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Anno LXXXV 11 luglio 2022
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
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MONDO MIGROS
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SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
La storia di integrazione, studio, lavoro e nostalgia di un ragazzo afghano che vive in Ticino
Il sogno americano della vela paralimpica e l'equilibrio ritrovato di Stefano Garganigo
La partita strategica fra Russia e America sarà determinata solo dalla resa dell’una o dell’altra
Platforme 10, il moderno quartiere museale losannese che rappresenta un unicum nel contesto nazionale
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Una bussola per l’Ucraina
«Tutti possono amare opere ambiziose»
Peter Schiesser
Natascha Fioretti – Pagina 37
La conferenza sull’Ucraina a Lugano ha soddisfatto le aspettative, che non erano alte. È stato un segnale positivo agli ucraini, un modo per dir loro che non sono soli. Con la Dichiarazione di Lugano, firmata dai rappresentanti di 42 paesi e da 5 delle 16 organizzazioni internazionali, si sottolinea l’impegno a ricostruire il paese e da parte ucraina la volontà di rendere conto in modo trasparente di come saranno gestiti gli investimenti, che dovranno essere il più sostenibili possibile, di democratizzare ulteriormente il paese, con un occhio particolare al rafforzamento del potere giudiziario per combattere la corruzione, uno dei maggiori punti deboli dell’Ucraina. Certo, è una dichiarazione di intenti, non era una conferenza di donatori, per cui non sono state promesse somme concrete (il primo ministro ucraino Denis Shmihal ha stimato i danni di guerra a 750 miliardi, senza contare quelli nelle regioni occupate dalla Russia), a questo ci penseranno conferenze future delle Nazioni Unite e dell’Unione europea. Ma farà da bussola per i processi a venire. La critica principale formulata alla vigilia è che ha poco senso discutere di ricostruzione mentre la guerra è ancora in corso. In realtà una conferenza sull’Ucraina in Svizzera era già prevista, sarebbe dovuta essere la quinta, dopo Londra, Copenaghen, Toronto e Vilnius, dedicata al processo di riforme nel paese est europeo. Ma avrebbe avuto poco senso parlare di riforme (ciò che è stato fatto) senza prendere in considerazione la ricostruzione del paese, senza la quale le riforme non possono essere realizzate. Altri motivi concreti li hanno forniti gli ucraini: dove i russi si sono ritirati, vanno riparate al più presto le case, i ponti, l’infrastruttura per l’energia e per l’acqua (Ruslan Stephantschuk, presidente del parlamento, in un’intervista al «Tages Anzeiger»); ponti, strade, ferrovie vanno riparati al più presto, poiché sono infrastrutture centrali sia per le esigenze dell’esercito in guerra, sia per la ripresa economica, e per facilitare le esportazioni verso l’Unione europea le ferrovie dovranno adattarsi allo scartamento europeo, meno largo di quello russo-sovietico, ma la vera ricostruzione avverrà dopo la guerra, ora ci si concentra a riparare i danni, su piccoli progetti, si aggiustano gli ospedali, non li si ricostruisce nuovi ora (Olexander Kubrakov, ministro per
le infrastrutture in un’intervista alla «Neue Zürcher Zeitung»). In sintesi: non si può chiedere alla popolazione ucraina di riprendere a vivere solo una volta finita la guerra; aiuti e investimenti immediati e mirati contribuiscono a tener alto il morale della popolazione, che in questo modo sente la solidarietà internazionale. Come e dove si troveranno i capitali per la ricostruzione è un’altra storia, ma considerata l’importanza geostrategica assunta dall’Ucraina per l’Occidente si può presumere che si troveranno, anche mobilizzando capitali privati (gli Stati da soli non possono coprire tutto il fabbisogno, poiché ci sono anche altre priorità). A Lugano il primo ministro Shmihal ha suggerito che i 300-500 miliardi di dollari di patrimoni russi congelati vengano dedicati alla ricostruzione dell’Ucraina, così da dare anche un segnale ad eventuali altri paesi con mire aggressive. Ma il consigliere federale Cassis ha ricordato che questa discussione va condotta in modo serio, che in una democrazia liberale la proprietà privata è un diritto fondamentale che protegge l’individuo da abusi da parte dello Stato. In effetti Cassis ha ragione: per essere confiscati, deve essere provata l’origine criminale dei capitali (oggi sono solo congelati). E si può star certi che questo sarà un capitolo che occuperà i tribunali dell’intero Occidente. Motivo per cui il postulato della consigliere nazionale verde di San Gallo Franziska Ryser di impiegare gli oltre 6 miliardi di franchi russi congelati in Svizzera per la ricostruzione dell’Ucraina non avrà verosimilmente grandi chance in parlamento. La Conferenza di Lugano non entrerà probabilmente nei libri di storia, ma è stata l’occasione per politici e imprenditori per conoscersi, intavolare discussioni, capire la situazione in cui si trova l’Ucraina e gli sforzi riformatori del governo. Un conoscente che vi ha partecipato si è mostrato piacevolmente sorpreso dalla serietà e dalle visioni trasmesse dalla delegazione ucraina. La mancata partecipazione fisica del presidente ucraino Volodimir Zelenski (seppur presente virtualmente) era prevedibile, l’assenza dei grandi della Terra altrettanto, ma Lugano si iscrive in un insieme di forum che hanno al centro l’Ucraina, ci sarà un seguito in Gran Bretagna, poi in Germania, quindi in Estonia. E mostra al mondo che la Svizzera sa cosa significhi la solidarietà.
Stefano Spinelli
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4 Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 11 luglio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ ●
San Bernardino domani Il sindaco di Mesocco Christian De Tann spiega i diversi progetti di sviluppo per l’alta valle Mesolcina
Apprendisti senza stereotipi Arriva ProApp, un’iniziativa che sostiene l’uguaglianza di genere nella scelta del futuro professionale
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Tra magia e antiche leggende Detta erba Ruta o erba delle streghe, la Ruta Graveolens può essere altamente tossica
Il selvaggio Ticino Marmotta, gipeto, lince, lupo e stambecco, le cinque specie animali che popolano le Alpi svizzere
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Shutterstock
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L’imperfezione ti fa bella
Il caffè delle mamme ◆ La vera bellezza è l’insieme dei piccoli o grandi difetti che rendono unico un viso, lo sostiene nel suo ultimo libro il famoso dermatologo Antonino Di Pietro Simona Ravizza
L’elogio dei difetti come messaggio controcorrente per le adolescenti. A Il caffè delle mamme già in passato ci siamo interrogate su come aiutarle a non disperarsi per i brufoli, ma allo stesso tempo ci siamo impegnate per convincerle che curare anche un po’ la pelle è meglio. Sempre al Caffè abbiamo scandagliato tutte le insicurezze che può scatenare il corpo che cambia, con il legittimo desiderio di piacersi e la comprensibile paura di non piacere abbastanza. Adesso c’è una consapevolezza che vorremmo che le nostre figlie portassero oggi sotto l’ombrellone e su cui in futuro costruissero il loro diventare donne: «La bellezza è l’imperfezione». Diciamoglielo lì dove sono costrette a liberarsi del maglione oversize che dà sicurezza come la coperta di Linus, lì dove vederle con i calzoncini per coprirsi il sedere o la maglietta per nascondere il seno che spunta è una stretta al cuore perché denota mancanza di autostima, lì dove sentirsi addosso il giudizio degli altri è ancora più destabilizzante perché fa a pugni con quello che dovrebbe essere l’estate: libertà. Contro il tarlo nel cervello che le fa sentire non abbastanza belle e le foto dei social che le spingono a inseguire la perfezione, la mia convinzione
è che sia sbagliato dire: «Fregatene!». Sarebbe il solito modo per derubricare a sciocchezze le loro preoccupazioni. Sono anche certa che il parere di un genitore in generale, e in particolare su aspetto fisico e dintorni, sia considerato di parte e, dunque, abbastanza inutile. È il motivo per cui invito a Il caffè delle mamme Antonino Di Pietro, 66 anni, dermatologo dei vip nonché padre della dermatologia plastica rigenerativa e fondatore dell’Istituto dermoclinico Vita Cutis di Milano. Lo faccio in occasione dell’uscita del suo libro La bellezza è l’imperfezione (ed. Solferino, maggio 2022). Un titolo che deve diventare un appello alle adolescenti a crederci davvero! Il mio ragionamento è che se lo dice lui che sulla bellezza ha costruito una carriera di successo e che nel suo studio vede passare attori, attrici e influencer, ecc., forse anche le nostre figlie possono crederci. Di Pietro è il medico che su tutti da 30 anni combatte contro il botulino e l’uso dei bisturi per l’estetica. Ecco, allora, il suo mantra declinato in tre punti per darci una mano a far passare i complessi alle nostre figlie e soprattutto per aiutarle a non diventare donne con un viso stragonfio di filler e paralizzato dal botulino che
attira gli sguardi solo perché trasmette stranezza come guardare una maschera di gomma. È adesso che gettiamo le basi. Uno, l’importanza dell’unicità: «Ragazze – dice Di Pietro a Il caffè rivolgendosi direttamente alle giovanissime – fidatevi di me che ne ho viste tante! La vera bellezza è l’insieme dei piccoli o grandi difetti che rendono unico il vostro viso. Come un anello che è davvero prezioso quando è un pezzo unico. Visi tutti uguali con gli stessi centimetri dal naso alla bocca, dagli occhi alle orecchie, perfettamente simmetrici, paralizzati e immobili, non sono più pezzi unici, quindi non sono più preziosi. La vera bellezza è quella naturale e autentica capace di suscitare un’emozione in chi abbiamo davanti». Due, l’effimerità delle mode: «Le mode sono passeggere – sottolinea Di Pietro –. Seguirle sul proprio corpo è davvero pericoloso perché i segni restano indelebili nel tempo ed è possibile poi pentirsene amaramente». Tre, il potere della personalità: «Uniformarsi per essere tutti uguali non solo è assurdo perché ci fa perdere l’unicità, ma anche perché ci fa perdere la forza della personalità. In un gregge è meglio essere una delle
cento pecore oppure il cane? – chiede il dermatologo –. Bisogna decidere chi si vuole essere e, anche se nell’adolescenza è difficile perché la confusione in testa spesso regna sovrana, è la convinzione che “non c’è nessuno come me” che ci renderà davvero speciali. Credere fortemente in se stessi, e aggiungerci un bel sorriso, è molto più potente di una faccia perfetta». Attenzione, però: a 13-14 anni come a 80 desiderare di dare il meglio di sé è legittimo. Da mamme non dobbiamo dunque – è utile ribadirlo – delegittimare il desiderio delle adolescenti di piacersi, ma piuttosto incanalarlo nella giusta direzione. Detergersi al meglio il viso, applicare maschere di argilla verde, curare l’acne sono comportamenti che possiamo e dobbiamo legittimare. «E truccarsi non fa male neppure se si hanno i brufoli – assicura Di Pietro –. Basta struccarsi bene per non irritare la pelle». Una delle più brave attrici del secolo scorso, la grande Anna Magnani, giunta in età matura, con il viso segnato dagli anni, amava dire di lasciarla invecchiare e che nessuno toccasse le sue rughe perché il tempo aveva impiegato anni per dargliele e non intendeva fare nulla alla sua pelle. Di Pietro ne La bellezza è l’im-
perfezione si permette di contraddirla: «Permettimi di non essere così d’accordo sull’abbandonare del tutto un viso al proprio destino – scrive in un’immaginaria lettera all’attrice –. Pensa ai nostri muscoli e alle nostre articolazioni e come negli anni essi perdano tono e forza; sono sicuro che tu non metteresti mai in dubbio l’importanza di tenerli in forma con una corretta attività fisica. Diresti mai che una sana passeggiata ogni giorno è una decisione sbagliata? E la tua bocca? Lasceresti davvero che il tempo ti ingiallisca e consumi i denti senza fare nulla? Ti ci vedi con un sorriso cariato? Naturalmente sarebbe orrenda nel tuo viso una dentiera da cavallo o i denti d’oro! Mai! E il tuo affascinante cervello? Sono sicuro che fino all’ultimo respiro tu farai di tutto per mantenerlo giovane: leggendo, scrivendo, continuando a fare progetti. Ma allora perché vorresti lasciare la tua pelle al suo destino, senza fare nulla per aiutarla?». Contemporaneamente però dobbiamo fare capire alle nostre figlie l’assurdità di trasformare il viso, l’espressione, la bellezza autentica. Convincerle oggi ci permetterà, un domani, di non avere giovani donne e poi donne mature con visi deformati.
Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 11 luglio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino 5
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Integrazione e nostalgia
Testimonianza ◆ La storia di un ragazzo afghano di 21 anni, giunto in Ticino alla fine del 2015 come minorenne non accompagnato, che ora ha concluso il suo apprendistato e vive autonomamente
Il giovane che si racconta è arrivato in Ticino minorenne, dall’Afghanistan. Ha concluso con successo la scuola media e ora l’apprendistato di decoratore con ottimi voti. Sul lavoro è stimato e molto considerato. Però è ancora in attesa, dopo sei anni, di un permesso di asilo. Infatti, ha solo il permesso F che offre una «ammissione provvisoria». Alle autorità svizzere non può essere sfuggito quanto successo il 15 agosto scorso in Afghanistan, dove i talebani sono tornati al potere dopo la partenza dei militari statunitensi. Nel frattempo, dalla fine di febbraio sono giunti in Svizzera decine di migliaia di profughi ucraini, in fuga dal loro Paese martoriato dall’invasione russa. A questi rifugiati la Svizzera concede il permesso speciale S «per persone bisognose di protezione». Giusto e necessario, ma perché si pratica una politica dell’accoglienza a due velocità, tra profughi di serie A e di serie B? È una politica giusta? Finalmente la scuola è finita, evviva. È stata dura in queste ultime settimane: esami, esami e ancora esami. Però è andato tutto bene. Ho concluso il tirocinio. All’esame pratico ho ricevuto molti complimenti dai professori. Ma anche il lavoro di approfondimento del corso di cultura generale è andato alla grande. Fra qualche giorno avremo i risultati, ma la cerimonia di consegna dei diplomi sarà ad agosto. Ora mi tocca cercare un appartamentino, perché comincerò a guadagnare e dovrò lasciare la Croce Rossa e rendermi indipendente. Certo, non mancano le preoccupazioni, ma guardo al mio futuro con ottimismo.
