessi, ma non riesco a comprendere. In questi momenti il nostro bisogno di comprensione, ovvero di riconoscere il senso, ci trasporta in un’esperienza diversa: è come se ci venisse incontro un altro vissuto della realtà. Sono potenti incursioni del sentire dentro un modo di ragionare che cerca invece di tenerlo sempre sotto controllo. Perché nessuna esperienza sensibile deve sporcare la purezza e l’ordine del pensiero, minacciarla con il disordine e il caos di sentimenti incontrollabili. Questo bisogno di controllare i sentimenti è stato la forza ma anche la grande fragilità della razionalità occidentale che oggi mostra i suoi limiti nella comprensione della complessità. Ep-

pure non sono pochi i filosofi che si sono accorti di questi limiti. Ad esempio, quel «cuore che ha le sue ragioni che la ragione non conosce», finito malauguratamente sulla carta di un rinomato cioccolatino, e diventato poi una frase fatta da sfoderare in momenti particolari, in realtà rimanda alle riflessioni contenute nei Pensieri del filosofo del Seicento Blaise Pascal. Il cuore di cui parla Pascal non evoca forme di sentimentalismo contrapposte al ragionamento; al contrario indica un’altra possibilità della conoscenza, una forma di conoscenza intuitiva in cui si esprime con forza la passione per la verità. Dunque ascoltare il cuore, suggerisce Pascal è una forma preziosa di conoscenza, e aggiungo più in generale: preziosa forma di conoscenza è anche ascoltare il corpo che siamo, ascoltare l’intrecciarsi delle emozioni, accogliendone il profondo valore cognitivo. Le parole non sono mai neutre: che cosa ci dicono quando identificano il bi-

sogno di sentire con il saper ascoltare? Che cosa mostrano le parole ascolto, ascoltare, nel dar voce all’esperienza sensibile della vita? Mostrano che il linguaggio, nel nostro entrare in contatto con il mondo, riconosce al senso dell’udito una chiara priorità rispetto agli altri sensi, come la vista o l’olfatto. Il linguaggio conserva e richiama alla memoria ragioni ataviche che abbiamo dimenticato. Oggi infatti, nonostante ciò che le parole continuano a suggerire, non dedichiamo abbastanza attenzione all’ascolto, forma inaugurale dell’esperienza: un’esperienza che comincia con la vita stessa e con i suoni percepiti nel ventre materno. L’esperienza acustica, l’ascolto, è forma originaria, primordiale, di conoscenza del mondo. Ne Il mondo nell’orecchio, un bel saggio dedicato alla musica e alle sue origini, Ramon Andrés esplora l’incontro del nostro mondo interiore con i suoni, un incontro con sé stessi che esprime un

profondo significato, ben prima che i suoni diventino musica. Il suono ci crea come individualità, sostiene il filosofo, la musica come parte della collettività. Il suono è elemento sensoriale determinante nella formazione della coscienza. Udire, ascoltare è percepire, e percepire porta a pensare: una lunga storia di culture orali ha attraversato la profondità del tempo La nostra cultura, fin dalle sue origini greche, all’orecchio ha tuttavia preferito l’occhio: all’ascolto, la vista. In Platone la vista è potente metafora della conoscenza: nel mito della caverna, che racconta il viaggio dell’anima verso la conoscenza, gli occhi sono i protagonisti di una ascesa faticosa e dolorosa verso la verità. Fa male agli occhi la visione diretta del sole. Si tratta di un vedere metafisico, di una visione finale del bene da parte dell’anima, liberata dalle catene del corpo. In Aristotele invece la vista acquista tutta la fisicità di un’esperienza sensi-

bile. L’uomo è per natura proteso alla conoscenza e lo dimostra il piacere dei sensi e innanzitutto il piacere provocato della vista. Il mondo negli occhi dunque? Forse sì, benché in realtà il richiamo all’orecchio persista: per dire che non abbiamo capito spesso diciamo che non abbiamo sentito bene. Con un salto di duemila anni arriviamo alla nostra civiltà dell’immagine che esaspera ma insieme tradisce la potenza del vedere. Vedere, non va dimenticato, vuol dire avere un’idea. Molto spesso solo guardiamo aspettando di essere guardati. E dell’ascoltare come intima esperienza del mondo che cosa ne abbiamo fatto? L’abbiamo certamente coltivata attraverso il piacere che ci offre la musica. Ma il suono originario, quello dell’incontro con noi stessi, facciamo fatica a sentirlo e ad ascoltarlo. L’orecchio non sa ospitare il mondo, non il vento, non il corpo, non il suono della parola dell’altro, con la sua verità.


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Still life, ovvero la natura morta in uno scatto Fotografia ◆ Posto agli antipodi rispetto alla street photography, in questo genere ci si approccia alle cose del mondo meditandoci anche a lungo

Pixabay.com

Che cosa meglio dell’espressione Still life (traducibile con vita in stato di quiete) può indicarci uno degli aspetti tra i più rilevanti della fotografia? Naturalmente, lo stesso discorso vale anche quando, per denominare questo genere, utilizziamo l’italiano Natura morta. Addomesticare la realtà fermando la vita nell’istante dello scatto rappresenta difatti una prerogativa del fare fotografico, forse il movente primo che portò alla scoperta e allo sviluppo di questa tecnologia. Che la natura morta, assieme alla fotografia di paesaggio, divenisse uno dei generi più diffusi all’inizio della storia della fotografia era quasi inevitabile se consideriamo quanto lunghi erano a quel momento i tempi di posa, tempi che impedivano di cogliere con l’apparecchio fotografico la vita nel suo farsi. Ma vi è anche da considerare che per molti anni la fotografia, dai suoi albori, si rapportò alla pittura con ossequiosa deferenza, adottandone i soggetti e imitandone il trattamento. Attraverso questo agire mimetico – dai risultati pregni dei simboli e delle metafore presenti in certa pittura ottocentesca – il fotografo voleva attestare il potenziale artistico insito nella fotografia. Asserzione che però veniva perlopiù respinta dai pittori a causa della sua meccanicità nel produrre immagini registrando il dato reale. Fu solo dal primo Novecento che la fotografia si emancipò da questo procedere subalterno e si affermò come linguaggio a sé, dotato di sue specifiche caratteristiche estetiche. E trovò nuovi soggetti e spazi di ricerca. Tutti i suoi ambiti operativi vennero investiti da tale cambiamento. Tra questi anche il genere dello Still life, che si liberò da quel trito simbolismo, per accostarsi alla più stretta e immediata realtà. Va comunque detto che il mondo dell’arte nel suo complesso visse proprio in quel medesimo periodo una grande rivoluzione, cosa di cui la fotografia, oltre a esserne partecipe – talvolta come motore stesso del cambiamento – beneficiò largamente, venendo finalmente riconosciuta per il suo specifico valore e accettata fra le altre arti. Fatta questa premessa storica – che ci serve per meglio inquadrare lo stato attuale della nostra amata pratica –, vediamo cosa implica affrontare lo Still life. Va detto, dapprima, che questo genere di fotografia richiede una certa naturale propensione al lavoro riflessivo, misurato, di costruzione passo a passo dell’immagine. Di certo possiamo porlo agli antipodi rispetto alla street photography (v. «Azione» dell’ 11 aprile 2022) – dove tutto accade in un solo preciso istante.

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Stefano Spinelli

All’aspetto narrativo, dinamico, di storia in divenire, che caratterizza la fotografia di strada, lo Still life contrappone una dimensione più astratta, contemplativa, in sospensione, dove l’occhio e la mente tendono a trascendere il dato visivo immediato. L’oggetto immobile, protagonista dell’immagine, acquista vita e valore nel suo rapporto con la luce e lo spazio in cui s’immerge, quando questi sono risolti in giusta maniera. L’oggetto rappresentato non importa dunque tanto di per sé – banale o pregiato che sia – ma come elemento parte di questo gioco dialettico che

lo porterà a esser colto diversamente da come di solito, nella nostra quotidiana condizione, lo percepiamo. Svincolandosi dalla consueta rappresentazione trasmetterà altre risonanze, tra pensiero e sentimento. Partendo da queste considerazioni, possiamo capire quanto sia utile e interessante applicarci a questo genere di fotografia, che potremmo per tanti versi paragonare al processo di scrittura. Una natura morta non è la semplice e cruda descrizione di uno o più oggetti. È semmai il senso che, coadiuvato dalle conoscenze tecniche, è andato a prender forma e a in-

sinuarsi nelle immagini lungo il percorso della loro gestazione. Saranno dunque prodotti significati frutto di varie possibili riflessioni: di ordine estetico, sentimentale, filosofico, anche politico… Come per la scrittura – pensando in particolare a quella poetica –, questo processo creativo ammette l’errore e la sua rettifica, all’azione intercala la riflessione, toglie, aggiunge e lima, il tutto in un tempo dilatato, dove il punto di arrivo si manifesterà all’improvviso, inaspettatamente: l’immagine è lì, vive infine di vita propria. Potremmo quasi considerare questo processo come una sorta di meditazione, certamente poco consona allo spirito del nostro tempo, dove tutto deve accadere – e si spegne – nell’immediato. La natura morta è di sicuro un’utilissima palestra in cui esercitarsi all’uso delle luci (naturali o artificiali che siano, a dipendenza delle nostre abilità e di quanto abbiamo a nostra disposizione), per imparare a cogliere le loro qualità, le sensazioni che suscitano, la loro capacità di evidenziare aspetti della materia, di plasmare forme e infondere atmosfera, di accentuare o svelare o rendere vago ciò che viene porto allo sguardo dell’osservatore. Raramente la luce è neutrale, indifferente. Semmai connota, anche

quando a questo cerca di sfuggire. Nel dialogo col soggetto, la luce – essa stessa elevata a soggetto – determina in modo fondamentale l’immagine, è parte in causa nel far riuscire o fallire una fotografia. Teniamolo ben a mente. Sarà allora importante stabilire la giusta – efficace e interessante – disposizione tra gli oggetti e la luce, spostando gli uni o l’altra rispetto al nostro punto di vista, affinché il risultato abbia un impatto emotivo e di significato degno di esser visto. Questo genere ci permette inoltre, non da ultimo, di esercitarci nella composizione, spingendoci a ricercare e sperimentare le soluzioni più consone rispetto a ciò che vogliamo comunicare con quanto abbiamo scelto di fotografare. Non è poco. È anzi una difficile sfida a cui v’invito a partecipare, almeno al fine – diciamolo in guisa di conclusione – di farci meglio capire quanto la fotografia non sia semplicemente uno strumento di cattura e descrizione della realtà ma soprattutto un mezzo con cui incarnare e riprodurre, attraverso quella cattura, i nostri stati mentali e affettivi. Le fotografie che non riescono a comunicare ciò, altro non sono che documenti. Spesso, carta destinata a sbiadire (o, visto che oggi quasi più nessuno stampa, nient’altro che un accumulo d’inutili pixel).


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TEMPO LIBERO

Tehuantepec, un matriarcato nella terra dei machos Reportage

Capitale morale sotto il predominio della donna, è unica in America Latina insieme alla vicina e rivale Juchitàn

Enrico Martino, testo e foto

«Mi vestido soy yo». «Il mio vestito sono io» affermava dall’alto della sua irraggiungibile alterità Frida Kahlo (pittrice di Città del Messico, 19071954) avvolta dalle volute di un sigaro delicado che fumava tra lo scandalo dei benpensanti. La sua leggendaria maniera di autorappresentarsi indossando scenografici vestiti da indigena zapoteca contribuì a collocarla in uno spazio atemporale e remoto che folgorava ammiratori locali e intellettuali europei. Il poeta surrealista francese André Breton la descrisse come «vestita con ali dorate da farfalla», ma dietro la scelta di Frida c’era il Messico appena uscito dalla prima grande rivoluzione del secolo scorso, faticosamente in cerca di una nuova identità, e nulla era più perfetto delle zapoteche dell’istmo di Tehuantepec, a sud di Oaxaca, con i loro vestiti che sembravano nuvole di colori e associavano Frida a indigeni e oppressi, icone dell’intellighentia messicana di quegli anni.

Ballando tra di loro: «Noi siamo le eredi delle nostre antenate, sono loro che ci danno il diritto di organizzare queste feste e portare questi costumi» Il mito delle tehuanas nasce verso la metà dell’Ottocento, alimentato da artisti, avventurieri e speculatori che avevano attraversato l’istmo quando era uno dei punti di passaggio tra i due oceani, prima della costruzione del Canale di Panama. «Le giovani tehuanas mi apparvero divine», scriveva nel 1844 il giovane avventuriero francese Mathieu de Fossey, «e poiché vivono sotto un cielo infuocato, sono egualmente appassionate nel piacere». Archetipo di un Messico antico e leggendario, negli anni Venti del secolo scorso l’universo femminile delle tehuanas attirò artisti e intellettuali verso un paradiso tropicale che trasudava sensualità e libertà. Tra loro non poteva mancare il pittore Diego Rivera che le celebrò nei suoi murales favoleggiando una società matriarcale di amazzoni che regnavano sovrane su uomini sottomessi. Le imprese messicane regalavano calendari con avvenenti ragazze vestite da tehuanas, il Banco de Mexico le immortalò in un popolare biglietto da dieci pesos e il regista sovietico Eisenstein dedicò a loro un capitolo di Que Viva Mexico intitolato alla canzone che è il vero inno nazionale di Tehuantepec, La Zandunga. La suona

ogni giorno che Dio manda sulla Terra l’orologio del municipio di Tehuantepec, una cittadina dello stato di Oaxaca di cui si dice che ha due stazioni, la del tren y la del calor per le sue strade liquefatte dal sole, capitale morale di un matriarcato unico in America Latina insieme alla vicina e rivale Juchitàn. Sono ancora oggi tanti i miti che circondano le istmeñas, che nella cultura popolare hanno trasformato in «zimbello del machismo nazionale» la metà del cielo maschile dell’istmo. Il più diffuso è quello che gli uomini devono chiedere i soldi alle donne, seguono quelli su un fascino assassino che fa stramazzare ai loro piedi un uomo con il solo sguardo, o sulla sensualità dei loro balli che riduce in trance qualunque maschio dei dintorni. In realtà dietro il matriarcato zapoteco c’è la tradizione indigena in cui gli uomini lavoravano i campi e le donne si dedicavano al commercio maneggiando il denaro e guadagnandosi una certa indipendenza. Non hanno certo bisogno di ostentarla perché per vestirsi da tehuana bisogna sentirsi tehuana, dice chi le conosce. Il vestito diventa una seconda pelle, basta guardarle quando arrivano a centinaia per celebrare una delle innumerevoli Velas, le feste che scandiscono le notti languidamente tropicali dell’istmo, annunciate dai tre razzi-petardi di rigore. Ogni capo famiglia si presenta con una cassa di birra, partecipazione simbolica e collettiva all’evento, ma quando la banda attacca il primo son istmeño le tehuanas trasformano la pista da ballo in un magico giardino colorato, e ogni movimento in una sfilata. «Noi siamo le eredi delle nostre antenate, sono loro che ci danno il diritto di organizzare queste feste e portare questi costumi» commentano orgogliosamente durante la celebrazione della Vela El Calvario di Juchitàn, mentre le più voluminose si muovono come transatlantici che manovrano in porto, perché la tehuana segue un ideale di bellezza opposto a quello occidentale e la corpulenza, simbolo di ricchezza e salute, non solo non viene nascosta ma accentuata. Ballano spesso tra loro, nonne con nipoti, sorelle con sorelle, e le ampie gonne contribuiscono a creare l’immagine di un grande cono che trasmette stabilità e fermezza e gli uomini, spesso seduti a guardare, appaiono esili e fragili. Quando la notte diventa profonda però le immagini un po’ sacrali di Eisenstein svaniscono in un ribollire di ritmi tropicali sparati a volumi inve-

Le tehuanas sono l’archetipo di un Messico antico e leggendario, e anche nello svolgimento dei festeggiamenti, ballano molto tra loro mentre gli uomini restano seduti a guardare.

«Regada de Frutas», processione lungo le vie del paese.

rosimili. Vanno avanti così per notti e giorni interi, altro che rave e «popolo della notte», ingurgitando quantità inimmaginabili di ogni bevanda alcolica umanamente concepibile, insensibili anche alle prediche del padrecito, il parroco che si aggrappa persino alle antiche feste zapoteche per scongiurare l’inevitabile sbronza collettiva che chiude ogni vela degna di questo nome. Quando sorge il sole iniziano bizantine diatribe sul vestito da indos-

sare nella prossima vela, «oggi molte ragazze sono attratte da altre cose e trovano qualche scusa per non indossarlo, o non se lo possono permettere, però metterselo è un piacere che una sente dentro, è qualcosa che si apprende da bambina» spiega la ricamatrice Eresma Carrastro. Per capirlo bisogna riuscire a introdursi in uno dei sancta sanctorum dove le mayordomas che dirigono le feste vengono trasformate in madonne ricoperte di stoffe e collane

cariche di ghinee inglesi d’oro del diciannovesimo secolo. Vestiti che possono costare più di diecimila euro canonizzati da doña Cata, al secolo Juana Catalina Romero, famosa benefattrice e amante ufficiosa del dittatore Porfirio Diaz, che per andarla a trovare comodamente aveva fatto passare la ferrovia davanti alla sua casa. Nel frattempo, ci sono state la rivoluzione messicana, due guerre mondiali e la globalizzazione, ma le tehuanas continuano a sudare disperatamente sotto gli huipiles grandes, le cappe che incorniciano il volto con scenografiche pieghe simili a grandi raggi bianchi, convivendo felicemente con le Intrepidas, transessuali e omosessuali che, lungi dall’essere discriminati, insieme a uomini e donne rappresentano il terzo elemento della società zapoteca. Immagini che sembrano un sogno mentre le note di una Zandunga si spengono nel silenzio dell’alba. Solo fino a quando un’altra banda annuncerà la prossima vela. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica


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MONDO MIGROS

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La Pepsi è stata ideata nel 1893 da Caleb Bradham, un farmacista di New Bern, USA, che mise a punto la ricetta mescolando estratto di noce di cola, vaniglia e oli rari. La bibita fu lanciata con il nome di «Brad’s Drink» e solo in un secondo tempo fu ribattezzata Pepsi Cola.

