Azione 25 del 17 giugno 2024

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edizione 25

MONDO MIGROS

Pagine 2 / 4 – 5

SOCIETÀ Pagina 3

Ragazzi e media: è sempre più urgente spiegare ai giovanissimi che cos’è il deepfake

Come assecondare in maniera creativa la tentazione di rimanere a letto invece di studiare o lavorare?

TEMPO LIBERO Pagina 15

Siamo in guerra senza saperlo

Anni fa un operatore sociale di trincea, famoso per l’aiuto agli sbandati della sua città, mi aveva rivelato che tutte le mattine prima dell’alba passava all’obitorio per sapere quanti morti fossero arrivati in nottata. Si occupava di tossicodipendenti e, all’epoca, molti di loro morivano per overdose. Mi era sembrata un’abitudine macabra, così come lugubre ho sempre considerata la mania di molti anziani di cominciare a leggere il giornale dal fondo, ovvero dalla pagina dei morti.

Pur convinto che sia più sano svegliarsi pensando ai vivi che ai trapassati, mi sento tenuto ad imitarli. Perché, a volte, bisogna fare la conta dei defunti per capire come funziona la società dei vivi. Così, con disperato scrupolo giornalistico, ho cercato di verificare quanti morti generano nell’arco di 24 ore le due guerre di cui più si parla. Disperato, perché di cifre sicure, quando si ragiona di conflitti, non ce ne sono.

Comunque, giusto per non buttar via il lavoro di ricerca di qualche ora, calcolo che i morti nell’opaco conflitto ucraino varino dai 130 ai 260 al giorno, a seconda di chi la racconta giusta sui due fronti che – incrociando le fonti – conterebbero dall’inizio delle ostilità, due anni e tre mesi fa, 30 mila morti tra le truppe ucraine, 60 mila tra quelle russe e almeno 10 mila tra i civili. Ma altri ricercatori raddoppiano la stima ed ecco spiegata la forchetta 130-260 morti al dì. Quanto a Gaza, dal 7 ottobre scorso sono stati uccisi oltre 1800 israeliani (1200 civili e 600 militari) e quasi 38 mila pa-

lestinesi, in gran parte – non esattamente quantificabile – civili, per un totale statistico di circa 160 morti al giorno. Ho invece evitato di raccogliere dati su altre guerre che perdurano da anni, come nello Yemen o in Siria, ma non credo che i risultati siano tanto diversi.

La mortalità quotidiana dei conflitti attuali mi sembrava già sufficientemente apocalittica, fin quando mercoledì scorso, sfogliando «Le Monde», non ho letto che la guerra più cruenta - quella che uccide più che in Ucraina, a Gaza e in numerosi altri scenari dei nostri tempi e di quelli passati - è invisibile e che le sue potenziali vittime non sono lontane nello spazio o nel tempo, ma siamo noi: proprio così, io che scrivo e tu che leggi.

Latrice del ferale messaggio è l’Organizzazione mondiale della salute che nello studio riassunto da «Le Monde», spiega che ogni giorno nei Paesi d’Europa sono 7400 le morti provocate direttamente o indirettamente dalle industrie del tabacco, degli alimenti ultra trasformati, dei combustibili fossili e dell’alcol. Eccola qua, fuori dai radar dell’attenzione generale, scatenata dalle nostre scelte quotidiane e finanziata coi nostri soldi, la guerra più subdola e letale: 2,7 milioni di morti l’anno, un milione dei quali falcidiati dal tabacco, 580 mila dall’inquinamento da polveri sottili, 430 mila dall’alcol e 400 mila dall’eccessivo consumo di sale, carne lavorata, bevande zuccherate e acidi grassi saturi. Eravamo in guerra da sempre e neppure ce n’eravamo accorti.

17’464 soci hanno votato (partecipazione al voto 17,4%)

Approva i conti annuali 2023, dà scarico al Consiglio di amministrazione e accetta la proposta per l’impiego del risultato di bilancio?

SI: 16’245 96,1%

NO: 662 3,9%

Sant’Antonino, 17 giugno 2024

Composizione degli organi statutari della Cooperativa Migros Ticino per il periodo legislativo 2024-2026/28 Le seguenti persone sono state elette per il periodo di mandato che ha inizio il 1° luglio 2024 quali membri degli organi statutari della Cooperativa Migros Ticino o designate quali rappresentanti della cooperativa all’Assemblea dei delegati della Federazione delle cooperative Migros. Consiglio di cooperativa di Migros Ticino (mandato di quattro anni)

Conformemente allo Statuto, dal 1° luglio 2024 il Consiglio di cooperativa si compone di 32 membri, in maggioranza donne. In occasione della sua riunione costitutiva il Consiglio di cooperativa provvederà a eleggere il presidente, il vicepresidente nonché altri 3-5 membri che formano il Comitato.

ATTUALITÀ Pagina 23

Dopo il sì del 9 giugno alla nuova legge sull'energia si fanno avanti i fautori del ritorno all’atomo

Il Museo d’Arte di Mendrisio omaggia Enrico Castellani e le sue tele dall’«epidermide dinamica»

CULTURA Pagina 35

Lo sguardo sul mondo di Fosco Maraini

RISULTATI VOTAZIONE GENERALE 2024 E GLI ELETTI

1. Anna Baratti, Ponte Capriasca

2. Daniela Biadici, Cavergno

3. Sergio Bisanti, Genestrerio (nuovo)

4. Clara Borsari, Muzzano

5. ** Nadia Bregoli, Morbio Inferiore

6. Patrizia Capuani Rima, Bellinzona (nuova)

7. Sandra Casoni, Agno

8. ** Cristina Coduri Mossi, Mendrisio

9. Antonella Copis, Cadro

10. Maurizia

* Letizia Hofer, Cadenazzo (nuova)

* Nilla Jäger, Stabio

* Christoph Löhrer, Cugnasco (nuovo)

Annarita Mazza-Grandi, Capolago

** Patrizia Mazzola, Sorengo

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 17 giugno 2024 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
Fosco Maraini / Gabinetto Vieusseux © 2024 Archivi Alinari.
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Dal Zovo, Gnosca Maria De Boni, Biasca Letizia Delmenico, Novaggio Luca Ferrari, Cureglia Patrizia Ferrari, Cadro ** Andrea Gamba, Cugnasco (nuovo) * Francisco Gessi, San Vittore
17.
Maurizio Giovannacci, Roveredo Grigioni (nuovo) ** Sandro Glaus, Losone Simona Guenzani, Breganzona
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Eleonora Pellanda, Locarno
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Daniele Poggiali, Cureggia * Ombretta Serena, I-Maslianico Silvana Solari, Cadenazzo Maria Teresa Soldini, Sigirino Alessandro Speziali, Minusio ** Simona Vezzoli, Prato Leventina
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Rita Weit, Bellinzona * = collaboratori della Cooperativa Migros Ticino ** = delegati all’Assemblea dei delegati alla Federazione delle cooperative Migros Consiglio di amministrazione della Cooperativa Migros Ticino (mandato di due anni) Gianni Roberto Rossi, Brissago, presidente Dario Cellura, Carona, membro eletto dal personale (nuovo) Sharon Guggiari Salari, Lugano, membro Luigi Pedrocchi, Ormalingen (BL), membro Daniela Willi-Piezzi, Arbedo, membro È infine stato eletto l’ Ufficio di revisione per un mandato di due anni (esercizi 2024 e 2025) Ernst & Young, Lugano Il Consiglio di amministrazione ringrazia per la fiducia accordatagli

ACTIV FITNESS, storia di un successo

Anniversari ◆ L’amata catena di centri fitness di Migros festeggia i primi dieci anni su suolo ticinese

Negli statuti di Migros si trova anche un esplicito impegno nella promozione della salute della popolazione, che si realizza attraverso una serie di iniziative capillari e un’offerta costantemente attenta ai bisogni di cittadine e cittadini. Delle proposte di Migros per la cura – fisica e spirituale – del sé, fa parte anche la catena di palestre ACTIV FITNESS, che quest’anno in Ticino celebra i dieci anni di attività: era infatti il 2014 quando Losone vedeva l’apertura del primo centro. Per festeggiare questo importante traguardo, prima tappa del successo di ACTIV FITNESS in Ticino abbiamo incontrato il direttore e primo promotore di questa iniziativa Pierpaolo Born, nonché il Responsabile regionale per i centri ACTIV FITNESS in Ticino Simone Posavec.

Per chi ancora non la conoscesse, un po’ di storia: come e dove nasce ACTIV FITNESS?

La prima palestra nacque nel 1984 a Erlenbach in seguito a un’iniziativa privata; nel 2007 Migros Zurigo riprese i nove centri presenti nella Svizzera tedesca, e nel 2012 ACTIV FITNESS aprì il suo primo centro nella Svizzera francese; nel 2014 i centri erano ormai già 35, e nello stesso anno ACTIV FITNESS approdò

anche in Ticino, con la prima filiale di Losone. A seguito del successo ottenuto, sono quindi state inaugurate delle palestre anche a Lugano (2015), Bellinzona (2016), Mendrisio (2018), Vezia (2019) e Giubiasco (2022), così da coprire i principali agglomerati del Cantone.

Quando dieci anni or sono nasceva ACTIV FITNESS, con quale mercato ha dovuto confrontarsi?

Si era fatta un’analisi, scoprendo che c’erano tante palestre che agivano da single player, ossia da entità a sé stanti. La novità di ACTIV FITNESS era rappresentata dal fatto che, attraverso un unico abbonamento (riconoscibile dal braccialetto elettronico), fosse possibile usufruire dei suoi servizi fitness su tutto il territorio nazionale. Questo permette allo studente ticinese di allenarsi anche a Berna o a Ginevra, così come alla turista svizzero tedesca di frequentare ad esempio la palestra di Losone quando si trova qui per le vacanze. Chi è abbonato ad ACTIV FITNESS può allenarsi in ben 121 diversi centri in tutte e quattro le regioni linguistiche della Svizzera.

ACTIV FITNESS ha numerose sedi in Ticino, e registra un grande successo. A cosa lo imputate?

Crediamo sia da ricondurre alle caratteristiche del concetto proposto da ACTIV FITNESS Ticino SA, società controllata al 100% da Migros Ticino e che opera sulla base di un accordo di franchising con movemi AG, il leader svizzero del settore. Alla base del nostro successo ci sono diversi fattori, tra cui un ottimo rapporto qualità-prezzo, la presenza di attrezzi sempre all’avanguar-

dia, un’offerta molto variata di corsi di gruppo, la presenza di personale specializzato e qualificato, nonché un accesso illimitato esteso a tutti i giorni dell’anno. ACTIV FITNESS offre anche una zona wellness in costante evoluzione con dei giorni dedicati (donne/uomini/mix) e uno spazio dedicato ai bambini sino ai 10 anni di età con assistenza. I centri ACTIV FITNESS sono facilmente raggiungibili, poiché si trovano in posizione strategica. ACTIV FITNESS gode inoltre della Certificazione Qualitop, grazie alla quale si possono richiedere dei contributi ai costi dell’abbonamento a numerose casse malati (sono offerte anche agevolazioni ai beneficiari AVS/AI e agli studenti e apprendisti). A tutto ciò si aggiungono servizi a pagamento come massaggi, fisioterapia, solarium e consulenza alimentare. Last but not least, ACTIV FITNESS si rivolge a tutta la popolazione, dalle generazioni X,

Tra partenze, arrivi e strategie

Tempo di partenze e di nuovi arrivi: è il succo del Consiglio di cooperativa (Cc) di martedì 11 giugno 2024 nella sede di Migros Ticino a Sant’Antonino. Presieduta da Gaby Malacrida, la seduta ha permesso di confrontarsi con l’imminente Assemblea dei delegati straordinaria, nonché con alcuni sviluppi interni all’azienda.

Gaby Malacrida ha presentato i profili dei quattro candidati alla presidenza dell’Assemblea dei delegati della Federazione delle cooperative Migros. Sabato 15 giugno era infatti in programma un’assemblea straordinaria durante la quale i 110 rappresentanti delle dieci cooperative regionali Migros sono stati chiamati a eleggere il/la presidente per il periodo elettorale luglio 2024-giugno 2026.

Ha quindi preso la parola il Responsabile del personale Claudio Paganetti, che ha spiegato come, al fine di estendere il numero di giovani in formazione, e per un desiderio di

ringiovanire l’azienda, si sia deciso di rafforzare il ruolo di formatrici e formatori. Il numero dei posti di apprendistato disponibili a Migros Ticino sono così aumentati, e non si traducono solo in posizioni di impiegati o assistenti di vendita, ma anche di meccanici/che di autoveicoli, autiste/i di veicoli, cuochi e cuoche, addette/i alla cucina o alla logistica, impiegate/i nella gastronomia, ecc. Attualmente sono impiegate/i presso Migros Ticino 56 apprendiste/i, di cui 41 nella vendita. Come ha illustrato Paganetti, per implementare gli apprendistati, sono state necessarie diverse misure. Dapprima un cambio culturale, che ha visto nella figura del/la sostituto/a gerente quella di formatrice o di formatore, sgravando così la/il gerente. Per «pubblicizzare» i posti di apprendistato ci si è affidati a diversi mezzi, tra cui Linkedin (per raggiungere i genitori), Facebook (per raggiungere i giovani

candidati) e il settimanale «Azione». Il direttore di Migros Ticino Mattia Keller ha iniziato il proprio intervento riallacciandosi al tema dei giovani, necessari all’azienda, poiché «la o il giovane fanno nascere una serie di reazioni all’interno di qualsiasi team: in questo modo i nostri team si sono svecchiati. Inoltre, si portano appresso amiche e amici». Una sorta di fidelizzazione naturale, che se da un lato porta a un avvicinamento alla Migros da parte di una clientela più giovane, dall’altro incontra anche la piena soddisfazione dei e delle gerenti. Mattia Keller ha poi illustrato l’andamento delle attività aziendali. Numerosi i fattori che influenzano le attività di Migros Ticino, dal conflitto in Ucraina e in Medio Oriente, al nuovo limite del Tax free italiano, passando per lo stallo demografico e la chiusura imminente di LATI. Allo stesso tempo danno i primi frutti iniziative come l’apertura domenicale di alcuni super-

Y, Z ai Millennial, passando per i baby boomer e chiunque abbia voglia di mantenersi in forma.

In questi dieci anni vi è stata un’evoluzione nel modello delle palestre ACTIV FITNESS?

Abbiamo investito molto nell’automazione dei processi, ad esempio attraverso l’introduzione di tornelli e di armadietti utilizzabili con un braccialetto elettronico. Abbiamo introdotto anche la possibilità di riservare le lezioni online e di avere le schede di allenamento elettroniche. I nostri soci possono inoltre accedere a Activfitness@home, un pacchetto di corsi a domicilio da seguire online.

Si sono aggiunte nuove proposte, nuovi corsi?

Ovviamente ci premuriamo di offrire ai nostri clienti macchinari sempre nuovi e più moderni al passo con le ultime tecnologie. Pur ottempe-

mercati, il rallentamento dell’inflazione e la riduzione graduale dei prezzi di molti prodotti Migros. Priorità dell’azienda è dunque quella di mantenere la rotta. Mattia Keller si è chinato anche sulle ristrutturazioni che toccheranno i mercati specializzati e sulle filiali in fase di restyling o quasi ultimate. I cantieri più importanti al momento sono quello del Serfontana, che dovrebbe concludersi entro la fine dell’anno, e quello dell’innovativa

rando al concetto nazionale ACTIV FITNESS, possiamo contare su un certo spazio di manovra. Ad esempio, a Giubiasco abbiamo introdotto la biosauna e la cascata di ghiaccio al posto del bagno turco (novità che saranno presto standardizzate anche nelle nuove sedi). Dopo una punta di iniziale scetticismo, i colleghi di Zurigo hanno deciso di seguirci, ispirandosi a noi.

Il periodo del Covid è stato molto particolare per l’ambito del fitness. Avete notato dei cambiamenti dalla pandemia?

Sì, ci siamo ad esempio accorti di come sia aumentato il pubblico giovane, soprattutto le ragazze, e di come oggi questa fascia di utenti preferisca l’allenamento individuale ai classici corsi di gruppo. Il sollevamento pesi (weightlifting) o l’allenamento funzionale sono diventati molto importanti per diverse persone, e noi come ACTIV FITNESS ci adeguiamo a questi nuovi bisogni.

Non può a questo punto mancare una domanda su ciò che sarà in futuro: avete dei progetti per l’apertura di nuove sedi?

Stiamo progettando tre nuove aperture che, se si concretizzeranno, ci permetteranno di coprire ancor meglio il nostro territorio (Ticino, Mesolcina e Valle Calanca) e che permetteranno al 90% della relativa popolazione di raggiungere uno dei nostri centri in meno di 20 minuti.

Un’imperdibile offerta estiva Acquistate ora l’abbonamento estivo: 3 mesi a soli 179 CHF! www.activfitness.ch

filiale di Bellinzona Nord, che aprirà il 27 giugno, autonoma dal punto di vista energetico, affidata a maestranze per il 90% ticinesi, e che vedrà l’assunzione di 14 collaboratrici/collaboratori residenti in Ticino (v. «Azione» 20 maggio 2024). Sono stati infine presentati i progetti della Commissione culturale del Cc, su cui torneremo più avanti. Quella dell’11 giugno è stata l’ultima seduta del Cc in carica, il cui periodo di mandato si conclude il 30 giugno 2024 (per la composizione degli organi dal 01.07, vedi pag.1). Al termine dei lavori è stato organizzato un aperitivo al Ristorante Migros di Sant’Antonino, occasione per accomiatarsi in modo informale dai membri il cui mandato – per motivi statutari – si è ormai concluso. Tra chi è in procinto di concludere il proprio mandato, segnaliamo Gaby Malacrida, attuale presidente, e membro del Cc da luglio 2008. azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio

Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano

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Cooperativa Migros Ticino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 17 giugno 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 2
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In Ticino i centri ACTIV FITNESS sono sei, in tutta la Svizzera 121.
Info Migros ◆ L’11 giugno a Sant’Antonino ha avuto luogo il Consiglio di cooperativa

SOCIETÀ

Ipnosi medica e pregiudizi

La dottoressa Julia Schürch spiega in che modo e in quali circostanze è utile questo metodo terapeutico

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Mario Botta e il sacro

Intervista all’architetto ticinese che ha da poco inaugurato la chiesa di San Rocco a Sambuceto

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C’è Matilde ai fornelli

Matilde Domeniconi parteciperà al concorso svizzero Escoffier per giovani cuochi di talento

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Non credete a quello che vedete

Il caffè delle mamme ◆ È sempre più importante rendere attenti i giovanissimi sui rischi del deepfake

Il declino della pesca con reti Nei nostri laghi sono ormai pochi a difendere il suo valore storico, ma anche territoriale e ambientale

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Capiamo subito qual è la posta in gioco con un caso emblematico che al Caffè delle mamme ci fa discutere per giorni: lo scorso autunno sui gruppi WhatsApp di classe di Almandralejo, una piccola cittadina spagnola, arrivano le foto di 20 studentesse tra gli 11 e i 17 anni completamente nude. Le giovani dicono di non aver mai realizzato scatti senza vestiti. Cos’è successo allora? Gli autori, compagni di scuola e conoscenti delle vittime, hanno utilizzato immagini postate sui profili Instagram delle ragazze in cui comparivano perfettamente vestite e le hanno modificate con un’app di intelligenza artificiale (AI) in grado di generare foto di nudo sulla base di immagini innocue. Persino una delle madri che ha portato all’attenzione del pubblico il caso ha dichiarato di aver dovuto studiare con attenzione la fotografia di sua figlia prima di riconoscere che si trattava di un falso. Probabilmente è anche questo uno dei motivi per cui il portale informativo www.giovaniemedia.ch, che la Confederazione considera uno dei suoi strumenti principali per sostenere genitori e insegnanti nell’accompagnare i bambini e gli adolescenti a usare i media digitali in modo sicuro e responsabile, lancia un invito che al Caffè delle mamme non può cadere nel vuoto: «Guardate assieme ai vostri figli qualche esempio di deepfake per aiutarli a sviluppare una certa consapevolezza su ciò che richiede scetticismo». Di che cosa stiamo parlando? Il termine deriva da deep learning, che è il sistema di apprendimento automatico alla base del funzionamento dell’intelligenza artificiale, e da fake, cioè falso: si tratta, dunque, di foto, video e audio creati grazie a software di intelligenza artificiale che, partendo da immagini e audio reali, riescono a modificare o ricreare in modo estremamente realistico contenuti falsi. Gli esempi più famosi di deepfake sono quelli di Papa Francesco che compare con un piumino bianco alla moda; il presidente russo Vladimir Putin che s’inginocchia con riverenza davanti al presidente cinese Xi Jinping; o ancora Donald Trump che viene arrestato; oppure il video in cui il presidente Volodymyr Zelensky dichiara la resa in Ucraina.

Il sito giovaniemedia.ch, a cura dell’Ufficio federale delle assicurazioni sociali (Ufas), ha da poco alzato l’allerta sulla questione con un articolo di Bettina Bichsel che, tra l’altro, intervista l’assistente senior del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca sui Media dell’Università di Friburgo Patrick Raemy: «Finora abbiamo dato molta fiducia ai contenuti audiovisivi, perché combinano informazioni sul piano audio e su quello visivo, e per questo li abbiamo sempre ritenuti attendibili – spiega –. Ora

ci vuole un cambio di mentalità critico e una specie di approccio investigativo». In pratica noi genitori adesso siamo chiamati a dire ai nostri figli: «Non credete più a ciò che sentite e vedete! Non basta più vedere o ascoltare una cosa per essere certi che sia vera». Vediamo perché con l’aiuto di Pierguido Iezzi, esperto di sicurezza digitale e strategic business director di Tinexta Cyber, che ci illustra l’importanza di acquisire una conoscenza approfondita di queste tecnologie per crescere figli consapevoli e protetti. Filmati, immagini e audio manipolati circolano in rete alimentando falsi miti, divulgando informazioni errate e danneggiando la reputazione delle vittime

I deepfake, creati da appassionati di tecnologia e professionisti degli effetti speciali, sono estremamente realistici e possono facilmente ingannare i giovani utenti convinti che star o influencer stiano dicendo o facendo cose che in realtà non hanno mai detto o fatto, alimentando falsi miti e informazioni errate. I nostri figli possono poi essere facilmente indotti a credere a false dichiarazioni di politici che rischiano di influenzare il loro voto e la

loro percezione della politica. E, ancora peggio, come nel caso di Almandralejo, deepfake di compagni di classe diffusi per scherzo o per bullismo possono danneggiare gravemente la reputazione e la salute mentale delle vittime, che potrebbero credere di essere state filmate in situazioni imbarazzanti o compromettenti. «Come abbiamo visto i rischi sono disinformazione, manipolazione dell’opinione pubblica e perfino danni psicologici – ribadisce Iezzi –. Così nell’era digitale in cui viviamo il vecchio adagio “credi solo a quello che vedi” non è più sufficiente per proteggere i nostri figli dalle trappole della Rete. È fondamentale, allora, che genitori e insegnanti promuovano l’educazione mediatica tra i giovani che devono essere consapevoli dei pericoli delle nuove tecnologie, abituarsi a verificare l’autenticità delle informazioni e analizzarle prima di accettarle come vere». In sintesi: bisogna aiutare i nostri figli a sviluppare il pensiero critico. Per fare tutto ciò, è la convinzione di Iezzi, è necessario che anche noi adulti cambiamo mentalità, con un approccio educativo che tenga conto delle nuove tecnologie, senza tuttavia mai demonizzarle. «Con i nostri figli dobbiamo essere in grado di parlare anche di bot e robocall – insiste Iezzi –. I bot sono software che automatizza-

no le azioni come il follow e l’unfollow fingendo che sia un utente reale ad averle compiute in modo spontaneo e possono giocare un ruolo cruciale nella diffusione dei deepfake, condividendoli a tappeto su vari social, e generando falsi commenti o like per far sembrare il contenuto più popolare e credibile. Mentre le robocall sono chiamate automatizzate che possono riprodurre grazie all’AI la voce di qualcuno di conosciuto e che spesso sono usate per truffe. Come nelle chiamate che informano i ragazzi di aver vinto un premio, tipo uno smartphone o un viaggio. Per reclamare il premio, viene chiesto di fornire informazioni personali o di effettuare un pagamento. Attratti dall’idea di aver vinto qualcosa, gli adolescenti possono facilmente cadere in questa trappola, diventando vittime di furto di identità o frode finanziaria».

Per giovaniemedia.ch i nostri figli devono insomma abituarsi a porsi determinate domande come: il sito Internet (per esempio il sito di una testata giornalistica) su cui è stato pubblicato il materiale è attendibile? Oppure è stato diffuso (solo) sui social? Le affermazioni che la persona fa nel video hanno davvero senso? Oppure risultano piuttosto illogiche? Per riconoscere i deepfake è poi utile prestare attenzione a possibili punti de-

boli grazie ai quali (almeno allo stato attuale della tecnologia) è possibile rilevare indizi di manipolazione. Vediamone alcuni: mancanza di sincronizzazione delle labbra (il movimento delle labbra non corrisponde a quanto sta dicendo la persona); stranezze visive (nella foto in cui Putin è inginocchiato, le sue scarpe sono sproporzionate); parti sfumate (sono spesso presenti nelle mani o nella parte tra il collo e la testa); forma innaturale dei capelli; stranezze nell’intonazione o nella pronuncia; e visi troppo regolari o pelle liscissima. Annota Patric Raemy: «I contenuti nei social media sono spesso messe in scena. Si tratta dunque della fonte che più di tutte va considerata con molta prudenza». Proprio sui social (Instagram) il 23 maggio sull’account di dedelate, il profilo di un giovane appassionato di Urbex (ossia di esplorazione urbana, che vuol dire arrampicarsi per ogni dove) pubblica foto e video di lui in cima al Duomo di Milano abbracciato alla statua della Madonnina che veglia sulla città. Ci si è arrampicato di notte eludendo qualsiasi tipo di sorveglianza. Al Caffè delle mamme per ore ci siamo chieste stalkerando i nostri figli se fosse un deepfake, tanto la notizia ci sembrava assurda. Invece è tutto vero! Ma questa è, forse, un’altra storia.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 17 giugno 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
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Simona Ravizza

Fiamme e sapore

Alla scoperta del volto colorato

Attualità ◆ La costata alla fiorentina è un taglio che soddisfa pienamente gli amanti della carne alla griglia. Alcune informazioni e suggerimenti per ottenere un risultato finale ottimale

Reportage ◆ La street art invade sempre di più le facciate degli edifici e i vicoli nella città dell’Art déco trasformando le strade da «giungla

Cos’è la costata alla fiorentina? Da quale parte del manzo si ricava?

La costata alla fiorentina è una bistecca di manzo con l’osso, e si ricava dalla lombata, che si trova nella parte posteriore dell’animale. Il taglio è composto da due parti distinte, ossia dall’entrecôte e dal filetto, che in questo caso non vengono separati. Cos’ha di così particolare questo taglio?

Si tratta di una parte molto tenera e aromatica, grazie alla marezzatura ben distribuita, ossia la presenza di striature di grasso all’interno del tessuto muscolare. Inoltre, anche la presenza dell’osso conferisce alla carne quel tocco di sapore in più.

Perché si chiama T-Bone?

Perché l’osso (la vertebra lombare) che separa l’entrecôte dal filetto possiede una caratteristica forma a T.

Qual è il miglior metodo di cottura?

Sicuramente la cottura alla griglia esalta al meglio le qualità del taglio, ma in alternativa si può anche cuocere in padella o al forno.

Come si ottiene una costata perfetta?

Per un risultato ottimale, condire la carne unicamente con del sale grosso e del pepe macinato o pestato fresco, ed eventualmente qualche ago di rosmarino fresco. Successivamente, a dipendenza dello spessore della costata, bisogna farla cuocere a fuoco vivo per al massimo 3-4 minuti per parte. La carne dovrebbe essere preferibilmente al sangue o rosa, con una temperatura interna di ca. 50-55 gradi. Prima di servirla, lasciare riposare la costata un paio di minuti a calore moderato, non diretto.

Buon appetito!

È notte fonda quando arrivo alla Gare Casa-Port, e non faccio in tempo ad apprezzare la maestosità della stazione ferroviaria che, ristrutturata nel 2014, si mostra in uno stile contemporaneo e funzionale. Affrettandomi verso la porta (Bab) el-Marsa per raggiungere il mio alloggio nella medina, un odore non proprio gradevole cattura la mia attenzione. Un pungente tanfo lagunare mi avverte della presenza di svariati carretti di pesce fresco lungo il trafficato Boulevard des Almohades e, dopo un momento di esitazione, sorrido a un pescivendolo chiedendogli il permesso di scattare una fotografia. Gamberi e calamari, il mio primo impatto con Casablanca.

I sapori dell’estate

madre era pittrice), in seguito a una

fit, EAC-L’Boulvart, che sostiene la musica contemporanea e la cultura urbana in tutto il Marocco.

Murales e installazioni artistiche non sono più disprezzate o assimilate al vandalismo, ma sono diventate testimonianze tangibili della ricca cultura e identità marocchine

Il mattino seguente, affacciatami alla finestra, mi si rivela la fisionomia della città marocchina, ora illuminata da un sole accecante. La cupola della stazione ferroviaria, della quale scorgo un angolo in lontananza, fa a pugni con l’aria stanca dei palazzi che si affacciano sulla piazza Ahmed El Bidaoui. Una coesistenza di contrasti che, una volta scesa in strada, mi inseguirà per tutta la mia permanenza. Del periodo risalente al suo status di protettorato francese, Casablanca conserva un ricco patrimonio architettonico Art déco, con edifici dalla simmetria impeccabile e motivi geometri-

La bella stagione è un periodo perfetto per godersi pietanze che siano al contempo rinfrescanti e nutrienti, sia a casa, sia in ufficio, come anche durante un’escursione nella natura. Come consuetudine, i reparti macelleria Migros offrono numerose specialità stagionali di gastronomia preparate con ingredienti di prima qualità. A cominciare da un piatto molto popolare sul nostro territorio, la trota e il filetto di trota in carpione. Questa modalità di preparazione è conosciuta fin dal medioevo, quando si usava marinare il cibo nell’aceto al fine di conservarlo per lunghi periodi. Se un tempo si utilizzavano pesci particolarmente diffusi nei nostri laghi come il coregone, la tinca e il luccio, oggi si è passati alla trota, che è di più facile reperibilità. La nostra trota in carpione è preparata secondo una ricetta originale locale. Il pesce viene dapprima infarinato e fritto e quindi immerso in una marinata di verdure – cipolle, carote, porri, coste e sedano – cotte nell’aceto di vino. Una ricetta semplice, ma molto apprezzata da chi ama i sapori particolarmente marcati.

clude ad esempio l’hip-hop. Il popolare L’Boulevard è un festival annuale di musica urbana fondato nel 1999 a Casablanca da Mohamed Merhari (noto anche come Momo) e Hicham Bahou. Articolato in tre sezioni, include il festival Sbagha Bagha, un’iniziativa che vede i graffitari riempire la «Città Bianca» con le loro creazioni. In tempi più recenti, la street art marocchina ha guadagnato consensi internazionali, grazie a talenti locali e stranieri che hanno trasformato le strade in vere e proprie gallerie d’ar te a cielo aperto. Dal 2015, il festival Jidar di Rabat è stato un crocevia do ve, ogni anno, temi sociali e politici si sono fusi con la potenza espressi va della street art. Sia Jidar sia Sba

A Casablanca la potenza espressiva dell’arte di strada è tuttavia emersa più lentamente. La nascita di un’agenzia artistica indipendente come Placebo Studio nel 2011 e di iniziative come WeCasablanca ha promosso la creatività delle strade, trasformando la «giungla di cemento» in una tela dalle tinte forti, mentre il festival annuale CasaMouja, un evento del programma WeCasablanca nato nel 2019, ha contribuito a cambiare le percezioni

questa (ri)nascita artistica è la perma nenza delle opere una volta che i festival si sono conclusi, un dono alla città da scoprire lentamente a piedi o nel tempo di una corsa in taxi.

Attualità ◆ Questa è la stagione ideale per gustare piatti freschi, ricchi di gusto e colori. I maggiori reparti macelleria Migros propongono un’ampia scelta di specialità

Le opere di strada di Amin Brush

saMouja a partire dalla sua inaugu razione nel 2019, nella quale presentò l’opera Remember La Casablanca di Amine non è solo una fonte di ispirazione ma al contempo vigila sugli abitanti come una tenera madre, e gli angoli urbani diventano un teatro dove mettere in scena tematiche sociali, politiche e culturali, che mescolano elementi tradizionali marocchini a una sensibilità estetica di stampo più contemporaneo.

zate o assimilate al vandalismo, ma

Tra le opere più iconiche, i murales dell’autodidatta Amin Brush (pseudonimo di Amine Hajila, 1980) si stagliano sui palazzi di El Hank, la Corniche e il Boulevard Gandhi. Appassionato di disegno fin da piccolo, si cimentò con tempere e pennelli per poi passare alle bombolette spray durante l’adolescenza. Incoraggiato dai genitori a seguire l’indole artistica (la

Oltre alla trota in carpione, le macellerie Migros consigliano di assaggiare anche altre bontà per portare l’atmosfera e il gusto dell’estate nel proprio piatto. Dai contorni ideali per le pietanze al grill come le insalate di patate, di riso, di fagioli, di fagiolini e le verdure grigliate; passando per le gustose preparazioni a base di cereali tra cui il couscous e il bulgur alle verdure o l’insalata di farro; fino ad altre appetitose proposte sempre in voga come l’insalata di cervelas, il polipo con patate e il cocktail di gamberetti, non manca proprio niente per regalarsi indimenticabili momenti culinari.

Attraverso progetti comunitari e iniziative di sensibilizzazione, l’artista si è distinto nel promuovere il cambiamento sociale e migliorare la qualità della vita nelle aree urbane, incarnando così il potere trasformativo dell’arte. Incontro Brush in un caffè,

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L’ipnosi medica non è un atto magico

Psicologia ◆ Si tratta di un metodo terapeutico che permette al paziente di attingere consapevolmente alle proprie risorse Ce ne parla la dottoressa Julia Schürch

Quando si parla di ipnosi, i pregiudizi e gli allarmismi che rimandano a certe pseudoscienze non riconosciute dalla medicina, si sprecano. Ma in verità, l’ipnosi medica non è nulla di tutto questo, anche se, alla sua origine, vanta una lontana parentela con i riti sciamanici. «Dobbiamo innanzitutto ricordare che storicamente l’essere umano trovò conforto e guarigione in sé stesso, con l’aiuto dello sciamano che divenne sempre più una figura in grado di permettere a ciascuno di attingere alle proprie risorse per far fronte ai problemi di salute. Poi, col passare del tempo e la nostra evoluzione, la figura sciamanica ha lasciato il posto dapprima ai guaritori, e in seguito ai medici».