«Le mie sorelle sono costrette in casa e non possono più studiare. È una follia la situazione per chi è rimasto, i giovani in Afghanistan stanno perdendo gli anni migliori» A 14 anni mi sono trovato ad «abbandonare» la mia cultura d’origine e a imparare nuove usanze e regole in un paese che non conoscevo. Lo spirito di adattamento è quindi molto importante, sia per vivere bene in un paese che non è il proprio, sia per convivere con culture diverse. Questo però non ha significato perdere la mia identità di origine, ma semplicemente adeguarla al nuovo contesto in cui mi sono trovato. Sono nato a Kabul, ma non conosco la mia vera data di nascita. Non sono nato in ospedale, ma a casa e la mia data di nascita non è stata scritta da nessuna parte. Quella che figura come mia data di nasci-
ta, il 21 marzo, mi è stata messa sul permesso di soggiorno da un doganiere quando sono arrivato in Svizzera. Il 21 marzo è una data importante perché coincide con l’inizio della primavera e perché nella religione islamica corrisponde al capodanno. Sono cresciuto nel Maidan Wardak, al centro dell’Afghanistan. È una regione di montagna molto pericolosa perché abitata da molti talebani. Quando vivevo lì facevo il sarto e il meccanico e aiutavo mio padre anche facendo il pastore. Non andavo a scuola perché i talebani non lo permettevano. Ho imparato a leggere e scrivere solo grazie allo studio del Corano. Ho deciso di partire assieme a un gruppo di amici. Sono partito un venerdì, da noi giorno di festa, quindi i negozi sono chiusi. I miei allora vivevano a Kabul e mio padre aveva un negozio. Mio papà non lavorava ed era a casa. Sono andato da lui e gli ho detto che sarei partito quello stesso giorno. Lui ha detto di no. Allora ho chiesto a mia madre di convincerlo. Mia madre è riuscita a convincerlo che era la scelta giusta per me e per il mio futuro. Abbiamo preparato assieme le cose del viaggio, due paia di scarpe, due pantaloni e il cibo. Avevo anche un po’ di soldi che mi ha dato mio papà. Lui ha pagato i passatori che ci hanno accompagnati fino in Iran, circa 800 dollari. Ha venduto dei terreni per avere questi soldi. Ho impiegato dodici giorni per raggiungere l’Iran, in bus fino al confine e poi a piedi sulle montagne. In Iran ho lavorato tre settimane come sarto. La mia idea iniziale era di rimanere lì per studiare, ma poi ho visto che gli afghani erano maltrattati, gli iraniani erano razzisti e quindi ho deciso di proseguire verso l’Europa. In Iran ho incontrato la cugina di mia madre con la sua famiglia e quindi mi sono unito a loro per il viaggio verso la Turchia. Un viaggio di una settimana a piedi e dopo la Turchia la Grecia, in parte in bus, ma anche su un gommone via mare. Sessanta persone tutte su un gommone, con molti che non sapevano nuotare. Dopo essere rimasti una settimana in Grecia, abbiamo preso un treno per la Macedonia e da lì, in qualche settimana, abbiamo raggiunto l’Austria. Dall’Austria abbiamo preso di nuovo un treno verso la Svizzera e siamo giunti a Buchs, Canton San Gallo: era la fine del 2015. Lì mi sono separato dalla famiglia di mia cugina, loro volevano andare in Belgio, mentre io sono rimasto in Svizzera, dove al centro di registrazione ho chiesto asilo. Da Buchs mi hanno mandato a Biasca
Stefano Spinelli
Fabio Dozio
e infine sono arrivato a Paradiso, al Foyer della Croce Rossa. Nel gennaio del 2016 ho iniziato la scuola media nel Luganese. Non ero l’unico ragazzo minorenne straniero, c’erano altri tre afghani, due somali e un albanese. Per me era tutto nuovissimo. Non avevo mai visto una scuola, solo quella della moschea del Maidan Wardak, ma lì non c’erano ragazze. Per me era stranissimo stare anche con delle ragazze. In più non sapevo neanche una parola di italiano. I miei compagni di classe comunque erano simpatici, mi hanno sempre trattato bene. La cosa più difficile per me è sempre stata la lingua italiana: imparare la grammatica, i vocaboli, la pronuncia, l’alfabeto, completamente diverso da quello persiano, che era l’unico che io conoscevo. Ho studiato molto, mi sono impegnato tanto ma sono anche stato aiutato da maestri che mi hanno permesso di ottenere la licenza di scuola media. Per noi ragazzi stranieri è molto importante avere un posto di lavoro, altrimenti non ti danno il permesso di restare. Mi sarebbe piaciuto fare l’architetto o il disegnatore. Durante l’ultimo anno di scuola media ho fatto
diversi stage e ho scoperto, da un architetto, che sono molto bravo a disegnare. Alla fine ho trovato un posto di apprendista come decoratore e nel settembre del 2018 ho iniziato il mio apprendistato e sono andato a scuola due giorni alla settimana in questi ultimi anni. Ora ho finito la scuola e l’apprendistato e il mio datore di lavoro mi assume come decoratore. Mio padre è contento, anche se lui vorrebbe che io mi mettessi in proprio e lavorassi da indipendente. Non immagina che le cose non sono facili anche se si studia e ci si impegna molto. Con la mia famiglia ho contatti regolari grazie a Whatsapp, ma dal 15 agosto, quando i talebani hanno ripreso il potere, in Afghanistan è tutto più difficile. I miei volevano scappare, ma non sono riusciti. Le mie sorelle sono costrette in casa e non possono più studiare. È una follia la situazione per chi è rimasto, anche se ora nessuno parla più della tragica situazione dell’Afghanistan. I giovani laggiù stanno perdendo gli anni migliori, dove potrebbero studiare e crearsi la loro vita. Uscire di casa è pericoloso, quindi alle persone non resta altra scelta che rimane-
Sguardi sospesi Gli sguardi sospesi del titolo sono quelli dei richiedenti l’asilo in transito o che tuttora risiedono nelle strutture d’accoglienza in Ticino colti dal fotografo Stefano Spinelli. Questi occhi, protagonisti dell’esposizione inaugurata sabato a Casa Cantoni a Cabbio, sono testimoni di storie drammatiche e profonde sofferenze ma anche di una straordinaria voglia di vivere. Il progetto, scrivono gli organizzatori dell’esposizione, è dedicato a tutti i migranti, in particolare alla popolazione dell’Afghanistan confrontata a tragedie
indicibili e si inserisce nell’ambito della mostra Pezzi di frontiera. Geografie e immaginario del confine nata dalla collaborazione tra il Museo etnografico della Valle di Muggio, il Centro federale d’asilo di Novazzano-Balerna e la Segreteria di Stato della migrazione.
Dove e quando Stefano Spinelli. Di sguardi sospesi. Ex scuola elementare (Casa Cantoni), Cabbio Fino al 6 novembre 2022. Orari: ma-do 14.00-17.00.
re a casa e aspettare che la situazione migliori. Nelle scuole mancano i maestri perché hanno paura di subire violenze. Le etnie più deboli del paese, come il mio popolo, gli Hazara, sono nuovamente sottomesse ai talebani come nel passato. Siamo tornati indietro nel tempo. In Ticino sto bene, ma mi mancano i mei amici. Alcuni di loro, che sono rimasti a Kabul, si sono sposati e lavorano. Anch’io vorrei trovare una ragazza del mio paese. Le ragazze di qui fanno soffrire: pretendono troppo e ti lasciano alla prima cosa che non funziona. Io sono stato molto innamorato di una mia compagna di classe delle medie, ma forse ho esagerato con lei, volevo che fossimo subito fidanzati, e lei invece mi diceva che dovevamo conoscerci adagio adagio. Oggi penso che aveva ragione lei. Dopo ho avuto qualche ragazza, ma nessuna storia seria. Io però adesso non vorrei essere sposato: ho appena finito la scuola e l’apprendistato, devo pensare al lavoro e anche alla mia famiglia a Kabul. Non vorrei dovermi occupare anche di una moglie. Come vedo il mio futuro? Qui sto bene, ma il mio sogno è quello di tornare un giorno nel mio Paese, libero dalle guerre, e di poter rivedere tutta la mia famiglia. Ora avrò il mio appartamentino. So cucinare, tenere pulita la casa, ho fatto il sarto, il meccanico, ho venduto gelati, ho sempre lavorato con mio papà e se sono sopravvissuto al viaggio da Kabul al Ticino ce la farò anche questa volta. Però mi mancano i miei amici di sempre, la mia famiglia, la mia gente, la mia lingua, il cibo, le feste. Adesso sento anche molta pressione da parte della mia famiglia rimasta in Afghanistan. Laggiù c’è il caos, loro non lavorano, fanno fatica a trovare da mangiare e io sento il peso di dover portare avanti la mia vita qui, ma anche di aiutare loro laggiù.
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azione
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)
Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Simona Sala, Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Natascha Fioretti Ivan Leoni
Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 11 luglio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
MONDO MIGROS
I piccoli frutti dell’estate
Attualità ◆ I lamponi della frutticoltrice Sevenja Krauss sono di nuovo disponibili alla Migros nelle varietà extra e standard. Approfittate di queste piccole delizie a km zero
La ricetta Crema ai lamponi e amaretti Non solo aromatiche fragole! Dai suoi campi situati a S. Antonino la giovane frutticoltrice Sevenja Krauss rifornisce attualmente i supermercati di Migros Ticino anche di lamponi e, in minima parte, di more. Queste dolci bacche coltivate con metodi particolarmente rispettosi dell’ambiente sono disponibili nella vaschetta da 250 e 200 grammi dopo pochissime ore dalla raccolta a mano. «La vicinanza con la centrale di distribuzione di Migros Ticino è un vantaggio non indifferente per noi, poiché ci permette di mantenere la massima freschezza dei prodotti e di fornirli maturi al punto giusto», spiega Sevenja Krauss. «A farla da padrone sono sicuramente i lamponi, di cui quest’anno abbiamo incrementato la coltivazione vista la forte domanda da parte dei consumatori, passando da 4 a 5 serre dedicate alla loro produzione». I lamponi nostrani sono ottenibili nella varietà extra, ossia con frutti di dimensioni maggiori e uniformi, e in quella standard, dai frutti più piccoli ma non per questo meno aromatici. «Quest’anno è sicuramente un’ottima stagione per i nostri lamponi, se tutto procede secondo le previsioni, potremo fornire frutti almeno fino al mese di settembre», conclude Sevenja Krauss.
Dessert per 4 persone • 250 g di lamponi freschi • 1 cucchiaio di zucchero • 1 arancia • 100 g di mascarpone • 2 dl di latte • 1½ bustine di polvere Varietà (polvere dal gusto neutro per creme soffici, disponibile alla Migros) • 50 g di amaretti Preparazione
Sevenja Krauss coltiva lamponi e more a S. Antonino.
Sani e versatili in cucina
Grazie al loro inconfondibile aroma i lamponi da sempre sono considerati una vera delicatezza, ma posseggono anche numerose proprietà benefiche per il nostro organismo. Contengono infatti poche calorie, ma sono ricchi di vitamina C, E e P. Per quanto riguarda i sali minerali, possiamo notare una buona pre-
senza di calcio, magnesio, potassio e ferro, come pure fibre alimentari. Con il loro sapore armonioso in cucina i lamponi sono ottimi al naturale, ma permettono moltissime altre combinazioni: sono infatti adatti per la preparazione di sorbetti, confettu-
Il sushi del mese
re, sciroppi, mousse, coulis, crostate di frutta, frullati, gelatine, composti… ma si abbinano bene anche a piatti salati come carni e insalate. I lamponi sono dei frutti molto delicati e si deteriorano velocemente. Una volta acquistati, andrebbero consumati entro 24
ore. I piccoli frutti si prestano anche bene per il congelamento. A tal proposito si consiglia di congelarli prima distribuiti su un ampio vassoio, e solo successivamente disporli nei sacchetti per surgelati. In questo modo mantengono la loro bella forma.
Metti da parte alcuni lamponi per la guarnitura finale. Mescola il resto dei lamponi con lo zucchero e schiaccia con una forchetta. Aggiungi la scorza dell’arancia grattugiata. Spremi il succo e versalo in una scodella con il mascarpone, il latte e la polvere Varietà. Monta tutto ben fermo per ca. 3 minuti con uno sbattitore elettrico. Incorpora la metà della purea di lamponi. Sbriciola grossolanamente gli amaretti e distribuiscili nei bicchieri formando degli strati con la crema e il resto della purea. Guarnisci con i lamponi messi da parte. Prima di servire il dessert fallo riposare brevemente in frigorifero.
Attualità ◆ Per tutto il mese di luglio nelle maggiori filiali Migros trovate il sushi Fuzuki, una squisita specialità della cucina giapponese disponibile ad un prezzo speciale
I sapori orientali alla Migros sono di casa, grazie ad una scelta sempre più ampia di specialità di paesi quali Thailandia, Cina e India, senza voler dimenticare le tipicità della cucina del Sol Levante. Inoltre, per soddisfare al meglio la crescente domanda da parte della clientela, negli ultimi anni sono stati aperti dei “Sushi Corner” in alcune filiali Migros, nella fattispecie Locarno, S. Antonino, Bellinzona e Serfontana, dove ogni giorno degli
Sushi Fuzuki 270 g Fr. 15.95
specialisti di cucina asiatica preparano sushi e sashimi utilizzando ingredienti freschissimi. Oltre a ciò, ogni mese proponiamo una prelibatezza ad un prezzo particolarmente vantaggioso. Il mese di luglio è il turno del sushi Fuzuki, disponibile in una vaschetta da 270 grammi perfetta per un pranzo leggero e nutriente fuori casa, in gita, sul posto di lavoro, oppure come antipasto veloce e originale. La confezione è composta da Nigiri al tonno e gamberetti, Hoso-Maki al tonno e ravanelli marinati e Big Hoso-Maki al pollo teriyaki e mango mayo. Come da tradizione, nella confezione sono inoltre inclusi i classici condimenti, ossia pasta wasabi per quel tocco piccante caratteristico, salsa di soia per conferire la tipica sapidità agli alimenti e zenzero marinato, che viene utilizzato per neutralizzare il sapore in bocca tra un bocconcino di sushi e l’altro.
