Azione 27 del 4 luglio 2022

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Anno LXXXV 4 luglio 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

Pagine 2 / 4 – 5 ●

SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Cambiare il modo in cui si pensa all’età sarebbe in grado di allungare l’aspettativa di vita

Fino agli inizi del Duemila, prima che il telefonino si tramutasse in altro, le foto erano solo di carta

La sentenza che cancella il diritto costituzionale all’aborto evidenzia la «guerra civile» che lacera gli Usa

La casa di Monet a Giverny inaugura la serie sulle dimore che hanno ispirato artisti e scrittori

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Ti-Press

L’Ucraina riparte da Lugano?

Zafesova e Borla

Cosa è restato degli Anni 80 Simona Sala

«Fortunato chi ha fatto gli Anni 80» è una constatazione che capita sempre più spesso di sentire. E se sulle prime veniva liquidata con una scrollata di spalle, anche perché sempre pronunciata da persone molto giovani, e addotta a quella nostalgia per ciò che le idiosincrasie del film della vita naturalmente ci impediscono di vivere (come meravigliosamente raccontato in Midnight in Paris di Woody Allen), con il tempo vi si riconosce un fondo di verità. In quegli anni a tutti gli effetti appartenenti a un’altra epoca, il morale era alto, e lo raccontavano la musica pop-elettronica, che riascoltata oggi suona quasi «classica», autori come Eco, Irving o Kundera, la moda con le sue spalline esagerate e i colori sgargianti, gli yuppies frenetici di Wall Street, dove tutto sembrava possibile, telefilm come La signora in giallo o L’ispettore Derrick. Alle nostre latitudini l’ottimismo era diffuso. Lo confermava anche la politica, e il ricordo che forse si fa largo con maggiore insistenza, è quella stretta di mano in terra ginevrina tra

Reagan e Gorbachov del 1985, che faceva tirare un sospiro di sollievo al mondo, poiché sembrava atta a siglare «per sempre» la tensione che palpabile lo aveva attraversato per decenni (anche allora, come oggi, la minaccia e la paura principali erano legate al nucleare, quel nucleare che solo un anno più tardi si fece cosa viva con l’incidente di Cernobyl). Quel summit tra i due capi di stato precedeva solo di pochi anni la caduta del muro di Berlino, primo fra i tanti, reali e politici, che frammentavano il nostro continente, e che sembravano essere destinati a non riapparire mai più, per lasciare gradualmente il posto a un’idea nuova di Europa, fondata su dialogo e sostegno reciproco, economico, politico e culturale. Sicuramente è quanto auspicavano le giovani generazioni trionfanti del 1989 che, piccone alla mano, cercavano di abbattere quanto più Muro, a Berlino, per eliminare ciò che aveva diviso gli uomini, frammentandoli nel loro insieme. Questo slancio sembrava in qualche modo confermare una teoria del fisico e filosofo sta-

tunitense David Bohm (1917-1992), secondo il quale proprio la frammentazione della società, con il conseguente isolamento degli individui, può essere contrastata e sostituita dall’armonia solo attraverso un dialogo consapevole. E poiché spesso la frammentazione si è tradotta in muri e steccati, il loro abbattimento non poteva che essere di buon auspicio. Ma non è bastato. L’errore di «noi degli anni 80» forse, è che quel dialogo costruttivo e votato alla creazione dell’armonia lo credevamo assodato per sempre, cominciando anche a darlo per scontato. Come spiegare altrimenti un paesaggio geopolitico e sociale come quello che ci ritroviamo davanti, a soli 40 anni di distanza da quell’epoca oggi dal sapore dorato? Come abbiamo potuto non accorgerci che gli assetti internazionali e sociali stavano cambiando, per portarci in un mondo più frammentato che mai, fattosi negli ultimi anni travolgente caleidoscopio di idee, informazioni, controinformazioni, rivendicazioni?

Attraverso un esercizio di sincerità, troveremmo forse motivi validi in chi ci invidia per avere vissuto un breve e irripetibile momento della storia, per essere stati tanto fortunati. E paragonando quelli che furono lo spirito e le speranze degli Anni Ottanta a quelli delle nuove generazioni, riconosceremmo una mutazione profonda. Ancora si ascolta musica e si guardano i telefilm (che oggi si chiamano serie), si studia, si fanno progetti e si osa sognare, ma una serie di spade di Damocle sembra essersi assembrata in un cielo fino a ieri sereno. Oltre a insicurezze esistenziali dettate dalla guerra, dall’incertezza climatica, dall’emergenza sanitaria, vi è anche quella paventata da Bohm, ossia quella mancanza di un dialogo reale che porta inevitabilmente all’isolamento. Questo, più che mai, è il momento di dialogare a tutti i livelli, su tutti i piani, per riuscire in qualche modo a «ricompattare un’umanità» smarrita, e farle riassaporare qualcosa che assomigli agli anni dell’ottimismo che abbiamo avuto la fortuna di vivere.


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azione – Cooperativa Migros Ticino

MONDO MIGROS

La cremagliera viaggia a una velocità media di 18 km/h. Il treno pesa 32,5 tonnellate; sotto, il CEO del Monte Generoso Lorenz Brügger. (Bader)

Il manager che amava i treni

Incontri ◆ Il CEO Lorenz Brügger non guida solamente le attività che ruotano intorno al Monte Generoso, ma perfino la cremagliera che porta in vetta

Se non fosse stato per la proverbiale lungimiranza del fondatore di Migros Gottlieb Duttweiler (che la acquistò nel 1941, infatti è del Percento culturale Migros), con tutta probabilità la cremagliera, un tempo a vapore e oggi elettrica, non ci porterebbe in vetta al Monte Generoso, non potremmo godere della suggestiva vista panoramica e – last but non least – non potremmo ammirare l’imponente Fiore di pietra progettato dall’architetto ticinese Mario Botta e inaugurato nel 2017 (e che per il secondo anno di fila si è aggiudicato lo Swiss Mice Location Award in quanto considerato migliore location per eventi). Negli anni del secondo conflitto mondiale, infatti, qualcuno aveva cominciato a ventilare l’idea di smantellare la tratta ferroviaria che dai 273 m di altitudine di Capolago porta ai 1704 m della vetta del Monte Generoso, poiché si reputava che avesse fatto il suo tempo. Oggi l’autenticità della montagna del Mendrisiotto per antonomasia ci viene proposta in tutta la sua bellezza, e non solo con le classiche escursioni, ma anche attraverso una serie di attività volute e pensate dal CEO Lorenz Brügger con il suo dinamico team sia per la vetta sia per il camping Monte Generoso, a Melano (che quest’anno è stato insignito del titolo «the best campsite for your dog» di tutta la Svizzera da parte di ACSI, il maggior specialista europeo dei campeggi). Si va dagli aperitivi al tramonto al karaoke, dalle mostre e dal cine-

ma open air in vetta alle serate jazz, latin o country, passando per lo yoga e l’afternoon tea. La settimana scorsa le due squadre dell’HCAP e HCL si sono ritrovate in vetta per un originale «Clean Up Derby», una gara a suon di rifiuti raccolti nel nome della sostenibilità. All’inizio di giugno vi è inoltre stata la piantumazione delle stelle alpine in vetta che rientra nel solco delle attività green di cui fa parte anche la produzione della Tisana Monte Generoso (realizzata in collaborazione con Simone Galli di Erbe Ticino e Gabriele Bianchi dell’Azienda Agricola Bianchi), una miscela nuova e unica di erbe coltivate, raccolte ed essiccate in modo rigorosamente

biologico, tra le quali, appunto, risalta la stella alpina. Lorenz Brügger però, attivo in Ticino da alcuni anni dopo una lunga carriera nel settore Migros Medien a Zurigo, non ha voluto limitarsi a proporre, ma con lo spirito che gli è tipico, ha deciso di entrare nel «mondo del Monte Generoso», nel tentativo di capirne dinamiche e funzionamento. Qualche tempo fa questo l’ha portato ad attuare ogni anno una «job rotation» di un giorno per coloro che fanno parte del Management Board, ossia una rotazione delle mansioni che permette ai dipendenti della Monte Generoso di sperimentare in prima persona anche il lavoro

azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)

Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Simona Sala, Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Natascha Fioretti Ivan Leoni

Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89

Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch

di colleghe e colleghi: la responsabile di marketing si ritrova così a servire al ristorante, il tecnico dà una mano al campeggio e la cuoca presta servizio in ufficio. Lorenz Brügger stesso non si è mai tirato indietro dall’iniziativa annuale da lui creata, con il risultato di innamorarsi della professione di macchinista. La sua non è stata una semplice infatuazione però, bensì un vero e proprio coinvolgimento dettato da entusiasmo e curiosità, cresciuto al punto da spingerlo a prendere la licenza di guida da macchinista (gli esami sono stati superati brillantemente appena qualche giorno fa): «Non è il classico sogno di ragazzo», confessa il 54enne con un sorriso, «quanto più una vera e propria scoperta». Un’iniziativa che l’ha inevitabilmente portato a conoscere ancora meglio la montagna che è il suo luogo di lavoro, assaporandone i cambi di stagione e le piccole grandi mutazioni, portandolo spesso a salire alle prime ore dell’alba per controllare che durante la notte, non siano caduti dei massi sui binari che possano ostruire il passaggio del trenino. Per verificare, insomma, che sia tutto in ordine. A partire da settembre Brügger si occuperà regolarmente del turno del venerdì, accogliendo personalmente turisti e visitatori, controllando i biglietti e annunciando le fermate intermedie. Un direttore, insomma, che più vicino alla gente di così non si può. (Info: www.montegeneroso.ch)

Di quale genere? Genere ◆ Mendrisio ospita una serie di poster che ruotano intorno al genere

Il dibattito, si sa, a volte (e sarebbe auspicabile) nasce in modo spontaneo, fra sconosciuti e sulla pubblica via. È il concetto che sorregge anche l’interessante iniziativa di Generando, realizzata con il sostegno del Percento culturale Migros. Nel suggestivo parco di Villa Argentina a Mendrisio (città che si è recentemente distinta anche per l’introduzione di vie al femminile) il 13 giugno sono apparsi una serie di poster dedicati alle questioni di genere e alla società in senso lato. Chi spinge la carrozzina, chi fa cosa nell’economia domestica? Come si dichiara sul sito generando.ch, «Genere (gender in inglese) è ovunque: nel nostro corpo e nella nostra mente, al parco giochi e allo stadio, a tavola con la famiglie e in giro con amiche/amici. Ma perché poi? Cosa fa di noi una donna o un uomo? Non c’è forse altro?» L’intento dell’iniziativa è quello di «schiudere nuovi orizzonti» invitando le/i passanti a riflettere sui pregiudizi che contraddistinguono qualsiasi tipo di società, anche quella più aperta, in un processo che, se affrontato a cuore aperto, può portarci a una maggiore conoscenza – e comprensione – di noi stesse/i. E allora, come ci si auspica sul sito generando.ch, «Cosa aspetti? (...) immergiti nel mondo multidimensionale di Noi Gender. Dai peli ai baci, dai cliché alla moda, dagli organi sessuali alla giustizia: senza giri di parole questa esposizione ti mette a confronto con i grandi interrogativi della vita. Fatti storici, statistiche e testimonianze dirette forniscono materiale utile per una discussione aperta ed esperimenti mentali». Dove e quando Noi Gender, Mendrisio, Villa Argentina, fino al 15 agosto 2022. Ingresso libero. Per maggiori info: www.generando.ch

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938

Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano

Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano Tiratura 101’177 copie

Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera Fr. 48.– Estero a partire da Fr. 70.–


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SOCIETÀ ●

Mitigare, gestire e adattarsi Siamo ancora in grado d’intervenire per evitare ulteriori peggioramenti del clima

Vaccinazione anticancro Per la prima volta nella storia dell’umanità, si punta a eliminare definitivamente un tipo di tumore

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La vita altrove Il ticinese momò Filippo Noseda racconta la sua scelta professionale, che è anche scelta di vita

Trasporti e cantone La spesa corrente del Cantone per la mobilità è in crescita pur rimanendo marginale

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Per abbattere gli stereotipi urge un «movimento di liberazione dell’età». (Keystone)

Una nuova idea di vecchiaia

Ageismo ◆ Cambiare il modo in cui si pensa all’età allunga l’aspettativa di vita, lo sostiene la psicologa Becca Levy nel suo ultimo libro Stefania Prandi

È stato dopo un viaggio in Giappone che Becca Levy, psicologa, epidemiologa e docente a Yale, ha iniziato a capire che il modo in cui la società considera gli anziani può avere un impatto sull’aspettativa di vita della popolazione nel suo complesso. Nel paese del Sol Levante «i centenari vengono trattati come rockstar», per usare le parole di una sua intervista a «The New York Times». Osservando la stima e il rispetto riservati alle persone più vecchie, Levy si è resa conto di un legame tra quell’atteggiamento e la longevità nipponica, record assoluto nel mondo. Da allora ha approfondito la sua intuizione pubblicando centoquaranta articoli, in trent’anni, e un libro, uscito lo scorso aprile, intitolato Breaking the Age Code: How Your Beliefs About Aging Determine How Long and Well You Live (Infrangere il codice dell’età. Come le credenze sull’invecchiamento determinano quanto e come si vive). Mezzo secolo fa Robert N. Butler, psichiatra, gerontologo, direttore e fondatore del National Institute on Aging coniò il termine «ageismo». L’anglicismo ha impiegato un po’ di anni per farsi strada nella lingua italiana: fa eco a «sessismo» e «razzismo» e serve per descrivere gli stereotipi e

la discriminazione nei confronti degli anziani. Levy è stata in contatto con Butler fino a quando è morto, nel 2010, ed è riuscita a dimostrare, con i suoi studi, che i sentimenti negativi della società nei confronti della vecchiaia hanno effetti simili a quelli su altri gruppi discriminati, come le donne e le persone nere. Ogni autunno, quando inizia l’anno accademico, la docente di Yale chiede ai suoi studenti di immaginare una persona attempata e di comunicare le prime cinque definizioni che vengono loro in mente. Poi scrive le risposte su una lavagna. Tra queste ci sono parole di ammirazione come «saggezza» e «creatività», ma anche «senilità», «incurvato», «malato» e «decrepito». Becca Levy e il suo team di ricercatori hanno misurato l’atteggiamento nei confronti dell’invecchiamento in vari modi. Hanno usato questionari, classificato i pregiudizi con programmi informatici, osservato il comportamento di piccoli gruppi e analizzato le cartelle cliniche di migliaia di persone attraverso grandi indagini nazionali. Grazie ai loro sforzi, si è scoperto che, oltre a ridurre la longevità, l’ageismo è associato a un peggioramento generale della salute.

L’aspetto forse più interessante di questi studi è che i pregiudizi condizionano le vite non soltanto dall’esterno, ma dall’interno. Infatti, vengono interiorizzati e diventano il metro per valutare e immaginare la propria esistenza. Utilizzando le cartelle cliniche di quasi quattrocento donne e uomini sotto i cinquant’anni, fornite dal Baltimore Longitudinal Study of Aging, sono stati in grado di seguire un campione rappresentativo per quarant’anni. Hanno visto che il rischio di problemi cardiaci raddoppiava se, da giovani, le persone avevano assorbito stereotipi negativi sull’età. In un’altra ricerca, condotta sui residenti di New Haven con oltre settant’anni, è stato notato come i soggetti con convinzioni positive sulla senescenza avevano maggiori probabilità di ristabilirsi completamente dopo una grave disabilità rispetto a chi aveva pensieri pessimisti. E ancora, Levy e i suoi assistenti hanno analizzato i dati di 660 individui over cinquanta che hanno partecipato all’Ohio Longitudinal Study of Aging and Retirement (OLSAR). Mettendo in relazione i risultati dell’OLSAR con quelli sulla mortalità del National Death Index, è emerso che chi aveva una percezione

positiva dello scorrere del tempo viveva sette e anni e mezzo in più di chi invece vedeva l’invecchiamento sotto una cattiva luce. Chiaramente non basta essere ottimisti per non morire presto, ma sicuramente la connessione corpo-mente conta molto. Un altro esempio: un campione di persone di mezza età senza deficit cognitivi, ma con una visione disfattista della vecchiaia, ha dimostrato di avere maggiori probabilità di sviluppare alterazioni cerebrali associate all’Alzheimer. E più negativi erano i loro pensieri e peggiori erano le conseguenze. Secondo Patricia Boyle, neuropsicologa e scienziata comportamentale, docente al Rush University Medical Center, dare un significato alla propria vita può fornire vantaggi incredibili per la salute. Tra questi, meno probabilità di soffrire di mortalità precoce, di avere un ictus, di sviluppare il morbo di Alzheimer e di andare incontro a un forte declino cognitivo. Il significato non deve essere per forza complicato o ambizioso, ma serve a sentirsi realizzati. Per citare un’altra indagine di Levy e del suo team, tra cento ottantunenni, il gruppo esposto settimanalmente, per un mese, a stereotipi positivi impliciti ha ottenu-

to risultati migliori nei test di andatura, forza ed equilibrio. I miglioramenti sono stati maggiori rispetto ai risultati di un gruppo di coetanei che ha svolto attività fisica per sei mesi. Non soltanto, come scrive «The New York Times», assorbiamo gli stereotipi fin da quando siamo piccoli, attraverso i ritratti denigratori dei media e le favole sulle vecchie streghe malvagie. Pure le istituzioni – i datori di lavoro, le organizzazioni sanitarie, le politiche abitative – trasmettono un pregiudizio simile, mettendo in atto quello che viene definito «ageismo strutturale». Per invertire la tendenza, secondo Levy, sono necessari cambiamenti radicali, un «movimento di liberazione dall’età». Utilizzando le stesse tecniche che misurano gli atteggiamenti stereotipati, il suo team è riuscito a migliorare l’autostima delle persone anziane. I ricercatori di molti altri Paesi hanno replicato i loro risultati. «Le convinzioni non si creano, ma si possono attivare», ha detto Levy, stimolando le persone con parole come «dinamico» e «pieno di vita», invece di «scontroso» o «indifeso». Anche se i bambini hanno già dei pregiudizi fin nei primi anni, non sono incisi nella pietra: «Sono malleabili, possiamo modificarli».


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MONDO MIGROS

La tartare è servita

Attualità ◆ La tartare di manzo è un piatto freddo particolarmente apprezzato durante la stagione estiva. Questa settimana trovate quella già pronta al consumo in offerta speciale presso l’Angolo del Buongustaio Migros

Azione 16% Tartare di manzo in self-service, Svizzera per 100 g Fr. 4.90 invece di 5.90 dal 5 all’11.7.2022

A chi non verrebbe l’acquolina in bocca di fronte ad una tenerissima tartare di manzo aromatizzata al punto giusto? Molto apprezzata in estate come piatto fresco, leggero, stuzzicante e veloce da preparare, questa pietanza si accompagna a meraviglia con del pane tostato imburrato e una fresca insalata di stagione. Una delle ricette più classiche annovera come ingredienti carne magra di manzo (bistecca, magatello o filetto), capperi e cetriolini tritati, cipolla, senape, olio, succo di limone e a piacere salsa worcestershire e tabasco. In Francia si usa aggiungere anche un tuorlo d’uovo per regalare un sapore ancora più ricco. Per i puristi della specialità la carne deve essere tagliata al coltello, procedimento che richiede non solo una certa destrezza da parte di chi la prepara, ma anche

un coltello perfettamente affilato. Inoltre originariamente si ritiene che la tartare veniva preparata con carne equina. Per preparare una tartare coi fiocchi è importante scegliere della carne selezionata di primissima qualità. La tartare pronta che trovate presso l’Angolo del Buongustaio Migros è preparata quotidianamente dagli abili macellai utilizzando pregiata carne di manzo Black Angus svizzera. Questa razza di origini scozzesi è una delle più celebri per la qualità della sua carne, che risulta aromatica, tenera e finemente marezzata. Gli animali sono allevati in Svizzera secondo i severi criteri del marchio IP-Suisse. Ciò significa che sono tenuti in gruppo, con la possibilità di uscire all’aperto al pascolo, mentre la loro alimentazione è costituita da erba, fieno e mais, perlopiù prodotti dall’azienda stessa.

L’Angolo del Buongustaio L’Angolo del Buongustaio è lo spazio delle macellerie Migros dedicato alle specialità culinarie di alta qualità. Accanto alle proposte più classiche, qui ognuno può trovare anche prelibatezze esclusive che non mancheranno di conquistare anche i buongustai più esigenti. Dalle bontà regionali a km zero a quelle della grande tradizione svizzera, fino alle immancabili genuinità della gastronomia mediterranea, l’Angolo del Buongustaio offre una scelta particolarmente ampia e variegata. I nostri specialisti sono a vostra disposizione per consigliarvi in modo personalizzato e competente.

La nuova colazione gustosa e sana Attualità

Le fette biscottate BelleBuone di Galbusera sono ricche di fibre e proteine per uno snack diverso dal solito

Voglia di una colazione ricca di gusto ma equilibrata dal punto di vista nutrizionale? Con le fette biscottate BelleBuone dello storico marchio italiano Galbusera è davvero facile portare in tavola qualcosa da gustare sia con gli occhi che con il palato. Queste fette spesse ricche di fibre, prodotte con ingredienti genuini e di prima qualità, sono disponibili in tre appetitose varianti per accontentare tutti i gusti: mirtilli rossi, mandorle e semi di zucca; semi di papavero, girasole, zucca e lino; fichi, nocciole e semi di zucca. Il loro sapore intenso è dato dall’utilizzo di farine poco raffinate e frutta intera o a pezzetti. Le pratiche monoporzioni permettono di portare con sé gli snack in ogni occasione, anche fuori casa. Come tutti i prodotti firmati Galbusera, anche le fette biscottate sono realizzate con ricette studiate per un’alimentazione equilibrata, contengono oli e grassi non idrogenati, sale marino integrale e sono senza ogm, olio di palma, conservanti e

coloranti. Inoltre viene impiegato solo grano 100% italiano, coltivato nel rispetto del terreno, dell’ambiente e delle persone che fanno parte della filiera. Infine, a sostegno della biodiversità, vengono create oasi di fiori che favoriscono la presenza di api e altri impollinatori. L’assortimento Galbusera presente normalmente sugli scaffali Migros comprende una decina di prodotti, dai Buoni Così ai Magretti, dai Più Integrali ai Zero Grano wafer e frollini, dai Riso su Riso cracker e cereali/cacao fino ai Cracker senza lievito. BelleBuone Galbusera fette biscottate mirtilli rossi, mandorle e semi di zucca/semi di papavero, girasole, zucca e lino/fichi, nocciole e semi di zucca 5 x 40 g Fr. 3.50 In vendita nelle maggiori filiali Migros fino ad esaurimento stock


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MONDO MIGROS

Protezione solare ecocompatibile Novità

La nuova linea di solari Sun Look Eco protegge la pelle e l’ambiente

Sun Look è sinonimo di protezione solare di alta qualità da oltre 50 anni. Questa linea della Migros dall’ottimo rapporto qualità-prezzo offre una completa gamma di prodotti per ogni necessità e tipologia di pelle, da quella normale a quella particolarmente sensibile tendente alle irritazioni fino alla pelle molto delicata dei più piccoli. Oltre a una protezione ottimale contro i nocivi

raggi UVA e UVB, i prodotti Sun Look contengono anche uno speciale principio attivo ad azione antiossidante che protegge dai raggi infrarossi di tipo A e dalla luce percepibile a occhio nudo. Quest’anno Sun Look ha lanciato tre innovativi prodotti che offrono non solo un’elevata protezione solare contro i raggi UVA/UVB, ma sono anche rispettosi dell’ambiente: Sun

Look Eco. Disponibili sotto forma di latte solare 50+/30 e fluido per il viso 50+, sono facilmente biodegradabili, vegani e resistenti all’acqua. Proteggono in modo immediato e affidabile dalle scottature e prevengono l’invecchiamento cutaneo precoce. La formula degli ingredienti è priva di microplastiche e polimeri liquidi, pertanto particolarmente eco-friendly. Inoltre, offrono un’i-

dratazione per 24 ore e la loro buona tollerabilità cutanea è stata confermata dermatologicamente. Per un utilizzo efficace, i prodotti vanno spalmati generosamente sulla pelle prima dell’esposizione al sole. In caso di elevata sudorazione e dopo il bagno ripetere l’operazione. Proteggere i bambini anche con indumenti dotati di una buona protezione solare.

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SOCIETÀ

Il clima cambia, siamo ancora in tempo? Surriscaldamento

Alcuni mutamenti sono ormai in atto e sarà solo possibile gestirli e adattarci a nuove condizioni

Elia Stampanoni

I mutamenti climatici sono ormai sempre più visibili, anche se, come sottolineato da Marco Gaia, portavoce di Meteo Svizzera – che lo scorso 2 giugno al PalaCinema di Locarno, in collaborazione con il Dipartimento del territorio, e TicinoEnergia, ha organizzato un incontro informativo sul tema – non tutti gli eventi eccezionali si possono o si devono relazionare interamente ai cambiamenti climatici. Quello che è tuttavia ormai assodato, grazie alle conoscenze scientifiche attuali, è l’aumento dell’effetto serra, a sua volta responsabile dei mutamenti che, nella nostra regione, si manifesteranno soprattutto con estati più asciutte, un incremento delle giornate canicolari, piogge più intense e inverni più caldi (con precipitazioni abbondanti ma poveri di neve a bassa-media quota). Diversi sono le misure, i progetti e le soluzioni attuati da privati, enti pubblici o associazioni per gestire gli effetti negativi, affrontare il cambiamento climatico e sfruttare le opportunità in un’ottica sostenibile, all’insegna della triplice combinazione: «mitigare, gestire e adattarsi». I dati e le situazioni mostrati sono abbastanza eloquenti, con esempi anche per il Ticino, di cui l’ultimo inverno è stato particolarmente mite e asciutto. Come spiegato da Marco Gaia, responsabile del Centro regio-

Il fiume Maggia in piena, ottobre 2020; di fianco, esondazione del Lago Maggiore, ottobre 2020. (Manuela Mazzi)

nale Sud di MeteoSvizzera: «È stato di certo un inverno eccezionale; forse si è trattato di una variazione naturale, ma non è da escludere un effetto diretto dei cambiamenti climatici». Quello che è sicuro e accertato è invece l’aumento del 50 per cento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera negli ultimi 120 anni, una variazione

che ha avuto una crescita accelerata negli ultimi 50 anni. Altro dato impressionante è l’innalzamento della quota media dell’isoterma di zero gradi in Svizzera, come illustrato anche nell’opuscolo «CH2018 – scenari climatici per la Svizzera» edito dal NCCS, la rete della Confederazione per i servizi cli-

matici (National Centre for Climate Services, Ufficio federale di meteorologia e climatologia MeteoSvizzera). La quota dell’isoterma di zero gradi (quota a cui si trova la temperatura di zero gradi nell’atmosfera libera) s’è già alzata sensibilmente: dai circa 400 metri nel 1880, agli 800 metri nel 2000, ma gli scenari futuri, se non

verranno presi provvedimenti a protezione del clima, prevedono di arrivare attorno ai 1500-1600 metri nel 2080, ossia la quota di località come Davos, Bosco Gurin o San Bernardino. Strettamente legate all’isoterma, ci sono anche le precipitazioni nevose, sempre più rare anche in Svizzera. Alle quote meno elevate, le nevicate Annuncio pubblicitario

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SOCIETÀ

saranno molto più sporadiche e, come cita lo studio, «attorno alla metà di questo secolo, nelle Alpi centrali si conteranno annualmente circa 30 giorni con neve fresca in meno rispetto a oggi» e, nel medesimo lasso di tempo, «al di sotto dei 1000 metri la copertura nevosa si ridurrà di circa il 50%». Oltre alla scarsità di neve, un altro fattore facilmente percepibile è, e sarà, il sensibile aumento delle temperature che, come riportato nel comunicato stampa dell’evento, «se non sarà posto un limite alle emissioni di gas a effetto serra, in Ticino potrebbero salire di ulteriori 4,4°C entro fine secolo, rendendo il clima a Sud delle Alpi simile a quello delle coste mediterranee della Croazia o della Toscana». Tutti mutamenti che, oltre ad avere delle ripercussioni dirette su alcuni settori economici, quali il turismo invernale per esempio, avranno strascichi ben più negativi sul benessere e sulla salute della popolazione, poiché aumenteranno sia il numero di giorni estivi e tropicali, ovvero giorni con temperature superiori a 25°C, rispettivamente 30°C, sia il numero di notti tropicali, quelle in cui la temperatura notturna non scende al di sotto dei 20°C. Senza dimenticare le precipitazioni di carattere tempestoso o estremo, che potrebbero aumentare, provocando esondazioni di fiumi e laghi, come già vissuto direttamente anche nella nostra regione. Scenari che possono essere oggi calcolati con buona precisione grazie alle conoscenze acquisite in questi anni, sin da quando i cambiamenti climatici sembravano una cosa a noi estranea. Ora sembra invece abbastanza chiaro che più gas a effet-

to serra diffondiamo, più riscaldiamo il nostro pianeta. Se è vero che certi cambiamenti sono ormai inevitabili (dovuti a quanto emesso in passato), Marco Gaia ha sottolineato come siamo tuttavia ancora in grado di intervenire, per contrastare quest’evoluzione, alla quale dovremo però adattarci, come peraltro in passato l’essere umano ha già dimostrato di poter fare, anche se aveva avuto più tempo per farlo. Oltre ai dati concreti e ai possibili scenari, sono state esposte anche delle strategie per limitare l’aumento della temperatura globale e ridurre al minimo i cambiamenti climatici (provvedimenti di mitigazione). A ciò si aggiungono misure specifiche per adattarsi all’inevitabile situazione a cui stiamo arrivando e che già oggi

La memoria dei ghiacciai La sala multiuso del PalaCinema di Locarno ha anche ospitato l’esposizione «La memoria dei ghiacciai», proposta dal Dipartimento del territorio. La mostra, itinerante e pensata per offrire un’immersione nel mondo dei ghiacciai ticinesi, vuole presentare il minuzioso lavoro svolto dalla Sezione forestale in tutte le fasi delle misurazioni: dalla preparazione all’uscita sul terreno, fino alla stesura di rapporti e alla condivisione delle informazioni con il mondo scientifico. L’esposizione sarà, per dare qualche data, al Centro delle professioni tecniche di Trevano dal 5 al 30 settembre, alla SUPSI di Mendrisio dal 3 ottobre al 4 novembre e alla Biblioteca cantonale di Bellinzona con il nuovo anno.