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L’allevamento della vite ai piè del monte Bacco Giramondo

Continua il viaggio vitivinicolo nelle regioni d’Italia entrando in punta di piedi in Piemonte

Davide Comoli

La corona di vallate protette dalle vette delle Alpi, che lo circondano, dà il nome al Piemonte che letteralmente significa proprio «ai piedi del monte»; non c’è termine migliore per rappresentare la morfologia di questa regione. Infatti il perimetro della regione è contornato per i tre quarti (sud, nord, ovest), da montagne (Alpi e Appennino Ligure) che proteggono il territorio favorendo un clima freddo, temperato e continentale. Con ancora maggior precisione possiamo dire che le montagne occupano il 43,3% del territorio, la pianura il 26,4% e le colline il 30,3%. Ed è proprio sulle colline che si è sviluppata la viticoltura piemontese, dove la vite s’insedia sui versanti a sud, est e ovest e lascia le altre colture sul lato nord. In collina la vite condivide forme di allevamento basse (guyot e cordone speronato), mentre le forme alte sono poco diffuse e concentrate localmente (Erbaluce di Caluso e altre aree del nord come la Val d’Ossola). Con inverni lunghi e freddi, estati siccitose e percettibili escursioni termiche tra la notte e il giorno, ogni zona del Piemonte ha peculiarità diverse relative a precipitazioni e temperature. Con questa variabilità, l’uomo nel corso dei secoli ha saputo sviluppare accurate selezioni dei vitigni più adatti alle varie aree, applicando specifici metodi di coltivazione. Un esempio di come il terreno, il clima e il vitigno, grazie all’opera dell’uomo possono produrre vini dalle diverse caratteristiche è dato dal Nebbiolo che occupa circa il 14% del vigneto piemontese. Oltre a essere la base dei più aristocratici vini del Piemonte, il Nebbiolo è forse il più antico vitigno a bacca rossa della regione, con molta probabilità conosciuto prima ancora dei Romani dalle antiche popolazioni Liguri. Nella Langa il Nebbiolo allevato su dei terreni compatti e marnosi, ricchi di argilla e gesso, dove le escursioni termiche sono meno accentuate, dona

Panorama dei vigneti della Conca di Vezzolano, conca che si estende sui comuni di Albugnano, Moncucco Torinese e Castelnuovo Don Bosco, in provincia di Asti. (Castelnuovodonbosco)

vini molto complessi, dai tannini ben presenti e profumi intensi. Al di là del fiume Tanaro, nel vicino Roero, dove abbiamo l’indice più basso di piogge della regione e terreni sabbiosi di basso fondale, i vini ottenuti da questo vitigno non necessitano di lunghi invecchiamenti. Per questo si possono gustare vini di precoce bevibilità, dai profumi molto accentuati. Mentre il Nebbiolo coltivato nelle zone di Novara, Vercelli, Biella (chiamato in loco con nomi diversi), su terreni acidi e ricchi di minerali, dà origine a vini molto sapidi e con una buona finezza olfattiva. Il vigneto piemontese si estende per circa 50mila ettari, di cui oltre il 60% della produzione di vini (circa 2’600’000 ettolitri) è ottenuta soprattutto da uve rosse di monovitigno. Ma la ricchezza di questa regione, in cui i vini internazionali coprono circa il 6 % della produzione, è data dalla grande quantità di vitigni autoctoni coltivati, che ancora oggi costituiscono per

l’appunto la gran parte della produzione regionale, in questa terra dove ben radicate sono le tradizioni. Molti di questi (che assaggeremo visitando le zone vitivinicole) sono vitigni semi-sconosciuti che devono la loro riscoperta all’impegno e alla tenacia di alcuni viticoltori. In Piemonte si produce vino in tutte le province, che possono essere suddivise in sei aree: l’Alto Piemonte, l’area pedemontana tra Saluzzo e Torino, il Monferrato Astigiano, l’Alto Monferrato, il Roero e le Langhe. Il vitigno più diffuso è la Barbera: da quest’uva derivano i vini rossi per antonomasia del Piemonte. Il secondo vitigno per diffusione (il terzo è il Nebbiolo del quale abbiamo già parlato) è il Dolcetto, che determina una decina di denominazioni: Alba, Diano d’Alba, Dogliani, Acqui, Asti, Ovada, Langhe Monregalesi, dei Colli Tortonesi, del Monferrato, Langhe. Tra i vitigni a bacca bianca nell’Astigiano troviamo il Moscato, che ol-

tre a essere il vino dolce spumante più famoso al mondo, si vinifica anche non spumantizzato e in vendemmie tardive. Per gli amanti del turismo enogastronomico ecco qualche indicazione per andare alla scoperta di vini, magari un po’ rudi e austeri, da gustare senza fretta, aspettando che lentamente nel bicchiere rivelino la loro anima. Per coloro che conoscono a memoria i vari sentori dei vini più noti, consigliamo di visitare l’ampia zona pedemontana, a volte montana, che si estende tra Pinerolo e Saluzzo e tocca le montagne ai confini della Francia: siamo sulle pendici montane delle valli Chisone, Germanasca e Val Pellice. In queste valli – dove Nebbiolo, Bonarda, Freisa, Dolcetto, Barbera, alle volte insieme, danno origine a vini rossi e rosati – la viticoltura è praticata da secoli. La particolare storia che ha segnato queste valli (definite le Valli Valdesi), ha creato una straordinaria

varietà di vitigni e un eccezionale patrimonio ampelografico, che rischiava di andare perso dopo l’invasione fillosserica. Oggi, grazie al riaffermato desiderio di tutelare la singolarità della viticoltura locale, alcuni appassionati enologi e viticoltori locali si stanno impegnando nel recupero degli storici vitigni di queste valli. Andare quindi a provare vini le cui radici vanno così in profondità nella storia è uno stimolo per ogni amante della sacra bevanda. L’occasione ci è stata data a Pinerolo, dove abbiamo degustato, accompagnati dai pregiati prodotti caseari locali (stupendi il seirass – ricotta piemontese – profumato al timo serpillo e il plaisentif, vale a dire il formaggio delle viole), il rosso Ramié – che prevede l’utilizzo dei vitigni Avané, Avarengo, Neretto e Plassa – un vino fruttato, leggero e fresco, e il Doux d’Henry, prodotto in circa 4500 bottiglie a vendemmia, dagli intensi profumi di mora e ciliegie che sfumano nel dolce; è l’ideale compagno per un piatto di salumi. Coltivato sulle colline intorno a Saluzzo, il Quagliano è invece un vino dal colore rosso tenue, con note di viola, dal sapore dolce e dai sentori di fragole; ideale se abbinato a una crostata di frutti di bosco. Da Pinerolo raggiungiamo la A5 in direzione delle colline moreniche del Canavese, un po’ più a nord troviamo il Carema, un Nebbiolo allevato a pergola e che può invecchiare per decenni. Fuori da San Giorgio Canavese, e passato Caluso, arriviamo sul piccolo lago di Candia, dove ci fermeremo per la notte. Siamo nella patria dell’Erbaluce; in autunno i grappoli di questo vitigno si accendono di riflessi ramati, leggermente rosati, con i quali si producono intriganti Spumanti, un Bianco fermo che abbiamo abbinato a una frittura di lago, ma soprattutto un Passito molto complesso, nel quale senza vergogna abbiamo a fine pasto intinto i famosi torcèt prodotti nella vicina Agliè.

Arriva l’estate con la lagerstroemia

Mondoverde ◆ Chiamata anche lillà delle Indie, il suo colore contiene molte «sfumature di rosso», dal rosa al viola, a dipendenza della varietà Anita Negretti

Quando i primi fiori a forma di pannocchia cominciano a schiudersi è ormai luglio, la stagione calda è nel suo massimo splendore e molte piante sono già sfiorite, ma non lei, la lagerstroemia, che aspetta proprio il solleone per decorare aiuole, viali e vasi. Originario della Cina, questo arbusto, spesso coltivato ad alberello, appartiene alla famiglia delle Lythraceae e da molti anni viene coltivato anche al sud d’Europa per via delle sue esigenze minime e della fioritura appariscente. Il fogliame verde scuro appare in tarda primavera, negli ultimi giorni di aprile, dopo aver lasciato ben in vista la corteccia color cannella di tronco e rami, per tutta la stagione invernale. Il periodo migliore per metterla a dimora è l’autunno, ma io vi consiglio di attendere i primi di luglio, per accertarvi dell’effettivo colore della lagerstroemia che state acquistando. Vi sono infatti molte varietà con tonalità molto simili tra loro e per andare a

colpo sicuro, meglio accertarsi di persona del colore. Queste belle piante, chiamate anche lillà delle Indie, possono esser coltivate sia in piena terra sia in vaso, con un terriccio ricco di humus e una annaffiatura abbondante almeno una volta alla settimana, specie per le piante in vaso, garantendo così una fioritura continua per l’estate. In marzo e ottobre si interviene con una concimazione. In questo senso è da preferire quella con stallatico o con concime granulare a lenta cessione. Sempre a inizio primavera, tra febbraio e i primi giorni di marzo, si deve intervenire con una potatura forte: i rami che hanno fiorito l’estate precedente si accorciano di due terzi, secondo la loro lunghezza, lasciando solo uno-due speroni dalle ramificazioni principali e togliendo in ogni caso quelle eccessivamente fini. Questa tecnica stimola la formazione di nuove gemme fiorali, inoltre così facendo verranno tolti i polloni e

Lagerstroemia speciosa. (MarvinBikolano)

i succhioni lungo il tronco principale delle lagerstroemie allevate ad alberello. Si può decidere anche di lasciarla crescere a forma libera, con un portamento ad arbusto: se non potata, avrà una chioma un poco disor-

dinata e fiori più piccoli, ma ugualmente belli. Coltivata in pieno sole e all’aria, si scongiura il problema dell’attacco di oidio, un antiestetico fungo che crea una patina grigiastra sulle foglie e che

viene trattato alla sua comparsa con prodotti a base di zolfo. La scelta della varietà è chiaramente soggettiva, ma se volete differenziarvi dalle classiche bianche e rosa, vi consiglio di cercare la Lagerstroemia «Petit Red», una varietà dal portamento tondeggiante, con pannocchie rosse e con uno sviluppo ridotto, ideale da utilizzare in vaso, visto che da adulta la sua altezza massima si assesta sul metro e cinquanta centimetri. Vi è addirittura la versione più piccola, la «Nana Petit Red», che con i suoi ottanta centimetri diventa un arbusto da bordura, da inserire in aiuole sotto alle fronde di alberi più alti. La varietà «Dynamite» ha anch’essa fiori rossi ed è arrivata sul mercato da pochi anni, è originaria del nord America dove è stata ibridata: ha pannocchie numerose, lunghe fino a venti centimetri rosso carminio vivo, raggiunge l’altezza di quattro-cinque metri, ed è ideale per giardini di piccole e medie dimensioni.


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Decora la tua festa Crea con noi

Un bricolage adatto ai bambini che si divertiranno a creare delle semplici e coloratissime ghirlande

Giovanna Grimaldi Leoni

Piatti e bicchieri in carta della collezione Cucina & Tavola in vendita nel reparto casalinghi del vostro supermercato Migros, diventano i protagonisti di una festa piena di allegria. Vediamo come trasformarli in coloratissime ghirlande decorative, in un bricolage per bambini e come utilizzarli per un’attività da fare tutti insieme all’aperto. Procedimento Prendete i piatti tinta unita. Con un ago praticate dei fori distanti circa 1 cm tra loro lungo tutto il perimetro.

ottenuti sul fondo del bicchiere/centro del fiore e anche qui come visto in precedenza fate passare del filo di cotone praticando dei fori lungo la circonferenza. Stampate il cartamodello della farfalla (lo trovate su www.azione.ch) se potete direttamente su cartoncino colorato. Ritagliate la sagoma della farfalla e incollatevi al centro il piatto «tessuto». Dal piatto più grande color arcobaleno intagliate la corolla di un fiore. Sovrapponete un piatto tinta unita e al centro aggiungete un fiore fatto coi bicchieri o altri elementi che la vostra fantasia vi suggerisce. Praticate un foro a tutte le decorazioni create in modo da poterle appendere. Naturalmente le farfalle con un piatto non tessuto al centro sono perfette anche da portare in tavola per servire gli alimenti. Tagliate i tovaglioli in 4, quindi tagliate ogni quadrato ottenuto in due. Eliminate i 2 veli bianchi interni del tovagliolo mantenendo solo la parte colorata, quindi piegate le strisce a fisarmonica e annodatele al centro per creare delle farfalline. Fate passare un filo nel nodo centrale e create una ghirlanda.

Con l’ago da maglia e del cotone tessete l’interno passando tra i fori. Ora create dei fiori utilizzando i bicchieri. Tagliate da principio il bordo, quindi praticate dei tagli con le forbici a circa 2 cm l’uno dall’altro che dalla sommità del bicchiere vanno fino a 1cm dal fondo. Con le forbici arrotondate la sommità di ogni petalo quindi capovolgete il bicchiere che si aprirà come una corolla. Appoggiate il fondo di un bicchiere su un cartoncino colorato e con la matita tracciate il contorno. Tagliate restando un paio di mm più interni dalla riga tracciata. Incollate i tondi

L’indimenticabile Vittorio de Sica non si chiamava solo Vittorio. Trova gli altri suoi nomi leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 8, 9, 7, 6)

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ORIZZONTALI 1. Quesiti 7. Preposizione francese 8. Negazione tedesca 9. Unitamente 11. Nel riso e nella crusca 12. Furiosa 15. Poste, situate 16. Divide i piani di un edificio 20. Persone benestanti 22. Le iniziali dell’attore Sperandeo 23. Veloce senza vele 25. Un ciclo di stagioni

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VERTICALI 1. Risoluzione, deliberazione 2. Si accoppiano alla gloria 3. Un anno a Parigi 4. La magia delle streghe 5. Prefisso che indica separazione 6. Nelle vernici e nel pennello

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10. Venuta al mondo 13. Si usa in cucina 14. Conosciuti 16. Affluente della Vistola 17. Articolo 18. Nome dell’autore de «Il Barone rampante» 19. Introduce un chiarimento 21. Desinenza di diminutivo femminile 24. Preposizione 26. Isola dell’Adriatico 28. Simbolo chimico del Radon 30. Le iniziali del regista Scola

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26. Nobili etiopi 27. Regola, precetto 29. Tutt’altro che immaginari 31. Una consonante 32. Lisbona... a Lisbona

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

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non approfittarne per un bel gioco in natura? Raccogliete qualche fiore e decorate la vostra farfalla facendo passare gli steli tra i fili. La vostra farfalla diventerà profumatissima. Buon divertimento!

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Sudoku

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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

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• Cartoncini colorati • Piatti colorati tinta unita e arcobaleno • Bicchieri tinta unita e arcobaleno • Tovaglioli arcobaleno • Pistola colla a caldo • Filati, pom pom • Forbici

Idea in più Queste farfalle variopinte sono perfette per andare alla ricerca di piccoli fiori su cui posarsi… perché

Giochi e passatempi Cruciverba

Materiale

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Soluzione della settimana precedente OSSERVANDO IL CAMALEONTE – Il camaleonte ha la capacità di muovere… Resto della frase: …CIASCUN OCCHIO IN AUTONOMIA.

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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TEMPO LIBERO / RUBRICHE

Viaggiatori d’Occidente

di Claudio Visentin

I ragazzi dell’Europa

Interrail compie cinquant’anni. Il primo cliente svizzero fu Jürg Streuli. Nel 1972, partendo da Zurigo, attraversa tutta la DDR in ferrovia sino a Berlino ovest. A Sassnitz, cittadina sul Baltico, il treno s’imbarca sul traghetto per andare in Svezia, sbarcando a Malmö (all’epoca non c’era ancora il ponte che unisce la Danimarca alla Svezia). Dopo una tappa a Stoccolma, Jürg risale la Norvegia sino a Narvik, sopra il Circolo polare artico. È il 1972 e il mondo è sospeso tra passato e futuro. Un sergente dell’esercito giapponese, Shōichi Yokoi, viene ritrovato nella foresta dell’isola di Guam, dove stava nascosto dalla fine della Seconda guerra mondiale. In quello stesso anno Bill Gates e Paul Allen fondano il primo nucleo di Microsoft. Il 1972 è anche l’anno di Interrail. Ai giovani sotto i ventun anni viene proposto per la prima volta un biglietto aperto a un prezzo estre-

mamente conveniente. Per intere settimane si può andare dove si vuole, senza limiti di itinerario o di distanza. È il regalo perfetto per il diploma di scuola superiore; il giorno dopo l’esame si parte alla scoperta dell’Europa, zaino in spalla, dormendo in treno o in qualche ostello di periferia dove il costo è proporzionale alla pulizia. Si possono visitare ventuno Paesi, molto diversi tra loro: accanto alle democrazie occidentali nella lista ci sono anche la Spagna di Francisco Franco, il Portogallo di Marcelo Caetano, la Jugoslavia di Tito, la Grecia dei colonnelli, persino Polonia e Ungheria, nonostante appartengano al Patto di Varsavia. L’adozione della moneta unica (1999) e la soppressione dei controlli alle frontiere (introdotta dal 1985 al 1999) sono ancora lontani nel tempo e per intanto la creazione di un senso comune europeo è affidata ai giovani viaggiatori.

La proposta piace. Dieci anni dopo, nel 1982, si vendono già quasi trecentomila pass. La caduta del Muro di Berlino (1989) lascia intravedere un’ulteriore apertura ai viaggi, invece comincia un tempo nuovo. Dal 1987 il programma Erasmus incoraggia gli studenti universitari a svolgere all’estero una parte dei propri studi, ma non sarà il treno a trasportarli. Nel 1991 viene fondata Ryanair, nel 1995 EasyJet; e i numeri decollano nel 1997 con la liberalizzazione del settore aereo voluta dalla Commissione europea. Grazie alle compagnie low cost, lo spazio vitale dei giovani si allarga all’intero continente e, da un giorno all’altro, Interrail sembra solo un ricordo ricorrente nei racconti di gioventù dei genitori. Ma anche nel tempo del suo declino Interrail continua a trasformarsi. Dal 1998 scompaiono definitivamente i limiti di età e anche

gli adulti possono accedere a questa offerta. Nel 2021 i giovani sono stati ancora il 64% dei viaggiatori, mentre il restante 36% era composto da adulti (maggiori di 27 anni) o anziani (ai quali è riservato uno sconto del 10%). E tra le diverse opzioni compare ora anche la prima classe. Ma niente è per sempre. Negli ultimi anni, Interrail è tornato prepotentemente di moda. Il treno piace e nel tempo del cambiamento climatico è un’alternativa decisamente più sostenibile rispetto all’aereo. Nel 2019 sono stati venduti quasi quattrocentomila pass, portando il totale storico a oltre dieci milioni. Le altre novità? Il vecchio biglietto cartaceo, compilato a mano, è stato sostituito da una app, Rail Planner: la formula preferita è quella che permette di viaggiare per sette giorni in un mese a poco più di duecentocinquanta euro. Ci si scambia consigli online (community.eurail.

com) e più ampiamente la tecnologia ha risolto molti dei problemi pratici di un tempo: cambiare valuta, trovare l’ostello o un supermercato. Nel 2022 si può viaggiare in trentatré Paesi. Dopo una fugace apparizione del Marocco, si sono stabilmente aggiunte la Turchia, la Bulgaria e le Repubbliche baltiche. Anche il Regno Unito ha preferito restare nell’accordo, scongiurando la train-exit inizialmente prevista per il primo gennaio 2020. Del resto questa è la forza del turismo: cambia al mutare della società e le riscoperte – Interrail appunto, o magari le crociere – si affiancano efficacemente alle novità in senso stretto. Del resto «tutto ciò che è stato dimenticato è nuovo», dice un proverbio russo… A proposito, so cosa vi state chiedendo. La risposta è no: Russia e Ucraina sono rimaste fuori da Interrail, anche da prima della guerra.