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Anno LXXXV 11 luglio 2022
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azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ
San Bernardino guarda al futuro Territorio
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Per il suo sviluppo il Comune applica una «doppia strategia» come spiega Christian De Tann, sindaco di Mesocco
Stefania Hubmann
Lasciata alle spalle l’incertezza degli ultimi anni, sono finalmente entrate in una concreta fase progettuale alcune iniziative volte a potenziare l’offerta turistica di San Bernardino, destinazione mesolcinese apprezzata in particolar modo dalle famiglie. Ed è proprio il carattere familiare di questa località ai piedi dell’omonimo Passo che il Comune di Mesocco e gli investitori privati desiderano preservare. Il primo ha compiuto nell’ultimo decennio notevoli sforzi a livello pianificatorio e nelle infrastrutture sportive di base, per consentire nei prossimi anni una ripartenza basata su una strategia a lungo termine. Due progetti principali, riguardanti rispettivamente gli impianti di risalita e una struttura ricettiva nella zona della sorgente d’acqua, potranno sicuramente fare la differenza. A garantire uno sviluppo a favore sia del turismo, sia dei residenti contribuiscono anche altre iniziative immobiliari, di cui una quasi in fase di cantiere e alcune riguardanti il rinnovo di edifici esistenti, così come il concorso di architettura indetto dal Comune per la riqualificazione degli spazi urbani nella «Zona nucleo turistico San Bernardino». Partiamo proprio da questo concorso con il sindaco di Mesocco, Christian De Tann, il quale una decina di giorni or sono ha accompagnato per un sopralluogo i rappresentanti dei quattro studi di architettura designati per la prima tappa del programma. Obiettivo dell’operazione: rendere il villaggio un luogo di interesse, migliorandone la fruibilità all’interno del nucleo storico, di quello turistico così come lungo il fiume Moesa. «Il Municipio – precisa il sindaco, in carica da dieci anni – ha scelto uno studio d’architettura della regione, uno attivo a Nord delle Alpi e due a Sud, per sollecitare idee innovative e visioni scaturite da punti di vista differenti. In autunno, dopo la presentazione dei quattro progetti preliminari, verrà scelto quello definitivo. Il suo approfondimento porterà la prossima primavera alla presentazione dell’indirizzo architettonico e paesaggistico che si intende realizzare. Oltre alle piazzette, al lungo fiume e ad altre aree publiche, i lavori di riqualificazione interesseranno la strada lungo il paese al fine di integrarla meglio nel contesto». Si tratta quindi di un approccio globale che non va però a in-
tervenire sulle questioni edificatorie. Da una decina d’anni quest’ultimo settore è stato comunque oggetto di grande attenzione. Nel 2018 la nuova pianificazione territoriale di Mesocco (di cui San Bernardino è frazione) è stata approvata in votazione popolare, seguita nel 2021 dal benestare cantonale. «Abbiamo svolto un lavoro lungo, impegnativo e poco appariscente, ma essenziale per permettere oggi agli investitori di operare nell’ambito di nuove strutture ricettive e del rinnovo di quelle esistenti», spiega il nostro interlocutore. «Il Comune ha creato le basi legali necessarie per collaborare con il settore privato a favore di uno sviluppo lineare e coerente di San Bernardino». San Bernardino nell’immaginario collettivo si identifica con gli impianti sciistici, chiusi ormai dal 2013 con un’unica eccezione nella stagione 2016/17. Dopo un susseguirsi di aspettative legate alle decisioni della famiglia Ghezzi – proprietaria degli impianti – la stessa famiglia del Luganese ha presentato lo scorso mese di marzo al Comune e al Patriziato il progetto di un rilancio a tutto tondo partendo dall’impianto a fune esistente. Con il suo rinnovo, la costruzione di tre nuove seggiovie a sei posti e di uno skilift, il mante-
nimento di un altro skilif, l’apertura di due ristoranti più altri due ristori e la realizzazione di un impianto per l’innevamento artificiale, si vuole proporre una stazione montana aperta tutto l’anno in sintonia con quanto avviene in altre località alpine. L’area sciistica nel suo insieme si situerà ad una quota media che dagli attuali 2000 metri passerà a circa 2300 con un allungamento delle piste di 5 km. Sci, slitta, ciaspole e passeggiate sulla neve, terminato l’inverno, lasceranno il posto a rampichini ed escursioni a piedi in una stagione estiva che tende sempre più ad allungare i suoi tempi. L’obiettivo della San Bernardino SA, Impianti Turistici (SBIT) è di inaugurare il nuovo corso nella stagione invernale 2026/27. L’investimento richiesto è quantificabile in diverse decine di milioni di franchi. Per assicurare alla stazione la presenza di un numero sufficiente di utenti in rapporto all’onere finanziario, la famiglia Ghezzi, proprietaria di un terreno in zona Gareida (sopra il complesso Albarella), ha inserito nel suo progetto anche una parte immobiliare con 150-200 appartamenti (400-500 posti letto). Da rilevare che attualmente i posti letto a San Bernardino sono circa 260, ai quali
si aggiungono 250 posti in strutture per gruppi. I residenti sono quasi 300 su circa 1350 abitanti del Comune di Mesocco. Il loro numero potrebbe però aumentare grazie ai progetti previsti, ai quali sono legati nuovi posti di lavoro. Nel settore immobiliare il Comune ha inoltre firmato nel 2021 una lettera d’intenti con un gruppo intenzionato a realizzare un resort (albergo e appartamenti) con 400 posti letto in zona Acuforta, caratterizzata dalla presenza della fonte d’acqua di proprietà del Patriziato che verrebbe sfruttata nell’ambito di un’area wellness curativa. «Il concetto – spiega il sindaco De Tann – è quello di non più portare via l’acqua da San Bernardino come quando veniva imbottigliata e venduta, ma di attirare le persone affiché godano sul posto delle sue proprietà salutari». Il costo dell’operazione si aggira sui cento milioni di franchi. Accanto ai due progetti maggiori (impianti e resort), il sindaco tiene però a evidenziare altre iniziative in corso. «A Pian Cales (nei pressi dello skilift che parte dal nucleo) è iniziato il cantiere del resort con Spa promosso dalla Avium SA e in grado di offrire una sessantina di nuovi posti letto. L’inizio dei lavori è sta-
to ritardato da una serie di sondaggi. L’Ufficio Tecnico è inoltre sollecitato nell’ambito delle ristrutturazioni di alcune strutture ricettive esistenti come gli alberghi Albarella e Ravizza». Un’altra proposta che amplia ulteriormente il target di San Bernardino è la creazione di un punto di formazione in ambito scolastico all’alpe Frach, ristrutturando un edificio rurale di proprietà del Patriziato. La regione è ricca di pregi naturalistici fra i quali figurano alcune torbiere di importanza nazionale. Il concetto è in fase di sviluppo da parte di una docente attiva presso l’Alta Scuola pedagogica dei Grigioni situata a Coira. Dai 50mila pernottamenti annui degli anni Ottanta San Bernardino era scesa tre decenni dopo a meno di 10mila. Da allora grazie a interventi mirati del Comune è progressivamente risalita fino a quota 28mila. L’interesse per la pregiata località alpina è pertanto in fase ascendente come dimostrano anche le recenti iniziative private. Christian De Tann: «Grazie al mantenimento dello skilift di Pian Cales, alla ristrutturazione del centro sportivo, alla gestione della pista di sci di fondo e dei sentieri, siamo riusciti a garantire una serie di attività che attirano i turisti. In quest’ottica è pure allo studio un nuovo progetto riguardante una pista per rampichini che colleghi il Passo con il paese. Il Comune applica quindi una doppia strategia: ottimizzare quanto può realizzare in proprio e facilitare l’operato di investitori privati per i progetti più onerosi. Senza dimenticare che lo sviluppo turistico non passa solo da San Bernardino, sebbene sia la località più attrattiva. Pian San Giacomo persegue la sua vocazione di zona di villeggiatura all’insegna della tranquillità e per Mesocco stiamo studiando il potenziale di sviluppo del castello e della stazione della vecchia ferrovia retica». Nell’alta valle Mesolcina non mancano quindi le iniziative finalizzate a renderla ancora più interessante dal punto di vista turistico. Un turismo da vivere in ogni stagione, nei villaggi e in quota, dove devono poter arrivare tutti, dai giovani alle famiglie, alle persone anziane, trovando proposte di svago che corrispondano alle loro esigenze. Proposte sempre più legate a una stretta collaborazione fra ente pubblico e settore privato. Annuncio pubblicitario
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Apprendisti senza limiti di genere
Orientamento ◆ È nato il progetto ProApp per sostenere le ragazze e i ragazzi che scelgono un apprendistato seguendo i propri interessi al di là degli stereotipi di genere Guido Grilli
Donne informatiche? Why not? Uomini parrucchieri? Sempre di più. Eppure, non sempre si tratta di scelte disinvolte. È un problema emerso ancora settimana scorsa durante la presentazione del sondaggio annuale voluto dal DECS sulle scelte dei giovani all’uscita della scuola media. Dai dati emerge una differenza di genere che vede le ragazze scegliere prevalentemente una scuola media superiore rispetto all’apprendistato in azienda (mentre fra i ragazzi l’opzione non vede grosse differenze) anche perché orientate verso poche e ben definite scelte di formazione duale. «Le professioni non hanno un genere. Avere apprendistati senza limiti di genere è l’obiettivo. Vogliamo fare in modo che le ragazze e i ragazzi si sentano di poter seguire le loro vocazioni, i loro interessi al di là degli stereotipi e che non si sentano bloccati se una determinata professione da loro ambìta non viene tipicamente associata al proprio genere». Va dritta al cuore del problema, Chiara Vanetti, coordinatrice del progetto ProApp, illustrando così l’iniziativa promossa da ECAP Ticino pronta a decollare da settembre con l’inizio del nuovo anno scolastico. «Quali obiettivi si prefigge di realizzare il progetto ProApp? Sostenere chi questa scelta “atipica” l’ha già compiuta. Questo per fortificare l’apprendista e prevenire gli abbandoni del tirocinio. Ci sono, infatti, già molti pionieri, ragazze e ragazzi che hanno abbracciato professioni “inconsuete” per il loro genere, ma che appunto vanno incoraggiati per scongiurare che la via intrapresa verso una professione venga interrotta. Si agisce dunque su più fronti attraverso laboratori dedicati: agli apprendisti, per salvaguardarli da un sentimento di minoranza che potrebbe destabilizzarli e per sostenerli a difendere il loro percorso professionale; ai docenti, proponendo loro corsi specifici di aggiornamento sul tema disuguaglianze, linguaggio e altre questioni di genere, segnata-
L’iniziativa ProApp vuole anche contribuire alla pari rappresentanza di donne e uomini in mestieri e settori che risentono di una carenza di personale qualificato. (www.pro-app.ch)
mente ai Centri professionali tecnici di Trevano e Locarno, dove si constatano settori professionali asimmetrici rispetto alle altre sedi cantonali, dove prevalgono nettamente classi di persone in formazione di soli maschi o sole femmine che svolgono un singolo mestiere. Infine si vuole intervenire sulle formatrici e sui formatori aziendali degli apprendisti e sui genitori attraverso puntuali conferenze informative e di sensibilizzazione per affrontare l’importanza e al contempo la delicatezza della tematica». Insomma, quanto intende mettere in campo ECAP Ticino rappresenta un percorso di sostegno per ragazze e ragazzi affinché scelgano un apprendistato che soddisfi i propri interessi, al di là di ogni possibile pregiudizio. Il progetto – realizzato insieme al Dipartimento educazione cultura e sport, con il sostegno del sindacato Unia, della Conferenza cantonale dei
genitori e garantito finanziariamente dall’Ufficio federale per l’uguaglianza fra donna e uomo – prevede diversi workshop, atelier per giovani interessate/i o che già hanno intrapreso un apprendistato in un settore non abituale per il loro genere. Sono previste inoltre alcune serate informative rivolte ai genitori chiamati ad accompagnare i loro figli nella migliore scelta per sé stessi e non certo per compiacere gli adulti. «Questo tipo di attenzione s’intende attuarla già a partire dagli allievi delle terze Medie, dal momento che è importante sensibilizzare e introdurre la tematica sui generi già a questa età, poiché in molti casi le scelte professionali sono pressoché formate mentre in altri persino definitive», spiega Chiara Vanetti. Molteplici sono gli scopi dell’iniziativa: aumentare l’eterogeneità di genere nelle professioni, tematizzare il ruolo di stereotipi e rappresentazioni
nella scelta della professione, contribuire alla pari rappresentanza di donne e uomini in mestieri e settori che risentono di una carenza di personale qualificato. E ancora: sensibilizzare sulle tematiche della disuguaglianza, della discriminazione e delle pari opportunità. Sia sul posto di lavoro degli apprendisti/e sia a scuola nei centri professionali, coinvolgendo anche altre organizzazioni attive nel mondo del lavoro, non da ultimi i sindacati. «ProApp – per apprendistati senza limiti di genere» intende portare il proprio apporto al sostegno delle giovani e dei giovani e dei loro percorsi «senza dire cosa maschi e femmine possano o non possano fare». L’iniziativa avrà una durata di un intero anno scolastico, dal prossimo settembre fino a giugno, «poi, al termine – fa sapere la sua coordinatrice – organizzeremo un convegno tra i diversi attori coinvolti per tracciare un bilancio e
le conclusioni di quanto svolto. Sarà con tutta probabilità coinvolta anche la Città dei mestieri della Svizzera italiana. L’iniziativa, presente in Internet all’indirizzo www.pro-app.ch mostra fra l’altro l’ampiezza della tematica incentrata sugli apprendistati senza limiti di genere, con fra l’altro un link al progetto del Cantone, intitolato «Ambiente: un mestiere per ragazze» che intende informare e incoraggiare le giovani ad abbracciare le professioni tecnico-scientifiche nel campo dell’ambiente e a intraprendere una delle numerose e interessanti professioni proposte in questo settore. Un progetto, questo, che mira a far conoscere meglio i diversi percorsi formativi e le possibilità di lavoro legate all’ambiente, promuovendo in particolare la parità di genere nelle scelte formative e professionali: selvicoltrice, installatrice di impianti sanitari, riciclatrice, geomatica. Why not?
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Viale dei ciliegi Antonia Murgo Miss Dicembre e il clan di luna Bompiani (Da 9 anni)
«Dicembre spalancò la bocca e si stropicciò gli occhi. C’era un bambino nel comignolo della casa». Un incipit efficace, che mette subito nel ricco piatto della storia l’inconsueto che cattura. Dicembre, che nome è? Scopriremo presto che è quello della giovane protagonista, attraverso la cui prospettiva noi avanziamo nella narrazione, stupendoci quanto lei della strana casa in cui è finita. Sì, perché la situazione iniziale è un topos romanzesco: la bambinaia che arriva alla villa padronale, rispondendo a un annuncio di lavoro, sperando di essere assunta. Ma dal vialetto vede, appunto, una cosa strana, un bambino nel comignolo. Il bambino è Corvin, un esserino impertinente, con il potere di trasformarsi in fumo, di stare nella stufa, nel forno, nel camino, tra la cenere, senza bruciare, anche se tutto in lui brucia di ribellione, tutto arde e incenerisce. Non è facile stargli vicino, ma miss Dicembre ci riuscirà, perché neanche lei è una tata consue-
di Letizia Bolzani
ta. Giovanissima, adolescente, orfana, Dicembre non è magica, ma ha lavorato in un circo, e sa affrontare molto bene rischi e acrobazie. Acrobazie letterali, e anche metaforiche: rovesciamenti di stereotipi, ad esempio. Come quello sull’Uomo Nero, che fa paura, sì, ma non per forza è un cattivo. Come la paura stessa, che non per forza è una cosa cattiva. Corvin è il figlio dell’Uomo Nero, proprio quell’Uomo Nero, lo spauracchio tradizionale. Ma Mr Moonro, così si chiama il papà di Corvin, è un gentiluomo, che fa il suo lavoro perché è il suo lavoro e non sa «fare altro», anche se non
lo «diverte affatto». Ma è consapevole della necessità di avere «una grande paura, una paura che faccia sembrare tutte le altre insignificanti». I veri cattivi sono altri, sono i Pungipolvere, coloro che vogliono uccidere l’Uomo Nero per eliminare la paura. E allora Dicembre e Corvin dovranno unire le forze per combatterli, e dalla loro parte starà anche un altro, misterioso personaggio, un membro reietto della famiglia, che a sua volta riserverà non poche sorprese. Questo romanzo si è aggiudicato quest’anno il Premio Strega Ragazze e Ragazzi come «miglior libro d’esordio». Dan Yaccarino Dopo la tempesta Il Castoro (Da 4 anni)
In copertina, un papà con i tre figli e il cane, tutti abbracciati, in casa, guardano dalla finestra. Ma non è di uno zuccheroso idillio che racconta questa storia, perché non sempre è un idillio la vita familiare, non sempre si sta tutti abbracciati, d’amore e d’accordo. A volte stare insieme può essere «brutto», persino «terribile».
Ci si può sentire «stufi di stare insieme», soprattutto quando si è costretti a farlo, come accade in questo intenso albo, scritto e illustrato dal pluripremiato autore italo-americano Dan Yaccarino, in cui una tempesta, che sembra interminabile, obbliga tutti a stare chiusi in casa. Il pensiero del lettore adulto va inevitabilmente al lockdown causato dalla pandemia, ma la bellezza di questa storia ha una valenza simbolica più ampia, che ci parla di tutti quei momenti in cui sembra davvero di essere «stufi di stare insieme», in cui non si trova «più niente di bello da dirsi», in cui si continua a liti-
gare e «ognuno di noi voleva soltanto stare solo». Inoltre qui manca la figura materna, ed è un’assenza che saggiamente non viene spiegata nel libro, è pregressa, lo si intuisce e, come tutte le assenze che feriscono le famiglie, si può solo accettare. E andare avanti. Ma qui qualcosa si è incagliato, e la tempesta, quella esterna e quella interna alla casa, raggiunge il suo apice, ben espresso dai toni sempre più cupi dei colori e dalla rarefazione delle parole. Non si litiga neanche più, si vuole solo stare ognuno nella sua solitudine. Ma poi le parole tornano, a cominciare da quella più difficile, la parola «scusa», e poi torna piano piano – non subito – anche il sole. E si potrà uscire, di nuovo. Ma soprattutto si potrà stare insieme bene, di nuovo. Perché le difficoltà si superano solo se si resta uniti, provando a ripartire, a ricostruire. E dopo la tempesta c’è tanto lavoro da fare, là fuori. Ma anche dentro, nei cuori dei protagonisti, c’è tanto da ricostruire. E di questo ci parla questa commovente storia: di ricostruzione, da fare insieme, per ricominciare a stare bene, meglio di prima.