è in parte percepibile (provvedimenti d’adattamento). E nel frattempo cambia anche l’energia. A livello cantonale, gli obiettivi, i piani d’azione e le misure in ambito di politica climatica e ambientale sono stati ancorati nel Programma di legislatura 2019-2023 del Consiglio di Stato. Le misure, volte a contrastare i mutamenti in atto, coinvolgono differenti ambiti e settori, dalle tecniche all’economia (con tasse e incentivi), dall’informazione alla legislazione, incluse la sensibilizzazione, la consulenza e la formazione. A tale proposito, Fabrizio Noembrini di TicinoEnergia (presente all’incontro) ha sottolineato come anche per l’energia bisogna trovare soluzioni sostenibili in modo da ridurre o azzerare le emissioni di gas a affetto serra: «bisogna agire senza preconcetti, è necessario puntare sulle energie rinnovabili e anche imparare a gestire in modo diverso l’energia rispetto al passato». Nell’innovazione energetica rientrano per esempio le comunità di autoconsumo, come nel caso del quartiere realizzato a Lugaggia, ma anche il biogas o il fotovoltaico, con un potenziale da sfruttare maggiormente. A questi s’aggiungono i combustibili sintetici (tra cui il metano sintetico) o l’idrogeno verde, i quali si prefiggono di stoccare l’eccesso di energia rinnovabile per averlo poi disponibile durante i periodi di mancata produzione. Mitigare non sarà però sufficiente. Alcuni cambiamenti sono ormai in atto e sono irreversibili, almeno a breve termine. Per questo anche delle misure d’adattamento saranno in futuro sempre più necessarie, per fronteggiare gli effetti dei mutamenti, so-

Il fiume Maggia in secca, maggio 2020. (Manuela Mazzi)

prattutto quelli sfavorevoli. Pensiamo per esempio alla gestione delle acque e dei pericoli naturali, all’agricoltura, all’economia forestale o al turismo, senza dimenticare la biodiversità e la salute pubblica. In questi e altri settori incombono delle minacce (alcune già palesatesi a più riprese e in modo più o meno importante anche nella nostra regione) a cui è necessario prepararsi per poterne ridurre l’impatto negativo. In questo contesto rientra, per esempio, il progetto nazionale «Piantagioni sperimentali di specie arboree adatte alle condizioni future» al quale partecipa anche il Cantone Ticino. In una sessantina di luoghi in tutta la Svizzera (sei in Ticino), sono state piantate alcune specie allo scopo di sperimentare e studiare, per i

prossimi 30-50 anni, quali alberi resistono meglio al cambiamento climatico, dando così utili informazioni per la futura gestione dei boschi. Per informare su questo progetto (svolto dall’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio in collaborazione con l’Ufficio federale dell’ambiente e la scuola tecnica superiore HAFL di Zollikofen-Berna), in Piazza Remo Rossi a Locarno sono state allestite due aree boschive, una con piante indigene, l’altra con palme, per sottolineare come la diversità arborea locale sia minacciata dalla diffusione di specie esotiche. Riferimenti CH2018 – scenari climatici per la Svizzera. National Centre for Climate Services, Zurigo. Annuncio pubblicitario

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Il sogno dei vaccini anti cancro Medicina

Carattere preventivo e terapeutico sono la cifra dei vaccini antitumorali per guardare al futuro

Maria Grazia Buletti

«La vaccinazione “anticancro” può avere uno scopo preventivo molto importante, e fornisce all’organismo di un soggetto sano gli strumenti per attaccare agenti infettivologici patogeni che sono in grado di favorire la crescita di certi tipi di tumore». A parlare è la professoressa Silke Gillessen, direttore medico e scientifico dello IOSI, che nel numero 25 di «Azione» del 20 giugno 2022 (Le nuove frontiere della ricerca oncologica) ci ha permesso di esplorare le nuove prospettive di ricerca e terapeutiche dell’immunoterapia oncologica, insieme al responsabile medico della ricerca IOSI Anastasios Stathis.

La ricerca, anche quella oncologica, va avanti in un’ottica evolutiva e globale, migliorando sempre di più Per focalizzare il discorso sui vaccini contro i tumori, un esempio su tutti riguarda quello della cervice uterina che è fra i più difficili da curare e per il quale il vaccino contro il HPV (papilloma virus umano) è estremamente efficace. Lo spiega bene la professoressa Gillessen che ricorda come quest’ultimo sia responsabile pure di tumore a pene, orofaringe e ano: «Ecco perché il vaccino è determinante! Inoltre, un recente studio inglese ha dimostrato che le donne vaccinate hanno l’87 per cento di probabilità in meno di avere un cancro alla cervice; se ne può dedurre che se tutti fossero vaccinati, questo tumore si ridurrebbe sostanzialmente». Gli esperti dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) sono infatti convinti che il tumore della cervice potrebbe essere eliminato a livello globale entro la fine del XXI secolo proprio grazie all’efficacia di questo vaccino e ad altri strumenti di prevenzione e di screening. A questo proposito hanno lanciato un’iniziativa globale che, per la prima volta nella

La professoressa Silke Gillessen, direttore medico e scientifico dello IOSI e il dottor Anastasios Stathis, responsabile medico della Ricerca IOSI. (Stefano Spinelli)

storia dell’umanità, punta a eliminare definitivamente un tumore. Di principio queste immunizzazioni funzionano come le altre, solo che invece di proteggere l’organismo da influenza, tetano o malattie esantematiche, lo difendono da infezioni potenzialmente cancerose. Altro esempio, oltre al vaccino per il tumore della cervice: «Ci sono i vaccini contro epatite B, il cui virus è tra i fattori di rischio del cancro al fegato». In aggiunta a quelli preventivi, in oncologia si dispone di vaccini cosiddetti terapeutici. Il dottor Stathis così ne definisce l’azione: «Essi stimolano il sistema immunitario perché attacchi un tumore, mentre non servono a prevenirlo. Sono dunque strumenti di cura e non di prevenzione, progettati in base alle caratteristiche specifiche del tumore stesso». Gillessen porta ad esempio un vaccino di cellule dendritiche per il tumore alla prostata approvato negli

USA: «È logisticamente molto difficile da produrre, in quando bisogna modificare le cellule stesse del paziente perché agiscano contro una proteina specifica per il tumore alla prostata, ma bisogna dire che, ad oggi, questo vaccino ha dimostrato un beneficio di sopravvivenza nei pazienti con cancro alla prostata metastatica». La ricerca è fondamentale e prosegue a ventaglio, «in combinazione con i nuovi checkpoint inhibitors». «Per ora si tratta di pura ricerca che associa i vaccini agli anticorpi che attivano il sistema immunitario, dove convergono tante combinazioni (e anche tentativi) per migliorare questi farmaci dal punto di vista strutturale». Non a caso nel campo della ricerca vaccinale emerge la tecnologia mRNA di cui tanto si è parlato in merito al vaccino anti Covid-19. «I vaccini a mRNA funzionano in modo diverso rispetto a quelli tradizionali: non contengono virus vivi, attenuati

o frammenti del rivestimento virale, mentre invece sfruttano molecole di acido ribonucleico messaggero (mRNA) per “insegnare” alle nostre cellule come assemblare la proteina Spike, che è la chiave con cui il Coronavirus SARS-CoV-2 entra nell’organismo e lo infetta. La proteina Spike così assemblata viene riconosciuta come estranea dal sistema immunitario che, a sua volta, produce anticorpi neutralizzanti in grado di bloccare il Coronavirus. In questi vaccini c’è dunque solo l’informazione genetica che serve alla cellula per costruire copie della proteina Spike». Una tecnologia, quella mRNA, che però non è nata con il Covid-19, ma nell’ambito di ricerca vaccinale oncologica e Gillessen lo spiega così: «Per arrivare ai vaccini a RNA messaggero ci sono voluti molti anni di ricerca finalizzati però a un altro importantissimo obiettivo: la lotta contro i tumori. Il sogno degli scienziati,

che fino a oggi non ha avuto successo, era ottenere un vaccino terapeutico contro il cancro; andare in questa direzione ha però prodotto il risultato fondamentale che conosciamo nella lotta al Coronavirus». Questo è un chiaro esempio di come la ricerca, anche quella oncologica, va avanti in un’ottica evolutiva e globale. Ciascuno dei ricercatori aggiunge dei mattoni all’edificio; questi possono essere più grandi, più visibili, oppure possono essere più piccoli o nascosti: tutto è parte di un percorso che, per molti aspetti, è simile a una corsa a staffetta nella quale il testimone viene passato da uno all’altro, da continente a continente, mentre tutti corrono, e spesso ci vogliono parecchi anni per giungere a evidenze scientifiche approvate. Il sogno dei vaccini antitumorali ha portato ai primi vaccini anti Covid-19 e ci si chiede dove possa condurre in futuro. I nostri interlocutori sono concordi: «I risultati ottenuti con i vaccini mRNA sono comunque ancora soggetti a ulteriori studi e stanno alimentando la ricerca. Intanto, non dobbiamo dimenticare che abbiamo già due vaccini preventivi contro il cancro dei quali abbiamo già accennato ma che è importante ribadire: quello antiepatite B, che previene non solo la malattia infettiva ma pure il tumore epatico (ndr: una delle conseguenze dell’epatite cronica), e quello che protegge dall’infezione del papilloma virus umano (HPV) che causa i tumori della cervice uterina e altri tipi di tumore e che, non dimentichiamo, colpiscono donne e uomini». Ricordiamo che lo IOSI si sta globalmente muovendo in direzioni differenziate. Infine, la professoressa Gillessen accenna a due differenti modalità che, ribadisce, già si stanno utilizzando «di routine»: «Si tratta di quegli approcci che tolgono i freni al sistema immunitario (checkpoint inhibitors) e più recentemente delle cellule CAR-T». Così si guarda a un futuro che disponga di sempre più armi per combattere il cancro. Annuncio pubblicitario

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DALLE ALPI CON FRESCHEZZA Il villaggio vallesano di Aproz è famoso per la sua acqua minerale naturale – da ben 75 anni. Per celebrare l’anniversario, le bottiglie vengono ora riproposte nel design originale

L’acqua minerale di Aproz proviene da diverse sorgenti situate fino a 1870 metri sul livello del mare. L’acqua filtra per anni attraverso vari strati di roccia e si arricchisce così naturalmente di minerali e oligoelementi.

Il piccolo villaggio di Aproz, nelle Alpi vallesane, produce acqua minerale da 75 anni. La Aproz Sources Minérales è stata fondata nel 1947 e dal 1958 appartiene al Gruppo Migros. Oggi è la più grande azienda imbottigliatrice di acqua minerale della Svizzera.

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Con circa 1650 milligrammi di minerali per litro, l’acqua di Aproz è una ricca fonte naturale di preziose sostanze minerali e, insieme a una dieta equilibrata, aiuta a mantenere sano ed efficiente l’organismo.

Dagli impianti di imbottigliamento di Aproz Sources Minérales escono quasi 100.000 bottiglie in PET ogni ora. Dal 1961, quando è stato ultimato il ponte ferroviario sul Rodano, oltre il 90% dei prodotti viene trasportato su rotaia.

Illustrazione: zVg

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Il bis-avvocato senza giacca e cravatta

Incontri (5) ◆ Insegna al King’s College e vive a Londra – con moglie, due figli e un gatto – da oltre 20 anni, ma Filippo Noseda in realtà è momò al 100% Matilde Casasopra

Non capita tutti i giorni di incontrare un bis-avvocato, ovvero uno che è avvocato, con brevetto, in Svizzera e che è avvocato, con brevetto, nel Regno Unito. Se poi quest’avvocato si occupa principalmente di trust e pianificazione patrimoniale in un momento storico che coincide con sanzioni che prevedono, un po’ ovunque nel mondo, il blocco dei capitali di molte persone, ecco che l’incontro si fa ancora più interessante. Senza contare che, questo bis-avvocato, è visiting professor al King’s College di Londra ed è associato a uno dei maggiori studi d’oltre Manica, il Mishcon de Reya. Il suo nome? Filippo Noseda, momo verace, moglie islandese (Sigrún), tanta voglia di scoprire il mondo e tra tutti i sogni nel cassetto uno su tutti: fare l’avvocato ma… senza giacca e cravatta. Avv. Noseda, perché essere socio di uno studio a Londra e non in Ticino o in Svizzera? L’opzione tranquilla, dopo aver conseguito nel 1995 la laurea in legge a Zurigo, sarebbe stata – lo ammetto – quella di tornare in Ticino. Mio papà era conosciuto e mio zio aveva il suo studio e quindi presumibilmente avrei potuto fare carriera, ma… la voglia di tornare non c’era e i miei sogni mi portavano altrove. Così ho deciso di conseguire il brevetto a Zurigo. Un anno in tribunale e un anno di pratica in uno studio locale per imparare la professione, ma anche lo svizzero-tedesco visto che, senza quello, perdevo tutte le cause. Insomma, stava preparandosi a fare carriera a Zurigo… Non mi preparavo tanto a far carriera quanto piuttosto a capire cosa volevo fare da grande ed è così che, nonostante la strada sembrava essere segnata – buon posto di lavoro nella città sulla Limmat con magari casa di vacanza in Ticino per mantenere le radici – la mia natura inquieta mi portava a desiderare altro. Soprattutto a non desiderare lo schema tradizionale dell’avvocato svizzero: giacca e cravatta, cipiglio serio, conoscenza

Scheda Nato a: Berna. Età: ’antanni (nato nel 1970). Abita a: Londra. Lavora a: Londra. Hobby: Sognare, preferibilmente sulla mia chiatta ormeggiata sul canale che attraversa Londra, costeggiando il Tamigi. Rimpianto: Nessuno. Sogno nel cassetto: Poter continuare sulla strada avviata trent’anni fa. Amo: mia moglie, che è una santa in terra. Non sopporto: chi usa un titolo professionale e una cravatta per darsi arie. Abbiamo tutti lo stesso valore nella società. La mia foto preferita: La ragazza afgana sulla copertina del National Geographic. Non quella originale, di una ragazza bellissima, ma quella recente, di una donna di mezz’età reduce dal regime dei Talebani. Perché le fotografie più famose sono spesso un’idealizzazione che nascondono una realtà diversa. La realtà non va idealizzata, va conquistata.

approfondita del Codice Civile svizzero e magari un po’ di politica per aiutare gli altri, ma anche per farsi un po’ di pubblicità. No. Non era la mia indole. A 30 anni volevo ripartire da zero. Cambiare aria, cambiare il mondo strada facendo e imparare cose nuove.

Filippo Noseda, avvocato, visiting professor e una grande passione per la vita.

Perché proprio Londra? Perché il diritto comparato è sempre stato una mia passione e il diritto anglosassone, fondato più sulle sentenze che sulle leggi, m’intrigava molto. Così con moglie incinta e gatta al seguito – allora c’era Bólla (che in islandese vuol dire Cicciottella), adesso c’è Tumi – ho caricato la macchina e sono partito per Londra. Volevo imparare cose nuove e ancora mi sorprendo quando mi rendo conto che oggi insegno all’università il corso di diritto di trust che avevo seguito al King’s College. Insegno la materia che avevo scelto da studente completamente ignaro del tema. E se le chiedessi di dirmi cos’è il trust? Le direi quello che dico agli studenti, ovvero che ogni Paese ha un proprio concetto – e conseguente ordinamento giuridico – in materia di trust che, in sintesi, è un’intestazione di proprietà sulla base della quale un esperto amministra e cura gli interessi dei beni a vantaggio dei beneficiari prescelti o ancora da individuare di un soggetto terzo che glieli ha affidati. Oggi come oggi è spesso un «aggeggio» fiscale usato e abusato. La Svizzera ha ratificato, nel 2007, la Convenzione dell’Aja 1985 sul riconoscimento di trust stranieri e al momento il Consiglio federale sta considerando l’introduzione di una legge di trust «made in Switzerland» che potrebbe entrare in vigore nel 2024. Quel che però non va dimenticato è che il trust è uno strumento giuridico del diritto anglosassone e che quindi il trust svizzero non sarà mai uguale a quello anglosassone. Ai miei studenti, per entrare in tema, propongo sempre il parallelismo polenta-arepa evidenziando i punti di contatto – entrambi piatti tipici, l’una della cucina lombarda l’altra della cucina colombiana – e la comune origine: il mais. Quando si capiscono le similitudini si passa alle differenze, ma… con cognizione di causa. La Svizzera l’ha coinvolta nel processo di definizione della nuova legge? Sì. Ho avuto modo di esprimermi sull’avanprogetto per l’introduzione di un trust svizzero nel Codice delle obbligazioni (più precisamente sul «Titolo ventiseiesimo secondo (bis): del trust»). È stato fatto un buon lavoro, ma, come ho avuto modo di osservare in un recente articolo, il diritto anglosassone e quello svizzero non sono la medesima cosa e quindi, pur essendovi delle affinità, esistono differenze che non possono essere ignorate. Diciamo che nella mia situazione di – come mi ha definito lei – bis-avvocato e quindi «giuridicamente bilingue», sono facilitato nel compito. Torniamo agli anni della sua… inquietudine. Lei arriva a Londra, si iscrive all’università, si laurea e poi? Poi, quando ho finito il corso, mi restano 2’300 sterline in tasca. Que-

sto perché una famiglia di quattro persone fagocita tutti i risparmi (mia figlia Elín è nata durante gli studi seguita da Ian poco dopo e in più c’era Bólla, la gatta). Ciononostante, con una buona dose d’incoscienza e una moglie comprensiva ho firmato il nuovo contratto d’affitto di 12 mesi confidando nel motto dell’«io, speriamo che me la cavo». Ho accettato un lavoro qualunque per non perdere il visto (a quei tempi non esistevano ancora i bilaterali UE-Svizzera) e ho sostenuto gli esami di solicitor studiando di notte mentre di giorno continuavo a collaborare con lo studio di Zurigo (che mi rivoleva indietro) per pagare le bollette. Il primo traguardo l’ho tagliato nel 2003 quando ho cominciato a lavorare come solicitor in Inghilterra. È così facile trovare lavoro a Londra? Non proprio. Anzi, per niente. I colloqui per entrare in studio sono stati brutali e, pur di inserire almeno un piede, ho fatto loro un’offerta che non potevano rifiutare (come nel film Il Padrino con Al Pacino): nessun periodo di disdetta e stipendio minimo. A condizione che gli stessi termini valessero anche per me: ossia la possibilità di lasciare lo studio senza preavviso nel caso in cui non mi piacesse come mi trattavano. Sono ripartito da zero con due lauree in tasca e con uno stipendio da fame. Dopo tre anni sono stato promosso a socio e qualche anno dopo sono diventato responsabile di circa 70 avvocati inglesi e americani che all’epoca costituivano il più grosso dipartimento d’Europa dedicato alla clientela privata.

Vien da dire: obiettivo centrato. Sogno realizzato. No. Magari! Io purtroppo rimanevo irrequieto. Non volevo solo fare carriera. Volevo imparare e far funzionare il cervello. È così che sono arrivato al King’s College come visiting professor quando i due professori con cui avevo studiato trust sono stato promossi alla carica di giudice. Ossia il corso è passato da due professori a uno solo, stile «multipack in versione concentrata». E poi c’era un’altra cosa che volevo fare: difendere il diritto alla privacy e il contratto sociale tra cittadino e governo in campo di trasparenza fiscale. Anche in questo caso ho dovuto intraprendere una mini rivoluzione visto che lo studio nel quale lavoravo non capiva le questioni di diritto europeo e costituzionale che in Europa sono al centro del contratto sociale del dopoguerra (il diritto alla privacy è stato introdotto con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo – CEDU – firmata a Roma il 4 novembre 1950, quindi a distanza di 5 anni dagli orrori della seconda guerra mondiale e dell’Olocausto). Non poteva difendere il diritto alla privacy in Svizzera? Difficilmente visto che, nel 20062007, la Svizzera era al centro della bufera per via delle rivelazioni degli scandali nel settore bancario che culminarono nelle sanzioni multi-miliardarie delle quali ancora si portano oggi le conseguenze. E com’è andata quest’ennesima sfida? Ho cercato e trovato la strada giusta. Lo sbocco si è aperto con una tele-

fonata al comitato sulla privacy del Consiglio d’Europa che è sfociata in un invito ad apparire come esperto a Strasburgo nel 2016. Da lì sono poi riuscito a creare una campagna tecnica e mediatica che mi ha portato davanti al Parlamento europeo nel 2019 e nel 2020 e in seguito a intentare causa contro quattro governi: quello britannico sul FATCA (lo scambio di informazioni con gli Stati Uniti), quello austriaco e quello tedesco sul CRS (lo scambio di informazioni tra un centinaio di Stati al di fuori degli Stati Uniti) e quello lussemburghese sui registri pubblici sulla titolarità effettiva di società e altri enti. Non sto a raccontarle caso per caso, ma posso dirle che la questione della compatibilità dei registri pubblici con i diritti fondamentali, al centro della causa al governo lussemburghese, è ora davanti alla Corte europea. Inoltre, per assicurare il giusto scrutinio dell’operato dell’UE e dell’OCDS abbiamo deciso di pubblicare le nostre lettere (un centinaio circa) online e la cosa è approdata ai giornali anglosassoni, con articoli su «Financial Times», «Economist», «TIME Magazine» e «Bloomberg». Si può dire che ha realizzato i suoi sogni? Sì. Anzi no. Oppure forse, chissà. Sicuramente ho realizzato, soprattutto, il mio sogno di essere avvocato senza giacca e cravatta. Quel che importa è il lavoro, l’energia e i risultati, non l’uniforme. L’abito non fa il monaco e… neppure l’avvocato. Per il resto, sto ancora rincorrendo i miei sogni, in parte non ancora del tutto articolati. Magari tra 10 anni ne riparliamo…

Tre momenti chiave di una vita Avv. Noseda, ha a disposizione 666 battute per illustrare tre momenti topici della sua vita: 1. All’età di 27 anni mi venne chiesto di presenziare a un incontro con un signore che oltre a una fiorente industria ereditò il vizio della cocaina. La sua richiesta era di proteggerlo contro sé stesso, al che il mio capo (l’avv. Bruno Becchio, che aveva

studiato a Oxford con Tony Blair) menzionò la parola trust. Caddi dalle nuvole (e dal cavallo sulla strada per Damasco). 2. Di fronte al Parlamento europeo mi resi conto che il tutto partì da una telefonata al comitato privacy del Consiglio d’Europa. Il che dimostra che la fortuna aiuta chi la cerca. Che è poi quel che mi dice mia mo-

glie quando mi lamento per non aver vinto al lotto. «Ma hai comprato il biglietto?» mi chiede sempre… 3. Aver trasformato una serie di cause legali «ostiche» in una campagna mediatica che fa discutere i cittadini sul valore del diritto alla privacy nel mondo del post-segreto bancario. Con discreto successo che spero si replichi in tribunale.


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Mobilità, quanto ci costa? Istantanee sui trasporti

La spesa corrente del Cantone per la mobilità è in crescita ma rimane marginale

Riccardo De Gottardi

Il settore dei trasporti e delle telecomunicazioni è cresciuto più rapidamente di altri settori, ma in un momento poco propizio molto meno. Vogliamo cercare qui di seguito di dare qualche coordinata di riferimento anche su questo aspetto, che incide direttamente sulle tasche dei cittadini attraverso il pagamento di imposte e tasse. Il Cantone opera nel settore dei trasporti e delle telecomunicazioni attraverso due canali: da un lato gli investimenti per la conservazione e l’ampliamento delle infrastrutture e, dall’altro lato, le spese correnti annuali derivanti dall’erogazione di servizi: sostanzialmente

si tratta della sorveglianza, della pulizia, della manutenzione, dell’esercizio della rete delle strade cantonali e delle piste ciclabili e delle indennità alle imprese di trasporto per le prestazioni di interesse pubblico e le agevolazioni tariffali richieste. Nel 2021 su un volume complessivo della spesa corrente che ha raggiunto circa 4,2 miliardi di franchi, quasi i due terzi, pari a circa 2,5 miliardi di franchi, sono stati imputati ai settori della previdenza sociale (25,5%), della salute pubblica (13%) e della formazione (21,9%). I restanti 1,7 miliardi sono stati attribuiti agli altri settori, tra i quali primeggiano quello dell’amministrazione generale (8,9%), delle finanze e imposte (8,4%) e dell’ordine pubblico, sicurezza e difesa (7,8%). I trasporti e le comunicazioni, con un’incidenza del 6,8%, si collocano nel drappello di coda delle spese «minori», insieme all’economia (5,5%), alla cultura, tempo libero e sport (2%) e alla protezione dell’ambiente e del territorio (0,6%). La spesa per la mobilità e le telecomunicazioni ammontava così nel 2021 a circa 288 milioni di franchi, di cui circa 120 milioni, ossia il 42%, sono stati destinati a indennizzare le imprese di trasporto per i costi non coperti dei servizi erogati. A partire dal 2004, con l’avvio

Evoluzione della spesa corrente del cantone Ticino 4500000

4000000

3500000 Finanze e imposte Economia

3000000

Protezione dell'ambiente e territorio

In 1000 Fr.

Il quotidiano bollettino sullo stato delle strade e sull’apertura dei colli alpini, il mattutino elenco delle perturbazioni, gli sporadici annunci su incidenti e presenza di animali sulla carreggiata, gli altalenanti avvisi sui ritardi e sulla soppressione dei treni e il saltuario allarme per qualche automobilista che circola in contromano catturano quotidianamente la nostra attenzione. Siamo bene informati da radio, televisione e quotidiani. Di quanto spende l’ente pubblico per gestire la mobilità si conosce invece

Trasporti e telecomunicazioni

2500000

Previdenza sociale Salute pubblica

2000000

Cultura, sport, tempo libero e chiesa Formazione

1500000

Ordine pubblico, sicurezza, difesa Amministrazione generale

1000000

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0 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021 P 2022

della modernizzazione a tappe del servizio ferroviario e dei servizi urbani e regionali su gomma, il settore dei trasporti e delle telecomunicazioni ha conosciuto una dinamica di crescita più rapida rispetto agli altri settori. La spesa in questo ambito è infatti più che raddoppiata. In particolare ha inciso sensibilmente sull’incremento il forte potenziamento dei servizi in tutto il Cantone

in coincidenza con l’apertura della galleria di base del Ceneri. Purtroppo il grosso impegno promosso è avvenuto in circostanze del tutto inattese e sfavorevoli con l’esplodere della pandemia da Coronavirus, i cui effetti negativi sulla domanda si sono manifestati soprattutto nel 2020 per poi nel 2021 essere parzialmente recuperati rispetto al 2019. I prossimi anni saranno decisivi per verifi-

care l’impatto effettivo dello sforzo compiuto sul numero di viaggiatori e quindi sugli introiti e di riflesso sulle indennità a carico degli enti pubblici. L’impatto del settore dei trasporti e delle telecomunicazioni sulla spesa pubblica complessiva rimane tuttavia in termini relativi sostanzialmente molto contenuto; è salito dal 4,5% del 2004 al 5,8% prima dell’apertura del Ceneri e al 6,8% del 2021. Annuncio pubblicitario

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NOVITÀ


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Anno LXXXV 4 luglio 2022

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SOCIETÀ / RUBRICHE

Approdi e derive

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di Lina Bertola

Dalle radici al cielo

Per contrastare alcune vistose derive del nostro tempo a me pare importante coltivare meglio il sentimento della nostra comune appartenenza, non solo ai destini del mondo, ma pure alla natura nelle sue molteplici espressioni. Questo sentimento ci può aiutare a contrastare certe forme esasperate di individualismo e tanti sogni di onnipotenza che impoveriscono il nostro vivere e convivere. Basti pensare all’aumento delle disuguaglianze e delle sofferenze di molti, o all’uso scriteriato di una natura divenuta solo risorsa da sfruttare e agli squilibri ecologici che ci interpellano oggi con urgenza; o ancora, al girotondo di tante vite esibite, in cui legami sempre più fragili ospitano solitudini e spesso anche conflitti. Parlo di un sentimento perché il sentire è sorgente spesso inascoltata di tante verità. Bello sarebbe allora riuscire a coniugare la ragionevolezza dei sentimenti, che ci immerge nella com-

plessità della vita, con le conoscenze scientifiche che della vita cercano di comprendere e spiegare i segreti. Per sperimentare questo felice intreccio tra la ragionevolezza di sentimenti ed emozioni e la razionalità delle conoscenze scientifiche, vi propongo di entrare in uno dei nostri bellissimi boschi a incontrare le atmosfere offerte dai suoi molteplici linguaggi. La scienziata Vandana Shiva ama mostrarsi aggrappata a tronchi secolari in amorevoli abbracci, per ricordarci il legame fisico e simbolico con la natura che alimenta le sue ricerche. La filosofa Maria Zambrano ha fatto del bosco, con i suoi chiari, misteriosi ed enigmatici, una potente metafora dell’anima: il bosco come il luogo originario dell’anima, l’aurora del pensiero che può nascere solo decifrando ciò che sentiamo. Poi ci sono i boschi e le foreste abitati dai poeti e quelli visitati da naturalisti e biologi. Nelle parole dei poeti pos-

siamo incontrare boschi colorati e profumati di sacro, come in questi versi di Alda Merini: «il colore chiaro del legno / che alza il suo cuore cantando / nell’inno dei cieli, / quel colore che si leva nel vento / e parla con il tuo Signore / l’antico messaggio segreto / della creazione e del caos». Anche nelle parole di biologi e naturalisti risuonano le stesse domande e le stesse inquietudini, e gli scienziati, parafrasando una bella immagine di Nietzsche, interrogano gli alberi per capire se hanno un animo uguale al nostro. Come dire: anche il loro sguardo si apre su ciò che della vita condividiamo, alla ricerca di risonanze sempre possibili. Alla vita degli alberi è dedicato un interessante quaderno monografico della rivista «Philosophie Magazine»: una bella occasione per ampliare la riflessione sulla nostra comune appartenenza attraverso gli esiti più attuali di studi scientifici. Molti studiosi del mondo

vegetale descrivono l’intelligenza delle piante e le loro molteplici espressioni, come la capacità di imparare, di memorizzare, di comunicare e perfino di scegliere i propri comportamenti. Comportamenti iscritti nella natura biologica che rendono difficile immaginare un confine con il mondo animale. E in effetti questi studi tendono ad annullare ogni frontiera tra le varie forme di vita. Ci sono tuttavia anche posizioni più caute nell’assumere questa visione unitaria. Ad esempio la filosofa Florence Burgat sostiene che gli alberi, nelle loro trasformazioni legate alle stagioni, esprimono l’idea di una continua rinascita, tracce viventi di immortalità che noi non possiamo sperimentare in prima persona. Proprio per questo gli alberi non possono essere pensati come individui, perché il loro trasformarsi in una crescita virtualmente illimitata allude in un certo senso all’immortalità

e perciò va sempre oltre il vivere individuale. La loro potenza di vita sembra voler sfuggire alla condizione di essere nato e dunque di essere mortale, come lo siamo noi. Ci sarebbe perciò una differenza qualitativa incolmabile tra la potenza della vita, che condividiamo nella catena del vivente, e il vivere che sperimentiamo noi in prima persona. Pur con sfumature molto diverse, anche questo nostro specchiarci nella vita degli alberi sembra comunque suggerire più responsabilità verso il cosmo cui apparteniamo. Anche in un simbolico abbraccio con gli alberi, nello sguardo del poeta o in quello del biologo, possiamo sentire e comprendere il nostro legame con una natura da cui ci siamo chiamati fuori. Nuove posture che ci allontanino un po’ da quel centro che non ci appartiene e ci accompagnino verso significati più armoniosi del vivere e del convivere: verso un autentico umanesimo della condivisione.