Così la dottoressa Julia Schürch (specializzata in ipnosi medica che pratica da 25 anni, e specialista in medicina interna generale e medicina d’urgenza alla Clinica Sant’Anna di Sorengo) introduce un tema, quello dell’ipnosi medica, ancora piuttosto sconosciuto sebbene sempre più utilizzato in campo sanitario: «I progressi della medicina hanno consentito di migliorare la presa a carico della maggior parte delle patologie che ci affliggono, ma dall’altro lato abbiamo perso la consapevolezza di essere in grado di attingere pure alle nostre risorse per migliorare il nostro benessere».

Secondo la specialista, in quest’ottica, l’ipnosi medica è solo una riscoperta di una nostra intrinseca consapevolezza ed è dunque un fenomeno molto meno misterioso di quanto ancora taluni sospettosi pensano: «A dire il vero, è un’esperienza naturale e

normale con cui tutti ci confrontiamo quotidianamente, la cui pratica non ha quindi nulla di strano o di inquietante».

Non dimentichiamo che la nostra mente dispone di enormi risorse a cui attingere, insieme a un grande potere che spesso ignoriamo o sottovalutiamo. Inoltre, il nostro cervello può entrare in uno stato fisiologico (trance ipnotica) che ogni 90 minuti gli permette di entrare in autoipnosi, spiega la dottoressa con l’aiuto di alcuni esempi concreti: «A tutti è successo di guidare l’auto su un percorso noto pensando ad altro, salvo poi rendersi conto che si è arrivati comunque a destinazione in sicurezza: il corpo fa qualcosa mentre la mente pensa a qualcos’altro, ma il risultato è quello che ci siamo prefissati, cioè arrivare a destinazione guidando l’automobile».

Altri esempi per comprendere che si tratta di una normale esperienza di un fenomeno naturale sono: «Quando leggiamo un libro appassionante, o quando guardiamo un film che ci intriga, quando ascoltiamo una musica che ci coinvolge, o quando sogniamo a occhi aperti: ognuna di queste volte, siamo concentrati, rapiti, assorti, incantati da qualcosa che attira la nostra attenzione a tal punto da ignorare tutto ciò che ci succede attorno; perdiamo la concezione del tempo e siamo, di fatto, in trance».

Sgomberato il campo da false credenze, miti e ipnosi «da palcoscenico» (che utilizza per lo più soggetti compiacenti a scopo di spettacolo), resta l’ipnosi medica: uno strumento certamente non teatrale, e molto rispettoso

dell’individuo con lo scopo di essergli d’aiuto e sostegno nell’attingere consapevolmente alle sue risorse: «La trance è uno stato psico-fisiologico che, attraverso diverse tecniche ipnotiche, coinvolge corpo e psiche a differenti stadi: da quando si è molto rilassati (si potrebbero abbassare pressione e frequenza cardiaca, e diminuire i dolori fisici), a una trance più profonda in cui la persona potrebbe vivere una distorsione del tempo (con l’impressione che sia passato molto più o meno veloce rispetto alla realtà); a volte si sente il corpo diversamente (braccia e gambe molto pesanti o molto leggere, ad esempio), talvolta si può avere un’amnesia e non ricordare cosa si è pensato nel periodo di ipnosi, così come ci si può pure percepire in un tempo passato».

Sottolineando che «non si tratta di una terapia alternativa a quelle medi-

che», Schürch afferma che semmai vi si inserisce in modo armonioso; l’ipnosi coadiuva le terapie tradizionali necessarie in quasi la totalità dei campi: «Dal trattamento del dolore cronico, ai disturbi del sonno, ai trattamenti dentistici, alle malattie dermatologiche, infiammatorie, ai problemi del tratto gastrointestinale, fino nell’affrontare il travaglio e il parto e le patologie legate all’ansia: queste sono solo alcune delle applicazioni dell’ipnosi medica». Come arrivare a una trance ipnotica medica è presto detto: «A dipendenza della situazione, dettata da un’urgenza (forti dolori) o programmabile (ad esempio un esame RMI, un’intervento dal dentista o altro), si applicano metodi diversi il cui comun denominatore da tenere in considerazione è che sia praticata da medici formati. A questo proposito, la Società svizzera di ipnosi medica (Smsh) è ricono-

sciuta dall’FMH per la formazione dei medici interessati, così come pure degli infermieri. Una presa a carico del paziente attraverso un modello unicista olistico bio-psico-sociale, oltretutto rimborsata dall’assicurazione di base perché scientificamente provata». Le neuroscienze, infatti, hanno dimostrato l’efficacia di questa tecnica a scopo medico: «Gli esami di RMI hanno dimostrato che le parti del cervello attivate in ipnosi sono le stesse che si attivano nella vita reale». Dunque, per il nostro cervello non c’è distinzione fra realtà e ipnosi: «Il cervello considera l’esperienza ipnotica come reale e su questa riceve un’esperienza positiva, cosciente di essere stato in grado di far fronte e controllare una situazione, con la consapevolezza di poterlo fare nuovamente». Per questo, la nostra interlocutrice spiega che le tecniche di ipnosi hanno pure il pregio di essere acquisite dalla persona stessa che, in seguito, potrà applicarle da sé all’occorrenza: «Da un lato non dimentichiamo che ogni medico formato in ipnosi avrà il compito di applicarla nell’ambito della sua specialità medica; inoltre, il paziente potrà acquisire le nozioni che gli permettano di avere una certa autonomia negli esercizi da ripetere a casa ogni qualvolta lo vorrà».

A questo proposito, la dottoressa Schürch sottolinea un aspetto molto interessante: «Più si applica l’ipnosi e meglio funziona: esercitarsi a casa allena l’uso delle risorse personali che si scoprono durante le sedute di consultazione con l’accompagnamento medico».

Una è molto profumata e l’altra multicolore

Fitoterapia ◆ Che sia la violetta o la viola del pensiero, hanno entrambe caratteristiche emollienti e la capacità di curare lesioni della pelle

La famiglia botanica delle Violaceae comprende molte specie, suddivise a loro volta in generi, fra i quali scegliamo qui la viola mammola (Viola odorata L.) e la viola del pensiero (Viola tricolor L.). Famosa nell’antichità, amata e cantata dai poeti, apprezzata dai romantici, la viola mammola, detta anche violetta o viola odorata, fiorisce nell’ombra. Per scoprirla, infatti, occorre avvicinarsi non essendo vistosa. Ragione per cui simboleggia il riserbo, l’innocenza, la modestia e la fedeltà.

Le specie appartenenti alle Violaceae, come detto, sono numerose e, invero, parecchie inodori o poco profumate. Si distingue da tutte le altre, proprio la viola mammola: apprezzata dai tempi antichi per il colore intenso del suo fiore, ma soprattutto per il profumo, unico, forte ma al contempo delicato e inconfondibile, come quello del mughetto. Era nota agli antichi greci, maestri nella distillazione dei profumi di fiori, come ad esempio la lavanda e la rosa.

La violetta è una delle prime piante a fiorire insieme alle primule e alle margheritine e, purtroppo, dura per brevissimo tempo. Sorprende chi si inoltra nel sottobosco, in luoghi erbosi e piuttosto ombreggiati, o lungo le siepi, fiorendo a marzo, quali ambasciatrici della primavera. È una piccola pianta perenne con un corto

rizoma, senza fusti aerei, i cui rami sottili strisciano sul terreno per circa dieci centimetri nascondendosi spesso tra altre erbe; le foglie sono a forma di cuore, di un bel verde scuro bluastro.

Ma veniamo ai suoi bei fiori: hanno una struttura particolare, con 5 petali di 15-20 mm, con calice a sepali ovali. Tutta la pianta è commestibile e preziosa, ma i fiori sono la parte più interessante: hanno proprietà espettoranti e fluidificanti per l’apparato respiratorio e per uso esterno possiedono caratteristiche emollienti e la capacità di curare lesioni della pelle.

Nella medicina popolare, la violetta era usata per espellere le tossine, per depurarsi e superare i postumi da ubriachezza, si racconta che gli antichi greci per contrastare i fumi dell’alcol si cingessero il capo di viole. Un ottimo sciroppo sedativo per la tosse si prepara (per chi volesse a primavera raccogliere questo delizioso fiore spontaneo e profumato) versando 250 ml di acqua bollente su 50 gr di fiori di violetta e una fettina di limone; si lascia riposare per otto ore, si filtra strizzando con cura, si aggiungono 150 gr di zucchero e si riscalda fino al completo assorbimento senza raggiungere l’ebollizione. Il prodotto di questa «ricetta» può essere conservato in bottiglie di vetro scuro. Ov-

viamente, questa è solo un’informazione, invitiamo a non procedere mai senza prima consultare il proprio medico o un erborista qualificato. Parente stretta della viola mammola è la viola del pensiero, il cui nome scientifico, Viola tricolor, rende l’idea della sua caratteristica principale: i fiori di questa specie sono di fatto variopinti. Cresce nei campi e nei pascoli fino a 2000 metri. Di questa erbacea, in fitoterapia, si impiegano le radici che si raccolgono per tutta la primavera, ma anche i fiori che devono essere fatti asciugare con cura, lentamente e con calore mite. Pro-

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prio a questi ultimi sono riconosciute proprietà emollienti e depurative del sangue e della cute: un cataplasma di fiori e foglie fresche con poco latte si applicava su piccole ferite e piaghe. I giovani getti erano invece consumati in minestra. Nella medicina popolare, l’infuso di fiori prima di coricarsi favoriva il sonno e l’infuso di radice era impiegato come lassativo. Anche la Viola tricolor era nota agli autori dell’antichità, la raccomandava, per dire, Dioscoride, medico d’origine greca, e botanico, che visse nella Roma imperiale di Nerone: a questa erbacea attribuiva molte, e a

volte strane, virtù, ad esempio la considerava una droga antinfiammatoria consigliando di applicare degli impiastri sullo stomaco e sugli occhi, secondo necessità. I medici della Scuola salernitana la consideravano il rimedio più importante per le cefalee postprandiali e per i disordini alimentari; nel 1500 era persino raccomandata per curare la sifilide. Non da ultimo, Pietro Andrea Mattioli (1500-1577), fitografo del Rinascimento, e altri medici italiani di quel tempo facevano uso dello «sciroppo violato solutivo» contro le malattie di petto. Molti, infine, sono i casi di dermatosi e acne giovanile felicemente risolti con preparati di viola. Uno studio italiano (1998) ha dimostrato l’efficacia dell’infuso di viola nel trattamento di affezioni cutanee allergiche, (anche causate da allergie alimentari) resistenti ad altri trattamenti. Non sono conosciute controindicazioni o interazioni con altre piante medicinali o farmaci. Non è mai inutile ripetere che, come sempre in Fitoterapia, le preparazioni di una pianta si presentano in forma di infuso, di decotto, di sciroppo, di estratti fluido o di Tintura madre.

Bibliografia

Gabriele Peroni, Trattato di Fitoterapia Driope, Nuova Ipsa editrice

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«Potessi

scegliere, costruirei solo edifici per il sacro»

Architettura ◆ Mario Botta ci racconta la sua ultima opera: la chiesa di San Rocco a Sambuceto da poco inaugurata e concepita come un rifugio dalle brutture del mondo

Chi ha seguito fin qui il percorso umano e artistico dell’architetto ticinese Mario Botta non rimarrà stupito nello scoprire che l’ultima sua opera, inaugurata lo scorso 15 giugno, sia una chiesa: quella di San Rocco a Sambuceto (Chieti) negli Abruzzi.

«Sì, ancora una chiesa, un luogo di silenzio, di meditazione, di preghiera, di pace, piuttosto che di dispute tecniche e finanziarie. Un’architettura di servizio che fa fronte alla crescita rapida della città, dentro le frange urbane di Sambuceto, ad appena poche centinaia di metri dall’aeroporto di Pescara…» come ha scritto egli stesso a Bruno Forte, arcivescovo di Chieti, teologo «militante», recentemente nominato da Papa Francesco membro del Dicastero per la dottrina della fede, che per quasi vent’anni si è confrontato con Botta sul senso da attribuire alla nuova costruzione.

«La croce greca in alto crea come un lucernario dal quale piove una luce zenitale che cambia ogni giorno dell’anno»

La chiesa era stata fortemente danneggiata dallo stesso terremoto che, a una settantina di chilometri di distanza, aveva devastato l’Aquila nel 2009 e ora, al posto dell’edificio in rovina del progettista della Pescara degli anni 30 e 40 Paride Pozzi, sorge un complesso sacro modernissimo e anomalo rispetto all’architettura sacra della penisola.

La croce e la luce «È vero – ci conferma Botta, che abbiamo raggiunto telefonicamente nei giorni scorsi – per esempio, per la prima volta nella cultura italiana l’altare non è una mensa, ma un’ara del sacrificio. D’accordo con mons. Forte, abbiamo sostituito la mensa, la tavola del pane e del vino, con l’ara riprendendo l’iconografia antica». La forma della costruzione, integrata nel tessuto urbano della cittadina abruzzese, dà subito nell’occhio. «Inizialmente – spiega l’architetto – avevo fatto un modello e una scultura con la quale sperimentavo l’idea della croce greca, quella coi lati tutti uguali, all’interno di un cubo. Volevo vedere in che modo questo tipo di croce, incontrando le pareti del cubo, inondasse di luce l’interno dell’edificio. Ne è uscito un mix tra la luce zenitale che piove dall’alto e la luce che illumina le pareti nelle varie ore del giorno. La croce crea come un lucernario. Partendo da lì, ho preso forza e ho deciso che l’unica fonte di luce per la chiesa sarebbe stata quella proveniente dalla croce. Una luce che cambia 365 giorni l’anno, proiettando sulle pareti laterali ogni giorno una croce diversa. È bello perché è il sole che la proietta in modo sempre cangiante a seconda del solstizio e del mese. Una croce di luce che cammina offrendo ogni giorno un’illuminazione diversa, insomma». Una tenda tesa verso il cielo Dal canto suo, il teologo Bruno Forte ha aggiunto una propria interpretazione originale dell’opera di Botta: «Essa – ha scritto di recente l’arcivescovo di Chieti – si presenta all’esterno come una volumetria compatta, slanciata nella forma di una tenda tesa verso il cielo, ferita in alto da un’ampia apertura a croce, da cui piove la luce nello spazio inter-

no. In questo modo Botta ha saputo esprimere l’anima religiosa della gente d’Abruzzo, plasmata da secoli di fede cristiana, ben piantata nella terra e insieme protesa nell’umile e decisa tensione verso l’alto (…) L’idea dell’attendamento di Dio (la “shekinah”) è familiare al mondo biblico». Secondo Mario Botta, questo concetto della chiesa-tenda, chiesa che accoglie i fuggiaschi, è attualissima. «All’inaugurazione della chiesa di Ronchamp, a metà del secolo scorso, Le Corbusier ricordava, attraverso la croce, “la più grande tragedia vissuta una volta su una collina nel Vicino Oriente”. Devo purtroppo constatare che le stesse parole sono ancora d’attualità: dopo due millenni di storia, l’uomo non ha imparato nulla e anche ai nostri giorni si continua ostinatamente a distruggere e a uccidere». La chiesa di Ronchamp, del resto, per l’architetto ticinese, che nel 1965 aveva lavorato nell’atelier di Le

Corbusier a Venezia, segna un punto di rottura nella storia dell’architettura sacra. «Grazie a lui, ci spiega, si è passati dalla cultura figurativa di inizio secolo XX che era la fine del Rinascimento, a una marcia diversa».

Il grembo materno

Anche l’interno della chiesa di san Rocco, nella lettura che ne dà il teologo Forte, richiama al valore dell’accoglienza, anzi del rifugio più intimo che ci sia, quello del ventre materno. «È una vasta cavità – ha scritto il monsignore – in forma di grembo accogliente, sovrastata dalla tenda, culminante nella triplice cavità dell’abside. (…) In ebraico il termine per indicare la misericordia è “rachamim”, espressione che designa propriamente le “viscere” materne, il grembo in cui ha inizio ogni vita. Sul piano delle relazioni che ci fanno umani l’immagine richiama il sentimento intimo di coappartenenza che

lega il concepito alla madre, il legame originario fra chi dà vita e chi la riceve, sentimento di tenerezza profonda. (…) L’idea è quella di una custodia primordiale che accoglie, nutre e protegge, e di un’oscurità ospitale in cui la creatura concepita vive in simbiosi con la madre e ne riceve alimento, impulso e custodia».

Riscoprire sé stessi

L’edificio chiesa come rifugio dalle brutture del mondo, quindi. Botta concorda, proponendone una lettura laica: «La chiesa diventa per me lo spazio dove l’uomo riscopre sé stesso. Così come la casa che per me è il rifugio, la pausa per rigenerare le energie in vista della lotta del giorno successivo. Sento molto questo aspetto, è una cosa che ho imparato dal fatto architettonico. Il fatto architettonico è una risposta alla vita dell’uomo, al ritmo di vita che ha».

Chiese come oasi urbane per ritrovare sé stessi? «Sì, ma con una caratteristica particolare. Uno può cercare un momento di spiritualità anche in riva al fiume, nei boschi, o nel deserto. Ma la chiesa ha questa forza di diventare il luogo collettivo per queste azioni. È il luogo della comunità. In una chiesa non ti senti mai solo. Anche quando sei solo i popoli estinti ti parlano ancora del bisogno di pace e di pausa nel gran correre della vita di ogni giorno».

Il cielo stellato

E così forse si spiega come mai, su una parete proprio sotto la croce greca all’interno della chiesa di Sambuceto, brillino le stelle. «Ah, ma quello è un omaggio a Giotto e alla Cappella degli Scrovegni», osserva. «Il cielo va a insinuarsi nel braccio della croce in alto, l’abside diventa un cielo stellato che va dal bianco terrestre al blu, al nero trasformandosi in un cielo notturno. È un’idea che avevo maturato dopo il Covid. All’inizio la chiesa doveva essere grezza al suo interno. Ma dopo mesi di lavoro ho pensato che questo non mi garbava più. Avevo perciò chiesto di dipingere una parete a Ettore Spalletti, un pittore straordinario che oggi è scomparso (definito «l’artista dell’az-

zurro» n.d.r.). Ma alla fine aveva deciso di non dipingerla, non se la sentiva, “Lasciala così”, in cemento, mi aveva detto. È morto poco tempo dopo e allora ho dovuto farla da solo». «Se “desiderio” è trarre dalle stelle (“de sideribus”) la via – questo invece il pensiero più specificamente religioso di Bruno Forte – quasi tirando il cielo sulla terra per aprirla all’orizzonte ultimo per cui fu creata, disegnare e realizzare lo spazio del sacro vuol dire contribuire ad accendere negli abitatori del tempo la sete dell’Eterno».

Spogliarsi dal business «La chiesa di Sambuceto, osserva ancora Mario Botta, genera molte suggestioni che io accolgo volentieri. Per quanto mi riguarda, mi piace fare chiese perché ho bisogno che l’architettura si spogli del business, del pattume finanziario che oramai domina. L’architettura è diventata la realizzazione del business che la sorregge. Una volta era al servizio dell’uomo, era depositaria di un atteggiamento umano. Era pensata per mangiare, per lavorare, per dormire, per produrre… e a poco a poco vedo che oggi le architetture si assomigliano tutte. Guardi un palazzo e lo trovi in Asia come in America, al Polo Nord come al Polo Sud. È diventata uno standard per soddisfare il solo bisogno di produrre e di produrre un plus valore che va al di là della funzione. A questo punto della mia vita farei solo chiese perché l’architettura si è svuotata anche del bisogno dello spirito che invece ha sempre animato il rifugio dell’uomo». Un rifugio quanto mai necessario. «Tre anni fa – conclude il nostro interlocutore – mai avremmo immaginato di finire in questo mondo pandemico, pieno di guerre e violenze. Sento molto questo momento di disagio e di incertezza e anche di perdita di tanti valori del vivere civile. Mi sembra che ogni notizia che sento ogni giorno aggravi la situazione. È un disagio che per me diventa anche forma creativa,

lavoro. Un privilegio, certo, ma che mi ha comunque procurato diverse notti insonni».

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diventa Mario Botta ha lavorato inizialmente soprattutto sull’idea di inserire una croce greca, con le quattro braccia tutte della stessa lunghezza, in un cubo. Dalla croce piove nell’interno la luce zenitale che si modifica ogni giorno (foto Enrico Cano). Sotto: la parete stellata della chiesa (rendering studio Botta).

Il talento di Matilde per i fornelli

Formazione ◆ La giovane Matilde Domeniconi di Bidogno è stata insignita di un premio speciale al concorso Le Poivrier d’argent, che per la prima volta si è svolto in Ticino. Ora parteciperà al Jeunes Talents Escoffier per le cuoche e i cuochi svizzeri con meno di 25 anni che si terrà a Lugano

Matilde Casasopra

Centro professionale di Lugano-Trevano, 23 marzo. C’è aria di festa al pian terreno dell’edificio che ospita il Polo dell’alimentazione e dei servizi della Svizzera italiana (PASSI). Il motivo è presto svelato: Le Poivrier d’argent – concorso voluto per dare stimoli e visibilità ai migliori apprendisti cuochi e alle migliori apprendiste cuoche di Ticino e Romandia –per la prima volta dalla sua istituzione nel 1997 è giunto a sud delle Alpi. Qui gli occhi sono puntati su Matilde Domeniconi. È infatti lei, 17 anni, impostasi nella selezione cantonale svoltasi tra 40 apprendisti del secondo anno, la persona alla quale tutti guardano: compagni e compagne di scuola, docenti, giurati, ospiti e curiosi. È proprio lei che in questo sabato di marzo è chiamata a misurarsi con altri sei apprendisti provenienti dalla parte francofona del canton Berna, dai cantoni Friborgo, Ginevra, Giura, Neuchâtel e Vaud (quest’anno il Vallese ha dato forfait). Non sembra intimorita, anzi! Affiancata da Alex Fischer, allievo apprendista del secondo anno che funge da aiuto cuoco, Matilde si muove tra gli alimenti e gli elementi con sicurezza e tranquillità. Forse è anche per questo che sono molti coloro che non si perdono neppure una mossa della giovane ticinese approfittando degli schermi che permettono di seguire in tempo reale i «magnifici sette» aspiranti al Le Poivrier d’argent «Tre anni fa quando mia mamma mi mise sotto il naso il concorso cantonale per un posto d’apprendista non ero granché entusiasta, il mio sogno era un ristorante stellato o la cucina di un grand hotel...»

Tra tutti gli «osservatori» ci sono però gli occhi di uno di loro che proprio non riescono a staccarsi dai monitor. Sono quelli di Giovanni Guidicelli. Lui, 44 anni, chef responsabile di sede del ristorante scolastico del Centro scolastico per le industrie artistiche (CSIA), è il «coach» di Matilde. Ce la farà? gli chiediamo. Lui, senza distogliere lo sguardo, risponde, congedandoci con un sorriso: «Vedremo…». Matilde Domeniconi, come riferito dai media, il Poivrier d’argent non l’ha vinto (se l’è infatti aggiudicato il vodese David Machado Texeira), ma il suo piatto di carne ha ricevuto una menzione speciale ed è proprio da qui che comincia una nuova storia. L’abbiamo scoperta andando a trovare Matilde e il suo «allenatore» laddove lavorano entrambi: il CSIA. Sono le 10.00 di una mattina soleggiata d’aprile – di quelle che sembrava fosse arrivata l’estate. Entriamo nell’ampia sala del ristorante. Ci riceve Simone Bardi, giovane responsabile della gestione del bar.

Dagli stage al Poivrier «È lei che deve incontrare Giovanni e Matilde?». Sì, sono io. «Allora si accomodi che le hanno preparato qualcosa». Giusto il tempo di prendere posto che compare una fetta di torta di pere e tutt’intorno si diffonde un delizioso profumo di vaniglia. Facile pensare, in quell’attimo, che

tutti hanno il loro «angolo Madeleine» ed è proprio in quell’attimo che Giovanni e Matilde si manifestano. Entrambi biancovestiti e raggianti. È lei a rispondere alla domanda di rito. «Sì, sono contenta. Tre anni fa, quando mia mamma mi mise sotto il naso il concorso cantonale per un posto d’apprendista cuoca non ero granché entusiasta. Il mio sogno era svolgere l’apprendistato in un ristorante stellato o nelle cucine di un grand hotel. Sapevo però che volevo occuparmi di cucina e così ho fatto il concorso. Era gennaio e stavo frequentando la quarta media. Ho svolto il colloquio, l’ho superato e quindi mi sono trovata, per i tre giorni di prova, alla Scuola professionale artigianale e industriale (SPAI) di Trevano. Alla fine ero tra i prescelti, ma senza una destinazione precisa così, finite le medie, sono andata a San Gallo a imparare il tedesco e ho svolto altri stage e test: in ristoranti e case per anziani».

La formazione duale porta Matilde a frequentare il Centro professionale tecnico di Lugano-Trevano (CPT-Tr) dove scopre che, se vuole, può svolgere il suo stage al ristorante del CSIA dove c’è un posto disponibile. Matilde accetta e, oltre a trovare una certa regolarità (inizia a lavorare alle 07.00 e termina alle 16.00), incontra lo chef Guidicelli, una di quelle persone che ogni giovane vorrebbe incrociare nella vita. «Matilde ha talento, voglia di fare, d’imparare e crescere – osserva lo chef –. Il formatore, a quel punto, ha una grandissima responsabilità: permettere all’apprendista di diventare una vera professionista. È anche per questo che, in vista del Poivrier d’argent, di comune accordo, abbiamo rinunciato anche a qualche sabato libero per capire meglio cosa si potesse e dovesse fare». «Quella del concorso – sorride Matilde – è stata un’esperienza importante: un po’ perché sono competitiva (e quindi m’impegno per davvero), ma anche perché il confronto con altri coetanei che condividono la stessa passione è molto stimolante. Io oggi so cosa ho sbagliato nella preparazione del dessert e so anche che quell’errore non lo farò più». A sorridere, a questo punto, è lo chef Gio-

vanni. «Sa perché sorrido? Perché il piatto di carne proposto da Matilde ha invece colpito per davvero la giuria per creatività e bontà. L’ha fatto al punto che Thierry Fischer, membro della giuria del Poivrier e presidente dei Disciples Escoffier Suisse, l’ha invitata a partecipare e l’ha iscritta d’ufficio al concorso dei Jeunes Talents la cui finale si svolgerà quest’anno, per la seconda volta, a Lugano, il prossimo 9 novembre».

Due concorsi, entrambi in Ticino

C’è dunque un’altra importante prova in arrivo. Scopriamo così che chi può spiegarci l’importanza di questo concorso è Saverio Pezzi, il direttore dei laboratori del Polo dell’alimentazione e dei servizi della Svizzera italiana (PASSI). «È grazie a lui, Christian Gianetti, Nicola Piatti e alla direttrice del CPT-Tr, Cecilia Beti, se Le Poivrier d’argent è giunto in Ticino», conclude Giovanni Guidicelli che ci consiglia di contattare Pezzi subito «perché poi, da metà maggio a fine giugno, sarà in full immersion negli esami di fine corso». Durante l’anno è più libero? «Assolutamente no – risponde Saverio Pezzi – il sistema duale, sul quale si fonda la formazione professionale in Svizzera, oltre alla formazione in azienda (4 giorni) e a scuola (1 giorno) prevede anche 4 giorni a semestre da svolgere qui al PASSI con me. Il mio compito è permettere a tutti e a tutte di avere le medesime competenze professionali. È infatti assai diverso svolgere il proprio stage nelle cucine di una casa per anziani, di un ristorante stellato o di una mensa aziendale. Proprio per questo, con gruppi di 10-12 allievi provenienti da esperienze differenti, affrontiamo quelle conoscenze e capacità indispensabili per svolgere la professione di cuoco. Questa settimana di maggio, grazie al ponte dell’Ascensione, è una delle poche, diciamo così, tranquille». È bello parlare con Pezzi. «Il mio piacere è, da sempre, cucinare. Quando vedo giovani appassionati mi sento ancor più motivato a offri-

Muoversi all’aperto

Pro Senectute ◆ Nuoto, passeggiate e molto altro per i corsi estivi

Fare movimento all’aperto e in compagnia vivendo gli stimoli del territorio vicino a casa. È quanto propongono i corsi estivi di Pro Senectute Ticino e Moesano con un nutrito programma che tiene conto delle diverse preferenze dei partecipanti a un costo simbolico di 20 franchi. Così, per chi ama l’acqua ci sarà la possibilità di fare acqua-fitness al Lido di Lugano, mentre chi preferisce le passeggiate potrà approfittare del Nordic walking estivo e di camminate lente su diverse superfici; ci sono poi le proposte di rinforzo muscolare o ginnastiche più dolci come pilates o yoga, e non mancano nemmeno la danza popolare e i balli di gruppo.

re loro occasioni di crescita. È successo con il concorso Le Poivrier d’argent e ora succederà con il concorso Jeunes Talents Escoffier. È ben evidente che il mio entusiasmo non basta. La direttrice del CPT-Tr, Cecilia Beti, è stata determinante nel favorire l’organizzazione del Poivrier. È venuta con noi –Nicola, Christian ed io – quando nel 2022 vi abbiamo accompagnato il vincitore della selezione ticinese. Perché, ci ha chiesto, non l’abbiamo mai organizzato in Ticino? Ci proviamo? E, come noto, ce l’abbiamo fatta: grazie a lei, a moltissimi sponsor e anche alla collaborazione con il CSIA. Pensi che, a partire da quest’anno, il nuovo logo del concorso è e sarà quello creato dagli allievi del Centro industrie artistiche!». E adesso arriva il concorso Escoffier «… che – osserva Pezzi – è più importante del Poivrier perché si rivolge a tutti i giovani cuochi e cuoche svizzeri che non abbiano ancora compiuto 25 anni. Chi vincerà a Lugano il prossimo 9 novembre, parteciperà alla finale internazionale. Il Ticino vi ha partecipato per l’ultima volta nel 2017. Melissa Gabbani aveva vinto la selezione svizzera. Andammo insieme a Parigi dove lei si qualificò quarta su 12 concorrenti provenienti da diversi Paesi, tra i quali anche la Cina». Secondo lei Matilde ce la farà? «Guardi, sono un artista della cucina, ma la sfera di cristallo non ce l’ho ancora. So però che Matilde è una ragazza solare con la quale è bello parlare, confrontarsi e lavorare. Matilde sa ascoltare. Poi, è vero, fa di testa sua, ma sa ascoltare ed è importante. La sua forte individualità la porta a saper mescolare bene la sua creatività e le regole di base. Se non si perde di vista… sì, mi sbilancio… ce la potrebbe fare». Matilde passerai dunque un’estate in cucina? «Appena finito l’anno scolastico farò un’esperienza altrove (nella cucina di un hotel). Poi sicuramente, per due settimane, lavorerò in una cucina da campo, dove preparerò colazione, pranzo e cena per una quarantina di persone». Capisce dal mio sguardo che non capisco. «Niente paura. Sarò la cuoca di un campo scout!».

L’idea dei corsi di movimento all’aperto, ci racconta Sibilla Frigerio, responsabile del Settore sport e formazione di Pro Senectute Ticino e Moesano, «era nata anni fa ma si è concretizzata solo durante la pandemia. Il successo è stato immediato e tale da spingerci a proseguire anche negli anni successivi e lo si è potuto fare grazie al sostegno del Dipartimento della sanità e della socialità e di Promozione Salute Svizzera, ma soprattutto grazie alle nostre monitrici che sono il vero motore delle attività di movimento. Sono loro a proporre novità, cambiamenti e corsi diversificati, sempre molto apprezzati». La capillarità sul territorio è uno dei punti di forza delle proposte estive il cui scopo è favorire l’invecchiamento attivo attraverso stimoli non solo legati alla motricità, ma anche alla sfera cognitiva e sociale. «Tentiamo sempre di cogliere i bisogni delle persone – continua Sibilla Frigerio – che cambiano nel tempo, ora si viaggia meno e molte persone trascorrono gran parte dell’estate a casa, per questo motivo le nostre proposte all’aperto sono apprezzate anche da nuovi utenti che non frequentano i corsi che proponiamo regolarmente durante l’anno. Ad esempio l’estate scorsa su 220 partecipanti circa la metà erano nuovi iscritti. La speranza è che chi inizia a frequentare un corso di movimento in estate mantenga questa sana abitudine anche nel corso di tutto l’anno». / Red.

8 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 17 giugno 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ
Matilde Domeniconi insieme al vincitore del Poivrier d’argent, il vodese David Machado Texeira. (DECS)
Informazioni www.ti.prosenectute.ch Tel. 091 912 17 17 e-mail: creativ.center@ prosenectute.org

Siamo un popolo di escursionisti

Istantanee sui trasporti ◆ In Svizzera da più di trent’anni si investe nella cura e nella promozione della rete dei sentieri

L’esigenza di disporre di una rete segnalata dei percorsi pedonali e dei sentieri escursionistici nacque in Svizzera negli anni Trenta del secolo scorso quando cominciò a prendere piede l’abitudine di compiere passeggiate nella natura. La prima associazione a occuparsi dei percorsi e a promuovere una segnaletica uniforme fu fondata nel Canton Zurigo, una regione fortemente urbanizzata dove il pedone si trovò presto in competizione con l’automobile per i brevi spostamenti utilitari o occasionali. In Ticino la fitta rete dei sentieri, sviluppatasi nei secoli con lo sfruttamento degli alpi, era allora frequentata soprattutto da chi dalla montagna traeva il proprio sostentamento. Con la progressiva diffusione del turismo e con le nuove abitudini acquisite dalla popolazione residente, sempre più occupata nel terziario, l’esigenza di disporre e di curare una rete di sentieri, fattasi precaria anche a seguito dell’abbandono delle attività agricole, si fece largo ovunque. L’emergere di differenti principi e colori per segnalare i percorsi nei diversi Cantoni accelerò l’idea di promuoverne il coordinamento.