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SOCIETÀ
L’erba delle streghe Fitoterapia
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Consumata in modo eccessivo e usata in modalità sbagliate la Ruta Graveolens è altamente tossica
Ruta Graveolens detta «Erba Ruta», della Famiglia delle Rutaceae in Ticino è una pianta protetta. Predilige terreni calcarei, rocciosi e asciutti sino a 1200 mslm, è spesso coltivata negli orti o in vaso ed è molto difficile trovarla allo stato selvatico, sebbene lungo il sentiero di Gandria si trovino esemplari spontanei che vi fioriscono per tutta l’estate. Ama il sole ma non teme i luoghi ombreggiati. Ha un fusto eretto che non supera gli 80-90 cm e si sviluppa in rametti cespugliosi su cui si alternano foglioline verdi che, sfregate tra le dite, diventano appiccicose a causa di piccole vescichette responsabili del suo fortissimo, acuto e inimitabile odore. Da maggio a settembre l’«erba Ruta» esibisce delicati fiorellini a grappolo di un pallido giallo limone verdognolo ricchi di numerosi semi. Avvicinatela con cautela se siete predisposti alle allergie, e non lasciatevi ingannare dal suo aspetto aggraziato e modesto: questa pianticella sempreverde in passato era chiamata la pianta delle streghe e con molte buone ragioni. Non si vuole qui spaventare nessuno ma va detto che consumata in modo eccessivo e usata in modalità sbagliate è altamente tossica, può provocare confusione mentale, nausea o diarree; mentre l’olio essenziale in dosi altissime ha effetti… mortali. All’epoca era di fatto legata a ma-
gia e antiche leggende: pare che la giovane Medea, furiosa per il tradimento del suo amante, l’avesse usata per inquinare le acque; e che la dea Afrodite, offesa perché le donne dell’isola di Lemno non l’avevano onorata a sufficienza, avesse creato il suo odore per maledirle e allontanare da loro i mariti. Nel Medioevo era persino chiamata «Herba de demonis», e veniva usata per scacciare gli spiriti… Mitridate, monarca turco vissuto nel 135 a.C., ossessionato dalla paura delle cospirazioni si serviva della Ruta come antidoto per curarsi dai veleni; era per lui uno degli ingredienti più importanti a questo scopo. Dioscoride, medico greco vissuto nella Roma imperiale, la vietava alle donne in gravidanza per i suoi effetti abortivi sull’utero e negativi sul sistema nervoso. È infatti ancor oggi indicata per i disturbi del ciclo. Più che mai, quindi, come del resto facciamo ogni volta, per questa pianta mettiamo in guardia dai pericoli di un uso «fai da te» e raccomandiamo tassativamente a chi fosse interessato a sperimentare i suoi effetti di consultare un medico, un farmacista o un esperto fitoterapeuta ai quali rimandiamo per la convalida di queste affermazioni. È invece del tutto innocua e, a quanto pare, raccomandabile al pari o meglio della camomilla l’applicazione sugli occhi arrossati e stanchi di im-
Franz Xaver
Eliana Bernasconi
pacchi di Ruta ottenuti bollendo una piccola quantità di foglie, mentre per combattere capelli grassi e forfora è molto utile frizionare il cuoio cappelluto con una manciata di foglie macerate nell’alcol. Ruta Graveolens, originaria del sud Europa, era una pianta potentissima onorata in tempi antichi e ampiamente usata in medicina popolare soprattutto in Cina; attualmente è presente solo nella farmacopea svizzera. Spiace scoprire che, forse per timore della sua tossicità, oggi è ricercata solo per preparare una famosa grappa. È usata anche in cosmetica, ma la sua grande importanza dal punto di vista medi-
co, per la quale era utilizzata in passato non sembra troppo riconosciuta; in parecchi testi di fitoterapia che abbiamo consultato, nemmeno figura. Eppure è ricchissima di principi attivi, acidi, mucillagini, sali organici, resine, ed essenze aromatiche che le conferiscono l’inconfondibile aroma che prima di ogni altra cosa la contraddistingue. Come succede per molte altre piante officinali ha indicazioni per disturbi assai diversi, apprendiamo che facilita la digestione e normalizza il flusso mestruale, protegge vasi e capillari sanguigni, è un rimedio per il trattamento di alcuni disturbi del sistema nervoso, è usata
– secondo la tradizione – per curare epilessia o ipertensione, è stomatica e cura le coliche, i reumatismi, le artriti e le nevralgie, è cicatrizzante e indicata per alcuni disturbi della pelle e per gli occhi affaticati da uno sforzo eccessivo della vista; con le foglie si prepara un’acqua distillata usata come collirio. La Ruta Graveolens in passato era nota come rimedio contro la paura, pare che il suo fortissimo amaro aroma dalle note acute aspirato rendesse audaci e avesse anche un’azione anafrodisiaca, era coltivata per questo nei monasteri; qualcuno afferma che anche oggi, se aspirata, aiuti a essere perseveranti e a superare i momenti di depressione. Forse ciò non è completamente infondato se pensiamo che le molecole aromatiche attraverso l’inalazione e l’odorato quando arrivano alle aree centrali olfattive attivano le vie nervose. Un profumo, è noto, può far stare bene, mentre lo si percepisce possono essere coinvolte anche le sfere dell’emotività, dei ricordi e della sensibilità. Ai nostri giorni è sempre possibile preparare la famosa «Grappa digestiva alla Ruta»: mettere a macerare un rametto fresco di Ruta in un litro di grappa, dopo un mese esatto togliere il rametto e, molto importante, lasciar sedimentare e riposare al buio la grappa per almeno un altro mese prima di degustare. Annuncio pubblicitario
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Gli animali delle nostre Alpi Mondoanimale le Alpi svizzere
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Storia e aneddoti di cinque specie animali che popolano
Marmotta, gipeto, lince, lupo e stambecco sono cinque specie di animali tipiche dell’arco alpino, nelle quali, con un po’ di fortuna, è facile imbattersi. In una sua ricerca, la giornalista romanda Lea Huszno ha riassunto storia e alcuni aneddoti di queste cinque specie che popolano le nostre Alpi, di cui alcune hanno già creato discussioni tra le genti del posto. A cominciare dal lupo, che oggi è tra gli argomenti più controversi. Le sue predazioni su tutto il territorio elvetico stanno infatti dando seri grattacapi a chi detiene allevamenti. Antenato biologico del cane, vive principalmente in branchi e di lui si interessa in modo attivo, fra gli altri, anche la fondazione Kora che ha sede a Ittingen, e si occupa di ecologia dei carnivori e della gestione della fauna selvatica. Ne studia la biologia e segue l’andamento delle popolazioni, informando autorità e pubblico e offrendo consulenza. Il sodalizio persegue così l’obiettivo di elaborare le basi per una convivenza armoniosa con l’uomo. Per quanto attiene al lupo, la responsabile del progetto della fondazione Kora, Manuela von Arx, afferma che «Il primo esemplare riapparso in Svizzera è stato avvistato in Vallese nel 1995, ma il primo branco vi si è impiantato solo nel 2012». Di fatto, questo antenato del cane era scompar-
so dalla Svizzera e dall’Europa a causa del disboscamento e del calo delle popolazioni degli ungulati. Negli anni Settanta il numero di esemplari è però ritornato a crescere: «La specie si è diffusa prima in Italia e poi in Francia, attraversando infine le Alpi per giungere in Svizzera». Von Arx sottolinea: «Lince, orso e lupo non ritornano però in un ambiente naturale intatto, bensì in un paesaggio dominato dall’uomo e sottoposto a molteplici pressioni». Nel 2020 sono stati censiti undici branchi nel nostro Paese, sei dei quali nei Grigioni. Gli altri cinque vivono nelle altre regioni alpine, tra cui il Ticino, e uno nel Giura vodese: «In cerca di un loro territorio, i piccoli si separano dalla famiglia all’età di un anno, percorrendo molti chilometri. Di norma, se però un esemplare vive in un luogo per più di un anno, vi trascorrerà tutta la vita, ma la scelta di trattenersi dipende dalla disponibilità di cibo». Durante i primi due anni di vita il tasso di mortalità è molto elevato. Il lupo è carnivoro: si nutre di cervi, caprioli, camosci, cinghiali e talvolta anche di volpi. «È però opportunista e non perde occasione per attaccare possibili prede, come pecore o capre di greggi non sorvegliate da pastori o cani. In Svizzera non sono stati segnalati casi di aggressione di
lupi ai danni di persone», chiosa Manuela von Arx. Un altro animale di montagna è la marmotta che segnala la propria presenza col suo caratteristico fischio. Jürg Paul Müller, biologo specializzato in piccoli mammiferi, di questa racconta che «è il più grande roditore delle Alpi; ha una grande pancia e occhi scintillanti, mentre il suo grasso le permette di guarire da sola dalle ferite procurate dai morsi dei suoi compagni nei combattimenti per il dominio territoriale». La troviamo nei pascoli e nei prati dei Grigioni, del Vallese e del Cantone di Berna, e in Ticino a un’altitudine compresa tra 1100 e 3000 metri: «Le marmotte sono molto attive in estate, mentre in inverno vanno in letargo. Scavano tane per sfuggire sia al caldo che al freddo, ma anche ai loro predatori che sono aquile e volpi». Dal suolo al cielo, troviamo il re delle Alpi. Così è chiamato il Gipeto Barbuto che ha ingiusta fama di essere predatore di bambini e di agnelli. La collaboratrice della Stazione ornitologica svizzera, Chloé Pang, spiega che è un uccello molto impressionante il cui nome è dovuto alla sua barba piumata di cui si ignora ancora oggi la funzione. «Con un’apertura alare di 2,5 metri è il più grande rapace diurno della Svizzera e può pesare fino a sette chili».
Aconcagua
Maria Grazia Buletti
Della stessa famiglia dell’aquila e dell’avvoltoio «è uno spazzino che si nutre delle ossa delle carcasse di camosci, stambecchi e cervi e costruisce il suo nido con la pelliccia degli animali morti. Perciò si è guadagnato la reputazione di ladro di agnelli». Sradicato dalle Alpi alla fine del XIX secolo (a causa di una persecuzione incoraggiata dalla prima legge sulla caccia che ne raccomandava l’eliminazione) è stato reintrodotto nel nostro Paese nel 1991. «Attualmente ci sono 21 coppie riproduttrici in Svizzera e ogni anno nell’arco alpino nascono da 15 a 20 piccoli». Infine la lince che, dopo orso e lupo, è stata avvistata lo scorso mese di marzo in val Bregaglia, sopra Soglio. È il più grande felino selvatico d’Europa e il suo avvistamento è stato confermato dal sito cantonale grigionese dedicato agli avvistamenti dei grandi predatori. Il collaboratore scientifico di Info Fauna, Simon Capt, spiega che essa appartiene alla stessa famiglia del gatto, del leone e della tigre e per
sopravvivere deve predare in media un capriolo alla settimana. Non è facile incontrare questo animale dalla pelliccia giallastra pezzata di nero, con la coda corta: «È più facile vederla in inverno perché le sue impronte sono riconoscibili nella neve e la sua pelliccia è inconfondibile». Nel massiccio del Giura e nelle Alpi vivono attualmente 250 linci. Delle stesse dimensioni di un cane dalmata adulto, pesano tra i 18 e i 25 chili. «Ogni esemplare vive da solo in un grande territorio che copre da 40 a 100 chilometri quadrati. Maschi e femmine si incontrano solo durante la stagione degli amori», precisa l’esperto che parla di un «carnivoro che caccia sin dall’età di dieci mesi, quando non viene più allattato e deve nutrirsi di carne fresca». Può restare immobile in agguato per diverse ore prima di attaccare la sua preda (caprioli, camosci, lepri e volpi). Meno pericoloso di un cinghiale, «se incontra esseri umani, li osserva ma non attacca, poiché non li considera prede». Annuncio pubblicitario
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 11 luglio 2022
13
azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ / RUBRICHE
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L’altropologo
di Cesare Poppi
Morire pompiere ◆
Uno dei detti paremiologici (modi di dire ovvero che sono quasi proverbi) più diffusi in tutta Europa sintetizza la carriera di un individuo X dai bollori rivoluzionari – o para-tali – della gioventù alle prudenti cautele dell’età matura e tarda sostenendo che si nasce incendiari e si muore pompieri. Quale maschietto delle classi medie non ha mai sognato di fare il pompiere «da grande»? Dalle brillanti divise delle compagnie di Vigili del Fuoco alle possenti autocisterne statunitensi che si scatenano, sirene a manetta, laddove non oserebbero neanche i carrarmati, il Pompiere è una figura centrale nella gerarchia di merito del folclore globale. In questo panorama spicca per prestigio, visibilità ed importanza il Pompiere del Regno Unito. Nei venticinque anni che ha vissuto oltremanica ospite di Sua Maestà la Regina, il vostro Altropolo-
go preferito ha visto più mezzi rosso fiammante (ma non erano Ferrari) sfrecciare nelle strade zigzagando acrobatici nel traffico ululando come bracchi alla caccia alla volpe che non negozi di panettieri. Incendi in quanto tali in verità pochi: le isole britanniche essendo così piovose che levati… Mi sono fatto dunque la convinzione che le scorrerie dei mezzi della Fire Brigade fossero periodiche apparizioni per rassicurare un pubblico che ricorda le date dei Great Fires – i grandi incendi che hanno devastato il Paese e specie la sua capitale ab immemorabili – più di quanto ricordi di lavarsi i denti la mattina. Ho visto gente applaudire al passaggio dei Nostri, anche se poi nessuno sapeva dire – o avrebbe poi appreso dai media – quale fosse la causa di tanta fretta. E, oso supporre: nessuna che non fosse affermare di esserci, di esistere, di soccorrere…
La lista è lunga: il 10 luglio 1212 un incendio partì da Southwark, un quartiere a sud di Londra, per poi estendersi al vicinato fino a lambire il London Bridge che al tempo era appena stato ricostruito in pietra e pertanto sopravvisse. Il racconto dettagliato è riferito nelle cronache della City of London Corporation che andava ad aggiungerlo a una lista già ricca di eventi simili. Il primo grande incendio di Londra risale alla rivolta di Boadicca, la Regina degli Iceni (Norfolk) determinata a ricacciare i romani nel Tamigi: nel 60 d.C. il fuoco che distrusse Londinium fu tale da lasciare uno strato di cenere ancora oggi usato dagli archeologi per datare la stratigrafia della città. Si replica nel 122, ai tempi di Adriano, quando si salvò solo il forte di Cripplegate che era costruito in pietra. Il periodo della civilizzazione anglo-sassone vide un grande incen-
dio distruggere la cattedrale sassone, costruita in legno, nel 675. Finalmente si decise di ricostruirla in pietra nei dieci anni a seguire, dimodoché almeno la Cattedrale si salvò dagli incendi devastanti del 798 e del 982. Niente da fare nel 989, quando un incendio partito da Aldgate rase al suolo la città fino a Ludgate. In epoca Normanna, nel 1087, fu distrutta la maggior parte della nuova città voluta da Guglielmo, ivi inclusa Saint Paul e la fortezza/palazzo costruita dal Conquistatore. Il grande incendio del 1133 pare sia partito dalla casa dello Sceriffo di Londra, il padre di Thomas Becket, per poi estendersi al London Bridge sul quale erano state costruite sciaguratamente case in legno… E la lista si allunga: 1220, 1227, 1299, 1633…: fuochi più o meno devastanti tennero impegnate le carrette dei pompieri su e giù per le strade di quella che già allora era una delle
città più popolose d’Europa. Questo fino al Great London Fire del 1666: la parte centrale di Londra bruciò dal 2 al 6 settembre, probabilmente a partire da una panetteria. Il fuoco, alimentato da un forte vento, fu eventualmente sconfitto con la creazione di barriere antincendio ottenute con la demolizione di interi caseggiati alla quale partecipò anche l’esercito con l’uso di esplosivi. Negli anni ’80 il vostro Altropologo di riferimento prendeva possesso di una stanzuccia in un vecchio, scassatissimo albergo del Nord dell’Inghilterra. Sul muro era appeso un antico quadretto sbiadito sul quale era stato vergato a mano il seguente caveat: «Non fumate in camera. Ricordatevi dell’incendio di Londra del 1666». Al di sotto, qualcuno aveva aggiunto a matita, in bella calligrafia: «Non sputate per terra: ricordatevi del Diluvio Universale». Sic.