Terre Rare

di Alessandro Zanoli

Vacanze digitali ◆

Vita da spiaggia romagnola, modello 2022: mamma, nonna, figli/nipoti, eventualmente padre e nonno seduti sotto l’ombrellone con lo smartphone davanti al naso e l’indice strofinante su e giù alla ricerca di chissà cosa. Lo stabilimento balneare è naturalmente fornito di WiFi («la password è la stessa dell’anno scorso» dice tranquillizzante il bagnino) quindi tutti possono godere di libero accesso gratuito alla grande rete dei desideri. «Come si fa a salvare una videochiamata su Whatsapp? Voglio mandare un pezzetto di video alla Luisa» chiede, bella sdraiata e luccicante di crema solare, la mamma, da dietro ai suoi occhialoni scuri. Si scatena dunque una nuova strofinata collettiva sui display, per vedere se qualcuno, da qualche parte della grande rete, ha spiegato la tecnica. Occorre ora raccontare un antefatto: qualche settimana prima, da un re-

moto angolo d’armadio a casa della nonna, era saltata fuori una vecchia scatola di cioccolatini, legata con un elastico, piena di vecchie lettere della bisnonna. Pagine di bella carta leggera, tutte dello stesso formato, che appartenevano a uno di quegli immancabili set da corrispondenza casalinga: erano cartellette di pelle colorata con vari divisori interni, riempiti con fogli, buste, francobolli e magari l’agendina degli indirizzi. Erano come Whatsapp d’antan… La bisnonna forse non conosceva l’uso della carta assorbente rigata, quella che, messa sotto il foglio su cui si scriveva, lasciava trasparire un affidabile percorso orizzontale, in modo che la mano potesse stendere la grafia in modo uniforme e rettilineo. Le sue lettere, scritte in un arco di tempo considerevole, dagli anni 50 agli 80 del secolo scorso, erano tutte piene di un tratto nervoso, obliquo e irregolare, che indicava

Le parole dei figli

ripensamenti, aggiunte, precisazioni, richieste dell’ultimo momento. Leggendole, tutta la famiglia si era lasciata prendere un po’ dalla commozione. Persino le incertezze ortografiche («finalmente abiamo racolto le cigliegie») erano segnali pieni di tenerezza che riportavano alla mente la bisnonna, con i suoi modi di dire, il suo intercalare, con le sue frasi preferite. Era stato un modo per rivivere il passato e per sentirsi vicini alla propria storia famigliare, con affetto. Proprio su quella esperienza riflette ora la nonna, a voce alta ma senza volerlo: pensando al frammento di videochiamata che sta per essere inviato, ma forse anche ai mille messaggi che ci scriviamo, alle email, ai selfie collettivi, le scappa un «Ma come farete un giorno a ritrovare tutte queste cose?». La frase significa, in senso lato e per una persona di una certa età: «Cosa re-

sterà di me e del mio affetto per voi, in futuro?». Apparentemente nessuno è pronto a raccogliere la riflessione della nonna. Con il naso appoggiato allo schermo tutti sono presi in un universo parallelo e personale dove il presente è eterno, garantito e non negoziabile. Del passato e del futuro non c’è molto tempo di occuparsi. D’altro canto, la nonna stessa riprende il suo discorso inascoltato e si dà una risposta: «Certo che se la bisnonna avesse potuto fare delle videochiamate, sarebbe stata molto felice». Va ricordato, a questo punto, che la signora in questione era madre di tre figlie le quali, sposandosi, erano emigrate ai tre angoli del mondo. Le occasioni per rivederle erano state necessariamente rare e proprio per questo lei aveva iniziato quella regolare e affettuosa corrispondenza con loro. Nessuno pare cogliere nemmeno quest’ultima osservazione, tranne

chi dall’ombrellone contiguo sta seguendo la vicenda. La scena a cui ha assistito casualmente porta chi scrive queste righe a riflettere su un altro episodio: ricorda infatti di aver raccolto con una certa meraviglia le considerazioni di un amico, il quale rievocava l’esperienza del lockdown con sorprendente nostalgia. L’amico aveva sempre sofferto di un certo raffreddarsi dei rapporti con la figlia, la quale, crescendo, aveva perso confidenza e affettuosità. Ma infine osservava: «Parliamo di più da quando ci vediamo in video di quando vivevamo nella stessa a casa. Scambiamo confidenze impensate fino ad oggi. Quando finirà il Covid, come faremo?». Ci piacerebbe raccontare l’aneddoto alla nonna dirimpettaia, ma è già mezzogiorno e, spedendo ognuno l’ultimo messaggino, la comitiva famigliare è tornata a casa. Avessi il suo numero, le manderei un vocale…

di Simona Ravizza

Challenge

Challenge, devo ammetterlo subito, è una delle Parole dei figli che mi terrorizza come raramente mi accade. Si tratta di sfide social a cui gli adolescenti partecipano su TikTok. Da cronista del «Corriere della Sera», e da mamma sempre in allerta sui fenomeni virali, mi ci sono imbattuta più volte per casi estremi. La più conosciuta è la Blue Whale Challenge (Balena Blu), una discussa pratica proveniente verosimilmente dalla Russia in cui un cosiddetto «curatore anonimo» manipola la volontà e suggestiona i ragazzi sino a indurli, attraverso una serie di 50 azioni, al suicidio. Nel maggio 2017 la Polizia Postale italiana arriva al punto di fare un avviso ai genitori per invitarli a intercettare eventuali atti di emulazione. Impossibile dimenticare poi l’avviso (riportato da Il quotidiano di Puglia) che i residenti di una via a Gallipoli pubblicano ai pri-

mi di febbraio 2021: «Vorremmo segnalare agli automobilisti che in viale Europa c’è un gruppo di ragazzini di circa 12 anni che si nascondono dietro le auto parcheggiate e appena vedono i fari di una macchina di passaggio si buttano letteralmente in mezzo alla strada». È la Planking Challenge, dove gli utenti si sfidano a sdraiarsi sulla strada mentre sta arrivando un’automobile (ovviamente riprendendosi con il cellulare). È una delle follie di una lista di sfide social che negli anni va crescendo. Nella Blackout Challenge vengono messe corde intorno al collo come prova di resistenza (mi viene ancora da piangere se penso alla bambina di Palermo morta a gennaio 2021 a 10 anni perché si è legata la cintura dell’accappatoio al collo filmandosi). A un certo punto compare anche la Benadryl challenge, che prende il nome

da un farmaco antistaminico che può provocare allucinazioni: qui vengono ingerite pillole una dopo l’altra per testare e filmare la propria reazione. E nella Knock out challenge vengono presi a pugni per strada degli sconosciuti per il gusto di farlo e di postare il video. Tutti fenomeni del passato? Nelle scorse settimane l’argomento è tornato d’attualità con la denuncia su Instagram della giornalista Francesca Barra sull’ennesima sfida, la Boiler Summer Cup: abbordare e portarsi a letto ragazze non magre, e ottenere punti in base ai chili. La gravità non la fa il numero di partecipanti: fosse anche uno solo, la mia preoccupazione da mamma è legata al fatto stesso che qualcuno concepisca queste assurdità e le proponga su TikTok. Così mi rivolgo alla mia collega Erika, 25 anni, in redazione per aiutarci sui social con la sua giovane età

(ebbene sì, il loro Dna è diverso dal nostro che ha l’impronta del boomer): le chiedo di prepararmi la lista delle challenge oggi di moda. Voglio essere sul pezzo per parlarne con Clotilde, la mia 14enne. Sono ormai out sia la Koala Challenge sia la Sport Challenge in cui vengono fatte in coppia delle acrobazie che neanche al circo. Diventate celebri le challenge dei brand di moda: con la #PradaBucketChallenge che spopola nel 2021, per esempio, la community è invitata a mostrare il proprio stile creando contenuti con look Prada. Con la #RayBanElevatorDance gli occhiali da sole vengono cambiati dentro un ascensore, a ritmo di musica, abbinandoli al proprio stile. Per l’ultima stagione di «LOL: Chi Ride è Fuori» Amazon Prime Video Italia genera attesa con la #theLOLchallenge: la sfida sempre a colpi di video consiste nel non ridere e nem-

meno sorridere. Adesso sta spopolando la Stranger Things Acting Challenge che si ispira alla quarta stagione della serie Stranger Things, da fine maggio su Netflix, dove degli adolescenti si trovano alle prese con scomparse, misteri e minacce soprannaturali: su TikTok gli Gen Z ripropongono delle sfide a colpi di meme (ossia scenette). Cosa si vince? Nulla, il bello di queste challenge è divertirsi mentre si partecipa, realizzando il contenuto più personale e creativo possibile. Morale, le challenge evolvono con la velocità tipica delle mode social: non è detto che tutte siano pericolose, ma quel che è stato ci dice che ce ne possono essere di molto pericolose. Dunque, è una Parola dei figli che non può mai essere sottovalutata. A riprova che è sempre meglio essere consapevoli di quello che i nostri figli fanno sui social.


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TEMPO LIBERO ●

La fine della Patagonia cilena I mari australi tra diluvi e raffiche di vento che arrivano dall’Antartide e creano onde gigantesche

Moncrìn, Gùer, A Pózz... Un susseguirsi di ampi terrazzi concedono un po’ di respiro a una montagna altrimenti impervia

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Il Monferrato vitato Morbide colline ricche di coltivazioni di Barbera, Ruchè, Grignolino, Freisa e Malvasia

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C’erano una volta i ricordi di carta Fotografia

La stampa da negativo oggi non è più in uso, e con essa sembrano essere scomparsi anche gli album di famiglia

Stefano Spinelli

Finché la rivoluzione digitale non si diffuse in ampi strati della popolazione, la stampa fotografica era l’unico modo – se escludiamo le diapositive e le polaroid, che già allora rappresentavano piccole nicchie di fruitori – per poter guardare il risultato dei nostri scatti. Fin dunque agli inizi del Duemila, prima che il telefonino si tramutasse in quella somma di strumenti che conosciamo oggi, diventando anche dispositivo fotografico che ha modificato radicalmente l’orizzonte culturale e comportamentale della nostra società. Di stampe si comincia a parlare dalla metà dell’Ottocento, con l’invenzione del negativo. Esposto il materiale fotosensibile, questo veniva sviluppato per ricavarne il negativo. Dal negativo, attraverso il procedimento di stampa, si otteneva ciò che si definiva «una fotografia». E così è stato per decenni, fino agli anni Novanta del Novecento. Nel linguaggio abituale, quotidiano, una fotografia non poteva quasi esser altro che una stampa: un’immagine impressa attraverso un procedimento fotografico su un supporto di carta.

Le stampe erano «memoria»: soggettiva, arbitraria, selettiva, ma pur sempre una forma fisica del ricordo Per chi ha avuto l’occasione di vivere di persona una tale esperienza, la nascita di una stampa fotografica aveva un che di misterioso. Di alchemico. Si esponeva la carta sotto l’ingranditore per poi immergerla in un bagno di sviluppo: poco a poco apparivano le prime ombre, l’immagine prendeva forma, si delineava, diventava sempre più consistente fino a raggiungere il grado di sviluppo stabilito dal tempo di esposizione. La foto era lì. In pratica si ripeteva in camera oscura la magia dello scatto. L’ingranditore non era altro che una grande macchina fotografica al contrario, proiettava sulla carta fotosensibile – negativa – quanto già catturato dal negativo, riportando in questo modo l’immagine alla dimensione positiva. In sintesi: applicando un processo negativo al prodotto di un precedente e medesimo processo negativo, si riotterrà il positivo. Naturalmente ogni negativo richiedeva in fase di stampa la sua specifica dose di attenzioni: protezione (mascheratura) di certe aree del negativo per far sì che i dettagli nelle ombre rimanessero distinguibili; bruciature delle aree troppo luminose (e molto opache sul negativo), che voleva dire dare un supplemento di luce a quelle zone per riuscire a ottenerne i dettagli proteggendo il resto del

Autoritratto. (Jean-Pol Grandmont)

negativo. Tutto ciò stando immersi, spesso per ore, in una luce bassa, rossastra o giallastra, e in un effluvio di odori chimici molto particolari. Si operava con le mani – poste tra il negativo e il piano di stampa – o con cartoni bucati, o con sorte di palettine fatte di sagome di cartone e filo di ferro che si agitavano intanto che la carta veniva impressionata. Visto da fuori un tale procedere poteva rammentare una qualche strana danza, o il retro di un teatrino delle ombre. Ci si sbizzarriva con vari strumenti, d’uso abituale ma a volte sagomati proprio ad uopo, per uno specifico

negativo, per far sì che nello sviluppo la carta rivelasse infine l’immagine come ce l’eravamo immaginata sottoponendola al lavoro della luce. Provvista dei dettagli, delle sfumature, dei contrasti desiderati. Una stampa complicata poteva prendere anche delle ore, se di una certa dimensione e importanza. Si facevano dei provini in varie zone del negativo per capire i tempi di esposizione generale e dei dettagli, il grado di contrasto da applicare, quanto a lungo e come sviluppare. Si procedeva un po’ a tentoni, grazie all’intuito dell’esperienza, fino a raggiungere il risultato voluto. E ciò

significava che ogni stampa era, alla fin dei conti, un esemplare unico. Vero e puro artigianato. La ristampa del medesimo negativo avrebbe dato un risultato diverso. Simile, ma inevitabilmente diverso. Non parliamo qui, ovviamente, della stampa industriale, automatizzata – sprovvista di quelle finezze – che potrebbe in teoria replicare all’infinito il medesimo risultato. Ai tempi del negativo, quasi tutto il materiale esposto veniva stampato. Chi procedeva da sé – oltre ai professionisti anche diversi amatori evoluti –, e chi mandava i rullini al laboratorio. Capitava che si dimenti-

cava, o semplicemente si lasciava, una pellicola per mesi e più dentro a una macchina fotografica. Alla prima occasione – magari una festa, o una cerimonia, un viaggio (si viaggiava molto di meno di oggi, viaggiare era cosa assai speciale), o che altro – si sarebbe finito di esporre il rullino, di 24 o 36 pose, e lo si sarebbe portato nel negozio del fotografo per farlo sviluppare e stampare. Mi viene da sorridere, se penso che questo capitava ancora solo pochi anni fa. Le stampe andavano pian piano a riempire gli album che con cura si conservavano nelle case. Rappresentavano la memoria viva delle famiglie, e non solo, anche di gruppi più estesi di persone, le comunità, che ancora esistevano come tali, e non come semplici somme di singole individualità, quali sono perlopiù diventate oggi. Le stampe erano memoria (storia, identità). Certo, arbitraria, selettiva, legata allo sguardo del fotografo, alla sua abilità e sensibilità nel trasporre in immagine dei momenti, il senso di un evento. Soggettive. Ma pur sempre illustrazione tangibile degli istanti che sarebbero rimasti a ricordo, – a imperitura memoria – di ciò che è stato, nel percorso fugace delle vite lì dentro rappresentate. Uno sguardo, un gesto, un insieme di persone – il senso del loro stare insieme, del loro ritrovarsi. Alla stampa appartiene questa forte valenza sociale, identitaria, storica. Almeno, l’ha avuta per una gran parte del corso della storia della fotografia. Forse era, inconsciamente (se la storia ha un inconscio), proprio la sua funzione. Funzione che è andata perduta nel tempo. Oggi non si stampa praticamente più: a fronte di una saturazione di scatti realizzati quotidianamente, ormai dell’ordine di svariati miliardi, riscontriamo una rarefazione, una scarsità d’immagini stampate. Di queste, se n’è estinto il bisogno, ed è sintomatico dello strappo che la rivoluzione digitale ha prodotto. Con le conseguenze del caso: se le stampe incarnavano concretamente la possibilità di trasmettere la Storia, le nostre storie individuali e collettive, privandocene rendiamo il mondo più amnesico, perso in un presente sempre sospeso, labile, effimero e volto verso un inquietante assoluto tecnologico. Il mio suggerimento per questa puntata è naturalmente, oltre a scattare un po’ di meno, quello di (far) stampare le vostre foto, come si faceva un tempo, scegliendo quelle più care e importanti – come se le aveste fatte con un rullino da trentasei scatti – e di conservarle dentro un album per non perdere cammin facendo la Storia che è in voi. Che siete voi. I vostri nipoti ve ne saranno grati. A presto con una puntata sulla stampa digitale.


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I porti di Coloanel Reportage

Cile: dal passo dell’Abisso alla baia dell’Ultima Speranza, navigando nei mari australi fino alla fine del mondo

Enrico Martino, testo e foto

La Patagonia non esiste. Esistono molte idee di Patagonia create dalla fantasia degli uomini che hanno cercato di ridurre questa immensa distesa di eccessi dentro confini ridicolizzati da madre natura. Solo la muraglia di pietra delle Ande riesce a dividerla, a est il mondo orizzontale delle pampas argentine, a ovest la Patagonia cilena, una sottile striscia verticale di terra incastonata tra i fiordi del Pacifico e i ghiacciai andini. Basta un’occhiata alla carta geografica per capire che cosa nasconde questa Fin del Mundo verticale, Golfo de Penas, passo dell’Abisso, baia dell’Ultima Speranza, isola della Desolazione, nomi che nei mari australi tutti sussurrano con rispetto, soprattutto tra le case di legno di Angelmò, il vecchio quartiere dei pescatori di Puerto Montt dove anche l’aria sa di salsedine.

Solo i chilotes conoscono segreti e fantasmi di questo mondo battezzato con nomi suggestivi e inquietanti «La vera porta d’ingresso alla Fine del Mondo è qui, noi non siamo come gli argentini per cui mezza Argentina è Patagonia» precisano con una punta di orgoglio marinai che stivano giganteschi camion su un attempato ferry tra un diluvio d’acqua e raffiche di un vento cattivo. «Vedi quelle? Ci aspettano al varco tra un paio di giorni nel Golfo de Penas» sorride sornione uno di loro indicando una muraglia di nuvole nere che sbarra l’orizzonte. «È il peggiore dei mari su cui ho navigato, e sono tanti. Venti e correnti arrivano dall’Antartide creando onde gigantesche e non puoi mai prevedere cosa succederà. È una Maruja non un mare, noi lo chiamiamo così, come una donna». Nel frattempo, sperando che Maruja si comporti da signora, la nave ha finito di inghiottire camion e passeggeri diretti verso la Terra del Fuoco cilena bypassando il Campo de Hielo Sur, un ghiacciaio di un milione di ettari che taglia il Cile dalle Ande al Pacifico. Più tardi, quando Puerto Montt si smaterializza nella foschia appare l’isola di Chiloè con le sue case foderate da migliaia di tessere di legno che ricordano scaglie di pesce e chiese che esplodono di blu, gialli squillanti, verdi e rosa pastello. Vascelli di legno tra le colline, Patrimonio dell’Umanità Unesco, costruiti dai gesuiti che ribattezzarono «Giardino del Signore» questo Eden spopolato di uomini ma affollato di balene, foche, pinguini e sterminate varietà di volatili. Un luogo mitico dell’identità cilena, patria di marinai e contadini che hanno popolato l’im-

menso vuoto della Patagonia. Uno di loro era Francisco Coloane, un Melville australe alto quasi due metri che la Patagonia prima di raccontarla nei suoi libri l’aveva vissuta da marinaio e baleniere facendo rivivere come nessun altro le mille sfumature della pioggia australe, lo scricchiolio sinistro dei ghiacciai che precipitano in mare e lo stridio degli uccelli marini nella penombra dell’alba. Solo i chilotes conoscono segreti e fantasmi di questo mondo, impalpabili come il din-don delle campane dei battelli affondati che nei giorni di tempesta i marinai sentono salire dal fondo del mare o reali come il relitto del capitàn Leonidas incastrato su uno scoglio solitario, uno spettro di ferro grigio che la corrente contraria fa sembrare in movimento. Labirinti d’acqua che scivolano tra isole e promontori, popolati fino a non molti anni fa da un travolgente immaginario collettivo di sirene che nelle notti di luna piena si accoppiavano su letti di conchiglie con il Trauco, gnomo rugoso che si aggira fra i boschi vestito di muschi e licheni, mentre il Caleuche, un veliero fantasma con un equipaggio di streghe e marinai annegati, rapiva i marinai con la sua musica magica per poi scomparire sotto le onde. Quando le pareti del Canal Moraleda si stringono come una gigantesca tenaglia, Maruja comincia a farsi sentire, prima impercettibilmente poi in modo sempre più deciso e la nave comincia a muoversi mentre all’orizzonte le onde si spezzano in una nuvola d’acqua contro le scogliere nere della penisola di Taitao che obbliga le navi a puntare verso il mare aperto attraversando il Golfo de Penas. Stanotte però Maruja è di buon umore e alle prime luci di un’alba grigio latte, il ferry entra nel Canal Messier mentre i passeggeri salgono sul ponte con l’aria dei miracolati che hanno vinto una lotteria, mentre dal fondo di una baia persa nell’immensità dell’isola Wellington si materializza un minuscolo grumo di case colorate, Puerto Eden. «Vivir es dificil» sospira la moglie dell’unico poliziotto nel raggio di centinaia di chilometri. «Piove quasi tutti i giorni e non ci sono strade, solo passerelle perché la terra è un mare di fango, e bisogna anche stare attenti alle provviste perché dipendiamo totalmente dalla nave, che magari ritarda per giorni». «È stata fortunata, perché spesso l’elicottero non arriva per le condizioni meteo» sghignazza il marito, così la gente emigra a Puerto Natales dove il ferry tira definitivamente il fiato dopo avere strisciato come un serpente di mare tra le strettoie di roccia di Paso Wide. Per assaporare le atmosfere della Patagonia perduta di Coloane bi-

Navigazione in traghetto tra il canale Paso Wide e il golfo di Ultima Esperanza; in basso a sinistra, Puerto Montt, mercato del pesce di Angelmò, uno dei più tradizionali del paese; a destra, Castro con le sue palafitos, ovvero case tradizionali costruite su palafitte a picco sul mare.

sogna scendere oltre Punta Arenas – dove degli ultimi indios fuegini restano solo sguardi persi nel vuoto di vecchie fotografie trasformate in interior design di hotel e caffè per turisti in cerca di romanticismo all included – e imbarcarsi su un piccolo aeroplano che attraversa una giostra impazzita

di venti tra isole, ghiacciai, vulcani e laghi verde smeraldo per poi scendere in picchiata su Puerto Williams. Una Macondo australe sull’isola di Navarino, più a sud persino di Ushuaia che si fregia del titolo di città più australe del mondo. Così, anche se Ushuaia è grande e Puerto Williams è picco-

la, hanno ragione i cileni, che di certo provano una segreta soddisfazione nei confronti dei cugini argentini, perché solo da Puerto Williams ti puoi prendere il lusso di guardare la Fin del Mundo dall’altro lato. Qui il mondo degli uomini finisce a Caleta Eugenia dove la strada più meridionale delle Americhe si spegne davanti a una casetta dal tetto rosso dopo avere sfiorato i resti dello scheletro di una balena venuta a morire su una spiaggia di sassi come nei racconti di Coloane. Gli unici ad avere radici tra questi gelidi canali erano gli yaganes, uccisi dall’alcool, dai marinai delle navi di passaggio e persino dalla carità cristiana di missionari che non avevano capito nulla della loro vita. Gli avevano costruito delle case, li avevano vestiti e gli avevano dato cibi da «persone civili» e loro, abituati a una dura selezione naturale, avevano cominciato a morire in silenzio. Gli ultimi sono sepolti sotto una fila di croci bianche tra l’erba piegata dal vento in un piccolo cimitero davanti al mare. Oltre c’è solo il silenzio ghiacciato dell’Antartide, perché se la terra è rotonda ma ha una fine, è qui. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.