Risale al 1974 l’iniziativa popolare che chiedeva di attribuire alla Confederazione la competenza di pianificare, costruire e mantenere una rete nazionale di sentieri

Nel 1974 venne così depositata un’iniziativa popolare per attribuire alla Confederazione la competenza di pianificare, costruire e mantenere una rete nazionale di sentieri come pure il compito di coordinare la realizzazione di una rete regionale che abbracciasse l’intero Paese. La proposta fu giudicata dal Consiglio federale irrispettosa della struttura federalista del Paese. Ne propose quindi il rigetto, che tuttavia il Parlamento non avvallò ed elaborò un controprogetto. Esso delegava alla Confederazione la determinazione dei principi per definire la rete e le attribuiva un mandato di coordinamento generale. Ai Cantoni incombeva il compito di provvedere alla costruzione, alla segnaletica e alla manutenzione. I promotori, soddisfatti, ritirarono l’iniziativa e il voto popolare del 1978 plebiscitò questo nuovo compito attribuito all’ente pubblico. La Legge federale di applicazione entrò in vigore nel 1985.

In Ticino il Consiglio di Stato affrontò il tema attraverso un Decreto esecutivo, che istituì nel 1992 una rete provvisoria dei sentieri. Nel 1993, il Cantone promosse la costituzione dell’Associazione ticinese dei sentieri escursionistici (ATSE) – ridenominata successivamente Ticino Sentieri –

attribuendole il mandato di proporre una rete definitiva, per la cui formalizzazione si creò l’anno successivo la base legale attraverso la Legge cantonale sui percorsi pedonali e i sentieri escursionistici. Nacque così il Piano cantonale dei sentieri escursionistici, la «magna carta» periodicamente aggiornata per orientare la cura del patrimonio sentieristico. Esso fissa oggi circa 3800 chilometri di percorsi segnalati in bianco e rosso. La Legge ha attribuito la responsabilità per la loro manutenzione alle organizzazioni turistiche regionali, che operano con squadre di addetti e beneficiano di contributi cantonali annuali in funzione della lunghezza dei percorsi. La costruzione di nuovi sentieri è invece compito del Cantone, che di regola ne delega l’esecuzione a terzi, ad esempio Comuni o Patriziati.

I compiti di Ticino Sentieri, in cui oggi sono rappresentati il Dipartimento del territorio, i Comuni, i Patriziati, le associazioni escursionistiche e alpinistiche (CAS e FAT), le Organizzazioni turistiche regionali e l’Agenzia turistica ticinese, vanno tuttavia ben oltre. Infatti, l’Associazione si occupa pure dell’aggiornamento e dei rilievi cartografici, collabora per la progettazione e il coordinamento degli interventi tecnici, promuove la formazione degli accompagnatori di escursionismo e propone un ampio programma di escursioni accompagnate. Questo impegno affianca pure la creazione dei nuovi e molto suggestivi percorsi di carattere alpino, segnalati con colore bianco-blu, che completano e arricchiscono la rete di base bianco-rossa. Sono la Via Alta Verzasca, la Via Alta Vallemaggia, la Via Alta Idra e, inaugurata lo scorso anno, la

Via Alta Crio, per escursionisti esperti, che, attraverso il tratto iniziale con la funivia Pizzo di Claro, collega Lumino al Lucomagno.

Nel 2020 Ticino Sentieri, nell’intento di favorire una felice convivenza con gli escursionisti, ha accolto anche un Centro di competenza mountain bike, voluto dalle Organizzazio-

ni turistiche regionali con il supporto dell’Ufficio cantonale dello sviluppo economico per sostenere la creazione delle infrastrutture necessarie a questa pratica, per coordinare le diverse iniziative locali e offrire una consulenza professionale.

Escursionismo e mountain bike sono diventati elementi importan-

ti dell’offerta turistica cantonale sia per i residenti sia per gli ospiti. È così possibile riscoprire il nostro territorio rurale e la sua storia secolare, le cui tracce ancora si vedono incontrando i manufatti e gli edifici di un tempo. Il finanziamento avviene essenzialmente attraverso contributi dello Stato e risorse delle organizzazioni turistiche rispettivamente degli enti locali. Il Cantone opera dal 2003 attraverso crediti-quadro quadriennali. Alla fine dello scorso anno il Parlamento ha dato luce verde al sesto pacchetto per un importo di 7,9 milioni di franchi a favore della rete escursionistica per il periodo 2024-2027 e, per la prima volta, a un sostegno di 1,6 milioni di franchi per il settore dei mountain bike.

Questo impegno va peraltro a valorizzare quanto promosso negli ultimi vent’anni da Comuni, Patriziati, società alpinistiche e altre associazioni per ammodernare e ampliare le capanne alpine (in Ticino sono oltre 70) e mantenere i rifugi (circa 80) con interventi talvolta architettonicamente interessanti e innovativi.

Che lo sforzo finanziario e organizzativo in corso vada nella direzione apprezzata lo conferma il rilevo dell’Ufficio federale delle strade del 2021, secondo il quale il 57% della popolazione svizzera e il 53% di quella ticinese pratica l’escursionismo, con una tendenza all’incremento.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 17 giugno 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 9 SOCIETÀ
si è
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Secondo uno studio del 2021 il 57% della popolazione svizzera pratica l’escursionismo e la tendenza è all’incremento (www.schweizer-wanderwege.ch); in basso, alla tradizionale segnaletica per
i percorsi a piedi
aggiunta negli ultimi anni quella per le mountain bike. (flickr.com)

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Come riconosco che la mora è matura?

Quando l’intero frutto è di colore uniformemente scuro. Le bacche devono essere di colore nero-violaceo, sode e lucide. Quelle acerbe, invece, sono rosse e più dure. Se raccogli le bacche dal cespuglio dovrebbero staccarsi molto facilmente.

Le more possono maturare dopo il raccolto?

No, a differenza di altri frutti, le more non maturano più una volta raccolte.

Come conservarle per mantenerle fresche?

Le more sono molto sensibili. È meglio mangiarle il prima possibile. Per conservarle, si consiglia di disporle su un piatto foderato con carta da cucina e metterle nel frigorifero nello scomparto delle verdure. Così si conservano per circa tre giorni. Le more vanno lavate solo prima di mangiarle. Se le lavi prima di metterle in frigorifero, la muffa può formarsi più rapidamente.

Per cosa si usano le more in cucina?

La mora non è dolce ed è anche piuttosto aspra. Si sposa quindi perfettamente con i dessert, ma è anche ottima con le grigliate o nelle insalate:

CONSIGLI CULINARI

Evviva le more

Ora

ci sono di nuovo quelle fresche. Come riconoscere le bacche mature e come utilizzarle al meglio in cucina

Si possono congelare le more?

Sì, puoi congelare le more senza problemi. Assicurati che siano asciutte prima di farlo. È preferibile pre-congelarle su un piatto rivestito di carta da forno. Dopo circa due ore nel congelatore, puoi trasferirle in un altro contenitore; non si attaccheranno più tra loro. Ora potrai preparare il tuo soft ice alle more ogni volta che ne avrai voglia:

Come eliminare le macchie di mora?

Hai macchiato i vestiti mentre mangiavi le more? È necessario un intervento rapido. Sciacqua immediatamente la macchia con acqua minerale: l’anidride carbonica contenuta nell’acqua agisce contro la macchia. Anche i latticini possono essere d’aiuto: immergi l’indumento nel latte per tutta la notte e lavalo il giorno dopo. Ma attenzione: alcuni colori possono sbiadire. È quindi opportuno testare in anticipo come reagisce l’indumento su un punto poco visibile.

Cosa posso fare con i cespugli di more?

Una tisana. Raccogli le foglie e lasciale essiccare in un luogo buio per qualche giorno. Se puoi sbriciolare le foglie con le dita, significa che sono pronte. Aggiungi due cucchiaini di foglie di mora essiccate all’acqua bollita e lasciale in infusione: otterrai così una deliziosa tisana. Le foglie si conservano per circa un anno in un barattolo richiudibile.

Le more sono davvero bacche?

No, la mora è una pianta della famiglia delle Rosaceae. Appartiene al genere Rubus. Dal punto di vista botanico, la mora non è quindi una vera e propria bacca, ma una polidrupa. A essere precisi, ogni piccola «pallina» del frutto è una singola drupa. Questa struttura è tipica di tutte le piante di Rubus, compresi i lamponi.

Quand’è la stagione delle more?

Le more sono di stagione da giugno a settembre.

Contengono molte calorie?

No, 100 g contengono 44 calorie e solo 0,4 g di grassi. Contengono molta vitamina C e vitamina E e sono ricche di fibre.

Cosa c’entra la mora con le streghe?

La mora ha un significato speciale in diverse culture: il popolo dei Germani considerava i cespugli spinosi di mora come il luogo in cui dormivano le streghe della foresta. Alla mora si attribuiva però anche un effetto curativo, che agiva quando si strisciava sotto i rami dei suoi cespugli. Nell’antica Grecia si credeva che il succo della mora fosse il sangue dei Titani.

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Immagini: Migusto (2), Adobe Stock (3)
Testo: Naomi Hirzel
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Il valore storico della pesca professionale con reti

Ambiente ◆ Sui nostri laghi, Ceresio e Verbano, è ancora oggi importante e dovrebbe venir rivalutata anche dai giovani

Raimondo Locatelli

Sul Ceresio «ticinese», analogamente sul Verbano da Brissago a Magadino, pratica la pesca un esercito di pescatori dilettanti (quelli con la canna, per intenderci) e qualche decina di pescatori professionisti (con le reti). Questi ultimi sono i cosiddetti «pescatori per mestiere».

Oggigiorno la pesca professionale è sempre più in… disarmo o, comunque, ormai ridotta al lumicino dal punto di vista numerico. In passato, per contro, questo genere di pesca rappresentava un’attività tradizionale e, anzi, gli adepti costituivano un’autentica figura primaria nel contesto socio-economico delle zone lacuali. Questo perché proprio i nostri laghi subalpini erano un’importante, irrinunciabile fonte di sostentamento per la popolazione dei villaggi incastonati sulle rive.

Il periodo d’oro della pesca con reti, con una tradizione che si tramandava da padre in figlio, risale ai primi decenni del Novecento, allorquando –per citare il compianto Paolo Poma di Morcote, autentico osservatore della realtà lacuale ceresiana oltre che appassionato pescatore con la barca – vi era una straordinaria abbondanza di pesce, come salmerini, coregoni, agoni, alborelle, persici, triotti, anguille, eccetera. Abbondanza che fruttava sostentamento e un discreto benessere ai villaggi del Ceresio, tanto da smerciare il pesce sui mercati di Varese, Milano e Torino, oltre che a Lugano e al di là del Gottardo.

La pesca professionale, all’epoca, vedeva quindi impegnato un numero indubbiamente significativo di braccia maschili nell’impiego di reti e tirlindane, mentre alle donne spettavano i compiti di casa e l’accudimento dei figli nonché i lavori in campagna, ma anche la pulizia del pesce e, in non pochi casi, la quotidiana trasferta – con il gerlo spostandosi in battello – al mercato di Lugano o a Porto Ceresio per la vendita del prodotto ittico sulle bancarelle.

Diverse le cause del declino

Dopo il 1950, la pesca come attività lucrativa ha perso sempre più mordente e importanza, per cui pian piano ma ineluttabilmente sia sul lago di Lugano sia sul Verbano il settore alieutico si è tramutato sempre più in ricreazione, a carattere prevalentemente sportivo, per occupare il tempo libero, stare nella natura, evadere, divertirsi e anche, talvolta, quale occasione di aggregazione. Di conseguenza, le catture per sfamarsi – come invece vigeva precedentemente – sono diventate sempre meno un’esigenza per soddisfare i bisogni alimentari essenziali, tramutandosi in fonte di emozioni tali da appagare la passione ancestrale tuttora viva nella nostra gente.

Un declino (inarrestabile?) che è andato acuendosi a partire dagli anni Sessanta ma ancor più sin oltre il 1980, a causa di molti fattori, principalmente: la speculazione che ha fagocitato le rive lacuali sino ad allora pubbliche e accessibili a chiunque; la piaga dell’inquinamento del Ceresio che ha ridotto questo straordinario specchio d’acqua, che tutti ci invidiano per la sua spettacolarità ambientale, a poco più di una cloaca, strozzando e sterminando così il novellame ittico; il servilismo del Ticino turistico nei confronti degli ospiti, chiudendo non uno ma tutti e due gli occhi al cospetto delle barche a motore che scor-

razzano liberamente sul lago; persino una certa ma evidente acredine, o comunque un antagonismo fra dilettanti e professionisti, per cui queste categorie soprattutto sul Verbano si guardano quasi in cagnesco e mal si tollerano (vedi le polemiche virulente sul dossier delle bandite di pesca).

Persino gli uccelli ittiofagi…

I risultati sono lì da vedere, in quanto la pesca per mestiere va perdendo sempre più smalto e considerazione, cosicché il lago di Lugano – pur vantando una varietà e soprattutto una quantità nient’affatto irrilevante di pesci persici, coregoni, lucioperca e qualche altra specie – ha un patrimonio ittico decisamente impoverito poiché non è più il «lago dei salmerini» come nella prima metà del secolo passato; l’alborella, punto di riferimento di prima grandezza nella prima metà del Novecento, è scomparsa del tutto (anche se si cerca disperatamente di reinserirla, sinora con risultati insignificanti), suscitando uno sconquasso nella pesca come tale, attutito comunque in parte dalla presenza del gardon. Patrimonio ittico impoverito, si diceva, non davvero da una pesca non sostenibile, anzi. A segnare tale im-

A pesca con le reti in prossimità di un canneto tra Magliaso e Caslano negli anni Ottanta. In azione è Franco Chiesa, appassionato di questo tipico genere di pesca e fondatore del Museo della pesca a Caslano. Sotto da sinistra: pescatore con reti a Bissone nel 1944. Foto di Vincenzo Vicari (per gentile concessione dell’Archivio storico della città di Lugano); pazienza ed esperienza nel liberare i pesci impigliati nella rete.

poverimento sono ben altri fattori: ad esempio gli uccelli ittiofagi (cormorani, svassi, smerghi e aironi cenerini) che rappresentano un’autentica, irrisolvibile (per ora siccome superprotetti dalla legislazione federale) calamità poiché si pappano quotidianamente un’enorme quantità di pesce; d’altra parte, anche altre specie ittiche sono sparite lasciando però il posto ad altre (vedi i famelici siluri), che arrecano grossi danni e soppiantano il nostro patrimonio; la stessa evoluzione dei popolamenti ittici, come pure della società e dell’economia, gioca un ruolo non sempre positivo, favorendo un’eccessiva pressione da parte della pesca come tale.

Prodotto naturale a km zero

Eppure, la pesca professionale ha un suo passato che non può, non deve essere cancellato. Ovvero, pur non essendo più data (come un tempo) la pressante esigenza di soddisfare i bisogni alimentari di prima necessità, i pescatori con reti sono essenziali, irrinunciabili per un lago, in quanto una pesca ben regolamentata è parte integrante delle misure per mantenere gli equilibri ittici, evitando che nelle acque non sfruttate si manifesti segna-

di mare da importazione che può suscitare qualche timore e persino rischi per la salute.

Pregiudizi e scarso riguardo

Tuttavia, bisogna pur riconoscerlo, permangono taluni pregiudizi su questo antichissimo, straordinario alimento. Difatti, non poche massaie rinunciano all’acquisto del pesce indigeno asserendo di non saperlo distinguere, oppure temono di sbagliare nel pulirlo e nel prepararlo per la cottura, oppure ancora sostengono che il pesce «puzza» ed è pieno di lische. Senza sottacere che, in questa civiltà della fretta e del «mangia e fuggi» – per cui malvolentieri si sta ai fornelli – si rincorrono altri menu più sbrigativi, magari già pronti, dimenticando il valore di un prodotto locale e naturale, fresco, appetibile, di buon gusto e delicatezza, con carni prelibate. Anche se va pur detto che nei confronti di questo prodotto casereccio non è che ci sia chissà quale entusiasmo da parte di parecchi albergatori e ristoratori nell’offrirlo abitualmente alla propria clientela. E qui ci viene alla mente come invece, decenni or sono, sulle rive dei nostri laghi (a Morcote, Brusino Arsizio-Pojana, Bissone, Gandria, eccetera) la gente affollasse i grotti e le osterie per il piacere di assaggiare alborelle e pesce in carpione. Oggi, per contro, i locali di questo tipo o non ci sono più purtroppo, oppure sono da cercare con il lumicino, magari anche perché il pesce stesso scarseggia e il gestore di locale preferisce puntare dritto a un pesce di mare più sbrigativo ma che a volte suscita qualche smorfia da parte dei commensali. Con qualche sorpresa sgradevole, talvolta, a causa di un conto – al momento di estrarre il borsellino – che può ingenerare sorpresa e giudizi negativi.

Un mestiere non facile

tamente una popolazione eccessiva di pesci poco pregiati ma più soggetti a epidemie e che intaccano la corretta gestione del patrimonio lacuale.

Senza trascurare un aspetto di primario significato: la presenza di pescatori con reti – in quanto gestori delle acque – è non soltanto da salvaguardare ma soprattutto da valorizzare. Basti qui citare la meritevole attività nel fornire pesce di lago, che è prodotto nostrano e fresco, oltre che di qualità, a chilometro zero dal profilo dell’impatto ambientale grazie alla cosiddetta filiera corta, ovvero il passaggio diretto dal pescatore al consumatore

Tipicità e qualità del nostro pesce, come nel caso del «fritto misto», oppure del delizioso filetto di persico, di coregone e trota lacustre ma pure con tante altre ricette scintillanti e tali da ingolosire anche i più restii alle «provocazioni» della cucina, con la varietà che consente comunque anche tanti altri piatti variati e scintillanti nei gusti e nei sapori, oltre che originali e persino fantasiosi dal profilo del ricettario, nell’ottica di una consolidata e antica tradizione culinaria.

Tanto da legittimare la tesi che si è in presenza, grazie ai nostri pescatori per mestiere, di un’autentica «cultura» del pesce di lago al cospetto di certe sbavature nel consumo di pesce

Onore al merito, comunque, ai pescatori professionisti o semi-professionisti che però sono pochi, rari quasi come le mosche bianche: appena 12 quelli attivi sul Ceresio ma due in lista d’attesa a fronte di qualche anziano che non sa o non vuole mollare, mentre sul Verbano operano in 11. È un mestiere che non attira i giovani, duro per gli orari e le condizioni meteorologiche sovente proibitive in cui si è costretti a operare, da praticare perlopiù quale attività accessoria poiché le entrate (visti i considerevoli costi per attrezzature, natanti, e via elencando) incidono parecchio sul budget, e con «obblighi» tutt’altro che… leggeri in fatto di uscite sul lago e quantitativi minimi da registrare per mantenere la patente, sicché è una classe lavoratrice che va inesorabilmente invecchiando. Le prospettive, insomma, sono tutt’altro che rosee e gli stessi interessati ne sono coscienti. Ma non sembrano esserci molte vie di uscita. La scomparsa (probabile in tempi medio-brevi) di questa sparuta «brigata» suscita una certa tenerezza e specialmente un forte rammarico, poiché è in forse un pesce insubrico nobile, un autentico «piatto del territorio» che invece altrove, come sul lago di Como, viene valorizzato e divulgato. Possibile che non ci sia qualche giovane volonteroso che sappia affrontare con polso questa sfida?

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Casablanca, tra colori e architettura

Per molti considerata il centro economico e finanziario del Marocco, è in realtà sede di una ricca vita culturale con artisti di strada

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Non solo dolce, salato, amaro o acido Ai più noti sapori della tradizione occidentale se ne stanno aggiungendo diversi altri, tra questi vi sono l’umami ma anche il kokumi

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Pagina 20

Ergonomia dell’ozio: istruzioni per l’uso

Tra il ludico e il dilettevole ◆ In un suo racconto David Lodge esplora la tentazione universale di rimanere a letto quando bisogna andare a lavorare

Sebastiano Caroni

L’uomo che non voleva alzarsi è un racconto del romanziere inglese David Lodge, che descrive la situazione di un uomo abituato a svegliarsi alla mattina per recarsi al lavoro. Un giorno apparentemente come tanti, però, si rende conto di aver ormai prosciugato la sua voglia di vivere. Decide, quindi, che in fin dei conti non vale la pena di alzarsi, e continua a crogiolarsi nel suo letto per un tempo che sembra non finire mai: giorni, settimane, mesi, fino al momento in cui, ormai allo stremo, con un ultimo sforzo vorrebbe alzarsi. Ma è troppo tardi, si accorge che non ce la fa più.

L’uomo che non voleva alzarsi fu pubblicato nel 1998 assieme ad altri racconti, ma la sua circolazione fu tutto sommato limitata e, nel frattempo, Lodge continuò a pubblicare con regolarità romanzi di successo. Pertanto, il racconto finì per passare in secondo piano: senonché nel 2015 l’agente letterario di Lodge ricevette una email piuttosto insolita da parte di una certa Philippine Hamen, la quale scriveva più o meno così: «Sono una fervente lettrice di David Lodge e una designer di mobili, anche se in

realtà questa mia vocazione è nata dopo aver letto il racconto L’uomo che non voleva alzarsi, che mi ha dato la visione di un mobile speciale, ibrido, che permettesse al narratore di rimanere virtualmente a letto, pur potendo lavorare sulla struttura che ho ideato, a metà tra una scrivania e un lettino».

L’idea di Philippine era nata dalla consapevolezza che «la tentazione di rimanere a letto quando dobbiamo andare a lavorare o a scuola è universale». Il protagonista del racconto, in fondo, non faceva altro che ribellarsi contro lo spirito del capitalismo moderno, manifestando il bisogno di riconquistare un ambiente sicuro, caldo, simile a un grembo materno. Il dispositivo immaginato, mettendo in crisi la separazione fra casa e lavoro, fra ozio e produttività, mirava quindi a creare un oggetto che, unendo la scrivania e il letto, rispondesse contemporaneamente ai bisogni della sfera lavorativa e di quella domestica. Nel concreto, l’originale forma del dispositivo era concepita per svolgere diversi compiti in tutta comodità. Un po’ come un lettino da massaggio, permetteva di adagiare il

corpo in maniera simmetrica. All’altezza del volto era situata un’apposita apertura che consentiva di leggere, per esempio, un documento piazzato sulla superficie inferiore che fungeva da scrivania. Le braccia, libere da impedimenti, potevano penzolare ai lati del lettino, oppure essere impiegate per girare le pagine di un libro, o per scrivere a computer. Dunque Philippine, «fervente lettrice» di Lodge, non solo aveva letto e apprezzato il racconto: ne era stata folgorata al punto da concepire un ponte, un passaggio, una zona di contatto, fra finzione e realtà, affinché l’una sconfinasse nell’altra. Aveva elaborato una risposta pratica, possibilmente risolutiva, alla condizione di letargia cronica del personaggio. Tale intuizione fu a tal punto epifanica da condurla, dopo una laurea in letteratura moderna alla Sorbona, a intraprendere degli studi per diventare designer di mobili. Al termine del suo programma di studi, infatti, Philippine realizzò un prototipo del dispositivo che fu poi esposto, riscuotendo un certo successo, al Salone del mobile di Milano.

Quando Lodge, in seguito, ricevette il messaggio di Philippine, contattò un suo amico gallerista di Birmingham, che diede vita a una nuova iniziativa: un nuovo modello di lettino-scrivania venne esposto in una galleria d’arte, in concomitanza con il festival di letteratura di Birmingham. Per l’occasione, il racconto di Lodge, all’origine del fortunato cortocircuito fra finzione e realtà, venne ristampato in una nuova edizione con alcuni racconti più recenti. Questa storia, per quanto aneddotica, dimostra come libri o film possano ispirare soluzioni pratiche, a volte anche avveniristiche, certamente attuali: un dispositivo come quello realizzato dalla Hamen e ispirato da Lodge potrebbe, immaginiamo, intercettare l’interesse di coloro che si occupano di negoziare le nuove frontiere dell’homeworking. Ma nulla ci impedisce, d’altra parte, di indugiare sul versante dell’ozio, immaginando una simile innovazione al servizio di una creatività svincolata dagli obblighi lavorativi. Dopotutto, come sostiene il sociologo Domenico De Masi, l’ozio non

solo è una virtù, ma permette all’essere umano di esprimere al meglio il suo potenziale creativo: all’opposto del lavoro alienante e disumanizzante, è più consono ai ritmi e ai modi suggeriti da un’amaca: «Puoi startene sdraiato per ore – afferma il sociologo –, mentre la tua mente lavora vorticosamente. L’amaca è l’opposto della catena di montaggio. E, forse, è l’oggetto più bello e più funzionale che sia mai stato creato dagli esseri pensanti».

L’ozio concepito in questi termini coincide con una sorta di pienezza in cui l’essere umano si riconosce e si riscopre. Visto così, è certamente un’esperienza da coltivare, diffondere e proteggere. La speranza è che poi, come sempre, l’estate ci accolga più viva che mai, con le sue amache sospese nella luce accecante. E magari, con un buon libro fra le mani, ci lasceremo sorprendere da un’intuizione.

Bibliografia David Lodge, L’uomo che non voleva alzarsi e altri racconti, Bompiani, 2011.

TEMPO LIBERO ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 17 giugno 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 15
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Alla scoperta del volto colorato

Reportage ◆ La street art invade sempre di più le facciate degli edifici e i vicoli nella città dell’Art déco trasformando le strade

È notte fonda quando arrivo alla Gare Casa-Port, e non faccio in tempo ad apprezzare la maestosità della stazione ferroviaria che, ristrutturata nel 2014, si mostra in uno stile contemporaneo e funzionale. Affrettandomi verso la porta (Bab) el-Marsa per raggiungere il mio alloggio nella medina, un odore non proprio gradevole cattura la mia attenzione. Un pungente tanfo lagunare mi avverte della presenza di svariati carretti di pesce fresco lungo il trafficato Boulevard des Almohades e, dopo un momento di esitazione, sorrido a un pescivendolo chiedendogli il permesso di scattare una fotografia. Gamberi e calamari, il mio primo impatto con Casablanca.

Murales e installazioni artistiche non sono più disprezzate o assimilate al vandalismo, ma sono diventate testimonianze tangibili della ricca cultura e identità marocchine

Il mattino seguente, affacciatami alla finestra, mi si rivela la fisionomia della città marocchina, ora illuminata da un sole accecante. La cupola della stazione ferroviaria, della quale scorgo un angolo in lontananza, fa a pugni con l’aria stanca dei palazzi che si affacciano sulla piazza Ahmed El Bidaoui. Una coesistenza di contrasti che, una volta scesa in strada, mi inseguirà per tutta la mia permanenza. Del periodo risalente al suo status di protettorato francese, Casablanca conserva un ricco patrimonio architettonico Art déco, con edifici dalla simmetria impeccabile e motivi geometri-

ci incisivi. Frequente è la sua apertura a tutte quelle forme di espressione artistica prodotte da una vigorosa scena culturale urbana e alternativa che include ad esempio l’hip-hop. Il popolare L’Boulevard è un festival annuale di musica urbana fondato nel 1999 a Casablanca da Mohamed Merhari (noto anche come Momo) e Hicham Bahou. Articolato in tre sezioni, include il festival Sbagha Bagha, un’iniziativa che vede i graffitari riempire la «Città Bianca» con le loro creazioni. In tempi più recenti, la street art marocchina ha guadagnato consensi internazionali, grazie a talenti locali e stranieri che hanno trasformato le strade in vere e proprie gallerie d’arte a cielo aperto. Dal 2015, il festival Jidar di Rabat è stato un crocevia dove, ogni anno, temi sociali e politici si sono fusi con la potenza espressiva della street art. Sia Jidar sia Sba-

gha Bagha sono progetti d’arte reciproca, realizzati in collaborazione con la stessa organizzazione no-profit, EAC-L’Boulvart, che sostiene la musica contemporanea e la cultura urbana in tutto il Marocco.

A Casablanca la potenza espressiva dell’arte di strada è tuttavia emersa più lentamente. La nascita di un’agenzia artistica indipendente come Placebo Studio nel 2011 e di iniziative come WeCasablanca ha promosso la creatività delle strade, trasformando la «giungla di cemento» in una tela dalle tinte forti, mentre il festival annuale CasaMouja, un evento del programma WeCasablanca nato nel 2019, ha contribuito a cambiare le percezioni sull’arte urbana. Murales e installazioni artistiche non sono più disprezzate o assimilate al vandalismo, ma sono diventate testimonianze tangibili della ricca cultura e identità maroc-

chine, tanto da venir commissionate da aziende e organizzazioni locali.

Ciò che rende ancora più preziosa questa (ri)nascita artistica è la permanenza delle opere una volta che i festival si sono conclusi, un dono alla città da scoprire lentamente a piedi o nel tempo di una corsa in taxi.

Le opere di strada di Amin Brush

Tra le opere più iconiche, i murales dell’autodidatta Amin Brush (pseudonimo di Amine Hajila, 1980) si stagliano sui palazzi di El Hank, la Corniche e il Boulevard Gandhi. Appassionato di disegno fin da piccolo, si cimentò con tempere e pennelli per poi passare alle bombolette spray durante l’adolescenza. Incoraggiato dai genitori a seguire l’indole artistica (la

madre era pittrice), in seguito a una collaborazione con lo Studio Placebo partecipò più volte al festival CasaMouja a partire dalla sua inaugurazione nel 2019, nella quale presentò l’opera Remember La Casablanca di Amine non è solo una fonte di ispirazione ma al contempo vigila sugli abitanti come una tenera madre, e gli angoli urbani diventano un teatro dove mettere in scena tematiche sociali, politiche e culturali, che mescolano elementi tradizionali marocchini a una sensibilità estetica di stampo più contemporaneo.

Attraverso progetti comunitari e iniziative di sensibilizzazione, l’artista si è distinto nel promuovere il cambiamento sociale e migliorare la qualità della vita nelle aree urbane, incarnando così il potere trasformativo dell’arte. Incontro Brush in un caffè,

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da «giungla
Simona Dalla Valle, testi e foto Quartiere El Hank: il trittico a tema calcistico di Ed Oner. Sotto, a sinistra: Mohawudu, Nofal One e Ser Oner su Boulevard Ghandi/ Boulevard El Mansour; a destra: un’opera parte del trittico Hope di Dynam, nei pressi della fiera internazionale di Casablanca.

di Casablanca

di cemento» in vere e proprie gallerie artistiche a cielo aperto

Non è semplice stendere un itinerario dettagliato che comprenda la street art di qualsivoglia città, tenendo conto la natura effimera delle opere o dei supporti sulle quali si trovano: i muri si degradano danneggiando i dipinti, e talvolta da un giorno all’altro interi edifici sono demoliti per fare spazio ai dettami dell’edilizia. È possibile tuttavia illustrare le zone di Casablanca a maggiore concentrazione di murales. Se l’intera superficie di Casablanca vanta una fiorente scena artistica, El Hank è la zona con più opere in assoluto. Se si ha poco tempo a disposizione e ci si vuole limitare a una zona circoscritta, il mio consiglio è pertanto quello di concentrarsi su questo quartiere.

Iniziando dalla rotonda (Rond Pont) Corniche e salendo verso la parte più occidentale di El Hank ci si imbatte nel dipinto di Samir Toumi per Casamouja 2021, che raffigura un’affollata medina nei toni dell’ocra. Più colorate sono le figure femminili di Sam Kirk (Casamouja 2018), poche decine di metri più avanti. Mama Assia di Amine Brush (Casamouja 2021) e il pavone di Mehdi Zemouri sono rispettivamente all’angolo di Boulevard TanTan con Rue 33 e con Avenue Mehdi Ben Barka.

Proseguendo si incontra di nuovo Brush con La Femme Berbère (Angolo Avenue Mehdi Ben Barka con Rue 15) e da qui si apre un bivio. Si può ritornare sul lato sud di Boulevard TanTan per scovare il ritratto «scomposto» di Dais e un’intera serie di dipinti che celebrano la femminilità marocchina: le rose di Lamine Sara, la donna amazigh con i tatuaggi tradizionali di Soufiane Zorgane (Zorg) e la figura con grembiule di Imane Droby, tutte create in occasione di Casamouja 2021, oltre che The Beauty di Majid Elbahar e il criptico We are made of constructs di Meriam Benkirane. Oppure si può scendere lungo la Rue Granville in direzione mare ed entrare nel cuore pulsante di El Hank, dove si incrocia la Ingrid Bergman di Dynam e l’ironico Jellaba & Skate di Kalamour, i quali occupano le facciate di due edifici in Rue Granville. Girando a est verso il cimitero è impossibile sfuggire alle geometrie bianconere di Lines 2 di Samy Snoussi e agli uomini in tunica e babbucce di Amine Brush (Casamouja 2018), proseguendo con il variopinto Mother

luogo tradizionalmente riconosciuto di socialità maschile ma in anni più recenti teatro di una lenta e inesorabile appropriazione dello spazio da parte delle donne (nda: come esaminato dalla studiosa locale Sana Benbelli).

L’artista mi racconta degli albori della street art a Casablanca all’inizio degli anni Duemila, un’epoca in cui tale forma d’arte era scarsamente rappresentata sul territorio marocchino. Ciò che giungeva alla città erano frammenti dispersi, tramandati tramite riviste straniere o videocassette, definite da lui stesso come «antiquate». In quel contesto, la street art era mal compresa e addirittura osteggiata, perché interpretata da alcuni come un’azione politica, cosa che suscitava diffidenza e distanza.

Power di Okuda e il trittico a tema calcistico di Ed Oner. Nei pressi del cimitero, Ghost Light di Bakr Addou (in arte Bakr) raffigura un pescatore con in mano una lanterna illuminata, simbolo di speranza per chi lavora in mare aperto.

Anche uscendo da El Hank le opere di street art non mancano, ma essendo sparse nel vasto territorio urbano può essere più difficile raggiungerle a piedi. Partendo dalla moschea Hassan II e procedendo verso est, si incontra La ragazza con il palloncino di Amine Benchrif: situata nel quartiere Oasis, questa rivisitazione giocosa della famosa opera di Banksy è un ottimo punto di osservazione della street art locale.