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La stanza del dialogo
di Silvia Vegetti Finzi
La vacanza di coppia non è adatta agli adolescenti ◆
Gentile dottoressa, la seguo da anni, sempre con interesse e approvazione e ora le scrivo per un consiglio urgente. Dopo molti anni di matrimonio e quando ormai non ci speravamo più, siamo stati benedetti dalla nascita di un figlio, Giacomo, che abbiamo accolto e cresciuto con tutto l’amore e l’ impegno possibili. Ora Giacomo ha 15 anni e frequenta fa seconda Liceo ma la sua infanzia non è stata facile. Sin dai primi anni di vita è stato colpito da una serie di gravissime malattie respiratorie che hanno richiesto indagini invasive e vari ricoveri ospedalieri. Io ho lasciato l’ insegnamento per dedicarmi a lui e anche la carriera professionale di mio marito ne ha risentito. Giacomo è cresciuto solitario, senza amici, seguendo scuole private e corsi di recupero. Ma poiché è molto intelligente e studioso si è ripreso brillantemente, soprattutto grazie a Marghe, una compagna di classe, con cui si è
fidanzato. Ora, dovendo organizzare le vacanze, avremmo deciso di offrire ai ragazzi una crociera con noi lungo le coste del Mediterraneo. Ma mia cognata, pediatra, non la considera una buona idea, lei che ne dice? Grazie. / Marilena Cara Marilena, suppongo che, per forza di cose, i processi di autonomia di Giacomo abbiano proceduto piuttosto a rilento rispetto a quelli dei coetanei e ora sarebbe giunto il momento di recuperare il tempo perduto. D’altra parte anche voi genitori avete diritto a vivere esperienze coniugali, da marito e moglie, senza dare necessariamente la precedenza ai bisogni e agli interessi del figlio. Di solito, a quindici anni i ragazzi vanno all’estero in compagni dei coetanei, maschi e femmine, per imparare le lingue e vivere esperienze nuove. Non vengono certo gettati allo sbaraglio
Mode e modi
ma si lasciano loro ragionevoli margini di libertà e di rischio. Sostituire questa prova di crescita con una vacanza di coppia accanto ai genitori mi sembra francamente una prevaricazione. Non è quello che i quindicenni desiderano e può essere molto pericoloso soddisfare desideri mai formulati perché si spegne la sorgente della vitalità e l’impulso ad agire attivato dalla mancanza. Anni fa, nel complicato decennio 1970-80, mi è capitato di seguire un caso del genere. Una coppia di genitori, che si consideravano progressisti, aveva offerto al figlio e alla sua ragazza, una cabina coniugale accanto alla loro per condividere una favolosa crociera nei Caraibi. Risultato: non si erano ancora allontanati dalle coste europee che mi chiamarono allarmati in quanto il figlio aveva letteralmente distrutto la «reggia» offerta dai genitori,
rivelatesi ben presto una gabbia, una gabbia dorata ma pur sempre una gabbia in cui si sentiva soffocare. Capisco che siate preoccupati di fronte alla possibilità, dopo tanti anni di accudimento, che Giacomo se la cavi da solo e che, in fondo, vi sentiate in colpa di vivere, per la prima volta, una vacanza tutta per voi. Ma vedrete che anche il vostro rapporto si rigenererà e, una volta, tornati a casa, avrete tante cose da raccontare. Non necessariamente tutte. Gli adolescenti, per prendere le distanze dalla famiglia, hanno bisogno di conservare ambiti d’intimità e di segreto, luoghi della mente e del cuore ove diventare se stessi, magari diversi da come i genitori li avevano immaginati e cresciuti. Inoltre mettersi in coppia troppo presto allontana i rapporti con i coetanei. Ma i maschi hanno bisogno innanzitutto di vivere esperienze di
gruppo e le femminine di sperimentare una relazione privilegiata con l’amica del cuore. Un rapporto non facile come si tende a credere perché spesso interviene una terza incomoda, sedicente amica, che cerca di intromettersi espellendo la più fragile delle due. È il famoso gioco della Torre. Comprendo il vostro desiderio di far felice Giacomo ripagandolo di tante difficoltà precedenti ma la vera felicità è quella che ci conquistiamo da soli affrontando i rischi d’infelicità che la vita comporta. Buona estate a tutti. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
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di Luciana Caglio
La lezione di una domenica particolare ◆
È stata proprio, come dice il titolo di un brano musicale pop, una «maledetta domenica», quella del 3 luglio scorso. Segnata da due eventi, entrambi tragici ma non paragonabili, anzi simbolicamente diversi. Più vicino a noi, anche per affinità ambientale, il crollo del ghiacciaio della Marmolada, con un numero ancora imprecisato di vittime. Mentre a Copenaghen, in un affollato supermercato, un terrorista spara sulla gente, provocando morti e feriti. Ora, da questa casuale concomitanza fra i due incidenti si può, anzi si deve ricavare una materia di riflessione quanto mai attuale. Concerne, appunto il nostro atteggiamento fisico e mentale, persino morale, nei confronti di una quotidianità in incessante cambiamento che, con la tecnologia, i viaggi, lo sport allarga i confini del-
le nostre attività e, inevitabilmente, il fronte dei pericoli. Il caso Marmolada ne è un esempio rivelatore. Un tempo, apparteneva a una categoria di imprese riservate agli esperti, persone fisicamente e moralmente attrezzate. Complice il turismo di massa, si è aperto il filone, commercialmente redditizio, degli svaghi-sfida, con cui mettersi in gioco esplorando fondali marini, o attraversando l’Atlantico con il catamarano, lanciandosi nello spazio agganciati al parapendio, scivolando sulle acque infide di torrenti, di montagna praticando il rafting. Gli sfizi, insomma, di un’avventura da brivido, ormai a portata di mano. Che va di moda. Niente di tutto ciò, ovviamente, nell’episodio di Copenaghen. Qui, nessuna possibile divagazione colpevolizzante a carico delle vittime. La
banalità del luogo e della situazione evidenzia, invece, le insidie della quotidianità. E fino a ieri, quotidianità era sinonimo di normalità, una condizione di vita stabile, in una Svizzera che, della sicurezza aveva fatto il suo emblema. Come detto, fino a ieri. E cioè prima della pandemia e poi della guerra che hanno sconvolto l’immagine e i contenuti di un privilegiato isolamento. Per i cittadini della Confederazione si è aperta un’esperienza di vita che chiede un faticoso riadattamento. Per dirla con Roman Bucheli, scrittore, giornalista, che ha alle spalle peripezie personali movimentate, «La normalità non è normale». Non è soltanto un’efficace battuta giornalistica. Come spiega, si tratta di un’esigenza inderogabile. Il virtuoso conformismo allo status quo non
ha più corso. Ci si deve arrendere all’evidenza. Il benessere individuale, associato a quello pubblico, è un meccanismo che non funziona più automaticamente. La perdita, ancora parziale, delle proprie libertà, imposta dal Covid e adesso dalle ricadute finanziare ed energetiche del conflitto, comporta una capacità di adattamento che ci era estranea. Anche la fiducia nell’establishment traballa. A Berna, come a Bellinzona, e non da ultimo nei consigli comunali, i politici sono sotto tiro. Incapaci di prendere le decisioni giuste per affrontare l’emergenza: da considerare, insomma colpevoli, i capri espiatori di disagi che, invece, vanno condivisi. Si tratta di un impegno civico e civile che spetta all’intera collettività. All’insegna dalla disponibilità alla rinuncia che, forse, non sarà transi-
toria. Qual è la conversione che, secondo Bucheli, e con lui altri pensatori sul piano internazionale, implica la capacità di tenere il passo con «una nuova normalità». Per il momento, il discorso può sembrare ispirato alla fantascienza o fantapolitica che sia. Il «piove governo ladro» continua a ispirare i comportamenti di cittadini che, in piena contraddizione, deplorano le malefatte dei governanti e, in pari tempo, ne chiedono la protezione. Avviene, in forma plateale, in Italia. Ma non mancano gli esempi a casa nostra. Con effetti persino esilaranti. Del tipo, il cittadino che protesta perché i fuochi d’artificio, in occasione del raduno motociclistico Harley, hanno spaventato il suo cagnolino. E le autorità avrebbero dovuto prevenire l’incidente.
14 Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 11 luglio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO ●
Nostalgica Città d'Egitto Oltre cinque milioni di abitanti, fra rombi di motori, preghiere, sorsi di tè e mosse di backgammon
Il valore aggiunto delle siepi miste Diverse essenze arboree resistenti alla siccità, con scarsa manutenzione e differenti colori possono rendere divertenti anche i confini
Non solo peperoni grigliati Serviti in insalata con cicorino, cucunci e fette di salame sono un delizioso antipasto
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Stefano Garganigo.
Stefano Garganigo e il sogno americano Altri campioni
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Il velista di Balerna sogna le Paralimpiadi di Los Angeles 2028
Davide Bogiani
Si avvicina in modo sicuro e sciolto. La sua nuova protesi, un ginocchio elettronico, rende la sua camminata più fluida e dinamica. L’appuntamento con Stefano Garganigo è al circolo velico di Lugano, luogo che ospita la sua grande passione, la barca a vela. «La prossima volta ci diamo appuntamento a Los Angeles», esordisce con entusiasmo Garganigo. Certo, ma, andiamo con ordine. Nato e cresciuto a Balerna, dopo aver conseguito il diploma di fotografo, Garganigo approfondisce i suoi studi all’Accademia di comunicazione di Milano, specializzandosi in Art Direction. È l’inizio di una carriera professionale che lo vede raccogliere con rapidità successi in alcune agenzie pubblicitarie, prima a Milano e poi a Londra, dove vi rimane per molti anni. Qui si avvicina progressivamente allo sport, in particolare al tennis. Rientrato in Ticino per una breve vacanza, durante una gelida domenica mattina d’inverno, Garganigo si trova alla stazione di Lugano. Improvvisamente scivola, sbatte violentemente la testa a terra, sviene e cade sui i binari. Invano il tentativo del macchinista del treno merci di arrestare la corsa del convoglio. Garganigo poco dopo si ritrova su un letto di ospedale con entrambe le gambe amputate. E subito esce il suo forte carattere. «Dopo qualche settima-
na all’ospedale Civico a Lugano, mi hanno trasferito alla Clinica SUVA a Bellikon, dove mi hanno insegnato a camminare con le protesi», spiega Stefano Garganigo. «L’incidente poteva avere conseguenze ben peggiori. Nella gamba sinistra mi hanno amputato sopra il ginocchio, la gamba destra sotto. Avere ancora il ginocchio è molto importante perché uso la gamba destra come gamba maestra e questo mi permette di avere ancora una discreta mobilità». I tempi di recupero di Garganigo sono da record; in poche settimane fa rientro a casa e alcuni mesi dopo i suoi amici lo accompagnano in una vacanza in Thai-
landia. Un’esperienza molto utile che gli fa acquisire ulteriore autonomia. Con il tempo Stefano Garganigo ritrova un nuovo equilibrio, anche grazie al lavoro in un’agenzia web di Lugano. «Il mio ufficio si affacciava al lago ed ero molto affascinato nel vedere il pomeriggio un gran veleggiare di piccole barche. Pensai che dovevo fare qualche cosa “con questo lago”. Iniziai a informarmi sulla possibilità di comprare una barca a vela per navigare di giorno e dormire in rada di notte nei weekend. Ma subito mi scontrai con la difficolta di gestire una barca per una persona con disabilità motoria e abbandonai l’idea. Poi, esattamente qui, al Circolo Velico di Lugano, un giorno mi informarono che il mese successivo sarebbero arrivati alcuni istruttori della Lega navale di Milano a presentare una barca per disabili». Garganigo partecipò quindi alla prima esperienza sul tipo di barca a vela 2.4mR. E fu amore a prima vista. La settimana seguente si iscrisse alla Lega navale italiana e parallelamente iniziò un corso di vela a Dervio con Carlo Annoni, uno dei migliori istruttori italiani di vela per disabili. È l’inizio di una carriera sportiva inaspettata. Garganigo comincia quasi subito a fare regate nazionali, a cui si aggiungono poco dopo quelle internazionali, i Campionati europei e del mondo.
«Quello che ha reso famosa nel mondo della vela questa piccola imbarcazione monoposto – spiega Garganigo –, è la possibilità di veder regatare atleti normodotati e atleti disabili alla pari, senza speciali classifiche. Per le peculiarità del 2.4mR, persone con disabilità motorie possono accedere a tale sport con le stesse possibilità di un atleta che non presenta alcun problema. Un ottimo esempio di inclusione sportiva». Purtroppo in Svizzera, al momento, la classe 2.4mR non è ancora diffusa. Oltre a Stefano Garganigo si conta un solo altro velista normodotato del Canon Nidwaldo. «Lo scopo – aggiunge il nostro interlocutore – è di creare fra pochi anni una squadra agonistica svizzera composta da regatanti disabili e normodotati con l’obiettivo di partecipare ai Campionati europei e del mondo». Nel frattempo Garganigo continua a navigare e l’ago della bussola punta verso Los Angeles, nella speranza che il vento porti con sé la reintroduzione della vela come disciplina paralimpica ai Giochi del 2028. «Sì, infatti dal 2016, dopo le paralimpiadi di Rio, la vela è stata tolta dagli sport dei Giochi Paralimpici. La speranza è che venga reinserita fra sei anni, appunto, a Los Angeles». Dal Continente europeo, a quello, speriamo americano. E, nel frat-
tempo, passando da quello asiatico. Sì, asiatico, perché parte degli allenamenti Garganigo li intende svolgere navigando lungo costa tra Thailandia, Cambogia e Vietnam, unendo lo sport, al viaggio, alla cultura. Ma questa non è l’unica sfida in attesa di Los Angeles. «Vent’anni fa, dopo l’incidente, anche se ho avuto molta forza per rialzarmi, tutto è stato molto difficile» aggiunge il velista. «Ora, all’alba dei 50 anni, sto rivivendo grazie alla vela una seconda gioventù. Mi si è aperto un nuovo mondo. E questo mondo è anche più facilmente accessibile per me grazie alla mia nuova protesi elettronica. Oltre a fare meno fatica a camminare in pianura, la nuova protesi mi permette di fare delle discese, cosa che non potevo più fare da 20 anni. Questo mi consente di allenarmi meglio anche in previsione delle manovre in barca». E come ringraziamento per quello che la vita gli ha regalato di nuovo dopo l’incidente, Stefano Garganigo ci svela alla fine della chiacchierata, altri due suoi grandi obiettivi. «Ho in programma di fare due importanti camminate. La prima sono gli ultimi 100 km del cammino di Santiago, la seconda è l’attraversamento del Ticino, da Chiasso ad Airolo». Il tutto, sempre aspettando le Paralimpiadi di Los Angeles 2028.
Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 11 luglio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino 15
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Alessandria, signora del tempo Reportage
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Il fascino irripetibile e un’urbanistica dalla bellezza piacevolmente decadente
Emanuela Crosetti, testo e foto
A vederla da lontano, da un mare inspiegabilmente sempre agitato, Alessandria d’Egitto sembra una città fatta di carta, pronta a sciogliersi alla prima ondata. Eppure sta lì da millenni. Fu talamo delle sublimi tresche amorose tra Cleopatra e Marco Aurelio, finché morte non li ha tristemente separati. Vi fu sepolto il grande Alessandro, anche se il luogo esatto resta un mistero tutt’oggi irrisolto. La città ospitava la più grande biblioteca del mondo antico, con i suoi settecentomila volumi, distrutta forse dal fuoco di Cesare, forse dall’ira di Zenobia, forse dall’integralismo di Teodosio, molto più probabilmente dalla vanità del califfo Omar. Era conosciuta soprattutto per l’imponente faro che, dopo aver rischiarato per sedici secoli la via ai mercanti, venne irreparabilmente danneggiato da due violenti terremoti e mai più ricostruito.
L’anima profonda di Alessandria d’Egitto non è (solo) nei suoi scrigni millenari. La ritrovi anche tra le pieghe della vita Oggi Alessandria d’Egitto − dalla popolazione chiamata al-Iskandariyya − è una città di oltre cinque milioni di abitanti, con un fascino irripetibile e un’urbanistica dalla bellezza piacevolmente decadente. La si guarda con nostalgia, come si ammira una signora che un tempo doveva essere stata davvero molto bella. Un tempo. E oggi? Dalla finestra del quarto piano dell’albergo dove ho preso alloggio, un precario edificio a lato dello storico e scintillante Hotel Cecil, il traffico evapora in una cacofonia di suoni disarticolati e accavallati dalle quattro del mattino alle due di notte, tra rombi di motori, brusche frenate, tassisti in perenne corsa e clacson selvaggi, inclusi quelli dei pulmini collettivi, con una malinconica sonorità di nove note tutta da scoprire. Almeno una volta nell’arco della giornata − specialmente al tramonto – ci si ritrova a camminare sul lungomare delle Corniche, lasciando andare i propri pensieri e giocando a indovinare quelli degli altri. C’è chi sorseggia tè e chi mangia makaroni sul muricciolo, chi prega e chi fotografa, chi vende gelati e chi pesca, chi corre dietro a un pallone e chi aspetta, con infinita pazienza, il lento morire dell’ultimo raggio di sole al di là della
baia, prima che le acque si tingano di carminio e l’orizzonte svanisca. Misuro quattro chilometri di passeggiata incastonata, da un lato, dalla cittadella di Qaytbay, roccaforte islamica in stile mamelucco del XV secolo, dall’altro, dalla ciclopica e avveniristica Biblioteca perduta di Alessandria, non solo fenice risorta dalle ceneri del passato, ma anticipo lungimirante del futuro. In mezzo, la magniloquente moschea Abu al-Abbas al-Mursi, dedicata a un santo sufi vissuto a el-Andalus nel XIII secolo, le cui cupole svettano in lontananza con un commovente splendore in grado di confortare anche i cuori più duri. La solitaria colonna di Pompeo, con le due piccole sfingi a sua guardia, o il teatro romano, quarantadue metri di acustica in marmo bianco e granito rosa, sono gli ultimi retaggi di un’antica gloria, oggi tristemente accerchiata nella morsa cementifera di fatiscenti palazzi. Eppure l’anima profonda di Alessandria d’Egitto non è (solo) nei suoi scrigni millenari. La ritrovi anche tra le pieghe della vita di tutti i giorni, in quella quotidianità sbandierata a ogni singola svolta o angolo perduto, oltre le vie più strette, in mezzo alla gente accalcata senza pietà nei mercati dagli odori impossibili, coi loro venditori urlanti. Ai chioschi di cibo le verdure fresche si alternano alla fame delle mosche in volo perenne. I tik-tok, mitici trabiccoli a tre ruote, sfrecciano senza regole né pietà ovunque si apra uno spiffero tra le auto in circolazione sfrenata e qualsiasi corpo ambulante che vaga liberamente sulla carreggiata come se fosse l’unico. Alessandria è una città non da visitare ma da cogliere. E per farlo, bisogna buttarsi, senza remore o timori, senza pregiudizi né aspettative, soprattutto senza orologio. Bisogna osare oltre gli ingressi ciechi di vecchi palazzi apparentemente abbandonati, per scoprire che, al di là delle scale oblique e dei muri pendenti, ancora resistono ammirevoli fregi, raffinati stucchi e glorie estetiche di un intramontabile passato. Bisogna lasciarsi guidare dall’ospitalità disarmante delle persone che smaniano di offrirti caffè e sorrisi; dai bambini che ti chiedono una foto insieme, senza pretendere null’altro in cambio; dagli artigiani che ti invitano nelle proprie botteghe, inclusi i panettieri, sempre pronti a lanciarti una pagnotta appena sfornata, ottima compagna di viaggio tra queste spirali danIl caldo maggio di Alessandria; di fianco, vecchi tram o antiche glorie post rivoluzione; a destra, l’arte di arrangiarsi, meccanici fai da te per strada.