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Il sentiero dei vecchi saggi Itinerari

Un’escursione sui monti di Claro alla scoperta dei castagni secolari

Romano Venziani, testo e immagini

«Ogni uomo guarda la sua catasta di legna con una specie di affetto», ha scritto uno che sapeva il fatto suo e aveva esperienza e tempo sufficienti per riflettere su quanto asseriva. È la primavera del 1845, quando Henry David Thoreau, stufo della caotica società americana (già allora!) e della sua assurda corsa alla modernizzazione, decide di andarsene ad abitare nei boschi del New England, ai margini della sua cittadina natale, Concord, nel Massachusetts. Prende in prestito un’ascia, costruisce un capanno spartano, coltiva fagioli e vive lì per due anni, due mesi e due giorni in completa (o quasi) autarchia, animato dal genuino desiderio di «vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto». Grazie alle riflessioni scaturite dall’esperienza di esilio volontario, Thoreau trae un libro, che avrà un successo straordinario, Walden o Vita nei boschi, considerato il primo romanzo ecologico, un’opera che ha affascinato e ispirato, attraverso tutto il Novecento e fino a oggi, i movimenti anticonformisti, ecologisti e ambientalisti, così come tutti coloro che aspirano a una vita semplice e a un ritorno alla natura. Piace anche a me riflettere, quando mi trovo immerso nella natura, con le sue vibrazioni, i suoi profumi, i suoi suoni e i suoi silenzi. Mi viene spontaneo, è come un déclic, forse suggerito dal ritmo lento dei passi, che avverto appena mi lascio alle spalle gli spazi urbani, il traffico, i rumori e m’incammino liberando i pensieri, che si lasciano catturare dalle singolarità dei paesaggi. E così, oggi, mi è tornato in mente Thoreau. Il déclic mi viene da tutte queste cataste di legna, che incontro sul sentiero che, da Moncrin, si allunga attraversando i nuclei montani situati a una quota costante tra gli otto e i novecento metri sopra i paesi di Claro e Cresciano. Guardando dal basso, non immagineresti di trovare quassù un susseguirsi di ampi terrazzi, una provvidenziale eredità glaciale, che concede un po’ di respiro a una montagna altrimenti piuttosto impervia e che è stata sfruttata nei secoli dalla civiltà contadina come tappa intermedia nella sua vitale transumanza verticale dai villaggi del piano fin sugli alpeggi. Hanno nomi strani, questi insediamenti, Moncrìn, Gùer, A Pózz, A Pombrös, A Soröröi, A Òra, A Sotarègn. Toponimi arcani, il cui significato, ormai perso tra le pieghe del tempo, non mi è noto. Anche i volumetti dell’Archivio dei nomi di luogo di Claro e Cresciano, ahimè, non mi sono d’aiuto, limitandosi a un laconico «monte con cascine e prati a una quota di…». Solo per Moncrin e Gùer si aggiungono un paio di annotazioni sostanziali, «bel pianoro, con cascine, prati e castagni secolari…». Mi fermo su un dosso, da cui posso ammirare Moncrin, e subito avverto un’energia buona e salutare, un senso di tranquillità e di pace, che mi accompagnerà lungo tutto il percorso. Sopra di me, lassù in alto, un’accozzaglia di dirupi coronati di conifere, su cui volteggiano lente due aquile. Davanti agli occhi, invece, un ampio terrazzo, con gruppi di cascine addossate le une alle altre e qualcuna solitaria

Il sentiero a Soröröi. Sopra, Il sentiero dei vecchi saggi. (Illustrazione di Romano Venziani)

in mezzo ai prati. Il paesaggio è ordinato, l’erba ancora paglierina falciata per bene e la vegetazione diradata con cura. Segue un altro pianoro, con il nucleo di Gùer. Anche qui lo stesso ordine e la stessa cura del territorio, segno di un amore dei villeggianti per questi monti e di un profondo rispetto per le generazioni che li hanno preceduti e che qui, con ogni probabilità, hanno provato la fatica del vivere in tempi meno fortunati. E poi ci sono le cataste di legna. Pile squadrate spuntano qua e là, isolate o appoggiate ai muri dei cascinali. Altrove ci sono ciocchi ammonticchiati a formare alti coni contro alberi o massi erratici. Alcuni mucchi sembrano opera recente, con scaglie e cortecce sparse ai loro piedi, ed emanano un profumo intenso e pungente. Ed è qui che mi sono ricordato di Thoreau e di quanto ha scritto sull’affetto dell’uomo per la sua catasta di legna. Ma non è stato il solo, l’eremita di Concord, a tirare in ballo i sentimenti. Lars Mytting, giornalista e scrittore norvegese, che si è appassionato all’argomento guardando la meticolosità e l’amore con cui il suo anziano vicino di casa si occupava delle preziose scorte invernali, ha pubblicato nel 2011 un volumetto dedicato al rapporto dell’uomo con il legno, divenuto in breve tempo un bestseller. Il libro di Mytting, che potrebbe sembrare un semplice manuale dedicato alle tecniche di tagliare gli alberi, lavorare la legna, conservarla, bruciarla, e a tutti gli attrezzi occorrenti, si rivela una riflessione profonda sul

rapporto tra l’uomo e la natura e una preziosa lezione di vita. «Gli appassionati della legna non amano esprimere a parole questo loro affetto: occorre ricercarlo nello loro cataste alte e ben formate» scrive Mytting, il quale, però, si spinge oltre e arriva a formulare l’ipotesi che «si può capire qualcosa di una persona osservando il modo in cui spacca e accatasta la legna». E ti snocciola tutta una serie di caratteri umani associandoli ad altrettante tipologie di mucchi di legna. Così vengo a sapere che una catasta bassa indica un uomo cauto, «forse timido o con poco nerbo», che la persona abituata a vivere alla giornata ammucchierà poca legna, che, dietro una pila retta da un ordine minuzioso, si nasconde l’individuo perfezionista, forse introverso. Oppure ancora, una catasta dalla forma insolita, traduce uno spirito libero, un carattere estroverso. Mytting attira però l’attenzione sul pericolo dei crolli quando il mucchio di legna, tirato su dall’uomo ambizioso, si rivela essere troppo alto. Lo scrittore va avanti così, raccontando che, a fine Ottocento, «le donne delle regioni boschive del Maine consigliavano alle ragazze in età da marito di valutare i loro pretendenti a seconda del modo in cui accatastavano la legna». E conclude con un consiglio, se si accorgono che il futuro consorte non ha per niente preparato una legnaia, meglio non sposarlo, perché non bisogna dimenticare «che l’inverno arriva ogni anno». Sulla scorta della sistematica di Mytting, mi diverto a catalogare le

cataste che incontro sui monti e provo a buttar lì un paio di profili plausibili. I «boscaioli» di quassù, che immagino mentre contemplano affettuosamente la loro pila asciugandosi il sudore della fronte, sono previdenti e fedeli, con una certa vitalità, ma inclini alle esagerazioni e alla temerarietà. Non mi risulta una presenza di spiriti liberi o di un côté artistico, che ho già incontrato altrove. Non ci sono però solo prati, cascine e cumuli di legna, quassù. Tutt’attorno si estendono boschi rigogliosi, che, di questa stagione, concedono ancora magiche trasparenze. Distinguo diverse essenze, ma a prevalere è l’albero del pane, il castagno, che ha colonizzato i versanti della montagna fin su, oltre i mille metri, dove gli sbarrano la strada, ritti sull’attenti, i battaglioni delle conifere. «Un bosco non è solo un insieme di alberi – ha scritto Daniele Zovi – è anche un luogo dello spirito, una dimensione dentro la quale aleggiano paure e speranze, fughe e abbracci, sogni e visioni ancestrali». Visioni e meraviglie che, lungo tutto l’itinerario, si presentano sotto la forma massiccia di castagni monumentali. Li intravvedo, lì, nel folto della selva, che difendono con autorevolezza il loro spazio vitale. Altri campeggiano in mezzo alle radure, solitari, con i rami ancora scheletrici e neri protesi verso il cielo, come se volessero acchiappare brandelli di nubi oggi assenti. Hanno tronchi ritorti e imponenti. Vi giro attorno improvvisando un’improbabile misurazione a passi. Così, a occhio e croce, stimo che i più grossi dovrebbero raggiungere, se non superare, i nove/dieci metri di circonferenza. E credo di non sbagliarmi di tanto. L’Inventario dei castagni monumentali del Ticino e del Moesano, realizzato, quasi una ventina d’anni fa, da Patrik Krebs e Marco Conedera della Sottostazione Sud delle Alpi del WSL (l’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio), che ho scartabellato prima di partire, rivela «una netta supremazia delle valli bagnate dal fiume Ticino: Riviera e Bassa Leventina comprendono 119 castagni monumentali, ossia il 39% di tutti i monumentali censiti». E parecchi dei puntini rossi evidenziati sull’annessa mappa del Ticino li trovo proprio qui, su questi monti.

Altri grandi vecchi mi aspettano lungo il sentiero. Hanno un corpo tozzo, quasi ingobbito, oppure sono alti, con il tronco solido, la corteccia corrugata e solcata da profonde cicatrici, qualcuno ha la pancia ridotta a una profonda cavità. Quanti anni avranno? Trecento? Quattrocento? Alcuni di loro, di sicuro, erano già qui quando laggiù sul piano cavalcavano gli ultimi balivi, altri potrebbero aver annusato il fumo dell’incenso sparso ai quattro venti dal turibolo di Carlo Borromeo, intento a scacciar streghe e a fustigare un clero godereccio e poco ortodosso. E chissà quanta gente avranno sfamato i loro frutti in quei tempi di miseria, o scaldata con il tepore dei loro ceppi. Ai bordi dell’ampia radura di A Pombrös, ce n’è uno morto, ma ancora in piedi. Enorme e sventrato. Mi richiama un colossale dente del giudizio sbrecciato dalla carie. Poco più su, un altro, vivo e vegeto, con una ceppaia mastodontica, da cui sbucano grossi rami. Il tronco tormentato è solcato da un contorcersi di rughe. A guardarlo con attenzione, vi si scoprono figure inquietanti e curiose, il muso di un mastino, quello di un rinoceronte, uno strano e goffo pesce ricoperto di squame. Accanto ad alcune cascine, su un altro tronco secolare ormai defunto è cresciuta una giovane betulla, che trae nutrimento dal suo legno sgretolato. C’è una grande nobiltà in questi alberi secolari, sono generosi e solidali, anche quando hanno concluso il loro lungo ciclo vitale. Riprendo il cammino e subito mi si para davanti un altro grosso castagno, il tronco, forse indebolito dall’età, è stato schiantato da poco dal vento o dalla neve e se ne sta disteso, di fianco al sentiero. Ci dev’essere un intero mondo in quel corpo abbandonato tra i sassi. Tribù d’insetti scavano intricate gallerie, succhiano quello che c’è di buono dal legno morto, funghi e muffe crescono in silenzio, i picchi colorati vengono a tamburellarne la corteccia col loro becco appuntito, mentre una miriade di altri esseri microscopici ne fanno vibrare le intime fibre. «Un bosco è un organismo complesso» scrive ancora Daniele Zovi. «È il risultato di azioni e reazioni, di alleanze e competizioni, di simbiosi e parassitismo; è un alternarsi di vita e morte, di crescite e crolli». Al tramonto, i castagni monumentali, che ho conosciuto su questi monti, se ne stanno lì come vecchi saggi, immobili e pazienti, ad ascoltare le voci del bosco, in attesa del sonno. Perché anch’essi dormono, l’ha dimostrato il monitoraggio con apparecchiature al laser di alcuni alberi, in Austria e in Finlandia. Per tutta la notte, le piante distendono i loro rami, che si abbassano di parecchi centimetri, come se si rilassassero al termine di una lunga giornata. Bibliografia Henry D. Thoreau, Walden o Vita nei boschi, La Biblioteca Ideale Tascabile, Milano, 1995. Lars Mytting, Norwegian Wood. Il metodo scandinavo per tagliare, accatastare e scaldarsi con la legna, UTET, 2021. Daniele Zovi, Alberi sapienti antiche foreste. Come guardare, ascoltare e avere cura del bosco, UTET, 2018. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.


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Anno LXXXV 4 luglio 2022

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TEMPO LIBERO

Le colline vitate del Monferrato Bacco giramondo

Continua il viaggio enologico nella regione del Piemonte

Davide Comoli

Il Monferrato è una regione storica del Piemonte, tra i fiumi Po, Tanaro, Belbo e Bormida, per la maggior parte si trova in provincia di Alessandria e in minor misura in quella di Asti. Si suddivide in Alto Monferrato (a sud) e Basso Monferrato (a nord). Il nostro itinerario tra vigne e cantine inizia da Casale Monferrato, dove morbide colline disegnano armoniose tavolozze in cui torri, castelli e borghi fortificati si alternano a ondulati colli caratterizzati dalla coltivazione di Barbera, Grignolino, Ruchè, Freisa e Malvasia a bacca nera: una vera cartolina. Seguendo il corso del Po fino a Pontestura, sfioriamo la zona della D.O.C. Rubino di Cantavenna e Gabiano, che vedono la compartecipazione di tre vitigni dell’Astigiano per eccellenza, Grignolino, Freisa e Barbera. Continuando sulla 457 ci dirigiamo verso Serralunga di Crea, dove con una piccola deviazione a destra si sale al Sacro Monte di Crea, una delle più alte colline del Basso Monferrato, da cui si ammira uno splendido panorama. Continuiamo per pochi chilometri a sud, fermandoci a Moncalvo, famosa anche per le numerose sagre e manifestazioni gastronomiche, dove un Grignolino (vanto della zona), dai delicati profumi fruttati, dal gusto piacevole, fresco e dai tannini poco pronunciati, accompagna l’agognato fritto misto piemontese. Entrati nelle grazie del ristoratore, non abbiamo potuto esimerci dal provare il Ruchè offertoci. Il Ruchè è un vino dal colore rubino scarico e dal profumo intenso, leggermente speziato e aromatico, molto piacevole. Destinato a scomparire, questo vitigno coltivato in zona da secoli fu salvato a Castagnole Monferrato dall’allora sindaco della cittadina Lidia Bianco, che lo recuperò dall’oblio. Oggi, l’intrigante vitigno è coltivato in sei comuni che circondano Castagnole (tra Moncalvo e Asti). Ripartiamo verso sud, sfioriamo Asti, la capitale di questa provincia, che vista sulla carta geografica sembra abbia la forma di un grappolo d’u-

va, dove storia e natura possono entusiasmare chi la visita, almeno come il Grignolino e il Barbera che stiamo andando a provare. Attraversiamo il fiume Tanaro che fa da spartiacque tra l’Alto e il Basso Monferrato, puntiamo verso Rocchetta Tanaro, dove il compianto Giacomo Bologna dimostrò al mondo che anche la Barbera poteva essere un grande vino, guadagnandosi la copertina di «Wine Spectator». Subito fuori dall’abitato troviamo un’area boschiva protetta, il Parco Regionale della Val Sarmassa, dove faggi, roveri, castagni e querce secolari ci accompagnano per la gioia dei nostri occhi in una distesa interrotta: dopo Vinchio arriviamo a Castelnuovo Calcea. Qui le vigne di Barbera diventano un’opera d’arte: i filari del produttore Chiarlo sono infatti costellati di realizzazioni di vari artisti; ci fermiamo a scattare alcune foto prima di arrivare a Nizza Monferrato. La cittadina con orgoglio esibisce il centro storico attraversato dal porticato e i suoi palazzi d’epoca; il museo Bersano accoglie «contadinerie» e stampe antiche sul vino. Qui ci si può deliziare con gli amaretti della vicina Mombaruzzo, inventati nel Settecento da un pasticciere di casa Savoia, da innaffiare con un vivace/vinoso giovane Barbera del Monferrato. La sera ci trova a pochi chilometri da Canelli, in un agriturismo da dove si gode una bella vista panoramica, in un’elegante atmosfera piemontese. Luogo magico già descritto da Cesare Pavese (nato in questi luoghi) in un suo romanzo. Il Piemonte ha una ricca tradizione gastronomica: a cena, sfila la classica bagna càuda ottenuta con il cardo gobbo di Nizza e peperoni crudi, da intingere in una salsa composta da olio bollente con aglio e acciughe dissalate, contenuta nel classico fornelletto (fojòt), a cui abbiniamo un giovane violaceo Barbera di una bevibilità fuori dal comune. Il «coniglio al Barbera» che giunge poi fumante al nostro tavolo, fa coppia con un Nizza

Vista aerea di Castagnole delle Lanze. (Starnutoditopo)

(sottozona del Barbera che prevede un disciplinare di produzione più severo), dal colore rubino scuro e intense note fruttate: vino di estrema eleganza e un finale di grande persistenza. Ci troviamo nell’angolo più dolce della provincia di Asti. Qui è il regno del Moscato e quindi, dulcis in fundo, piccoli torroni e frolle alle nocciole con un Loazzolo (Moscato passito) dalla complessa aromaticità olfattiva, dove oltre ai classici aromi prima-

ri dell’uva Moscato, percepiamo sentori di miele, camomilla, frutta secca e sfumature che vanno dal legno di sandalo alla vaniglia: una goduria! Al mattino ripartiamo: a Canelli è d’obbligo visitare le Cattedrali sotterranee, una rete di oltre venti chilometri di gallerie tufacee adibite ad affinare lo spumante e inoltre per capire e spazzare via i dubbi eventuali sulla differenza tra Asti Spumante e Moscato d’Asti.

Puntiamo a nord-ovest, superiamo Castagnole delle Lanze poco dopo Costigliole d’Asti, ci spostiamo sulla sponda sinistra del Tanaro e proseguiamo verso S. Damiano d’Asti. Siamo al confine con le terre del Roero. Prima di dirigerci verso Villafranca d’Asti, ci fermiamo per degustare un piatto di salumi locali molto apprezzati con un bicchiere di rosso Croatina, coltivato nelle vicinanze di Cisterna d’Asti (unico comune del Roero in provincia di Asti). A circa dieci chilometri da Albugnano facciamo una piccola deviazione a sinistra per salire al Colle Don Bosco, da ex allievi Salesiani. Il luogo ci ricorda i momenti lieti della nostra fanciullezza e gli insegnamenti ricevuti. Ad Albugnano con uve Nebbiolo, Freisa e Barbera si produce un vino rosso/rosato che ben s’adatta ai formaggi vaccini ben stagionati, ma la ragione per cui siamo saliti fino a qui è un’altra: isolata in una piccola valle da idillio, silenziosa e immersa nel verde, visitiamo la suggestiva Abbazia di Vezzolano. Vuole la leggenda che Carlomagno di passaggio in questi luoghi, come ringraziamento per i numerosi boccali di Freisa ricevuti in dono da un’eremita locale, abbia fatto erigere la cappella su cui sarebbe sorta l’Abbazia. Ritorniamo verso Castelnuovo Don Bosco, dove Chiara ci ha preparato salumi, salsiccia, cardi in bagna càuda e castelmagno semi stagionato, il tutto bagnato da vino Freisa dal colore rubino non troppo intenso, profumato di lamponi, viole e rose, con una buona acidità e di cui apprezziamo la rusticità, molto adatta alla cucina povera. Prima di lasciare Chiara, chiudiamo questo giro in dolcezza con un’aromatica Malvasia di Schierano, dal bel colore cerasuolo, nella quale inzuppiamo i nostri Torcetti, biscotti lunghi e sottili piegati a forma di cuore. Sulla strada verso Torino a cinque chilometri a sud di Chieri, ci fermiamo per l’ultima tappa d’obbligo; la visita al Museo Martini di Storia dell’Enologia a Pessione.

Bella ma anche letale Mondoverde

La Digitalis purpurea è stata usata in diversi gialli come erba velenosa

Anita Negretti

foglie: importanti dal punto di vista medico. Vi è nel loro uso un limite molto sottile tra la dose terapeutica e quella tossica, ed è proprio per questo che fu spesso utilizzata nei romanzi d’investigazione come potente veleno. Ricordo di aver letto L’erba della morte e Le porte di Damasco ormai qualche anno fa e in onore di questi libri quest’anno pianterò delle Digitalis. A tal proposito, devo ammettere che non ho una grande pazienza, quindi acquisterò piante già fiorite, visto che la semina, da eseguirsi in estate tra luglio e agosto, prevede di aspettare ben due anni prima di vederle in fiore. Nelle seminiere, piene di terriccio molto fine, si distribuiranno i minuscoli semi che germineranno in una quindicina di giorni e che verranno trapiantati in vasetti singoli quando le piantine saranno alte dieci centimetri. L’operazione è molto delicata poiché steli e radichette saranno fragili, ma tenuti umidi in un anno svilupperanno una rosetta di foglie; servirà poi un altro anno per vedere i lunghi

steli riempirsi di boccioli di campanelle pendenti. Spontanee anche nei prati e al limitare dei boschi, le digitali hanno foglie ovali e pelose, lunghe fino a venti centimetri, molto simili a quelle delle salvie da orto; vi sono in com-

mercio diverse varietà e ibridi derivanti da Digitalis purpurea, come la «Camelot rose» alta fino a un metro, rosa carico da maggio a giugno, con fiori grandi, brillanti, che abbinerò alla «Camelot Cream» e alla «Camelot Lavander», tutte della stessa altez-

pxhere.com

I libri di Agatha Christie sono ricchi di mistero e sono tra i miei preferiti come lettura sotto il classico ombrellone da spiaggia ma, diciamocelo, sono anche un ottimo intrattenimento invernale: amo leggere questi romanzi seduta in poltrona e con la classica tazza di tè sul tavolino. Agatha non era però solo un’ottima scrittrice, era anche una giardiniera curiosa, con una splendida villa. Mi riferisco a quella di Greenway, la preferita tra quelle che possedeva. E la preferita anche dei suoi eredi se consideriamo che ne fecero dono al National Trust, per preservarne intatta la bellezza. In questo meraviglioso giardino, tipicamente all’inglese con aiuole straripanti di erbacee perenni, spiccano le macchie di Digitalis purpurea, una rustica erbacea alta fino al metro e mezzo, che ama posizioni a mezz’ombra. Madame Christie conosceva molto bene questa pianta, ammirandone sia i fiori campanulati con colori dal bianco al rosa fino al porpora, sia le

za, per creare una macchia di colore sotto alla chioma di un gelso ad alberello che le ombreggerà. Informali, resistono sia al gelo, con punte fino a –20°C, sia al caldo afoso, ma diventano preda di chiocciole e lumache specie a inizio primavera, quando dal terreno nudo spuntano le prime delicate foglioline. In un’altra zona del giardino metterò in piena terra alcune Digitalis della collezione «Dalmatian», come «Peach», «Purple», «White», «Rose» che, come ben descritto dal loro nome, hanno colori diversi, ma tutte, all’interno delle campanelle, sono puntinate di rosa scuro (effetto dalmata). In base allo spazio che occuperanno, deciderò se tagliare le infiorescenze che via via sfioriranno, per stimolarle a rifiorire in settembre, o se lasciarle in modo tale da produrre semi. Attenzione: le digitali si auto disseminano con facilità e nel giro di qualche anno, (almeno due!), arriveranno a coprire un’ampia zona dell’aiuola.


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Il Quiet Book da sfogliare in acqua Crea con noi

Meduse, pesciolini e granchi danno vita a un libro sensoriale pensato per i bagnetti dei bambini

Giovanna Grimaldi Leoni

le solo nella parte inferiore così da creare degli strati di diversi materiali, texture e consistenze che potranno accogliere i piccoli pesci.

Materiale

Pagina puzzle Sulla pagina di panno spugna giallo cucite una tasca azzurra di panno multiuso in cui inserire i semplici puzzle marini. Riportate dal cartamodello il contorno dei 4 pesci/ puzzle sul panno spugna, ritagliateli con la forbice e dividete ogni soggetto in 2 (o più) parti. Inseriteli nella tasca creata.

Il tutorial di oggi vi permette di cucire velocemente un libro sensoriale, con tante differenti texture e piacevolissimo al tatto, che può essere bagnato e utilizzato anche in vasca da bagno o nella piscina. Potete crearlo partendo dai panni per le pulizie che acquistano così una connotazione decisamente più divertente, regalando al contempo ai vostri bambini quattro diverse pagine da toccare e con cui giocare.

Prendete il retino dei limoni e fissatelo con gli spilli alla pagina di panno spugna celeste dandogli la forma desiderata. Con la macchina da cucire fissate tutto il perimetro lasciando solo il lato superiore aperto. Tagliate ora delle strisce larghe 2 cm dal panno spugna giallo e andate a cucirle sulla rete così da contornarla (senza andare a toccare il lato superiore).

Pagina medusa Ritagliate dal panno no-woven tenuto doppio il volto della medusa. Ricamate occhi e bocca e cucite due tondi rosa come guance. Dal panno multiuso e da un panno no-woven bianco, tagliate un rettangolo della stessa larghezza alto circa 10 cm, fate delle frange e andate a comporre il soggetto sulla pagina di panno spugna rosa, posizionando prima i vostri tentacoli e quindi il viso in modo che li sormonti di qualche centimetro.

Procedimento Pagina con retino da pesca Stampate il cartamodello e ritagliate le varie parti. Riportate i piccoli pesci sul panno spugna e ritagliatene 2 per tipo.

Pagina onde del mare Dai differenti materiali (panni di vario tipo, guanti, mappette trasparenti) ritagliate delle onde irregolari. Andate a posizionarle sulla pagina di panno spugna celeste fissando-

Le vostre pagine sono pronte, potete utilizzarle singolarmente oppure approfittare del buco già esistente nei panni spugna per rilegarli con un pezzo di fettuccia. Buon divertimento!

Giochi e passatempi Cruciverba

Il pesce gatto gigante del Mekong, è uno tra i più grandi pesci d’acqua dolce. All’incirca quale lunghezza e peso può raggiungere? Rispondi alle domande leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 3, 5 – 8, 5)

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Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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25. Simbolo chimico dell’olmio 26. Il suo opposto è qui 28. Nome femminile 30. Famoso poema epico 32. Il nome della Marcuzzi VERTICALI 1. Limitata in prontezza 2. Le separa la «u» 3. Lo è la sorte avversa 4. La ghirba del cammelliere 6. Pronome personale 7. Esprime meraviglia, stupore 8. Serena, gioiosa

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ORIZZONTALI 1. Uno in bottiglia... 5. Seguace, imitatrice 10. Si racconta nelle memorie 12. Nome femminile 13. Le iniziali della ballerina Titova 15. Nobilita lo spirito 17. Questi a Parigi 18. Unità di misura inglese 20. Distribuito 22. Un problema adolescenziale 23. Isabella per gli amici 24. Le iniziali del regista Lattuada

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

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(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku 5

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• Mio Brill panni di spugna multiuso • M-Budget panni di spugna multiuso • Mio Brill panni multiuso • Mio Brill panni multiuso in no-woven • Retina dei limoni o arance • Forbici • Macchina da cucire • Stampante per il cartamodello • Facoltativo: Guanti, spugnette, mappette in plastica e tutto quello che di impermeabile vi suggerisce la fantasia

9. Un pezzo per... uno 11. Cavità superiore del cuore 14. Un colpo all’uscio 16. Amò Orione 19. Gemelle in gonna 21. Una nazione del Regno Unito 25. Simbolo chimico dell’elio 27. Un trampoliere 28. Asino a Parigi 29. Sigla di Assistenza Domiciliare Integrata 30. Articolo spagnolo 31. Le iniziali dell’imitatrice Aureli

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Soluzione della settimana precedente PER SAPERNE DI PIÙ – Frase risultante: …LA BANANA NON È UN FRUTTO MA UNA BACCA.

L A B E N E U N A I T T L A S E N A S T N O T T

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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TEMPO LIBERO

Viaggiatori d’Occidente

di Claudio Visentin

Turbolenze nei cieli

A causa dell’aumento delle temperature, i voli di linea incontrano turbolenze sempre più frequenti e pericolose. Ma anche in cabina c’è parecchia agitazione. A fine maggio Silver Cousler, chef e proprietario di un ristorante ad Asheville, North Carolina, è volato a Miami per la sua festa d’addio al celibato (se così si può dire, dato che Cousler s’identifica come non binario e usa il pronome they, «loro»). Se necessario, per compilare un modulo o passare un controllo, Cousler usa ancora il suo vecchio nome (dead name) e il suo genere legale. In quest’ultimo viaggio tuttavia si è risentito quando al momento di prenotare il biglietto il sito web di Delta Air Lines gli ha imposto di scegliere tra «maschio» o «femmina». Quando chiedono il passaporto i cittadini statunitensi possono già indicare un genere non binario senza dover allegare certificati medici o altri

documenti. Perché dunque le compagnie aeree vogliono conoscere il sesso del viaggiatore? Le ragioni sono diverse. Per esempio informazioni aggiuntive aiutano a identificare terroristi e altre persone pericolose incluse nella No Fly List; giocando coi nomi si rischia di aprire una falla nella sicurezza. Per questo il programma Secure Flight (2009) obbliga a indicare il sesso del passeggero. Anche i body scanner degli aeroporti utilizzano standard diversi per uomini e donne («Rosa o blu?» potrebbero chiedervi prima del controllo). Le compagnie aeree in genere supportano le iniziative LGBTQ+ e già si stanno organizzando per tener conto di questa sensibilità. Al momento però solo United Airlines e American Airlines offrono opzioni di genere non binario durante la prenotazione. I cambiamenti si sono rivelati più complicati del previsto perché devo-

Passeggiate svizzere

no avvenire simultaneamente in tutta la filiera (siti di prenotazione online, compagnie aeree, controlli di sicurezza) ma a breve sembra comunque possibile e sensato aggiungere nei form un campo «X» (unspecified, undefined) e «U» (undisclosed). Inoltre le compagnie che prevedono signore (Mr.) o signora (Ms.) prima del nome aggiungeranno un’alternativa di genere neutro (Mx.). Se pensiamo che British Airways contempla tra le possibilità anche «visconte», non pare troppo difficile… Addentrarsi oltre nel labirinto delle identità auto-percepite sembra invece davvero irrealistico. Un’altra ragione per distinguere i passeggeri tra uomini e donne potrebbe essere il bilanciamento dell’apparecchio. Qualche anno fa, di ritorno dall’Australia, il mio aereo era occupato quasi per intero da tifosi della nazionale inglese di rugby, corpulenti bevitori di birra in drammatico

sovrappeso; mi chiedo ancora oggi come ci siamo staccati dal suolo. In media i maschi pesano più delle femmine (anche 20 kg) ed evidentemente non si può chiedere il peso a ogni passeggero. Jae’lynn Chaney, una venticinquenne di Vancouver, ama viaggiare e condividere le sue esperienze su TikTok, ma ha una taglia impegnativa (6XL) da quando per un problema di salute il suo peso è aumentato di quasi 50 kg. In volo Jae’lynn Chaney deve misurarsi con sedili troppo stretti, estensioni per la cintura di sicurezza, bagni inutilizzabili. Male fanno i troll in rete ad accusarla di far precipitare l’aereo mentre altri, più comprensivi, scrivono che «gli aeroplani dovrebbero adattarsi ai passeggeri e non il contrario». Jae’lynn Chaney predica la Body Positivity e non ha in programma diete, ma in questo caso davvero non si vede cos’altro potrebbero

fare le compagnie, con aerei progettati al centimetro per ragioni ambientali e di consumi (salvo forse offrire un secondo posto a sedere a condizioni ragionevoli). Virgin Atlantic, fondata dal miliardario Richard Branson, è da sempre all’avanguardia. Per esempio già nel 2019 ha eliminato l’obbligo di truccarsi per le hostess. Riprendendo a reclutare dopo il Covid, Virgin Atlantic permette al personale di bordo in uniforme di mostrare i tatuaggi (purché non siano offensivi), per incoraggiare l’espressione della loro individualità. Difficile dissentire in questo caso, ma personalmente preferisco l’elegante dissimulazione dei diplomatici inglesi del passato: prima di tornare in patria dal Giappone si concedevano un piccolo tatuaggio, purché fosse invisibile quando indossavano l’abito di gala al ricevimento della regina.

di Oliver Scharpf

Le ragazze sugli ippocampi di Vevey ◆

In riva al Lemano, ora di un colore turchino cupo, due adolescenti nude di bronzo, cavalcano due ippocampi giganti. Non lontano dall’imbarcadero di Vevey, dove sbarco un pomeriggio temporalesco di fine giugno all’ora del tè, le graziose fanciulle sui loro cavallucci marini si divertono, in posizione da sci nautico, da quasi sessant’anni. Assieme a una loro amica che pesco adesso con gli occhi camminando sul quai Maria Belgia – in piedi, a briglie sciolte – su un terzo ippocampo fuori scala, in mezzo a una fontana senz’acqua. Qui dal quattordici giugno 1964, come le due dentro il lago venute a farle compagnia nel dicembre 1965, è opera di Édouard Marcel Sandoz (1881-1971). Fratello di Maurice Sandoz – il cui assurdo mausoleo tra vigneti del Lavaux e autostrada A9 è dove vi ho portato un paio di settimane fa e del quale, proprio lui, si è occupato per le ceneri

eccetera – viene considerato oggi come uno dei più rimarchevoli scultori animaliers. Figlio maggiore del fondatore della famosa industria chimico-farmaceutica, una vita tra Parigi e Losanna, di sicuro nessuno scolpisce i fennec (piccole volpi del deserto) come Édouard Marcel Sandoz. E se andate a vedere alcuni oggetti, come le porcellane di Limoges tipo il recipiente portasenape a forma di anitra, teiere-pinguini, ranocchi portasale, ricci portafiori, conigli pepiere, e altre straordinarie diavolerie art déco, rimarrete di stucco. Ma anche una tabacchiera in argento a forma di macaco, un vaso-carpa cruciana in bronzo o uno svuotatasche-razza sempre in bronzo, non finiscono di stupire. Come pure di bronzo sono le ragazze sugli ippocampi di Vevey (375 m). Il cui titolo originale di ognuna, scopro tra le pagine di Édouard Marcel Sandoz, sculpteur figuriste et animalier