A Derb Sultan troverete il ritratto di un suonatore del tradizionale liuto arabo: The Oud Player di Mehdi Qotbi. Nel quartiere Gauthier, vicino alla fiera internazionale di Casablanca, si incontra il murale Walls of Casablanca (Mehdi El Hamidi). Quest’opera di grandi dimensioni raffigura varie scene della storia e della cultura della città, offrendo uno sguardo sul passato e sul presente. Allo Skate Park Rachidi, nei pressi della bianca Cattedrale del Sacro Cuore, a catturare lo sguardo sono l’imponente skater di Abid e i cerchi concentrici di Zepha. Fuori dal centro, i murales di Alouane Bladi (Young Earth ), Bakr (Massira ) e Olderwild (Family ) campeggiano nel quartiere di Sidi Othmane, mentre sulla parete della piscina Salmia, nel quartiere periferico Salmia 2, è possibile vedere il murale frutto della collaborazione tra Dynam, Med, Olderwild e Bakr. Origine du monde di Olderwild decora invece una facciata dell’ospedale pediatrico Ibn Rochd, e non lontano si trova l’irriverente Tajine Euphoria di Normal. All’incrocio tra Boulevard Ghandi e Boulevard Yacoub el Mansour si trova una ricca concentrazione di dipinti firmati da Amine Brush, Yann Chatelin, Mohawudu, Krafts, Socrome e Sitoumatt.

Concludete infine la vostra esplorazione nella medina vecchia e cercate i murales realizzati dagli Ultras, tifosi di calcio incalliti, come Football and Resistance, Street Art Comics di Skefkef e il Murale Calligrafico di Hassan Darsi, uno splendido esempio di calligrafia araba vicino al mercato vecchio.

Tuttavia, i tempi sono cambiati e con essi anche le percezioni. Oggi i marocchini iniziano a contemplare con uno sguardo nuovo i colori che danzano sui muri, un fenomeno impensabile in passato. Scene di vita quotidiana e ritratti di arabi e berberi adornano le skyline delle grandi metropoli marocchine, fondendo tradizione e modernità in una suggestiva armonia.

Tra palloni e rose in fiore

Nel labirinto dei vicoli della medina, gli occhi dei visitatori si perdono tra le trame di graffiti che dipingono le pareti. Queste opere, spesso prodotte dagli Ultras, appassionati tifosi di calcio, si ergono come un tributo vibrante alle squadre locali, Wydad AC e Raja CA, incarnando la profonda rivalità che anima lo sport marocchino. Il tema calcistico è centrale anche nella produzione dell’artista Mehdi Zemoura, famosi sono i suoi murales nel quartiere di El Hank che celebrano la partecipazione del Marocco ai Mondiali di calcio del 2022.

È raro trovare nomi femminili tra gli artisti di strada, ma Sara Lamine Rose è una talentuosa muralista attiva da diversi anni nel panorama di Casablanca. Uno dei suoi lavori più importanti si serve di una moltitudine di rose colorate per esprimere un amore incondizionato per la città.

Anche La Crew Cnn199 è un progetto di diffusione della cultura hip-hop nella sua interezza, dalla musica rap passando dalla breakdance fino alla street art.

Il lavoro di Amin Brush e dei colleghi non solo è stato di ispirazione per tutta una generazione di artisti, ma ha contribuito a mantenere vivace e dinamica la scena artistica di Casablanca. Parallelamente, iniziative come i laboratori artistici e i tour guidati, curati da organizzazioni come Native Morocco, CasaMouja e Alouane Bladi (per i tour in bicicletta), offrono agli appassionati l’opportunità di immergersi nell’essenza creativa della città, rivelando sia le icone della street art sia i tesori architettonici meno noti.

Informazioni

Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica. Link https://if-maroc.org/casablanca/ evenements/street-art-tour-a-velo www.instagram.com/amin.brush www.instagram.com/rose_ saralamine www.instagram.com/cnn199

La più

grande del Marocco risplende ancora

Casablanca è una città di estremi. Da un lato gli sviluppi moderni continuano a plasmare lo skyline, dall’altro l’antico splendore della città più grande del Marocco risplende ancora. Distrutta dal terremoto del 1755, Casablanca fu ricostruita dal sultano Muhammad III, il quale si avvalse di architetti europei. A questo periodo risalgono la sqala, le mura della medina e le due moschee più antiche.

Nel 1912, la ricostruzione della città la divide nella ville indigène per i marocchini e in ville nouvelle per gli europei

Il bombardamento da parte dei francesi del 1907 distrusse gran parte della città e con l’inizio della dominazione francese, la fusione con le influenze autoctone diede vita a uno stile architettonico unico, il neomoresco, che combina le linee rette dell’art déco con i disegni e le tecniche tradizionali marocchine. Il piano urbanistico dell’architetto Prost, assunto nel 1912 per la ricostruzione della città, la divideva in una ville indigène destinata ai marocchini e una ville nouvelle a est per gli europei. La più parte degli edifici in stile Art Nouveau e Art Déco sorse nella ville nouvelle prima della fine degli anni Trenta. A un lato di Place Mohammed V, cuore della città, si ammira la Wilaya, l’ufficio amministrativo costruito tra il 1927 e il 1936, con l’iconica torre dell’orologio. Dalla parte opposta della piazza si trova il moderno Grand Théâtre, progettato da Christian de Portzamparc. Sulla piazza affaccia anche l’Ufficio Postale principale, completato nel

1920 e al cui interno sono conservati gli arredi originali in stile Art Déco. A pochi passi di distanza si trova il Palazzo di Giustizia, costruito nel 1925 e che presenta un’imponente facciata con finestre ad arco e motivi decorativi.

Passeggiando lungo il Boulevard Mohammed V e guardando in su fin sopra le facciate dei negozi, si può immaginare la magnificenza di questi edifici nel loro periodo di massimo splendore. Nei dintorni si notano l’Hotel Guynemer in Rue Brahim Belloul, il Transatlantique in Rue Chaouia e il maestoso Cinema Rialto all’angolo tra Rue Mohammed el Qorri e Rue Salah ben Bouchaib. Completato nel 1929, l’edificio fu operativo fino a pochi anni or sono, ma è tuttora una testimonianza della scena culturale di Casablanca dei primi anni del XX secolo.

Uno degli edifici Art Déco più imponenti di Casablanca è l’Immeuble Liberté, in Rue Al Bassatine, progettato da Léonard Morandi nel 1951. Con i suoi 78 metri di altezza, è stato il primo edificio di questa altezza in Nord Africa. Due chilometri più a est, la Villa des Arts è situata in un maestoso palazzo degli anni Trenta ristrutturato dall’architetto Rachid Andaloussi. L’edificio ospita oggi mostre di arte contemporanea. Tornando verso il centro si passa di fronte alla Cattedrale del Sacro Cuore. Costruita negli anni Trenta in stile neo-gotico, la chiesa perse la sua funzione religiosa quando il Marocco ottenne l’indipendenza nel 1956. La chiesa si trova accanto al Parc de la Ligue Arabe, un parco di 30 acri recentemente riqualificato per 100 milioni di dirham (circa 25 milioni di franchi).

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Edificio in stile Art Déco all’angolo tra Mohammed V e Hassan Seghir. Itinerario: da El Hank alla medina L’imponente skater di Abid allo skate park Rachidi.

L’INNOVAZIONE CONTRO LE SMAGLIATURE

La nostra pelle è una meraviglia della natura: ci avvolge in un manto protettivo, è sensibile al tocco più delicato ed è estremamente elastica. Forti sollecitazioni della pelle possono lasciare il segno sotto forma di smagliature: per molte un’alterazione della pelle spiacevole da vedere.

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INTERVISTA CON

TORSTEN SCHLAEGER, esperto NIVEA per la cura del corpo, Amburgo

Che cosa sono le smagliature?

Da un punto di vista biologico della pelle, le smagliature sono cicatrici intradermiche. Queste cicatrici si formano quando il tessuto connettivo si espande eccessivamente, quindi si strappa e poi si rigenera in maniera imperfetta. Si distinguono in maniera più o meno evidente come strisce chiare rispetto alla pelle circostante un po’ più scura.

Si può fare qualcosa contro le smagliature?

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Umami? Il quinto sapore che viene dall’Oriente

Gastronomia ◆ Ai primi cinque, si aggiunge il kokumi, e qualcuno parla di altri potenziali quindici gusti ancora tutti da scoprire

Uno spettro si aggira per tutte le cucine europee: si chiama umami. Lo scoprii vent’anni or sono in Giappone ma, devo essere onesto, non lo capii. Mi sbagliai e alla grande.

Negli anni incominciò a comparire in molti libroni, sostanzialmente tecnici, di cucina, e alla fine incominciai ad approfondire il concetto, soprattutto aiutato da Manuela Vanni, con la quale lavoro «da sempre» e che è una bravissima fotografa di food e un altrettanto brava esperta di cucina, con una passione per quelle dell’Asia Orientale, soprattutto Corea e Giappone, – e con un «gusto», qualunque cosa voglia dire, più sviluppato del mio. Iniziamo, quindi, dandone una definizione: l’umami è il quinto sapore dopo dolce, salato, amaro e acido, che sono i quattro classici. Ma non è un sapore netto, è legato al concetto di equilibrio. Quindi è giusto accostare la parola umami ad aggettivi come «pieno» o «saporito». Alla fine, significa solo una cosa, ovvero che ciò che stiamo mangiando è proprio buono. E non a caso la traduzione letterale del termine è «dal sapore piacevole».

Umami è un gusto indefinibile e ancestrale, che inconsciamente apprezziamo e ricerchiamo fin da molto tempo prima della sua «scoperta» ufficiale, avvenuta in Giappone nei primi del Novecento. La pienezza tipica dell’umami, infatti, è data dal glutammato monosodico, di cui il liquido amniotico materno è ricco. Chissà che il quinto sapore, allora, non abbia anche questa caratteristica di un ritorno inconsapevole allo stato primordiale…

Diversi sono gli alimenti che contengono il glutammato in purezza: i pomodori (e dunque l’amatissimo ketchup, da troppi bistrattato ma che quasi tutti utilizzano), i funghi, l’alga kombu, il glutine e i fagioli. Il resto dell’umami è il risultato di una fermentazione, come accade per la salsa

di soia, la colatura di alici, il pesce azzurro essiccato, il katsuobushi (che si ottiene grattugiando in piccoli fiocchi i filetti di tonnetto striato, essiccato, fermentato e affumicato; è onnipresente nei piatti giapponesi, come da noi italiani il grana grattugiato, che non a caso è ricco di glutammato), il prosciutto crudo e, appunto, i formaggi stagionati.

Nella cucina d’Oriente il glutammato, esaltatore di sapidità, si usa in quasi tutte le preparazioni. Cosicché quasi tutto è umami. Se volessimo riprodurre lo stesso effetto qui da noi ci basterebbe aggiungere, come detto sopra, una grattugiata di grana ben stagionato o qualche schizzo di salsa di pesce ai nostri preparati, oppure usare un brodo dashi (a base di funghi, alga o pesce essiccato) per preparare zuppe e minestre o per stufare carni, pesci o verdure.

Di recente è stato scoperto anche un sesto gusto, il kokumi. Un altro termine nipponico per indicare la pienezza di sapore di certi crostacei e delle pietanze a base di amido di riso, aglio o cipolla. Come l’umami, anche il kokumi è un sapore basilare, cui corrispondono cioè dei recettori specifici collocati sulla lingua. Chissà cosa scopriremo negli anni a venire.

C’è chi, avendo studiato la complessità e la varietà dei recettori della lingua e del palato, sostiene che vi siano almeno altri quindici gusti ancora da scoprire! Forse li stiamo già cercando, proprio come abbiamo sempre cercato l’umami, sapore della nostra prima casa.

Prima ho accennato alla salsa di pesce, che ha la caratteristica di essere piuttosto salata, quindi va gestita con attenzione. Esiste però una salsa «sorella», quella di ostriche, che è altrettanto umami ma non è salata. Da quando l’ho scoperta, la uso moltissimo, quasi su tutto!

con IA

Lungo gli anni, vi ho dato solo due ricette di coda: quella alla vaccinara, anni fa, e quella dell’oxtail soup (coda di bue in umido). Vediamo come si fanno tre ricette basate su questo amato taglio. Coda alla valdostana (ingredienti per 4 persone). Tagliate una coda di bue da 1 kg a pezzi, infarinateli e fateli

Ballando coi gusti

Quindim

Oggi, due dolci semplici che fanno tutti contenti.

Ingredienti per 6 persone: 10 tuorli – 50 g di cocco fresco grattugiato –200 g di zucchero – ½ bicchiere di latte – burro

È un dolce di origine brasiliana. Mescolate senza montare: i tuorli, lo zucchero e il cocco grattugiato. Aggiungete il latte e amalgamate. Versate il composto dentro uno stampo con foro centrale o in stampini conici, avendo cura di imburrarli molto bene. Cuocete in forno a bagnomaria a 120°C per 1 ora e 30 minuti o fino a che, introdotta una lama di coltello nel dolce, questa non ne uscirà pulita. Raffreddate leggermente il quindim e capovolgetelo su un piatto senza sformarlo. Raffreddate in frigorifero per 2 ore. Togliete il dolce dal frigorifero, sformatelo e servitelo decorandolo a piacere.

rosolare in una casseruola con un giro d’olio, una noce di burro e il lardo. Unite 100 g di salsiccia sbriciolata, 300 g di verza affettata finemente e coprite a filo con brodo di carne. Fate sobbollire per 3 ore, aggiungendo brodo bollente quando necessario. A cottura ultimata regolate di sale e pepe e servite ben caldo. Coda al curry (per 4 persone). Fate come quella alla valdostana, ma con cipolla al posto della verza e senza salsiccia, aggiungendo 1 minuto prima che sia pronta 1 cucchiaio più o meno abbondante di curry più o meno piccante a piacere.

Ragù di coda (per 6/8 persone). Immergete una coda da 1,5 kg tagliata a pezzi in abbondante acqua fredda,

lessatela per 10 minuti al bollore, poi fatela raffreddare nell’acqua. Tritate aglio con prezzemolo e lardo, fate rosolare il trito in una casseruola, poi unite i pezzi di coda scolati dall’acqua, e fateli dorare uniformemente. Sfumate la coda con vino, aggiungete abbondante soffritto di cipolla, una dose a piacere di salsa di pomodoro (oppure 1 abbondante punta di concentrato di pomodoro), mezzo litro di brodo di carne, chiodi di garofano e qualche granello di pepe nero. Portate a bollore, coprite e fate sobbollire per 4 ore. Scolate la coda dalla salsa e spolpatela. Rimettetela nella casseruola e proseguite la cottura per un’ora, sempre a fuoco dolce. Solo alla fine regolate di sale.

Panna cotta al mango

Ingredienti per 6 persone: 500 g di panna – 150 g di zucchero – 10 g di colla di pesce – 6 gocce di estratto di vaniglia – un pizzico di sale. Per il coulis al mango: 2 mango a giusta maturazione – succo di limone – 40 g di zucchero

Mettete la colla di pesce in ammollo fino ad ammorbidirla. Portate in ebollizione la panna con 2 cucchiai di zucchero, la vaniglia e il sale. Togliete dal fuoco e lasciate raffreddare per 10 minuti. Unite la gelatina ammollata ben strizzata e mescolate. Filtrate il composto in una caraffa. Riempite o uno stampo unico o stampi monoporzione con il composto. Lasciate raffreddare, prima a temperatura ambiente e poi in frigorifero per 6 ore. Nel frattempo, preparate la coulis al mango. Sbucciate il mango e tagliatelo a cubetti. Caramellate lo zucchero a secco e fuori dal fuoco unitevi i cubetti di mango. Mescolate e fate cuocere fino ad ammorbidire il mango. Unite succo di limone a piacere ma senza esagerare, fate raffreddare e frullate. Sformate la panna cotta e servitela con il coulis

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 17 giugno 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 19 Come
si fa?
Generato Generato con intelligenza artificiale

Giochi di luce per le sere d’estate

Crea con noi ◆ Un’idea per riutilizzare i vasi di vetro di qualsiasi dimensione e realizzare magiche lanterne

Dei vasi in vetro di recupero si trasformano in una composizione primaverile che ci permette di giocare con la luce. Basterà aspettare o creare il buio e accendere i piccoli lumini elettrici per vedere l’effetto che la luce crea attraverso i vari materiali utilizzati. Un gioco di luci, ombre e riflessi che non mancherà di entusiasmare i bambini, ma che diventa anche una piacevole decorazione per le cene in terrazza estive.

Procedimento

Come prima cosa rivestite 1-2 vasi con della carta velina bianca. Per

farlo, strappate la carta velina in pezzi di medie dimensioni, stendete la colla vinilica sul vaso, fate aderire la carta quindi passate un secondo strato di colla. Ricoprite tutta la superficie dal vaso e lasciate asciugare. Inserite all’interno foglie e fiori, naturali o meno. Usando la stessa tecnica applicate al vaso più alto il motivo floreale ritagliato dal tovagliolo. In questo caso, dopo aver ritagliato il motivo dovrete eliminare gli strati di tovagliolo bianchi e andare ad applicare unicamente quello stampato. Lasciate asciugare.

Giochi e passatempi

Cruciverba

Del dipinto la «Vergine delle rocce» di Leonardo da Vinci esistono due versioni molto simili, una si trova alla National Gallery a Londra, l’altra… Scopri il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 6, 1 6)

ORIZZONTALI

1. Piccolo mammifero carnivoro

6. Un drappo in premio

11. Alberi da frutto

13. O spita una parte della Foresta Amazzonica

14. Barbare quelle del Carducci

15. L’antica madre

17. Simbolo del voltampere

18. Viene in camera dopo me...

19. Sono sempre in coppia

22. Organismo vegetale

23. Le iniziali del regista Avati

24. Astro al tramonto...

25. Fiume caucasico

26. Come finisce... comincia

27. Preposizione

28. Furente

31. Unità anatomiche

VERTICALI

1. Il mondo dei fiori

2. Nome femminile

3. Tutt’altro che sommi

4. Stanno in coda

5. Albero tropicale

7. Le iniziali della Parietti

Dalla mappetta trasparente colorata ritagliate delle piccole farfalle. Con la colla calda attaccatene 3 all’estremità di 3 separati fili di nylon di misure diverse che andrete a fissare al tappo con del nastro adesivo. Altre farfalle serviranno invece per la decorazione del vaso più piccolo. Tagliate dalla carta velina colorata un rettangolo che ne copra tutta la superficie. Sempre con la colla a caldo fissate sul rettangolo altre 3 farfalline, quindi inserite il tutto nel barattolo mantenendo verso l’interno la parte con le farfalle applicate. Posizionate sul rovescio del tovagliolo i tappi di tutti i barattoli che utilizzerete. Tracciate il contorno con una matita e ritagliate. Ritagliate anche alcune strisce da applicare al bordo del barattolo. Utilizzando colla vinilica e un pennello piatto ricoprite interamente i tappi con il motivo scelto, prestando molta attenzione a non strappare il tovagliolo.

Per decorare il bordo potete applicare un nastro in tinta o della lana cardata, che fisserete con la colla a caldo.

Una volta preparati tutti i barattoli, inserite al loro interno un lumino elettrico. La sua luce rivelerà il contenuto del barattolo, creando un piacevole gioco di luci e ombre. Potete utilizzare questo set come centrotavola per le vostre serate estive oppure

• Vasi di diverse dimensioni

• Lumini elettrici

• Carta velina bianca

• Tovaglioli con motivi floreali

• Colla vinilica, pennello piatto

• Carta velina colorata

• Mappetta in plastica colorata

• L ana cardata verde (facoltativa)

• Colla a caldo

• Forbici

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

utilizzarlo come un gioco per sperimentare con i vostri bambini la magia della luce. I più piccoli, ma non solo, resteranno affascinati dall’effetto creato dalle fonti luminose. Buon divertimento!

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

8. Macchine semplici

9. Pervade il 28 orizzontale

10. Dove in francese

12. Nome maschile

16. Arte francese

19. C oniugata con Ricky Tognazzi (Iniz.)

20. Sfilata pubblica

21. Nocumento

23. Avverbio di tempo

26. Indice di Abilità Generale

29. Iniziali del 40esimo presidente USA

30. Su in inglese

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome,

intratterrà

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 17 giugno 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 20
partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione,
C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si
sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate. S E TA T ESORI CIO V E N T O D AS R ITTO EO L C IST I DA L EVENTO C O RI ALGA C OLI O VA L N M AR PRE D ONE 24 9 6 7 8 5 37 7 5 8 4 6 4 5 2 9 835 7 8 3 3259 768 14 6913 482 75 7482 519 63 2 8 3 7 1 5 6 4 9 4178 695 32 9564 231 87 5 3 9 6 8 7 4 2 1 8741 923 56 1625 347 98
cognome, indirizzo del
Concorsi,
corrispondenza
Sudoku
Soluzione della settimana precedente APPUNTI TURISTICI – La statua di Cristo Redentore di Rio de Janeiro è posta a un’altezza di: SETTECENTODIECI METRI – Il monte su cui si trova è: IL CORCOVADO
1 2345 67 8910 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 2829 30 31
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku Materiale

Viaggiatori d’Occidente

Vademecum per lavorare in viaggio

Immaginate di avere un lavoro da finire e un lungo viaggio solitario davanti a voi. Sulla carta è una combinazione perfetta. Di certo funziona molto bene se viaggiate in treno (ecco un’altra ragione per preferire il treno all’aereo, oltre al minor impatto ambientale). Un biglietto di prima classe, magari in area silenzio, ha comunque un costo ragionevole, tanto più se coi guadagni del vostro mestiere compensate la spesa. E in effetti il treno è forse il luogo dove lavoro meglio. Mi concedo solo una distrazione; per qualche tempo dopo la partenza guardo con curiosità i quartieri popolari attraversati dai binari. Mi affascinano questi luoghi, periferici eppure aperti al mondo grazie ai treni che scivolano verso Paesi lontani; solo il pittore americano Edward Hopper ha saputo coglierne la poesia nascosta, per esempio nel suo quadro Entrando in una città, 1946. Ma non

appena il treno raggiunge la velocità di crociera, il paesaggio visto dal finestrino sfuma in una sequenza indistinta di colori e trovo facilmente la giusta concentrazione. A volte l’arrivo mi sorprende nel pieno di progetti e pensieri. L’aereo è un’altra questione. Per cominciare la prima classe andrebbe benissimo anche qui, anzi c’è proprio una Business Class riservata a chi viaggia per affari, ma ha un costo proibitivo (per quanto più abbordabile della prima classe) e spesso per lavorare bisogna dunque creare con maggior sforzo un proprio spazio in Economy Class. Per fortuna le alternative non sono particolarmente attraenti. La conversazione col vicino è una roulette russa: può essere divertente o micidiale, ma questo lo si sa sempre dopo. Oppure ci si può arrendere alla routine un poco infantile della continua alternan-

Passeggiate svizzere

Via Mala

Chissà quante volte negli ultimi anni, dal finestrino della posta dopo Zillis, appena prima del tunnel, ho lanciato giù lo sguardo per catturare un frammento di Via Mala. Gola di transito ultranota da secoli con questo magnifico toponimo romano minaccioso, a volte scritto tutto d’un fiato, Viamala. E una mattina di giugno alle 9:41 scendo dalla posta alla fermata Zillis, Viamala-Schlucht (870 m), proprio per entrare nel cuore di questa gola nel punto forse più spettacolare dove per un tratto, dal 1903, esiste come attrazione turistica con biglietto d’entrata e tutto. Proiettate una dopo l’altra, sul muro in beton, sei citazioni di viaggiatori illustri; quella di Nietzsche, per coinvolgimento, è imbattibile: «Percepisco la tenebrosa grandiosità della Viamala come riflesso del mio essere». Visitatori con il chivuei risalgono frastornati. Trecentocinquantanove

gradini di pietra portano al cospetto delle pareti di roccia corrucciata in fondo alle quali muggisce il Reno posteriore. Vicinanza delle due pareti, il pensiero corre alla parola fessura. Uno sguardo-carrellata a sud, ora, dal basso verso l’alto, in questa spaccatura di mondo, agguanta un brandello di paesaggio per appassionati di orridi o vedutisti a caccia del sublime. È l’ombra catturata sotto l’arco a schiena d’asino dei due ponti settecenteschi, in cima al precipizio-fessura alta centinaia di metri. I ponti Wildener, chiamati così non per selvaggità ma per via del capomastro di Davos che li realizza nel 1739: Christian Wildener. Altri due ponti-passerelle qui superano l’orrido in un punto da capogiro. Soffrendo da sempre molto di vertigini anche se ora molto meno, senza guardare giù, li percorro in un amen. Un tunnel-scala scavato nella roccia

Sport in Azione

za tra cibo, sonno, videogiochi, film popolari. Ma non è niente di esaltante, a cominciare dall’alimentazione. Per i comuni passeggeri, i menu sono spartani (quando ci sono) e in ogni caso in volo, per via della cabina pressurizzata e della poca umidità, i sapori risaltano meno (con qualche eccezione: il succo di pomodoro è più apprezzato in cielo che in terra). Per questo le grandi compagnie aeree si affidano a sommelier con competenze specifiche per scegliere vini che conservino un gusto gradevole anche ad alta quota. Vi farà piacere sapere che in genere i rossi ricchi di tannini danno il peggio di sé, mentre il «nostro» Merlot è semplicemente perfetto (insieme a Pinot e Shiraz). Divagazioni gastronomiche a parte, dunque anche in aereo si potrebbe impiegare utilmente il proprio tempo; e tuttavia non è facile, specie nelle ore precedenti il decollo, quando

ci si muove tra check-in, controlli di sicurezza, gate di imbarco. E anche durante il volo lo spazio individuale è minimo e aprire il portatile può essere già una sfida. La mancanza di connessione invece è un vantaggio piuttosto che un limite. Aiuta a evitare distrazioni (niente e-mail o chiamate di emergenza) e a concentrarsi su un compito; è comunque possibile sbrigare l’arretrato di messaggi, che partiranno tutti assieme dopo l’atterraggio. I viaggiatori più esperti aggiungono altri consigli. Evitate come la peste il sedile centrale, per ovvie ragioni; scegliete invece il posto verso il corridoio, per avere maggiore libertà di movimento. Accertatevi prima della partenza di aver caricato al massimo tutti i dispositivi elettronici. Create una cartella del computer con i documenti necessari che non potrete scaricare dalla rete, ma comunque in

linea di principio scegliete un progetto che richieda più strategia e invenzione che documentazione. Date la preferenza a un volo diurno, per non trovarvi a combattere col sonno. E ricordate le cuffie per cancellare il rumore. Un posto libero di fianco o un vicino magro e taciturno aiutano parecchio, in ogni altra situazione spiegate gentilmente (ma fermamente) la vostra situazione, scusandovi del silenzio.

Soprattutto accettate i vostri limiti. Non siamo tutti uguali. Se alcuni preferiscono portarsi avanti col lavoro, per avere all’arrivo lo spirito più leggero e maggior tempo libero a disposizione, altri dopo numerosi fallimenti non ci provano neppure più. Meglio allora leggere un libro, recuperare preziose ore di sonno e soprattutto godere la vista del mondo dal sedile del finestrino: il posto dei viaggiatori e dei sognatori.

tormentata nero petrolio, scende giù fino a una piattaforma dove si respira tutta la forza del Reno posteriore. Il suo colore smeraldo fosco, incastonato nella roccia scura, è un contrasto niente male. Stupisce anche il verde dell’erbetta verticale, tranquilla, come se niente fosse. La roccia, stratificata, a tratti è color grafite. La si nota bene in una digressione del percorso a nord, dove il tragitto è sotto la roccia che sgocciola e ci si potrebbe spingere verso il corrimano per guardar giù ma tra eco mugghiante del Reno posteriore e tutto il resto, già bello che vado avanti, a tentoni. Risalito sulla strada, ho bisogno di camminare lungo la Via Mala. Ammaliato da quando l’ho sentita nominare per la prima volta da piccolo, di acqua, sotto i ponti, ne è passata. Figuriamoci di quella passata da quando i romani imboccavano questo sentiero che sale e affianca la go-

Passione, fede, tifo, trasgressione

La curva del Servette ha vinto la sfida contro quella del Lugano, domenica 2 giugno. È per lo meno l’impressione visiva e auditiva. Ha vinto per compattezza. Direi quasi per abitudine. Cornaredo, nonostante gli eccellenti risultati del Lugano, è frequentato da una media di 3350 fedelissimi a partita. Al Wankdorf di Berna, per la terza finale consecutiva di Coppa Svizzera, c’erano 12’500 fans luganesi. Si sono sobbarcati una decina di ore di viaggio su treni che, per celerità, ci hanno riportato indietro nel tempo. Ginevrini compatti. Luganesi, frammentati. Inevitabilmente. Poiché l’amore per la maglia lo si costruisce sull’arco di anni. Il percorso del Lugano di Mattia Croci-Torti e il nuovo stadio daranno un forte impulso. Il muro bianconero di Berna ha comunque raccontato una storia significativa, fatta di desiderio, passione, fede, tifo e trasgres-

sione. Dal desiderio diffuso di tornare a giocare un ruolo importante nel calcio svizzero, alla passione per una maglia che piace molto anche ai ragazzini e che è tornata a essere oggetto di mercato. Dalla fede di chi, nella ritualità del calcio, mescola sacro e profano, al tifo di chi è disposto a immolarsi, alla trasgressione di chi vede nella grande festa del calcio, un’occasione per «sbracare». Persino per «sbroccare», quando si giunge a litigare tra sostenitori della stessa squadra.

Se il Lugano continuerà la sua meravigliosa scalata verso l’alto, le diverse anime dovranno tessere alleanze fra di loro, per sostenere i ragazzi con più compattezza. Nel calcio contano tecnica, tattica, fisico, mente, ma, ne sono convinto, anche l’apporto del cosiddetto dodicesimo uomo gioca un ruolo importante. Non a caso, sono i giocatori stessi, ad arringare la cur-

va nei momenti topici della partita. Il viaggio in treno è l’emblema di questa diversità di approccio al tifo e alla partita. Ore sei e trenta. Il secondo convoglio per Berna è pronto a partire. Alcuni ragazzi di un sedicente Commando Alcolico raggiungono a bordo i loro compagni. Caricano anche un carrello da supermercato stracolmo di bevande di ogni genere. Non vedo né gazzosa, né acqua minerale. Alla sei e trentuno saltano i primi tappi. Partono i primi canti, accompagnati da un poderoso tambureggiare sul soffitto e sulle lampade del vagone. Con altre sette persone mi trovo a fungere da spartiacque tra loro e un altro gruppo di sostenitori che, a occhio, hanno qualche anno in più. Non hanno il carrello. Ma una piscina di plastica dove tenere in fresco i preziosi liquidi. Da un lato percepisco l’irruenza giovanile, figlia magari di frustrazioni vissute a scuo-

la in alto, verso Thusis. All’inizio del sentiero, ancora al margine della strada, il viola-nero dei petali giullareschi dell’Aquilegia atrata, invoglia a camminare per ore. Nel bosco, dopo il liberarsi delle prime endorfine, a pieni polmoni respiro l’odore vitale delle conifere. Diciassette arnie sono poste al margine del bosco verso l’abisso, esiste dunque anche il miele della Via Mala. La quale, oltre a citazioni a non finire, è stata utilizzata pure come titolo – Via Mala (1934) – di un romanzo bestseller di John Knittel a proposito di una tragedia familiare riguardo un padre alcolizzato e violento, proprietario di una segheria, ucciso dalla sua famiglia e sotterrato qui da qualche parte. Lo scorrere del fiume, purtroppo, è sovrastato dal rumore dell’autostrada, sdrammatizzato di colpo dal bianco incantevole delle orchidee selvatiche ai margini del sentiero. Verso le quali

mi chino per osservarle come si deve, sono le raffinate e ilari Cephalanthera longifolia. Dopo una mezzoretta, verso la fine del toponimo Via Mala, ecco un dannato ponte tipo tibetano. Pluripremiato, elogiato qui e là, il ponte, opera di Jürg Conzett del 2005 dove adesso, in mezzo, due camminatrici guardano giù il baratro estasiate, a me blocca lo stomaco. E così, guardando dritto e sudando freddo, adagissimo ma non troppo, battendo stupidamente il piede due volte, prima di appoggiare l’altro, percorro i centosettantasei scalini in larice sospesi dai tiranti in acciaio sopra questa gola laterale. Più volte, ho guardato dentro l’abisso, sull’orlo del baratro interiore, lungo la mia cattiva strada. Perciò ora qui, a novecentodieci metri sul livello del mare alle 10.37 di un mattino verso fine primavera, ne faccio anche a meno.

la o sul posto di lavoro. Si trasforma in vigore, adrenalina, voglia e tentazione di spaccare tutto. Basta però che si affacci alla porta scorrevole un signore con l’uniforme e la cravatta rossa delle FFS, per renderli mansueti, almeno per un attimo. In più occasioni richiamano i colleghi meno giovani a condividere canti e slogan. Invano. La diversità fra i due gruppi si manifesta anche nella gestione alimentare. I teenagers asciugano l’alcol con delle semplici patatine chips. Gli altri con delle succulente fette di pane ricoperte da una «tartare» che mette appetito.