Le Corniche, passeggiata romantica e mondana sul lungomare sempre agitato; sotto, in cerca di riposo o in cerca di ombra, l’attesa dei mercanti.
tesche che sembrano non finire mai. Aggiustare auto per strada è consuetudine frequente. Così come giocare a backgammon o a biliardo, pascolare pecore qua e là o lasciare il proprio asino a dormire con la testa appoggiata contro il carretto. Se passa un tram, è sicuramente e gravemen-
te ammaccato, eppure avanza, misteriosamente inesorabile nel proprio dovere. Se c’è un’auto Lada – e Alessandria pullula di questi romantici sovietismi – ha sicuramente due targhe, una egiziana e una europea, che si intravede appena sotto. Niente loschi traffici, «Decoration!», mi dicono,
con un’alzata di spalle finale, come se fosse la cosa più normale del mondo. Così è Alessandria, signora del tempo, dove al primo refolo di vento si lotta contro colonne di polvere che si sollevano da ogni dove, portando con sé i lasciti stratificati di mille vite, parole, lotte, sofferenze, esultanze.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 11 luglio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO
L’alternativa multicolore
PRO SENECTUTE
Mondoverde
informa
Anche i muri verdi possono annoiare. Per chi ha in progetto di creare una copertura vegetale quale recinzione delimitante il proprio giardino, senza cadere nella scelta della solita Photinia o del Prunus laurocerasus, consiglio alcune essenze arboree molto resistenti alla siccità, con scarsa manutenzione e dall’aspetto sano. Prediligendo la creazione di siepi miste, si garantisce movimento al giardino, colori sempre diversi e si riesce a scappare dalla monotonia di un muro verde. Un bel mix è dato da mirto, corbezzolo, nandina, pitosforo e ligustro, da usare insieme alternandoli oppure sistemandoli a gruppi per chi ha un’area vasta da mascherare. Il mirto (Myrtus) è un’aromatica della famiglia delle Myrtaceae ed è tipico della macchia mediterranea; molti lo conoscono per via del liquore ricavato dalle sue bacche nero-bluastre, che maturano da novembre a gennaio, alimentando l’avifauna. Dal portamento cespuglioso, sempreverde e fitto, si alza due metri, fino a un massimo di due metri e mezzo, con foglie verde scuro, coriacee e fiori primaverili bianchi, profumati e molto appariscenti, che sbocciano tra maggio e giugno, anche se non è infrequente una seconda fioritura in autunno. Altra sempreverde, ma con bacche rosso corallo, troviamo il corbezzolo, Arbutus unedo: molto ornamentale ha foglie verdi e lucide, che accompagnano fiori piccoli, bianchi, che appaiono a fine estate, tra ottobre e novembre. La corteccia è sottile e squamosa, in grado di fessurarsi negli individui più vecchi, mostrando sfumature di marrone sui lunghi rami. Una curiosità legata al suo nome è
Dal mese di luglio proponiamo diverse attività di movimento durante l’estate con il sostegno del Servizio di promozione e valutazione sanitaria del DSS e Promozione Salute Svizzera. Le discipline sono le seguenti: Ginnastica all’aperto Acqua-fitness Danza Rinforzo muscolare Nordic walking
Tutte le attività sono consultabili anche sul nostro sito www.prosenectute.org. Per luoghi e orari chiedere maggiori informazioni telefonando al numero 091 912 17 17.
Programma vacanze 2022 I soggiorni sono rivolti a persone anziane autosufficienti che desiderano trascorrere una vacanza in compagnia, con l’accompagnamento da parte di volontari. Ecco le date ancora disponibili: – – – –
Siepi miste a impronta mediterranea contro la monocromia
Anita Negretti
Attività sportive estive
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Torre Pedrera di Rimini, dal 31 Luglio al 10 Agosto Gabicce Mare, dal 28, Agosto al 7 Settembre Pinarella di Cervia, dal 4 al 14 Settembre Montegrotto Terme, dal 7 al 16 Ottobre
Per maggiori informazioni: Telefono: 091 912 17 17 info@prosenectute.org
Un esemplare di Arbutus unedo. (Umberto Ferrando)
data dall’unione delle due parole latine unus (uno) ed edo (edibile), che unite in unedo, significano «ne mangio uno solo», a ricordare che i frutti di questo elegante cespuglio hanno effetti collaterali allucinogeni, legati a forti giramenti di testa e vertigini, per via degli alcaloidi. Accanto al corbezzolo cresce molto bene la Nandina domestica, bambù sacro, un arbusto sempreverde alto fino a due metri, con rami fitti, foglie composte, imparipennate, che virano dal verde al rosso, fino al viola con sfumature rosa. I fiori compaiono da giugno e sono portati su lunghe spighe che in autunno lasciano spazio ai frutti: bacche rosso brillante che persistono per tutto l’inverno, uccellini permettendo. Se i due metri d’altezza della Nandina vi sembrano troppi, allora vi propongo la varietà «Fire Power», non più alta di un metro, con foglie globose verdi, gialle e rosso vivo, che si colorano ancora più intensamente con
il gelo invernale, senza però produrre fiori e bacche. Se lo spazio nel vostro giardino da recintare lo permette, non fatevi sfuggire un bel esemplare di pitosforo (Pitosporum tobira) originario dell’Asia con chioma sempreverde, foglie profumate color verde scuro, molto lucide, che in primavera si accompagnano a fiori bianchi, anch’essi profumati. Tutte le piante descritte amano posizioni soleggiate e calde, preferendo posizioni a sud nel giardino, con terreno universale. Concimate in febbraio e ottobre, avranno una crescita costante, mentre per le bagnature, essendo piante mediterranee e resistenti alle estati afose, consiglio di intervenire solo per il primo anno dopo l’impianto in piena terra: settimanalmente si eseguiranno irrigazioni per garantire un buon attecchimento radicale. Se invece verranno coltivate in vaso, andranno bagnate con più frequenza e durante tutti i loro anni di vita.
Le tre pellicole d’eccezione sono: Top Gun: Maverick (in inglese con sottotitoli in italiano, programmato per il 28 luglio); Lightyear, La vera storia di Buzz (l’amato cartone animato di fantascienza che animerà la serata del 29) e Corro da te (garbata commedia, in cartellone per il 30 luglio).
Tre generi completamente diversi che si rivolgono ad appassionati del cinema con gusti altrettanto variati, ragione per cui è importante comunicare al momento della partecipazione esattamente per quale serata si concorre. La serata inizia alle 19 con il fischio di partenza della cremagliera, l’unica del Ticino. La risalita dura quaranta minuti e in attesa e per tutta la durata della proiezione – prevista per le 21.15 – resteranno aperti sia il self-service sia il bar del Fiore di pietra (al terzo piano). Ricordiamo che il cinema sarà all’aperto a 1704 mslm, per cui sarebbe buona cosa premunirsi di un maglioncino, perché nonostante l’afa di quest’estate, in montagna si fa sentire la frescura della sera.
Tre film sotto le stelle
Docupass Con questo documento mettete per iscritto i vostri desideri, le vostre esigenze e le vostre aspettative per i casi di emergenza. ll nostro dossier previdenziale è una soluzione globale riconosciuta nell’ambito di tutte le questioni regolamentabili in un documento con finalità precauzionale: dalle direttive del paziente al testamento. Organizziamo in maniera regolare nei maggiori centri del Cantone dei corsi di 2 ore per approfondire questo tema con una specialista.
Concorso ◆ In palio alcuni biglietti per le serate di Cinema Open Air in vetta al Generoso
Per maggiori informazioni: Telefono: 091 912 17 17 o sulla nostra pagina internet. Dopo il successo del primo appuntamento in vetta con l’evento «Sunset Apero», è tempo di cinema sotto le stelle. «Azione» triplica il concorso offrendo – per tre serate distinte – un doppio biglietto andata-ritorno per il Monte Generoso, dove avrà luogo la proiezione di un film tra i più amati di questi tempi.
Contatto Pro Senectute Ticino e Moesano Via Vanoni 8/10, 6904 Lugano Tel. 091 912 17 17 – info@prosenectute.org Le nostre sedi regionali si trovano anche a: Balerna, Bellinzona, Biasca e Muralto www.prosenectute.org Seguiteci anche su Facebook
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Concorso «Azione» mette in palio alcuni biglietti (a coppie di due) per la visione di un film in vetta. Tre sono le serate dedicate al cinema: giovedì 28, venerdì 29 e sabato 30 luglio 2022. L’offerta di questo concorso comprende il biglietto per il viaggio di andata e ritorno con il trenino a cremagliera (partenza da Capolago alle
19.00 e alle 23.00 dalla vetta; arrivo a Capolago alle 23.40). Il valore di ogni estrazione è di 58.– franchi. Per partecipare al concorso inviare una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Open Air Cinema») indicando nome, cognome, numero di telefono e il film di preferenza, entro domenica 17 luglio 2022.
Informazioni www.montegeneroso.ch
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azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO
Ricetta - Peperoni grigliati in insalata con salame ●
Ingredienti
Preparazione
Iscriviti ora!
Antipasto Per 4 persone
1. Scaldate il grill a circa 220 °C. Dimezzate i peperoni e privateli dei semi. Tagliateli a spicchi. Accomodateli in una vaschetta di alluminio per la cottura alla griglia, aggiungete l’aglio schiacciato.
I membri del club Migusto ricevono gratuitamente la nuova rivista di cucina della Migros pubblicata dieci volte l’anno. migusto.migros.ch
800 g di peperoni di vari colori 2 spicchi d’aglio 6 c d’olio d’oliva sale, ad esempio fleur de sel pepe dal macinapepe ½ mazzetto di timo 100 g di cicorino rosso 80 g di cucunci o olive 100 g di salame 3 c di condimento bianco (vinaigre)
2. Condite i peperoni con la metà dell’olio, sale e pepe. Unite le foglioline di timo. Grigliate i peperoni, girandoli di tanto in tanto, per circa 20 minuti. 3. Disponete nel piatto da portata il cicorino, i cucunci e le fette di salame. Distribuite i peperoni ancora caldi sull’insalata. Condite con l’olio d’oliva restante, aceto, sale e pepe. Accompagnate con fette di pane. Consigli utili: invece di grigliare i peperoni sul fuoco, potete grigliarli sulla bistecchiera o in forno a 200 °C per circa 25 minuti. Attenzione: il calore alto (220-280 °C) è adatto alla cottura diretta: gli alimenti vengono messi sulla griglia direttamente sulla fonte di calore (brace). A calore medio (180-220 °C) si griglia o si arrostisce a fuoco indiretto; gli alimenti non devono essere posti direttamente sulla brace e il coperchio del grill è abbassato. Preparazione: circa 30 minuti; cottura alla griglia: circa 20 minuti. Per persona: circa 9 g di proteine, 22 g di grassi, 10 g di carboidrati, 290 kcal/1200 kJ.
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azione – Cooperativa Migros Ticino
MONDO MIGROS
Il marchio Zespri propone entrambe le varianti di kiwi a polpa gialla e verde. Ottime tutt’e due, hanno ognuna i propri punti di forza: la variante a polpa verde ha gusto piacevolmente agrodolce, quella a polpa gialla ha una dolcezza più spiccata e si può mangiare con la buccia. Fatti e consigli di rilievo.
DOLCI, RINFRESCANTI Combinazioni Già al naturale i kiwi sono un fresco piacere (basta tagliarli a metà e prelevarne la polpa dalla buccia con un cucchiaio), ma sotto forma di frullato, abbinati a succo di mela, acqua di cocco o anche solo normalissima acqua, diventano ancora più gustosi.
Vitamina C Un kiwi (peso medio 80 g) contiene circa 65 mg di vitamina C e, come tale, è un’autentica miniera della preziosa vitamina che, nell’ambito di una dieta equilibrata e di un sano stile di vita, contribuisce al regolare funzionamento del sistema immunitario e alla protezione delle cellule contro lo stress ossidativo. La vitamina C favorisce inoltre l’assorbimento del ferro contenuto negli alimenti.
È maturo? Il kiwi al giusto punto di maturazione si riconosce dal profumo e dalla consistenza compatta ma leggermente cedevole. Meglio riporre in frigorifero i frutti maturi, perché così si conservano più a lungo. Il kiwi non è ancora abbastanza maturo? Basta lasciarlo a temperatura ambiente, dentro un sacchetto di carta, insieme a un paio di mele.
Sapore I kiwi esistono nella doppia variante a polpa verde e polpa giallo oro. I frutti di colore giallo sono succosi e decisamente dolci, quelli a polpa verde hanno una nota asprigna che per molti palati fa da piacevole contrasto alla dolcezza.
Foto: Yves Roth, Styling: Mirjam Käser
La buccia si mangia? La buccia del kiwi a polpa verde, ruvida e pelosetta, non è propriamente gradevole al palato. Per questo il frutto si pela oppure si taglia a metà e si preleva la polpa con un cucchiaio (no, non c’è bisogno di eliminare i semi!) Il kiwi a polpa gialla «SunGold» Zespri, invece, ha una buccia liscia che si può consumare senza problemi.