Sport in Azione

(1993) di Félix Marcilhac, è Skieuse nautique sur hippocampe. Senz’acqua nel bacino, la sciatrice nautica su ippocampo della fontana nel Jardin du Rivage, perde molto, quasi tutto, perciò ritorno a quelle lacustri. Tra onde irrequiete, piegate all’indietro per la velocità di questo sport fuori moda, le due ragazze nautiche tengono le redini con una mano sola. La mano destra per quella che ha una palla nella mano sinistra, la sinistra per quella che tiene con l’altra mano una conchiglia come se fosse una fiaccola olimpica. Tuffo imprevisto, così, al volo, in boxer. La conchiglia richiama Tritone, divinità marina e primo trombettista della storia. Tenuta con fierezza in alto, quasi come strumento musicale per il vento, potrebbe essere una Charonia tritonis. I piedi e le redini mostrano una patina d’oro. Sguazzo tra le due adolescenti biot-

te sopra mega ippocampi lemanici il cui muso ha una certa affinità con il becco dei cigni, nubi minacciose in cielo. Luce mistica adesso. Sandoz, a quanto pare, negli anni venti, inventa un procedimento rivoluzionario – attraverso filtri ottici e costumi di scena ottenuti con tessuti colorati grazie a coloranti chimici speciali – per l’illuminazione teatrale. Peccato per l’assenza d’acqua nella fontana. Comunque, se v’interessa, ci sono altre fontane di Sandoz da visitare. Al parco Denantou di Losanna, per esempio, c’è la fontana delle scimmie, non lontano, al porto di Ouchy, la fontana degli asini, a Zermatt trovate le marmotte. Mentre come soggetti del suo bestiario in bronzo non mancano fagiani, scoiattoli, camosci, canguri, pechinesi, pernici, murene, armadilli. Un bronzo, va detto, molto particolare e ricercatissimo tra gli intenditori per le sfumature della

sua patina. Nata dagli esperimenti e studi fatti con Claude Valsuani nella sua rinomata fonderia in rue des Plantes, contempla tonalità profonde di bruno rossastro con l’utilizzo di rame e cobalto o può ottenebrarsi in un nero violaceo come gli antichi bronzi giapponesi shakudo. A bocca aperta però, lasciano i tratti di superficie preda di lampi d’oro. Vago a piedi nudi nel parchetto in cerca dei tigli. Zaffate forti di tiglio stabiliscono il mio itinerario di viaggio, in compagnia di Rimbaud la cui poesia sul buon odore dei tigli nelle sere di giugno mi è ormai entrata nel sangue. Ed ecco il maestoso tiglio in fiore che lascia nell’aria un profumo così dolce. Accanto, quattro colonne toscane sorreggono un frontone stile tempio greco. È il resto di un portico del corpo di guardia, demolito nel 1907, un tempo all’inizio del Pont Saint-Antoine, sopra la Veveyse.

di Giancarlo Dionisio

Parità di genere nello sport: realtà o utopia? ◆

Tempo fa la la SRG-SSR ha perso i diritti per la diffusione delle partite del nostro campionato di hockey. Mi ha intenerito la risposta della TV di Stato che poco dopo ha comunicato il prolungamento, e il potenziamento del contratto per la diffusione delle partite del nostro campionato femminile di calcio. Fra le righe, infatti, si leggeva una maxidose di imbarazzo. Agli occhi del tifoso non c’è partita. Vuoi mettere un derby tra Ambrì e Lugano, o una finale dei play-off? Eppure lo sport femminile avanza. Anno dopo anno. E lo fa in barba a quei «machi» conservatori, che sfottono se sui social ti azzardi a dire che hai apprezzato la finale della Champions femminile. Forse anche noi, in Svizzera, non vogliamo capire che il mondo dello sport sta cambiando. E se, tutto sommato, in sport individuali come atletica leggera, tennis

e sci, la parità di genere, così come quella salariale, è un concetto più o meno acquisito, sono proprio gli sport di squadra a fungere da spartiacque. Almeno da noi, in Svizzera. Nel 2019, l’ultima finale della Coppa del mondo femminile – USA-Olanda – fu seguita sulle tribune da 57’920 spettatori. Arbitra la signora Stéphanie Frappard. La stessa che ha debuttato con autorevolezza e credibilità anche nella Champions maschile, e che la FIFA ha convocato per la Coppa del Mondo maschile, il prossimo autunno in Qatar. Quest’anno, nello Juventus Stadium di Torino, 32’257 appassionate/i hanno salutato il ritorno al successo in Champions dell’Olympic Lione sul Barcellona. Anche in quella circostanza a dirigere la contesa c’era una donna, la finlandese Lina Lehtovaara. Da noi, l’appassionante finale dei play-off, vinta dallo Zurigo sul Ser-

vette, ha visto una modesta cornice di 2642 spettatori persi in un impianto che ne può ospitare dieci volte tanti. In compenso l’Associazione Svizzera di Football ha annunciato un’ incoraggiante novità: da subito, alle grandi manifestazioni internazionali, ai rossocrociati e alle rossocrociate verrà corrisposto lo stesso premio in denaro. Forse le vicende contrattuali della SRG-SSR ci indurranno a fare di necessità virtù. Ad apprezzare quindi uno spettacolo che a volte non ha nulla da invidiare al tiki-taka spocchioso e noioso di alcune squadre maschili. Sul piano tattico non c’è un grande gap da colmare. È solo una questione di finezze. Tecnicamente poi, in tutta franchezza, non vedo come una donna possa essere inferiore a un uomo. Anzi, l’esasperazione fisica e tattica negli uomini, porta a volte a perdere di vista i fondamentali. Che dire, ad

esempio, degli «stop a seguire» di Brel Embolo? Se fosse una ragazza a far scivolare la palla 4-8 metri avanti per poi inseguirla, spesso invano, chissà quante risate. L’unico gap da colmare è di carattere fisico. Sul piano della forza bruta l’uomo detiene ancora la supremazia. Ma è solo una questione di tempo. Il gap si sta assottigliando velocemente. Agli inizi del secolo scorso il divario di tempo di percorrenza sui 100 metri piani era di 3 secondi netti: 10,6 secondi per lo statunitense Donald Lippincott; 13,6 quello della ceca Marie Mejzlíková. Ai Giochi Olimpici del 1968 a Città del Messico era sceso a 1,13. Attualmente siamo a 0,91 centesimi di differenza tra il 9,58 di Usain Bolt e il 10,49 di Florence Griffith-Joyner. Non ho preso in considerazione lanci e getti poiché le/i rappresentanti dei due sessi gareggiano con attrezzi dal

peso differente. Ma l’analisi proposta per i 100 metri vale anche per tutte le altre discipline della corsa e del salto. Insomma, dati alla mano, la marcia trionfale delle donne verso la parità nello sport è e sarà inarrestabile. A quando una Champions League mista? Sono aperte le scommesse. In Ticino avanziamo molto a rilento. Nel calcio, il Lugano femminile, a causa degli scarsi mezzi, dei fragili risultati e di un seguito ridottissimo, ha chiuso bottega a campionato in corso, nonostante le ragazze si fossero messe a disposizione per autofinanziarsi le trasferte. Gran brutta storia! Nell’hockey su ghiaccio le Ladies bianconere, spesso vincenti, sono seguite da un pubblico che rappresenta il 5% di quello dei loro colleghi uomini, meno vincenti rispetto ad alcune stagioni fa. Si vede che è una questione di mentalità. Non di successi.


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Meloni Charentais Spagna/Francia, il pezzo


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ATTUALITÀ ●

Parola d’ordine: ricostruzione Oggi e domani a Lugano si parla del futuro dell’Ucraina, paese tutt’ora in guerra

Se il Dragone punta le stelle È partita una nuova corsa allo spazio che vede protagonista la Cina, affiancata dalla Russia

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Il destino di Assange Ripercorriamo la vicenda del cofondatore di WikiLeaks che rischia l’estradizione negli Usa

Combattere l’inflazione La Banca nazionale svizzera rialza i tassi di interesse e accetta il rischio di un rafforzamento del franco

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Quell’America che combatte contro sé stessa L’analisi

La sentenza che cancella il diritto costituzionale all’aborto evidenzia la guerra civile endemica che lacera gli Stati Uniti

Federico Rampini

La storica sentenza della Corte suprema che cancella il diritto costituzionale all’aborto – non vietando l’interruzione di gravidanza, bensì rinviando la questione alle legislazioni statali o al Congresso – dà nuovo sostegno all’idea che l’America è una nazione lacerata, dilaniata da una sorta di guerra civile endemica, a bassa intensità ma a suo modo distruttiva. Bisogna incrociarla con un’altra crisi costituzionale, l’inchiesta parlamentare sugli eventi del 6 gennaio 2021, quando Donald Trump fomentò l’assalto al Congresso da parte di bande di suoi fan violenti, e al contempo cercò di ribaltare con metodi illegali il verdetto delle urne. In ambedue i casi si tratta di crisi «costituzionali» per più ragioni. La sentenza sull’aborto spinge mezza America a ripudiare la legittimità della Corte suprema; in ogni caso accentua la politicizzazione di questo organo (anche se non è una novità assoluta). L’impossibilità di legiferare nel Congresso federale spinge i 50 Stati a risolvere la questione ciascuno per sé. E così sempre di più abbiamo due Americhe. Già divise su tutto, ora si distingueranno perché in una metà circa degli Stati l’aborto diventa regolato da norme così restrittive da risultare quasi impossibile; l’altra metà per reazione lo liberalizza ulteriormente e offre aiuti materiali alle donne che vogliano viaggiare da uno Stato all’altro per potersi permettere un’interruzione di gravidanza. La spaccatura è speculare per l’inchiesta del Congresso sul 6 gennaio 2021. I democratici pensano di avere l’ennesima «pistola fumante» che distruggerà per sempre Trump e potrebbe perfino infliggergli condanne penali; l’opinione pubblica repubblicana sbadiglia di fronte a un procedimento che giudica fazioso alla pari dei precedenti tentativi d’impeachment. Il consenso sulle regole del gioco scende ancora più in basso.

La spaccatura è speculare per l’inchiesta del Congresso sul 6 gennaio 2021, quando Donald Trump fomentò l’assalto al Congresso da parte di bande di suoi fan violenti È una vicenda che rafforza l’analisi del campo anti-occidentale. Xi Jinping e Vladimir Putin convergono nella loro descrizione della democrazia americana come di un sistema malato, moribondo, cassa di risonanza di una società civile sull’orlo del caos, incapace di produrre decisioni forti e governabilità stabile. Ironia della sorte: fino a pochi anni fa in Cina si potevano operare degli aborti di Sta-

Si manifesta ad Atlanta, Georgia, dopo la decisione della Corte suprema. (Keystone)

to imposti forzosamente, con metodi polizieschi, su quelle donne che non applicavano la legge del figlio unico. Poi: contrordine compagni, il crollo della natalità ha spinto Xi Jinping nella direzione opposta e ora il regime di Pechino difende a modo suo «il diritto alla vita» perché cerca di incentivare la natalità, senza riuscirci davvero. Ma nulla in Cina o in Russia assomiglia allo «scontro di civiltà» che si consuma tra le due Americhe, quella pro-choice (favorevole al diritto di scelta delle donne, se desiderano interrompere la gravidanza) e quella pro-life che considera un infanticidio eliminare un feto. Putin e Xi possono gongolare nella previsione che l’aborto, insieme con l’inflazione oppure il diritto alle armi, monopolizzano l’attenzione degli americani e rendono più precario in prospettiva il consenso bipartisan sull’Ucraina. Né più né meno che una guerra di religione agita l’America dagli anni Ottanta, e stavolta vede prevalere la destra religiosa. Il clima rovente attorno alla sentenza della Corte suprema abbandona il campo alle posizioni più estreme da ambo le parti. Mentre nella società civile americana ci sarebbe spazio per le sfumature. La questione del «diritto alla vita del feto» spacca in due

gli Stati Uniti ma attraversa anche le coscienze più progressiste. Un esempio di sincera incertezza lo dà una intellettuale di sinistra, laica e femminista, Katie Roiphe che dirige un programma di giornalismo alla New York University. Roiphe ricorda un saggio del romanziere David Foster Wallace sul tema: «L’autorità e il suo uso in America». Lì si è imbattuta in questo passaggio: «L’unica posizione coerente consiste nell’essere sia pro-life sia pro-choice cioè difendere sia il diritto alla vita del feto, sia la libertà di scelta della donna. C’è una saggezza basilare e indiscutibile in questo principio: di fronte al dubbio insolubile se qualcosa è un essere umano oppure no, è meglio non ucciderlo. Perciò ogni americano ragionevole deve essere pro-life. Al tempo stesso abbiamo questo principio: di fronte al dubbio insolubile su qualcosa, non ho il diritto morale o legale di dire a un’altra persona ciò che deve fare. È parte del patto democratico che noi americani abbiamo stretto fra noi. E questo mi sembra richieda a ogni americano ragionevole di essere pro-choice». Roiphe si sofferma su questa possibilità di capire e condividere le idee dell’altra parte, di prenderle sul serio, di esaminarle fino in fondo, per

poi trarne le proprie conclusioni senza perciò nutrire disprezzo o sdegno o furia verso chi raggiunge conclusioni diverse. «Questo – osserva la docente – sembra bizzarro e stravagante nel clima attuale. Possiamo contemplare la possibilità che qualcuno dall’altro lato, qualcuno che non la pensa come noi, sia in buona fede e non pazzo o stupido o malvagio?». Roiphe da femminista scopre le sue carte: «Sono sempre stata a favore dell’aborto, ma mi chiedo come definire un feto. Non riesco a pensare un feto di 14 settimane come un grumo di cellule. Avendo visto, in un’ecografia, battere il cuore di un feto di otto settimane, sento una simpatia segreta verso l’interpretazione che quello è vita». Un’altra celebre «femminista critica», la scrittrice Caitlin Flanagan, è sulla stessa lunghezza d’onda: «La verità è che gli argomenti a favore di ciascuna tesi sono forti, e se tu non lo riconosci allora non stai affrontando seriamente la questione dell’aborto». Le posizioni di Roiphe e Flanagan sono minoritarie. Roiphe commenta con amarezza: «Mi interrogo su questo approccio filosofico in generale. Sarebbe nel nostro interesse prendere seriamente in considerazione gli argomenti più forti della parte avversa? Che sconvol-

gimento ne risulterebbe nel nostro paesaggio politico? Forse Twitter fallirebbe all’istante? L’identità politica appassionata che molti di noi esibiscono è basata sulla contrapposizione noi contro loro, i sani di mente contro i pazzi, noi speranza dell’umanità contro loro spazzatura della terra. C’è un’oscura lotta faziosa per impadronirsi della gloriosa, ambigua, pericolosa nozione di libertà». Nel frattempo tutti i regimi autoritari del pianeta si godono lo spettacolo di un’America che spende le sue energie a combattere contro sé stessa. Qualcuno arriva a ipotizzare scenari di secessione; oppure riforme radicali che cambino, per esempio, la composizione della Corte suprema e del Senato. Sono ipotesi assai improbabili. In realtà di secessione non c’è bisogno visto che nei fatti le due Americhe si stanno creando dei sistemi giuridici sempre più divaricati e quindi possono convivere come coniugi «separati in casa». Si accentuerà la tendenza degli americani a scegliersi come luogo di residenza un posto consono ai propri valori. In quanto a cambiare la Corte per rendere la democrazia più rappresentativa non ci riuscì neppure Franklin Roosevelt quando aveva maggioranze oceaniche nel paese, e non è il caso di Biden.



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ATTUALITÀ

Una grande occasione, non solo per l’Ucraina

Prospettive ◆ Il piano di ricostruzione che comincerà a prendere forma i questi giorni a Lugano potrebbe rappresentare una decisa spinta modernizzatrice per il Paese ancora tormentato dalla guerra Anna Zafesova

Le bombe e i missili russi stanno ancora cadendo, e probabilmente continueranno ancora per mesi a distruggere ponti, ferrovie, fabbriche, centrali elettriche, strade e case ucraine. Ma a Kiev, come nelle capitali occidentali, si sta già ragionando su come ricostruire l’Ucraina dopo la fine della guerra. L’Ukraine recovery conference (Urc 2022), convocata oggi e domani a Lugano, si propone di dare l’inizio «a un vasto processo di ricostruzione», come annunciano i governi dell’Ucraina e della Svizzera che hanno lanciato l’iniziativa. Un compito enorme il quale «pone sfide di una portata che per il momento non può venire misurata con precisione». Alla domanda su quanto abbia senso parlare di ricostruzione a guerra ancora in corso, gli organizzatori obiettano che «le dimensioni dell’impegno e la quantità di risorse richieste possono venire anticipate», e quindi devono esserlo, «per essere pronti quando sarà il momento».

Immaginiamo un’Ucraina post bellica che riemerge in un balzo di modernizzazione tecnologica e infrastrutturale, in chiave green Il calcolo è difficile da fare. Le stime sul crollo del Pil ucraino per colpa della guerra variano dal 35 al 45 per cento, e il ministro delle Finanze Serhiy Marchenko ha dichiarato in un’intervista recente a «El Pais» che il deficit accumulato ogni mese dal bilancio di Kiev viaggia sui 5 miliardi di dollari: «Le spese e i danni aumentano di giorno in giorno, e gli aiuti cospicui dell’Occidente non bastano a coprirli». Circa 14 milioni di ucraini sono stati costretti a fuggire dalla guerra e la metà non è in condizioni di guadagnarsi da vivere e quindi di pagare le tasse. A questo bisogna aggiungere le spese enormi per il conflitto: soltan-

to la retribuzione dell’esercito, della guardia nazionale e della difesa territoriale ammonta a 40 miliardi di grivne al mese (100 grivne sono pari a 3,2 franchi circa), l’equivalente di quello che prima di febbraio veniva speso all’anno, dice Oleksandr Zavitnevich, presidente del Comitato per la sicurezza nazionale e la difesa della Rada, il parlamento di Kiev. A questo vanno aggiunte le spese e i prestiti per gli armamenti, motivo per il quale il governo è stato costretto ad abolire le vacanze fiscali introdotte nei primi mesi di guerra. E mentre nelle zone liberate dai russi intorno a Kiev è già iniziata la ricostruzione delle case e dei ponti distrutti, i responsabili dell’economia ucraina fanno stime astronomiche dei finanziamenti necessari: dai 400 ai 600 miliardi di euro. In altre parole, l’Ucraina andrà totalmente ricostruita, e non a caso si è deciso di trasformare quella che doveva essere la Quinta conferenza sulle riforme in Ucraina in un evento straordinario sul piano per la ricostruzione promosso dal presidente Volodymyr Zelensky e dal premier Denys Shmyhal a Lugano. È già evidente che per ricostruire quello che è il Paese più esteso dell’Europa ci vorrà uno sforzo che affianchi ai finanziamenti dei governi e istituzioni internazionali anche soggetti privati e programmi umanitari. Ma quando Zelensky, osservando le città del Donbass ridotte in cumuli di rovine, lancia il dibattito sull’opportunità di ricostruire, dopo la guerra, i quartieri residenziali di casermoni di epoca sovietica, propone una rivoluzione non soltanto urbanistica. La ricostruzione potrebbe, paradossalmente, diventare anche un’occasione unica per dare al Paese un assetto al passo con i tempi, una spinta modernizzatrice la cui carenza è un problema di arretratezza comune a tutta l’ex Urss. Il danno bellico è in effetti soprattutto infrastrutturale: i russi hanno colpito intenzionalmente non soltan-

Le macerie di Kharkiv, una città dell’Ucraina orientale. (Shutterstock)

to obiettivi militari, ma anche ponti, fabbriche, depositi, silos, raffinerie e ferrovie, e se paradossalmente le strade strette hanno complicato l’avanzata russa, lo scarto delle ferrovie diverso da quello europeo ha rallentato ulteriormente le esportazioni di grano ucraino. Si potrebbe quindi immaginare un’Ucraina post bellica che riemerge in un balzo di modernizzazione tecnologica e infrastrutturale, anche in chiave green, sbarazzandosi nel contempo di molti suoi problemi storici come le faide tra gruppi oligarchici, la lentezza e la corruzione dell’apparato statale. Un sogno che richiede degli investimenti colossali che non potranno che avere un’origine pubblica e privata. Un ammontare che sembra enorme in termini assoluti ma diventa meno spaventoso in termini relativi: il Pil dell’Unione europea e degli Usa è superiore ai 35 mila miliardi di euro, perciò la ricostru-

zione costerebbe appena l’1% del Pil occidentale. Una spesa che potrebbe rappresentare però una leva maggiore di crescita, coinvolgendo grandi aziende dei Paesi che finanzieranno la ricostruzione. Che a sua volta probabilmente verrebbe coperta dalle garanzie pubbliche internazionali, attraverso le linee di credito del Fondo monetario e della Banca mondiale, dalle obbligazioni dedicate di Stati Uniti e Gran Bretagna, e delle istituzioni statali come nel caso delle obbligazioni emesse in solido dell’Ue. Le imprese private protette dal rischio dell’investimento grazie alle garanzie pubbliche potrebbero poi aprire tutte le linee di credito che riterrebbero necessarie. Un affare senza precedenti, anche se non si riuscisse a costringere il regime russo a finanziare parte della ricostruzione, un progetto di cui molti Paesi europei stanno esplorando la

fattibilità. Non è un caso che a Lugano arrivino delegazioni da tutto il mondo. Zelensky già qualche settimana fa aveva invitato singoli paesi o imprese occidentali ad «adottare» regioni o settori ucraini, e a Kiev sono giunti rappresentanti di governi e associazioni imprenditoriali attratte dalla prospettiva. La regione della capitale pare essere stata appaltata all’alleato principale di Zelensky, il Regno Unito di Boris Johnson, ma sono in corso trattative con Danimarca e Paesi Bassi. Nel Servo del popolo, la serie tv che ha catapultato Zelensky alla presidenza, erano gli oligarchi a giocarsi l’Ucraina in un gigantesco Monopoli. Ma ora che il potere e la ricchezza dei magnati sono stati polverizzati dalla guerra, il piano Marshall che comincerà a prendere forma a Lugano potrebbe diventare la grande occasione di ripresa non solo per l’Ucraina.

Il traffico, la sicurezza e qualche sogno Il summit

L’Ukraine recovery conference 2022 sulle rive del Ceresio pone dei problemi organizzativi di non facile gestione

Borla Romina

Raggiungere il centro di Lugano il mattino, in auto, non è quasi mai facile. Bisogna spesso armarsi di molta pazienza per affrontare il traffico, pregando di non arrivare tardi al lavoro. Ma oggi è un’impresa che sconsigliamo di tentare, complice la Conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina (Ukraine recovery conference o Urc 2022) – prevista appunto oggi e domani – alla quale partecipano delegazioni ufficiali provenienti da 38 stati e una decina di organizzazioni internazionali (almeno stando alla lista diffusa giovedì scorso dal Dipartimento federale degli affari esteri). Oltre a diverse centinaia di rappresentanti del settore privato e della società civile. Guida la delegazione ucraina il primo ministro Denys Chmyhal. Volodymyr Zelensky – come previsto – rimane in patria per motivi di sicurezza e interviene al vertice in videoconferenza. Presente la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e i capi di gover-

no di Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Lituania. Altri stati – come Usa, Germania, Regno Unito, Italia e Turchia – hanno inviato ministri, vice ministri o alti funzionari. La Francia alla fine della scorsa settimana non aveva risposto all’appello (essendo priva di governo dopo le recenti elezioni amministrative). A garantire la sicurezza delle personalità giunte sulle rive del Ceresio per il summit un imponente apparato (dal costo non indifferente) gestito dalla polizia cantonale ticinese. In città sono previste «zone rosse» – dove l’accesso è consentito solo alle persone autorizzate – e «zone blu» caratterizzate da una maggiore presenza delle forze dell’ordine che potranno eseguire controlli d’identità o di altro tipo (vedi cartina a lato). La circolazione stradale – lo ricordiamo – è soggetta a limitazioni. Restano chiuse al traffico alcune arterie importanti. Impossibile la navigazione sul lago fino a 300 metri di fronte al Parco

Ciani. Viene infine applicata una restrizione temporanea dell’uso dello spazio aereo. Il consigliere di Stato Norman Gobbi ha dichiarato che per l’oc-

casione sono stati mobilitati buona parte degli agenti della polizia cantonale, della comunale e delle altre polizie strutturate ticinesi. Altri cantoni hanno provveduto a mandare

rinforzi. Presente anche l’esercito, che mette in campo 1600 militi. A gestire la sicurezza è, come detto, la polizia cantonale supportata da Fedpol, dalla protezione civile, dall’Ufficio federale della dogana e della sicurezza dei confini, dal Servizio delle attività informative della Confederazione, presumibilmente in contatto con l’intelligence di altri paesi. Senza dimenticare l’intervento delle agenzie private di sicurezza. Da più parti si sono levate voci critiche. Molti si aspettano che poco o nulla di concreto emerga dalla due giorni sul Ceresio, ritenendo che il summit abbia più che altro un valore simbolico. Ma in questi frangenti sognare è già qualcosa. Intanto la polizia cantonale continua a rassicurare la popolazione, preoccupata di non riuscire a raggiungere il posto di lavoro o il medico, e ha attivato fino a domani una helpline telefonica per chi avesse bisogno di ulteriori informazioni: +41 (0)848 14 95 95 (dalle 6.00 alle 22.00).


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ATTUALITÀ

La nuova corsa allo spazio Marte e dintorni

Il conflitto in Ucraina ha accelerato il processo di allineamento della Russia alle ambizioni spaziali della Cina

Giulia Pompili

La Cina ha intenzione di andare su Marte, raccogliere campioni della superficie del quarto pianeta del Sistema solare e riportarli sulla Terra entro il mese di luglio del 2031. Cioè due anni prima della missione parallela di America ed Europa. Lo ha annunciato di recente Sun Zezhou, capo progettista della missione cinese Tianwen-1 diretta su Marte, il cui lancio è previsto nel 2028. Il piano è ambizioso e a livello scientifico potenzialmente rivoluzionario, ma quel che conta di più, politicamente, è dimostrare il fatto che la Cina possa battere sul tempo la coalizione occidentale, in quella che a tutti gli effetti comincia a somigliare sempre di più a una nuova corsa allo spazio dove uno dei due protagonisti è cambiato: non più l’Unione Sovietica ma la Repubblica popolare cinese.

Nel 2021 la Cina ha eseguito 55 lanci nello spazio, stabilendo un nuovo record per un singolo paese. (Shutterstock)

Pechino ha intenzione di andare su Marte, raccogliere campioni e riportarli sulla Terra entro luglio 2031 Il consulente del governo entra nella sala riunioni: «Questo è il nuovo fronte della Guerra fredda. Se i sovietici vogliono costruire un avamposto militare lunare lassù, anche il presidente ne vorrà uno, e lo vorrà per primo. A partire dalla missione Apollo 12, esploreremo la posizione adatta per un’installazione militare permanente sulla Luna». «Assolutamente no», risponde risoluto il capo delle missioni spaziali. «Siamo un programma scientifico, non un parco giochi per Big Jim». La scena non è realmente avvenuta, ma è straordinariamente verosimile. Siamo nel contesto di un’ucronia, cioè la descrizione di un avvenimento, di un periodo storico sulla base di elementi e dati ipotetici o immaginari. La serie televisiva For All Mankind, di cui sta andando in onda la terza stagione, creata e scritta dagli sceneggiatori Ronald D. Moore, Matt Wolpert e Ben Nedivi, inizia con la vittoria da parte dell’Unione Sovietica della corsa allo spazio. Di conseguenza la conquista della Luna diventa un’ossessione politica per la Casa Bianca, e soprattutto un’ossessione militare. Come in un romanzo, la narrazione della serie sviscera tutti i temi fondamentali per capire non solo la competizione che c’è stata tra gli anni Sessanta e Settanta in orbita, ma anche quella che stiamo vivendo oggi: la ricerca scientifica che si fonda sulla cooperazione mondiale ostacolata dagli obiettivi strategici, la sicurezza nazionale, lo spionaggio, la funzione della comunicazione. «Ai russi non piace pubblicizzare i loro fallimenti», dice a un certo punto un analista. «Diversamente da noi», ribatte un astronauta seccato. E un altro lo zittisce: «Questo è il prezzo da pagare per vivere in una società libera». C’è

dentro soprattutto il ruolo della Difesa che nelle questioni spaziali a un certo punto della storia era diventato prioritario, ed è tornato prioritario anche oggi. Dopo la fine della corsa allo spazio, fatta coincidere con l’allunaggio da parte dell’Apollo 11 il 20 luglio del 1969 e la vittoria dell’America, i successivi decenni sono stati caratterizzati dalla cooperazione spaziale, anche e soprattutto tra Washington e Mosca. La guerra in Ucraina però ha cambiato tutto, anche nei progetti al di là dei confini terrestri, e ha accelerato un allontanamento tra i membri della coalizione delle potenze spazia-

li occidentali (l’America della Nasa, ma anche l’Unione europea con l’Esa, il Canada, il Giappone) e l’avvicinamento definitivo della Russia alle ambizioni spaziali della Cina.