Passeggiate svizzere

di Oliver Scharpf

Il parc du Désert a Losanna ◆

Il viaggio, anche solo per trovare un parchetto ai margini di Losanna la cui attrazione-faro è un canale in stile olandese unico in Svizzera, mi toglie da uno stato di torpore mentale legato alla stanzialità. La testa, troppo spesso sulle nuvole, si riattiva, lo sguardo sul mondo si rischiara, l’animo torna in pista. In place de la Riponne prendo l’ottantasette, il cui capolinea (Désert) anacoretico scritto sul bus in alto attraverso i diodi a emissione luminosa, è la mia meta. È nel 1782 che questo posto, raggiunto in un quarto d’ora neanche, prende il nome di Désert. Desiderio di Louis-Arnold Juste de Constant de Rebecque (1726-1812), colonnello di un reggimento svizzero al servizio dell’Olanda e papà di Benjamin Constant (1767-1830): l’inventore del romanzo psicologico. Alcuni giardini ricercati, appena fuori dalle città, per via della moda del momento che

ne enfatizza l’allontanarsi dal mondo, vengono chiamati Hermitage, Solitude o proprio Désert. Come il Désert de Retz, giardino illuminista creato tra il 1777 e il 1785 fuori Parigi da cui il colonnello probabilmente trae il nome e dove ancora oggi, a ventitré chilometri dalla Tour Eiffel, tra le varie folies architettoniche, si può ammirare una straordinaria tenda dei tartari. All’ombra di un maestoso tiglio in fiore, al parc du Désert (570 m) a Losanna, la folie architettonica che mi accoglie e non finisce di stupire è un pollaio neogotico. Opera di Alexandre Perregaux (1749-1808), architetto noto anche come autore di scatole in tartaruga e superbe sculture in avorio miniaturizzate al punto che a occhio nudo non si vedono certi dettagli. Risalente al 1806 e restaurato a regola d’arte anni fa, seguo la superficie illusionistica della torretta neogotica – la

Sport in Azione

prima, dicono, nella regione, di una serie provocata da una forte corrente romantica-malinconica – che riproduce dipinti, i mattoni in cotto. Le finestre trompe-l’œil con ringhiera a losanghe, completano questa follia architettonica unica al mondo. L’erba alta non disturba, anzi. Peccato però non ci siano le galline ad animare questo fantastico pollaio neogotico. Non lontana, rialzata rispetto al resto, parte la prospettiva del viale ombreggiato da tigli con panchine verdi, di legno, a onda, dove mi siedo. Un cagnone zoppicante, un po’ spelacchiato, di nome Oural, come le montagne russe, viene a trovarmi. Anche la sua migliore amica è claudicante: una signora che passeggia incerta, assieme al suo vecchio labrador, sotto i tigli, piano piano, verso il punto di fuga. La magia del canale – forse anche perché sono capitato, per caso, nel periodo di fioritura delle nin-

fee – agisce fin dai primi passi in cui, parallelo al viale alberato, lo si scorge poco più in basso. In asse con la villa del colonnello color rosa oleandro, ex squat storico (1991-2016) e oggi Maison de quartier per attività tipo yoga kundalini, salsa e jass, il canale spalanca una prospettiva super inusuale. Il canale all’olandese – lungo centotrentadue metri e largo quasi sei, alimentato da un ruscello e una sorgente nel boschetto che sale sulla collina molassica – si racconta sia stato costruito per alleviare la nostalgia di casa della moglie del colonnello Louis-Arnold Juste de Constant de Rebecque. Ma la moglie, Henriette, morta di parto dando alla luce Benjamin Constant, non era olandese, perciò sarà stata la sua di nostalgia per quando era a capo del suo reggimento in Olanda. O un capriccio tanto per, così, per sport. Incredibile come uno specchio d’ac-

qua così inconsueto, passeggiandoci a fianco, un pomeriggio ai primi di giugno, possa rallegrare lo spirito. Oltre a una marea di ninfee incantevoli, splendidi iris blu senza nome e qua e là l’estroso giallo dei gigli di palude. Il gracidare delle rane è il tocco finale allo scorcio bucolico, tra palazzoni di periferia. Al confine con Prilly, anche grazie allo stato brado dell’erba alta e altri accorgimenti di selvaticità che amo, qui si mette ora in scena uno scorcio di campagna per spiriti contemplativi che percorrono senza fretta il canale. Un tempo tenuta di campagna vera dove gironzolava, da bambino, Benjamin Constant. Autore di Adolphe (1816): romanzo dove con lo stratagemma del manoscritto di uno sconosciuto trovato in un albergo di Cosenza, in piena libertà, scavando con profondità psicologica nei personaggi, si racconta la decomposizione di un amore.

di Giancarlo Dionisio

L’eterna incompiuta chiede risposte ◆

Le statistiche decretano che il nostro campionato di hockey su ghiaccio è il più seguito dal pubblico dopo la National Hockey League. Che gli stadi di Berna e Zurigo sono i più frequentati e che anche le altre piste non sono messe male. Vorrà pur dire qualcosa! Significa quantomeno che il pubblico apprezza lo spettacolo offerto dai nostri giocatori. L’intensità della serie finale tra Zugo e Zurigo ne è l’emblema più alto e più limpido. Insomma è un campionato in grado di fornire qualità alla Nazionale rossocrociata. Aggiungiamo che il selezionatore Patrick Fischer, ai recenti Mondiali in Finlandia, ha potuto beneficiare anche del contributo di sei big provenienti dalla NHL come capitan Nico Hischier e come Timo Meier. Mettiamoci anche la voglia furibonda di dimenticare la deludente spedizione olimpica dello scorso inverno a Pechino. Ecco che, mai come

quest’anno, aspettative e appetito sono stati così smisurati. Sia all’interno della squadra, sia fra i fans. Sembrava l’anno fatato. Tutto stava procedendo come nel migliore dei mondi possibile. Dominio del girone con sette successi in altrettante partite. Carattere, tenacia, temperamento, furore alle stelle hanno consentito di ribaltare sfide che in altre circostanze sarebbero sfuggite di mano. Su tutte quella contro il Canada, con i Nordamericani ridimensionati a livello di una selezione di seconda fascia. Qualità e velocità di gioco sono stati costantemente degni di una grande squadra. Eppure, al primo scontro diretto, di fronte agli Stati Uniti, nei quarti di finale, i ragazzi di «Fischi» si sono arenati. È un verdetto che brucia proprio perché c’era la consapevolezza che la Nazionale elvetica avesse i mezzi per intraprendere un percorso lungo, fino

alla finale. A botta calda, giocatori, tecnici e commentatori hanno puntato il dito su una serie di episodi sfortunati che avrebbero condizionato l’esito della sfida che ha decretato l’eliminazione della Svizzera. È un refrain che riecheggia spesso. C’è da chiedersi perché gli episodi si accaniscano quasi sempre contro di noi. Sono invece convinto che sia soprattutto una questione di cultura hockeistica, di abitudine a lottare a livelli così alti. In Finlandia mancava la Russia, per ovvie ragioni. Alle semifinali sono comunque approdati quattro colossi: i padroni di casa, campioni olimpici in carica, la Repubblica Ceca, Gli Stati Uniti e il Canada. Quest’ultimo protagonista di una prodigiosa rimonta nei quarti di finale contro un’altra grande, la Svezia. A chi fosse sfuggito l’evento diciamo che la finalissima di domenica scorsa ha visto la Finlandia imporsi ai supple-

mentari sul Canada. È stata una sfida vibrante. Tentare di essere ammessi a questa tavola reale è più che legittimo. La Svizzera ci era riuscita nel 2018, quando i rossocrociati erano giunti a un’unghia dal titolo mondiale. Pretendere però che ciò sia la regola mi pare velleitario. Siamo forti, stiamo crescendo, a piccoli passi ci stiamo avvicinando ai vertici dell’hockey mondiale, ma manca ancora qualcosa. Ho apprezzato la nostra Nazionale. L’ho vista esprimere un gioco di ottima qualità, veloce, intenso, fantasioso, efficace. Anche in occasione della sconfitta decisiva. E allora, perché Hischier e compagni la finale se la sono vista dal divano di casa? Forse è per una pura e semplice congiunzione astrale. Alcuni commentatori hanno sostenuto che se avessimo giocato al meglio delle sette partite la sfida contro gli USA saremmo approdati alle semifinali. Ma quella sera avrem-

mo potuto tirare in porta fino a notte fonda, che il disco non sarebbe entrato nella gabbia del portiere americano. Io sono portato a credere che, come spesso accade nello sport, siano gli aspetti mentali a decretare successi e insuccessi. I ragazzi di Patrick Fischer, pur restando umili e con le lame sul ghiaccio, dovranno accrescere ulteriormente la consapevolezza di essere un team molto forte. Una squadra che ha poco o nulla da invidiare alle sei big dell’hockey mondiale. Che può scendere in pista a giocarsela contro qualsiasi avversario. Sarebbe fantastico farsi trovare pronti per il Mondiale del 2026 che si giocherà sul ghiaccio di casa. Ma le premesse affinché il colpaccio possa accadere anche prima di quelle data, sono tutt’altro che trascurabili. L’uscita di scena ha suscitato rabbia e delusione, ma non ha cancellato quanto di buono è stato fatto in questi ultimi anni.


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ATTUALITÀ ●

Un embargo parziale Nel sesto pacchetto di sanzioni, lo stop al petrolio russo, ma solo parziale e solo dall’anno prossimo

La Francia al voto Persa la corsa alla presidenza, il leader della sinistra Mélenchon aspira a diventare primo ministro

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La Disneyland del terrorismo In barba agli accordi con gli USA, l’Afghanistan accoglie di nuovo estremisti di ogni genere

La fiscalità non è tutto Secondo uno studio del CS, spesso nei cantoni fiscalmente più attrattivi la vita costa di più

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Quell’America che esalta le armi

Stati Uniti ◆ La strage in una scuola elementare di Uvalde nel Texas, costata la vita a 21 persone, è solo l’ultimo episodio, ma il fatto che le vittime siano bambini ha riacceso il dibattito in una nazione in cui convivono due anime opposte Federico Rampini

Il presidente degli Stati Uniti è quasi un cittadino inerme come me, quando si tratta di contrastare la diffusione delle armi in America. Dopo la strage di bambini in una scuola elementare del Texas il copione si ripete. Ogni tragedia viene seguita da un coro di appelli che vengono dalla maggioranza, per leggi più severe sulle armi. Una minoranza cospicua con potere di veto si oppone, sostiene che il problema sono gli esseri umani che le usano, non le armi. Al Congresso mancano i voti per riforme radicali; tra i 50 Stati Usa quelli governati dalla sinistra che hanno già norme restrittive le inaspriscono, gli altri no. Sembriamo condannati a girare in tondo, malgrado un bilancio crescente di sangue e di dolore? Uno degli ostacoli invocati è il Secondo Emendamento alla Costituzione che stabilisce il diritto alle armi. Nacque dopo la lotta d’indipendenza dal colonialismo britannico: due secoli e mezzo fa. Visto che gli Stati Uniti non avevano un esercito regolare bisognava contare su delle milizie partigiane (esercito popolare fatto di volontari) e autorizzarle a tenersi i fucili in casa. Relazione con la realtà di oggi: zero. Peraltro lo stesso Emendamento stabilisce che quel diritto va «regolato» per legge, dunque nulla osta a mettere robuste barriere. La lobby delle armi usa questi precedenti storici per promuovere un’ideologia diversa e molto contemporanea. Bisogna leggersi i proclami dei veri estremisti delle armi. Non dipingono affatto un Far West dove lo Stato è assente e quindi bisogna difendersi da soli contro i criminali. I veri ideologhi della destra ce l’hanno con uno Stato che secondo loro è troppo vicino, incombente, minaccioso. Uno Stato dove i burocrati federali sono pronti a entrare nelle loro case e portargli via le armi. Per impedirgli di resistere a difesa delle loro libertà. Io di armi non ne possiedo. In molti me lo chiedono: dopo 22 anni che abito in America, ed essendo anche diventato un cittadino degli Stati Uniti, tanti miei amici danno per scontato che anch’io «faccio come tutti gli americani». No, non tutti gli americani hanno pistole o fucili in casa, o nel cruscotto dell’automobile. Le statistiche dicono che una maggioranza di noi non possiede armi. Anche questa è una verità impor-

tante. Ci sono zone degli Stati Uniti, per esempio la città dove ho vissuto e quella dove vivo, San Francisco e New York, dove le leggi sulle armi sono simili a quelle europee. È difficile comprarle, è vietato girare armati, e anche per tenerle in casa bisogna avere dei permessi speciali. Chi abita in queste città di solito approva queste leggi più severe. Esiste anche una realtà dissonante e scomoda: una cultura delle armi che non ha niente a che vedere con i suprematisti bianchi, l’estrema destra, Trump. Ci sono afroamericani che vogliono un fucile carico a portata di mano perché sul marciapiede di fronte a casa loro le gang spadroneggiano. È il fenomeno della violenza «black on black» – tra neri o anche tra ispanici – responsabile di una strage quasi invisibile perché i media non vogliono evocarla. Ci sono donne che vogliono il porto d’armi, e frequentano il poligono di tiro per addestrarsi a sparare, perché nel quartiere dove abitano temono le aggressioni. A New York nel 2022 si è insediato un nuovo sindaco, Eric Adams, che per vent’anni lavorò nella polizia. Lo hanno eletto soprattutto gli abitanti dei quartieri meno ricchi della città (Bronx, Brooklyn, Queens, Staten Island) dopo un biennio di recrudescenza della criminalità violenta. La cultura delle armi che ha messo radici profonde nelle bande giovanili black e ispaniche, esaltata dai rapper, è stata uno dei primi bersagli di Adams. Il sindaco ha lanciato una campagna per sequestrare armi tra quei giovani; ha proposto leggi ancora più severe. Ma non basta che le norme siano restrittive a New York: chi vuole un’arma la trova al mercato nero, o la ruba, o va a comprarla in uno Stato vicino dove la legislazione è lassista. A New York come a Chicago, Oakland, ogni anno abbiamo una lunga scia di «morti per caso», a volte bambini uccisi da una raffica sparata al vento, troppo vicini a una faida tra gang, o parenti di qualche pregiudicato. La strage del Texas è avvenuta quasi dieci anni dopo un’altra ecatombe in una scuola elementare: Sandy Hook. Un episodio eccezionale per l’epilogo, che apre qualche speranza. Nel 2022 Sandy Hook è stata la prima sparatoria a costare cara all’industria delle armi. La Remington, produttrice del fucile Bushmaster AR-15 con

Dopo la strage, alla Robb elementary school di Uvalde restano fiori e il ricordo indelebile di un atto assurdo. (Keystone)

cui il ventenne Lanza fece il massacro dei bambini nel 2012, è stata condannata da un tribunale del Connecticut a versare 73 milioni di dollari ai genitori di alcune vittime. Si è trattato della più costosa condanna di un fabbricante di armi per una sparatoria di massa. I legali dei genitori di Sandy Hook sono riusciti a dimostrare che il produttore del fucile aveva violato una legge sulla protezione del consumatore nello Stato del Connecticut: facendo pubblicità tra i minorenni a un’arma che non possono acquistare. La vittoria in tribunale all’inizio del 2022 venne salutata come una potenziale svolta nella campagna per rendere l’America un po’ meno armata e un po’ meno pericolosa. Bisogna essere cauti, però. La strategia che consiste nell’attaccare l’industria delle armi sul terreno economico, s’ispira al precedente delle mega-cause giudiziarie contro Big Tobacco, per far pa-

gare ai produttori di sigarette i danni del cancro ai polmoni. L’idea è attraente ma ha dei limiti. Guardiamo al caso concreto. La marca di fucili Bushmaster al momento della strage era di proprietà di un celebre fondo d’investimento speculativo, Cerberus Capital Management. Cerberus aveva fuso tra loro diverse marche di armi, usando il nome più «prestigioso» che è quello della Remington, come azienda capogruppo. Dopo la strage di Sandy Hook la Remington ha fatto bancarotta ben due volte, e c’è chi sospetta che i fallimenti a ripetizione siano serviti ad allungare i processi nonché a ridurre il capitale disponibile per i risarcimenti. Infine, il verdetto sui 73 milioni di indennizzi che conseguenze ha, esattamente? A pagare quella somma non è la Remington-Bushmaster, sono le quattro compagnie assicurative dell’azienda ormai defunta. Il danno è sfuggente.

C’è chi spera però che la strategia economica possa avere un seguito. Si ricorda un precedente in un altro business. Negli anni ’60 e ’70 i dirottamenti di aerei erano frequenti negli Stati Uniti, per motivi politici o richieste di riscatto. Erano considerati un costo inevitabile per la libertà di volare. La prospettiva di introdurre controlli e metal detector negli aeroporti era giudicata un costo insostenibile dalle compagnie aeree, timorose che i passeggeri sarebbero spariti pur di non subire simili disagi. Ci volle la minaccia di un gruppo di dirottatori di schiantarsi su un deposito nucleare, e l’incubo dell’indennizzo che la compagnia aerea avrebbe dovuto versare, a far voltare pagina: i metal-detector divennero ubiqui (anche se non bastarono a impedire l’11 settembre). Molti stanno cercando il punto debole del business delle armi, per costringerlo a voltare pagina.


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ATTUALITÀ

Embargo parziale sul petrolio russo

Guerra in Ucraina ◆ L’Unione europea ha approvato il sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia, ma è stata costretta dal recalcitrante premier ungherese Orban a rinviare all’anno prossimo la rinuncia al greggio russo e solo per due terzi Paola Peduzzi

L’Unione europea ha approvato il sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia e per la prima volta è riuscita a trovare un’intesa sull’embargo petrolifero, così come per la prima volta le divisioni tra i paesi europei si sono viste in modo nitido. Il tempo che passa e il costo della guerra che cresce ha ridimensionato lo slancio solidale nei confronti dell’Ucraina che c’era agli inizi. Se poi la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, non avesse annunciato questo embargo un mese fa alzando di moltissimo le aspettative e proiettando un fascio di luce su questa misura sanzionatoria e sulla conseguente lentezza, probabilmente ora noteremmo di meno le crepe nell’iniziativa collettiva europea. E certo, se l’Ungheria di Viktor Orban non si fosse, come sempre, messa di mezzo con l’ennesima operazione di sabotaggio (e seguente «trollaggio») delle misure europee, l’accordo sul sesto pacchetto sarebbe stato raggiunto più in fretta e sarebbe stato più corposo. Ma queste fragilità non devono cancellare il fatto che, per l’Europa, restiamo comunque in un momento straordinario.