Su quella carrozza viaggiava anche il difensore in pensione René Morf, tranquillamente seduto con degli amici. Nessuno che gli abbia chiesto un selfie. Non hanno riconosciuto uno degli eroi della finale del 1993 vinta dal Lugano sul Grasshopper? Mi viene da pensare che la memo-

ria storica debba essere conservata. E, dove ci sono delle lacune, vada ricostruita. Partendo proprio dalle nuove generazioni. Vale nel calcio, come nelle altre manifestazioni dell’esistenza. Al ritorno, con un mood comprensibilmente mesto, ci ritroviamo attorniati da un’altra cellula della tifoseria bianconera. Sono colleghi di lavoro. Mediamente attorno ai quaranta. Commentano senza acredine l’errore colossale dell’arbitro. Esprimono la loro solidarietà nei confronti di capitan Sabbatini, che avrebbe meritato di essere il principe di una favola meravigliosa. Per il resto ridono, chiacchierano. Alcuni di loro dovranno alzarsi alle sei. Un paio d’ore più tardi rispetto a quel giorno. Lo faranno per andare al lavoro, non per bearsi della grande festa del calcio nazionale. E anche questa è passione pura. Direi quasi poesia.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 17 giugno 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 21 TEMPO LIBERO / RUBRICHE ◆ ●
di Claudio Visentin
◆ ●
di Oliver Scharpf
◆ ●
di Giancarlo Dionisio

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La corsa verso il futuro energetico della Svizzera

Prospettive ◆ Dopo il sì del 9 giugno alla nuova legge che spinge sulle rinnovabili, due fazioni si confrontano: i fautori del ritorno all’atomo e chi punta sul solare

Non capita spesso che il presidente di un partito, in questo caso Gerhard Pfister del Centro, faccia pubblicamente i complimenti ad un consigliere federale di un altro partito. È successo domenica 9 giugno, dopo la votazione popolare che con quasi il 70% delle preferenze ha dato il via libera alla nuova legge sull’energia. Un risultato di tutto rispetto, tanto che Pfister si è tolto il cappello davanti al ministro UDC dell’energia Albert Rösti, congratulandosi per «l’ottimo lavoro svolto». La legge varata dal popolo prevede tra l’altro la realizzazione di nuovi progetti per sfruttare la forza dell’acqua. Le pareti di quattordici dighe verranno alzate –una in Ticino, il Sambuco – mentre verranno costruiti due nuovi bacini di accumulazione nel canton Berna e in Vallese. Oltre a questo, si punterà molto anche su sole e vento con nuovi impianti previsti in diverse regioni del nostro Paese. Questo, a grandi linee, quanto approvato nelle urne da due cittadini su tre. La Svizzera è dunque chiamata ad accelerare nella produzione di energia rinnovabile, un verdetto popolare inequivocabile. Per i fautori di questa svolta verde però la festa è durata ben poco, visto che già nelle prime dichiarazioni di commento a questo risultato popolare si è palesato con imponenza quello che molti, anche nella campagna che ha preceduto la votazione, hanno chiamato «l’elefante nella stanza», e cioè il ritorno dell’energia nucleare. Lo stesso Rösti non ha mai nascosto la sua visione in materia: per il ministro UDC la Svizzera deve essere pronta a sfruttare ogni forma di produzione energetica, anche quella dell’atomo. Sul suo tavolo c’è ora da vagliare un’iniziativa popolare su questo tema. Una proposta che si muove di fatto su due livelli, visto che da una parte chiede che l’energia elettrica venga «prodotta nel rispetto dell’ambiente», mentre dall’altra aggiunge che «sono ammissibili tutti i tipi di produzione di energia elettrica rispettosi del clima». L’energia nucleare non causa emissioni di CO2 e per questo i suoi fautori ritengono che non porti danno al clima, anche perché a loro dire gli sviluppi tecnologici futuri potrebbero anche permettere di risolvere il grande problema delle scorie nucleari. Un’iniziativa che arriva dal fronte borghese, in particolare da UDC e PLR, ma che trova sostegno anche tra i membri del Centro. Il Consiglio federale dovrebbe discuterne già nelle prossime settimane, tutto lascia pensare che in Governo questa proposta troverà una maggioranza, magari anche attraverso un controprogetto. Sul tema non ha perso tempo neppure Economiesuisse, che nel

giorno stesso della votazione popolare ha pubblicato un comunicato stampa che già nel titolo non lascia spazi a dubbi: «Politica energetica, pronti per la prossima tappa». Per l’associazione mantello dell’economia svizzera è ora arrivato il momento di pensare anche al nucleare, con «sostegni finanziari e un accelerazione delle procedure».

La Fondazione Energia Svizzera ha lanciato una petizione online per cercare di spegnere sul nascere ogni velleità nucleare

L’obiettivo di questo fronte è chiaro: cancellare dalla Costituzione federale il divieto di costruire nuove centrali nucleari, deciso dal popolo nel 2017. Una votazione dalla portata epocale, che ora viene rimessa in discussione.

Gli ostacoli tecnici e i tempi di realizzazione di un nuovo impianto nucleare lasciano comunque pensare che ci vorrà perlomeno un paio di decenni prima di poter davvero vedere un pro-

getto concreto, finanziamenti compresi. Per i fautori delle rinnovabili si tratta in ogni caso di uno scenario da incubo, non per nulla la Fondazione Energia Svizzera ha immediatamente lanciato una petizione online per cercare di spegnere sul nascere ogni velleità nucleare e quello che chiama un «sabotaggio ai danni delle rinnovabili». Su questo tema anche i Verdi non hanno perso tempo. Due giorni dopo la votazione popolare che li ha visti sul fronte dei vincitori sono scesi in campo con il lancio di una nuova iniziativa popolare dal titolo esplicito, si chiama semplicemente «solare». L’obiettivo è quello di accrescere l’apporto del sole nella produzione di energia elettrica, visto che a detta di questo partito «non possiamo perdere altro tempo, il Parlamento ha finora frenato l’espansione dell’energia solare nel nostro Paese». L’iniziativa chiede pertanto di favorire la posa di pannelli fotovoltaici su tutti i tetti dei nuovi edifici, compresi quelli ristrutturati. Inoltre, entro quindici anni dall’accettazione dell’iniziativa «questo

standard dovrà essere applicato anche agli edifici esistenti», ad esclusione dei monumenti storici. Se tutti i tetti e le facciate idonee fossero muniti di pannelli fotovoltaici si riuscirebbe, dice ancora il partito ecologista, «a coprire più dell’attuale fabbisogno elettrico del Paese», senza dover ricorrere al nucleare e alle energie fossili. Quanto capitato appena dopo la votazione dello scorso 9 giugno fa capire che la corsa verso il futuro energetico della Svizzera è subito ripartita con un ritmo, vien da dire, elettrizzante. Ma in fondo non potrebbe essere altrimenti, se le rinnovabili dovessero riuscire a fornire al Paese l’energia elettrica sufficiente renderebbero vana la corsa parallela lanciata dai fautori dell’atomo. In caso contrario il nucleare di nuova generazione riprenderebbe invece slancio, a fianco delle quattro centrali nucleari ancora attive in Svizzera e che oggi producono all’incirca un terzo dell’energia elettrica generata nel nostro Paese. Da notare che la centrale di Beznau 1, nel canton Argovia,

è stata inaugurata nel 1969 ed è oggi il reattore in funzione più vecchio al mondo. In conclusione, va detto che in questi giorni anche il Parlamento si è mosso sul tema dell’elettricità. In questo ambito la Svizzera non ha al momento un accordo sul mercato elettrico con l’Ue, e questo nel prossimo futuro potrebbe mettere il nostro Paese in difficoltà. Nell’attesa di un’eventuale definizione di quelli che vengono chiamati i «Bilaterali 3», e con essi di un accordo sull’elettricità, il Consiglio nazionale ha pertanto chiesto al Governo di stipulare delle intese perlomeno a livello tecnico per assicurare l’approvvigionamento del Paese, in particolare in inverno, stagione in cui la Svizzera è costretta ad acquistare energia elettrica sul mercato europeo. Le sfide, anche epocali, non mancano di certo in questo settore, e chissà se anche in futuro qualcuno tra i presidenti di partito farà ancora i complimenti a microfoni aperti al ministro Albert Rösti, chiamato a pilotare il Paese in questo ambito ad alta tensione.

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La centrale di Beznau 1, nel canton Argovia, è stata inaugurata nel 1969 ed è oggi il reattore in funzione più vecchio al mondo. (Keystone) Roberto Porta

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Democrazia, buone nuove dal mondo

L’analisi ◆ Prima che si rinnovasse l’Europarlamento hanno votato India, Messico e Sudafrica Uno sguardo ai risultati di tre Paesi che avanzano, nonostante alcune innegabili criticità

Siamo immersi in una narrazione che denuncia l’arretramento globale delle democrazie, in ritirata rispetto agli autoritarismi. L’Europa si è spesso rappresentata come un’oasi di diritti umani accerchiata da una «marea nera». In questo contesto è utile soffermarsi sulle elezioni «di tutti gli altri», perché il verdetto che emerge dovrebbe attenuare gli allarmismi. Prima che si rinnovasse l’Europarlamento, hanno votato tre democrazie che insieme hanno quasi il quadruplo della popolazione dell’Unione europea: India, Messico, Sudafrica. Sono tre esponenti del Grande sud globale, un concetto geopolitico e non geografico che abbraccia i Paesi emergenti (India e Messico stanno a nord dell’equatore). Da queste tre elezioni si possono estrarre alcune buone notizie. L’India è davvero una democrazia. Il Messico ha un’economia in salute ed è uno dei vincitori della nuova globalizzazione. In Sudafrica certi neri votano per i bianchi, se onesti e competenti.

L’India per diventare una vera alternativa alla Cina deve fare progressi in settori-chiave: istruzione, infrastrutture e logistica, amministrazione pubblica

L’India con 1,4 miliardi di abitanti è il luogo dove si è svolto il più vasto suffragio elettorale del pianeta. Eppure è una democrazia circondata di sospetti. Non gode di buona stampa. Per metterla in una cattiva luce profondono i loro sforzi soprattutto i membri di una élite intellettuale e artistica cosmopolita, ben rappresentata nei salotti e nell’establishment mediatico dell’Occidente. Scrittrici e scrittori, registe e cineasti, celebrity di cui conoscete i nomi perché hanno un pubblico mondiale. A loro non è mai piaciuto il premier Narendra Modi (partito Bjp), mentre preferiscono il clan familistico-mafioso dei Gandhi (partito del Congresso). Da quando Modi è al potere lo descrivono come un aspirante Mussolini. Certi attacchi imputano a Modi le tensioni con la minoranza islamica (tensioni che esistono da oltre un millennio), la permanenza del sistema delle caste (che esiste da molti millenni), l’inquinamento (che esisteva anche quando governavano i Gandhi) e altri orrori.

Alla vigilia dell’elezione era normale trovare sulla stampa internazionale descrizioni dell’India come di una semi-dittatura ormai avviata verso restrizioni sempre più pesanti per le libertà. Invece il Bjp ha perso seggi, non ha raggiunto la maggioranza assoluta, mentre il partito del Congresso è risalito. Molti commentatori – spesso gli stessi che parlavano di deriva fascista – inneggiano al «pericolo scampato»; mentre dovrebbero fare ammenda delle proprie allucinazioni e parlare di «falso allarme». Modi non è un autocrate, tant’è che gli elettori hanno avuto la libertà di premiare l’opposizione. La buona notizia è che l’India resta la più grande democrazia del mondo, un fatto non banale perché questo suo suffragio si è svolto poco dopo il suo sorpasso demografico sulla Cina, il più grande regime autoritario del pianeta.

L’India per diventare una vera alternativa alla Cina deve fare grandi progressi in alcuni settori-chiave: infrastrutture e logistica, efficienza

dell’amministrazione pubblica, qualità dell’istruzione. Modi ne ha avviate alcune, con successi solo parziali. L’anno scorso il Pil indiano è cresciuto più di quello cinese ma l’economia dell’elefante resta più piccola e più povera rispetto a quella del dragone. Le resistenze contro la modernizzazione vengono da molti settori: i burocrati corrotti, il sindacalismo potente di alcune categorie, l’eredità di una gestione socialista dell’economia, l’avversione al mercato. C’è il rischio che Modi, avendo perso sostegni e dovendo negoziare con gli alleati di una coalizione, finisca per fare concessioni proprio a quelle forze che resistono contro la modernizzazione. Le imprese che guardano all’India come a una opzione alternativa per ridurre il «rischio Cina», devono sperare che la sconfitta di Modi non segni un ritorno all’ideologia autarchica, protezionista, dirigista e assistenzialista. In Messico ha vinto una donna per la prima volta, per il resto l’elezione è stata segnata dalla continuità. La neo-presidente Claudia Scheinbaum è la delfina del leader uscente, Andrés Manuel López Obrador detto Amlo. Resta al potere quindi il partito socialista-populista Morena. Quando dico Messico, mi sento rispondere in modalità automatica: narcos e migranti. C’è dell’altro: un’economia dinamica, e non solo. La democrazia messicana sopravvive bene. Nonostante qualche terribile episodio di violenza locale che ha segnato anche que-

sta elezione, la legittimità e regolarità dello scrutinio non è stata contestata. L’idea di una Nazione dominata dai narcos è una caricatura. Chi va spesso per lavoro a Città del Messico sa che alcuni dei suoi quartieri sono più ordinati e sicuri di New York, Washington e Philadelphia. La salute dell’economia messicana è confermata dal fatto che i migranti si sono ridotti. La pressione per attraversare la frontiera con gli Stati Uniti ha come protagonisti soprattutto migranti che vengono da altri Stati del Centramerica, o dal Venezuela, ai quali si aggiungono anche degli africani e perfino dei cinesi. Il Messico è terra di transito per cittadini di altri Paesi, sempre meno di emigrazione per i propri cittadini. Tra le ragioni del suo sviluppo economico c’è la crisi geopolitica fra Stati Uniti e Cina. Il Messico ha superato la Cina come primo partner commerciale degli Usa. È tornato a essere il destinatario di molte delocalizzazioni industriali. Via via che Biden rafforza il protezionismo di Trump e vara nuovi dazi, conviene andare a produrre in Messico per esportare da lì sul mercato americano. Il Messico fa parte dell’area di libero scambio nordamericana, esente da dazi.

Queste premesse aiutano a spiegare un’apparente anomalia. Il presidente uscente, Amlo, pur appartenendo alla grande famiglia della sinistra radicale latinoamericana, non ha abbracciato una strategia anti-statunitense; al di là di qualche sbandata

Seggio alla periferia di Durban, Sud Africa, fine maggio 2024. (Keystone)

Il nuovo impero arabo

Saggio ◆ Donne velate e sprazzi di modernità

retorica non ha fatto nulla per danneggiare gli interessi di Washington o dell’industria americana. Ha perfino offerto qualche forma di collaborazione sul contenimento dei migranti, prima a Trump e poi a Biden. Al Messico conviene che gli Usa stiano bene, e che i rapporti bilaterali fioriscano. Questa è la base di partenza per la nuova presidenza di Claudia Scheinbaum. Se la complementarietà economica tra Cina e Stati Uniti continuerà a ridursi, il Messico rimarrà il candidato numero uno a beneficiare dal rimescolamento di equilibri e dalle nuove strategie delle multinazionali. Per garantirsi questa straordinaria rendita di posizione, la nuova presidente farà bene ad aumentare il livello di aiuto fornito a Washington sul tema dei richiedenti asilo.

La democrazia messicana sopravvive bene. L’idea di una Nazione dominata dai narcos è una caricatura, nonostante terribili episodi di violenza locale

A esplorare il Sudafrica ho dedicato la mia estate del 2023. Erano ben visibili le ragioni del pesante calo elettorale subito dal partito di Governo, l’African National Congress (Anc). Gli ex-compagni di lotte ed eredi di Nelson Mandela si sono trasformati nei famigerati «Black diamonds». Diamanti neri, li chiama la popolazione, per le grandi ricchezze che hanno accumulato attraverso la corruzione. Hanno inflitto danni enormi a quella che era di gran lunga l’economia più moderna, efficiente, di tutto il Continente. Pur in questo quadro poco entusiasmante, l’ultimo risultato elettorale offre alcuni segnali positivi. Lo scrutinio si è svolto in modo ordinato, in condizioni di sicurezza. Il Sudafrica ha una democrazia giovane ma solida, cosa che non si può dire di tutti i suoi vicini. L’Anc è stato giustamente punito per la sua corruzione e incompetenza. Un quinto degli elettori, tra cui molti neri, vota un partito considerato «bianco» come la Democratic Alliance, perché non ragiona in base a considerazioni etniche bensì guarda a onestà, competenza, efficienza.

Scorrendo l’indice del nuovo libro del nostro collaboratore Federico Rampini, Il nuovo impero arabo. Come cambia il Medio Oriente e quale ruolo avrà nel nostro futuro (Ed. Solferino), ci attira un capitolo intitolato «Rivoluzione femminile (e qualcosa sugli immigrati)». Parte dal ritratto di una giovane manager che accompagna l’autore del saggio in uno stabilimento di Acwa Power (impianto di desalinizzazione dell’acqua modernissimo e super automatizzato), a Dammam, terza città del Regno saudita, affacciata sul Golfo arabico-persico. «Laureata in marketing in un’ottima università, parla un inglese perfetto, lavora in un’azienda di punta. Ed è completamente velata, con quel tipo di abito nero integrale che copre tutto, con l’eccezione di una feritoia sottile per gli occhi». Anche se nel Paese l’imposizione del velo è caduta – sottolinea Rampini – lei, come tantissime altre donne, lo indossa ancora. La manager ha vissuto alcuni anni a Tokyo, con il marito e la figlia, dove conduceva una vita «secondo gli standard locali: in particolare, non indossava mai il velo». Poi è tornata nel Paese di origine... «Come si conciliano la sua esperienza cosmopolita e il suo titolo di studio con un regresso oscurantista nel suo status di donna?», si chiede Rampini. Già perché l’Arabia Saudita resta un Paese ostile alle donne, nonostante alcune aperture. «MbS (il premier Mohammad bin Salman, ndr.) e il suo regime vogliono attribuirsene ogni merito. In realtà, la condizione femminile è stata oggetto di una mobilitazione dal basso e di lunghe battaglie delle saudite. La più simbolica è stata quella per la patente di guida...» (fino al 2018 le saudite non potevano guidare e non potevano viaggiare se non accompagnate da maschi della famiglia). Dall’inizio degli anni 90 in poi, il movimento per la liberazione delle donne saudite «ha avuto diverse stagioni di lotta, diverse generazioni e anche le sue martiri». E continua ad averle, dice Amnesty International, per esempio Manahel al-Otaibi, istruttrice fitness di 29 anni e attivista, di recente condannata a 11 anni di carcere a causa del suo modo di vestire (considerato indecente) e della sua difesa dei diritti delle donne.

Ma torniamo a sfogliare i capitoli del saggio di Rampini, che abbracciano un’infinità di temi: dalle Primavere arabe alla morte del giornalista Khashoggi, dalla tappa in Qatar al porto di Jeddah, passando per l’asse con Putin, l’ombra dei debiti e la speranza di un Iran più laico. Un libro originale che nasce da due viaggi in Arabia Saudita, di cui uno all’inizio del 2024, più altre visite nei Paesi vicini. / Red.

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Narendra Modi a inizio giugno mostra una lettera della presidente dell’India, Droupadi Murmu, che lo invita a formare il prossimo Governo. (Keystone)

BENESSERE

12 cose da sapere sui reggiseni

Trovare quello giusto spesso non è facile. A cosa prestare attenzione al momento dell’acquisto e perché la maggior parte delle donne non conosce la propria taglia

Testo: Susanne Schmid Lopardo

Perché quasi nessuna donna conosce la propria taglia di reggiseno?

Con l’avanzare dell’età, l’aumento e la perdita di peso o la gravidanza, la taglia del reggiseno può cambiare.

Anche se una volta una taglia andava bene, a un certo punto non sarà più quella giusta. Spesso le donne indossano la taglia sbagliata per anni. Il fatto che le varie marche usino standard diversi rende le cose ancora più complicate.

Come trovo la taglia giusta?

A tal fine è necessario misurare la circonferenza del torace, una volta sotto il seno e poi sopra il seno. Puoi quindi determinare la tua taglia utilizzando le tabelle che trovi sui siti internet di vari produttori. Per esempio: se la circonferenza sotto il seno è di 74 centimetri e sopra il seno di 90 centimetri, si ottiene una taglia di reggiseno 75B.

A cosa devo fare attenzione quando compro un reggiseno?

Il reggiseno non deve stringere o pizzicare. Inoltre, dovresti assicurarti che le spalline non taglino le spalle e che i ferretti non diano fastidio. E ancora: le coppe devono racchiudere completamente il seno, con il ponte centrale appoggiato sullo sterno. Così il reggiseno offre un sostegno ottimale. Inoltre, il reggiseno non dovrebbe scivolare verso l’alto sulla schiena.

E per quanto riguarda il materiale?

Anche in questo caso, il reggiseno deve essere piacevole da indossare. Il materiale non deve graffiare o irritare la pelle. I pizzi possono dare fastidio alle persone sensibili. È meglio provare diversi modelli per scoprire quello più adatto a te.

Quando indossare un reggiseno con ferretti e quando uno senza?

Dipende dalle preferenze personali e dal supporto richiesto. I reggiseni con ferretto offrono un maggiore sostegno e modellano il seno, soprattutto per le donne con un seno più grande. I reggiseni senza ferretto possono essere più confortevoli se indossati per un lungo periodo di tempo.

Quale reggiseno è adatto per quale occasione?

Dipende dall’abito e dall’occasione. Un reggiseno a canotta, ad esempio, ha coppe lisce senza cuciture. Questo lo rende adatto a top aderenti o in tessuto sottile. Un reggiseno push-up assicura un décolleté più pieno. I reggiseni senza spalline o a fascia sono ideali per gli abiti senza spalline. I reggiseni sportivi o i cosiddetti reggiseni attivi offrono un sostegno supplementare durante le attività sportive.

Andare in giro senza reggiseno, sì o no?

Non ci sono regole fisse, ogni donna può decidere da sola cosa è meglio per sé. Alcune donne preferiscono la sensazione naturale di non indossare il reggiseno; lo trovano più comodo, soprattutto quando sono a casa o si rilassano. Altre apprezzano il fatto che il reggiseno offra sostegno. Questo è un vantaggio soprattutto per le donne con un seno più grande. Indossare un reggiseno può aiutare a prevenire il mal di schiena o il disagio causato dal peso del seno. Può anche aiutare a definire la forma del seno e a proteggere i capezzoli sensibili dallo sfregamento causato dagli indumenti.

È necessario un reggiseno diverso durante la menopausa?

I cambiamenti ormonali possono portare a modifiche delle dimensioni e della forma del seno. Ciò significa che potrebbe essere necessario modificare la taglia e lo stile del reggiseno durante e dopo la menopausa per assicurarsi di continuare a indossare reggiseni che siano ben aderenti e di sostegno.

Quanto spesso devo lavare il reggiseno?

Dopo circa tre o quattro giorni. Nelle giornate calde o quando sudi molto ogni giorno. Tuttavia, lavarlo troppo spesso può fargli perdere rapidamente la forma. È consigliabile lavare il reggiseno sportivo dopo ogni allenamento, in quanto questi materiali di solito assorbono più sudore.

Devo lavare il reggiseno a mano?

Il comfort prima di tutto

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Dipende. Alcuni reggiseni sono lavabili in lavatrice, mentre altri richiedono il lavaggio a mano. È quindi necessario seguire le istruzioni per la cura fornite dal produttore. Se è possibile lavare il reggiseno in lavatrice, è meglio farlo a 30 gradi con un programma e un detersivo per capi delicati e riporlo separatamente in una piccola retina per il bucato, che protegge sia il reggiseno sia il resto della biancheria.

Cosa devo fare se i bordi non diventano puliti? È possibile trattarli prima del lavaggio. Applica del sapone di fiele e lascialo agire per circa cinque minuti oppure spruzzaci sopra uno smacchiatore adatto e poi lava subito il reggiseno.

Si dovrebbe dormire con il reggiseno?

Anche questo dipende da ciò che ogni donna trova più comodo. Le donne con un seno più grande, in particolare, possono apprezzarlo perché il reggiseno offre sostegno e può quindi aiutare ad alleviare il disagio o il dolore che possono essere causati dalla posizione sdraiata senza supporto. Altre lo trovano scomodo e preferiscono dormire senza. Se decidi di indossare un reggiseno per dormire, è bene sceglierne uno comodo e ben aderente, senza ferretto, che non tagli e non eserciti pressione.

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Immagine: Getty Images

La musica che spaventa i regimi in Medio Oriente

Prospettive ◆ Dall’Iran all’Egitto passando per la Tunisia, chi sono i cantanti anti-sistema e anti-teocratici del momento

L’ultima «condanna eccellente» risale a poche settimane fa. Agli arresti fin dal dicembre 2023, il cantante iraniano Amir Tataloo (il rapper dal corpo interamente tatuato) è stato infine sottoposto a sentenza: «Incoraggiamento della prostituzione presso i più giovani», «Propaganda contro la Repubblica Islamica» e «Diffusione di contenuti osceni attraverso canzoni e videoclip». Nelle prossime settimane, il Tribunale Rivoluzionario di Teheran valuterà le istanze d’appello.

Tataloo, già arrestato per «perturbazione dell’ordine pubblico» prima del suo trasferimento a Istanbul nel 2018 – da cui rientrò in patria, a passaporto scaduto, a fine 2023 – non è però l’unico caso di questo genere. Il «rap persiano» annovera stuoli di artisti perseguitati, arrestati e persino un caso di pena capitale (Tomaj Salehi). Accusa: mettere a rischio l’integrità del regime.

Un rischio con il quale la cerchia degli ayatollah ha cominciato a confrontarsi fin dall’avvio del nuovo millennio, quando dagli Stati Uniti l’hip hop americano ha iniziato a filtrare tra la gioventù più avvertita, anticonformista e dissidente del Paese: la quale, oltre a eleggere nel cantante Hichkas (del gruppo 021) il proprio «padre fondatore», ha letteralmente importato la «cultura del disagio» degli omologhi yankee Una cultura che il regime di Teheran ha osservato dapprima con occhio clemente, non solo perché i primi pezzi dell’hip hop persiano erano ancora fortemente nazionalisti, contaminati di risonanze della musica tradizionale locale e risparmiati al linguaggio scurrile successivo, ma perché «il nemico del mio nemico è mio amico» e chi contesta il Governo americano è ipoteticamente meno «satanico» di chi comanda a Washington. Poi il genere ha però svelato il proprio carattere endogeno, rivelandosi il «rap persiano» anti-sistemico a prescindere dal regime osteggiato.

Così Teheran ha cominciato a correre ai ripari e il duello conservatorismo/dissidenza si è inasprito. L’ennesimo: poiché il côté laïque, «progressista», che permea la società iraniana post-rivoluzionaria (1979) non ha in realtà mai cessato di opporsi al

modello teocratico nemmeno nel periodo della più ferrea intransigenza (Komité o «Polizia etica»). Oggi tuttavia le condizioni sono diverse: il rap iraniano attinge, attraverso Internet, a una conoscenza del mondo impensabile fino a vent’anni fa. E l’afflato contestatario ha assunto dimensioni così ampie da mettere in crisi i più coriacei censori: che sia (prevalentemente) dall’estero o nella segretezza di redazioni e studi di registrazione clandestini in patria, il dissenso ha ampliato il proprio raggio come mai in precedenza. E la cronaca – che non di rado vede i rapper protagonisti – lo testimonia: quasi ogni manifestazione anti-regime, dai moti «anti-velo» del 2022 alla contestazione del presidente Raisi (morto di recente in un controverso incidente aereo), ha trovato la propria «colonna sonora» nelle canzoni dei rapper iraniani.

La storia ventennale del «rap persiano» si intreccia dunque, nella sua discografia, non di rado improntata a temi quali droga e sesso, alla storia del regime. E insieme al citato Tataloo, quattro nomi disegnano l’Olimpo della «resistenza metropolitana» promossa dai loro brani: Zedbazi (iniziatore del cosiddetto gangsta rap), Bahram Nouraei (incoronato dalla rivista Rolling Stones), Yas (uno dei pochi che ha potuto prodursi in concerti pubblici) e Toomaj Salehi (arrestato nel 2021 e nel 2022 e scampato fortunosamente a un tentato suicidio in carcere).

Sarebbe però riduttivo intendere il rap mediorientale un fenomeno di pura marca iraniana. La specificità nazionalistica e anti-teocratica dell’hip hop iraniano ritrova infatti la propria matrice, dapprima nel Nord Africa (a partire dagli anni Novanta), poi nel mondo arabo, in quella natura «anti-sistema» che fu fin dagli esordi degli iniziatori statunitensi. Con alcune peculiari particolarità: come nell’Iran di Ahmadinejad, in prima istanza «anti-regime» stricto sensu i rapper non lo erano affatto. Lo attesta il delicato frangente delle cosiddette Primavere arabe, prima e durante le quali il rap mediorientale ha conosciuto diverse oscillazioni, che solo a rivoluzioni in corso si sono stabilizzate in una chiara linea di contestazione. Il famoso rapper egiziano Shaaban Abdel Rahim,

Un presente di dolore e violenza

Israele ◆ Una tragica fotografia del Paese a otto mesi dallo scoppio della guerra

per esempio, era un fervente apologeta di Mubarak. E soltanto con la sua caduta cominciò a calibrare in forma meno encomiastica le proprie rime. Nel mondo arabo, come per i moti rivoluzionari, tutto origina in Tunisia. Il rapper Le Général diffonde un pezzo al vetriolo (Rayes LeBled ) contro l’ex presidente Ben Ali, che in breve tempo diventa leitmotiv delle sollevazioni mediorientali. In Egitto imperversa, a partire dal 2012, il brano Not Your Prisoner degli Arabian Knightz (distorsione della parola «Knight», cavaliere), che esorta a una sollevazione sul «modello Tahrir» anche i giovani europei. Sempre in Egitto, nel corso della sollevazione, Rami Essam compone «Vattene!» (Irhal! ), i cui versi vengono scanditi per esortare alla caduta del raìs. Gli si affiancano Mohammad Deeb e moltissimi altri, le cui risonanze hanno negli anni contaminato la musica e le società arabe da Casablanca a Damasco a Beirut. Meno ossessionati da tematiche materialistiche quali il denaro, il sesso e la droga dei loro omologhi americani e di parte di quelli «persiani» – ingredienti che avrebbero potuto confinarli nella mera imitazione – i rapper mediorientali sono pertanto una realtà che, come quella dell’Iran, si propone nelle vesti di assoluta originalità e talvolta di autentica unicità. Rispettosi della fede ma avversi alle teocrazie (siano esse degli ayatollah, dei mullah o degli stessi Fratelli Musulmani), moderano il turpiloquio ma non la veemenza anti-potere, accennano al sesso ma in rigoroso rispetto delle donne, attingono ai malesseri della vita di banlieue ma senza farne un’apologia del degrado. Sono quindi, anche nell’uso di strumenti tradizionali quali l’ud o la tabla, un singolare coacervo in cui la cesura tra passato e futuro è molto più politica che culturale. Ed essendo i loro temi di denuncia necessariamente «anti-sistemici» (corruzione, clientelismo, disoccupazione, autoritarismo), per veicolarli si affidano ai canali della nuova libertà giovanile: social network e mercato semiclandestino, suonerie e mp3, media «del sottosuolo» e reti varie. Strumenti della modernità per promuovere quella poetica della vita che si chiama, a queste latitudini, libertà di protesta.

A otto mesi dal 7 ottobre la fotografia di Israele è più complessa che mai. L’esercito continua ad essere impegnato su più fronti e, mentre a Gaza proseguono le operazioni per sradicare la forza militare di Hamas, al confine con il Libano la situazione si fa sempre più tesa. Il lancio di razzi e droni esplosivi da parte di Hezbollah nelle ultime settimane continua a causare incendi, provocando gravi danni in Galilea e sulle alture del Golan, e la minaccia di un allargamento del conflitto a nord è sempre più concreta. A sua volta la Cisgiordania, stretta nella morsa dell’occupazione e vittima delle scorribande dei coloni, continua a essere una pentola in ebollizione che potrebbe scoppiare ogni momento in una terza Intifada.

Benché i vertici militari affermino che Israele è preparata per l’eventualità di un’escalation, la popolazione non lo è affatto. Stanchi, logorati, sfiduciati nei confronti delle istituzioni e preoccupati per il futuro, gli israeliani hanno riassaporato la speranza sabato 8 giugno, grazie al successo dell’operazione che ha riportato a casa vivi quattro ostaggi tra cui Noa Argamani, la cui immagine disperata mentre veniva portata a Gaza su una moto aveva fatto il giro del mondo. Tuttavia, neppure l’eroismo di Arnon Zamora, il trentaseienne ispettore capo dell’unità antiterrorismo Yamam, morto a Nuseirat nel corso dell’azione di salvataggio, è sufficiente per annullare la consapevolezza che solo la stipula di un accordo con Hamas potrà portare a casa gli altri circa 120 ostaggi che si stima siano rimasti. Ma Netanyahu non sembra affrettarsi verso la conclusione di una trattativa, al contrario si è prontamente materializzato all’ospedale Tel Hashomer per venire immortalato di fianco ad Argamani e ribadire la necessità di proseguire i combattimenti.

Le dimissioni di Gantz

Nemmeno le dimissioni del ministro del Gabinetto di guerra Gantz hanno turbato il premier che, per guadagnare terreno e rafforzare la propria posizione politica, ha risottoposto ad approvazione la legge che garantirebbe agli uomini ultra-ortodossi l’esenzione dalla leva obbligatoria. Si tratta di un vero e proprio schiaffo all’Israele che sta portando sulle spalle il peso militare, economico ed emotivo di questa guerra. Adesso la palla è nelle mani della Corte suprema. Proseguono pertanto ogni settimana le manifestazioni che chiedono le dimissioni di Netanyahu e le elezioni anticipate, accanto a quelle a supporto delle famiglie degli ostaggi, a favore di un accordo di scambio e del cessate il fuoco. Altro tasto dolente sono le decine di migliaia di sfollati che, non potendo far ritorno alle loro case al nord e al sud del Paese, continuano a vivere negli alberghi o in soluzioni provvisorie lontani da tutto. Non sono pochi neppure gli israeliani che hanno scelto di lasciare il Paese a breve o lungo termine, come testimoniano le società che forniscono servizi di deposito per mobilio e beni di ogni genere. Nessuno riesce a fare programmi a lungo termine, ma

che il dramma non si esaurirà in pochi mesi è cosa ormai chiara a tutti. Anzi, in una recente intervista per il podcast del quotidiano «Haaretz», l’ex direttore dell’intelligence militare, generale Aharon Ze’evi-Farkash, ha affermato che «Israele deve capire che la lotta per l’affermazione della propria esistenza potrebbe durare anche un centinaio di anni». Secondo Ze’evi-Farkash la minaccia più seria da scongiurare rimane comunque quella iraniana. Nonostante questo, sono in aumento anche le richieste di cittadinanza israeliana da parte degli ebrei stranieri che, spaventati dalle nuove ondate di antisemitismo, si sentono più sicuri in Israele che nel resto del mondo.