La Cina sta investendo budget che sarebbero inimmaginabili per altri paesi. Si parla di almeno 9 miliardi di dollari l’anno In effetti il programma spaziale è una delle priorità della leadership di Pechino già da anni, che sta investendo budget che sarebbero inimmaginabi-

Grattacapi per europei e americani L’invasione russa dell’Ucraina ha messo in crisi anche le attività spaziali europee e americane condotte in collaborazione con l’agenzia spaziale russa Roscosmos. Nel marzo scorso l’Agenzia spaziale europea (Esa) ha confermato: il lancio della sonda Exomars – per la scoperta di Marte – con a bordo il rover Rosalind Franklin, che doveva essere effettuato in settembre, è stato sospeso. Il rover doveva essere depositato sulla superficie del Pianeta rosso da un veicolo di sbarco russo e la sonda partiva dal poligono di Baikonur in Kazakistan con un razzo russo Proton. L’Europa lavora da circa vent’anni alla missione e deve affrontare un nuovo rinvio dopo quello deci-

so nel 2020 per i problemi dei paracadute di sbarco. Inoltre la Nasa e l’Esa hanno concordato di rivedere la progettazione e le tempistiche delle prossime missioni della Mars sample return campaign, la staffetta robotica Nasa-Esa finalizzata a portare sulla Terra pezzi di Marte. La proposta della Nasa consiste nel raddoppiare il carico a bordo della missione di raccolta, inviando due veicoli con lo stesso lancio. Una scelta che allungherebbe i tempi, abbassando però al contempo il rischio complessivo del programma. I due veicoli dovrebbero essere lanciati nel 2028 e per il 2033 è previsto il rientro ufficiale dei campioni sulla Terra. / Red.

li per altri paesi. I dati sono secretati, ma si parla di almeno 9 miliardi di dollari l’anno. Qualcuno però sospetta siano molti di più: nel 2021 la Cina avrebbe eseguito 55 lanci nello spazio, stabilendo un nuovo record per un singolo paese. Nel corso di quest’anno vuole arrivare a quota 60. C’è una componente di supremazia tecnologica e scientifica, ma c’è anche tantissima retorica e propaganda simile a quella di America e Russia durante la prima corsa allo spazio. Nel giro di un decennio la Repubblica popolare cinese è riuscita a dare forma alla sua Stazione spaziale orbitante, la Tiangong, il «Palazzo nel cielo». L’ultima missione per il suo completamento, con a bordo tre taikonauti (così si chiamano gli astronauti cinesi) è iniziata qualche settimana fa, tra gli slogan propagandistici dei media statali. Quando la Stazione spaziale internazionale – l’unico luogo ancora attivo in cui la Nasa, la Roscosmos, la potente agenzia spaziale russa, l’Europa e il Canada ancora collaborano – sarà dismessa, molto probabilmente nel 2031, l’unica stazione in orbita bassa abitata da astronauti sarà quella cinese. E così, nell’isolamento internazionale dovuto all’aggressione militare dell’Ucraina, la Russia si ritrova oggi a dover esplorare nuove alleanze. Quella con la Cina è la più naturale. Il 12 aprile scorso (il giorno in cui si celebrano a livello mondiale i viaggi dell’uomo nello spazio, perché nel 1961 il cosmonauta russo Yuri Gagarin entrò nella storia diventando il primo essere umano a raggiungere

l’orbita terrestre) il presidente Vladimir Putin, insieme con l’alleato di ferro, il presidente bielorusso Alexander Lukashenko, ha visitato il cosmodromo di Vostochny, nell’estremo oriente della Russia. La guerra in Ucraina era iniziata già da più di un mese e la coalizione occidentale aveva già reagito imponendo sanzioni alla Russia, e a gran parte dei settori tecnologici e della Difesa russi. Da un cosmodromo ancora in costruzione Putin ha elencato tutti i grandi successi spaziali del passato sovietico e ha detto che «la Russia di oggi, con le tecnologie avanzate a sua disposizione, può continuare a lavorare al suo programma spaziale». Mosca e Pechino hanno già iniziato a lavorare per integrare il sistema di geolocalizzazione satellitare russo, il Glonass, con il recentissimo sistema cinese BeiDou, in diretta concorrenza con il sistema satellitare più usato al mondo, il Gps americano. L’anno scorso Cina e Russia hanno firmato un’intesa per la costruzione congiunta di una base di ricerca permanente sulla Luna. Un progetto simile è stato svelato anche all’interno del programma Artemis della Nasa. Come nella serie tv For All Mankind, la conquista della Luna, anche oggi che abbiamo a disposizione le tecnologie più avanzate, è indispensabile per avere una base di lancio per mandare gli esseri umani verso Marte o verso lo spazio profondo. È per questo che Pechino si affretta con i suoi progetti e la Russia di Putin ha già scelto in quale squadra giocare nella nuova corsa allo spazio. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

Julian Assange, capitolo chiuso? Il personaggio

Ripercorriamo la vicenda del cofondatore di WikiLeaks che rischia l’estradizione negli Stati Uniti

Enrico Morresi

Fatto un inchino alle Corti, una più alta dell’altra, che hanno giudicato il suo caso voltandolo e rivoltandolo in tutti i sensi, Julian Assange se ne andrà, forse dimenticato, in una qualche cella penitenziaria chissà dove. Davanti ai tribunali il capitolo è chiuso, o quasi: i suoi legali sono al lavoro su più fronti per capovolgere la decisione dell’Alta Corte britannica a favore della sua estradizione negli Stati Uniti. Mentre noi ripercorriamo la sua vicenda. Julian Paul Assange, nato nel 1971, è un giornalista, programmatore e attivista australiano. Come informatico si specializza nel pirataggio di siti ufficiali, diventa membro di un gruppo di hacker noto come International subversives con lo pseudonimo Mendax; dal 2003 al 2006 studia fisica e matematica all’università di Melbourne. A partire dal 2006 è tra i promotori del sito WikiLeaks, su cui pubblica notizie riservate sui bombardamenti nello Yemen, sulla corruzione nel mondo arabo, sulle esecuzioni extragiudiziali da parte della polizia keniota, sulla rivolta tibetana in Cina (2008), su uno scandalo legato al petrolio in Perù e le e-mail del governo turco dopo le purghe di Erdogan del 2016. Fama mondiale gli procura il caso di coscienza di un militare americano, Bradley Edward Manning, il quale gli rimette – tra le altre cose – l’imbarazzante sequenza di un’azione militare in Iraq (un documento strettamente riservato). È accaduto il 12 luglio 2007, a Baghdad, dove due elicotteri Apache statunitensi aprono il fuoco e uccidono diversi civili disarmati. Un commilitone con cui Manning si è confidato lo denuncia. Manning viene incarcerato, prima all’estero e poi negli Usa, dove è tenuto in isolamento 23 ore al giorno, dorme con le luci accese ed è controllato ogni 5 minuti durante la notte, viene svegliato dalle guardie se non è completamente visibile, l’unica forma di esercizio che gli è riconosciuta consiste nel camminare in circolo in una stanza per un’ora al giorno e, durante le rare occasioni in cui può ricevere visite, viene incatenato. La fase preliminare del processo comincia nel maggio 2012. Manning si riconosce colpevole di una parte dei reati di cui è accusato, ammettendo di aver fornito a WikiLeaks i documenti raccolti nel corso del suo lavoro di analista per l’esercito degli Stati Uni-

C’è chi continua a manifestare in sostegno di Assange. (Shutterstock)

ti. Nell’agosto 2013 è condannato a 35 anni di prigione per 20 dei 22 capi d’accusa; viene assolto solo dall’accusa più grave, quella di connivenza con il nemico (che prevede anche la pena di morte). Il giorno successivo la sentenza, Manning dichiara di sentirsi donna e chiede di essere chiamata Chelsea (in seguito cambia sesso).

WikiLeaks è un contenitore web che raccoglie in forma anonima e poi ripubblica documenti riservati e segreti di ogni tipo Dopo aver scontato 7 dei 35 anni di reclusione, il 17 gennaio 2017 Chelsea Manning ottiene dall’allora presidente americano Obama una riduzione della pena ed esce di carcere il 17 maggio di quell’anno. Ma l’8 marzo 2019 viene nuovamente arrestata per essersi rifiutata di testimoniare al processo su WikiLeaks; esce definitivamente di prigione il 12 marzo 2020 dopo un tentativo di suicidio.

Assurto a notorietà mondiale con la diffusione del filmato di Manning, Julian Assange è colpito il 18 novembre 2010 da un mandato di arresto in contumacia emesso da un tribunale di Stoccolma con l’accusa di stupro, molestie e coercizione. Assange nega l’accusa, sostenendo che è solo un pretesto per estradarlo negli Stati Uniti. Nel giugno 2012 ottiene asilo politico presso l’Ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove rimane confinato per quasi sette anni. L’accusa di violenza sessuale essendo venuta a cadere, Assange viene comunque di nuovo incarcerato in Gran Bretagna, dapprima per violazione dei termini della libertà su cauzione, poi in relazione a una sopraggiunta richiesta di estradizione fatta dagli Stati Uniti per le accuse di cospirazione e spionaggio. Un’altra storia avvincente – narrata in un documentario di Oliver Stone, Citizenfour, che ottiene nel 2016 il Premio Oscar – è quella di Edward Snowden, un dipendente dell’americana NSA (National security agen-

cy) che nel gennaio del 2011 rivela a Laura Poitras, una giornalista americana specializzata in documentari, la politica di spionaggio sistematico operata dalla Cia su governi e personalità di tutto il mondo. I documenti sono mostrati a Glenn Greenwald, collaboratore del quotidiano inglese «The Guardian» e pubblicati sul giornale e su WikiLeaks. Denunciato negli Stati Uniti, Snowden ripara in Russia dove ottiene, con gli anni, un permesso di dimora legale e dove vive tuttora. In patria è accusato di spionaggio e rischia trent’anni di carcere. Il mondo dell’informazione ha capito che la diffusione universale di un prodotto sul web lo rende praticamente invincibile. Si sono così formate catene di media importanti che mettono risorse in comune per la ricerca su un argomento che può sfociare in una pubblica denuncia. La base operativa di una di queste, il Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi, è in America. Il Consorzio ha pubblicato in parti-

colare i «Panama Papers» sul mondo dell’evasione fiscale. Al gruppo investigativo partecipa per la Svizzera una redazione «ad hoc» di Tamedia, editrice del «Tages-Anzeiger». Ogni testata coinvolta decide liberamente se utilizzare i dati raccolti. Dati che emergono anche grazie a whistleblower, in italiano «segnalatori di illeciti» o «informatori». Per grandi temi si mettono in circolo grandi risorse, il caso più importante riguarda certamente gli evasori d’imposta a livello planetario, affidato a un consorzio internazionale appunto, ma infiniti sono i casi di storture e ingiustizie che stimolano la coscienza del cittadino a denunciare il malfatto. In Svizzera la legge protegge i denunziatori di abusi commessi nell’ambito delle società pubbliche, il privato rimane il santuario della segretezza. E la tendenza è al negativo, come dimostra la decisione del Consiglio nazionale che estende la possibilità del sequestro preventivo di un servizio giornalistico. Annuncio pubblicitario

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Combattere l’inflazione senza rallentare l’economia

Berna ◆ La Banca nazionale svizzera rialza i tassi di interesse e accetta il rischio di un rafforzamento del franco. Ma l’inflazione è oggi molto più pericolosa a causa della situazione internazionale seguita alla pandemia Ignazio Bonoli

Lo scorso mese di giugno la Banca nazionale svizzera (Bns) ha decretato un aumento del tasso di sconto, portandolo da –0,75% a –025%. Lo ha fatto dopo gli aumenti annunciati dalla Riserva federale americana e altre banche centrali, ma prima della Banca centrale europea (Bce). La decisione ha suscitato una ridda di commenti e critiche, come spesso avviene in queste circostanze.

Quello attuato in giugno dalla Banca nazionale svizzera, più che un aumento del tasso di sconto, è una correzione Vi è chi ha rimproverato alla Bns di aver fatto un passo troppo lungo e chi ha detto di non aver agito con coraggio, proponendo un passo più lungo. Effettivamente, a ben vedere, non si tratta di un «aumento» del tasso di sconto, ma di una «correzione», dal momento che il tasso rimane ancora negativo. Tutti, o quasi, concordano sul fatto che la mossa era dovuta, anche se qualcuno obietta che sarebbe stato meglio attendere le decisioni della Bce, mentre c’è anche chi rimprovera di aver agito troppo tardi. Si è così avuta l’impressione che la Bns non sapesse bene come comportarsi e non avrebbe valutato pienamente le conseguenze della mossa di politica monetaria. A brevissimo termine si può comunque costatare che, subito dopo l’annuncio della Fed, il dollaro americano si è rinforzato, per cui è stato importante non lasciarlo rivalutare troppo sul franco, provocando aumenti di prezzi su prodotti importanti quali, per esempio, il petrolio. D’altro canto si sa che la rivalutazione del franco è da sempre un mezzo importante per combattere l’inflazione in Svizzera, dal momento che rallenta l’aumento dei prezzi dei prodotti esteri. Comunque il tema dell’inflazione è diventato l’argomento del giorno anche in Svizzera. E questo benché da noi l’aumento dei prezzi, misurato con l’indice dei prezzi al consumo,

sia di gran lunga inferiore a quello di molti paesi industrializzati. Si situa infatti al 2,9%, con prospettive di rimanere tale per tutto l’anno e perfino di scendere all’1,8% nel 2023. Questo anche secondo le previsioni Ocse, che stima per il gruppo del G20 una crescita media dei prezzi del 6,3% il prossimo anno e del 7,6% quest’anno. Nel frattempo però tutte le banche centrali avranno aumentato i loro tassi ufficiali, provocando così un aumento di alcuni prezzi. Si pensi per esempio al conseguente aumento dei tassi ipotecari e, quindi, al costo delle costruzioni e probabilmente anche degli affitti. A chi attribuisce questa fiammata dell’inflazione al conflitto in Ucraina si deve ricordare che l’inflazione aveva già iniziato il suo percorso in salita prima dello scoppio delle ostilità e delle conseguenti sanzioni dell’Occidente contro la Russia. Lo ricorda molto bene anche Federico Rampini nel numero di «Azione» della settimana scorsa, citando lo choc energetico, le penurie alimentari, la stessa inflazione, il finanziamento del debito pubblico. Il tutto tenuto conto del fatto che, alla fine della pandemia da Covid, ci si è trovati di fronte a un eccesso di liquidità, a errori nel passaggio alle energie rinnovabili e alla fine dello «sconto cinese», cioè i prezzi molto bassi di prodotti cinesi (o anche asiatici, come i celebri semiconduttori). Anche noi abbiamo più volte ricordato i pericoli insiti in una politica monetaria che fornisce ampie liquidità al mercato attraverso i tassi d’interesse a livello zero (o perfino negativi) e la celebre «quantitative easing», cioè l’acquisto da parte delle banche centrali di titoli privati e pubblici di scarso valore. L’obiettivo era quello di portare all’economia un tasso di inflazione del 2%, che avrebbe favorito la crescita. In realtà la crescita c’è stata, e non ha nemmeno sofferto tanto dalla pandemia, perfino senza inflazione, il che non era certo compatibile con le teorie di politica monetaria. Parecchi economisti avevano comunque messo in guardia sul fat-

Thomas Jordan, presidente del consiglio di amministrazione della Banca nazionale svizzera. (Keystone)

to che una liquidità così importante non poteva non provocare inflazione. I tempi però non erano prevedibili e, casualmente, hanno accoppiato la tendenza al rincaro già in atto con gli avvenimenti in Ucraina. Quindi, oggi, le banche centrali si trovano confrontate con un doppio compito (in parte incompatibile) di sostenere la crescita frenando l’inflazione, con dietro l’uscio il pericoloso fenomeno della «stagflazione». Anche la Bns si trova confrontata con queste situazioni, con un tasso di inflazione minore, ma con la necessita di tenere sotto stretta sorveglianza l’evoluzione del franco svizzero. L’esperienza insegna che, in periodi crisi, il franco diventa spesso un bene rifugio, per cui la sua domanda aumenta, in parallelo con l’aumentare delle quotazioni sui mercati. Un franco quotato alto riduce i prezzi all’importazione, ma aumenta quelli all’esportazione. Ora l’economia svizzera dipende molto sia dalle importazioni che dalle esportazioni (compreso il turismo).

Ma lo stesso rapporto franco forte/ meno inflazione non è sempre valido. Lo sta sperimentando anche la Svizzera, che deve sopportare un’inflazione dovuta principalmente a tre fattori: il rincaro dell’energia, le difficoltà di approvvigionamento, il rincaro dei generi alimentari. La teoria economica contempla parecchi tipi d inflazione. I più frequenti, e anche aggregati, sono da un lato una domanda di beni e servizi in aumento, dall’altro un’offerta che scarseggia. Anche oggi siamo in una situazione analoga per vari motivi, tra cui i tre suddetti. Come far fronte alla situazione? Le banche centrali operano essenzialmente aumentando i tassi di interesse, cioè il costo del denaro. Ma l’inflazione rallenta solo se anche la domanda e, quindi, la crescita economica rallentano. Qui però si corre il grosso rischio di una recessione, con un peggioramento della situazione per tutti. La Bns ha sempre operato di concerto con altre banche nazionali più importanti. Oggi però mostra una

certa indipendenza con un aumento del tasso di sconto più alto del solito e senza attendere le decisioni della Bce. Così facendo accantona in parte l’abituale politica di difesa del franco, che è destinato a migliorare le quotazioni. Lo può fare con le riserve di divise che superano i 900 miliardi di franchi, di cui circa il 40% investito in dollari ed euro. Sono però prevedibili altri aumenti dei tassi di riferimento che provocheranno un aumento dei tassi di interesse, tornando almeno a una situazione di normalità. Alcuni settori, come l’immobiliare, soffriranno di più, altri forse un po’ di meno. In questo momento però questi aumenti rischiano di favorire un incremento dell’inflazione stessa, come già accennato. Questa tendenza è molto difficile da contrastare, il che spiega le difficoltà insite in una politica monetaria, in un paese piccolo con un’economia molto aperta verso l’estero, che deve perciò tenere conto di quanto avviene anche nei paesi con i quali intrattiene i maggiori scambi di prodotti e servizi.

Quale ipoteca scegliere? La consulenza della Banca Migros a tasso fisso di lunga durata

La nostra ipoteca sta per scadere. Cosa ci conviene fare visto l’aumento attuale dei tassi d’interesse? Suppongo abbiate un’ipoteca a tasso fisso, come la maggior parte dei proprietari immobiliari in Svizzera. Gli interessi per le ipoteche a tasso fisso di lunga durata sono in rialzo ormai da tempo a causa del rincaro e della conseguente svalutazione del denaro. Già all’inizio dell’anno i tassi di un’ipoteca a tasso fisso di dieci anni erano nettamente superiori a quelli del 2021. Da allora sono più che raddoppiati, passando dall’1,2% al 2,99% a seconda dei finanziatori. La recente manovra di

Alcuni consigli a fronte del rialzo costante degli interessi per le ipoteche

aumento dei tassi di interessi della Banca nazionale svizzera (BNS) ha reso ora più costose anche le ipoteche a tasso fisso di durata breve, ovvero di due, tre o quattro anni. Dall’inizio dell’anno, ad esempio, anche gli interessi di un’ipoteca a tasso fisso di due anni hanno subito un’impennata e si aggirano ormai, in base al finanziatore, intorno al +/–2%. A prima vista le ipoteche Saron sembrano più convenienti. Si tratta di ipoteche del mercato monetario il cui tasso d’interesse è composto dal tasso d’interesse di riferimento del mercato interbancario e dal mar-

Marcel Müller, consulente Banca Migros, specialista di ipoteche.

gine calcolato dalla banca ipotecaria. Ad oggi questo tasso d’interesse non è cresciuto molto nonostante la stretta monetaria della BNS. Potrebbe aumentare visibilmente qualora la BNS portasse il tasso guida sopra lo 0%, come potrebbe accadere in autunno. Se il tasso guida arriverà ad esempio allo 0,25%, il tasso dell’ipoteca Saron sarà dell’1,25% circa e pertanto inferiore a quello delle ipoteche a tasso fisso sopra menzionate. Vale però la pena guardare meglio. Dovreste infatti essere in grado di gestire il rischio che risulterebbe dall’ulteriore aumento dei tassi gui-

da e, di conseguenza, del tasso d’interesse Saron. Per sostenere possibili rialzi occorre disporre di fondi liberi in quantità sufficiente. Il tasso d’interesse di un’ipoteca Saron viene calcolato ogni tre mesi. Questo vi permette di riconsiderare periodicamente l’ipoteca. Per ridurre al minimo il rischio è inoltre possibile combinare un’ipoteca a tasso fisso con un’ipoteca Saron. Consiglio Richiedete una consulenza presso la vostra banca per valutare la vostra situazione personale e la variante più adatta a voi.


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ATTUALITÀ

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

L’economia dell’effimero

Della struttura di produzione dell’economia ticinese sappiamo tutti che sta, da qualche decennio, terziarizzandosi. Questo significa che la quota dei posti di lavoro (e del Pil) del settore dei servizi continua a crescere a scapito naturalmente delle quote del primario (agricoltura e foresticoltura) e, in particolare, del secondario, il settore dell’artigianato, dell’industria e dell’edilizia. Ricordiamo che, nel 1975, il secondario rappresentava ancora il 39,2% dell’occupazione totale dell’economia ticinese. Oggi (2020) questo settore non occupa più che il 22,2% dei lavoratori dell’economia cantonale. Ma attenzione: in termini assoluti l’occupazione del secondario del 1975 non è molto diversa dall’occupazione di oggi. Nel corso degli ultimi 50 anni, l’occupazione dell’economia ticinese è quindi cresciuta praticamente solo nel terziario. Nel corso di questo lungo periodo non sono mancati gli sforzi per rilan-

ciare sia l’industria che l’artigianato. L’opinione pubblica e la fantasia popolare si sono interessate soprattutto alle misure con le quali il governo ticinese ha cercato, a più riprese, di promuovere l’innovazione tecnologica, come pure i prodotti e i servizi di nicchia. Ma ci sono stati anche studi e ricerche che si proponevano di scoprire quali fossero i rami del secondario e quelli del settore dei servizi che avrebbero potuto svilupparsi nel Cantone. Verso la fine del secolo scorso, nel breve periodo in cui nacque e sparì la «nuova economia», si fece largo l’idea che il Ticino, nel quadro di una rete di scambi che stava mondializzandosi avrebbe potuto giocare la sua carta come centro per la logistica internazionale, in particolare per l’industria della moda e del lusso. Ora invece queste «grandi firme» stanno una dopo l’altra abbandonando le loro localizzazioni nel Cantone, dopo un

periodo di presenza tutto sommato effimero. È come se 30 anni fa fosse scoppiata nel Cantone la febbre della logistica per prodotti di lusso e che oggi, dopo un periodo relativamente breve di sfruttamento delle possibilità, si fosse scoperto, in una situazione di mercato che per molte ragioni è cambiata, che il filone è inaridito. Di questi sviluppi, che sono durati «l’espace d’un matin», ha parlato recentemente l’economista della Supsi Spartaco Greppi in un’interessante intervista rilasciata alla «Regione». Per lui i vantaggi offerti dal Ticino, come trattamenti fiscali privilegiati e agevolazioni nell’accesso alla proprietà, non bastano più per localizzarvi le attività logistiche. Egli precisa poi che la partenza di queste ditte deve essere messa in relazione con «il fatto che gli altri Paesi si sono mossi per evitare certe pratiche di ottimizzazione fiscale, con leggi, riforme e controlli volti a ricostituire una cer-

ta equità. Questo ha cambiato radicalmente il calcolo costi/benefici per le imprese. Che cosa significano queste partenze per l’economia del Canton Ticino? In prima linea vengono citate le perdite di gettito fiscale. Nell’intervista si precisa che il gettito di questo settore, nel 2015, era pari a 90 milioni. Deve trattarsi della somma delle imposte pagate dalle aziende e dai loro dipendenti ai comuni e al Cantone. È probabile che non tutto il gettito vada perso. Comunque i comuni sedi delle aziende, ossia proprio quegli enti che hanno fatto gli sforzi maggiori per ottenere che le stesse si localizzassero sul loro territorio, ne risentiranno. Dal profilo dell’occupazione, la delocalizzazione di questo settore non dovrebbe creare grossi problemi, tanto più che una larga quota degli occupati è costituita da lavoratori frontalieri. È invece probabile che i capannoni e le costruzioni abbando-

nate creeranno problemi di riuso non facili da risolvere, specie laddove la dimensione degli edifici è fuori della norma. Secondo noi per qualche anno si andrà avanti con occupazioni di tipo provvisorio. Poi, a seconda del tipo di costruzione in questione, o si cercherà di tornare a utilizzarla per scopi industriali o logistici, o se ne cambierà l’uso, magari facendo posto a servizi di natura pubblica, o si abbatteranno per far posto a nuove costruzioni. Una di questa costruzioni potrebbe ospitare, secondo noi, un museo delle occasioni industriali mancate del Ticino. Un po’ come noi andiamo a visitare, oltre oceano, i villaggi abbandonati dai cercatori d’oro, in futuro, da noi, i turisti potranno visitare il museo dell’industria della moda e del lusso dove potranno rendersi conto di quanto effimera possa essere la durata di certi investimenti nell’economia, basati sostanzialmente solo su agevolazioni fiscali.

In&Outlet

di Aldo Cazzullo

Quando la politica non è più così importante ◆

Le recenti elezioni amministrative in Italia hanno dimostrato che le vecchie carte geografiche della politica non valgono più. Se c’è una città di destra, quella è Verona; dalla curva dell’Hellas (la maggior squadra di calcio del Veneto) alla Curia (tranne qualche eccezione, tra cui non c’è l’attuale vescovo che ha invitato a non votare per chi sostiene la teoria gender). Se c’è una città di sinistra, è Genova. Repubblicana quando l’Italia era monarchica, antifascista quando l’Italia era fascista, comunista quando l’Italia era democristiana. La città dove la gente apre i portoni ai manifestanti in fuga dalla polizia, nell’estate del 1960 come nel 2001. Ebbene, Verona ha scelto un sindaco di sinistra. Ma l’enfasi per la vittoria di Damiano Tommasi non deve far dimenticare quella di Marco Bucci al primo turno a Genova, città che ha più del doppio degli abitanti di Verona. In realtà quando parliamo di città di sini-

stra e di destra parliamo del passato. Di una tradizione che non esiste più o comunque rappresenta un retaggio, uno sfondo su cui si muove il presente. Non solo sono finite le ideologie, ma pure le appartenenze. Sesto San Giovanni, l’ex Stalingrado d’Italia, rielegge il sindaco di centrodestra nonostante la débâcle generale ai ballottaggi e le palesi difficoltà della Lega al nord. A Pistoia, già città rossa, vince al primo turno il candidato di Fratelli d’Italia. Cuneo, già molto democristiana e poi molto leghista, elegge una sindaca di centrosinistra. Le cause sono tante. Quando si vota per i sindaci si sceglie la persona, non il partito. Se si vota per le politiche le tradizioni contano di più o, meglio, ci si divide secondo le linee emerse in questi ultimi anni: centri contro periferie, città contro campagna. Per cui al Parioli, quartiere romano considerato nero, vince il Pd e nelle borgate un tempo rosse prevale (anche se non

Il presente come storia

sempre) la destra. Non è un fenomeno unicamente italiano. La Colombia ha eletto un presidente di sinistra per la prima volta nella storia, superando sia il rifiuto del passato guerrigliero, sia la paura del contagio del vicino Venezuela. La Spagna sta discutendo di quel che è accaduto in Andalusia. Il bastione socialista, la comunità che aveva resistito al franchismo, la terra di Felipe González, alle elezioni amministrative ha attribuito al partito popolare (fondato dal braccio destro di Franco, Manuel Fraga Iribarne) il doppio dei seggi del partito socialista (Psoe). Le spiegazioni sono molte. La volatilità del voto. L’influenza dei social. La fluidità delle opinioni. Gli sbalzi della partecipazione. Inoltre la storia recente dimostra che negli ultimi giorni prima del voto si creano correnti sotterranee che sospingono l’onda del vincitore, ampliano i margini, a volte rovesciano le previsioni (Brexit,

Trump). Non c’è da lamentarsi, anzi. È positivo che non esistano posti e collegi sicuri, che le città siano contendibili. Significa che la democrazia non è bloccata, e quando l’elezione è diretta i partiti e le coalizioni devono mettere in campo personaggi credibili, mentre quando si tratta di comporre liste bloccate tendono a prediligere fedeltà vere o presunte. La labilità delle appartenenze fa sì, ad esempio, che i Cinque Stelle possano passare dall’alleanza con Matteo Salvini a quella con il Pd e Laura Boldrini nel giro di una settimana. Eppure, nell’infinita vertigine delle possibilità, c’è anche questo: la politica non è più così importante. Nessuno pensa più di affidarle la vita. Pochi credono che la politica possa davvero cambiare le cose. Bezos ha più potere di Obama, Zuckerberg di Trump, Musk di Biden. Qualcuno ritiene che votare sia inutile, tanto la propria opinione la si esprime sui social. Della poli-

tica però avremo bisogno, soprattutto in una fase così difficile. La corsa dei prezzi, il rialzo dei tassi, la perdita del potere d’acquisto sarà il tema su cui si confronteranno i partiti (non solo in Italia). Stare all’opposizione in questa fase è un vantaggio. E l’unico grande partito d’opposizione – nella vicina penisola – è quello di Giorgia Meloni. I risultati delle amministrative non devono trarre in inganno. Con questa legge elettorale, che costringe i partiti a formare coalizioni, il centrodestra avrà la maggioranza relativa e forse la maggioranza assoluta nel prossimo Parlamento. È vero che il centrodestra ha già dimostrato di potersi dividere e andare in ordine sparso, ma un tentativo di formare un governo lo farà. La vera alternativa sarebbe trovare prima del voto una legge elettorale proporzionale. Conviene di sicuro a quelli che con la legge attuale perderebbero: 5 Stelle e centristi, ma anche il Pd.

di Orazio Martinetti

La Grande disidratazione

Meteorologi e climatologi sono in allarme anche nel paese – il nostro – in cui il patrimonio idrico era dato fino a qualche anno fa inesauribile, una sorgente da cui l’acqua sgorgava senza interruzione, giorno e notte. Non che questa fonte vitale per ogni organismo non avesse alle spalle conflitti per la sua gestione e distribuzione, controversie che nelle comunità agro-pastorali del passato potevano sfociare in litigi violenti. Complessivamente, tuttavia, l’acqua – come l’aria – non mancava mai, o quasi. I periodi di prolungata siccità erano rari, il rischio che lo spazio alpino, così ricco di polle, potesse prosciugarsi era considerato un’eventualità remota, una calamità neppure pensabile. Minacce e danni scaturivano semmai dagli eccessi, da frane, alluvioni e inondazioni: erano disgrazie

che le comunità mettevano in conto e che cercavano di prevenire armando gli argini e mantenendo sgombri da detriti gli alvei. Lo sappiamo dai banchi di scuola: la Svizzera, povera di materie prime, in primis del carbone, ha dovuto aguzzare l’ingegno per muovere le pulegge delle sue manifatture, per far correre i suoi treni e per illuminare le sue abitazioni. Di qui l’idea di sfruttare i suoi tesori naturali, il suo «carbone bianco», costruendo ovunque condotte forzate e bacini di accumulazione, per poi trasformare la caduta in energia elettrica. Sono così sorte in alta montagna imponenti dighe, opere a volte contestate perché considerate indifferenti alle legittime rivendicazioni dei comuni di valle (il dibattito sugli interessi delle «Partnerwerke» ha dominato a lun-

go la politica ticinese), oppure perché sproporzionate e poco rispettose della biodiversità, archi in cemento armato conficcati nei pascoli alti. Proteste allora non infondate, ma che oggi volentieri accantoniamo di fronte all’emergenza climatica, alla contrazione dei ghiacciai e alla «grande sete» che sta mettendo in ginocchio l’agricoltura e l’allevamento nelle aree cisalpine. Indispensabile alla vita, l’acqua ha svolto una funzione non secondaria anche nella costruzione dell’identità confederale, e questo fin dal Rinascimento. Già da quell’epoca viaggiatori, diplomatici e «descrittori» attribuirono ai territori che si stavano alleando nel cuore delle Alpi il ruolo di acquedotto d’Europa, un «castello d’acqua» i cui canali – rappresentati dalla croce fluviale di Rodano, Reuss, Reno e Ticino – andavano a irrigare e dissetare

le pianure dei regni circostanti. Questa rappresentazione dell’antica Confederazione come fulcro idrografico del vecchio continente, come «madre dei fiumi» («Helvetia mater fluviorum»), divenne nella prima metà del Novecento un «topos» politico-culturale, emblema ed essenza della specificità elvetica e della sua volontà di difesa di fronte all’ascesa dei regimi totalitari. Un inno al fiume che lo scrittore e critico letterario grigionese Reto Roedel riprese, esaltandolo, in un suo giro di conferenze nell’Italia fascista nel dicembre del 1938: «La montagna, la valle, il lago non sono l’intero paesaggio svizzero. Le genti che illustrano quella tripartizione non costituiscono tutta la gente elvetica. Al paesaggio così rappresentato occorre ancora un elemento, un elemento vi-

tale, dinamico, una – questa sì – delle più preziose riserve naturali di energia nostra. Il suo nome è sulle labbra di tutti… il fiume. Il fiume vivace e solenne, il fiume migratore ma sempre alimentantesi alla originaria purezza della sua fonte, il fiume che corre via ma per farsi sempre maggiore e per accrescere forza al suo primo corso…». Nel gorgo di emergenze in cui siamo precipitati negli ultimi anni (esodi e deportazioni, cambiamento climatico, pandemia, guerra) non pensavamo di dover aggiungere anche la graduale evaporazione delle risorse idriche, l’oro blu custodito nella cassaforte delle Alpi. Eppure, a detta degli esperti, è questo il mondo che ci attende, una Grande disidratazione che minaccia di disseccare anche paesi tradizionalmente umidi come la Svizzera.