Dopo aver rallentato il negoziato, Viktor Orban ha alzato la posta e ottenuto di escludere gli oleodotti dall’embargo Il sesto pacchetto di sanzioni copre più dei due terzi delle importazioni petrolifere dalla Russia, tagliando così un’enorme (la principale) fonte di finanziamento per la macchina da guerra di Vladimir Putin. L’embargo entrerà in vigore tra sei mesi (che è un tempo lungo), con l’eccezione degli oleodotti, che valgono appunto per un terzo delle importazioni, e tutte le discussioni sul divieto per le navi europee di trasportare greggio russo non hanno portato a nulla; anche il divieto di fornire assicurazioni e altri servizi alle petroliere che trasportano petrolio russo sarà applicato tra sei mesi. Nel pacchetto ci sono le sanzioni contro i trust, l’esclusione dal sistema di pagamenti internazionali Swift di Sberbank e altre due banche, il divieto per tre emittenti televisive di proprietà dello Stato russo di trasmettere in territorio europeo e

Viktor Orban e Emmanuel Macron su due fronti opposti, al vertice Ue sulle sanzioni contro la Russia. Sotto, un dettaglio dell’oleodotto russo Druzbha, che resterà aperto anche in futuro. (Keystone)

più di altri cento oligarchi, funzionari e militari nella lista nera europea. Orban è tornato a Budapest con il massimo risultato. Dopo aver rallentato il negoziato e posto più volte il veto costringendo gli altri paesi a elaborare esenzioni su esenzioni, il premier ungherese ha alzato di nuovo la posta: non si è accontentato né di avere due anni in più a disposizione per applicare l’embargo né della promessa di centinaia di milioni di euro per ristrutturare le sue infrastrutture energetiche. Così Orban ha ottenuto

un’esenzione totale di fatto e, con tutta probabilità, permanente: l’esclusione degli oleodotti dall’embargo. Questa esclusione ha più di un effetto. Per esempio: l’oleodotto Druzhba ha due ramificazioni, una che va verso l’Ungheria, la Slovacchia e la Repubblica ceca, ma un’altra che va verso la Polonia e la Germania, e quindi questo avrebbe un impatto anche sul governo tedesco, che è il più riluttante nei confronti dell’embargo, non tanto sul farlo (vuole farlo) ma su quando farlo. In più alcuni paesi temono che l’Un-

gheria possa rivendere carburante prodotto con il petrolio russo a basso costo facendo concorrenza (sleale) al resto dell’Unione, costretta a comprare il petrolio a prezzi più alti. L’ostilità di Orban non è affatto a costo zero né confinata in Ungheria. E non soltanto perché il premier ungherese appena rientrato a Budapest ha ironizzato sulla debolezza europea e sulla sua forza, ma anche perché l’eccezione cambia gli equilibri dentro l’Ue, creando una distorsione sul mercato e nella politica. Tant’è vero che secondo alcune fonti, Bruxelles sta già correndo ai ripari: se l’Ungheria non accettasse di estendere prossimamente l’embargo agli oleodotti, si potrebbero imporre dei dazi sul petrolio russo – basterebbe un voto a maggioranza. E comunque gli aiuti promessi su gasdotti e raffinerie devono passare dal Pnrr ungherese, che però è ancora bloccato: c’è tempo fino alla fine dell’anno, ma Budapest rischia, se non si apre ad alcune concessioni, di perdere i fondi sulle sue infrastrutture energetiche e pure i 7,2 miliardi di euro del Recovery fund. Le crepe, insomma, sono molto visibili. Poi c’è l’eccezionalità. L’editorialista americano Thomas Friedman ha scritto sul «New York Times» che,

arrivando in Europa, ha capito molte cose che, pur stando negli Stati Uniti molto battaglieri, non aveva capito: l’urgenza di difendersi, la capacità di trasformarsi velocemente per adattarsi a una nuova, pericolosissima sfida. Friedman cita la Germania, che per noi europei è un freno a tratti incomprensibile – il cancelliere Olaf Scholz ha una retorica molto potente di condanna alla Russia e di solidarietà all’Ucraina cui però segue una cautela quasi cinica quando si tratta di prendere contromisure efficaci ma costose – e che invece vista da fuori appare come un paese che aveva fatto del disarmo la propria caratteristica ma che oggi s’è incamminata sulla sua più grande e operativa riforma delle sue forze militari. Friedman cita anche la Finlandia e la Svezia, che non avevano alcuna intenzione di uscire dal proprio status di neutralità e che ora vanno di fretta con la loro adesione alla Nato. Se in America il sentirsi sotto attacco suona come un espediente retorico, in Europa è invece una realtà, e questo ha reso di nuovo la politica europea eccezionale. E anche pronta a non accusarsi troppo a vicenda, cioè a compensare le diversità in modo più costruttivo. La premier estone Kaja Kallas, che guida un paese che ha costruito la propria indipendenza energetica dalla Russia in soli tre mesi e che mostra con convogli quotidiani di aiuti il proprio sostegno all’Ucraina, ha detto in sostanza: meglio questo che niente. Meglio non litigare troppo e trovare un accordo rapidamente che poi, esausti, non riuscire a fare nulla. L’obiettivo è insistere, non vacillare troppo, non mostrare fuori le fragilità interne, non offrire a Putin quel che va cercando dall’inizio della sua guerra: un punto di rottura su cui fare leva per spaccare il fronte occidentale. La Russia sta già guadagnando sul campo di battaglia quel che finora non aveva ancora ottenuto, l’Europa non vuole darle altri vantaggi. E questo, pur con gli acciacchi, i lividi, le ondate di pessimismo che ci prendono quando realizziamo che un embargo petrolifero previsto per il 2023 significa che ci mancano almeno altri sei mesi di guerra – pur con la paura dei prezzi che stanno esplodendo e delle razzie russe che privano tutto il mondo di risorse indispensabili, questo resta eccezionale. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

Ora la sinistra punta alla coabitazione

Francia ◆ Dopo aver perso le presidenziali, Jean-Luc Mélenchon spera di ottenere con la sua coalizione la maggioranza in parlamento e di imporre al presidente Macron una politica più di sinistra Marzio Rigonalli

Per la terza volta in due mesi, i francesi tornano alle urne. Questa volta si tratta di eleggere, in due turni, i 577 deputati dell’Assemblea nazionale. Il primo turno si svolgerà il 12 giugno, il secondo una settimana dopo, il 19 giugno. I candidati a un seggio parlamentare sono ben 6293. Un numero che attesta un certo interesse e una forte competizione. Per essere eletto al primo turno bisogna ottenere la maggioranza assoluta dei voti espressi nella circoscrizione elettorale del candidato. Le elezioni legislative sono importanti per il futuro del paese. Permettono di definire i futuri equilibri politici. In particolare, consentono di vedere se il presidente avrà una maggioranza parlamentare sufficiente per poter realizzare il suo programma, oppure se sarà costretto a convivere con una maggioranza che non gli è politicamente favorevole, e se così dovrà dar inizio ad una sorta di coabitazione. Permetteranno anche di precisare la forza della futura opposizione parlamentare e le sue eventuali divisioni.

In una campagna a bassa intensità, le proiezioni danno per ora un leggero vantaggio ai partiti che sostengono Macron La campagna elettorale ha perso parte dell’intensità che aveva in vista dei due turni delle presidenziali. Gli scontri verbali fra i tenori della politica francese si sono fatti rari, così come le loro presenze televisive, i loro discorsi e la loro partecipazione ai comizi. Il presidente Macron si espri-

Jean-Luc Mélenchon è riuscito a formare una coalizione fra comunisti, socialisti e verdi, tutti pesantemente battuti alle presidenziali. (Keystone)

me sulle questioni internazionali, ma lascia trapelare ben poco sugli orientamenti che vuol dare al suo secondo mandato sui temi che sono maggiormente d’attualità, ossia il potere d’acquisto, l’inflazione, l’educazione, la salute, l’ecologia e le pensioni. Ha scelto una linea prudente, un po’ perché non può presentare alcun progetto legislativo, visto che il parlamento non è ancora attivo; un po’ perché vuol evitare errori che potrebbero incidere sull’imminente voto legislativo. La stessa linea prudente viene adottata anche dal nuovo governo, entrato in funzione lo scorso 20 maggio. Si tratta di una compagine di 27 ministri e segretari di Stato, presieduta da Elisabeth Borne. È la seconda volta che una donna guida il governo in Francia, dopo la socialista Edith Cresson nel 1991, durante il secondo mandato di François Mitterrand.

L’équipe comprende alcuni pilastri del vecchio governo, come il ministro dell’economia e delle finanze Bruno Le Maire, o il ministro dell’interno Gérald Darmanin, e presenta alcune novità come il nuovo ministro dell’educazione nazionale Pap Ndiaye, uno storico, specialista delle minoranze e ben visto dalla sinistra, o la nuova ministra degli esteri Catherine Colonna, ex ambasciatrice a Londra e per tanti anni collaboratrice di Jacques Chirac. In questa apparente tranquillità è emersa con molta forza la presa di posizione di Jean-Luc Mélenchon, il leader della «France Insoumise», la prima forza della sinistra radicale. Dopo aver ottenuto il 22% dei voti al primo turno delle presidenziali, lo scorso 10 aprile, Mélenchon dichiarò che le legislative di giugno sarebbero diventate un terzo turno elettorale e invitò i francesi a votare a suo favore in mo-

do da permettergli di diventare primo ministro. Aprì una trattativa con gli altri partiti di sinistra, ossia i socialisti, i verdi e i comunisti. Tre formazioni di cui nessuna, il 10 aprile, era riuscita a superare la soglia del 5%. Dopo poco tempo, i quattro partiti trovarono un accordo elettorale sotto l’etichetta «Nouvelle Union populaire, écologique et sociale» (Nupes). La nuova intesa nasconde alcune forti divergenze programmatiche, in particolare sull’Europa, e ricorda tentativi analoghi avvenuti in passato, come negli anni Settanta con François Mitterrand e i comunisti. L’obiettivo dichiarato della Nupes è di ottenere la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale, in modo da poter varare un governo presieduto da Mélenchon. Lo stesso obiettivo vien perseguito dal partito del presidente Macron, «La République En Marche» (LREM) e dai suoi alleati, la formazione centrista del MoDem di François Bayrou, e Horizons, il partito dell’ex primo ministro Edouard Philippe e oggi sindaco di Le Havre. A lui viene attribuita l’ambizione di voler conquistare l’Eliseo nel 2027. I tre partiti si presentano sotto l’etichetta «Ensemble» e praticamente occupano tutto lo spazio politico che va dal centro sinistra al centro destra. Possono così attirare la maggior parte dei voti di quell’ampia area moderata, senza la quale è difficile ottenere la maggioranza assoluta, e approfittano della presenza di Macron come presidente in carica. In passato, più volte i francesi hanno dato al loro presidente una maggioranza parlamentare per consentirgli di governare e di realizzare il suo programma.

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Quel tesoro torni ad Atene Marmi del Partenone

L’intesa elettorale non è avvenuta, invece, nella destra radicale. Il partito dominante in quell’area, il «Rassemblement National» di Marine Le Pen, non ha accettato di scendere a patti con il partito «Reconquête» di Eric Zemmour. Le due formazioni presentano candidati che si oppongono in quasi tutte le circoscrizioni. Le rivalità personali tra i due leader e la volontà di Marine Le Pen di cancellare la presenza politica del suo avversario, sono all’origine del disaccordo e creano una situazione che riduce drasticamente la possibilità per l’estrema destra di ottenere una forte presenza parlamentare. I sondaggi sulle intenzioni di voto indicano che le preferenze degli elettori si portano prevalentemente su tre diverse aree politiche: sui partiti dell’estrema destra, sulle formazioni che sostengono il presidente e sui partiti dell’alleanza di sinistra. Queste tre aree insieme si accaparrano tre elettori su quattro e vantano più o meno la stessa percentuale di voti. Non vantano però lo stesso numero di possibili deputati, a causa del sistema elettorale a due turni e delle modalità che lo caratterizzano. Le proiezioni danno per ora un leggero vantaggio ai partiti che sostengono Emmanuel Macron. Intanto il leader della «France Insoumise» ripete giorno dopo giorno che la vittoria sarà sua, mentre il presidente in carica si limita a citare i problemi che l’eventuale successo di Mélenchon porrebbe in futuro alla Francia. Lo scontro tra i due si è ormai collocato al centro della campagna elettorale e il suo esito segnerà la vita politica francese per i prossimi cinque anni.

L’annosa diatriba con la Grecia torna d’attualità

Barbara Gallino

«Portare via i marmi del Partenone dalla Grecia quando era ancora occupata dai turchi, è stato come se un americano prendesse la Tour Eiffel da Parigi quando la città era sotto il controllo della Germania nazista». L’ultima voce a spezzare una lancia a favore della restituzione dei marmi ad Atene, è dell’attore e scrittore britannico Stephen Fry. Con il suo commento durante il Festival letterario di Hay nel Galles, l’intellettuale – che gode di molta stima e popolarità fra i sudditi del regno – ha gettato benzina su un dibattito decennale che sembrava sopito, ma ora torna a riaccendersi. Fry è un paladino convinto del rientro in Grecia delle opere prelevate all’inizio del XIX secolo e poi vendute nel 1816 al British Museum di Londra, da Thomas Bruce, Conte di Elgin, all’epoca Ambasciatore della Gran Bretagna presso l’Impero Ottomano. Ha sottolineato che se la Grecia fosse ancora sotto il controllo di una giunta militare e Atene fosse la città con il traffico e l’inquinamento peggiore di Europa come negli anni Settanta, non si batterebbe per la resa dei marmi. Tuttavia, il Museo dell’Acropoli è diventato «uno dei migliori musei europei». Pertanto non ci sono più scuse. Anche il premier greco Kyriakos

Mitsotakis, lo scorso novembre, aveva messo al centro del suo primo incontro a Downing Street con Boris Johnson, il tema della restituzione. Ma il primo ministro britannico – un tempo fervente promotore della riconsegna dei marmi di Elgin ad Atene – aveva dribblato, rimettendo la palla nel campo del British Museum, a suo parere competente a decidere della questione. Tuttavia, Mitsotakis è tornato di nuovo alla carica, ringalluzzito dal recente recupero del Frammento Fagan, porzione di lastra appartenente al fregio orientale del Partenone raffigu-

Un frammento dei Marmi rappresentante Athena, realizzato dal famoso scultore Fidia. (Keystone)

rante il piede di Artemide, che era da ben due secoli a Palermo. D’altronde, sulla base degli ultimi sondaggi, anche l’opinione pubblica britannica appoggia sempre di più le rivendicazioni greche. Nonostante la crescente pressione per la resa non solo dei marmi di Elgin, ma anche di altri reperti portati via da Cambogia ed Etiopia, il British Museum – che ospita da oltre 200 anni 15 metope, 17 statue e 75 metri del fregio originale del Partenone – continua a nicchiare, adducendo non solo opinabili ragioni legali, ma soprattutto culturali. Sia il precedente direttore del museo, Neil MacGregor, che l’attuale, Hartwig Fisher, hanno sempre sostenuto che i marmi siano apprezzati meglio in un museo con milioni di visitatori, dove sono esposte anche le opere di altre culture. «La collezione del British Museum è una risorsa unica per esplorare la ricchezza, diversità e complessità di tutta la storia umana» e «le sculture del Partenone sono parte integrante di quella storia», ha precisato in una nota il CDA, sottolineando come l’approccio del Museo dell’Acropoli e quello dell’istituzione londinese siano complementari. Il primo offre una visione approfondita della storia di Atene, mentre il secondo, un contesto culturale più ampio. Il dibattito continua.

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ATTUALITÀ

La vecchia-nuova patria del terrorismo

Afghanistan ◆ Al di là delle rassicurazioni fornite a suo tempo dai Taliban agli americani, il paese torna ad accogliere milizie e gruppi sanguinari, nell’interesse di Cina e Pakistan Francesca Marino

«Un piccolo contingente di truppe straniere ha occupato alcune delle sezioni interne della base aerea di Bagram. Non voglio avanzare ipotesi su chi sono e perché si trovino là, tanto verrà fuori abbastanza presto. Voglio soltanto segnalare, come confermano più fonti, che addestrano le milizie degli Haqqani». Così twittava, lo scorso 22 aprile l’ex-vicepresidente afghano Amirullah Saleh, dando ufficialmente voce a sussurri che si rincorrevano da un po’ di giorni, sussurri confermati in seguito da una serie di rapporti che circolavano in rete e che fornivano prove di quanto si diceva già da qualche mese. In ottobre difatti, secondo fonti afghane, a Bagram sarebbero atterrati un certo numero di aerei militari cinesi. Assieme a elementi appartenenti al Gruppo delle guardie rivoluzionarie islamiche (IRGC) e ai soliti e immancabili membri dell’ISI pakistana. Le voci, prontamente smentite all’epoca sia dai Taliban che dai cinesi, sono tuttavia continuate fino a trovare conferma decisiva negli ultimi mesi: come afferma Saleh, i cinesi si trovano là per addestrare gli uomini della rete Haqqani. Notizia suffragata anche da Abdul Basir Salangi, ex governatore provinciale di Parwan ora in Turchia, che aggiunge: «Non so se ci sono davvero militari cinesi a Bagram, ma so per certo che i cinesi addestrano le milizie della rete Haqqani a Miranshah, Peshawar e Quetta». In Pakistan, cioè, al confine con l’Afghanistan. Addestrano quella stessa rete Haqqani, tanto per capirci, che da decenni insanguina l’Afghanistan con attentati particolarmente efferati e che ha come partner storici Al Qaida e l’Isis-K, ramo Khorasan dell’Isis. Lo stesso Isis-K, anch’esso come la rete Haqqani sotto il controllo dell’ISI pakistana, che avrebbe al momento il compito di creare una cortina fumogena per il governo dei Taliban compiendo attentati e assumendosene la responsabilità, in modo da creare, agli occhi dell’Occidente, l’ennesima dicotomia: Taliban buoni, Isis-K cattiva. E di ripulire, almeno agli occhi della maggioranza, l’immagine dell’ineffabile ministro dell’Interno dei Taliban Sirajuddin Haqqani. Sirajuddin, che con Al Qaida vanta anche legami di famiglia, è stato ormai sdoganato da media occidentali e non, «New York Times» e CNN in

testa, e provvede a creare la sua personale cortina di fumo parlando e sproloquiando su ogni piattaforma disponibile di diritti e abusi di diritti delle donne e delle minoranze. Così, mentre il resto del mondo è occupato a discutere di diritti umani e delle donne di Kabul invitando in Occidente i Taliban che viaggiano in jet privati, si stende una conveniente corte di silenzio sul resto. E il resto è roba da far venire i capelli dritti a chiunque. Lo scellerato «accordo di pace» firmato a Doha dal diplomatico americano Zalmay Khalilzad prevedeva sostanzialmente soltanto una condizione: la solenne promessa che i Taliban non avrebbero più permesso che l’Afghanistan diventasse una specie di Disneyland del terrorismo internazionale. Chiudendo gli occhi sul fatto che, mentre si discuteva di pace, i Taliban si addestravano assieme a membri di Al Qaida in appositi «campi di addestramento alla pace» come li aveva definiti l’analista Bill Roggio, e che Sirajuddin Haqqani, come altri nel governo Taliban, è a tutti gli effetti un membro di rilievo dell’organizzazione fondata dalla buonanima di Osama bin Laden (definito l’anno scorso «un martire» dall’ex-premier pakistano Imran Khan). D’altra parte, negli ultimi mesi, noti esponenti di Al Qaida sono stati avvistati un po’ dovunque in Afghanistan: accolti in trionfo in alcuni casi, mentre ad altri sono state attribuite posizioni nella pubblica amministrazione di alcune provincie e città. Gli americani, che lo sapevano e lo sanno perfettamente, fanno finta di nulla e soprattutto fanno come se l’Afghanistan non fosse e non fosse mai stato un loro problema. Mentre i consiglieri per la sicurezza nazionale di Russia, India, Cina, Iran, e delle repubbliche centro asiatiche si sono di recente riuniti a Dushambe, in Tagikistan, per discutere la situazione. E il meeting non è stato certo sereno. I ripetuti attacchi di Isis-K servono difatti a far passare il messaggio che i Taliban hanno bisogno di essere armati e addestrati per combattere i loro nemici, che sono nemici anche della comunità internazionale: spalleggiati da Cina e Pakistan, ormai una cosa sola, che hanno amorevolmente allevato per anni l’attuale gruppo dirigente proprio in attesa di questo giorno. Le società cinesi hanno già espres-