All’ombra della guerra continua a operare anche la censura che, per colpire attivisti e soprattutto palestinesi di cittadinanza israeliana, può contare sulla collaborazione della zelante polizia di Ben Gvir. Ma una delle note più tristi rimane quella degli atenei israeliani, dove molti studenti si sono uniti alle istituzioni per silenziare e allontanare docenti e studenti che esprimano critiche al sionismo o empatia nei confronti dei civili palestinesi vittime del conflitto. Il dolore e la violenza permeano lo spazio pubblico e si riflettono nelle lunghe liste d’attesa per i servizi di salute mentale che fanno del loro meglio per prestare assistenza ai soldati mutilati e post-traumatici, alle vittime e ai loro parenti, ma anche ai civili sfollati, depressi e ansiosi. Purtroppo, complici le narrazioni dei media, buona parte dell’opinione pubblica israeliana è ancora sostanzialmente indifferente ai diritti dei palestinesi, per non dire paradossalmente ignara delle loro effettive drammatiche condizioni, motivo per cui fatica a comprendere l’indignazione e la critica a Israele che vengono dall’estero, etichettandole troppo spesso come atti di antisemitismo.

Ciononostante gli attivisti israeliani sembrano dotati di pazienza e ottimismo per il futuro, e si aspettano una grande affluenza all’iniziativa per la pace che si terrà a Tel Aviv il primo luglio prossimo. Sarebbe auspicabile che anche in Europa si facessero avanti dei partner che, invece di ergere muri e rafforzare le tifoserie, promuovessero occasioni di riflessione e confronto costruttivo, rendendo gli atenei e gli spazi culturali dei luoghi sicuri dove confrontarsi senza timore.

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Se dal cielo piovono bombe di spazzatura

Reportage ◆ Attacchi non convenzionali da parte nordcoreana mirano a spaventare la popolazione del sud e a creare disagi La situazione nei villaggi di Tongil-Chon e Daeseong-dong, con la riaccensione degli altoparlanti di propaganda

Nel villaggio sudcoreano di Tongil-Chon tutto ruota attorno alla soia. Ci sono decine di campi di coltivazione di semi, germogli, fagioli, ma da queste parti con i legumi tipicamente asiatici si produce di tutto: dalla pasta ai liquori fino al gelato. In particolare solo qui si raccolgono i fagioli Jangdan, famosi ed esportati in tutto il mondo. A venire a mangiare qui, tra le botti di terracotta che conservano i preziosi frutti del raccolto, sono soprattutto i turisti locali. In coreano, Tongil-Chon significa letteralmente «villaggio della pace», e si trova più o meno a quattro chilometri e mezzo di distanza da Panmunjom, l’insediamento della Joint Security Area sulla linea di confine tra Corea del Nord e Corea del Sud dove fu firmato l’armistizio nel 1953 – quello che mise fine ai combattimenti della Guerra di Corea. In Corea del Sud, Tongil-Chon è famoso per essere un luogo dove le tradizioni agricole sono rimaste invariate per decenni, lontano com’è dalla modernizzazione e soprattutto dall’inquinamento attorno alle aree più abitate e industrializzate sudcoreane.

Dalla fine di maggio cadono sul territorio della Corea del Sud sacchi di immondizia, plastica usata, letame ed escrementi umani

Il motivo è che per arrivarci bisogna passare un check point: appena attraversato il ponte Tongil, i soldati fermano le auto e i pullman dei tour organizzati – la maggior parte delle persone in Corea del Sud si affida a visite turistiche di gruppo – controllano i documenti, le autorizzazioni, e se tutto va bene si può proseguire secondo però delle regole molto restrittive per quanto riguarda le riprese e le fotografie autorizzate. Se si è in visita si può stare soltanto per poche ore. Passato il check point, infatti, si entra ufficialmente nella Zona di controllo civili, l’area creata con l’armistizio del 1953 che serve da cuscinetto alla Zona demilitarizzata, quella che segna invece l’effettivo confine fra Corea del Nord e Corea del Sud. Gli abitanti di Tongil-Chon non superano le quattrocento persone e sono abituati a essere controllati speciali, circondati da militari: questa è l’unica cittadella civile dell’area di confine.

Da queste parti, fino a poco tempo fa, nessuno avvertiva «la minaccia nordcoreana», e la vita andava avanti piuttosto tranquilla. Poi sono iniziati i lanci d’immondizia. Di recente alcuni sacchetti pieni di spazzatura, legati a decine di palloni aerostatici lanciati dalla Corea del Nord, sono finiti su diverse automobili nelle province sudcoreane, a volte danneggiandone il parabrezza o la carrozzeria. Molti dei palloni non sono riusciti a superare il confine, altri sono caduti in mare, ma parecchi hanno centrato l’obiettivo, più psicologico che concreto: aumentare la pressione sulla Corea del Sud e sui suoi cittadini. Tutto è iniziato un paio di settimane fa, quando nella penisola coreana era la notte fra il 23 e il 24 maggio. Almeno centocinquanta palloni aerostatici sono partiti dalla Corea del Nord per attraversare il confine sud: a ognuno di essi è stato attaccato un sacchetto di spazzatura, plastica usata, letame ed escrementi anche umani. È un aspetto della guer-

ra cognitiva da parte nordcoreana, che serve a spaventare la popolazione, creare disagi, e per chi vive sul confine ha una conseguenza molto concreta.

La mattina del 24 maggio scorso gli abitanti di Tongil-Chon, come quelli di tutta la provincia di Gyeonggi, si sono svegliati con un messaggio d’emergenza sui propri smartphone: imminente attacco aereo, diceva l’alert. Nessuno poteva prevedere, tantomeno il comando delle Forze armate sudcoreane, che i palloncini aerostatici fossero pieni di spazzatura. Avrebbero potuto essere piccole bombe, o parte di un attacco chimico o biologico. Nei giorni successivi ci sono state diverse polemiche per la tensione che si respira in quest’area di confine, come se le politiche del Governo centrale a Seul, guidato dal presidente conservatore Yoon Suk-yeol, stessero aumentando la pressione da parte di Pyongyang, la

capitale nordcoreana dove vive la leadership del dittatore Kim Jong Un. Oltre a Tongil-Chon, nell’area sul 38° parallelo esiste un altro villaggio, altrettanto simbolico: si chiama Daeseong-dong, che significa letteralmente «villaggio della libertà», ed è l’unico insediamento sudcoreano all’interno della Zona demilitarizzata, cioè a poche centinaia di metri dal confine con il Nord. È un paesino di poco più di centotrenta anime, che hanno uno status molto speciale: non pagano le tasse e non fanno il servizio militare. Il «villaggio della libertà» è un simbolo costruito appositamente per allentare la tensione, e ha un gemello in territorio nordcoreano, a poche centinaia di metri in linea d’aria. Da ormai qualche mese visitarlo, anche per un giornalista straniero, è impossibile. Chi ci è stato di recente ci racconta che da Daeseong-dong si

possono ascoltare perfettamente gli altoparlanti di propaganda, che sono stati riaccesi da entrambe le parti dopo che la cosiddetta «guerra dei palloncini» si è fatta più intensa. Al Sud vengono fatti partire per qualche ora al giorno, e mandano a tutto volume musica K-pop e notizie positive sulla Corea del Sud, solitamente descritta come l’impero del male dalla propaganda del Nord. Gli altoparlanti sono un strumento di guerra psicologica dell’epoca della Guerra fredda, «sentirli di nuovo, dopo che erano stati spenti così a lungo, mette un po’ d’angoscia», ci spiega una donna di Tongil-Chon.

Le aree della Zona demilitarizzata aperte al turismo sono sempre meno, si sta cercando di indirizzare i visitatori verso Camp Greaves

I residenti del villaggio sono per lo più anziani, e sono quelli che tornarono qui nel 1973, quando il Governo di Seul autorizzò alcune famiglie a venire a vivere nei luoghi da cui erano state evacuate vent’anni prima durante la guerra. L’idea di un villaggio dell’unificazione civile pare fosse venuta all’allora presidente autoritario Park Chung-hee, pensando ai kibbutz israeliani. Oggi quasi tutti fanno gli agricoltori, ma ci sono anche alcune famiglie che vivono qui perché lavorano nei servizi per turisti nella Zona demilitarizzata, per esempio all’osservatorio Dora, dove una terrazza e diversi cannocchiali permettono ai visitatori di guardare più da vicino la Corea del Nord. Il Governo della provincia di Gyeonggi assicura loro una scuola

(anche se, ci spiegano, i bambini sono sempre meno), una chiesa e il resto dei servizi essenziali. Ma da questa bolla a metà tra la Guerra fredda e la vita rurale chi può adesso va via, e dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia e l’avvicinamento al Cremlino del regime di Pyongyang, sono sempre di più le persone che vogliono farlo. Qualche anno fa, con la cosiddetta «Sunshine policy», la politica di riavvicinamento tra le due Coree, il turismo è letteralmente esploso: una signora che gestisce i pasti al Jangdan Bean Village, sulla strada verso Paju –la città più grande e più vicina al confine col Nord – ci spiega che fino a prima della pandemia non riuscivano a star dietro a tutte le prenotazioni di gruppi turistici di passaggio. Adesso sono in seria difficoltà. Le aree della Zona demilitarizzata aperte al turismo sono sempre meno, e la provincia di Gyeonggi sta cercando di indirizzare i visitatori verso Camp Greaves, che per decenni è stato il campo base della 506ª Divisione di fanteria americana a protezione dei confini sudcoreani, restituito al Governo di Seul nel 2007. Qui, a un paio di chilometri dalla Zona demilitarizzata, i sudcoreani hanno costruito un ostello della gioventù e una zona dedicata all’arte e alla pace, dentro agli hangar che un tempo contenevano le munizioni e il deposito dei carri armati, pronti a partire in caso di attacco. Anche qui, di recente, è piovuta dal cielo la spazzatura nordcoreana e dagli altoparlanti una voce non faceva che ripetere: non toccate gli oggetti volanti caduti a terra, chiamate le autorità. Un luogo d’arte e di pace che fa i conti, di nuovo, con il nuovo mondo in bilico con la guerra.

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La Corea del Nord ha scelto la spazzatura per impensierire i propri odiati «vicini di casa». (Pixabay) Filo spinato nella città sudcoreana di Paju. Non è stato possibile scattare fotografie nelle zone di controllo: è vietato. (Pompili)

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Le evoluzioni di Marine Le Pen

Francia ◆ Ogni volta che si presenta alle elezioni è una donna diversa. Le cinque ere della leader del Rassemblement National Cristina Marconi

Un po’ come Taylor Swift, anche Marine Le Pen (nella foto) ha le «eras», le ere. Ogni volta che si presenta alle elezioni è una donna un po’ diversa, in continua evoluzione rispetto all’identità di partenza, quella della leale figlia di un padre che dell’estrema destra è stato il simbolo assoluto e demoniaco per la Francia. Mentre lascia che altri candidati le facciano il favore di scavalcarla a destra, conferendole nel contrasto un’aura se non moderata quantomeno ragionevole, Le Pen ha dimostrato di essere un fenomeno capace di non prendere polvere e di mostrarsi attuale anche davanti all’agguerrita concorrenza sovranista che le arriva da tutte le parti, pronta a rinunciare di volta in volta a un tono, a un tema, pur di avvicinarsi al suo obiettivo di portare all’Eliseo nel 2027 il suo brand di donna solida, intransigente e francesissima. In questo, la sua duttilità appare molto più temibile della tetragona ostinazione ideologica del padre, pluricondannato per negazionismo e altri reati, ormai novantacinquenne malato e sottoposto alla tutela giuridica delle figlie. Un tempo lo chiamavano «il menhir», ora il menhir è lei.

Per anni alle elezioni presidenziali Marine è stata una minaccia costante, aleggia nella politica francese come un disastro incombente, crescente

Mentre la Francia è scossa da una stagione di rivoluzione e libertà, nell’agosto del 1968, nasce Marion Anne Perrine Le Pen, terzogenita di Le Pen; uno che ha aggiunto Marie al suo primo nome per piacere alla Francia cattolica, e di Pierrette, una bella donna che a un certo punto scappa con il biografo del marito, racconta al mondo quanto retrive e antisemite siano le sue opinioni e si fa fotografare per ripicca su «Playboy», determinando una rottura quindicennale con le figlie tra cui Marine, che all’epoca aveva solo 14 anni e che commenterà così la faccenda su «Paris Match»: «Una madre è un giardino segreto, non una discarica pubblica». Oggi Pierrette si fa vedere sempre ai comizi della figlia dopo che anche i rapporti con l’ex marito, risposato, si sono fatti più distesi, tanto che anche lei per anni ha abitato anche dopo il

divorzio nella grande tenuta di Montretout, nella reggia alle porte di Parigi ereditata da un magnate del cemento che, con il suo generosissimo lascito, ha permesso ai Le Pen di dedicarsi alla politica con tutta la serenità del caso. Altri finanziamenti, come quelli venuti da uno dei capi della prostituzione parigina, hanno avuto meno clamore nella narrazione di questa dinastia politica francese, fatta di un patriarca circondato da donne bionde e decise, come la figlia Yann, madre di Marion Maréchal che, dopo essere stata l’astro nascente del Front National, si è messa a militare nelle file del partito di Éric Zemmour (ma settimana scorsa è stata espulsa da quest’ultimo poiché ha incitato gli elettori a votare per la formazione di sua zia).

Anche nella storia di Marine Le Pen, come in quella di Giorgia Meloni, c’è il momento della distruzione della casa dell’infanzia: solo che, se nel caso della premier italiana è stata tutta colpa di un incendio, Le Pen è sopravvissuta per miracolo, insieme alle sue due sorelle, a una quantità ingente di esplosivo che ha sventrato il vecchio appartamento parigino in cui

Jean-Marie viveva e lavorava prima di andare a Montretout. Uno choc che la donna ha usato spesso per lamentarsi dei doppi standard con cui le vittime di destra verrebbero trattate rispetto a quelle di sinistra. Avvocata, guida la creazione del servizio giuridico del Front National nel 1998, un anno dopo il suo primo matrimonio, e viene eletta a più riprese in Consiglio comunale. Sono anni di forte crescita per il partito, e alle presidenziali del 2002 «il menhir» finisce al ballottaggio con Jacques Chirac, prendendo più voti del socialista Lionel Jospin. A quel punto la sensazione è che niente sia impossibile, per la dinastia di Montretout.

La seconda era inizia nel 2004, quando Marine arriva a Strasburgo, dove il Front National ha preso quasi il 10% dei voti. Sono già due anni che va regolarmente in televisione, dove il suo eloquio polemico e battagliero è molto apprezzato e dove ha iniziato la sua opera di «sdiavolizzazione» del partito. Lì inizia a costruire per sé stessa un palcoscenico internazionale che la vedrà tra i grandi arcinemici dell’Unione europea ma che le permetterà di inserirsi in un dibat-

tito più attuale rispetto alle istanze imbarazzanti e retrò portate avanti dal padre. Il dibattito nel referendum costituzione europea la vede in prima linea, e il suo libro autobiografico del 2006, Controcorrente, mostra delle ambizioni da leader, più che da figlia. Nel partito iniziano a lamentarsi del suo potere e i fedelissimi del padre non vedono di buon occhio il suo lavoro diplomatico nei confronti di varie comunità, compresa quella ebraica. Quando in un poster elettorale sceglie di mettere una giovane maghrebina delusa dai risultati del Governo su integrazione e laicità, avvia una rottura profonda: quello che ha in mente non è più il partito dei cattolici tradizionalisti, ma di chi accetta l’immigrazione purché non porti multiculturalismo. Gli anni successivi la vedono alle prese con nuovi temi, anche quelli lontani dalla sensibilità reazionaria, ossia le difficoltà economiche e lo scontento della ex classe operaia. Si trasferisce nel Nord Pas de Calais e si reinventa donna vicina al popolo, migliorando di molto le sue performance alle urne e soprattutto impiantando una strategia di lungo

corso che la porterà inevitabilmente alla terza era, quella del violento, necessario «parricidio». Nel 2015 Jean-Marie Le Pen viene cacciato dal partito, dopo aver ripreso le sue vecchie uscite antisemite, tra l’Olocausto come «dettaglio della storia» e la doppia nazionalità «come la bigamia». I due leader, padre e figlia, hanno litigato, fino a quando Marine non ha deciso di liberarsi di lui. E se qualcuno diceva che era un «suicidio» per il Front National, la verità è che l’uscita di scena del vecchio riservista che ha rappresentato per anni la Francia più retriva, colonialista e razzista, amico di tutti i collaboratori e gli ex gerarchi, con questa mossa ha preso la rincorsa ed è passato all’incasso. Lasciando che al centro del discorso rimanesse soprattutto, fortissima, una certa idea di Francia.

Nel 2015 Marine e JeanMarie Le Pen litigano. Il vecchio leader del Front National viene espulso dal partito, il quale prende la rincorsa e rinasce

La quarta era è quella della nascita del Rassemblement National, nel 2018, nuovo nome del partito forte di una leader che nei sondaggi appare fortissima e che va adattando la sua idea di destra ai temi in grado di attirare più elettorato. C’è stato un momento in cui, prima della Brexit, un’estrema destra che non fosse anche estremamente euroscettica non aveva motivo di essere. Poi si è accorta che è un tema che spaventa l’elettorato, che lo allontana dal motivo identitario, che rimane il più forte. Per anni alle elezioni presidenziali Marine è stata una minaccia costante, aleggia nella politica francese come un disastro incombente, crescente, nel 2017 arriva al 21%, a un soffio dal 24% di Emmanuel Macron, il suo uso dei social media è scaltro, ma perde con il 34% contro il 66% al ballottaggio. Da lì nasce l’ultima era, quella ancora in corso, che la porta a una vittoria potentissima alle europee – più del 30% – con un leader di partito giovane e fotogenico (Jordan Bardella) e una Marianna cinquantacinquenne, regina delle correzioni di rotta, che ha un appuntamento elettorale tra poche settimane.

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Dalla decelerazione alla decrescita

Ho terminato gli studi di economia all’inizio degli anni Sessanta dello scorso secolo, in piena era della coesistenza pacifica. Allora erano tre i semi-dogmi sui quali poggiavano le nostre concezioni di politica economica. Il primo: si pensava che una crisi economica mondiale non avrebbe più potuto ripetersi perché tutti i Governi erano in grado di controllare l’evoluzione della domanda globale. Il secondo invece riguardava le differenze di benessere tra i Paesi sviluppati e il resto del mondo. Si credeva che un tasso annuale di crescita dell’economia mondiale, pari al 5%, avrebbe potuto, in un paio di decenni, eliminare ogni differenza. Così l’accelerazione nella crescita del Pil di un’economia veniva propagandata come una misura economicamente e socialmente necessaria. Più larga diventava la torta e più facilmente si potevano aumentare le dimensioni delle fette da distribuire.

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Il terzo semi-dogma affermava che, per il mondo occidentale, la crescita era indispensabile per potersi affermare, in una situazione di coesistenza pacifica, contro il comunismo. A questo punto bisogna precisare che durante gli anni 60 dello scorso secolo tassi annuale di crescita del 3, del 4 e del 5%, erano abbastanza comuni, non solo per i Paesi del blocco comunista, ma anche per le economie sviluppate del mondo occidentale. Questo significava che, anche da noi, i livelli di benessere materiale raddoppiavano all’incirca ogni 20 anni. Poi vennero gli anni 70 con il ritorno ai cambi flessibili di quasi tutte le economie e la deindustrializzazione delle economie più avanzate, comprese quelle dell’Europa occidentale. I tassi annuali di crescita del Pil cominciarono a diminuire: prima al 3, poi al 2 e anche sotto il 2%. Salvo che negli Usa, la produttività dei fattori di pro-

duzione cominciò a ristagnare. Si era in perdita di velocità ma non si stava ancora retrocedendo. Invece di raddoppiare ogni 20 anni, i livelli di benessere materiale raddoppiavano ora solo ogni 40: continuavano comunque a salire sebbene a passo rallentato. Si parlò allora prima della fine di un ciclo cinquantennale di sviluppo, poi del prolungarsi di un periodo di stallo dovuto per qualcuno alla mancanza di innovazioni, per altri alla crescita della quota dello Stato nell’economia e per altri ancora all’invecchiamento della popolazione.

Da allora, almeno in Europa, la macchina economica non è più stata in grado di accelerare. Anzi, nei due decenni del nuovo secolo i tassi medi di crescita del Pil sono scesi verso l’1% e anche sotto questa barra. Con i tassi di crescita del Pil di oggi il raddoppio dei livelli di benessere medi si fa ogni 70 anni. Poiché la produttività delle

Se la costruzione europea è in pericolo

Le elezioni europee sono state un terremoto. L’onda di destra c’è. Non è tale da travolgere il Governo dell’Europa ma non si può non tenerne conto. Soprattutto se il Rassemblement National, erede del Front creato da Jean-Marie Le Pen, conquisterà la maggioranza alle prossime elezioni legislative, e al prossimo Consiglio europeo Macron sarà accompagnato da Jordan Bardella – il pupillo di Marine Le Pen – in veste di primo ministro. Marine Le Pen e Bardella sostengono la priorità del diritto nazionale su quello comunitario. Se fossero coerenti sino in fondo, l’Europa non esisterebbe più, perché l’Europa si basa appunto sulla prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale. Certo, Marine era per l’uscita dall’euro, poi ha messo acqua nel suo vino sovranista. Ma è pur sempre l’erede politica di Jean-Marie Le Pen, che disse: «L’Europa è stata grande quando c’e-

rano le guerre; ora c’è la pace, e non conta più niente». Fino a due anni fa i 4 grandi Paesi dell’Europa occidentale erano guidati da un Emmanuel Macron appena rieletto con ampio margine, da un Olaf Scholz che si era presentato come l’erede di Angela Merkel, dal socialista Pedro Sanchez non ancora indebolito e dall’europeista Mario Draghi: tutti e quattro solidali con Zelensky e la causa dell’Ucraina, della Nato, dell’Occidente. Adesso Macron ha sciolto il Parlamento per una sfida «o la va o la spacca». Scholz ha visto l’Spd – il partito più vecchio d’Europa, fondato nel 1863, sopravvissuto a due guerre mondali e al nazismo – superato e umiliato dagli anti-antinazisti dell’Alternative für Deutschland. Sanchez ha perso terreno rispetto alle politiche, quando è riuscito a riabborracciare un Governo con un voto di maggioranza. In Italia il voto dell’8 e 9 giugno è stata

Il presente come storia

l’ennesima prova di forza della destra. Giorgia Meloni non ha fatto una campagna da destra moderata, conservatrice, europea. Non ha rinunciato alle sue tradizionali posizioni. Alla sua destra aveva Matteo Salvini che, anziché posizionarsi al centro sulla scia del suo amico Berlusconi, ha scelto di fare concorrenza a Meloni sul suo stesso terreno, candidando il generale Roberto Vannacci, campione dell’Italia reazionaria che l’ha plebiscitato con mezzo milione di preferenze. Mentre, ancorata nel centrodestra, Forza Italia cresce. Il progetto centrista di Renzi e Calenda è fallito. A sinistra Elly Schlein ottiene un buon risultato. Ma se ieri si fosse votato per le politiche, la vittoria della destra sarebbe stata ancora più netta: perché i voti dei tre partiti della maggioranza si sommano; quelli dell’opposizione no. Schlein ha dimostrato di saper parlare agli elettori – a cominciare dai giovani

Maggio 1974: la rivolta degli studenti ticinesi

Il riferimento al ’68 scatta ogni volta che liceali e universitari scendono in piazza oppure occupano le aule scolastiche. È un riflesso pavloniano, è come se quegli anni definiti dai reduci «memorabili» o «formidabili» funzionassero da archetipo di ogni agitazione giovanile. Da quella stagione è trascorso oltre mezzo secolo, i protagonisti di allora sono da tempo al beneficio della pensione, ma il ricordo rimane conficcato nelle menti, non solo le proteste alla Magistrale ma anche le successive mobilitazioni negli anni 70, soprattutto al Liceo di Lugano e, in misura minore, al neocostituito Liceo economico-sociale di Bellinzona. Quegli episodi, culminati in un corteo lungo il viale Cattaneo nel 1974, sono stati fatti rivivere sotto il titolo «Ben venga maggio», attraverso filmati, riesami storici e testimonianze, lo scorso 18 maggio nell’aula magna di Tre-

vano, per iniziativa di ex studenti e insegnanti.

A scatenare la protesta fu apparentemente un motivo banale, quasi goliardico: la richiesta di abolire il controllo delle assenze, con relativo trafugamento del registro. In realtà quella rivendicazione mirava ad affermare un principio di emancipazione: dalla scuola ma anche dalla famiglia. Quest’ultima al registro si affidava per sapere che cosa combinassero effettivamente gli alunni durante la giornata. Dunque un atto libertario e liberatorio nei confronti dell’istituzione, che in seguito assunse tratti più politici, come la revisione dei programmi e la volontà di compartecipare alla gestione degli istituti. D’altra parte quelli erano anni «caldi» sotto più punti di vista. C’era innanzitutto l’esigenza di manifestare solidarietà ai popoli oppressi e di condannare i regimi dittatoriali al potere in Cile (Pi-

economie europee non ha più ripreso a salire, anche i salari ristagnano. Per quel che riguarda i profitti, il quadro è più differenziato. Ci sono aziende nei rami di produzione tradizionali che non realizzano guadagni e ci sono (poche) aziende nel settore dei servizi che realizzano profitti cosmici. Per gli enti pubblici gli ultimi 50 anni sono stati invece quelli del grande indebitamento perché le loro entrate fiscali, tendenzialmente in diminuzione, non sono più riuscite a finanziare una spesa in crescita. Ma anche le economie domestiche faticano a tirare avanti per l’aumento più che proporzionale, rispetto ai salari, di spese obbligatorie come le casse malati e le imposte. Insomma, la realtà è che le economie europee stanno decelerando. In questa situazione sono sempre più numerosi coloro che sostengono che ci dobbiamo adattare a questo colpo di freno di lunga gettata e prospettano

l’arrivo della decrescita, ossia di tassi di crescita negativi, come lo scenario più probabile per i prossimi decenni. Dovremmo essere pronti ad accettare una diminuzione del nostro livello di benessere? In Svizzera le proposte per una decrescita vengono sia da destra sia da sinistra. Tutti vogliono limitare la crescita. L’UDC è convinta che sia ora di bloccare la crescita della popolazione e promuove un’iniziativa costituzionale per evitare che la Svizzera superi i 10 milioni di abitanti prima del 2050. Questa iniziativa, puramente elettorale, ha già raggiunto il suo scopo e non avrà probabilmente nessun esito anche se dovesse giungere in votazione. I Giovani Verdi vogliono limitare invece, con la loro iniziativa, produzione e consumi per ridurre il carico ambientale. Fosse ancora qui Thomas Malthus, il padre della teoria dei limiti alla crescita, se la riderebbe sotto i baffi.

– cui i vecchi leader non avevano molto da dire. Ma se alle Politiche la coalizione sarà tra il Pd di Schlein, l’Alleanza Verdi-Sinistra e il Movimento 5 Stelle, allora Meloni partirebbe favorita. Perché alle Politiche un terzo dei seggi sarà assegnato nei collegi uninominali, in cui una coalizione serve. E perché alle Politiche si vota di più; e si vota sulle tasse. E finora, tranne in rare occasioni, la maggioranza degli italiani ha individuato un campione – la Dc, Berlusconi, Salvini, Grillo e ora Meloni – che le tenesse lontana la sinistra, considerata sinonimo di tasse. Quanto a Meloni, ora è a un bivio. Che non è solo tra sostenere Ursula von der Leyen, unendosi alla maggioranza che governerà l’Europa ma spaccando il gruppo dei conservatori di cui è presidente, oppure mantenere l’unità del gruppo ma schierando il Governo italiano all’opposizione. Il vero bivio è tra il ritenere che i pro-

blemi dell’Italia – immigrazione e debito pubblico in primis – si risolvano più facilmente facendo da soli, o collaborando con i partner europei. Molto dipenderà dall’esito delle elezioni anticipate che si terranno in Francia: primo turno il 30 giugno, ballottaggio il 7 luglio. Il capo dei Repubblicani Eric Ciotti ha annunciato un’alleanza delle destre con Marine Le Pen e Jordan Bardella, ma i notabili del suo partito l’hanno sconfessato. A sinistra hanno resuscitato il Fronte Popolare (comunisti e socialisti). Macron spera ancora che al ballottaggio i francesi che non vogliono fare salti nel buio appoggino i suoi candidati centristi. Ma il timore è che l’odio verso il presidente sia troppo diffuso per consentirgli un’altra vittoria. Insomma, la costruzione europea è in grave pericolo. Il fronte che sostiene l’Ucraina pure. E devono ancora arrivare le elezioni Usa, su cui si allunga l’ombra di Donald Trump.

nochet) e in Spagna (Franco). In secondo luogo si guardava con interesse a quanto succedeva in Italia, a Milano in particolare, con la proliferazione delle formazioni extraparlamentari, in un clima carico di violenze, tensioni sociali e civili (referendum sul divorzio).

Ragionamenti e linguaggio accoglievano e replicavano gli schemi ideologici presenti nei gruppi di estrema sinistra, con in testa figure elevate a mito come Lenin, Trotzky, Che Guevara, Angela Davis, il Mao della rivoluzione culturale (ma non Stalin), pensatori come Herbert Marcuse e come il marxista francese Louis Althusser, autore in quegli anni di un saggio che ebbe una certa circolazione anche in Ticino («Ideologia e apparati ideologici di Stato»).

Non tutti parteciparono con uguale intensità alle occupazioni e alle assemblee. Gli studenti più sensibi-

li alla tradizione cattolica preferirono aderire a Comunione e Liberazione, movimento che aveva in don Giussani il leader riconosciuto e indiscusso. La maggioranza visse quei momenti come un «happening» in cui confluivano mode (l’eskimo, per chi poteva permetterselo), atteggiamenti, acconciature (capelli lunghi e barbe incolte), psicanalisi, musica rock-pop, cantautori, i film impegnati e il teatro di Dario Fo, le nuvole di fumo delle sigarette Gauloises. L’industria culturale, specie anglosassone, aveva prontamente individuato nei giovani una promettente categoria di spesa.

Il ’74 fu solo in parte una coda del ’68. In quel torno di tempo la popolazione studentesca era esplosa, specchio della crescita nel Cantone del ceto medio, e finalmente giungeva in porto la scuola media unica, che archiviava il modello duale ginnasio-scuola maggiore. Dagli atenei d’oltre confi-

ne arrivarono docenti italiani, chiamati a completare gli organici locali. Anche la Magistrale di Locarno avvertì il bisogno di ripensare radicalmente gli indirizzi pedagogici (John Dewey, Paulo Freire, don Milani) e i metodi didattici. Furono tutti fermenti che poi molti, una volta terminati gli studi accademici, riversarono nel loro percorso professionale: nell’insegnamento, nell’informazione radiotelevisiva, nei giornali, nell’amministrazione statale. Alcuni presero invece altre strade, abbandonarono ideali e slanci giovanili per avvicinarsi al più promettente, e rimunerativo, mondo dell’economia e della finanza. Traslochi analoghi avvennero in ambito politico, con il passaggio dal movimentismo «gauchiste» (magari intransigente, anti-socialdemocratico e anti-riformista) alla più rassicurante sponda delle famiglie partitiche tradizionali di centro-destra.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 17 giugno 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 33 ATTUALITÀ / RUBRICHE ◆ ●
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CULTURA

Una piattaforma per i podcast

Nella produzione audio si avverte l’esigenza di fare rete. In Svizzera romanda c’è il progetto PlayPodcast

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Retrospettiva Maraini

Per i 20 anni dalla sua scomparsa l’8 giugno 2004, il MUSEC omaggia il fotografo Fosco Maraini

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Etienne Reymond e il LAC Intervista al direttore artistico settore Musica del LAC che si appresta a lasciare il suo incarico

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20 anni di Moon & Stars

Locarno si prepara a un’edizioneanniversario in grande stile con la prima volta di una Opening Night

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Spazio, tempo e luce nell’opera di Enrico Castellani

Mostre ◆ Fino al 7 luglio il Museo d’Arte di Mendrisio omaggia il pittore italiano e le sue tele dall’«epidermide dinamica»

Brughera

Quando, dopo gli studi di architettura in Belgio, nel 1957 Enrico Castellani (nella foto ritratto tra il 1967 e il 1970) fa ritorno in Italia, diventa una delle figure più attive e propositive della scena artistica milanese. Appena arrivato nel capoluogo lombardo stringe una profonda amicizia e una prolifica collaborazione con Piero Manzoni. I due non possono essere caratterialmente più diversi: Castellani schivo, discreto e riservato, Manzoni, al contrario, esuberante e carismatico. Eppure, sono accomunati dall’idea di concepire il proprio lavoro come una continua riflessione «sull’arte, sugli strumenti e i modi del suo esercizio». Dal loro sodalizio nascono nel 1959 la rivista «Azimuth», che con due soli numeri pubblicati (tradotti in quattro lingue) lascia un segno importante nell’arte di quegli anni, e la quasi omonima galleria «Azimut», senza h, che con tredici mostre organizzate in otto mesi riesce a presentare gli artisti più innovativi dell’epoca. Il primo ad arrivare alle inaugurazioni di queste rassegne è sempre Lucio Fontana, padre estetico e mentore di Castellani, il primo, anche, ad acquistare una sua opera a rilievo per la propria collezione.

La mostra contribuisce a smentire un giudizio negativo spesso riferito a Castellani, ovvero la monotonia della sua arte

È in questi anni meneghini che Castellani dà vita al suo distintivo linguaggio, fatto di estroflessioni e introflessioni della tela monocroma, che cattura l’attenzione del panorama artistico internazionale e che lo fa emergere come figura di grande rilevanza. L’attitudine alla vita solitaria e la totale devozione al proprio lavoro portano l’artista, nel 1970, a lasciare Milano, una città che Castellani non ritiene più vicina al proprio sentire e che per lui, uomo poco disponibile a sottomettersi al sistema del mercato, incomincia a essere opprimente. Dopo un breve soggiorno in Ticino, nel 1973 l’artista va a vivere in un castello medievale a Celleno, un piccolo borgo della Tuscia, vicino a Viterbo, dove, con regole quasi monastiche, si dedica anima e corpo alla creazione.

Nato nel 1930 a Castelmassa, paesino del Polesine in provincia di Rovigo, Castellani, grande ammiratore di Piet Mondrian, sin da giovane vuole diventare pittore. Prima però si laurea in architettura all’École nationale d’architecture et des arts décoratifs di La Cambre, studi che influenzano profondamente il suo approccio all’arte.