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Una mano allo stomaco irritato


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CULTURA ●

Le sfumature del grigio Il filosofo Peter Sloterdijk ci spiega le «vibrazioni metafisiche» del grigio al centro del suo saggio

Il Film Festival si racconta Intervista a Raphaël Brunschwig e Simona Gamba per capire come cambia il Film Festival di Locarno

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Rigoletto al Teatro alla Scala Luci e ombre del Rigoletto di Mario Martone in replica fino all’11 luglio a Milano

Un inferno in terra Inferno, uscito per Spider&Fish, rivela la caratura letteraria dell’artista viennese Mela Hartwig

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Il paradiso in terra a occhi aperti Case Museo/1

La casa di Monet a Giverny inaugura la serie sulle case museo di artisti e scrittori tra curiosità e dettagli inediti

Gianluigi Bellei

Claude Monet usava spesso i treni. Soprattutto da Parigi verso la Normandia dove trovava una luce particolare, adatta alla sua ricerca. Il 1876 è stato l’anno di inizio di un periodo di ristrettezze finanziarie. Si è rivolto al finanziere e collezionista Ernest Hoschedé. Nel 1879 si è trasferito con la moglie Camille e i due figli a Vétheuil, vicino ai coniugi Ernest e Alice Hoschedé. Lo stesso anno Camille muore. Convive in seguito con Alice Hoschedé, separata dal marito, assieme ai suoi 6 figli. Ora la famiglia è grande e Monet inizia a cercare un’abitazione adatta. In treno tra Bonnières e Vernon nota la luce ideale. Scende a Vernon e va verso Gisors per fermarsi a Giverny. Qui scorge un grande casale e si innamora del suo frutteto, delle iris gialle e delle colline attorno. Prende tempo e infine riesce a convincere il proprietario ad affittarglielo e vi si stabilisce nel 1883. Nel 1890 acquista la proprietà. Continua a viaggiare: Londra, Venezia, la Norvegia… fino alla morte di Alice nel 1911. Da allora si allontana di rado dalla casa e dal giardino; sino al 1926, anno della sua dipartita. I continui cambiamenti di luce derivanti dalla variabilità del tempo sono uno degli aspetti che hanno sempre affascinato Monet perché diceva di «voler dipingere l’aria che circonda il ponte, la casa, le barche» anche se sembra quasi impossibile renderne la bellezza. L’aria per lui è la luce e questa, si sa, è uno dei suoi crucci maggiori. «Qualunque sia il soggetto che ritrae – scrive Philippe Piguet nel catalogo dell’esposizione di Palazzo Reale nel 2021 – l’artista lo trasfigura nella luce: lo esalta, mescolando materia e spirito, lo rivela nella sua luminosità e nel suo movimento». Negli anni seguenti l’acquisto, Monet espande i suoi terreni e nel 1893 inizia ad allestire il giardino d’acqua. Nascono proprio a Giverny le Serie che lo renderanno celebre. Venticinque Meules dipinte tra il 1888 e il 1891, ventiquattro Peupliers tra il 1892 e il 1898, le Cathédrales, il Ponts Japonais, i Glycines e le Nymphéas per arrivare all’apoteosi con le Décorations des Nymphéas che rappresentano il trionfo del colore e che, dalla morte dell’artista, sono esposte al Musée de l’Orangerie di Parigi. In questi casi le tele non sono solo abbagli di luce, né quello che realmente appare, bensì rappresentano lo scorrere del tempo. Monet giustamente viene paragonato a Marcel Proust per il quale il tempo è l’oblio e la memoria involontaria. Giuliana Giulietti in Proust e Monet scrive che l’opera d’arte di Monet diventa il luogo in cui fissare «una re-

Una bella vista della facciata della casa di Monet a Giverny; sotto, dettaglio del giardino d’acqua e la particolare cucina blu. (© Maison et Jardins Claude Monet Giverny)

altà che sta per lasciarci per sempre» per ritrovare, nel felice presente della creazione, il tempo perduto. La complessa struttura generale della proprietà è suddivisa in due parti: Le Clos Normand e Le Jardin d’eau. Nella prima troviamo la casa vera e propria, l’atelier delle Ninfee, il secondo atelier e le serre. Nella seconda – alla quale si arriva mediante un passaggio sotterraneo che attraversa la strada e la ferrovia – lo stagno e il bacino delle ninfee con il ponte giapponese. L’esterno della casa è ricoperto di edera e le imposte sono verdi. A destra dell’entrata troviamo la sala da pranzo (che in origine era una piccola camera e un cucinotto) con i muri e i mobili di due gialli leggermente

differenti. I piatti ordinati a Limoges si armonizzano con il resto. Alle pareti delle stampe giapponesi che aveva iniziato a collezionare dal 1971, come da gusto dell’epoca. Fra i suoi acquisti troviamo Kitagawa Utamaro, Utagawa Hiroshige, Katsushika Hokusai… Qui pranzano gli amici che vengono a trovarlo da Parigi: Camille Pissarro, Auguste Rodin, Auguste Renoir, Sacha Guitry, il mercante Paul Durand-Ruel, Gustave Caillebotte e tanti altri. Accanto c’è la cucina con le piastrelle blu e bianche e le batterie di pentole in rame: il regno di Alice e di Blanche Hoschedé, moglie del primogenito Jean morto nel 1914. Monet probabilmente entra raramente in cucina anche se è un buongustaio: è ghiotto di selvaggina. Forse per questo qualcuno ha pensato che non dipingesse a olio bensì al burro. A sinistra dell’entrata, di fronte alla sala da pranzo, c’è la sala di lettura dalla quale si accede alla sua camera da letto e al suo atelier al primo piano. Dalla scala centrale si arriva alle camere dei ragazzi e a quella del personale. Nella sua stanza e in quelle adiacenti c’erano i dipinti dei suoi amici: Paul Cézanne, Pierre-Auguste Renoir, Berthe Morisot, Hilaire-Germain-Edgar Degas, Eugène Delacroix, Camille Pissarro, Paul Signac, Édouard Vuillard, due bronzi di Auguste Rodin… quasi tutti dispersi nei musei del mondo.

Da notare che Claude e Alice dormono in camere separate con letti singoli. Per la manutenzione del giardino Monet dispone di cinque giardinieri. All’esterno della casa ci sono iris, papaveri, alberi di mele, margherite, gladioli, rose. Il giardino cambia colore secondo le stagioni: in primavera ci sono i narcisi, i tulipani, le azalee, i rododendri, i lillà, i glicini. In giugno le campanule, le rose, le genziane e in settembre le dalie, i cactus, le anemoni, le malvarose… Il giardino d’acqua, al contrario di quello di Clos Normand, è asimmetrico, esotico, giapponese e, come da tradizione orientale, mira ad agevolare la contemplazione filosofica. Qui troviamo le ninfee che con le forme, i colori e i movimenti dell’aria offrono all’artista infiniti giochi di luce e ombra. Georges Clemenceau scrive di rappresentazione emotiva del mondo e dei suoi elementi in una trasposizione della realtà cosmica. Fino alla fine quando, oramai quasi cieco e divorato del tumore, lascia questo Paradiso e noi ne possiamo godere immaginandolo alle prime luci dell’alba dipingere fumando le prime delle sue 40 sigarette giornaliere. Dove e quando La maison et les jardins de Monet Giverny. Dal 1. aprile al 1. novembre. Orari: 9.30-18.00. www.fondation-monet.com


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CULTURA

Per una filosofia del grigio

Lezioni di chimica

Stefano Vastano

Laura Marzi

Feuilleton ◆ A colloquio con Peter Sloterdijk per riflettere insieme sulla dimensione etico-politica di questo colore

Il filosofo e scrittore Peter Sloterdijk qualche anno fa all’Hotel Drei Könige di Basilea. (Keystone)

All’inizio, leggendone il titolo o le prime pagine possiamo ancora chiederci se l’argomento non sia un po’ marginale. Andando però avanti, affrontando i capitoli più strettamente filosofici e i rimandi storici e politici del libro, ci accorgiamo che Peter Sloterdijk ha fatto molto bene a dedicare il suo nuovo saggio a un colore tanto discreto come il grigio. Wer noch kein Grau gedacht hat, si intitola così la nuova opera (di 286 pagine, pubblicata da Suhrkamp) del filosofo tedesco. Chi ancora non ha pensato il grigio, dunque. «Non è certo il colore dell’empatia o che di primo acchito ci stia simpatico», inizia a spiegarci Sloterdijk, 75 anni appena compiuti, nel suo ufficio a Berlino. «Il grigio è un mix di luci ed ombre e, come lo ha definito il grande pittore Gerhard Richter, “il colore dell’indifferenza”». Già qui, riflettendo su mix cromatico e tonalità dell’Indifferenza percepiamo le prime «vibrazioni metafisiche», come le chiama Sloterdijk, che rimandano sia alla dimensione della Epochè, di scettica memoria, sia al modo in cui Martin Heidegger introduceva al mondo della filosofia. «L’epochè dello scetticismo, precisa Sloterdijk, è il tentativo di metter fra parentesi i più forti impulsi vitali. E d’altronde la metafora a cui Heidegger ricorreva spesso per introdurre al discorso della filosofia era la grigia nebbia che copre il mondo». In realtà, è il suo spiccato interesse per l’arte e la letteratura che hanno svegliato via via in Sloterdjik l’interesse per il tema del grigio. «Il primo impulso a pensare a una filosofia del grigio, ammette, mi è venuto da un’intuizione di Paul Cézanne, secondo cui non è un pittore chi ancora non abbia dipinto in grigio». E poi i romanzi, di cui il filosofo è un accanito lettore. «La spinta definitiva me l’ha data Le anime grigie di Philippe Claudel, oscuro racconto sull’assassinio di una bambina in Francia, nell’inverno del 1917». Ed ecco il lato inquietante, se non angosciante di questo fatale colore, che così spento non può essere se ci turba tanto. Non per niente è uno dei testi più classici e più letti della filosofia che impatta subito, e in una dimensione mitologica, con il grigio: il mito della caverna, nel 7° libro della Repubblica di Platone. «Quella di Platone è una delle critiche più dure alla consistenza delle percezioni quotidiane, spiega lo scrittore, per lui

tutto ciò che vediamo non sono che “Skia”, ombre all’interno della caverna dei nostri corpi». E le ombre notoriamente sono grigi fantasmi.

«Le vicende politiche del 20esimo secolo, riassume Sloterdijk, sono contrassegnate dal progressivo spostamento dal rosso fuoco al grigio» Già, ma come mai i filosofi, sino a Wittgenstein incluso (che pure alla psicologia dei colori ha dedicato belle pagine), non si sono mai interrogati «sul valore cromatico delle ombre stesse, si chiede Sloterdijk, sulla traccia di grigio inerente al lavoro del pensiero stesso?». Sono d’altronde questi i termini di un’altra scena-madre e densamente concettuale della riflessione filosofica: la famosa Vorrede, la Prefazione alla «Filosofia del diritto» di Hegel. Lì dove il genio dell’idealismo tedesco annota che la filosofia «disegna grigio su grigio», e che il filosofo elabora le sue idee al tramonto, con «la nottola di Minerva… sul far del crepuscolo». «Agli occhi di Hegel, commenta Sloterdijk, la realtà appare come un concreto “cemento”, grigia stratificazione di materiali diversi, che il filosofo deve modellare in concetti». Per far questo ha bisogno evidentemente di tempo, motivo per cui la filosofia arriva sempre tardi, al calar della sera e muovendosi quindi fra grigie ombre (e quando è già tardi, se non inutile, agire sulla realtà). È l’esatto opposto del messaggio sul grigio che Heidegger ha sviluppato sin da Essere e Tempo, la sua opera del 1927. Dove grigissime sono le paure e le preoccupazioni per le cure giornaliere in cui è avvolta e coinvolta sempre tutta la nostra esistenza. «Heidegger, spiega Sloterdijk, lega la filosofia a una base quotidiana e non alle idee di Platone o di Hegel. Filosofia è per lui immersione nella vita di tutti i giorni in cui ci scopriamo degli animali profondamente grigi, sempre a metà strada fra il passato e le ansie per il futuro». È questa indecisa situazione di stress fra passato e futuro (i desideri, le speranze e illusioni) che nel saggio di Sloterdijk ci riporta al passaggio così transitorio e profondamente umano del «Purgatorio», al centro quindi della Divina Commedia di

Dante. «Con quel suo cantico nella zona intermedia fra i gironi dell’Inferno e i cieli del Paradiso, precisa Sloterdijk, Dante insegna che l’uomo è una creatura del Centro, che può aspirare a un viaggio di espiazione nel Purgatorio, con cui, come ha ben visto Le Goff, Dante imprime nuova dinamica alla vita medievale». Iniettando per così dire più «zone di grigio» nella prassi quotidiana all’inizio dell’era moderna. Se la vita infatti non è più determinata solo dal fuoco infernale né ancora dallo splendore paradisiaco, diviene allora «la dottrina stoica dell’adiafora che riemerge con il Purgatorio dantesco, una più equilibrata “indifferenza morale” verso i beni terrestri, siano statue, cibi o amori, che ci esorta a non idolatrarli, a non soccombere né esagerare col loro godimento». La dimensione etico-politica del Grigio è tutta qui, un salubre invito a non esagerare con i toni troppo forti della vita, né con le ideologie (rosse o nere) che hanno devastato il Ventesimo secolo. «Le vicende politiche del 20esimo secolo, riassume Sloterdijk, sono contrassegnate dal progressivo spostamento dal rosso fuoco al grigio. Rosso è il colore della rivoluzione d’Ottobre e delle dittature del proletariato. Non dimentichiamo che, a differenza di quelle nere dei fascisti, anche le bandiere dei nazisti erano rosse con la svastica nera al centro». Quale il messaggio allora che Sloterdijk consegna a noi perplessi nell’era digitale e globale, di fronte al rigurgito di nuovi populismi e sovranismi e a guerre disumane? «Di ascoltare, ci risponde lui, le vibrazioni più moderate che emanano dal grigio». Anche e specialmente nella più cruenta arena della politica. A Gramsci che, nel 1917, scriveva «odio gli indifferenti… vivere vuol dire essere partigiani», Sloterdijk risponde di «spengere il furore ideologico, e di apprezzare le nuance di grigio che le nostre società liberali e democratiche ci offrono con vari modelli di vita, e deporre quindi le armi degli estremismi ideologici e delle “lotte continue”». Era questa la geniale intuizione di Cézanne quando sosteneva che non è un vero pittore chi ancora non abbia dipinto in grigio. Come non è un politico, o un filosofo, per concludere con Sloterdijk, «chi ancora non abbia scoperto il bel carattere morbido e temperato del grigio».

Pubblicazione ◆ Attuale e originale, quello di Bonnie Garmus è un romanzo da leggere

Nel romanzo di Bonnie Garmus Lezioni di chimica, in corso di traduzione in 34 paesi, sono condensate le lotte che hanno condotto all’emancipazione femminile, iniziata nella metà del XX secolo e che non è ancora compiuta, come dimostra il verdetto del 24 giugno della Corte Suprema degli Stati Uniti contro il diritto all’aborto. Opponendosi alla storica sentenza Roe contro Wade del 1973, in cui la stessa corte aveva stabilito che il diritto all’aborto derivava dal XIV emendamento della Costituzione e doveva quindi essere garantito da tutti gli stati della Confederazione, i giudici hanno adesso stabilito che ogni stato membro può decidere in materia e sono già molti quelli in cui l’aborto volontario è stato dichiarato illegale. La sentenza riporta indietro la lancetta dei diritti delle donne di quasi cinquant’anni, proprio al tempo di cui racconta Garmus. La storia di questo romanzo è ambientata tra gli anni ’50 e gli anni ’60, in California. La protagonista è la chimica Elizabeth Zott, una donna dal coraggio e dalla forza titanici, nonché dotata di un grande talento per la scienza. Zott, però, a differenza dei suoi colleghi maschi, non ha potuto fare il dottorato per dare slancio alla sua carriera, infatti il suo professore, che avrebbe dovuto permetterle di continuare gli studi, non solo non ha acconsentito, ma l’ha anche violentata per punirla di aver cercato di ribellarsi alle sue decisioni. A colpire è la forza di volontà della protagonista, che riesce comunque a essere assunta in un centro di ricerca, dove incontra l’uomo della sua vita. Nel romanzo viene ripetuto più volte che quello tra lei e Calvin Evans è stato un colpo di fulmine o meglio una reazione alchemica. Tutti pensano che la bellissima Elizabeth stia con Evans solo per interesse, perché lui è un chimico geniale, candidato varie volte al premio Nobel, ma non è così: i due sono davvero innamorati, anche se lei non accetta di sposarlo, perché si è ripromessa di non sottostare alla sudditanza imposta alle mogli, non ultima quella di assumere il nome e il cognome del marito. Quando Evans muore, però, il fatto di non essere stati uniti in matrimonio ricade gravemente su Elizabeth che viene licenziata, perché incinta: «mi sta dicendo che se un uomo non sposato mette incinta una donna non sposata, per lui non ci sono conseguenze?». Ciò che è interessante leggendo il romanzo è la possibilità, grazie alla narrazione delle vicissitudini quotidiane vissute dalla protagonista e dalle altre personagge, di comprendere l’ingiustizia che subivano le donne in Occidente fino a poco tempo fa che,

come ci ammoniva Simone De Beauvoir, è un pericolo che non abbiamo smesso di correre. Zott perde il suo lavoro perché aspetta una figlia illegittima, che decide di dare alla luce, tentando poi di istituire un laboratorio chimico nella loro casa. A venirle incontro in un momento di grande difficoltà economica, però, è un colpo di fortuna, cioè l’incontro con il padre di una compagna di scuola di sua figlia che di fronte alla vitalità di Elizabeth le propone di tenere un programma televisivo sul cibo. Da scienziata a cuoca il passaggio sembra azzardato, ma non lo è così tanto: la cucina si fonda sulle reazioni fra i vari ingredienti con il calore, per questo Zott conduce il programma Cena alle sei più come se tenesse lezioni di chimica per principianti che non un classico corso di cucina. Oltre a fornire alle sue spettatrici, ogni giorno più numerose, le nozioni scientifiche basilari, trasmette loro anche la sua concezione della vita e soprattutto la necessità in cui lei crede fermamente che le donne si ribellino alle limitazioni che vengono loro imposte e alla schiavitù in cui vivono. Un aspetto fondamentale della sua conduzione è la convinzione, più che legittima, che il lavoro delle casalinghe sia non solo difficile, ma fondamentale, eppure è: «il lavoro più sottovalutato che esista al mondo». Seppur abbia tratti molto romanzeschi, evidenti soprattutto nella risoluzione finale dell’intreccio, la trama non è edulcorata. Non basta il coraggio di Elizabeth Zott perché tutto vada come dovrebbe: a ostacolarla ci sono il produttore del programma, i detrattori e le detrattrici bigotti, i giornalisti a caccia di falsi scoop… La stessa protagonista mina la sua carriera e il futuro stesso di Cena alla sei quando dichiara in diretta di essere atea. Nel romanzo sono narrati elementi importanti della vita reale come l’amicizia: il rapporto fra Elizabeth e la sua vicina di casa Harriet è profondo e non scontato ed è interessante anche il modo in cui le due si scambiano confidenze sulla difficoltà di essere madri e sul desiderio tabù che le coglie in alcuni momenti di poter tornare indietro nel tempo o liberarsi dei propri neonati. Lezioni di chimica è l’esperimento riuscito di costruire una storia mettendo insieme tematiche politiche femministe, un intreccio ben strutturato di vicende e personaggi, con la scienza: «il coraggio è alla base del cambiamento e il cambiamento è ciò a cui siamo chimicamente destinati». Bibliografia Bonnie Garmus, Lezioni di chimica, Rizzoli, Milano, 2022. (Shutterstock)


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La magia succederà sempre

Cinema ◆ Raphaël Brunschwig e Simona Gamba ci raccontano come cambia il Locarno Film Festival tra tradizione, innovazione e la passione di chi ci lavora Natascha Fioretti

Manca poco all’evento culturale e mondano più atteso dell’anno in programma dal 3 al 13 agosto che con questa edizione arriva a spegnere 75 candeline. In odore di Festival si accendono i primi riflettori su alcuni dei premi e delle novità in programma come il Pardo alla carriera al regista franco-greco Costa-Gravas, il Lifetime Achievement Award a Matt Dillon e la Retrospettiva consacrata a Douglas Sirk, autore amato da Fassbinder e Bertolucci. Ma anche l’istituzione del Pardo Verde WWF e del Green Film Fund, che verrà avviato nel corso del prossimo anno. Il primo premia le nuove narrazioni capaci di sensibilizzare il pubblico sulle tematiche ecologiche, il secondo sostiene quei film attenti al rispetto per l’ambiente. «La sostenibilità è una riflessione centrale per la società contemporanea, che proprio in questo momento ha bisogno di un ribaltamento di pensiero e di nuovi strumenti per affrontare al meglio il futuro. Un evento culturale come Locarno può quindi offrirsi come generatore, promotore e diffusore di una nuova prospettiva, incentivando opere e autori che lavorano nel rispetto dell’ecosistema e che creano nuove narrazioni capaci di sensibilizzare il pubblico» spiega Raphaël Brunschwig, Managing Director del Locarno Film Festival che incontriamo negli uffici del PalaCinema insieme a Simona Gamba, Chief Innovation Officer. Siamo curiosi di conoscere il nuovo corso intrapreso dal Festival, come e secondo quali linee intende trasformarsi senza, da un lato, tradire la sua identità e la sua storia, dall’altro confrontandosi con le nuove tendenze digitali e le sfide del mercato. Cambiare e innovare sono senz’altro due imperativi imprescindibili, specchio di un destino che accomuna tutti i Festival, l’intero ambito del cinema e più in generale il mercato culturale. Per capire da che parte tira il vento basta vedere il Festival di Cannes, famoso per aver sempre vietato i selfie sul red carpet e i film prodotti su Netflix, quest’anno ha sorpreso tutti scegliendo TikTok come partner ufficiale. Una scelta necessaria, evidentemente, per strizzare l’occhio ai più giovani. D’altronde la pandemia ha accelerato le tendenze già in atto e ha fatto esplodere le offerte e le fruizioni online provocando la crisi delle sale e dei Film Festival in presenza, tanto che qualcuno ha iniziato a chiedersi se avessero ancora un futuro. Alberto Barbera, direttore della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, proprio al PalaCinema in occasione della 9a edizione de L’immagine e la parola qualche mese fa, è stato chiaro «non c’è motivo per pensare che la situazione sia destinata a cambiare. Sarebbe sicuramente più economico spostare tutto online ma il senso dei festival è quello di recarsi in un luogo preciso, per un periodo specifico, e vedere una selezione di film di ogni tipo. Film che cercano un primo riscontro del pubblico, anche quelli di Netflix. Le piattaforme hanno bisogno dei festival per promuovere certi titoli, quelli più autoriali». Proprio in quest’ottica la missione del Locarno Film Festival (enunciata nel suo Rapporto di sostenibilità 2019-2020 che si può scaricare dal sito) è quella di «creare uno spazio, in

Raphaël Brunschwig e Simona Gamba in uno scatto che esprime tutta la loro sinergia operativa (Stefano Spinelli); sotto il Pardo Verde WWF (© Locarno Film Festival).

quanto luogo fisico, in cui sono invitati a incontrarsi gli autori con le loro opere, i professionisti e gli appassionati di cinema, che qui hanno l’opportunità di esprimersi liberamente, in un’ottica di scambio e di dialogo. Ma Locarno è anche uno spazio virtuale, che guarda oltre i confini geografici e temporali dell’evento, progredendo a gran velocità nella sua dimensione digitale».

«L’idea dietro tutto questo è che lo sviluppo aumenti la rilevanza del Festival, accresca il suo capitale relazionale e reputazionale» Il modo migliore per capire la teoria è incontrare chi la traduce in pratica quotidiana. Intanto, dalle interazioni e dagli sguardi si evince che tra il Managing Director e la Chief Innovation Officer c’è una bella sinergia, la complementarietà tra i due è iscritta nel loro bagaglio professionale e culturale. Americana, classe 1977, nata a Torino, studi in Discipline Economiche e Sociali alla Bocconi, Simona Gamba vanta una ventennale esperienza nel mondo della comunicazione e dei media (a partire dal suo ruolo di Direttrice del dipartimento Casting di MTV) che l’ha portata a seguire progetti di innovazione e digitalizzazione per grandi brand e player inter-

nazionali. Raphaël Brunschwig, nato a Zurigo, si trova perfettamente a suo agio nel mondo germanofono, ha un’esperienza decennale nello sponsoring di Publisuisse, poi è cresciuto con il Festival, dove è arrivato nel 2013 in qualità di coordinatore delle partnership; nel 2014 è diventato responsabile sponsoring, poi vicedirettore operativo e nel 2017 direttore operativo. Insieme al Direttore artistico Giona Nazzaro, che ospiteremo nelle nostre pagine la prossima settimana, sono alla guida del Festival, sotto la presidenza di Marco Solari. Iniziamo dall’importanza del lavoro di squadra. A entrambi chiedo quali siano i punti di forza dell’altro o dell’altra. «Storicamente, inizia Brunschwig, il vicedirettore del Festival era legato al marketing o allo sponsoring. Quando è partito il predecessore di Simona volevamo un profilo che aiutasse il Festival a fare un cambio di passo. Qualcuno con delle competenze specifiche per smontare e rimontare tutto in modo quasi ingegneristico, per far fronte a quell’aumento della complessità con cui siamo tutti confrontati. Una figura che nel tempo potesse diventare un punto di riferimento per tutto il processo di innovazione del Festival a partire dalla trasformazione dei processi di lavoro interni fino a innovare la parte tangibile della manifestazione, quella visibile al pubblico. Le sue competenze si sono dimostrate proverbiali e indispensabili per affrontare le nuove complessità. Se in passato ci bastava fare meglio le cose fatte in precedenza, in un contesto sempre più frammentato dobbiamo fare lo sforzo di metterci nei panni dei nostri pubblici, intercettare le nuove aspettative, pensare nuove offerte per rimanere attrattivi. Un paradigma che sta pervadendo tutta l’organizzazione e grazie a Simona, alle sue conoscenze in ambiti come lo user experience design, siamo un passo avanti». Simona Gamba – che ci confida essere una nerd della prima ora grazie al padre che sin da piccola l’ha

iniziata a qualsiasi nuova tecnologia – con entusiasmo lo definisce «brillante, veloce, geniale per la sua capacità di semplificare i problemi complessi senza perdere la calma». Poi si riallaccia al discorso dello user experience design, «smontare e rimontare non significa cambiare o stravolgere la macchina, significa metterla in ordine e dare delle chiavi di lettura a chi da fuori vede tante novità e il moltiplicarsi di iniziative. Dobbiamo permettere ai nostri pubblici di orientarsi all’interno di un Festival che cresce sempre di più. Per lo staff significa ripensare la comunicazione, i linguaggi, individuare i touchpoint digitali più adatti, introdurre e adattare nuovi servizi online». Brunschwig – che vede in Simona un’ottima sparring partner con la quale confrontare le sue intuizioni e «un’alleata che in fatto di innovazione ha sempre il sentore giusto» – si sofferma per un attimo sul concetto di innovazione: «significa anche avere la sensibilità di capire quali sono le priorità tra tutti i nostri curatori e capi progetto, come queste si intersecano con il mondo esterno, farne dei prototipi, finanziarli e farli funzionare. Da qui nasce la strategia di sviluppo che porta il Festival oltre gli 11 giorni locarnesi e ne fa una manifestazione estesa lungo tutto l’anno grazie a nuovi progetti e attività». Tra questi ci sono il BaseCamp, il polo di contaminazione artistica e sperimentazione che permette a 200 giovani creativi di vivere il Festival, la Locarno Residency, pensata come un percorso d’accompagnamento per la realizzazione dell’opera prima per giovani artisti, la Locarno Academy, rivolta ai giovani professionisti del settore e pensata per promuovere i talenti emergenti, Open Doors Toolbox, per le autrici e gli autori provenienti da aree geografiche in cui non c’è indipendenza cinematografica oppure le Locarno Shorts Weeks, dedicate al pubblico online internazionale e pensate per promuovere i cineasti e diffondere cortometraggi sul Web.