Khalil Rahman Haqqani, un membro anziano della rete terroristica Haqqani, salutato dai suoi seguaci al rientro a Kabul. (Keystone)

so interesse a investire nel settore minerario in Afghanistan e le relazioni amichevoli con Kabul aprirebbero la strada a un’espansione della Belt and Road Initiative (BRI) di Pechino in Afghanistan e attraverso le repubbliche dell’Asia centrale. Non è un caso che il ministro degli esteri cinese Wang Yi si sia recato a Kabul lo scorso 23 marzo per colloqui con i Taliban, nonostante il suo governo non abbia ancora ufficialmente riconosciuto l’impresentabile gruppo di assassini che governa Kabul. D’altra parte, le mire economico-commerciali cinesi coincidono perfettamente con il vecchio sogno di profondità strategica di Islamabad: e il sodalizio Cina-Pakistan, più che a una partnership economica, somiglia sempre più alla classica amicizia tra ladri. Non si fidano l’uno dell’altro, ma si usano a vicenda per ottenere dei risultati. Lo sfruttamento delle risorse locali a vantaggio della Cina nel caso di Pechino, il mantenimento dello status-quo e l’uso del terrorismo come mezzo privilegiato di politica estera da parte del Pakistan. D’altra parte, mentre a Doha e in altre sedi si discuteva di «pace», in Pakistan i Taliban afghani (ospitati e facilitati dall’esercito di Islama-

bad) raccoglievano donazioni «volontarie» in Pakistan: chi si rifiutava di «donare» veniva ammazzato senza pietà. Secondo testimonianze di gente del posto, membri dell’organizzazione terroristica Jaish-i-Mohammed (sempre sponsorizzati dall’esercito) raccoglievano donazioni e reclute per la guerra di liberazione in Afghanistan. A quanto pare il famoso campo di Balakot (distrutto dall’India con un attacco a sorpresa tre anni fa), così come altri campi di addestramento della JeM in Pakistan, aveva tra le altre cose il compito di fornire reclute ai Taliban afghani. Così come di provvedere attentatori suicidi ben addestrati sia alla rete Haqqani che agli altri gruppi. Non solo. Secondo altre fonti, i Taliban raccoglievano fondi in maniera organizzata anche nelle province del Punjab e del Sindh. Dopo la presa di potere dei Taliban, la provincia di Nangahar, secondo fonti locali, è stata praticamente ceduta alla Jaish-e-Mohammed. Gruppo colpevole di numerosi attacchi in India, in particolare nel Kashmir indiano, e che, è bene ricordarlo, a differenza dei Taliban ha un’agenda di jihad globale esattamente come Al Qaida. JeM ha fornito per anni attentato-

ri suicidi e truppe alla rete Haqqani e, dopo la presa di Kabul, ha immediatamente reclamato la propria libra di carne. Masood Azhar, il fondatore e padre spirituale del gruppo, si trovava a Nangahar due giorni dopo la presa di potere da parte dei Taliban per discutere di «affari». Risultato: i campi di addestramento della provincia sono stati ceduti alla JeM e, su istruzioni dell’ISI, i quadri dell’organizzazione sono stati trasferiti in Afghanistan. D’altra parte, come si dice, squadra vincente non si cambia. E Islamabad non ha intenzione di cambiare la sua strategia principale che è anche la sua risorsa primaria: il caos. L’allevamento di gruppi jihadisti tutti addestrati e gestiti dagli stessi maestri ma pronti, all’occorrenza, a scontrarsi tra loro. Terroristi buoni pronti a diventare cattivi e ad essere ufficialmente abbandonati quando la pressione è troppo alta, gente mandata a morire in nome del denaro o della religione, fa lo stesso. Tanto, nonostante i dotti distinguo fatti da molti in Occidente, della religione, della fratellanza o dell’ideologia ai burattinai in questione importa veramente poco. È solo oppio per gli stolti. Ma gli stolti, in questo caso, siamo noi. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

L’attrattività non è data solo dalla fiscalità

Statistiche ◆ Secondo uno studio del Credit Suisse, vivere in cantoni e comuni con imposte più elevate può risultare meno oneroso, se le altre spese, fra cui affitto e cassa malati, pesano meno Ignazio Bonoli

Una delle caratteristiche del federalismo svizzero è ancora una certa libertà di manovra dei cantoni in alcuni settori importanti. Fra questi vi è anche la fiscalità, che è retta da 27 legislazioni cantonali, coordinate nell’ambito della legge federale e del concordato intercantonale sul divieto di accordi fiscali. Questa situazione, pur tenendo conto delle varie limitazioni federali e cantonali, provoca grandi differenze nella tassazione del reddito nei diversi cantoni e anche di parecchi comuni. Situazione che è poi all’origine di importanti differenze nelle imposte da pagare a livello di cantoni e anche di comuni. Di conseguenza si verifica una certa concorrenza fiscale, di solito alla ricerca di aziende e di buoni contribuenti. I cantoni particolarmente attivi in questa politica sono noti da tempo e di solito sono quelli situati ai margini di grandi agglomerati, economicamente potenti, che offrono evidentemente un buon mercato di gettiti fiscali importanti. Un freno parziale a questa concorrenza potrebbe venir posto dall’entrata in vigore del nuovo accordo fiscale internazionale – firmato anche dalla Svizzera nell’ambito dell’OCSE – che impone un’aliquota fiscale minima del 15% sugli utili aziendali. Oggi, anche tenendo conto dell’imposta federale diretta, si verificano ancora differenze importanti nella tassazione dei redditi.

Per redditi sotto i 110’000 franchi i costi per trasferirsi in un comune fiscalmente più attraente sono superiori ai vantaggi Secondo un recente studio del Credit Suisse, queste differenze possono variare tra il 20 per cento (in alcuni comuni del canton Svitto) e il 46 per cento (per alcuni comuni del canton Ginevra). Secondo i calcoli dell’Ufficio federale di statistica, per le economie domestiche le imposte dirette costituiscono in media il 12% delle spese di un’economia domestica privata.

Va comunque notato che le imposte non sono il solo fattore di attrattività per cantoni e comuni. Lo studio del Credit Suisse, oltre alle imposte sul reddito e sulla sostanza, tiene conto anche del costo dell’abitazione, dei premi di cassa malati, dei costi per la cura dei figli e anche di quelli provocati dal pendolarismo. La somma viene poi suddivisa per cinque tipi di economia domestica: persona sola, coppia senza figli, coniugi con due figli, famiglia con due figli curati da terzi e coppie di pensionati. Lo studio stabilisce quanto rimane del reddito dopo deduzione delle spese citate, per classi di reddito fra 40’000 e 180’000 franchi annui. Su questa base gli economisti della banca hanno calcolato per ogni comune un indice dell’attrattività fiscale, globalmente e per tipo di famiglia. Su domanda della NZZ (che ne pubblica alcuni risultati) gli economisti del CS hanno calcolato l’indice di attrattività abitativa e finanziaria di sei comuni con almeno 10’000 abitanti. Tra i comuni più favorevoli i soliti Zugo, Baar (ZG) e Freienbach (SZ). Tra quelli meno favorevoli vengono considerati Losanna (VD), Thun (BE) e Val-de-Travers (NE). Non senza sorpresa lo studio mostra però che i comuni favorevoli (nella media delle economie domestiche considerate e delle classi di reddito) sono talvolta meno attrattivi rispetto alla media di tutti i comuni svizzeri. Per contro, proprio il comune di Val-de-Travers (che è il più caro) è più attrattivo di quelli più favorevoli, e anche della media svizzera. In concreto, una famiglia con due figli curati da terzi, con un reddito di 110’000 franchi e una sostanza di 200’000 franchi, dopo deduzione delle spese, può ancora disporre di un reddito di 47’000 franchi, mentre a Zugo potrebbe disporre solo di 35’000 franchi. Il vantaggio fiscale di Zugo viene compensato da maggiori costi dell’abitazione, della cura dei figli e della cassa malati. Il che fa concludere agli analisti che un comune favorito fiscalmente,

Nonostante il più alto carico fiscale, il comune di Val de Travers risulta il più attrattivo; nella foto il villaggio di Fleurier. (Keystone)

per redditi inferiori, è meno attraente di altri. Anche altri studi precedenti hanno confermato che proprio per livelli di reddito sotto i 110’000 franchi, i costi che il contribuente deve affrontare per trasferirsi in un comune fiscalmente più favorevole spesso sono superiori al vantaggio sulle imposte. Si è quindi potuto vedere che il turismo fiscale è statisticamente constatabile solo al di sopra di una certa cifra di reddito. Ad esempio, per redditi di 500’000 franchi, la differenza è del 2/3 per cento. Diventa del 4/6 per cento per redditi di 5 milioni di franchi. A queste cifre il carico fiscale è in ogni caso proporzionalmente minore che per i redditi più bassi. Il KOF di Zurigo, nel 2019, ha rilevato che i cantoni che praticano imposte più favorevoli per i milio-

nari, usano aliquote relativamente più favorevoli anche per redditi inferiori. Statisticamente il punto di riferimento potrebbe essere a 70’000 franchi. Al di sotto la situazione potrebbe rovesciarsi. A 12’500 franchi di reddito la correlazione diventa chiaramente negativa. L’onere fiscale non è però il fattore di spesa principale nel costo della vita. Nei centri urbani e nelle grandi agglomerazioni, abitare costa di più che in campagna, anche senza contare che l’onere fiscale è, di regola, più alto nelle città. Lo sono anche i premi di cassa malati, ma lo sono anche nella Svizzera romanda (e in Ticino). In parte vengono però compensati con importanti sussidi. Le spese per la cura dei figli, in Romandia, godono pure di forti sussidi. In sostanza, i dati del CS non

mostrano una correlazione statisticamente significativa tra gli oneri fiscali e l’attrattività abitativa e finanziaria di un sito. Da un lato si vedono cantoni fortemente urbanizzati come Basilea-Città o Ginevra, con un onere fiscale relativamente alto. Dall’altro una serie di cantoni della Svizzera centrale e anche orientale con oneri fiscali e anche costi fissi relativamente bassi. Infine, vi sono parecchi cantoni con una combinazione di vantaggi e svantaggi. Quando conviene allora scegliere un cantone con fiscalità bassa? La risposta non è semplice. Lo studio cita un limite di reddito di 110’000 franchi, sotto il quale i costi superano i benefici. In ogni caso il «turismo fiscale» si addice a redditi molto elevati, anche tenendo conto di tutte le spese che li accompagnano.

Cosa accade con il mio 3º pilastro al momento del pensionamento?

La consulenza della Banca Migros ◆ È possibile farsi versare l’avere su un conto privato o un deposito titoli, ma anche nella cassa pensione – Di norma, l’avere del pilastro 3a può essere ritirato al più presto 5 anni prima dell’età di pensionamento ordinario

I miei investimenti del 3º pilastro sono in scadenza. Posso mantenere i fondi o devo reinvestire l’avere? È possibile farsi versare l’avere dei fondi su un conto privato o su un conto di risparmio. A seconda della banca, è possibile trasferire i titoli nel deposito titoli privato. Questo significa che non occorre necessariamente vendere e reinvestire i titoli in cui è stato investito sinora l’avere previdenziale. È peraltro preferibile scegliere autonomamente il momento in cui uscire in base all’andamento dei mercati. Per

quanto riguarda la Banca Migros, è possibile trasferire gratuitamente l’avere della vendita a un deposito titoli privato tramite e-banking. Ma attenzione: anche l’uso previsto e l’orizzonte temporale devono essere presi in considerazione. Se il denaro serve per fare un viaggio, per rinegoziare il mutuo ipotecario o per altri scopi, è preferibile investirlo in altro modo. Solitamente si consiglia di ridurre la quota azionaria degli investimenti dopo il pensionamento in maniera da ridurre il rischio. Di norma l’avere del pilastro 3a

Gerhard Buri, consulente alla clientela ed esperto di previdenza presso la Banca Migros Mittelland.

può essere ritirato al più presto 5 anni prima dell’età ordinaria di pensionamento AVS. Costituiscono un’eccezione i casi in cui si acquista una proprietà di abitazione per uso personale, si avvia un’attività autonoma, ci si trasferisce all’estero, si effettuano versamenti nella cassa pensioni o si beneficia di una rendita d’invalidità completa. Può essere utile ritirare anzitempo l’avere del pilastro 3a e versarlo nella cassa pensione: i risparmi fiscali ottenuti con il versamento sono infatti maggiori rispetto alle imposte

da versare al prelievo dell’avere del pilastro 3a. L’ideale è chiedere una consulenza alla propria banca. Per motivi fiscali, bisogna accertarsi di non farsi versare nello stesso anno gli averi del secondo e del terzo pilastro, in particolare in presenza di diverse soluzioni 3a. Consiglio Se si lavora oltre l’età pensionabile, è possibile rinviare il prelievo dell’avere 3a e continuare a effettuare i versamenti nel 3º pilastro: gli uomini al massimo fino ai 70 anni, le donne fino ai 69.


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ATTUALITÀ / RUBRICHE

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Quando i salari aumentano più rapidamente della produttività ◆

Le difficoltà economiche create dalla pandemia di Covid hanno rilanciato il discorso sulla distribuzione del reddito che si era già avviato verso la metà del passato decennio, non da ultimo per merito di alcune pubblicazioni che dimostravano, cifre alla mano, che il grado di disuguaglianza in questa distribuzione stava salendo in molti paesi. Si teme che la pandemia abbia aggravato questa tendenza. Che fa discorrere è in particolare l’evoluzione della quota del reddito nazionale distribuita come profitti e di quella che invece va ai lavoratori sottoforma di salari. Come vanno le cose in Ticino? In assenza di una regolare statistica regionalizzata della distribuzione del reddito, l’evoluzione della distribuzione può essere illustrata dall’andamento dell’indice della produttività e di quello del salario reale. Se la produttività aumenta, una parte del Pil supplementare sarà distribui-

ta come profitto e il resto come salario. Di conseguenza sia i salari, sia i profitti, dovrebbero tendenzialmente svilupparsi più lentamente della produttività. È quanto succede nella maggior parte delle economie sviluppate. Ma ci sono eccezioni. Una di queste pare sia rappresentata dall’economia ticinese nella quale, nel corso degli ultimi anni (dal 2008 al 2020), i salari si sono sviluppati più rapidamente della produttività (misurata dal rapporto prodotto interno lordo per addetto). Ovviamente questa anomalia potrebbe essere fatta risalire a problemi collegati con la statistica dei salari che concerne solo i salari del settore privato. Siccome i salari versati nel settore pubblico di regola evolvono più lentamente di quelli del settore privato, potrebbe darsi che la curva di un indice che misurasse l’evoluzione dei salari dell’insieme dell’economia si avvicinasse maggiormente

alla curva della produttività di quello che non fa l’indice dei salari del settore privato. Potrebbe darsi, ma la differenza tra la curva dell’indice dei salari e quella dell’indice della produttività comunque non sparirebbe. Nel quadro delle economie sviluppate, solo quella della Francia ha presentato, in tempi recenti, un andamento simile, ossia un’evoluzione nella quale i salari aumentano più rapidamente della produttività. Se i salari aumentano più rapidamente della produttività, la reazione degli imprenditori, per compensare l’aumento dei costi, è di solito quella di far crescere i prezzi, ma ci accorgiamo che, durante il periodo analizzato i prezzi, a livello dell’insieme dell’economia, non sono per niente aumentati. L’indice dei prezzi al consumo non ha segnato infatti nessuna tendenza all’aumento. Dobbiamo quindi dedurre che, durante gli ultimi dieci

anni, l’aumento dei costi di produzione, dovuto allo sviluppo dei salari, sia stato ammortizzato con una riduzione dei margini di guadagno delle imprese? Se questo fosse avvenuto è anche probabile che l’evoluzione degli ultimi anni non abbia indotto nessun peggioramento della situazione dei salariati in materia di distribuzione del reddito. Anzi è possibile che, in Ticino, la loro quota nel reddito distribuito sia leggermente aumentata rispetto a quelle che toccano a capitalisti e rentiers. Attenzione però: l’evoluzione che ci descrivono gli indici dei salari, dei prezzi e della produttività cozza contro il sentimento prevalente nell’opinione pubblica a proposito della distribuzione del reddito e, soprattutto, contro quanto ci dicono le statistiche sulla povertà. Stando ai dati dell’annuario di statistica, in Ticino, nel 2020, quasi un quarto delle famiglie (24,4%), viveva in un’e-

conomia domestica con un reddito disponibile inferiore alla soglia di rischio di povertà. Nel 2008 questa percentuale era ancora inferiore al 20%. La quota degli esposti a rischio di povertà del 2020 impressiona soprattutto se si confronta con quella media svizzera che in quell’anno era pari al 15,4%. A giudicare da questa quota, quindi, la distribuzione del reddito sembra più ineguale in Ticino che nel resto della Svizzera. E i salari, che apparentemente, sarebbero aumentati più rapidamente della produttività, non hanno per niente contribuito a migliorare la situazione. Ecco quindi un altro rompicapo della nostra economia non facile da risolvere. A meno che, come si è già ricordato, le statistiche siano poco attendibili e, per non fare che un esempio, quella del prodotto interno lordo stia sottovalutando la vera prestazione della nostra economia cantonale.

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di Aldo Cazzullo

Quel magico Mondiale e l’Italia che cambiava ◆

Chi c’era, se lo ricorda. Fu un Mondiale bellissimo, per tutti gli europei, anche per chi non lo vinse. Ma per l’Italia fu un Mondiale speciale; e non solo per la vittoria. Nell’estate di quarant’anni fa, il Paese cambiò umore. I ricordi precedenti al luglio 1982 sono in bianco e nero; i ricordi successivi sono a colori. La fine degli anni che chiamiamo di piombo aveva bisogno di un passaggio, di una cesura, di un evento: i Mondiali di Spagna lo furono. Poi certo la memoria gioca brutti scherzi. Il 1982 fu in realtà uno degli anni più duri del terrorismo. Le Brigate Rosse ormai sconfitte – l’anno prima era stato arrestato il loro capo, Mario Moretti – incrudelirono e sparsero molto sangue. Eppure, per chi c’era, il 1982 fu davvero l’anno della svolta. Finiva il tempo della politica di strada e di piazza, delle bombe sui treni (ma ci sarebbe ancora stata la strage del Natale 1984), del coprifuoco notturno non dichiarato, della guerra civile mimata tra giovani abbigliati diversamente,

quasi in divisa. Cominciava il tempo dell’estate romana, della movida sui Navigli milanesi, delle discoteche. La febbre del sabato sera e il campionato di calcio più bello del mondo (tutte le stelle di quel Mondiale arrivarono in Italia: Maradona e Platini, Boniek e Zico). Il riflusso e la ritirata nel privato. «Torna a casa in tutta fretta / c’è un Biscione che ti aspetta» non era solo lo slogan fortunato delle tv di Berlusconi (che preparava l’operazione Milan); era lo spirito del tempo. Persino ballare, con la discomusic, era una cosa che si faceva da soli. Dire «io» diventava più naturale che dire «noi». Quella politica di strada e di piazza aveva fatto molti guai. Eppure era stato l’ultimo momento in cui i giovani avevano affidato la propria vita alla politica, convinti che avrebbe cambiato il mondo. Era una generazione sicura che si potesse essere felici soltanto tutti insieme. La disillusione fu terribile. Ma anche l’idea della generazione successiva – pensare che si potesse essere felici soltanto ognuno per proprio

Il presente come storia

conto – si sarebbe rivelata una dolorosa illusione. All’epoca però non lo si sapeva. E quindi, la notte del Bernabeu, gli italiani scesero nelle strade a festeggiare. Si rividero i tricolori, considerati negli anni 70 un simbolo di parte, quasi di estrema destra. Si riscoprì l’amor di patria, l’appartenenza nazionale (per il senso dello Stato bisognerà aspettare di vincere parecchi altri Mondiali). Più semplicemente, apparve naturale non solo far festa, ma anche uscire di casa senza paura, sorridersi, abbracciarsi, smettere di fare a botte per l’ideologia e la politica. Molti partirono per la Spagna. E fu la scoperta di un Paese che stava vivendo il suo boom economico e sociale. Il dittatore Franco era morto soltanto sette anni prima. Il golpe Tejero – il militare con il tricorno in testa che pareva uscito da un film in costume – era fallito appena l’anno precedente. La Spagna riscopriva la propria vitalità, la propria solarità. Tifò Italia. E fu ricambiata da un’onda di affetto e sorel-

lanza, da parte degli italiani, che non si è ancora esaurita. Poi certo un Mondiale non è solo un fatto di società e di costume, ma anche di sport, di tecnica. L’impresa spagnola fu la consacrazione di una straordinaria generazione di calciatori, che aveva sfiorato la vittoria già quattro anni prima in Argentina. Con loro si affacciava sulla scena un’Italia giovane ma già matura, senza troppi fronzoli, con le radici ben piantate dalla provincia da cui quasi tutti venivano (Conti e Graziani laziali di Nettuno e di Subiaco, Tardelli e Rossi toscani di Careggine e di Prato, Cabrini e Scirea lombardi di Cremona e Cernusco, e poi ovviamente i friulani Bearzot e Zoff, il pugliese Causio, il tripolino Gentile…) ma con lo sguardo aperto al mondo. Non giganti forti e robusti; «ragazzi come noi», per dirla con Antonello Venditti, che nella notte della festa si trovò a giocare per strada con i passanti e con gli Azzurri. Da allora l’Italia è molto cambiata. Si è prima arricchita e poi impoverita.