Nella seconda metà degli anni Cinquanta, proprio quando arriva a

Milano, Castellani, dopo un breve periodo in cui risente delle suggestioni dell’Informale e dell’Espressionismo astratto americano, ravvisa l’esigenza di abbandonare i mezzi tradizionali del lessico pittorico per orientare tutta la sua attenzione verso il supporto. La tela monocroma incarna per l’artista il momento zero della pittura presentandosi ai suoi occhi come uno spazio nuovo e assoluto da utilizzare come punto di partenza per il suo stesso superamento. È questa un’esperienza di rottura che porta alla costruzione di qualcosa di inedito. La tela diviene una sorta di «epidermide dinamica», come la definisce la storica dell’arte Ester Coen, animata dall’artista con sequenze di rilievi e di rientranze (ottenuti mediante l’uso di chiodi inseriti nel retro) che nel loro succedersi incorporano nell’opera la dimensione temporale e conferiscono alla superficie vibrazioni luminose.

Sulle potenzialità della tela monocroma estroflessa Castellani avvia un percorso di ricerca che lo accompagna fino alla fine, in una continua variazione sul tema e in un’inesauribile scala di combinazioni che, nell’intreccio di spazio e tempo, innescano stimoli visivi sempre nuovi.

Che Castellani abbia goduto di ampia considerazione grazie alle sue indagini artistiche peculiari lo testimoniano le tante mostre collettive di rilevanza internazionale a cui è stato chiamato a partecipare nei più grandi musei del mondo: il MoMA di New York, nel 1965 (anno in cui il padre del minimalismo Donald Judd lo indica come unico artista europeo meritevole di plauso per la sua ricerca); Palazzo delle Esposizioni a Roma, nel 1970; il Centre Georges Pompidou di Parigi, nel 1981; il Guggenheim di New York, nel 1994. Al culmine della sua carriera, c’è anche il conferimento, nel 2010, del Praemium Imperiale per la pittura, il più alto riconoscimento artistico, assegnato a Tokyo. Non così numerose sono invece le mostre personali di Castellani organizzate fuori dall’Italia. A voler cercare le ragioni di tale «mistero», si potrebbero forse trovare nel fatto che l’artista è sempre stato considerato dalla critica internazionale una figura molto legata alla tradizione culturale italiana, sebbene abbia avuto un ruolo da innovatore. Non ha poi giovato il fatto che gran parte della sua bibliografia critica sia solo in lingua italiana.

A colmare un po’ questa lacuna ci pensa il Museo d’Arte di Mendrisio, che omaggia Castellani con una splendida rassegna aperta al pubblico fino ai primi di luglio, curata da Barbara Paltenghi Malacrida, Francesca Bernasconi e Federico Sardel-

la in collaborazione con la Fondazione Enrico Castellani. Si tratta della prima esposizione dedicata all’artista in territorio elvetico nonché della prima retrospettiva di Castellani dopo la sua morte, avvenuta nel 2017. Il museo di Mendrisio ci racconta l’intera attività dell’artista, dalla fine degli anni Quaranta alla prima decade del XXI secolo. In tutto ci sono circa sessanta lavori tra dipinti, superfici a rilievo, opere su carta, sculture e installazioni, allestiti secondo una scansione cronologica che vede ogni sala documentare un momento specifico della ricerca di Castellani. È un percorso che mette bene in evidenza come il linguaggio dell’artista, definitosi nel 1959 senza subire poi variazioni concettuali e di metodo, sia stato applicato da Castellani con costanza ma anche con grande libertà, per ottenere ogni volta risultati diversi. La mostra contribuisce così a smentire un giudizio negativo spesso riferito a Castellani, ovvero la monotonia della sua arte. Un pensiero, questo, già più volte contraddetto anche dalla critica, che ha definito la cifra stilistica di Castellani con l’em-

blematico ossimoro «ripetizione differente»: una poetica che dà vita, nella purezza strutturale della reiterazione accurata di pieni e di vuoti, a illimitate possibilità combinatorie. Non a caso, uno degli aggettivi spesso collegati al lavoro dell’artista è «infinibile»: ripetibile all’infinito. La rassegna di Mendrisio apre con l’ampio salone che funge da compendio dello sviluppo dell’arte di Castellani: qui sono raccolte opere realizzate nell’arco di più di quarant’anni ma che a osservarle sembrano tra loro molto vicine nel tempo. È uno spazio davvero suggestivo dove le grandi superfici monocromatiche di colore bianco rivelano «la pregnanza di una riflessione silenziosa», come scrive Paolo Bolpagni nel catalogo dell’esposizione.

Le sale successive testimoniano le varie applicazioni del linguaggio di Castellani, la cui modernità, ancora oggi, si fonda sull’aver esplorato concetti assoluti come lo spazio, il tempo, la luce e l’ombra.

Da un piccolo olio giovanile del 1947 raffigurante un paesaggio, già foriero di alcune geometrie utilizza-

te in seguito, si incontrano poi i lavori che documentano l’evoluzione di Castellani nel concepire la tela non come supporto ma come materia, fino al suo approdo alla prima opera estroflessa del 1959, ottenuta inserendo delle semplici nocciole sotto la superficie ben tesa.

Troviamo poi alcuni lavori degli anni Sessanta, tra cui Superficie bianca, del 1964, destinata all’ingresso di un condominio milanese progettato da Nanda Vigo, la bellissima Serie blu, datata 1996, o ancora le opere dei primi anni Duemila, in cui Castellani utilizza nuovi materiali come l’alluminio aeronautico. Nell’ultima sala, Superficie angolare nera chiude degnamente la mostra facendosi piena espressione di quello spazio assoluto, spirituale e privo di contraddizioni a cui l’artista ha sempre aspirato.

Dove e quando Enrico Castellani.

Museo d’Arte Mendrisio. Fino al 7 luglio 2024. Orari: ma-ve 10-12/14-17; sa-do e festivi 10-18. Informazioni: museo.mendrisio.ch

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 17 giugno 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 35
Foto Carlo Cisventi, Fondo Cisventi, CSAC Università di Parma Alessia

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Una piattaforma nazionale e multilingue

Podcast ◆ Nella produzione audio si avverte l’esigenza di fare rete. Alexis Raphaeloff di PlayPodcast racconta il progetto romando Olmo Cerri

Passeggiando in uno dei pochi giorni di sole in questa primavera piovosa, mi sono ascoltato tutto d’un fiato il podcast La mia radio in miniatura – storie di altre frequenze in lingua italiana, un progetto promosso dalla Comunità Radiotelevisiva Italofona in occasione del centocinquantesimo dalla nascita di Guglielmo Marconi, fra gli inventori della radio. Il progetto è frutto di un seminario internazionale e fa parte delle numerose iniziative che la Comunità organizza per promuovere la lingua e la cultura italiana. Il podcast, composto da tredici brevi puntate disponibili gratuitamente sui siti delle radio che fanno parte della comunità, online anche su quello della nostra RSI, è coordinato da Andrea Borgnino e da Daniel Bilenko.

«Le produzioni elvetiche rischiano di perdersi in mezzo a un oceano di possibilità di ascolto. La nostra piattaforma regionale ci permette di valorizzare i contenuti delle regioni francofone»

Camminando con le cuffie nelle orecchie, ho scoperto che la Comunità Radiotelevisiva Italofona ha visto la luce a Roma nel 1985, attraverso un accordo tra RAI, la Radiotelevisione della Svizzera italiana, Radio Vaticana, la radiotelevisione di San Marino e Radio Capodistria. Questa rete di cooperazione audiovisiva oggi unisce le emittenti pubbliche di una dozzina di Paesi operanti nell’area culturale italofona. La prima puntata che ascolto è quella dedicata a Radio Colonia, nata nel 1961 per fornire informazioni pratiche ai lavoratori italiani

in Germania, i cosiddetti «Gastarbeiter ». Da allora, il programma radiofonico in lingua italiana è cresciuto fino a diventare un podcast quotidiano che si rivolge a tutti gli italofoni presenti in Germania. Gli episodi su Radio Romania e Radio Tirana – celebre anche per essere citata insieme alle sue «musiche balcaniche» nel brano Voglio vederti danzare di Franco Battiato –raccontano come nel corso degli anni le trasmissioni in italiano siano state cruciali nel superare le turbolenze politiche di questi Paesi a est dell’Adriatico. Un episodio è dedicato a Radio Sardegna, una delle prime radio libere dell’Italia post-fascista, che, dopo essere stata assorbita dalla RAI, ha mantenuto la sua autonomia, offrendo una programmazione in italiano e in sardo. Viene anche esplorata Radiodifusión Argentina, che continua a trasmettere in italiano per la diaspora presente nel Paese e oggi affronta il rischio di chiusura a causa delle politiche neoliberiste del nuovo presidente Javier Milei. Le puntate offrono un viaggio attraverso storie personali, sigle, jingle, e documenti di archivio, mettendo in evidenza gli accenti italiani nelle diverse varianti locali che animano le varie radio italofone nel mondo.

Questo percorso tra le stazioni e le frequenze ci riporta inevitabilmente al nostro personale rapporto con la radio. Francesca Rodesino, redattrice che collabora con i programmi culturali della RSI, si è occupata della realizzazione dell’episodio dedicato alla Radio Svizzera di lingua Italiana che inizia con una serie di memorie personali dell’autrice, legata all’ascolto radiofonico e spazia attraverso i luoghi, i programmi e le epoche. Con una certa emozione riascolto la sigla de La co-

sta dei barbari – guida pratica, scherzosa, per gli utenti della lingua italiana, la trasmissione più longeva della storia della RSI, nata nel 1959 e trasmessa fino a dicembre 2008, che indubbiamente fa parte anche del paesaggio sonoro radiofonico della mia infanzia. Ed è proprio questo uno degli aspetti interessanti di questa serie, il continuo compenetrarsi tra dimensione personale e collettiva, che la radio ieri e i podcast oggi garantiscono.

La necessità di fare rete è un’esigenza ancora oggi molto sentita, anche tra i produttori audio indipendenti. Ho partecipato all’incontro organizzato da eCHo, la rete che unisce le creatrici e i creatori indipendenti di audio in Svizzera tenutasi qualche settimana fa. Una trentina i partecipanti provenienti da tutta la Svizzera per discutere della necessità di una piattaforma audio a livello naziona-

La metamorfosi di Eddy Bellegueule

Angelo Ferracuti

Quarto libro di un’autobiografia seriale, urticante, onesta, Metodo per diventare un altro (La nave di Teseo, 2023) di Édouard Louis (nella foto) è uno struggente romanzo sulla metamorfosi che porta un ragazzo nato nel cuore della classe operaia reazionaria e razzista del Nord della Francia a cambiare identità per sfuggire a una vita di miseria sociale e culturale; tra ribellione e quella che Cintia Cruz chiamerebbe «Melanconia di classe», titolo di un suo saggio pubblicato da Altlantide. Cioè quel senso di sradicamento e il prezzo altissimo che diversi artisti provenienti dalla working class hanno provato quando sono «diventati qualcuno», allontanandosi dolorosamente dal mondo delle radici. Scritto in prima persona, nel flusso della narrazione l’autore certe volte cambia passo e si rivolge al padre, centro nevralgico di tutti i suoi libri, «malato di una vita di lavoro, da operaio di linea, poi nelle strade a spazzare la sporcizia degli altri». Ha visto la violenza, la miseria morale, suo fratello è «alcolizzato fin da adolescente», così decide artatamente di sfuggire a quel destino progettando la sua dolorosa metamorfosi, che è anche l’invenzione e il leitmotiv del romanzo. «A poco più di vent’anni» scrive con spietatezza, «avevo cam-

biato cognome davanti a un tribunale, cambiato nome, trasformato la faccia, ridefinito la linea frontale del cuoio capelluto, subito diverse operazioni, reinventato il modo di muovermi, camminare, parlare, fatto sparire l’accento del Nord dell’infanzia». Infatti, il suo vero nome anagrafico è quello del suo romanzo d’esordio, Farla finita con Eddy Bellegueule (Bompiani), scritto a soli 21 anni e subito caso letterario, primo tassello della sua autobiografia di classe, quella di un ragazzo omosessuale bullizzato a scuola per la sua diversità, dove racconta il dolore di diventare grandi in una provincia francese impoverita socialmente e rabbiosa, negli stessi ambienti e microcosmi ostili di un altro suo libro di rara forza espressiva, breve quanto intenso, Chi ha ucciso mio padre (Bompiani), scritto in forma epistolare. Per lui la scrittura autobiografica è un’arma politica, «l’autobiografia è politica perché urta le persone, le mette a disagio» ha affermato l’enfant prodige della letteratura francese nel corso di una intervista. Duro, spietato, in questo libro racconta per intero la sua storia di riscatto. Quando incontra Elena, compagna di studi e una delle figure centrali del romanzo, ed entra in contatto con una fa-

le. Si sente la mancanza di uno spazio online dove aggregare il meglio della produzione audio elvetica. L’appuntamento era a Lugano, presso Fervida, un nuovo spazio culturale aperto e gestito da un gruppo di artiste, che ospita degli atelier e un piccolo spazio espositivo. Le piattaforme audio sono uno strumento prezioso per mettere in contatto chi produce i podcast con chi li ascolta, e possono valorizzare tutte quelle produzioni indipendenti che altrimenti farebbero fatica ad emergere. Alexis Raphaeloff è il responsabile tecnico di PlayPodcast, una piattaforma gratuita con finalità culturali dedicata al lavoro delle radio indipendenti della Romandia, che ospita oggi oltre duecento podcast. Gli chiedo: perché non affidarsi alle piattaforme globali che già possono contare su di un pubblico affezionato? «Le produzioni elvetiche rischiano di perdersi in mezzo a un oceano di possibilità di ascolto. La nostra piattaforma regionale ci permette invece di valorizzare i contenuti delle regioni francofone. Un’applicazione a scala locale permette di offrire contenuti locali ad un pubblico di ascoltatori locale, è come sentirsi a casa». E una piattaforma multilingue a scala nazionale sarebbe invece immaginabile? «È un’idea molto interessante su cui ci piace sognare, ma per essere realizzata necessiterebbe di fondi supplementari ancora tutti da trovare. Bisognerebbe immaginare un modello di finanziamento diverso che ci permetta di salvaguardare la filosofia del progetto: teniamo molto alla nostra indipendenza e al controllo sulle tecnologie che utilizziamo, per esempio tramite l’assenza di tracciamento e evitando la pubblicità. Si potrebbe chiedere agli ascoltatori di sostenere anche finanziariamente il progetto».

Le barriere linguistiche del nostro Paese, che rendono difficile la distribuzione di tutti i prodotti culturali ma forse ancora di più per quanto riguarda la narrazione audio e i podcast, sono un tema centrale della discussione. Diversi nuovi esperimenti, portati avanti anche grazie all’uso dell’intelligenza artificiale, già ora permettono di tradurre automaticamente, sottotitolare e persino di «doppiare» con delle voci sintetiche i podcast. Cristian Ferretti di Radio Gwendalyn crede che una piattaforma nazionale, multilingue e gestita dalle varie realtà locali «potrebbe dare risalto alla produzione audio locale, andando a intercettare anche tutti gli italofoni che vivono al di là delle Alpi». Non possiamo che restare all’ascolto e seguire con curiosità l’evoluzione di questo progetto.

Pubblicazioni ◆ Quarto episodio dell’autobiografia seriale di Édouard Louis che nella scrittura ha trovato una forma di esistenza

miglia borghese, capisce che «per loro studiare era tanto naturale quanto per noi non studiare», tutto il contrario della sua famiglia working class, incontra il cinema, la letteratura, la musica, cerca disperatamente di impossessarsi di quel sapere, di quel savoir faire, quando i genitori di lei gli chiedono cosa fa suo padre prova vergogna, poi si fa forza e vuota il sacco: «Scommetto che a quest’ora saranno al terzo pacchetto di patatine della serata, ridendo sguaiati davanti a qualche reality show idiota. Scom-

metto che mio padre sarà all’ottavo bicchiere di pastis». E la scena spietata, la rappresentazione fedele di una universale e globalizzata classe bassa, sente che il suo prendere le distanze, la separazione dalla sua famiglia «è conseguenza della povertà. È la definizione stessa dell’Ingiustizia», ma sa che è anche l’unico modo per salvarsi. Vero e proprio romanzo di formazione, giornale intimo, confessione, scritto con una lingua ritmica, febbrile, Metodo per diventare un altro segue tutti i passaggi del processo di

trasformazione di Eddy, che frequenta il liceo, diventa bigliettaio in un teatro, va a vivere da solo in un’altra città, poi arriva a Parigi per raggiungere il suo mentore Dedier, vivere liberamente la propria omosessualità e con in testa il sogno di fare lo scrittore. Legge un libro al giorno, Sartre, Genet, Fanon, la Beauvoir, Handke, e quando gli comunicano che è stato ammesso alla École des hautes études en sciences sociales ripete a sé stesso: «Sono salvo, sono salvo». Pensa di quel traguardo raggiunto: «Significava vendicarmi del posto che mi era stato assegnato nel mondo». A Parigi frequenta ricchi omosessuali, politici, industriali, va nei ristoranti di lusso, pasteggia con lo champagne. Ma un giorno torna nella cittadina del Nord della Francia dove è nato per andare a trovare il padre che non vedeva da anni, «il corpo distrutto da una vita di miseria», torna nel suo mondo, ed è un tuffo al cuore. Allora decide che è giunto il momento di scrivere la sua storia, quella del padre, della madre, della sua infanzia. Capisce che deve scrivere per esistere.

Bibliografia

Édouard Louis, Metodo per diventare un altro, La nave di Teseo, Milano, 2023.

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La fotografia come progetto esistenziale

Mostre ◆ Il MUSEC dedica una grande retrospettiva a Fosco Maraini, etnologo nell’anima dalle radici ticinesi

«Ragazzo in cima a un poggio verso sera / seduto solo masticando un fiore / […] o nuvole sognanti e gondoliere / poter fuggir con voi dall’orizzonte…». Quanti gli orizzonti che Fosco Maraini, in questi versi ancora giovane poeta, ha scorto in vita, quante le nuvole che ha inseguito, incontrato, raccontato, toccato e, alla fine, immortalato nei suoi sublimi scatti in bianco e nero ma anche nel suo trattato Principii di Nubignosia (di recente ripubblicato da La nave di Teseo con il titolo Il Nuvolario), libricino che nella sua versione originale Maraini regalò a sua figlia Tonia con una speciale dedica: «Per Tonina perché guardi le nuvole con rinnovato interesse, Pà!».

Con il naso all’insù e quello stesso rinnovato interesse le contempliamo anche noi in mostra, le nuvole, insieme alle duecentoventitré fotografie che sui due piani di Villa Malpensata, testimoniano il percorso esistenziale di un uomo affascinante e profondo, dai tanti talenti e dalle mille risorse che dalla sua Firenze, dove nacque il 15 novembre 1912, figlio di Antonio Maraini, noto scultore di antica famiglia ticinese e della scrittrice Edith Crosse, prese presto il volo alla scoperta del mondo e delle sue genti. Etnologo, antropologo sui generis, studioso della lingua e della cultura orientale, scrittore, cineasta, fotografo e alpinista, Fosco Maraini fu tutto questo e molto altro ancora. Francesco Paolo Campione, direttore del MUSEC, che ha voluto e curato questa mostra per onorare i vent’anni dalla sua scomparsa l’8 giugno 2004, durante la conferenza stampa in occasione dell’inaugurazione qualche giorno fa, ha ricordato il profondo legame che li univa: «C’è stato un periodo in cui andavo a trovarlo ogni tre giorni. Andavamo a pranzo alla trattoria Da Ruggero e facevamo lunghe chiacchierate. È stata una delle esperienze più belle e più importanti della mia vita per l’amicizia che avevamo e per aver incontrato uno specialissimo modo di guardare il mondo».

Percorso espositivo

Uno sguardo particolare che chi visita la mostra avrà la fortuna di poter condividere e abitare per un attimo seguendo le quattordici tappe cronologiche e tematiche che danno il ritmo ad un percorso espositivo di grande respiro e di grande bellezza estetica e spirituale. Il viaggio fotografico parte con i paesaggi montani e le macrofotografie naturalistiche degli esordi e si conclude con l’unica sezione di fotografie a colori realizzate negli stabilimenti delle Acciaierie e Ferrerie Falck di Sesto San Giovanni a Milano. Qui Fosco Maraini ritrae «la felice congiunzione di tre suoi diversi interessi: le architetture della civiltà industriale, la fotografia a colori e la ritualità del fuoco», come recita il catalogo che accompagna e valorizza l’esposizione con la quale condivide il titolo L’immagine dell’empresente. Fosco Maraini. Una retrospettiva. Nel mezzo ci sono i suoi viaggi e i suoi reportage in Tibet - ci andò nel 1937 e poi di nuovo nel 1948. A questo periodo appartiene la Musicista girovaga (1937) ritratta qui sopra; la sua stagione giapponese che inaugurò nel 1939 a Sapporo nell’isola di Hokkaido grazie ad una borsa di studio (qui entrò in contatto con l’arte e la religione degli Ainu, popolo di origine siberiana, che costituiva la più antica etnia del Giappone e manteneva ancora viva una parte dei propri

costumi tradizionali); la stagione greca del 1951 legata alla cinematografia; gli scatti siciliani commissionati nello stesso anno da un’agenzia governativa statunitense in cui Maraini compì un censimento dei mosaici normanni in Sicilia catturando gli scorci interni degli edifici, le scene e le figure degli apparati musivi; poi, ancora, gli scatti di donne, uomini e bambini dell’Italia meridionale inizio anni 50. L’etnologo con il suo obiettivo entra nelle loro vite catturandone «i sentimenti, le emozioni, la bellezza ineffabile che derivava da una segreta armonia con il paesaggio e con le architetture». Colpiscono, in particolare, i volti e gli sguardi dei bambini. Ad esempio Le due sorelline bionde che si stringono in un abbraccio mentre gli occhi azzurri e severi sembrano fissare un preciso punto nello spazio, o Il primo giorno di scuola di uno scolaro con il suo grembiule nero e il colletto bianco seduto sulle scale che tiene sottobraccio la cartella di cuoio. Iconiche sono anche quelle dei vicoli di Napoli affollati di gente, fiori e panni stesi.

L’immagine dell’empresente

Abbiamo raccontato la mostra ma non abbiamo ancora detto del titolo e

lo facciamo con le parole del curatore che definisce l’empresente «la possibilità, la capacità di entrare in un breve ma profondo circuito dell’esistenza» e catturarlo, immortalarlo per sempre. Ancora meglio, ce lo spiega il suo testo introduttivo al catalogo (Skira) in cui ci dice che il momento empresente è «il presente che emerge, l’attimo in divenire in cui si materializza l’esperienza». Per poi aggiungere che la grandezza dell’empresente di Maraini sta nella voglia e nello slancio di condividere «il gusto della gioiosa esperienza dell’universo». Un’esperienza di vita, dell’esistenza umana che costantemente tendeva verso l’alto con sguardo profondo ed empatico nutrito dall’incontro con il diverso, l’esotico, lo sconosciuto, l’impervio. «Fosco Maraini guardava il mondo con occhi chiari, senza ipocrisia, con un’immensa voglia di vivere», dice il direttore del MUSEC.«Approfondiva tutto, non c’era argomento su cui non fosse preparato. Per Fosco la conoscenza era il fine ultimo della vita. Aveva una visione del mondo libera, concreta, laica, luminosa, sportiva. Era complicato stargli dietro, era difficile per l’altezza, l’altezza del suo pensiero anche se partiva da elementi molto concreti. La fotografia era il

sola di Hèkura che pure si possono ammirare in mostra. Si resta estasiati dinanzi ai loro corpi morbidi e armoniosi, così fluidi nel movimento, e ci cattura l’energia luminosa di quegli occhietti neri incastonati nei giovani volti femminili e sorridenti. Scatti possibili perché Fosco Maraini era un sommozzatore, così come un esperto alpinista e molti dettagli delle Chiese normanne di Sicilia li fotografò arrampicandosi a 35 metri di altezza salendo su ponteggi precari.

Le nuvole

collante della sua visione del mondo. Coltivava l’umanità nella profondità di uno sguardo».

Uno sguardo al quale la mostra rende omaggio con il preciso intento di riconoscere a Fosco Maraini un ruolo da protagonista e da maestro nella fotografia del Novecento «per la sua capacità di visione, capacità tecnica, sperimentazione di diversi linguaggi, capacità di scegliere soggetti straordinari», sottolinea Francesco Paolo Campione che poi si sofferma sul concetto di fotografia per Maraini: «La fotografia era per lui un progetto esistenziale che faceva della cultura un asse fondamentale della vita». Nei due anni di lavoro che hanno preceduto la mostra sono stati analizzati 75’000 negativi e tutte le foto scelte sono state stampate a partire da pellicole originali nel rispetto del formato. Un grande lavoro è stato fatto anche nel risalire alle diverse macchine fotografiche usate da Maraini nei diversi reportage, ad esempio la vecchia Rolleicord 6x6 usata per lo straordinario viaggio nell’Italia meridionale insieme all’editore Diego De Donato, oppure la Leica IIIa con obiettivo Leitz-Summicron 50 mm f/2 che utilizzò per le fotografie subacquee delle pescatrici dell’i-

Le nuvole sono muse e accompagnatrici per tutto il viaggio museale, ma è quando arriviamo nella sala a loro dedicata che viviamo un vero tripudio atmosferico e sentiamo l’animo sobbalzare. Proprio come nell’immagine qui a lato dal titolo Nuvole e sale (Tibet,1937). Guardarla è come sentire tutta la tensione spirituale di Fosco Maraini nel tentativo di cogliere i meravigliosi misteri della natura. Grande oggi è il privilegio che ci viene offerto di poterci specchiare dentro come fanno le nuvole sull’acqua. La sensazione è quella che sotto e sopra, terra e cielo, siano un tutt’uno nel mutuo scambio di vapori ed energie. Viene in mente l’Aurea Catena Homeri Una descrizione dell’origine della natura e delle cose naturali (Lipsia, 1738), testo su cui si è formato il pensiero di Goethe la cui produzione letteraria era affollata di nuvole di ogni sorta, proiezioni simboliche dell’interiorità. E se Goethe, studiando il trattato inglese di Luke Howard, Saggio sulle modificazioni delle nuvole (1815), ne riconosceva quattro tipi e cioè lo strato, il cumulo, il cirro e il nimbo, Fosco Maraini nel suo trattato immaginario dei Principii di Nubignosia classifica le nuvole in tre categorie: Iperionti, Perioniti e Iponti. Dei primi, che suddivide in diciotto classi diverse, dice: «Si formano nelle giornate serene, altissimi, quasi immobili. Talvolta suggeriscono dei graffi nel cielo, donde il loro nome. Se sono un poco più consistenti sembrano delle penne cadute dalle ali di mitici volatili cosmici.» Esplorata la fotografia, cosa resta ancora da mettere a fuoco di Fosco Maraini? «La parte letteraria, dice Francesco Paolo Campione. C’è un Maraini narratore, linguista e poeta che va ancora inquadrato». A questo proposito ci sono le sue Fànfole, poesie che fanno a meno della semantica lessicale e si servono di parole inventate. Durante le ricerche che hanno accompagnato il progetto di questa mostra sono stati rinvenuti tre componimenti metasemantici inediti di cui nel catalogo ci parla Daniele Bagnoli, Professore di Storia della lingua italiana all’Università Ca’ Foscari Venezia e ricercatore. Proprio lui, domani 18 giugno alle ore 18:00, sarà al Parco Ciani ospite della Biblioteca Cantonale di Lugano che con il direttore Stefano Vassere e in collaborazione con il MUSEC organizza un incontro dal titolo Lonfi, beghi e lupigne. Le Fànfole di Fosco Maraini.

Dove e quando

L’immagine dell’empresente. Fosco Maraini. Una retrospettiva, Villa Malpensata, Lugano fino al 19 gennaio 2025. Orari: lu-me-gio-ve: 11.00-18.00; sa-do e festivi: 10.00-18.00. ww w.musec.ch

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Fosco Maraini/Gabinetto Viesseux © Archivi Alinari Fosco Maraini/Gabinetto Viesseux © Archivi Alinari

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L’emozione di incontrare Muti

Musica ◆ Etienne Reymond ripercorre il suo decennio fortunato al LAC

Era il 2013, la musica non risuonava ancora al LAC, ma al Palazzo dei Congressi, e le grandi orchestre internazionali si esibivano al Lugano Festival. In quella stagione Etienne Reymond (nella foto) veniva nominato direttore artistico e amministrativo della rassegna, con lo scopo di portare nel nuovo polo culturale cittadino la classica nelle sue migliori espressioni. Lunedì prossimo 24 giugno alle 20.30 arriverà Simon Rattle alla guida della Chamber Orchestra of Europe, l’ultimo concerto della stagione 2023-24 e l’ultimo che vedrà Reymond nel ruolo di direttore artistico (e un’ora prima sarà proprio lui a presentare al pubblico il programma). Ha comunque disegnato anche la prossima stagione (i grandi solisti e le grandi orchestre hanno agende congestionate e devono essere «prenotate» con anticipo) che prenderà in mano il triestino Andrea Amarante, designato nuovo direttore artistico settore Musica del LAC.

Maestro Reymond, come sta vivendo questi momenti?

Bene. Credo che le sfide che segnavano il passaggio dal Palazzo dei Congressi al LAC e da una rassegna stagionale come Lugano Festival a una annuale come LuganoMusica siano state vinte.

Poteva dire il contrario?

No, in effetti (ride, ndr). Non voglio fare quello che incensa ogni concerto definendolo «meraviglioso, incredibile», registro e sintetizzo quello che ho visto e sentito in questi anni fino a questi ultimi concerti. Parto dalle tre sfide: posizionare Lugano come grande polo musicale tra Milano e Zurigo; contribuire, assieme a tutti gli altri professionisti coinvolti, a far sì che i luganesi potessero dire che il LAC valesse i milioni di franchi che era costato; infine, ma per Giovanna Masoni Brenni era l’aspetto cruciale, aiutare la crescita culturale della città. Penso che chi ha frequentato il LAC in questi anni possa giudicare se tutto ciò si sia avverato.

Quali i suoi meriti?

Conoscere personalmente i grandi musicisti mi permetteva di avere la possibilità di convincerli a venire a Lugano per debuttare al LAC. Però ho sottolineato di aver lavorato «assieme a»; al primo concerto di Lugano Musica al LAC suonarono

Valery Gergiev e l’orchestra del Mariinskij Teatr; quando glielo proposi mi chiese come fosse l’acustica; quando seppe che era stata realizzata dello Studio BBM di Müller accettò. Io lo conoscevo, ma non avevo certo né costruito la sala né scelto chi si occupasse dell’acustica. E a proposito di ringraziamenti, fu Pietro Antonini (suo predecessore alla guida di Lugano Festival, ndr.) a segnalarmi il concorso per l’incarico.

In effetti in queste stagioni è riuscito a portare a Lugano quasi tutti i massimi interpreti della classica.

Ricordi particolari?

Tanti, troppi, e mi scuso fin d’ora di quelli che non ci staranno negli spazi consentiti da questa intervista (altro sorriso, ndr). Vorrei ricordare che il primo «artista in residenza» fu un giovane e al tempo semi sconosciuto pianista che veniva da Niznij Novgorod, un certo Daniil Trifonov. Per lui un recital, il Concerto K 271 di Mozart e una serata liederistica con Matthias Goerne. Mi avvicinò una coppia luganese dicendomi: «Qualche giorno fa eravamo a New York e abbiamo assistito a un recital di Trifonov; ritrovarlo a Lugano ci ha sorpresi»; mi ha confermato che stavo percorrendo la strada giusta per promuovere la centralità di Lugano come polo musicale. Poi, ovviamente, le sue tre esibizioni folgorarono il pubblico: una sorpresa palpabile per l’incanto sonoro che quel giovane sapeva creare facendo volteggiare le sue mani sulla tastiera.

Dal poco più che ventenne al quasi novantenne Bernard Haitink, che scelse proprio il LAC per i suoi ultimi concerti con l’orchestra Mozart. Un mito vivente, per lui arrivarono gruppi da Londra. Credo che l’applauso più lungo in questi anni sia stato quello alla fine della sua interpretazione della sinfonia La grande di Schubert.

L’applauso più lungo all’inizio?

Forse quello tributato a Riccardo Muti quando salì sul podio, davanti all’orchestra Cherubini. Mi permetto una confessione personale: andai io a prenderlo all’aeroporto; quando lo vidi venirmi incontro mi emozionai, pensando: «Ecco, è venuto apposta per noi». Anche gli applausi che salutarono l’ingresso sul palco di Maurizio Pollini e Radu Lupu,

L’Aida e le ciliegie

Carteggio ◆ Lo scambio tra Verdi e Ghislanzoni raccolto in un’edizione critica in due volumi

Giovanni Gavazzeni

«L’interesse di un melodramma deve, a parer mio risultare quasi esclusivamente dai fatti, e questi fatti che si svolgono sulla scena debbono in certo modo essere comprensibili all’occhio. Un intreccio di avvenimenti e di passioni che si rendano percettibili allo spettatore a mezzo dei sensi».

due leggende del pianoforte, furono clamorosi.

Sono poi venuti i Wiener e i Berliner Philharmoniker, il Concertgebouw di Amsterdam, Petrenko con la Bayerisches Staatsorchester, Antonini con la sua orchestra di strumenti d’epoca; ci sono delle stelle che non è riuscito a portare?

Daniel Barenboim, con cui non trovammo mai una data utile; ci teneva, anche perché adora un vino ticinese, Riflessi d’epoca (altra risata, ndr)! E Anne-Sophie Mutter. Mi spiace anche non aver riportato Muti con la Chicago, i Wiener e i Berliner; avevo la loro disponibilità, ma non quella della sala: una volta c’era una replica di West Side Story, un’altra FIT… Sono i problemi della convivenza, ma capisco l’importanza del teatro e in particolare del teatro di prosa per il LAC.

Altri problemi?

All’inizio c’era il timore che la sfilata delle grandi orchestre internazionali potesse in qualche modo sminuire o addirittura nuocere alla OSI; credo che il tanto, tantissimo pubblico che la segue sia la risposta incontrovertibile che non solo LuganoMusica non abbia fatto concorrenza, al contrario, perché ha stimolato la curiosità musicale dei luganesi.

Quindi vinte anche le altre due sfide.

Non solo con i grandi nomi, cui vorrei aggiungere progetti indimenticabili come i percorsi da Monteverdi a Bach di Luca Pianca, i concerti di Diego Fasolis o l’Offerta Musicale bachiana interpretata da Ton Koopman, ma anche con i cicli dedicati ai quartetti e al Novecento, con la creazione, tra l’altro, del LuganoMusica Ensemble. Mi ha riempito di orgoglio ascoltare al LAC i quartetti di Ligeti, Et expecto resurrectionem di Messiaen suonato da Riccardo Chailly e la Filarmonica della Scala, nuove opere di Eric Montalbetti e Jörg Widmann.