Zespri SunGold Kiwi confezione da 3 pezzi Fr. 2.55
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azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO
Una tranquilla fine estate di paura Videogiochi
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The Quarry è un ibrido tra videogame e film interattivo ispirato al genere teen horror
Davide Canavesi
Questa settimana vi proponiamo un ibrido videogioco-film interattivo, una storia di paura da giocare in compagnia di amici e familiari sul divano. Una storia zeppa di cliché del genere teen horror in cui la componente spaventosa è più che altro legata a brevi momenti di tensione piuttosto che a raffinati giochi psicologici. Tuttavia, nonostante questa introduzione, The Quarry è un gioco divertente, ammesso che siate dei fan del genere. The Quarry fa parte di un filone di videogiochi che negli ultimi anni è stato portato avanti principalmente da un solo studio, gli inglesi Supermassive Games. Una sorta di ponte tra videogame e film, un’esperienza interattiva. Dai recenti e assai godibili giochi dell’antologia Dark Pictures a questo titolo uscito su console e PC. Il gioco è ambientato in un campo estivo per adolescenti, sperduto da qualche parte in uno Stato del nord degli USA. I primi due personaggi coi quali faremo conoscenza, Laura e Max, stanno viaggiando in direzione del campo estivo di Hackett’s Quarry. Sfortunatamente i due, spaventati da qualcosa in mezzo alla carreggiata, finiscono per sbandare e uscire di strada. Sopravvissuti incolumi all’incidente, vengono ben presto raggiunti da un poliziotto che raccomanda loro molto caldamente di non proseguire il viaggio e fermarsi per la notte in un motel. Infastiditi, entrambi
decidono di proseguire il viaggio come da programma. Il primo di tanti gravi e potenzialmente fatali errori in cui ci imbatteremo nella storia. Presto faremo conoscenza del resto dei personaggi giocabili: Abi, Emma, Dyla, Kaitlyn, Jacob, Ryan e Nick. Per ognuno di essi ci sono diversi percorsi che possiamo imboccare. Alcuni che li porteranno tutti alla salvezza e altri che ne causeranno la prematura dipartita. Durante la partita potrà anche capitare di avere un senso di déjà-vu: il gioco presenta infatti un cast d’insieme che compren-
de attori come David Arquette, Ted Raimi, Ariel Winter e Justice Smith. La particolarità di questo tipo di produzioni è che la storia e i personaggi sono quasi l’unico punto focale dell’esperienza, con gli elementi di gioco vero e proprio che passano in secondo piano. Secondariamente ci sono le scelte dei giocatori. Che si tratti di una scelta cosciente oppure di un errore di tempistiche, potremo far variare lo svolgimento della trama diverse volte durante le circa dieci ore che ci aspettano. Scelte che vanno dal seguire le indicazioni di un agente di
Giochi e passatempi Cruciverba
Non tutti sanno che Winston Churchill aveva… Termina la frase leggendo a cruciverba ultimato, le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 2, 6, 7, 3, 7)
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28. Le iniziali dell’attore Memphis 30. Prende un pesce alla volta 32. Pesci dalle carni pregiate 35. Aspro, pungente 37. Integro, incontaminato 38. Il nonno di una volta VERTICALI 1. Lo è la frittata 2. Sincero 4. Le iniziali della top model Campbell 5. Valle del Trentino 6. Trasmette onde elettromagnetiche 8. Tabelle di marcia
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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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polizia, nascondersi o fuggire, lottare o lasciarsi catturare dalla disperazione. Ogni scelta avrà delle conseguenze che porteranno a risultati diversi, talvolta assai spassosi, altre più tragiche. The Quarry è un gioco che va assolutamente condiviso con gli amici. Esso prevede infatti una modalità cooperativa in cui i vari giocatori, a turno, impersonano i vari personaggi, magari anche due alla volta. Il risultato è che, a turno, saremo direttamente responsabili non solo del benessere fisico e psicologico del no-
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
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ORIZZONTALI 1. Due in aula 3. Nome femminile 7. Un segno particolare 9. Preposizione 10. Difetto 12. Le iniziali dello scrittore e filosofo Tommaseo 13. Lo erano Pegaso e l’Ippogrifo 15. Le iniziali del cantante Ruggeri 16. Parte di uno sceneggiato 22. Due lettere in più... 24. Un quinto di five 25. Le iniziali della Lettizzetto 26. Fiume russo
stro personaggio ma saremo anche parzialmente responsabili di come si svolgono gli elementi globali di gioco. Ad esempio lasciare chiusa una porta potrebbe portare a conseguenze piuttosto serie più avanti… L’unica pecca di questo sistema è che potranno passare parecchi minuti, per non dire magari intere mezzore o più, prima che il giocatore attivo cambi. Come dicevamo in apertura, The Quarry va preso come un film interattivo, quindi si prospetta un’attività nettamente più passiva del solito. Gli sviluppatori hanno incluso anche una modalità a giocatore singolo e una inedita modalità film in cui possiamo selezionare se desideriamo vedere il finale positivo o quello negativo e poi guardare tutto il gioco come se fosse un film animato. The Quarry è divertente e ben realizzato. Ci sono alcune imperfezioni, come alcune animazioni facciali decisamente esagerate che stonano con la generale realizzazione tecnica, riuscita e di qualità. Doppiato interamente in italiano, accompagnato da una colonna sonora piacevole anche se non memorabile, The Quarry è un teen horror godibile sia come gioco che come film o serie TV, a dipendenza del ritmo con cui scegliamo di seguirlo. Attenzione però, nonostante il gioco non sia molto spaventoso contiene scene di una certa violenza ed è quindi raccomandato esclusivamente ad un pubblico adulto.
Screenshots © 2022 2K Games & Supermassive Games.
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11. Le iniziali della cantante Tatangelo 14. Le iniziali del musicista Pizzetti 17. Vocali in russo 18. Motivo ricorrente di un’opera 19. Simbolo chimico del tallio 20. Un letto per fiumi 21. Sono tesserati 23. Tomba in poesia 27. Il celebre Hur 29. Con, per i tedeschi 31. La fegatosa 33. Un Ricky regista (iniz.) 34. Congiunzione latina 36. Le iniziali del cantautore Vecchioni
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Soluzione della settimana precedente ABISSI MARINI – Il pesce gatto gigante del Mekong, quale lunghezza e peso può raggiungere? Risposte risultanti: TRE METRI, TRECENTO CHILI.
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Anno LXXXV 11 luglio 2022
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ATTUALITÀ ●
Contro democrazia e liberalismo Quali sono le fonti del pensiero reazionario che registra successi sotto le spinte della pandemia e delle crisi finanziarie
Quel sogno di indipendenza Boris Johnson annuncia le sue dimissioni mentre la premier scozzese Nicola Sturgeon rilancia la madre di tutte le sue battaglie
Cuochi e camerieri cercansi Sia in Svizzera sia in Italia continua a scarseggiare il personale nei settori alberghiero e della ristorazione, ecco perché
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Putin, a sinistra, ha sottovalutato la potenza americana e sopravvalutato le proprie risorse e la propria influenza. (Keystone)
La guerra tra Mosca e Washington L’analisi
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I due imperi non sono né interessati né capaci di trovare un accordo sui rispettivi limiti mentre la crisi ucraina continua
Lucio Caracciolo
La guerra in Ucraina ha diverse dimensioni. Quella strategica riguarda lo scontro fra Russia e America, per interposta popolazione ucraina. In gioco, per Mosca e per Washington, è l’estensione delle rispettive sfere di influenza in Europa centro-orientale. Dalla fine dell’Unione Sovietica a oggi quella russa è retrocessa fino a ridursi alla Bielorussia, mentre Georgia e Ucraina restano zone contestate. Parallelamente, l’americana s’è estesa fino a poche centinaia di chilometri dal Cremlino. Per Mosca questa ritirata è pericolosa non solo per la potenza ma per la stabilità stessa della Federazione Russa. Per Washington è legittimo e irrinunciabile frutto della vittoria nella guerra fredda. Ma la premessa di tutto è che i due imperi non sembrano né interessati né capaci di trovare un accordo sui rispettivi limiti. Che cosa ha infatti spinto Putin a invadere l’Ucraina, a parte il desiderio di «riportare a casa» un pezzo essenziale dell’impero russo? La risposta può apparire paradossale: la ricerca di un riconoscimento da parte degli Stati Uniti. L’obiettivo stra-
tegico della Russia non è certamente quello di finire junior partner della Cina. È invece quello di essere considerata un attore paritario dall’Occidente, più specificamente dall’America. A questo obiettivo Putin si è dedicato fin da quando è salito al Cremlino, nel 2000. In varie fasi e in modi diversi, persino opposti. Tutti fallimentari. Di qui il paradosso attuale: muovere guerra all’Occidente perché alla fine l’America si disponga a un compromesso accettabile e consideri la Russia un interlocutore legittimo e paritario.
Visto che un accordo di reciproco rispetto su basi paritarie con gli Stati Uniti si rendeva impensabile, Putin ha scelto un approccio offensivo La prima fase della geopolitica putiniana va fino al 2007. E corrisponde al tentativo di contrattare una intesa con Washington per una partnership che assomigliasse molto a un’allean-
za. Ipotesi abbastanza fantascientifica dal punto di vista americano, tanto è vero che le richieste paradossali (per l’America) della Federazione Russa di entrare nella Nato erano accolte con sorrisetti sarcastici. La tensione fra Washington e Mosca, cresciuta nella seconda metà degli anni 2000, ha portato nel 2007 alla svolta russa. Il discorso tenuto quell’anno da Putin alla Conferenza per la sicurezza di Monaco, in cui il leader russo ha accusato l’Occidente, e in particolare Washington, di trascurare i suoi legittimi interessi, è stato il punto di rottura. Svolta però solo tattica, non strategica. Visto che un accordo di reciproco rispetto su basi paritarie con gli Stati Uniti si rendeva impensabile, Putin sceglieva un approccio offensivo. La guerra di Georgia, con il conseguente rientro di Abkhazia e Ossezia del Nord nella sfera di influenza moscovita, è stato il primo di una serie di passi che segnalavano il revisionismo geopolitico di Putin. Sempre attento però a evitare una collisione frontale con Washington. Il 2014 ha inaugurato una terza fase che dura tutt’ora e che è stata ina-
sprita fino al parossismo dall’aggressione all’Ucraina. Putin è stato allora colto di sorpresa dalla rivolta di Euromaidan sostenuta da americani e britannici e dal conseguente colpo di stato che ha messo in fuga il presidente Yanukovich, fiduciario di Mosca. L’annessione della Crimea è stato l’inizio di una controffensiva che ha portato al conflitto nel Donbass. Ma la vera svolta è del 24 febbraio, quando Putin ha scatenato l’aggressione che sta insanguinando l’Ucraina e sconvolgendo gli equilibri europei e mondiali. Non sappiamo quale sia l’obiettivo tattico del Cremlino in questa fase: fermarsi al Donbass o poco più e determinare una linea di divisione dell’Ucraina in stile coreano? Continuare ad avanzare verso Kiev e annettersi progressivamente l’intera Ucraina o quasi, forse con l’eccezione di Galizia, Volinia e altri territori del nord-ovest dove la presa russa non è mai davvero esistita e non sarebbe mai possibile? Lo vedremo nei prossimi mesi. Quello che è certo è che dal punto di vista moscovita si apre ora una fase di conflitto con l’Oc-
cidente che ha spinto Mosca in una sorta di condominio minoritario sotto Pechino. Non era e non è questo l’obiettivo strategico di Putin. Ciò rivela il doppio errore del presidente russo. Il primo, gravissimo, è quello di essersi illuso (e con lui quasi tutta la leadership russa) di poter essere considerato dagli americani su base paritaria. Il secondo è quello di potervi arrivare non per via di intesa ma sfondando la porta. Entrambi gli errori derivano dalla sottovalutazione della potenza americana e, ancora più grave, dalla sopravvalutazione delle proprie risorse e della propria influenza. Questa guerra è probabilmente destinata a durare a lungo, fra pause e riprese. Ma molto difficilmente, anche fra diversi anni, aiuterà ad avvicinare quello che è l’obiettivo oggi nascosto e invisibile di Putin: essere preso sul serio come partner strategico dall’Occidente e dagli Stati Uniti. Sicché il conflitto in Ucraina potrà produrre fasi di relativa calma o di provvisorio cessate-il-fuoco. Ma la partita strategica fra Russia e America sarà determinata solo dalla resa dell’una o dell’altra.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 11 luglio 2022
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azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
Dietro il disprezzo per la democrazia Politica
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Quali sono le fonti del pensiero reazionario che registra successi sotto le spinte della pandemia e delle crisi finanziarie
Stefano Vastano
Il 6 gennaio 2021 rimarrà alla storia. Quel giorno il mondo intero, allibito, ha visto in diretta televisiva una ciurma di populisti esaltati assaltare il Campidoglio a Washington, la sede ufficiale dei due rami del Congresso degli Stati Uniti. Indimenticabile la figura di una sorta di sciamano che guidava l’assalto, con elmo vichingo in testa e il viso coperto dai colori della bandiera americana. «Quello che più ha scioccato – inizia a dirci Karl-Heinz Ott – è stato l’assalto al cuore dell’America da parte di forze irrazionali, ma ispirate a un presidente come Donald Trump che per anni ha disprezzato le regole della società liberale e la democrazia». Ott è un raffinato politologo ed intellettuale tedesco che nel suo recente libro Verfluchte Neuzeit (in italiano «Maledetta modernità»), pubblicato dalle edizioni Hanser, ha analizzato la linfa teorica alla base dei movimenti populisti e d’estrema destra che, in Europa come negli Usa, stanno mettendo a soqquadro il mondo occidentale. Sottotitolo del saggio: «Una storia del pensiero reazionario». Non si tratta solo di ricostruire le idee dei maestri del pensiero reazionario del Novecento come Leo Strauss, Eric Voegelin o Carl Schmitt. «Ogni sera sul canale Fox news – osserva Ott – un moderatore sostiene che i massacri in Ucraina siano fake news, e la guerra di Putin un complotto della Nato». Un programma insomma che ogni sera comunica ai telespettatori americani «il più puro putinismo», sintetizza Ott. Evidentemente le tesi del politologo americano Patrick Deneen, autore del bestseller Why liberalism failed («Perché il liberalismo ha fallito»), sono penetrate a fondo non solo nei discorsi dei «neocon», i neoconservatori americani, ma anche nei palinsesti in televisione. «Deneen è uno degli ideologi neocon che predica le idee di un ordine eterno della natura e lotta con ogni mezzo contro i principi della democrazia liberale». Agli occhi di questi accademici della nuova destra, continua il politologo, Trump, per quanto rozzo, «è uno strumento di Dio mandato agli americani per combattere le élite di sinistra». Non è un caso se, per la traduzione del suo libro in Ungheria, Deneen è stato accolto a Budapest da Viktor Orban in persona, l’autocrate al governo ungherese e figura di spicco della deriva sovranista che monta non solo nell’Europa dell’est, ma anche in Francia con Marine Le Pen o in Italia con Giorgia Meloni.