Ha conosciuto il degrado dei rapporti umani, la desertificazione dei borghi e dei centri storici, il trionfo della vita virtuale dei social, e pure l’esplosione di un nuovo calcio, dominato dai procuratori e dal denaro (Paolo Rossi guadagnava un centesimo di quel che guadagna oggi Messi, e dopo la Spagna fece scandalo il suo rifiuto di rinnovare il contratto alle condizioni imposte da Boniperti, come si usava fare alla Juventus). Ma nulla e nessuno potrà togliere agli italiani il ricordo di quell’estate di quarant’anni fa, in cui erano i campioni del mondo. E anche le nazioni europee che non vinsero hanno un buon ricordo di Spagna 1982. La Germania arrivò in finale. La Francia di Platini giocò un calcio bellissimo, ribattezzato «calcio champagne». La Polonia di Boniek eliminò gli odiati sovietici. Ma per tutti era un mondo che andava dal meno al più, che si lasciava alle spalle le tensioni politiche e inaugurava un decennio di espansione economica e di spensieratezza, che oggi viene da rimpiangere.

di Orazio Martinetti

Il lavoro dei padri, la ricerca dei figli ◆

L’uomo è «migrans» fin dalla preistoria, leggiamo nelle enciclopedie. L’essere umano è nomade: viaggiare, esplorare, conoscere fa parte della sua natura. Ma come sono mutate le correnti nel tempo, cosa o chi le ha generate, quale direzione hanno preso, quali ostacoli hanno incontrato, come sono state accolte nei luoghi di destinazione? Negli ultimi decenni la ricerca ha esteso sia il campo d’indagine, sia gli strumenti analitici, evidenziando le peculiarità di ogni singola odissea migratoria, individuale e collettiva. Le nostre terre hanno conosciuto varie fasi, sin dai secoli medievali, con un’accelerazione dopo la costituzione del canton Ticino. Nel corso dell’età moderna, le frontiere erano permeabili e la mobilità elevata; per gli abitanti delle alte valli, in prevalenza maschi, era consuetudine «fare la stagione» nelle principali città europee,

soprattutto italiane e francesi, per esercitarvi vari mestieri, umili (come quelle di spazzacamino o di vetraio) oppure blasonati, com’era il caso nel settore delle costruzioni e dell’arte. Con la graduale affermazione degli Stati nazionali tale libertà di circolazione venne meno; ai confini spuntarono le dogane, chi intendeva varcarle doveva esibire un documento d’identità e sottoporsi al controllo, sia in uscita che in entrata. L’emigrazione, per molti valligiani, da temporanea divenne permanente, in contrade agli antipodi dal paese natale (Australia, California, Argentina). Se dovessimo allestire una mappa degli spostamenti interni ed esterni, vedremmo formarsi sotto i nostri occhi un fascio di fibre multicolori, una rete fittissima di nodi e relazioni bidirezionali. Imponente fu, tra Otto e Novecento, l’emigrazione dall’Italia verso

la Confederazione, specie nei decenni successivi all’unificazione, un flusso impetuoso di manodopera, in cammino verso i grandi cantieri ferroviari o le principali città d’oltralpe in pieno boom edilizio, che si esaurì solo con lo scoppio del primo conflitto mondiale. Il secondo grande esodo prese il via nel secondo dopoguerra, svuotando interi paesi del Nord-Est (Veneto, Friuli) ma soprattutto del Mezzogiorno, la «terra del rimorso» nella definizione dell’antropologo Ernesto De Martino: un fenomeno che presto si rivelò ben più articolato di quanto la società elvetica si aspettasse. Con le valigie di cartone rette da mani callose giungevano infatti anche dialetti, costumi, attese, speranze, orientamenti politici, credenze religiose, che anno dopo anno alimentarono una vivace e capillare vita associativa. Le autorità reagirono

spesso in modo scomposto, sopraffatte dalle inaudite dimensioni degli arrivi. Nell’opinione pubblica insorse il timore dell’«Überfremdung», una presenza di elementi allogeni considerata insidiosa per l’integrità e la tenuta del carattere nazionale elvetico. Le vicende familiari, le implicazioni sociali, amministrative, politiche e formative, gli snodi decisivi come quello rappresentato dalle iniziative Schwarzenbach hanno dato luogo nell’ultimo quarantennio a una ricca produzione storiografica. A tale crescita ha dato un contributo non secondario la casa editrice Donzelli di Roma. Già nel 2001 mise in cantiere una vasta Storia dell’emigrazione italiana suddivisa in due corposi tomi; recentemente ha avviato una nuova opera generale sotto il titolo Storia dell’emigrazione italiana in Europa, prevista in quatto volumi

(nel frattempo è uscito il primo: «Dalla Rivoluzione francese a Marcinelle (1789-1956)»). A questi si sono aggiunti, sempre da Donzelli, Dalla valigia di cartone al web. La rete sociale degli italiani in Svizzera e, da Carocci, Più svizzeri, sempre italiani. Mezzo secolo dopo l’«iniziativa Schwarzenbach». Il fatto significativo è che all’origine di tutte queste imprese editoriali troviamo figli o nipoti di immigrati, storici e sociologi ora attivi all’università di Ginevra e in altri atenei d’oltralpe: Toni Ricciardi, Irene Pellegrini, Sandro Cattacin. Studiosi che ora rendono giustizia ai loro genitori giunti a bordo di treni stracolmi attraverso il recupero di memorie e testimonianze. Opere dunque intese a saldare un debito che l’ala nazionalistica e xenofoba della società elvetica non ha mai voluto riconoscere né tanto meno onorare.


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CULTURA ●

Sempre guerra è L’uomo combatte da sempre per le stesse cose, lo dimostrano una serie di testi provenienti dall’antichità

Il matematico anarchico A colloquio con Lorenza Foschini, autrice di un libro sul matematico napoletano Renato Cacciopoli

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Un omaggio a Strehler Si è concluso a Milano un Festival che ha voluto celebrare Giorgio Strehler e i 75 anni del Piccolo

Per un (non) genere nuovo Il cineasta svizzero Patrick Muroni racconta la genesi del suo lavoro nel segno dell’inclusività

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La pittura di tocco di Lovis Corinth Mostre

Ad Ascona fino al 4 settembre si celebra l’opera del grande artista tedesco

Elio Schenini

Per molti è il più importante pittore impressionista tedesco assieme a Max Liebermann e a Max Slevogt, per altri la sua pittura, in particolare quella degli ultimi due decenni, va invece iscritta a pieno titolo nell’ambito dell’espressionismo, per altri ancora la sua è una figura singolare, perfettamente in bilico tra tradizione accademica ottocentesca e modernità. In effetti, è molto probabile che in tutte queste definizioni ci sia almeno una parte di verità, anche se nessuna di esse ci dice veramente chi sia stato Lovis Corinth, artista tedesco nato nel 1858 a Tapiau nella Prussia orientale e morto nel 1925 a Zandvoort nei Paesi Bassi, al quale il Castello San Materno di Ascona dedica ora una mostra. Ad apparire inconfutabile è il fatto che lo stesso Corinth, sia nei suoi testi teorici sia nella sua autobiografia, abbia sempre rivendicato con orgoglio e consapevolezza il radicamento della sua opera nella storia della pittura europea e in particolare in quel filone affermatosi nella seconda metà del Cinquecento che è rappresentato dalla pittura di tocco. Un filone che ha i suoi primi esponenti tra i pittori veneziani del tardo Rinascimento – su tutti Tiziano (quello dei toni cupi e delle pennellate sfatte degli ultimi anni) e il Tintoretto – e che poi nel Seicento si arricchisce di alcuni dei suoi migliori interpreti nei Paesi Bassi e nelle Fiandre, dove sono attivi alcuni dei più grandi maestri della pittura barocca quali Frans Hals, Rubens e Rembrandt. Sarà proprio nel corso di un viaggio in Olanda per studiare alcuni dipinti di Rembrandt e Frans Hals che Corinth morirà a causa di una polmonite non ancora settantenne. Ma ai vertici della pittura di tocco seicentesca, come ebbe a riconoscere per primo Roberto Longhi, non può non figurare anche l’asconese Giovanni Serodine, in virtù degli altissimi risultati raggiunti nella fase finale della sua breve ma dirompente carriera. Purtroppo, quest’ascendenza genealogica della pittura corinthiana non sarà verificabile direttamente da chi avrà l’occasione di visitare la mostra di Ascona per la temporanea assenza dalla Chiesa parrocchiale di quella vera e propria «capsula di dinamite gettata in un fornello» che è la grande pala dell’Incoronazione della Vergine, capolavoro estremo del Serodine. In ogni caso, le poche tele di Corinth presenti al Castello – si tratta infatti di una mostra che si concentra sulla sua opera grafica – fanno immediatamente capire che colui che le ha dipinte in un corpo a corpo furioso ed estenuante con la superficie pittorica non può che appartenere a quella genia di «pittori spadaccini» che abbiamo appena ricordato. Pittori

in qualche modo ancorata negli schemi della pittura accademica, ma che nel corso del tempo approda a una totale liberazione del gesto espressivo. Nelle lastre esposte, quasi tutte lavorate a puntasecca, dove si coglie l’evidente ammirazione per Rembrandt che di questa tecnica è stato uno dei primi maestri, Corinth affronta tutto il ventaglio tematico della sua pittura: nudi, scene mitologiche, nature morte, paesaggi, ritratti e autoritratti. Particolarmente significativa la puntasecca L’artista e la morte II del 1916, che riprende una delle più celebri opere dell’artista: l’autoritratto con scheletro anatomico davanti alle vetrate del suo studio di Monaco realizzato nel 1895. Un’opera che con

Di Lovis Corinth, qui sopra, Rose e garofani, 1912 (coll. privata); a destra, Ritratto femminile, 1925 (coll. privata); sotto, Danzatrici, 1825 (coll. privata).

che usano il pennello come una sciabola o un fioretto e la cui materia pittorica mossa e vibrante prende forma come se fosse prodotta da un rapido e intenso guizzare di stoccate, di affondi, di finte e di parate. Va però anche detto, onde evitare fraintendimenti, che la pittura di tocco di Corinth non ha nulla a che vedere con il virtuosismo autocompiaciuto e un po’ lezioso del suo quasi coetaneo Boldini, non solo perché la sua materia è molto più densa e impastata, ma anche perché la sua visione è innervata da un realismo crudo e disincantato, spesso provocatorio, che non concede nulla alla piacevolezza e alla pruderie della morale guglielmina allora imperante. Non a caso, per i suoi nudi, che appaiono ancora oggi di una grandissima modernità e da cui trasuda una sensualità tutta terrena, Corinth è stato fatto oggetto di critiche anche feroci e di censure, e molte sue opere sono state incluse, post mortem, nell’elenco dell’arte degenerata stilato dal regime nazista. Come detto, la mostra di Ascona è però incentrata essenzialmente sull’opera grafica dell’artista e, accanto ad alcuni dipinti, disegni, acquarelli e stampe, presenta soprattutto un nucleo importante di lastre originali provenienti da una collezione

privata tedesca. Recuperate negli ultimi anni, dopo essere state date per disperse, le lastre provengono da un fondo più ampio appartenuto all’editore e mercante d’arte Walter Gurlitt con il quale Corinth aveva iniziato a collaborare nel 1914 in seguito alla rottura con il gallerista Paul Cassirer. Come editore, Gurlitt in quegli anni produsse un gran numero di volumi illustrati, cartelle e singole stampe di alcuni tra cui i più importanti artisti attivi in Germania,

tra cui George Grosz, Alexej Jawlensky, Oskar Kokoschka e Alfred Kubin. Corinth, che aveva praticato la grafica fin dai suoi esordi, cimentandosi con l’acquaforte, la litografia e la xilografia, negli anni in cui lavorò con Gurlitt, si dedicò soprattutto alla puntasecca. E in effetti è questa tecnica che non ammette errori o pentimenti quella che più si avvicina alla sua idea di pittura. Una pittura che nella sua fedeltà a generi come il nudo e la pittura di storia, rimane

quel suo calare il simbolismo, ancora tutto letterario di un Böcklin, nella prosaicità antiretorica della quotidianità riassume perfettamente l’atteggiamento di fondo di Corinth. Dopo l’ictus che lo colpì nel 1911, l’artista riprese più volte questo soggetto con la tecnica dell’incisione, in una progressiva accentuazione drammatica della scena che va di pari passo con la sempre più evidente emancipazione del ductus segnico rispetto alla fedeltà naturalistica dell’immagine, analogamente a quanto avveniva nei suoi dipinti. È questa sostanzialmente l’eredità di Corinth, che sarà raccolta da autori quali Bacon, Freud e Baselitz e che traspare anche nelle puntesecche degli anni Venti, in cui le figure affiorano appena percepibili, eppure così cariche di sensualità, tra l’intrico dei segni, perché come lui stesso affermò poco prima di morire «la vera arte è studiare l’irrealtà». Dove e quando Lovis Corinth. Maestro del colore. Maestro della grafica. Ascona, Museo Castello San Materno. Fino al 4 settembre 2022. Orari: ma-sa 10.0012.00/14.00-17.00; do e festivi 10.30–12.30. museoascona.ch


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CULTURA

Guerra e pace in Grecia antica I nostri antenati/1

Potere, sacrificio, grano: cambiano le guerre ma non le motivazioni

Elio Marinoni

Le notizie e le immagini che quotidianamente ci trasmettono i media sulla guerra in atto in Europa presentano temi e motivi ricorrenti: l’indiscriminata carneficina, che spesso coinvolge i bambini; la folle assurdità della guerra, che rovescia l’ordine naturale delle cose (figli pianti dalle madri e seppelliti dai padri); il dramma dei profughi e più in generale quello dei vinti; la contrapposizione tra i danni, materiali e morali, causati dalla guerra e i vantaggi, materiali e morali, della pace; l’importanza del movente economico; il cinismo nell’affermare le ragioni del più forte, e d’altra parte la necessità di ammantare la guerra di una giustificazione ideologica e propagandistica. Ebbene, gli stessi temi e motivi ricorrono per lo più negli autori classici che si sono occupati di guerra e di pace. Un’amara conclusione si impone: con buona pace dell’Historia magistra vitae di ciceroniana memoria (Cicerone, De oratore, II, 9, 36), aveva ragione Montale ad affermare che «l’historia non è magistra / di niente che ci riguardi» (Eugenio Montale, La storia, nella raccolta Satura del 1971). La letteratura greca ha inizio per noi con l’Iliade attribuita a Omero, un poema dedicato a quaranta giorni dell’ultimo anno di una guerra decennale combattuta da una coalizione di Stati greci, capeggiata da Agamennone, re di Argo e di Micene, contro una coalizione di Stati anatolici, ca-

peggiata dalla città di Troia (altro nome dell’antica Ilio). Le cause mitiche della guerra di Troia (il rapimento di Elena, moglie del re di Sparta Menelao, da parte del principe troiano Paride) sono rievocate da Erodoto nel proemio delle sue Storie (I, 4). Erodoto scrive intorno al 440 a.C., ottocento anni, al suo dire, dopo la guerra di Troia. Se il racconto delle cause mitiche ci può far sorridere, è invece più che plausibile che intorno al 1250 o al 1200 a.C. abbia avuto luogo un conflitto tra una coalizione di Stati greci (micenei) e una coalizione di Stati anatolici. Posta in gioco: il controllo degli stretti che danno accesso al mar di Marmara (Propontide) e quindi al Mar Nero (Ponto Eussino), assicurato dalla posizione strategica della città di Troia, identificata dagli archeologi col sito di Hissarlik (Turchia), dove lo strato VIIb degli scavi presenta tracce di distruzione da incendio. Il controllo degli stretti era importante per garantire il passaggio delle navi commerciali greche, cariche soprattutto di grano proveniente dalle pianure affacciate sul mar Nero, le cui coste (anche settentrionali), furono non a caso oggetto di insediamenti greci fin dai tempi della cosiddetta prima colonizzazione. Il grano, si sa, costitutiva la base dell’alimentazione per l’uomo greco, ma il terreno montagnoso della nazione ellenica non ne garantiva una produzione sufficiente.