Che cosa farà dopo l’esperienza luganese?

Continuerò a vivere qui, si sta benissimo! E rimarrò nella musica; ho degli impegni a Parigi, mi piacerebbe creare delle rassegne da camera; leggere tanto e pensare a qualche formula per raccontare la musica.

Chi scrive nel 1877 questo manifesto intitolato Del libretto per musica, è Antonio Ghislanzoni (1824-93; ritratto nella foto), tipico esponente della Scapigliatura lombarda, cresciuto sotto l’egida dello scrittore dei Cento anni, Giuseppe Rovani, che in un alternarsi bizzarro di ritorni e di abbandoni, scrisse ottantasette libretti per musicisti di primo piano come Ponchielli, Gomes e Catalani. Però è ricordato solo per quello che scrisse per Verdi, Aida Quanto Ghislanzoni sottolineava, il primato dei fatti che diventano evidenza assoluta, era una declinazione del concetto che Verdi comunicò al librettista fin dall’inizio della loro collaborazione (iniziata saggiandolo col rimetter mano al nuovo finale «manzoniano» della Forza del Destino e a due scene capitali del Don Carlo), vale a dire il famoso concetto della parola scenica: «Io intendo dire la parola che scolpisce e rende netta ed evidente la situazione», concetto guida collegato al non meno fondamentale avvertimento che «quando l’azione lo domanda abbandonerei subito ritmo, rima, strofa, farei dei versi sciolti per poter dire chiaro e netto tutto quello che l’azione esige.»

Il Carteggio 1870-1893, fra Verdi e Ghislanzoni, vede ora la luce in due ricchi volumi, frutto del lavoro a sei mani dei curatori Ilaria Bonomi, Edoardo Buroni e Marco Spada, pubblicato dall’Istituto di Studi Verdiani di Parma nella benemerita Edizione Nazionale dei Carteggi e Documenti verdiani

Un Carteggio guarnito da ricche appendici che raccontano l’insolita gestazione di un’opera, attraverso le biografie del lungimirante committente, il pascià di origini cipriote Dranet Bey, che ne fece l’avvenimento di punta delle celebrazioni per l’apertura del canale di Suez, dell’autore dello Scenario, l’impresario e librettista Camille du Locle che lo aveva realizzato su indicazioni dell’erudito egittologo François-Auguste Mariette, dei resoconti di viaggio (Lettere egiziane), del racconto della rocambolesca prima al Cairo e delle dettagliate critiche del battesimo alla Scala, scritte dall’illustre critico musicale Filippo Filippi. Il montaggio del libretto che il Ghislanzoni realizzò seguendo lo Scenario, ma soprattutto le indicazioni e le intuizioni di Verdi, «disposto a fare, rifare, voltare, cambiare mille volte, piuttosto che cento, fino a che Ella, illustre Maestro, sarà pienamente soddisfatto», come l’abile tessitore della nuova opera, l’editore Giulio Ricordi, rassicurava il compositore. Ricordi ben sapeva che Verdi avrebbe apprezzato nel nuovo collaboratore il fatto che prima di fare il giornalista e di fondare e dirigere tante riviste, il «librettajo» Ghislanzoni aveva mescolato alla passione politica una carriera da baritono verdiano, toccando il momento di gloria nel ’51 agli Italiens di Parigi, quando cantò parte del re Carlo d’Asburgo nell’Ernani, e mentre il suo personaggio veniva incoronato imperatore come Carlo V, il Presidente della Repubbli-

ca francese si proclamava con un colpo di stato imperatore Napoleone III. La partecipazione alle Cinque Giornate di Milano costrinse Ghislanzoni a riparare prima all’albergo S. Michele di Chiasso e poi a Lugano dove conobbe Mazzini, finendo arrestato e incarcerato a Bastia dai francesi nel tentativo di raggiungere la Repubblica romana e Garibaldi.

Il Ghislanzoni baritono verdiano aveva girato i teatri di provincia italiani e francesi, a volte facendo l’impresario, il regista e il capocomico. Negli anni delle serate all’osteria con Rovani, Ghislanzoni raccontava agli amici del Caffè Martini, di essersi presentato al suo albergo a Milano lasciando esterrefatti gli inservienti in costume da generale romano: aveva cantato Ezio nell’Attila di Verdi a Codogno e riteneva superfluo cambiarsi per tornare a Milano.

Le stravaganze del baritono e del giornalista scapigliato non riguardarono il rispettoso librettista per Verdi. Mantenne il proposito di «secondare in tutto o avvicinarsi alle idee preconcette del maestro evitando l’assurdo»; di «escludere il riempitivo, tutto quanto non abbia un rapporto diretto colla azione, o distragga lo spettatore dal soggetto principale», rassegnato al fatto che quando va male «la colpa è sempre dei librettai».

E certe inverosimiglianze contro le quali aveva fatto le sue rimostranze gli furono attribuite dal Filippi alla prima della Scala: «Lo spettatore non si affanna a domandare se il prigioniero Amonasro possa irsene a zonzo nella reggia de Faraoni, se possa fuggire così facilmente, e in qual modo Aida discenda poscia nel sotterraneo senza sapere come uscirne, e vivendo tre giorni senza mangiare». «Hanno ragione i letterati che si ammazzano… aprirò una botteguccia di commestibili, fors’anche una piccola osteria, e la farò finita col mestiere delle lettere»: minaccia espressa a Ricordi nel ’73 quando Aida entrava nel repertorio. Abbandonò Milano prima per Malgrate (Lecco), per stare vicino a Gomes e Ponchielli, poi si spostò a Caprino Bergamasco, dove il Sur Togn morì senza un soldo (Verdi avvertito gli mandò subito un assegno pietoso), dopo aver raccomandato alla domestica di portargli in camera i bimbi del paese e di distribuire loro un canestro di ciliegie, episodio vero del 16 luglio 1893.

Bibliografia

Carteggio Verdi-Ghislanzoni Ediz. critica, curatori Ilaria Bonomi, Edoardo Buroni e Marco Spada, Istituto Nazionale Studi Verdiani, Parma, 2024.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 17 giugno 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 41
LuganoMusica
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Moon&Stars, 20 anni di musica in Piazza Grande

Festival ◆ L’11 luglio Opening Night con biglietti al prezzo di 39 CHF, a seguire una serie di concerti imperdibili. Migros sostiene la kermesse fin dalla prima edizione

La prima edizione di Moon&Stars si è svolta due decenni fa. Da allora, gli amanti della musica di tutta la Svizzera si recano in Ticino, e più in particolare a Locarno in Piazza Grande per trascorrere indimenticabili serate estive e concerti leggendari, ma ora è arrivato il momento di festeggiare con un’edizione-anniversario fenomenale e una serie di grandi offerte speciali. Per la prima volta nella storia di Moon&Stars, il festival si aprirà con una Opening Night, giovedì 11 luglio, e per l’occasione i biglietti saranno disponibili all’imbattibile prezzo di 39 CHF.

Sarà perché ti amo!

I Ricchi e Poveri, le leggende del pop italiano per eccellenza, apriranno la

Concorso

«Azione» mette in palio 15x2 biglietti per la serata inaugurale di Moon&Stars di giovedì 11 luglio 2024. Per partecipare al concorso mandare una e-mail a giochi@azione.ch (oggetto «Moon&Stars») indicando i propri dati entro domenica 23 giugno 2024 (estrazione 24 giugno). Buona fortuna!

serata. I Ricchi e Poveri non sono tornati sulla cresta dell’onda solo per avere partecipato all’edizione 2024 di Sanremo con Ma non tutta la vita, ma anche perché nel 2023 la hit Sarà perché ti amo è tornata in classifica grazie ai tifosi del Milan e da allora è trendy su tutti i social media. Saranno loro ad aprire la serata. La band, fondata a Genova, ha debuttato nel 1968. Da allora ha deliziato il pubblico internazionale con successi come Mamma

Maria, Voulez-vous danser e Che sarà Da vere e proprie leggende sanremesi, hanno portato l’Italia all’Eurovision Song Contest del 1978.

Italodisco in Piazza Grande

Il trio italiano, composto da «Stash» Fiordispino, Alex Fiordispino e Dario Iaculli, è noto per il suo stile stravagante. Musicalmente i tre si sono fatti ispirare da grandi personaggi e stelle del pop come Giorgio Moroder e i Righeira. I tre artisti condividono una fervente passione per la musica rock ed elettronica, e per questo motivo nel 2009 hanno unito le forze e sono nati i The Kolors, che hanno cominciato la loro carriera esibendosi come band fissa in uno dei club più famosi di Milano: Le Scimmie.

Dopo un MTV award, 4,7 milioni di ascoltatori su Spotify, tre album in studio e diversi dischi di platino, anche i The Kolors si esibiranno in Piazza Grande.

Dancing with Gabry Ponte

Per chiudere in bellezza, calcherà il palcoscenico di Moon&Stars Gabry Ponte, uno dei più noti DJ e produttori italiani (ha collaborato con Zucchero, Jovanotti, Marracash e molti altri), che sarà capace di fare tremare Piazza Grande. Grazie a successi come Monster, Easy On Me, We Could Be Together, ma soprattutto Blue, il disc jockey torinese classe 1973 sa incantare il pubblico di tutto il mondo. Lo promettiamo sin d’ora: si festeggerà e si ballerà fino a tarda notte!

Music&Food

Ma questo è solamente l’inizio di una serie di lunghe serate sotto il cielo stellato, per vivere la magia dell’estate ballando alle note della migliore musica del momento e del passato. Dall’ 11 al 21 luglio Moon&Stars propone infatti numerosi concerti che sapranno accontentare tutti i gusti; non solo musica italiana, ma anche rock, rap,

Dove ci portano i fili del teatro

Spettacoli ◆ A giugno a Bordei in Festa arriva Fopiatt – tra Vecchio e Nuovo

Del progetto In dialogo. Lungo i fili dell’arte, del linguaggio e della comunicazione, il teatro inclusivo che mette in contatto le culture, nato dalla collaborazione tra l’Accademia Dimitri, Teatro Zigoia e il centro di competenze Bisogni educativi, scuola e società (BESS) del DFA/SUPSI, avevamo parlato con Demis Quadri, professore di Ricerca e didattica in Physical Theatre, docente di teoria e storia del teatro all’Accademia Teatro Dimitri affiliata alla SUPSI, a inizio anno (vedi numero 2 di «Azione» 2024). Si tratta di un lavoro che vuole rafforzare la partecipazione culturale e la coesione sociale del territorio attraverso l’attività artistica. Come? Coinvolgendo direttamente la popolazione nella pratica artistica, intesa come strumento di trasformazione e di nascita di nuove forme di identità collettiva.

Fopiatt – tra Vecchio e Nuovo è il titolo dello spettacolo site-specific itinerante che conclude un lungo e appassionante percorso di storie raccontate e vissute in natura in diverse tappe con diverse rappresentazioni come Accendere un fuoco e Prepararsi all’inverno che hanno coinvolto e interessato i territori e le persone delle Centovalli e Onsernone. L’appuntamento per il gran finale sarà il 28, il 29 e il 30 giugno alle 19.30, nella cornice di Bordei in Festa (Centovalli).

Protagonisti della performance, dello spettacolo che vuole essere occasione di avventura, condivisione e scoperta, saranno attrici e attori, professionisti e non, di provenienze, culture, età e percorsi di vita diversi. Oltre allo spettacolo, in programma ci sono atelier, concerti, momenti mangerecci. Ci sarà la Messa di San Pietro e Paolo & gruppo vocale Cantadonna, l’atelier di pittura libera con Edith Arnold, l’introduzione alle er-

cantautorato, hard rock e molto altro. Oltre alla Piazza Grande ci saranno anche la Piazza Piccola, con la sua ruota panoramica, nel cuore della Food&Music Street (dove, mangiando e bevendo, si potranno ammirare gratuitamente numerosi cantanti e musicisti) e il Bambini Stage, su cui torneremo nel prossimo numero.

Gli altri concerti in programma

Venerdì 12 luglio aprirà le danze il gruppo hard rock svizzero Krokus (ore 20.00) per poi lasciare il palco a un altro gruppo mitico come i britannici Status Quo (21.45).

Sabato 13 luglio sarà all’insegna della musica svizzero tedesca, con il concerto della giovane Kings Elliot (19.30) e con i bernesi Patent Ochsner (21.00).

Domenica 14 luglio si aprirà con Joris (18.15) e la musica del cantante irlandese-americano Michael Patrick Kel-

to del tedesco Wincent Weiss (21.20)

Lunedì 15 luglio si prosegue con la cantautrice e chitarrista britannica Corinne Bailey Rae (19.30), che saprà scaldare il pubblico per il ritorno del carismatico Lenny Kravitz (21.15).

Mercoledì 17 luglio la scena sarà dei britannici, dapprima con l’inglese Calum Scott (20.00), poi con il rock energetico degli scozzesi Snow Patrol (21.45).

Venerdì 19 luglio aprirà la serata il rapper svizzero Stress (v. intervista «Azione» 27 maggio 2024) per un evento MTV Unplugged (20.00), che sarà seguito dalla musica del tedesco Peter Fox (21.45).

Sabato 20 luglio, nella serata conclusiva, si omaggerà nuovamente la Svizzera di lingua tedesca, con la sangallese Joya Marleen (19.00) e la band lucernese Hecht (21.00).

Informazioni e prenotazioni www.moonandstars.ch

Contratto Determinato (80-100%)

Data d’inizio

Inizio da concordare – fino a febbraio 2025

Mansioni Sviluppo piani esecutivi e di dettaglio; Stesura capitolati e richiesta di offerte; Interazione con ditte e operai (pianificazione attività, verifica esecuzione); Partecipazione e coordinazione riunioni di cantiere e direzione lavori su cantiere; Partecipazione a gruppi di progetto interni ed esterni.

Requisiti

be spontanee e commestibili con Sabine Blöchlinger e il concerto di Erri e Kenzo. Eventi e spettacoli sono gratuiti, per partecipare è necessario iscriversi a: mail@teatrozigoia.org entro il 27 giugno. / Red. Informazioni www.accademiadimitri.ch

Diploma di Disegnatore Edile o Assistente Tecnico SAT; Patente di guida (B); Buone conoscenze dei programmi Autocad, Messerli e del pacchetto Office 365; Piacere nello svolgere lavoro in cantiere (interazione con ditte e operai) come rappresentate del committente; Capacità organizzative e forte senso di responsabilità; Capacità di lavoro indipendente; Buone conoscenze di una seconda lingua nazionale.

Candidature da inoltrare collegandosi al sito www.migrosticino.ch, sezione «Lavora con noi» - «Posizioni disponibili».

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Per l’ufficio tecnica e costruzioni, presso la Centrale di S. Antonino, cerchiamo Disegnatore Edile, Assistente Tecnico SAT
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Hit della settimana

weekend
12.50 invece di 21.–Salmone selvatico Sockeye MSC pesca, Pacifico, in conf. speciale, 280 g, (100 g = 4.46), offerta valida dal 20.6 al 23.6.2024 40% 9.70 invece di 19.40 Hamburger M-Classic prodotto surgelato, in conf. speciale, 12 x 90 g, (100 g = 0.90), offerta valida dal 20.6 al 23.6.2024 50% 2.75 invece di 3.95 Pesche piatte Migros Bio Italia/Spagna, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.55), offerta valida dal 20.6 al 23.6.2024 30% Fino a esaurimento dello stock. Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. 12.95 invece di 22.–Filetti di salmone con pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, in conf. speciale, 4 pezzi, 500 g, (100 g = 2.59) 40% Carta igienica o salviettine umide, Soft in conf. multiple o speciali, per es. Supreme alla camomilla, FSC®, 24 rotoli, 14.55 invece di 20.80 30% Tutti i tipi di olio M-Classic per es. olio di girasole, 1 l, 3.50 invece di 4.95 a partire da 2 pezzi 30% 15.45 invece di 23.45 Sminuzzato di pollo Optigal Svizzera, 2 x 350 g, (100 g = 2.21) conf. da 2 34%
imbattibili
del Prezzi Validi gio. – dom.
18. 6 – 24. 6. 2024

Settimana Migros Approfittane e gusta

Tutte le angurie (fette escluse), per es. mini, Spagna/Italia, il pezzo, 3.25 invece di 4.70 30% 18. 6 – 24. 6. 2024

Ciliegie

Tutte le olive non refrigerate (prodotti Alnatura e Demeter esclusi), per es. olive spagnole nere snocciolate M-Classic, 150 g, 1.85 invece di 2.70, (100 g = 1.23)

Svizzera/Italia/Spagna, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.88)

3.50 invece di 5.90

Bistecche di scamone di manzo Black Angus M-Classic Uruguay, in conf. speciale, 2 pezzi, per 100 g 40%

Alette di pollo Optigal al naturale e speziate, Svizzera, per es. al naturale, al kg, 8.40 invece di 12.–, in self-service

Migros Ticino Offerte valide dal 18.6 al 24.6.2024, fino a esaurimento dello stock. Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. Il nostro consigliosettimana:della
30%
invece di 6.60 Evian 6 x 1,5 l, (100 ml = 0.04) conf. da 6 50%
3.30
30%
4.40 invece di 6.60
33%

3.60

2.90

invece di 4.20

Albicocche Migros Bio Italia/Spagna/Francia, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.58) 30%

invece di 5.50 Sélection Melone Francia, al pezzo 34%

3.60

Insalata romana mini Migros Bio Svizzera, 3 pezzi 30%

invece di 5.20

conf. da 2 25%

7.–

invece di 9.40

Mais bio svizzero

Mais dolce Migros Bio pastorizzato, al kg

3.40

Cetrioli da campo Ticino, al kg, (100 g = 0.34) 21%

invece di 4.35

2
Migros Ticino

2.95

invece di 3.95

Patate novelle Migros Bio Svizzera, sacchetto da 1 kg 25%

Consiglio: per farli al forno, lasciarli direttamente sul racemo

Pesce e frutti di mare

Sostenibilità a buon prezzo

3.70 invece di 4.95 Pomodorini ciliegia a grappolo Svizzera/Paesi Bassi, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.74) 25% Da allevamento sostenibile croato

33%

15.90 invece di 23.75

Orata Migros Bio d'allevamento, Croazia, in conf. speciale, 720 g, (100 g = 2.21)

Filetti di sogliola limanda freschi per es. M-Classic, selvatico, Oceano Atlantico nord-orientale, per 100 g, 4.95 invece di 6.20, in self-service 20%

40%

12.95

invece di 22.–

30%

Filetti di salmone con pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, in conf. speciale, 4 pezzi, 500 g, (100 g = 2.59)

2.80

invece di 4.–

Spiedini di gamberi marinati ASC Lemon Pepper, Greek Style o Exotic, d'allevamento, Vietnam, per 100 g, in self-service

Tutti i sushi refrigerati e tutte le specialità giapponesi refrigerate (articoli fatti in casa esclusi), per es. wrap di sushi al salmone affumicato, 240 g, 6.– invece di 7.50, in self-service, (100 g = 2.50) 20%

3 Offerte valide dal
dello stock.
18.6 al 24.6.2024, fino a esaurimento
Migros Ticino

Una festa per il palato e

11.90

4.95

15.45

il
Carne e salumi 4
portafoglio
invece di 4.55 Arrosto di vitello cotto Svizzera, per 100 g, in self-service 15%
invece di 12.70 Bresaola Casa Walser Italia, 2 x 100 g, (100 g = 5.40) conf. da 2 15%
Migros Ticino
3.85
10.70
invece di 7.40 Prosciutto cotto affumicato Migros Bio Svizzera, in conf. speciale, 150 g, (100 g = 3.30) 33%
invece di 23.45 Sminuzzato di pollo Optigal Svizzera, 2 x 350 g, (100 g = 2.21) conf. da 2 34%
invece di 19.90 Sminuzzato di petto di pollo M-Classic prodotto surgelato, 2 x 500 g, (100 g = 1.19) conf. da 2 40% Carne svizzera
invece di 9.90 Landjäger Tradition, affumicato Svizzera, in conf. speciale, 4 x 2 pezzi, 400 g, (100 g = 1.98) 20% 6.90 invece di 8.65 Prosciutto crudo dei Grigioni Migros Bio Svizzera, 100 g, in self-service 20%
7.90
5 Offerte valide dal 18.6 al 24.6.2024, fino a esaurimento dello stock. Migros Ticino 4.95 invece di 6.60 Costata Fiorentina di manzo IP-SUISSE per 100 g, in self-service, (100 g = 4.95) 25% 6.80 invece di 8.50 Fettine fesa di vitello fini IP-SUISSE per 100 g, in self-service 20% 4.85 Mini hamburger M-Classic Svizzera, 6 pezzi, 180 g, in self-service, in vendita nelle maggiori filiali, (100 g = 2.69) 20x CUMULUS Novità 5.90 invece di 7.70 Bistecca di manzo BBQ marinata Migros Bio Svizzera, in conf. speciale, per 100 g 23% 8.90 invece di 11.90 Cipollata di maiale Tradition Svizzera, 2 x 7 pezzi, 500 g, (100 g = 1.78) conf. da 2 25% IDEALE CON 3.40 Lattuga foglia di quercia Migros Bio 150 g, (100 g = 2.27) Hit 2.20 invece di 2.80 Costate di maiale Grill mi, IP-SUISSE in conf. speciale, per 100 g 21% Burger Buns American Favorites per es. con sesamo, pretagliati, 6 pezzi, 300 g, 1.65 invece di 2.10, (100 g = 0.55) 20%

Formaggi, latticini e uova

Se non è bontà questa!

25%

5.–invece di 6.75

Palline di Mozzarella Migros Bio 3 x 150 g, (100 g = 1.11)

1.60 di riduzione

8.20

invece di 9.80

Uova svizzere da allevamento all'aperto Migros Bio

10 + 2 uova gratis, in conf. speciale, 12 x 53 g+

Premiato con la medaglia d'argento al World Cheese Awards

Formaggio a pasta dura M-Classic dolce e piccante, per es. piccante, per 100 g, 3.90 invece di 5.60, prodotto confezionato 30%

20%

6.35

invece di 7.95

Mezza panna e panna intera, Migros Bio, 250 ml per es. mezza panna, 2.55 invece di 3.–, (100 ml = 1.02) 15%

Appenzeller surchoix per 100 g, prodotto confezionato 20%

1.55 invece di 1.95

Parmigiano Reggiano grattugiato Migros Bio 3 x 75 g, (100 g = 2.82)

conf. da 2 –.80 di riduzione

Burro da cucina o burro speciale, Migros Bio per es. burro da cucina, 2 x 220 g, 8.50 invece di 9.30, (100 g = 1.93)

Fontal Italiano per 100 g, confezionato 21%

2.05 invece di 2.60

6
Migros Ticino conf. da 3 conf. da 3

es. discoletti, 3 x 207 g, (100 g = 1.06)

Prodotti da forno 7 Offerte valide dal 18.6 al 24.6.2024, fino a esaurimento dello stock.
Ci puoi fare anche la New-York cheesecake Senza coloranti né conservanti Tutti gli yogurt Excellence per es. ai truffes, 150 g, –.85 invece di 1.05, (100 g = 0.56) a partire da 4 pezzi 20% Philadelphia Original, Balance o alle erbe, per es. Original, 2 x 200 g, 4.40 invece di 5.50, (100 g = 1.10) conf. da 2 20% 3.35 invece di 4.20 Yogurt Twix mix o M&M's 3 x 120 g, (100 g = 0.93) conf. da 3 20%
Emmi Macchiato, Cappuccino o Double Zero, per es. Macchiato, 3 x 230 ml, 5.– invece di 6.30, (100 ml = 0.72) conf. da 3 20%
invece di 9.90
Migros Ticino
Caffè Latte
6.60
conf. da 3 33% Torte alle noci grigionese Migros Bio o engadinese, per es. engadinese, 500 g, 6.35 invece di 7.95, prodotto confezionato, (100 g = 1.27) 20% 2.15 invece di 2.55 Quadratini per 100 g 15% 3.85 invece di 4.55 Tomino del boscaiolo con speck 195 g, (100 g = 1.97) 15%
Millefoglie in conf. speciale, 6 pezzi, 471 g, (100 g =
Hit
Biscotti freschi discoletti, nidi alle nocciole o biscotti al cocco, per
5.40
1.15)

Pasta, pizza e affini

conf. da 3 28%

partire da 2 pezzi

Tutta la pasta Migros Bio (prodotti Alnatura e Demeter esclusi), per es. fusilli integrali, 500 g, 1.80 invece di 2.25, (100 g = 0.36) 20% Tutti i tipi di riso M-Classic per es. Baldo, 1 kg, 2.30 invece di 3.25

Pizze dal forno a legna Anna's Best mini prosciutto o prosciutto & mascarpone, in confezioni multiple, per es. mini prosciutto, 3 x 210 g, 8.50 invece di 11.85, (100 g = 1.35)

Pasta refrigerata Migros Bio fiori al limone e timo o fettuccine, in confezioni multiple, per es. fiori, 3 x 250 g, 13.90 invece di 17.40, (100 g = 1.85)

Tutti i tipi di olio M-Classic per es. olio di girasole, 1 l, 3.50 invece di 4.95

Il piacere delicato del caffè, pronto in un lampo In azione anche noci miste e mandorle

conf. da 2 20%

Spicchi di mango, miscela di noci o mandorle, Sun Queen per es. spicchi di mango, 2 x 200 g, 7.– invece di 8.80, (100 g = 1.75)

Tutti i cereali e i semi, Migros Bio (prodotti Alnatura e sfusi esclusi), per es. fiocchi d'avena svizzeri Migros Bio, fini, 400 g, 1.45 invece di 1.80, (100 g = 0.36) a partire da 2 pezzi

Caffè istantanei Cafino (prodotti bio esclusi), per es. Classic, 550 g, 7.70 invece di 10.95, (100 g = 1.40) a partire da 2 pezzi 30%

Scorta 8
20%
a
conf. da 3
30%
a
30%
partire da 2 pezzi
20%

Fresche azioni per

e aperitivi 9 Offerte valide dal 18.6 al 24.6.2024, fino a esaurimento dello stock. Succo di mele al 100% svizzero Infuso con erbe alpine svizzere Nel reparto frigo
invece di 12.50 Succo
mela M-Classic 10
1 l conf. da 10 30% 13.50 invece
18.–Red Bull Energy
12
250
da 12 25% Tutte
a partire da 2 pezzi 30% Snack
Beef
es.
2
240 g,
invece
15.90,
2.65) conf. da 2 20%
invece
l’aperitivo Snack
8.75
di
x
di
Drink o Sugarfree,
x
ml, (100 ml = 0.45) conf.
le tortine e gli strudel, M-Classic prodotto surgelato, per es. tortine al formaggio, 4 pezzi, 280 g, 2.25 invece di 3.20, (100 g = 0.80)
o menu asiatici, Anna's Best
Momos o Chicken Teriyaki, per
Beef Momos,
x
12.70
di
(100 g =
3.10
di 3.90
Paprika
20%
6
Snacketti Zweifel
Shells, Bacon Strips flavour o Dancer Cream, 2 x 75 g, (100 g = 2.07) conf. da 2
Ice Tea Migros Bio
x 1 l e bottiglie singole da 500 ml, per es. alle erbe alpine svizzere, 6 x 1 litro, 6.80 invece di 8.50, (100 ml = 0.12)
20%
conf. da 6

Gelati dolci e snack zuccherati

l'assortimento Crème d'Or

Quattro diverse varietà di gelato in un'unica confezione 15.50

crispies di frumento per il gusto della croccantezza

7.95

5.65

Dolci
10
e cioccolato
Con
invece
31.–Branches Eimalzin 50 x 25 g, (100 g = 1.24) conf. de 50 50%
di
invece
13.55 Ghiaccioli
conf. speciale, 16 pezzi, 1008 ml,
= 0.79) 41% 10.30 invece di 12.90 Peanut M&M's in conf. speciale, 1 kg 20% Tutto
prodotti
spacchettati
per es. Vanille Bourbon, 1 litro,
invece di 10.95 a partire da 2 pezzi 20%
di
Ice Party surgelati, assortiti, in
(100 ml
surgelati (art.
esclusi),
8.80
invece di 8.10 Petit Beurre M-Classic con cioccolato al latte o cioccolato fondente, 3 x 150 g, (100 g = 1.26) conf. da 3 30% 27.–invece
Tavolette
Frey assortite, 20 x 100 g, (100 g = 1.35) conf. de 20 40%
di 45.50
di cioccolato

Prodotti per l'igiene orale Candida in confezioni multiple, per es. collutorio Parodin, 2 x 400 ml, 6.75 invece di 9.–, (100 ml = 0.85)

Tutti i rasoi usa e getta da donna e da uomo Bic (confezioni multiple escluse), per es. Twin Lady, 10 pezzi, 1.60 invece di 3.25

da 2 20%

Dischetti di cotone Primella o bio e bastoncini ovattati Primella per es. dischetti di ovatta, 2 x 80 pezzi, 3.10 invece di 3.90

invece di 11.85

11 Offerte valide dal 18.6 al 24.6.2024, fino a esaurimento dello stock. Delicatissimo 6.50 Listerine Total Care Extra Mild 500 ml,
ml
20x CUMULUS Novità 9.95 Spazzolini soft Candida Multicare (1 pz. = 1.66) conf. da 6 Hit
Per un buon alito e un aspetto curato Bellezza e cura del corpo
(100
= 1.30)
50% 7.90
Shampoo
conf. da 3 33%
Nivea per es. Classic Care Mild, 3 x 250 ml, (100 ml = 1.05)
conf. da 2
25%
conf.

Una faccenda pulita

a partire da 2

50%

Tutti i detersivi Total (confezioni multiple e speciali escluse), per es. 1 for All, in conf. di ricarica, 2 litri, 8.– invece di 15.95, (1 l = 3.99)

Tutti gli ammorbidenti Exelia per es. Florence, in conf. di ricarica, 1,5 litro, 4.20 invece di 6.95, (1 l = 2.78) a partire da 2 pezzi 40%

Diversi tipi di strumenti indispensabili per pulire e lavare

a partire da 2 pezzi 20%

Tutte le spugne Miobrill per es. strong, 3 pezzi, 1.60 invece di 1.95, (1 pz. = 0.52)

da 3 20%

Carta igienica o salviettine umide, Soft in conf. multiple o speciali, per es. Supreme alla camomilla, FSC®, 24 rotoli, 14.55 invece di 20.80 30% 7.65 invece di 9.60 Manella per es. verbena agrumi, 3 x 500 ml, (100 ml = 0.51)

Detergente o igienizzante per lavatrice Dettol per es. igienizzante, 2 x 1,5 litro, 15.90 invece di 19.90, (1 l = 5.30) conf. da 2 20% 18.75 Calgon Hygiene+ 52 pastiglie

Casalinghi 12
Calgon
conf.
20%
in conf. multiple o speciali, per es. Power Gel, 2 x 750 ml, 15.90 invece di 19.90, (1 l = 10.60)
da 2
Hit
conf.
pezzi
13 Offerte valide dal 18.6 al 24.6.2024, fino a esaurimento dello stock. Eccellentiantiaderentiproprietà Batteria di pentole Basic Kitchen & Co. per es. padella a bordo basso, Ø 24 cm, il pezzo, 12.55 invece di 17.95 30% Tutto l'assortimento Tangan per es. pellicola d'alluminio N° 42, 30 m x 29 cm, 1.85 invece di 2.60 a partire da 2 pezzi 30% 44.95 invece di 68.85
3 x 3 pezzi conf. da 3 34% 14.95 Tazze Kitchen & Co. 250 ml set da 4 Hit Tutti i tovaglioli, le tovagliette e le tovaglie di carta, Kitchen & Co., FSC® (prodotti Hit esclusi), per es. tovaglioli bianchi, 33 x 33 cm, 25 pezzi, –.95 invece di 1.30 a partire da 2 pezzi 30% 34.95 Caraffa filtrante Brita Style Eco Glacier 2,4 litri, il pezzo Hit
Cartucce filtranti per acqua Maxtra Pro Brita

Per chi ha buon fiuto

LO SAPEVI?

I pannolini costumino Pampers Splashers calzano come un costume da bagno ma proteggono come un pannolino. Così i bambini possono sguazzare nell'acqua indisturbati senza che i pannolini assorbano l'acqua. La fascia elastica in vita avvolge perfettamente il pancino e rende facile infilare e sfilare il pannolino.

Tutti i pannolini Pampers (confezioni multiple escluse e pannolini da bagno), per es. Premium Protection, tg. 1, 24 pezzi, 6.55 invece di 9.75, (1 pz. = 0.27)

Tutti i tipi di latte e pappe, Nestlé (latte Pre e latte di tipo 1 esclusi), per es. Beba Optipro Bio 2, 800 g, 18.90 invece di 26.95, (100 g = 2.36)

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Varie 14 Puro cotone 14.95 Slip midi da donna Essentials disponibili in diversi colori, tg. S–XXL conf. da 5 Hit
per le offerte
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0.75) Hit 19.95 Boxer
conf. da 5 Hit
=
S–XXL
30%
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3 pezzi 33%
partire da

Prezzi imbattibili del weekend

15 Offerte valide dal 18.6 al 24.6.2024, fino a esaurimento dello stock. Tagliare i gambi e mettere il mazzo in acqua tiepida 11.95 invece di 14.95 Bouquet di girasoli M-Classic il bouquet 20% 6.65
di 9.95 Phalaenopsis, 2 steli disponibile in diversi colori, in vaso, Ø 12 cm, il vaso 33% 9.95 Rose Grande Fairtrade disponibili in diversi colori, mazzo da 10, lunghezza dello stelo 50 cm, il mazzo Hit 12.50 invece di 21.–Salmone selvatico Sockeye MSC pesca, Pacifico, in conf. speciale, 280 g, (100 g = 4.46), offerta valida dal 20.6 al 23.6.2024 40% 9.70 invece di 19.40 Hamburger M-Classic prodotto surgelato, in conf. speciale, 12 x 90 g, (100 g = 0.90), offerta valida dal 20.6 al 23.6.2024 50%
invece di 3.95 Pesche piatte Migros Bio Italia/Spagna, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.55), offerta valida dal 20.6 al 23.6.2024 30%
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