Da sempre impegnato a sostenere e promuovere la scena cinematografica giovane e indipendente, il Festival punta dunque a intercettare nuovi pubblici, espandere la propria comunità di riferimento promuovendo l’innovazione nell’ambito della digitalizzazione e delle nuove tecnologie. A questo proposito va detto quanto gli strumenti digitali e le attività online siano efficaci nel permettere di conoscere meglio il proprio pubblico. «L’Open Doors Toolbox, dice Simona Gamba, ci permette di vedere quanti paesi si stanno espandendo, se c’è un passaparola tra le piccole comunità che si creano. Le Locarno Shorts Weeks ci dicono quanto la presenza online si amplifichi rispetto a una sala cinematografica. Nel 2020, in piena pandemia, si sono collegati tutti i paesi del mondo». Raphaël Brunschwig, in conclusione, fa il punto: «l’idea dietro tutto questo è che lo sviluppo aumenti la rilevanza del Festival, accresca il suo capitale relazionale e reputazionale. Poi c’è una questione prosaicamente economica che ci porta a garantire ulteriori introiti per assicurare l’attrattività e rafforzare quello che succede qui a Locarno in agosto. Se c’è una cosa di cui siamo consapevoli è che per quanto possiamo essere bravi a sviluppare progetti collaterali, la magia avrà luogo sempre qui a Locarno. Questa cosa dell’incontro fisico nella piccola città che si trasforma in capitale mondiale del cinema d’autore, questo luogo dell’intensificazione, dove tutto accade in pochissimo tempo con l’eterogeneità e lo spirito festivo che sappiamo, è unica ed impossibile da replicare online. Lavoriamo per assicurare tutto questo cogliendo al contempo le potenzialità date dall’innovazione e dai cambiamenti con i quali il cinema viene creato, fruito e discusso». Dove e quando Locarno Film Festival dal 3 al 13 agosto 2022. www.locarnofestival.ch


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CULTURA

Nella mente di Rigoletto

In scena ◆ La nuova produzione dell’opera di Verdi firmata da Mario Martone è una lettura politica ricca di citazioni cinematografiche Davide Fersini

«Triboulet ha due pupilli, sua figlia e il re: il re che istruisce al vizio, la figlia che alleva nella virtù. L’uno rovinerà l’altra». Se dovessimo scegliere una chiave di lettura per la nuova produzione di Rigoletto del Teatro alla Scala, dovremmo partire proprio da quella frase, vergata con estrema sintesi da Victor Hugo, nell’introduzione al suo dramma più perseguitato – Triboulet, appunto – andato in scena il 22 novembre 1832 alla Comédie-Française e rimosso il giorno dopo dal cartellone con l’accusa di istigazione al regicidio. Da quella vicenda spaccata in due, sarebbe partito Verdi, per raccontare i vizi pubblici del Duca di Mantova e le virtù private del suo buffone di corte Rigoletto; e anche lui avrebbe subito gli affronti della censura di tutto il particolato di baronati, ducati e regni che componevano l’Italia del suo tempo, incluso quello pontificio, per il cui ufficio censorio così si espresse, nel 1853, il sommo poeta Giuseppe Gioachino Belli a proposito dell’opera: «Dal putrido dramma di Vittore Hugo (…) non potea che generarsi una fetida contraffattura». Ciò che faceva tremare di sdegno quei guardiani tartufeschi della morale pubblica, non era la scabra descrizione del potere corrotto di un principe e della sua corte – che cos’altro avrebbe potuto aggiungere Verdi a ciò che già tutti sapevano? – ma la parola vendetta, scandita con forza dal servo nei confronti del padrone, colpevole di avergli «rovinato» la figlia. Quella vendetta agognata, pianificata ma impossibile da cogliere – perché sul piano etico Rigoletto non è diverso dal Duca – è il nucleo intorno al quale, a ritroso, Mario Martone costruisce l’intero spettacolo, cominciando proprio là dove Verdi si era arrestato. Il regista accoglie, pertanto, l’indicazione del compositore ma non accetta il contrappasso, frutto della maledizione che pende su Rigoletto, come chiave teleologica e punto di arrivo della vicenda del gobbo – che, forse proprio per questo, gobbo non è! La messinscena, ambientata in epoca

moderna, rimuove, infatti, quel simbolo lombrosiano della deformità, lasciando al suo posto una più verosimile zoppìa, onde evitare all’ignaro spettatore l’errore di pensare che la manifesta lordura morale del protagonista sia l’esito naturale di un’anima nera come, invece, suggeriscono i cortigiani. Piuttosto, sembra intendere Martone, è stata la lunga pratica di connivenza con il potere a trasformare Rigoletto: dapprima la maschera del buffone gli ha protetto il volto, poi, a forza di indossarla, l’uno ha preso le fattezze dell’altra. Il mondo esterno e quello interno si sono fusi così come i due lati del palcoscenico girevole su cui è costruita la scena (progettata dalla ticinese Margherita Palli). Da una parte la villa del duca – modernissima e disegnata per accogliere le più sfrenate banalità performative dei tout nouveaux riches – dall’altra, collegati attraverso un passaggio diretto, gli slums dove vivono tutte le vittime e i complici di quelle performance. Tanto è internamente marcio l’uno, quanto sono marcatamente sudici e disgustosi gli altri; e tuttavia, simul stabunt simul cadent. I due lati si sostengono e si compenetrano in un brulichio di citazioni cinematografiche (La grande bellezza, Parasite, Funny Games, etc.) che definisce e limita l’arco vitale di Rigoletto: lo spazio entro cui il fato inesorabile, alla fine, si compirà. Della drammaturgia verdiana – quel «puro gioco tragico», di cui parlava Savinio – il regista non modifica una virgola, a dimostrare che quanto successe allora, succede ancora e continuerà a succedere. A meno che – spoiler alert – la catena non venga interrotta e la vendetta, ultima forma di rivoluzione possibile, riesca infine a trovare una via di compimento. Per realizzare cotanta visione, la Scala ha messo al servizio del regista un cast di ottimo livello vocale ma disomogeneo e a tratti inverosimile per quanto riguarda l’azione scenica. Impressionante Amartuvshin Enkhbat

come Rigoletto. Chi non ha ancora sentito questo nome, dovrebbe presto correre ai ripari, perché qui siamo al cospetto di un gigante della vocalità verdiana: colore scuro e pastoso, acuto scintillante, legato e dizione perfetti. Stereotipato nei gesti, ma col tempo crescerà! Meglio sul versante attoriale la Gilda di Nadine Sierra, sensualissima nelle parti amorose, anche se a tratti opaca e non proprio penetrante nella zona alta della tessitura. Il Duca è notoriamente il personaggio più convenzionale dell’opera e coerentemente il tenore Piero Pretti si limita a vocalizzarlo per bene: cantare è un’altra storia! A chiudere la lista dei protagonisti il sonorissimo Sparafucile di Gianluca Buratto e l’efficace Maddalena di Marina Viotti (Premio svizzero di musica 2022). Fra le parti di fianco occorre segnalare l’ottimo Fabrizio Beggi come Monterone e il precisissimo Costantino Finucci nella parte di Marullo. E veniamo, infine, alla musica. Il maestro Michele Gamba non accetta il ruolo di concertatore e preferisce distinguersi come direttore d’orchestra: il terrore di perdere il controllo, però, lo trascina al punto di deformare il gesto, intromettersi nelle cadenze e agitarsi senza posa per tenere assieme il coro. La lotta perpetua con i solisti si fa concreta nel duetto finale, dove il maestro, preoccupato dei pizzicati, dimentica che sulla scena si compie il destino di Gilda mentre lui si sbraccia per suddividere la battuta in dodici. Guarda a Muti senza averne il carisma e quello che resta della sua lettura critica è un’esecuzione plumbea, meccanica e piuttosto asettica. Al termine della première lo accolgono sparuti fischi e mugugnii. Sorte peggiore attende Martone, salutato da bordate di disapprovazione. Ovazioni meritatissime, invece, per i cantanti. Si replica fino all’11 luglio 2022. Dove e quando Rigoletto, Teatro alla Scala fino all’11 luglio. www.teatroallascala.org Un assaggio della scenografia firmata dalla ticinese Margherita Palli. (Brescia e Amisano © Teatro alla Scala)

L’attore Massimo Popolizio. (Giuseppe Di Stefano)

Tra Sacro e Monte

In scena ◆ Dal 7 luglio a Varese torna il Festival di prosa giunto alla sua tredicesima edizione Enrico Parola

Lo fa da tredici anni. All’inizio sembrava una scelta di rottura e di nicchia; col succedersi delle edizioni è diventata una realtà autorevole e sempre più seguita. Oggi, dopo le tribolazioni causate dalla pandemia e in un Occidente che torna a essere sconvolto dalla guerra, l’idea di incentrare un intero festival teatrale «sulle grandi domande dell’uomo, così come le hanno vissute, pensate ed espresse le grandi figure dell’arte e della letteratura» sembra l’unica davvero in grado di interessare chi non voglia semplicemente distrarsi e divertirsi, ma guardare in faccia alla realtà nella consapevolezza della drammaticità dei tempi e al tempo stesso nella certezza che la vita possa vincere sul male. Lo sostiene Andrea Chiodi, creatore e direttore artistico di Tra Sacro e Sacro Monte, che nei giovedì di luglio porta in cima al Sacro Monte di Varese grandi nomi e idee profonde del miglior teatro italiano: volti da copertina come Giovanni Scifoni e Massimo Popolizio, nuovi lavori su Pier Paolo Pasolini nel centenario della nascita e San Francesco d’Assisi, ma anche proposte coraggiose come Amen «scritto durante la pandemia da Massimo Recalcati, che non è un uomo di teatro bensì uno psicanalista, ma da cui ho voluto iniziare per il messaggio potente che comunica e perché ha preso una forma teatrale folgorante, come testimonia il successo clamoroso avuto al Franco Parenti di Milano» sottolinea Chiodi, che fa sua l’affermazione-base di Recalcati: «L’unico modo per combattere la morte, è cantare un inno alla vita. L’unico modo per ricominciare, oggi, è farlo con forza». Un canto alla vita intonato da tre attori pluripremiati quali Marco Foschi, Federica Fracassi e Danilo Nigrelli, e portato in scena questo giovedì dal regista Valter Malosti. Un altro inno risuonerà la settimana prossima, con Scifoni a interpretare il suo Mani bucate. «Col Cantico delle creature San Francesco creò il primo componimento lirico in italiano della storia: cantò la bellezza di frate sole dal buio della sua cella, cieco e devastato dalla malattia» riflette Scifoni, legandosi idealmente alla traccia indicata da Recalcati. Per l’attore romano, il pro-

blema di come «parlare di questo santo senza essere mostruosamente banali, di come creare uno spettacolo che non sembri una canzone di Jovanotti» si affronta ponendosi una domanda più radicale: «Perché tutti conoscono San Francesco, tanto che se chiedo a un ateo anticlericale “dimmi un santo che ti piace”, lui dirà: Francesco? Perché proprio lui? Non era l’unico a praticare il pauperismo. In quell’epoca altri santi e anche certi movimenti eretici avevano fatto la stessa scelta estrema». La sua risposta sorprende: «Perché questo coatto di periferia, piccolo borghese, mezzo frikkettone che lascia tutto per diventare straccione era un artista. Forse il più grande della storia. Nessuno ha raccontato Dio con tanta geniale, santa creatività. Il vero problema è che Francesco era un attore molto più bravo di me».

A luglio al Sacro Monte di Varese grandi nomi e idee profonde del miglior teatro italiano A un’altra grande e visionaria santa del Medioevo è dedicato il terzo appuntamento (il 21), Studio su Hildegard von Bingen scritto ispirandosi al suo Libro delle Visioni e interpretato da Federica Rosellini; la regia di Elvira Berarducci trasforma la riscrittura della ricercatrice-attrice in un intreccio di reading, concerto e danza per dare corpo alle visioni attraverso cui la Sibilla del Reno rivive la storia umana dalla creazione e dalla caduta di Adamo fino all’Apocalisse. Chiusura il 28 con Popolizio e il suo Pasolini. Una storia romana, dove il grande attore ripercorre la biografia del regista, scrittore, intellettuale dall’arrivo nella capitale fino alla morte, nel 1975. Un racconto scandito dai suoi testi (Religione del mio tempo, Scritti corsari, Ragazzi di vita, Una vita violenta) in cui si specchia la realtà post-bellica delle borgate romane popolate da povertà assoluta e astuti espedienti per tirare a campare, con quell’impasto inscindibile di tragico e comico che tanto attraeva Pasolini. Dove e quando Tra Sacro e Monte, Festival di Teatro Sacro Monte Varese, dal 7 al 28 luglio. trasacroemonte.it


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CULTURA

«Il tempio brucia» Pubblicazioni

Scritto tra il 1946 e il 1948 Inferno, il romanzo di Mela Hartwig, è finalmente uscito anche in italiano

Natascha Fioretti

«Ursula andava in giro per le strade senza una meta. La sua meta era la strada. Una qualunque. Aveva scoperto che ognuna di esse è un dettaglio della molteplicità della vita, il frammento di una realtà misteriosa che si nasconde alla nostra curiosità dietro l’impenetrabilità dei muri, ma non pone limiti alla nostra fantasia, intenta a ordire una finestra velata, un sorriso che aleggia per un attimo sul viso davanti a supposizioni, possibilità, probabilità, che mai le si rivela e quindi mai la contraddice. Dalle facciate della case si potevano indovinare i destini che si destinavano al riparo di quei muri (…) Le case nelle silenziose vie laterali (…) lasciavano indovinare che dietro a quelle loro facciate dimesse, incolori come disegni a penna (…), offrivano rifugio a persone che dalla vita non si aspettavano mai più di quel minimo di gioia che permette di esistere, e che mai ne avevano avuta di più; persone i cui cuori tiepidi non sono mai stati funestati dalle tentazioni con cui la passione avrebbe potuto assediarli, che non inciampano mai nella vanità, che non rimangono impigliati nelle trappole tese dall’ambizione, che quasi non osano neppure desiderare altro se non ciò che permette di riempire un misero borsellino, e che sono contenti della sorte perché son contenti di loro stessi».

È giunto il momento di riconoscere a Mela Hartwig il posto che le spetta nella storia della letteratura Sentite anche voi l’energia, il ritmo, l’espressività della prosa quasi cinematografica di Mela Hartwig in queste righe che aprono Inferno, il suo romanzo da poco pubblicato in italiano da una piccola casa editrice indipendente che cura «Libri per pescatori di idee e tessitori di mondi». Ebrea, nata a Vienna nel 1893, figlia del sociologo e filosofo Theodor Hartwig (il suo vero nome era Herzl ma convertitosi al cattolicesimo nel 1895 non voleva essere confuso con il sionista Theodor Herzl), diplomata in canto e recitazione, Mela Hartwig è stata attrice (recitò sul palcoscenico della Volksbühne di Vienna e dello Schiller Theater di Berlino) scrittrice e pittrice.

I suoi primi racconti escono nel 1927 sulla rivista «Die literarische Welt» grazie all’intercessione di Alfred Döblin che amò molto il suo racconto Das Verbrechen e fu suo mentore insieme a Stefan Zweig. In seguito escono la raccolta di novelle Ekstasen (1928) e il romanzo Das Weib ist ein Nichts (1929). Trasferitasi a Graz con il marito ebreo Robert Spira, avvocato, si dedica alla scrittura anche come giornalista. Ma quella che sulle prime sembra essere una promettente carriera sfuma con l’ascesa nazista. Nel 1936 per la casa editrice parigina Éditions du Phoenix esce il suo pamphlet politico sulla persecuzione degli ebrei e Mela Hartwig si guadagna il sospetto del regime. In Germania e in Austria nessun editore vuole più pubblicarla. Con l’annessione dell’Austria alla Germania del 1938, i coniugi Spira emigrano in Inghilterra e si stabiliscono a Londra. Mela inizia subito a lavorare come traduttrice e proprio attraverso il suo lavoro conosce Virginia Woolf che l’aiuterà spesso nei momenti di bisogno e alla quale dedica un saggio nel 1951. Tra il 1946 e il 1948 scrive Inferno che non vedrà pubblicato, uscirà per la prima volta in Germania nel 2018 per le edizioni Droschl, dunque con 70 anni di ritardo. Il motivo però dell’arresto della sua carriera è anche un altro, come spiega Luigi Forte nell’ottima introduzione al romanzo, e cioè l’immagine della donna che la Hartwig coltiva nei suoi testi, molto lontana dalla Marlene Dietrich emancipata degli anni Venti berlinesi per intenderci, in cui le donne di uno dei primi paesi in Europa a ottenere il diritto di voto (1918) per essere scrittrici non dovevano più ricorrere a uno pseudonimo come George Sand o St Albin. Come spiega Luigi Forte, le figure femminili della Hartwig sognano libertà ed emancipazione mentre vanno incontro alla propria rovina. «Sono incapaci di dominare la loro stessa natura, vittime di una società maschilista a cui soggiacciono senza prospettive, alla ricerca di una identità professionale e affettiva sempre differita o di un equilibrio mentale che, di volta in volta, gli eventi rischiano di alterare». A rendere Inferno un’opera di spessore confermando la Hartwig una grande scrittrice, così la definisce

Sopra, Monoprint di Mela Spira Hartwig, 1964, Neue Galerie Graz (N. Lackner/UMJ, © Universalmuseum Joanneum); sotto, un’immagine della scrittrice (© Literaturverlag Droschl).

anche la critica letteraria del settimanale «Die Zeit» Gisela von Wysocki, sono anche altri importanti tratti.

Intanto il punto di vista, il racconto femminile a caldo sulla Seconda guerra mondiale visto che il romanzo è stato scritto tra il 1946 e il 1948. In secondo luogo il tentativo di entrare nella testa di una giovane donna tedesca che sogna di diventare artista e deve decidere da che parte stare. Trovo illuminante il passaggio in cui la diciottenne Ursula iscritta all’Accademia di Belle Arti decide di seguire il fratello, già entrato nelle fila del partito, a un’adunanza politica. Vuole dare l’impressione di essere una di loro, placare i dubbi del fratello, in verità è ancora in bilico, combattuta tra il sogno di una carriera artistica alimentato dalla sua superbia creativa e il coraggio di aprire gli occhi e vedere la realtà. In questa occasione prende sopravvento il sogno, prevalgono le sue ambizioni individuali che trovano riscontro nelle atmosfere, nella foga e nella forza del gruppo: «Eb-

be la soddisfazione di vedere il momento in cui la fiamma, divampata all’inizio solo nel cuore di un numero relativamente piccolo di proseliti, si era propagata come un incendio che qualcuno avesse appiccato, e poi anche quella che ormai era solo una remota eco del dubbio che si era insinuato in lei sotto l’influenza del suo amato e per amore di lui, cessò. Sentì che poteva di nuovo credere totalmente in un’idea, avvalorata da un così enorme successo». La scelta, la consapevolezza, arrivano nella Notte dei cristalli in cui Ursula per caso assiste in prima persona a un pogrom antisemita e resta sconvolta dalle violenze dei nazisti nei confronti di una donna ebrea incinta mentre tra la folla si leva un grido terrificante «Il Tempio brucia». Inorridita confessa «Prima ero cieca ma oggi mi si sono aperti gli occhi. Vedo ciò che non vorrei ma che pure devo vedere. Vedo il sangue, che gronda dalle nostre mani». La grandezza della Hartwig in quest’opera risiede non da ultimo nella sua riflessione sul comportamento delle masse anticipando Masse e potere di Elias Canetti del 1960. È la stessa Ursula a farne esperienza in quello che si rivela essere un testo fortemente autobiografico. La protagonista si rende conto «che nelle parole rivolte alle masse è insita una violenza inaudita, perché la parola che riesce a infiammare anche solo un individuo diventa la scintilla che si propaga dall’uno all’altro, e capì che in essa è connaturata una proprietà dinamica poiché le emozioni suscitate in una massa di cuori, uniti da un sentimento fraterno, non si sommano l’una all’altra ma si moltiplicano, e intuì che le parole hanno un potere magico pari solo all’alchimia, perché in esse la volontà del singolo, che le ascolta compiacendosi nel profondo del cuore, si fonde nella volontà della massa e la sua convinzione si trasforma in opinione di massa». Concordo con Kathrin Hillgruber, critica letteraria, quando dice che è giunto il momento di riconoscere a Mela Hartwig il posto che le spetta nella storia della letteratura. Bibliografia Mela Hartwig, Inferno, Spider & Fish, 2022. Annuncio pubblicitario

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CULTURA

Fotografo dei due mondi

Mostre ◆ La Retrospettiva di James Barnor al MASI ancora fino al 31 luglio Giovanni Medolago

Dettaglio della bella foto di copertina de Il fallimento della consapevolezza, il suo memoriale uscito per Mondadori nel 2018.

Scrittore delle sfumature In memoriam

In ricordo di Raffaele La Capria, Dudù per gli amici

Paolo Di Stefano

Non gli piaceva Pasolini perché lo considerava un predicatore. Non amava i «maîtres à penser», tanto meno «le astrazioncelle che dai maestri passano ai discepoli cretini: i cretini con le idee sono terribili». Il suo modello era l’intellettuale che definiva «equicontrastante», tipo il suo amico Goffredo Parise, rappresentante di quegli scrittori che «si fanno un po’ in là» per guardare il mondo di sbieco. A quella schiera appartenevano anche Orwell, Camus e pochi altri. Aveva un’ironia morbida e insieme tagliente, Raffaele La Capria, per gli amici Dudù o Duddù, napoletano di media borghesia, diffidente della «napoletaneria» esibita, via via cartolina illustrata, caricatura della indolenza e della furbizia, fiction criminale. La Capria era uno scrittore delle sfumature. «Viviamo in una città che ti ferisce a morte, o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme», ha scritto nel suo romanzo più noto, uno dei capolavori del secolo scorso, Ferito a morte, che nel 1961 produsse scandalo e irritazione, per la sua vena apparentemente scanzonata e invece impietosa sulla borghesia napoletana. Era in gran parte il racconto di una giornata, come l’Ulisse di Joyce, una «Bella Giornata» estiva vissuta da una

schiera di vitelloni che inseguono una giovinezza fugace, bighellonando tra pettegolezzi, scherzi, battute, in attesa di sistemarsi con qualche ricca ereditiera. Tra questi amici, «gente che parla, parla, spesso anche a sproposito», c’è Massimo che si prepara a lasciare la città (la sua «Foresta Vergine») e a stabilirsi a Roma per ragioni di lavoro. Quel che conta è però che il tutto, la malinconia come la denuncia, si offre al lettore con la grazia di uno stile unico, una «scrittura di percezione» alimentata dalla passione per Faulkner. Il risultato di tanti libri di La Capria è una lievità miracolosa, per esempio quella di Fiori giapponesi, del 1979, una raccolta di piccoli racconti perfetti, trame, frammenti. Scrive Silvio Perrella, suo critico principe, che i libri di La Capria tracciano non solo un’autobiografia dell’autore ma anche un’«autobiografia delle forme letterarie». Il che comprende anche quei particolarissimi saggi critici e civili, comunque discorsivi, che sono L’armonia perduta. Nato nel 1922 – l’anno di Fenoglio, Pasolini, Meneghello, Manganelli, Bianciardi – Raffaele La Capria è morto quasi centenario a Roma, dove aveva vissuto gran parte della sua vita, sposato in seconde nozze con

l’attrice Ilaria Occhini, con la quale visse in un attico prestigioso, quello di Palazzo Grazioli, a Roma, a fianco del Pantheon. Anche La Capria si sarebbe impegnato nel cinema, a partire dalla sceneggiatura de Le mani sulla città di Francesco Rosi, ma è stata la letteratura il suo campo d’azione: sin da quando cominciò a scrivere per giornali e riviste, come Il «Mondo» e «Tempo presente», il mensile di Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte. Prima ancora, aveva fondato una «rivistina», «Sud», con alcuni amici napoletani, Antonio Ghirelli, Anna Maria Ortese, Giuseppe Patroni Griffi, liberali di sinistra che non piacevano al Partito comunista. È stato autore di una ventina di libri, non tanti per uno che ha vissuto un secolo intero, non è stato un narratore puro e tanto meno un romanziere, non un saggista nel senso tradizionale, non un elzevirista, aveva sempre una voce sua, una «cantilena sommessa, inerme, commessa, irritata, strafottente…» (gli aggettivi sono di Cesare Garboli), che scrivesse di senso comune, di identità italiana, dello stile ideale della scrittura, lo «stile dell’anatra» che agita forsennatamente le zampette sott’acqua ma in superficie scivola liscia e senza sforzo.

«La vita? È l’arte dell’incontro». Chissà se James Barnor conosce questo aforisma del poeta e cantante brasiliano Vinicius de Moraes. Di certo l’ha felicemente declinato nel corso della sua lunga avventura esistenzial/ artistica. Sei decenni di carriera e 93 anni portati benissimo: ha retto brillantemente quasi due ore di videoconferenza – collegato dall’Inghilterra – il giorno dell’inaugurazione della Retrospettiva che il MASI gli dedica a Palazzo Reali. Incontri poi sfociati in profonde amicizie che Barnor ha altresì avuto occasione di apprezzare spaziando tra due continenti. La natìa Africa (è nato nella capitale ghanese, Accra) e l’Europa, quando decise di trasferirsi in Inghilterra. «Ho avuto la fortuna, ricorda in parecchie interviste, di vivere due momenti significativi: l’indipendenza del Ghana, primo Paese subsahariano a raggiungerla, il 6 marzo 1957; e poi l’epoca della Swinging London, con la musica di Beatles e Rolling Stones, la rivoluzione sessuale simboleggiata dalla minigonna di Mary Quant. Ricordo in particolare l’arrivo a Londra in quegli anni di migliaia di giovani provenienti da colonie ed ex colonie di quell’Impero britannico che andava sgretolandosi». Amico personale del primo presidente ghanese, Kwame N’Kruma (artefice dell’indipendenza del suo Paese e poi infaticabile accusatore del neocolonialismo: «La nostra indipendenza è senza significato, se non è congiunta alla totale liberazio-

ne dell’Africa»), lo ritrae sia nelle cerimonie ufficiali sia nei momenti di relax, ad esempio quando dà il calcio d’inizio a un incontro di calcio. Diventa così uno dei primi fotoreporter del Continente Nero, capace di passare dalle foto in posa realizzate nel suo atelier ai click più spontanei scattati nelle vie e nei mercati di Accra, città in cui fra l’altro aprirà il primo laboratorio africano dov’è possibile richiedere immagini a colori. Passare dal b&n alla policromia per Barnor non è un problema: «Ho imparato a modulare la luce sulla pelle nera. E per luce intendo quella naturale che entra da una finestra!». Una svolta molto significativa per lui è datata 1959, quando un suo ex insegnante gli scrive che «Londra è il posto giusto per te». Barnor non ci pensa due volte e parte per l’Inghilterra, conosce Dennis Kemp (l’importanza degli incontri!), manager della Kodak, il quale lo incoraggia ad approfondire quello stile grazie al quale il fotografo riesce a cogliere sia l’intensità di un primo piano; sia – in campo lungo – l’espansa felicità del suo connazionale Mike Eghan che scende con le braccia spalancate dalla scalinata di Piccadilly Circus dopo aver appena appreso che sarà il primo anchor man di colore della BBC. Approda alla rivista «Drum» («Quando vidi una mia immagine in copertina mi sentii in paradiso!»), all’epoca la più importante pubblicazione africana dedicata alla fotografia, per la quale ritrae le prime modelle nere che raggiunsero successo e notorietà in Europa e personaggi del calibro di Muhammed Alì-Cassius Clay. È davvero il coronamento di una brillante carriera sviluppatasi tra due Mondi. Orgogliosissimo del suo Paese, che ha vissuto pochi sconvolgimenti politici nonostante la sua multietnicità, James Barnor si dichiara sempre grato alla Gran Bretagna che lo ha accolto, proclamandolo nel 2020 membro della prestigiosa Royal Photographic Society, e dove vive oggi stabilmente.

Mike Eghan at Piccadilly Circus, London, 1967. (© James Barnor/ Autograph ABP, London)

Dove e quando James Barnor, Accra/London – A Retrospective, MASI, Lugano. www.masilugano.ch Annuncio pubblicitario

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