Gruppo statuario di Pace e Ricchezza (Eirene e Ploutos), Atene ca. 370 a.C., oggi a Monaco, Museo nazionale. (Wikipedia)

Nei poemi omerici e in particolare nell’Iliade, poema guerresco per eccellenza, il tema della pace ha scarso rilievo, mentre assume un’importanza molto maggiore in Esiodo (VII sec. a.C.): nella Teogonia Eiréne «Pace» appare come figlia di Zeus, insieme alle sorelle Eunomíe, «Buongoverno» e Díke, «Giustizia». Nello stesso torno di tempo si sviluppa però in Grecia l’elegia patriottica, che esalta, come già l’epica omerica, il valore guerriero e celebra il sacrificio della vita in difesa della patria (Tirteo, fr. 10 West, vv. 1-2; Callino, fr. 1 West). L’etica eroica è però contestata, sempre nel VII sec. a.C., dal poeta Archiloco, che guarda alla guerra con l’ottica del mercenario, per il quale essa è fonte di sostentamento: «Nella lancia è per me impastata la pagnotta; nella lancia il vino d’Ismaro; alla lancia appoggiato io bevo» (fr. 2 Tarditi). Di conseguenza, la cosa più importante per lui è salvare la propria pelle, anche a costo di gettare lo scudo per fuggire più in fretta – atto considerato di grande viltà (fr. 8 Tarditi). Forse in polemica con l’etica eroica, in un frammento del poeta corale Pindaro (V sec. a.C.) leggiamo che «per gl’inesperti la guerra è cosa dolce; ma chi ne ha fatto esperienza, l’affronta con terrore» (fr. 110 Snell-Maehler). L’etica patriottica sarà poi oggetto del sarcasmo di Socrate nel dialogo di Platone intitolato Menesseno. (1 – Continua) Annuncio pubblicitario

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CULTURA

Le vertigini del matematico anarchico Pubblicazione

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Intervista a Lorenza Foschini, di cui sta per uscire un’indagine su Cacciopoli

Natascha Fioretti

«Un genio precoce è qualcuno che si deve abituare a convivere con un’intelligenza che non ha confini di spazio e di tempo. Renato Cacciopoli era un genio, tutti quelli che l’hanno conosciuto sono rimasti sconvolti e non l’hanno più dimenticato. Era un genio come Ettore Majorana, Einstein, Beethoven, Proust; il genio è qualcuno toccato dalla grazia, chi ha la possibilità di vederlo rimane a sua volta toccato». Ne è rimasta toccata anche lei, e non poteva essere altrimenti perché Lorenza Foschini, giornalista e scrittrice, con il matematico anarchico condivide origini e radici. Giornalista di lungo corso (attualmente vicedirettrice di Rai Notte), scrittrice, proustiana verace, suoi Il cappotto di Proust. Storia di un’ossessione (2008) e Il vento attraversa le nostre anime (2019), per afferrare l’essenza della natura di Cacciopoli le sono venute in soccorso le illuminanti parole di Leonardo Sciascia su Ettore Majorana, parole che permettono di spiegare quali alte vette e quali profondi abissi i geni precoci riescano a toccare «Gioca col tempo, col suo tempo, coi suoi anni, inganni e ritardi. Tenta di dilatare la misura, di spostare il confine. Di sottrarsi all’opera, l’opera che conclusa si conclude. Che conclude la sua vita». L’autrice lo dice chiaramente: non si può comprendere fino in fondo l’opera di Cacciopoli senza conoscerne l’inquietudine esistenziale che ne ha segnato profondamente il percorso scientifico. Nato a Napoli il 20 gennaio del 1904, bello, fascinoso, poliglotta, grande conversatore, considerato il nipote dell’anarchico russo Michail Bakunin, dichiaratamente antifascista, Renato è stato uno dei più grandi matematici del suo tempo e anche un pianista prodigioso. Lorenza Foschini ne ricostruisce la figura grazie a lunghe e accurate ricerche negli archivi, testimonianze preziose, ma soprattutto partendo dai racconti di famiglia. «Mio nonno Lorenzo frequentò la casa di Giuseppe Cacciopoli a Capodimonte. Lontano zio e grande chirurgo, Giuseppe era sposato con Sofia Bakunin e aveva un figlio, Renato. Quando però mio nonno confessò di non volere fare il medico (come promesso al padre astronomo Francesco morto prematuramente) i rapporti si interruppero per sempre lasciando una ferita aperta in famiglia». Ci si chiede perché una storia che l’ha accompagnata tutta la vita abbia preso forma soltanto adesso «Quando più di dieci anni or sono conclusi Il cappotto di Proust, pensai di raccontare la storia di quest’uomo, ma su Renato fiorivano tante leggende e ho dovuto fare un grande lavoro di ricerca. Alla fine è stato il Covid che mi ha fatto scrivere questo libro chiusa in Toscana nella casa di campagna con i nostri fiori e i nostri cani. È stato quello il momento in cui ho detto “adesso tiro fuori tutte le carte di Renato (ed erano un paio di casse!)”». A proposito di leggende, a Napoli per lungo tempo si è detto che il grande matematico fosse nipote di Michail Bakunin, eppure, come lei riporta nella sua indagine, una lettera del 69 inviata da Locarno al poeta Nikolaj Ogarëv dice tutt’altro... «Sì, sì, ma i napoletani non lo volevano sapere. La lettera la trovo sublime, proprio un feuilleton dell’800, potrebbe stare in un libro di Balzac; Baku-

Lorenza Foschini è nata a Napoli nel 1949. (Youtube)

Buonasera Frankenstein, bentornata Mary In scena ◆ Margherita Saltamacchia incontra i mostri di Mary Shelley Giorgio Thoeni

nin scriveva benissimo. Tutti sapevano che era impotente, parlavano di matrimonio bianco, però era talmente forte la credenza che non la si volle lasciare andare. Bisogna anche comprendere il forte legame tra Cacciopoli e la mia città in cui il movimento anarchico ha radici forti, tutti vedevano le somiglianze con Bakunin che aveva lasciato un’impronta

Il matematico Renato Cacciopoli, Napoli 1904-1959. (Wikipedia)

profondissima in famiglia pur non essendo il nonno biologico». In verità la moglie Antonia ha una relazione con l’avvocato e anarchico napoletano Carlo Gambuzzi e quando Bakunin nel 1876 muore, lei sposa il suo amante dal quale avrà tre figli, Carlo, Giulia Sofia (la futura mamma di Renato) e Maria. La lettera («Caro amico, ci tengo una volta per tutte a spiegarvi i miei rapporti con Antonia e il suo effettivo sposo…») è una scoperta recente di Carmine Colella, professore di chimica dell’università Federico II, negli archivi dell’Istituto internazionale di storia sociale di Amsterdam. Tornando alla sua biografia, dopo aver conseguito la laurea in matematica, nel 1925 Renato diventa assistente di Mauro Picone che in quell’anno viene chiamato all’Università di Napoli. È lui a spingerlo alla ricerca in analisi matematica. Nel 1931 vince il concorso per la cattedra di Analisi algebrica all’Università di Padova e nel 1934 torna a Napoli per coprire prima la cattedra di Teoria dei gruppi, poi quella di Analisi superiore e dal 1943

la cattedra di Analisi matematica. Il 29 giugno 1939 sposa Sara Mancuso. Sulle prime quando arriva a Padova pare sereno, il suo seminario è seguito «da un nutrito numero di studenti che seguono con passione». Poi però l’atmosfera inizia a farsi pesante, Renato avverte sempre più forte il peso del fascismo «che grava su ogni cosa e sopraggiungono incontenibili l’insofferenza, il fastidio dinanzi alla mediocrità, il disgusto per il servilismo che lo circonda». Inizia a vagare senza meta per la città finché una notte scompare. La polizia lo trova sdraiato su una panchina della stazione di Milano senza soldi, con la barba lunga, vestito da straccione e lo arresta per accattonaggio. In questo periodo Cacciopoli inizia anche a bere: «l’alcol – dice l’autrice – era per lui una dilatazione del sé, un anima-dilatatore». Dicevamo in apertura dell’influsso di Sciascia, ma ad aver contribuito alla comprensione della figura di Renato sono state anche le due fotografie che il professore aveva sulla scrivania, quella di Évariste Galois e di Arthur Rimbaud. Mentre il primo condivideva con Cacciopioli «la precocità del talento matematico, la rapidità dell’intuizione e l’assoluta verità nel giungere alla soluzione» con il secondo, il poeta che «ha lottato contro il demone che si agita in lui. Ha aperto tutti i cuori dove tutti i vini scorrono», c’è molto di più. «Già nel 1871 Arthur aveva scritto “Si tratta di arrivare all’ignoto attraverso la sregolatezza di tutti i sensi... è falso dire: io penso; si dovrebbe dire: io sono pensato. Io è un altro”». Lorenza Foschini mette l’accento sulla «prodigiosa eccessiva sensibilità» di Renato e c’è un passaggio del libro in cui lo accosta a Proust, sottolineando come entrambi avessero un attaccamento alle donne di famiglia, poiché erano cresciuti tra le donne: «lui adorava Proust e poi c’è questo rapporto simbiotico tra Proust e Parigi, tra Napoli e Renato. Proprio come Cacciopoli per tutta la sua vita ha cercato un’armonia, Napoli cerca l’armonia nel suo caos. C’è un rapporto di riflesso tra lui e la città che ho voluto raccontare lontano dal folclore e dagli stereotipi, cercando invece di descri-

vere che cosa era Napoli nel Novecento, nell’immediato dopoguerra e cioè una città piena di cultura e intelligenza. Pensiamo soltanto ai salotti che Renato frequentava, da quello di Casa Offritelli, al salotto di Maria Del Re o di Giuliana Brinzoni dove incontra André Gide». Renato abitava nel favoloso Palazzo di Cellamare in via Chiaia 139 e quando la sera usciva «c’erano ad aspettarlo l’intagliatore del vicolo, l’operaio dell’Italgas, tutto un gruppetto che lo aspettava e trotterellava dietro a lui. Quando si uccide, al funerale c’è una città intera in lutto. Passava le notti a bere e a recitare Baudelaire con i femminielli sui gradoni di Chiaia, chiacchierava con le puttane e i ladri in questi profondi antri nei ventri di Napoli. Un po’ come Pasolini, sono quelle persone che hanno un diverso modo di trovare il contatto con l’essere umano e forse si trovano bene soltanto con le persone disperate come loro». Prima di lasciarci, Lorenza Foschini pone ancora l’accento sul fascismo, sul peso che ha avuto nella vita del matematico anarchico «è stato perseguitato e pedinato fino alla morte, prima dal fascismo (lo hanno persino rinchiuso al manicomio), poi dalla Democrazia Cristiana. Non poteva andare ai più grandi convegni del mondo, lui uno dei più grandi matematici viventi. Penso che se non fosse stato un anarchico avrebbe preso il Nobel». Finito il fascismo segue invece la grande disillusione «si pensa che il mondo cambi e invece… Mi piace molto il colloquio tra lui ed Eduardo De Filippo. Entrambi sono entusiasti, credono in questa Italia che rinasce e poi dopo pochi giorni capiscono che è un’illusione. Tra loro nasce un’amicizia profondissima e, nel momento in cui De Filippo parla con Renato, gli viene l’idea di scrivere Napoli Millenaria. Qui viene raccontata la delusione di questi spiriti puri che pensavano finalmente che la città avrebbe avuto un riscatto e invece no». Bibliografia Lorenza Foschini, L’attrito della vita. Indagine su Renato Cacciopoli matematico napoletano, La Nave di Teseo, Milano, 2022.

Carpire i segreti della natura è una costante della ricerca nello slancio alla conquista del sapere, della conoscenza. Come l’impossibile formula per ridare la vita alla materia inanimata. Una dimensione fantastica, dalle radici esoteriche e alla base di un’infinità di riflessioni, di rimandi al mondo dello scibile ma anche a contorti labirinti di misteri a cavallo fra fede e creazione, fra anima e materia. Può un romanzo scatenare tutto ciò? Per rispondere occorre munirsi di più piani d’ascolto. Come è riuscita a fare Margherita Saltamacchia affrontando la rilettura di Frankenstein o il moderno Prometeo accostata alla figura di Mary Shelley, la sua autrice, traendo cioè spunto dal suo diario e dalle lettere, documenti che testimoniano un’esistenza complicata e molto travagliata. Dunque, non solo una brillante operazione di riduzione e adattamento del testo per una platea teatrale ma l’originale narrazione in prima persona costruita sulle tematiche racchiuse nelle pagine del romanzo ottocentesco considerato il primo esempio di fantascienza della storia, un oggetto di culto e punto fermo sul tema della creazione artificiale d’un essere umano. Un sogno di secoli e un problema particolarmente vivo già nel Settecento, come ha sottolineato Mario Praz in una sua celebre prefazione, un vero e proprio mito alla pari del golem d’argilla di Prometeo punito da Zeus. A due anni dal suo debutto riecco dunque Frankenstein, autoritratto d’autrice, uno spettacolo prodotto dal Teatro Sociale di Bellinzona (dramaturg Cristina Galbiati) e tornato in scena al Foce per raccogliere gli applausi del pubblico luganese. Un allestimento volutamente sobrio per lo spazio dovuto all’interpretazione in voce della Saltamacchia al microfono vintage campionato ad arte per differenziare il racconto della Shelley da quello della Creatura e del suo Artefice, tre personaggi che emergono dalle atmosfere musicali dark e metal di Christian Zatta alla chitarra elettrica. Intensa, efficace e solida, la struttura del racconto vede i suoi protagonisti assumere così una dimensione appassionata, matura e avvolgente grazie all’ottima prova dell’attrice con un lavoro che regala al pubblico il misurato senso dell’esplorazione accurata, giusta e profonda, su un soggetto che va ben oltre l’episodio del romanzo gotico e del suo suo mostro senza nome. Un Frankenstein che conduce ai sogni dell’autrice ma anche alle sue sofferenze di madre, alle sue infelicità di sposa, alle fragilità e alle visioni di Mary.

Saltamacchia in un momento dello spettacolo.


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Corpi che parlano e corpi che danzano Teatro

Due spettacoli del Festival milanese «Indicativo presente» che ha omaggiato Giorgio Strehler e il Piccolo di Milano

Giovanni Fattorini

Dei 25 spettacoli in programma al Piccolo di Milano dal 4 al 31 maggio, nell’ambito del Festival internazionale «Indicativo presente»: per Giorgio Strehler (paesaggi teatrali), ne ho visti in tutto 10. In due precedenti articoli di «Azione» ho parlato di Zoo, testo e regia del franco-uruguaiano Sergio Blanco (che vive e lavora a Parigi), di The Future, testo e regia dell’argentina Constanza Macras (che vive e lavora a Berlino), e di Los años, testo e regia dell’argentino Mariano Pensotti (attivo a Buenos Aires). Ora vorrei dire qualcosa su L’aventure invisible, testo e regia dello svedese Marcus Lindeen (Angelholm,1980) e su Wakatt, ideato e coreografato dal burkinabé Serge Aimé Coulibaly (nato a Bobo-Dioulasso, e attualmente operante a Bruxelles e nel Burkina Faso con la compagnia Faso Danse Théâtre, da lui fondata nel 2002). Terza parte della Trilogia delle identità (recentissimamente pubblicata in versione italiana da Il Saggiatore), L’aventure invisible è divisa in quattro sezioni, precedute da una breve parte introduttiva, e ha tre personaggi denominati il paziente, la scienziata, l’artista. La scena è una gradinata circolare, al centro della quale c’è una sorta di piccola arena che gli attori ogni tanto attraversano per spostarsi da un punto a un altro del primo cerchio, dove siedono

tra gli spettatori. Il paziente è un uomo di 45 anni nato con una rara malattia genetica (il nome scientifico è neurofibromatosi) che gli deformava disgustosamente la faccia. Ora, dopo un doppio trapianto eseguito da un chirurgo plastico di Parigi, ha il volto di un ventenne. La scienziata è una neuroanatomista americana (docente presso la Pitié-Salpêtrière di Parigi) che nel 2002, all’età di 37 anni, ha avuto un ictus nella parte sinistra del cervello. L’artista è una donna di età imprecisata che pur essendosi fatta togliere chirurgicamente il seno, ha evitato una radicale scelta transessuale e si è dedicata a ricreare cinematograficamente le immagini di Claude Cahun, scrittrice e fotografa surrealista francese vissuta negli anni Venti, la quale aveva convissuto fino alla morte con la sua compagna, assumendo al posto del suo vero nome, Lucy, un nome epiceno (cioè ambigenere): Claude. Nel testo di Marcus Lindeen (nato dall’elaborazione di tre interviste, e con l’apporto della dramaturg Marianne Ségol-Samoy), i tre personaggi raccontano i loro casi nei modi di una conversazione pacata, interrogandosi e dandosi reciprocamente delle risposte. Il paziente parla dell’estremo disagio di vivere con una faccia da cui gli altri distoglievano lo sguardo, e successivamente degli interrogativi suscitati dalla propria im-

magine riflessa e dal vivere in società con il volto di un altro. La scienziata descrive gli effetti avvertiti a livello fisico e cognitivo subito dopo l’ictus, e il lungo percorso intrapreso per reimparare, avendo perso la memoria del proprio passato, a essere sé stessa, o meglio: «per sapere come comportarsi in quanto me». Mostrando e commentando le immagini fotografiche di Claude Cahun e le proprie ricreazioni cinematografiche (visibili su due monitor posizionati al di sopra del pubblico), l’artista dice di essersi quasi identificata con Claude e di essere arrivata alla conclusione che «in termini di genere la scelta più coraggiosa che si possa fare è non fare scelte». Qualificare col termine «pacata» la conversazione dei tre personaggi mi sembra giustificato dal volume costantemente basso delle voci oltre che dall’estrema sobrietà di gesti dei tre bravi interpreti (Claron McFadden, Tom Menanteau, Franky Gogo). Questo tipo di recitazione, a mio parere, è anche conseguenza di una scrittura che a fini di chiarezza comunicativa persegue la piena normalizzazione grammaticale e sintattica del discorso, sacrificando altresì le variazioni di registro e il peculiare andamento delle singole parlate (come avviene di norma nelle interviste giornalistiche). È impossibile non rilevare come

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Un momento dello spettacolo Wakatt di Serge Aimé Coulibaly. (Sophie Garcia)

nello spettacolo di Marcus Lindeen – dove il tema dell’identità è strettamente legato a quello del corpo – gli attori facciano un uso limitatissimo dello strumento corporale. Che viene invece esaltato nello spettacolo di Serge Aimé Coulibaly. Il quale ha dichiarato che al fondo di Wakatt (parola che significa «tempo presente») c’è il tema della paura (effetto e causa dei conflitti) e quello della necessità di abbattere muri e costruire ponti. Detto così, suona un po’ vago, generico, astratto. Ma in Wakatt non c’è

nulla di dimostrativo, di predicatorio, di didascalico. C’è invece la concreta e plastica presenza dei corpi (maschili e femminili, vestiti o seminudi), che sia quando si scontrano o si agitano convulsamente, sia quando trovano brevemente quiete (accompagnati da affascinanti musiche dal vivo), risultano animati da una straordinaria vitalità. E non c’è nulla di vistosamente folklorico nel vocabolario corporale dei danzatori. Al più, per fare un esempio, dei movimenti che a volte fanno pensare alla trance.

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Semplificare senza snaturare, aiutare a capire, a creare curiosità e interesse; ma anche capacità di opporsi alla volgarizzazione imperante, alla vulgata secondo cui contenuti «alti» passano solo per il tramite dell’intrattenimento anche «caciarone». Sono le annose sfide della mediazione nei media elettronici. Se nell’informazione questo aspetto sembra ormai ottuso dalla narrazione guerriera (e inquietante, in talune sue modalità da terrorismo argomentativo), vi sono in ambito culturale elementi che fanno sperare di uscire da una situazione paludosa. Mi riferisco, ora, a trasmissioni come Dilemmi (Rai3, lunedì) e, forse, Cliché (RSI La1, giovedì), in cui si cercano narrazioni nuove per indagare il presente, per investigare la portata e la tenuta di taluni «valori» (l’impegno, banalità vs originalità, il rapporto con la verità). Su tutto, una sorta di soprassalto etico nel segno della riscoperta (e

Ad esempio, praline Lindor al cocco 200 g, al latte 200 g e ai lamponi 200 g

Gianrico Carofiglio è il protagonista di Dilemmi. (rai.it)

della rivendicazione) della complessità del reale e del pensiero; da quanto ci pare di capire, è questa una delle articolazioni fondanti del nuovo corso della politica culturale della RSI, ed è un gran bene che sia così. In Dilemmi uno scrittore di facile e fluviale penna (Gianrico Carofiglio) mette di fronte sostenitori di tesi opposte, facendo precedere il cortese certame da una introduzione un po’ sdottoreggiante. Al netto di talune pedanterie professorali piace l’andamento piano e riflessivo del colloquio, il rispetto tra gli interlocutori, il piacere dell’indagare, la disponibilità a capire, la capacità di stimolare pensieri e letture. Lella Costa, con la sua chiosa finale, è una delizia vera. Cliché rappresenta una sfida nuova, forse sperimentale, ancora da valutare ma già confidando in una ripresa autunnale, e nel permanere dell’ispirazione; è un programma articolato e sinuoso, forse anche sontuoso nelle immagini e nelle voci, a conferma di un cambio di passo deciso, di un impegno non di facciata. Il presentatore (Buccella) è pure autore del programma; già si è detto della necessità per la RSI di curare gli aspetti autorali e di non lasciarli al talento istrionico di presentatori-animatori, ma se nello specifico si è trovato il centauro capace di essere uno e bino allora benissimo, guarderemo e capiremo. Nella prima puntata, il piacere e il valore del banale sono stati indagati con buon piglio, con un ottimo corredo di immagini e con ospiti interessanti. Bella cosa, quella di partire dal recupero del banale per veicolare la riscoperta del complesso linguaggio del mondo.


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Note celesti nella quotidianità Musica ◆ Quale spazio era concesso alla musica extraliturgica in ambito cattolico? Carlo Piccardi

Ai limiti dell’iconolatria e del feticismo, tollerati se non proprio incoraggiati dall’istituzione ecclesiastica, negli oggetti sacri casalinghi che configurano un immaginario fondato sul rapporto individuale con Dio, con la Madonna, coi santi, è misurabile l’adattamento della religione alle situazioni storiche, al divenire sociale. Dalla sobrietà dei modi di vita contadina proviene il profilo disadorno e antiretorico di preghiere e di figurazioni opposte allo sfarzo di non poche manifestazioni ufficiali della fede, a volte ai confini con la vanità mondana. Dalla concezione di vita borghese, ripiegata sulla condizione individuale, proviene la disposizione affettiva alla traduzione delle regole in sollecitazioni sentimentali, espressa nell’immagine del cuore trafitto dalle spine. Quale spazio era concesso alla musica, accanto ai quadretti con le immagini dei santi, alle corone di spine, ai rami di olivo, ai fiori di carta e a tutta la restante oggettistica religiosa cattolica? In verità da tempi immemori dovette esistere un canto religioso per funzioni extraliturgiche, perlomeno dalla lauda intonata dalle confraternite medievali, dalla lauda degli oratori filippini del Cinquecento fino ai Noël francesi, ai canti natalizi, integrati nella liturgia parrocchiale e certamente cantati anche in ambito domestico. Negli anni della Rivoluzione in Francia, quando la campagna anticlericale degenerò nella distruzione degli organi nelle chiese e nella soppressione delle cappelle e delle scuole musicali nelle cattedrali, nelle abbazie e nelle parrocchie, la musica d’uso religioso familiare dovette anzi intensificarsi. Il significato fondamentale di questa cesura fu riconosciuto da Raimondo Boucheron nella sua Filosofia della musica (Milano 1842): «La

crisi politica che sconvolse l’Europa in sul cadere del passato secolo mosse guerra all’altare non meno che al trono. Gli uomini ingannati dai sofismi di torbide menti abbjurarono in massima la religione. L’anarchia, più eloquente delle teologiche confutazioni, fece conoscere l’errore. Fu abbjurato alla sua volta l’ateismo, e la ragione fatta saggia dalla speranza venne pure a proclamare unica vera la religione del Vangelo. Ritornammo cristiani, ma non per anco divoti. Quando saremo tali, le arti riassumeranno il vero carattere religioso; avremo una musica sacra comunemente intesa e veramente nostra, perché sarà l’espressione vera di un affetto provato». Senza più certezza di riferimento stilistico al di là dell’«affetto provato» le motivazioni per il rinnovamento della musica sacra non venivano cercate nella sua funzionalità più o meno monumentale ma nel sentimento, nella manifestazione di fede privata. Crebbe in tal modo un filone di musica religiosa che non implicava più direttamente la destinazione a risuonare sotto le volte di una cattedrale ma con caratteri di scrittura a misura dell’ascolto individuale, che manifestavano predilezione per l’accompagnamento organistico, spesso dichiaratamente di harmonium, strumento presente non solo nelle piccole chiese ma anche negli ambienti domestici, per non parlare del pianoforte usato con sempre maggiore frequenza a sostegno delle parti corali. Si tratta di una maniera che ovviamente non si imponeva in modo esclusivo e che rimaneva subalterna, ma che si insinuava anche nelle paludate composizioni destinate alle grandi occasioni. Ne troviamo traccia nella Messe solennelle à Saint-Cécile di Charles Gounod, dove il soprano intona il «Gloria» librato al di sopra di un coro

Nardo di Cione (c.13201365/1366), San Giovanni Battista insieme a San Giovanni Evangelista e San Giacomo, National Gallery, Londra. (Wikipedia)

a bocca chiusa, combinazione sonora priva di riferimenti ufficiali ed esibita in base al valore di provocazione soggettiva dal tenue esito. D’altra parte è significativo il fatto che nell’«Agnus Dei» il compositore volesse che la seconda invocazione sulle parole «Domine non sum dignus» fosse affidata «al soprano, simbolo del fanciullo, in cui la tema è minore e la fiducia più grande a causa della serenità che gli viene dall’innocenza». Non solo ci troviamo di fronte a una rivendicazione del diritto alla soggettività dell’espressione musicale sacra, ma non vi passa inosservato il riferimento al fanciullo, all’incarnazione dell’innocenza e della beatitudine a cui l’espressione ambisce ad assurgere, non per la via speculativa di una scrittura musicale epurata attraverso la disciplina compositiva, ma per la via diretta dell’ispirazione lirica, della resa all’affettuosità del dialogo con l’infanzia, in una soluzione che fa appello alla quotidiana esperienza della famiglia. Non è un caso che nel lungo catalogo delle composizioni religiose di Gounod spuntino titoli quali Quand l’enfant prie, l’Ave Maria de l’enfant, Jésus à l’autel (souvenir de première communion), ecc., che il tema della preghiera si imponga in quanto legato alla scansione del tempo casalingo (La prière et l’étude), che l’evocazione dell’angelo custode (Messe des anges gardiens) muova la musica alla ricerca di un sonoro candore liliale. A questo punto può essere riletta l’Ave Maria composta da Gounod sul primo preludio del Clavicembalo ben temperato di Bach, convenzionalmente indicata come manifestazione paradigmatica del kitsch, che alla luce della concezione della religione integrata nelle pratiche familiari rispecchia piuttosto (magari diventando occasione per l’esibizione della figlia cantante prediletta nel salotto di casa) l’immagine di continuità tra lo studio giornaliero al pianoforte e il momento della preghiera. Se si tratta di un filone che ha certamente ceduto al kitsch con l’abuso delle varie Prière d’une vierge, esso ha anche portato ad alti esiti quali il Requiem di Fauré, nell’assenza di ogni clamore e nel parco organico sommessamente messo in opera, filone particolarmente coltivato in Francia almeno fino al florilegio di composizioni religiose di Francis Poulenc, il quale usava rifarsi alla «dévotion paysanne» e che si sottraeva agli obblighi di comporre per le funzioni di grande prestigio: «Cerco di dare un’impressione di fervore e soprattutto d’umiltà, per me la più bella qualità della preghiera. La mia concezione della musica religiosa è essenzialmente diretta e, se così posso dire, familiare… Nessun Te Deum per Notre-Dame».

Il Maestro Diego Fasolis. (fotogonnella)

Nuove stagioni con Vivaldi

Concerti ◆ Un appuntamento con i Barocchisti per ringraziare il personale sanitario attivo nella cura del Covid Enrico Parola

«Scusi, ma in campagna, quando un cane abbaia, se ne sentono altri rispondere con altri latrati o no? Ecco, noi li faremo sentire, e ci sarà da divertirsi». Ci si creda o no, anche queste annotazioni faunistiche sono frutto delle meticolose ricerche della filologia musicale. E sempre grazie alla «prassi filologicamente informata», come viene dottamente etichettata, mercoledì 15, al LAC, si potranno ascoltare le Quattro stagioni di Vivaldi con flauti, oboi e corni aggiunti ali archi. «Anche se non c’è arrivata nessuna partitura scritta in cui gli strumenti a fiato siano previsti nell’organico, ne parlano le cronache dell’epoca, ad esempio citando un’esecuzione di Pisander, e su quella mi ero basato per incidere le Stagioni vent’anni fa. Nella Primavera i flauti raddoppiano i violini, tanto nella celebre melodia d’apertura quanto nei vari abbellimenti che evocano puntualmente i vari elementi del quadro agreste musicato da Vivaldi; nell’Autunno le scene di caccia non potevano mancare dell’eco dei corni, e altri due oboi aggiungeranno voci e colori all’insieme». Diego Fasolis si diverte a dettagliare la versione delle Quattro Stagioni che dedicherà con i suoi Barocchisti al personale sanitario della clinica luganese di Moncucco impegnato nell’affronto della pandemia. «I fiati raddoppiano alcune parti degli archi, ma non è solo una questione di timbri e strumenti, sono innanzitutto le scelte esecutive a dare evidenza icastica alle immagini dei quattro Sonetti posti come traccia letteraria per ognuno dei quattro concerti per violi-

no e archi che compongono le Stagioni. Non basta suonare bene, bisogna essere espressivi: in ogni esecuzione si può ascoltare il cane che abbaia nell’afa estiva, ma se eseguite in un determinato modo certe parti dell’ensemble fanno riecheggiare le risposte dei cani dei contadini limitrofi. Anche il bilanciamento agogico è importante: nell’Inverno le intemperie vanno giustamente suonate forte, ma non ci si può dimenticare che sono viste dal dentro di una casa in cui si sta assaporando il tepore del fuoco, quindi è importante che la parte del violino solista, cui Vivaldi affida la «scena domestica interna», suoni piano. Ho chiesto ai musicisti di essere espressivi anche come atteggiamenti e modo di stare sul palco». Fasolis, che il giorno dopo sempre al LAC affronterà la Messa in si minore di Bach, per poi portarla nella chiesa di Johann Sebastian, la Thomaskirche di Lipsia, intercalerà a ogni stagione arie dall’Orlando furioso e dal Farnace, intonate dal mezzosoprano Lucia Cirillo. Dove e quando Concerto per i sanitari della Clinica Moncucco, 15 giugno 2022 (20.30), Lugano, Palazzo dei Congressi. Antonio Vivaldi, Le Quattro Stagioni, Arie dall’Orlando Furioso e Farnace. I Barocchisti diretti da Diego Fasolis, con Duilio Galfetti, violino, Lucia Cirillo, mezzosoprano. Nel 2023 è previsto un altro concerto per l’ospedale La Carità di Locarno, l’altro centro dedicato alla lotta al Covid. Biglietti: www.biglietteria.ch Annuncio pubblicitario

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CULTURA

Il desiderio in tutta la sua splendente diversità Cinema

A colloquio con il giovane cineasta svizzero Patrick Muroni, autore di Ardente.x.s

Muriel Del Don

Nato in Alta Savoia, in un paesino dove il tempo sembra essersi fermato, da genitori che con il mondo dell’arte avevano poco a che vedere, Patrick Muroni è capitato all’ECAL (École cantonale d’art de Lausanne) quasi per caso, attirato dal caos creativo della grande città. Il cinema è stato per lui uno strumento potente con il quale catturare questa frenesia, per preservare la memoria di persone e luoghi che l’hanno fatto crescere come artista e come persona. Il suo cortometraggio di diploma Un matin d’été, autoprodotto (è bene sottolinearlo), selezionato al Locarno Film Festival 2019, parla del complicato ritorno a casa dopo aver assaporato la libertà di un rave party ed è emblematico della voglia di Muroni di parlare della sua generazione. Il suo universo cinematografico è popolato da giovani personaggi che tracciano la loro strada al di fuori di un sistema a tratti soffocante che non li comprende. Assetati di libertà, non si conformano a una società che rigetta il «diverso», che vorrebbe controllare tutto e tutti. Preferiscono costruirsi attraverso esperienze comunitarie che si trasformano in modelli alternativi. Con il suo primo lungometraggio Ardente.x.s, Patrick Muroni continua la sua indagine del mondo giovanile mettendo in scena le avventure della casa di produzione dedicata alla realizzazione di film pornografici «etici e dissidenti» OIL Production, un collettivo formato da donne e persone queer che trasforma la sessualità in atto militante. Lo abbiamo incontrato al festival Visions du Réel di Nyon, dove ha presentato il suo film in prima mondiale. Come nasce l’idea del film? Ho avuto la fortuna di conoscere una delle cofondatrici di OIL Production, Nora Smith, all’ECAL di Losanna. In seguito, Nora ha incontrato Mélanie Boss e insieme hanno deciso di fondare una casa di produzione dedicata alla creazione di film pornografici etici e dissidenti. Il loro progetto mi ha incuriosito, era un «universo» nuovo che mi ha spinto a pormi molte domande. Una settimana dopo ho chiesto se potevo filmare, cosciente però di essere una sorta di outsider. Non volevo fare parte del progetto, ma mi intrigava e interessava filmarne l’evoluzione. Si è creato immediatamente un patto di fiducia. Ardente.x.s è un progetto che parte da un legame d’amicizia, da una storia intima. La problematica trattata nel film non ti ha spaventato? Ti sei chiesto cosa filmare e cosa lasciare invece all’immaginazione? All’inizio quello che mi interessava era semplicemente filmare le mie amiche/i miei amici. Poi ovviamente il soggetto trattato mi ha spinto a interrogarmi sull’aspetto politico che il film avrebbe avuto. Come quello di imporre la mia visione in quanto outsider che non fa comunque parte del circuito della cultura queer. Ho imparato molto grazie al collettivo che ho filmato per un anno e mezzo. Ho scoperto un sacco di cose che mi hanno aiutato a crescere, questo anche grazie a letture fondamentali di autrici quali Iris Brey e il suo Le regard féminin che tratta il tema del male gaze, Virginie Despentes e il suo capolavoro King Kong Théorie o ancora Alma M. Garcia, Paul B. Preciado e il documentario Mutantes

mi hanno catturato grazie al loro sguardo poetico e metafisico. Sono stato ispirato anche da Yann Gonzalez, Virgil Vernier e Andrea Arnold. Esteticamente mi affascinano i lavori di Harmony Korine o Gaspar Noé. Detto ciò, non sono dogmatico, mi piace lasciarmi stupire. Influenze a parte, devo ammettere che cinematograficamente devo tutto al mio direttore della fotografia Augustin Losserand. È lui che mi ha insegnato a filmare ed è il direttore della fotografia di tutti i miei film. Still da Ardente.x.s. (Swissfilms.ch)

della già citata Despentes sulla storia della pornografia, senza dimenticare Annie Sprinkle che parla della post pornografia. Questa educazione reciproca ci ha permesso di capirci mutualmente. Ho anche voluto vedere come la Svizzera contribuiva a questa rivoluzione globale. Sono orgoglioso di dire che anche il nostro paese fa la sua parte, che c’é una gioventù viva e attiva. La nostra è una nazione nella quale succedono molte cose! Ho riflettuto solo successivamente su come filmare queste persone, sul concetto di female e male gaze. Sono un uomo cisgenere, bianco ed etero, e la prima cosa da fare in quanto alleato del femminismo non è di certo parlare esclusivamente con e per gli altri uomini, cis, bianchi ed etero, ma estendere piuttosto il discorso ad una comunità più ampia e variegata. Da questo punto di vista la mia è una presa di posizione politica. Evidentemente volevo che questo film parlasse alla comunità queer ma anche e soprattutto a chi non ne fa parte. Artisticamente, i film di OIL Production non sono fatti da ragazze per ragazze, sono per tutti, per un piacere per così dire universale! C’era la voglia di mettere davanti il fatto che siamo una generazione fluida, in costante movimento. Il collettivo stesso è fluido, vogliamo demistificare, decostruire le sessualità e il genere, e ce la faremo! Come hai fatto per farti accettare dal collettivo? Come detto, il fatto di conoscere Nora mi ha aiutato molto. Ho cercato di rimettere costantemente in discussione il mio sguardo e abbiamo discusso moltissimo. Incontrare tutti i membri del collettivo è stato sconvolgente. Vengo dalla campagna, dall’Alta Savoia, i miei genitori non fanno parte di questa cultura o del mondo dell’arte e mi sono interessato al cinema un po’ per caso. Aprirmi al collettivo OIL è stato un atto politico. Il film parla molto dello sguardo. Come ci guardiamo, come ci poniamo di fronte ai media e ai social, cosa resterà di noi. Nel caso di OIL Production, i film resteranno anche dopo la fine del progetto: cosa è osceno e cosa non lo è? Mi sono soprattutto posto la domanda di come riuscire a non sessualizzare i corpi. Non è impossibile, ci sono dei mezzi per evitare questo pericoloso tranello. I tuoi film mettono spesso in scena dei giovani, ti consideri una sorta di porta parola della nuova generazione? I miei primi due cortometraggi parlano di questo, dei giovani della mia generazione. Questo tema mi inte-

ressa perché ho vissuto una gioventù un po’ particolare, in campagna, dove non c’era assolutamente nulla. Arrivando in città e vedendo tutto il fermento che l’animava, mi sono detto che c’era molto da raccontare. Mi piace parlare con la gente e spesso quando esco mi diverto a osservare le persone. Durante l’adolescenza succedono molte cose ed è un momento cruciale di costruzione dell’identità, concetto che però oggi è messo spesso in questione, anche grazie a internet. Nei miei film desidero mostrare come viviamo anche a chi non è della mia generazione. Ho la speranza un po’ ingenua e malinconica che le ge-

nerazioni future si ricorderanno di noi così. Ho scelto il titolo Ardente.x.s perché voglio mostrare che, soprattutto oggi, abbiamo bisogno di vivere e di decostruirci con «ardore»! Quali sono le tue influenze estetiche? Mi sono avvicinato al mondo della cultura e dell’arte abbastanza tardi e ammetto di avere molte lacune, ma diciamo che per me tutto è cominciato con Holy Motors di Leos Carax. Non ho capito niente del film ma è stato un grande shock (positivo)! Poi sono arrivati Alain Guiraudie, Bruno Dumont e Terrence Malick che

Ti senti di fare parte di una nuova generazione di giovani registi svizzeri? In Svizzera mi piacerebbe ci fosse più coesione tra registe e registi. Sono comunque felice di giovani registi come Elie Grappe e Andreas Fontana che fanno film con passione. Spero che anche i miei film riescano a «parlare» alle giovani generazioni. Ho una sorella minore e ho pensato molto a lei mentre giravo il film. Mi sono reso conto di come manchino modelli al di fuori del mainstream e sono contento che si cominci a finanziare un cinema «diverso», come nel caso di Ardente.x.s. Spero ci siano le premesse per una vera e propria rivoluzione! In quanto registi e registe bisogna prendere dei rischi. Il mio è un film sulla libertà: bisogna essere liberi e creare! Annuncio pubblicitario

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