«Agli occhi di questi accademici della nuova destra Trump, per quanto rozzo, è uno strumento di Dio mandato agli americani per combattere le élite di sinistra» Quali sono le fonti del pensiero reazionario che nel ventunesimo secolo, sotto le spinte dell’epidemia globale e delle crisi finanziarie, sta registrando successi persino nei paesi scandinavi? «Nel pensiero reazionario moderno – spiega Ott – la società e la storia vengono pensate sotto forma di “teologia politica”. L’ordine dello Stato e sociale vengono cioè visti a partire da forme eterne come le categorie di amico e nemico in Schmitt, con
Assalto al Campidoglio, 6 gennaio 2021. (Keystone)
un sostegno poi strategico dato al sovrano dalla religione e dalle chiese». È d’altronde nel momento preciso in cui la sfera della politica e della religione si separano che nasce in Europa l’era moderna, lo stato moderno e un sistema politico via via più liberale. «La modernità – precisa Ott – sorge nel momento in cui Hobbes nel Leviatano disgiunge il pensiero religioso dalla prassi del potere statale, il momento in cui sovrano e politica si separano dalla chiesa e dalla trascendenza religiosa». È questa «scissione» all’inizio della modernità che il filosofo più letto da tutti i «neocon» americani, Leo Strauss per l’appunto, critica in tutti i suoi testi, a partire da quello fondamentale intitolato Natural right and history («Diritto naturale e storia») del 1953. «Strauss – dice Ott – sviluppa un misticismo dell’ordine politico che giunge sino ad odiare ogni pensiero della storia. Per Strauss è evidente che non esista una storia politica, ma delle idee eterne della politica e delle cose». In effetti nessuno ha mai letto Platone, dal mito della caverna al discorso sulle leggi, «in modo più reazionario e autoritativo di Strauss, che trasforma il pensiero di Platone in un misticismo dell’ordine assoluto in politica». Oltre ad Hobbes è Cartesio, con il suo razionalismo imperniato sul cogito («penso, dunque sono»), l’altro trauma ancestrale del pensiero reazionario. Nel suo saggio Ott ricostruisce come la filosofia di Martin Heidegger, sin da Sein und Zeit del 1927, sia un tentativo di smontare il moderno soggettivismo cartesiano. «Per Heidegger – spiega Ott – Cartesio è l’origine del pensiero calcolante, raziocinante e tecnologico alla base della modernità. Agostino e Pascal invece i controaltari a Cartesio e allo storicismo di Hegel». Ma se Strauss è noto soprattutto negli ambienti accademici americani, è Carl Schmitt il pilastro del pensiero reazionario europeo sin dai primi del Novecento, dal suo saggio Politische Teologie del 1922. L’agone della politica pensato con la categoria schmittiana di amico/nemico definisce la politica in un modo essenziale e antropologico, secondo Ott, «perché solo nel momen-
to in cui si posiziona contro a un nemico l’uomo assume per Schmitt una chiara posizione politica». Chiaro anche l’altro fondamento su cui Schmitt costruisce l’azione politica del sovra-
no: la categoria di «stato d’eccezione». «Nel suo stato primordiale la società – afferma Ott – è per Schmitt la lotta di tutti contro tutti. È il sovrano a determinare la politica dichiarando
lo stato d’eccezione». Per questo agli occhi di Schmitt le lente procedure della democrazia sono pie illusioni, una finzione i parlamenti. «Oggi Schmitt si vedrebbe confermato davanti alle emergenze della pandemia e ai decreti restrittivi dichiarati dagli Stati». Non è un caso se i due filosofi della politica più letti oggi nelle università cinesi siano Strauss e Schmitt: «La società cinese funziona, si ripete oggi in Cina, perché al potere ci sono esperti che sanno come risolvere i problemi e decidono il da farsi». Tutta qui la quintessenza del pensiero reazionario: al potere chi sa e decide; gli altri, la massa, segue. Lo ricordavano anche le dure e ciniche tesi del Grande inquisitore nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Ott le riassume: «L’uomo è un ribelle infelice che non sa ciò che vuole, e alla fine si piega al volere dell’autorità, che decide per lui». Magari anche raccontando alle masse, come fa l’Inquisitore, quelle che Strauss definiva «bugie necessarie». «Quando Putin tratta in pubblico i suoi generali come burattini incarna l’uomo forte a cui miravano Strauss e Schmitt. Il sovrano che, come vediamo fare Putin oggi con le sue menzogne sui “nazisti” in Ucraina, fonda il suo assoluto potere su disinformazione e propaganda». E com’è noto Trump ammirava il dittatore russo, e viceversa. Annuncio pubblicitario
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Anno LXXXV 11 luglio 2022
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ATTUALITÀ
Un Regno sempre meno unito L’analisi
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Approfittando della crisi di governo inglese la premier scozzese rilancia la madre di tutte le sue battaglie
Barbara Gallino
Nicola Sturgeon torna alla carica. Approfittando della crisi del governo inglese, con il primo ministro britannico Boris Johnson messo all’angolo e costretto da una rivolta senza precedenti a lasciare Downing Street non appena sarà individuato un sostituto, la premier scozzese è determinata a rilanciare la madre di tutte le sue battaglie: l’indipendenza della Scozia. Secondo Sturgeon, nonostante siano passati solo otto anni dal fallito referendum del 2014 che aveva visto il 55% degli elettori scozzesi opporsi alla secessione della nazione dal Regno Unito a fronte del 45% di elettori favorevoli, con Brexit le circostanze sono cambiate. La maggioranza degli scozzesi infatti è contraria all’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, come del resto era emerso nel referendum del 2016: ben il 68% aveva scelto l’opzione «remain» (rimanere) a fronte del 38% che si era espresso per il «leave» (lasciare). Se la successione cronologica dei due referendum fosse stata invertita, oggi la Scozia forse sarebbe una nazione indipendente. Mentre Johnson esce di scena spinto dalle dimissioni in massa di diversi sottosegretari e ministri in disaccordo con la sua leadership, inclusi il cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak e il ministro della Salute Sajid Javid, la numero uno dello Scottish national party (Snp) prosegue il suo cammino, gettando le basi per una seconda consultazione referendaria. C’è pure una data nella proposta di legge che ha già presentato al Parlamento scozzese: il 19 ottobre 2023. Il quesito sarebbe lo stesso del 2014: «La Scozia dovrebbe essere un paese indipendente?». Londra ha sempre indicato di non appoggiare un secondo referendum sulla questione, adducendo che le priorità in questo momento di crisi siano altre con il conflitto russo-ucraino in corso, l’inflazione galoppante e le ferite aperte della pandemia. Tuttavia Sturgeon ha formalmente chiesto all’agonizzante governo inglese di trasferire in via provvisoria il potere di indire la consultazione, che legalmente sarebbe appannaggio di Westminster, a Holyrood come del resto era avvenuto con il primo referendum. Dall’istituzione del parlamento scozzese nel 1999 ad oggi la capitale inglese ha devoluto ad Edimburgo il potere di legiferare in ambiti che sono generalmente riservati a Westminster solo 16 volte. Prevedendo un rifiuto, poi puntualmente arrivato, la prima ministra scozzese si è munita di altri assi nella manica. Poiché il referendum deve essere «incontrovertibilmente legale», la leader dell’Snp ha comunque rimesso alla Corte su-
prema britannica il compito di decidere se l’esecutivo scozzese ha il potere o meno di convocare il referendum senza l’approvazione di Londra. Se il tribunale di ultima istanza si pronuncerà a favore di Edimburgo, il suo «Referendum bill» diventerà legge e potrà convocare legittimamente la consultazione in autonomia. Nell’ipotesi contraria, la campagna del partito per le elezioni politiche del 2024 verterà esclusivamente sulla secessione della Scozia, così se l’Snp incasserà oltre il 50% dei voti scozzesi, otterrà di fatto il mandato per indire in piena regola il referendum per l’indipendenza scozzese 2. La domanda che sorge spontanea però è la seguente: perché adesso? Secondo gli ultimi sondaggi, se gli scozzesi andassero alle urne oggi il partito nazionalista scozzese otterrebbe il 47% dei suffragi e quindi non abbastanza per raggiungere il traguardo prefissato per il suddetto mandato. Tuttavia i Labour – che sotto la guida del leader scozzese del partito Anas Sarwar hanno superato i Conservatori – stanno raccogliendo un numero crescente di consensi e Sturgeon è determinata ad arginarne la minaccia. Come? Massimizzando il supporto al suo partito e facendo leva sul sentimento nazionalista aumentato sulla scia di Brexit e della sfilza di scandali che si sono succeduti a Downing Street. C’è anche chi ravvisa nella tattica di Sturgeon l’eco della strategia di Johnson quando nel 2019 trionfò alle politiche dopo il pronunciamento della Corte suprema contro la sospensione prolungata del parlamento da lui decisa, che il premier strumentalmente utilizzò come argomentazione a riprova che l’establishment voleva fermare Brexit. Da parte sua il governo britannico ha accusato l’Snp di non avere ancora provveduto a delineare uno scenario preciso in relazione a questioni chiave come valuta da adottare e pensioni in caso di secessione, ricordando che ogni potenziale tentativo di Edimburgo di rientrare nella Ue porterebbe ad un confine rigido fra la Scozia e il resto del Regno Unito. Secondo i detrattori di Sturgeon, inoltre, la battaglia per l’indipendenza giocherebbe a favore di Vladimir Putin, che punta a creare divisioni nell’Occidente in un momento in cui invece c’è bisogno di unità. La Scozia ha contribuito con 65 milioni di sterline ai 2,3 miliardi di fondi stanziati dal Regno Unito a favore dell’Ucraina ed ha accolto circa 6000 rifugiati provenienti dal paese devastato dalla guerra. «Conseguiamo molti più risultati per il popolo che serviamo continuando a lavorare in-
Sono passati otto anni dal primo referendum per l’indipendenza della Scozia. (Keystone)
sieme come partner», ha scritto Johnson a Sturgeon alla vigilia delle sue dimissioni, confermando in via ufficiale di non avere alcuna intenzione di concedere il trasferimento di poteri richiesto per la convocazione del referendum. La risposta di Sturgeon però non è tardata ad arrivare. «La
democrazia scozzese non sarà ostaggio di questo o qualsiasi altro premier», ha commentato la leader che in ogni caso attende ancora la decisione della Corte suprema britannica. Il rifiuto di Johnson formalizzato poco prima di cedere alle pressioni di fare un passo indietro è parso qua-
si un estremo tentativo di presentarsi come un improbabile salvatore della patria mentre la nave stava affondando e salvaguardare l’unità nazionale di un regno che – con Brexit e la crisi economica in cui è precipitato – si sta disgregando, minando un’unione che bene o male dura da 315 anni. Annuncio pubblicitario
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Boris Johnson getta la spugna Giovedì scorso Boris Johnson ha annunciato le sue dimissioni da leader del Partito conservatore britannico, forza di maggioranza in Parlamento, e da premier. Il politico – travolto dagli scandali e da una raffica di dimissioni in seno alla sua compagine – resterà in sella fino alla scelta del suo successore, periodo di transizione che potrebbe concludersi in autunno. Tra i favoriti nella corsa ai vertici si avanzano le ipotesi dell’ex cancelliere Rishi Sunak e della ministra della politica commerciale Penny Mordau-
nt. La ministra degli esteri Liz Truss ha lanciato un appello «alla calma e all’unità». Nel momento in cui Johnson faceva un passo indietro, ha rivendicato quelli che considera i successi più evidenti della sua leadership, in particolare il ruolo svolto al fianco di Kiev dopo l'invasione russa. Il Regno Unito «continuerà a sostenere l'Ucraina», ha assicurato a tal proposito. Il premier si è anche detto «immensamente orgoglioso» di aver portato a compimento la Brexit nei suoi anni di governo.
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ATTUALITÀ
Se mancano chef e camerieri Svizzera
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La situazione per ristoratori e albergatori continua ad essere critica
Romina Borla
ni dell’Istituto di ricerche economiche dell’Usi. «Parliamo in media di circa 400 persone disoccupate negli ultimi anni, tenendo presente che il settore è soggetto a una naturale variazione stagionale (in inverno i numeri salgono per poi abbassarsi durante il periodo estivo)». A questo si aggiunge il fatto che il settore alberghiero e della ristorazione ha visto un aumento del numero dei frontalieri dell’ordine dell’11,83 per cento rispetto all’anno precedente (confronto tra il primo trimestre 2022 e il primo trimestre 2021). Considerando l’ultimo trimestre dell’anno scorso e il primo del 2022, la crescita si è attestata sul 4,98%. E il trend positivo continua, sottolinea il nostro interlocutore. «I datori di lavoro sul territorio cantonale, non trovando manodopera in Ticino, si rivolgono oltre confine. Ma anche in Lombardia, ad esempio, si rileva la stessa penuria di personale. Così il problema si sposta da un luogo all’altro, senza prospettive chiare per il futuro». Baruffini osserva che quelli dei settori citati sono mestieri faticosi: «È possibile che le nuove generazioni non li guardino più con interesse a causa delle condizioni non proprio ideali: turni infiniti, stress psicofisico, orari non consueti e fine settimana occupati. Non credo che ai giovani manchino lo slancio e la voglia di fare, ma emerge di sicuro da parte loro un nuovo modo di rapportarsi al mondo del lavoro». Per quel che riguarda la paga? «Alle nostre latitudini – risponde l’esperto – i salari restano più alti rispetto alla vicina Penisola e sono garantiti dal Contratto collettivo nazionale di lavoro per il settore alberghiero e della ristorazione (ad esempio il salario minimo per i collaboratori senza diploma di apprendistato ammonta a 3477 franchi lordi al mese). Questo rimane un incentivo per i frontalieri che, comunque, guadagnano tendenzialmente meno dei ticinesi anche in questi settori». Da tempo ci si interroga sulle vie da intraprendere per rendere le attività nel settore alberghiero e della ristorazione nuovamente attrattive. GastroSuisse, in particolare, ha di recente lanciato un piano in 5 punti per cercare di trovare soluzioni a lungo termine e valorizzare questi mestieri, attraendo le nuove generazioni. Eccoli: promozione dell’immagine della professione con campagne mirate, formazione degli imprenditori nella gestione del personale, volontà di reclutare nuove leve e di facilitare
la riqualifica delle persone che hanno cambiato professione, creazione di condizioni di impiego più attrattive (salari, orari ecc.). Passare dalla teoria alla pratica non sarà evidente.
Settori attrattivi per i frontalieri Gli analisti lo avevano previsto anni fa, afferma Moreno Baruffini. Dopo il rallentamento dell’economia dovuto alla pandemia e alle chiusure, ecco un periodo di ripresa caratterizzato dalla mancanza di particolari figure professionali. «C’è carenza soprattutto di personale attivo nei servizi alla persona (mestieri eseguiti in presenza che necessitano di capacità ed esperienza): servizi sociali e socio assistenziali, servizi per il tempo libero e la cura della persona (camerieri, cuochi, ma anche parrucchieri, infermieri ecc.). Mancano anche lavoratori con formazioni specialistiche: il tecnico esperto di un certo macchinario, lo specialista di prodotti o servizi e così via». E il Ticino continua a guardare in maniera privilegiata all’Italia per ovviare alla penuria. «Nonostante la pandemia i frontalieri sono sempre aumentati in Ticino», sottolinea il nostro interlocutore. «Nel 2022 del 4%, una crescita consistente». Quali ambiti hanno privilegiato? Scorrendo i dati fornitici da Baruffini (confronto tra il primo trimestre 2022 e il primo trimestre 2021), si nota che i settori nel secondario sono piuttosto stabili (circa +1%), con una leggera decrescita dei frontalieri nelle attività estrattive, nel settore della fabbricazione di tessili e abbigliamento, di quello dell’industria farmaceutica. Per quel che riguarda i settori del terziario: si è verificato un aumento in generale (+5,43%). Come detto, i frontalieri impiegati nei servizi di alloggio e ristorazione sono cresciuti (+11,83%); incremento consistente anche nei servizi di assistenza residenziale (+10,95%) e nelle telecomunicazioni (+13,92%), ma decisa decrescita nelle attività ausiliarie dei servizi finanziari e assicurazioni (quasi –25,9%). Diminuzione nella ricerca scientifica e sviluppo (–6,57%) però aumento alla voce altre attività professionali, scientifiche e tecniche (+13,8%). Infine nel settore dell’istruzione i frontalieri sono calati (–1,28%).
Dogana di Chiasso. L’Italia è il paese da cui per tradizione arriva buona parte del personale del settore alberghiero e della ristorazione. (Keystone)
Keystone
Cuochi, camerieri e capi sala mancano anche in Svizzera. E non da ieri. Già un anno fa Casimir Platzer, presidente di GastroSuisse, dichiarava: «Abbiamo grandi difficoltà a trovare lavoratori soprattutto qualificati, il problema esiste da tempo ma si è acuito con la pandemia». Secondo lui, la larga diffusione del lavoro ridotto aveva ingessato il mercato, frenando – nei salariati temporaneamente a casa – la motivazione per cercare un nuovo impiego. Gli operatori mettevano in evidenza un altro aspetto che rendeva difficile il reclutamento dei collaboratori: lockdown e altre misure anti-Covid avevano spinto tanti a cambiare mestiere per dedicarsi ad attività considerate più «sicure» (o meno a rischio di chiusura). Questi non intendevano ritornare sui loro passi. Così alcuni esercizi pubblici avevano dovuto ridurre gli orari di apertura o introdurre chiusure supplementari a causa della mancanza di personale. Nella Svizzera italiana, inoltre, si osservava la mancanza di chef e camerieri provenienti dall’Italia, paese da cui per tradizione arriva buona parte del personale del settore alberghiero e della ristorazione. «I nostri concorrenti oltre confine – sottolineava GastroTicino – si sono accorti che con le retribuzioni offerte faticavano a reperire i dipendenti di cui avevano bisogno e per questo hanno proceduto ad adeguamenti salariali». La situazione non è cambiata, dice ad «Azione» Gabriele Beltrami, direttore di GastroTicino, «anche perché la pandemia con i vari lockdown ha fatto scoprire a molti che – oltre al ristorante oppure all’albergo – ci sono la vita privata, la famiglia e il tempo libero. Inoltre, per i frontalieri, si aggiungono oggi il caro benzina e le colonne per raggiungere il Ticino. Fatti due conti vale quasi la pena rimanere in Italia e avere più tempo, come detto, per gli affetti e lo svago». I dati confermano le voci dei rappresentanti di categoria. A livello nazionale – dice lo Swiss job index che si riferisce al mese di aprile 2022 – sono molto ricercati dalle aziende gli operatori in ambito alberghiero e della ristorazione (+7% mensile, +132% annuo), oltre agli sviluppatori informatici (+11%, +45%) e agli addetti alla logistica (6%, +28%). «Per quel che riguarda il Ticino i numeri sulla disoccupazione nell’ambito dei servizi di alloggio e ristorazione sono ai minimi della serie», dice dal canto suo Moreno Baruffi-
Anche in Italia le stesse difficoltà
Prospettive ◆ Operatori costretti a chiudere i battenti per carenza di personale e dipendenti esauriti per le pessime condizioni di lavoro Alfio Caruso
È da tempo che dalle cucine di famosi ristoranti italiani prorompe un grido di dolore: non ci sono più cuochi e nemmeno camerieri. A lanciarlo sono celebrati chef, spesso adorni di stelle Michelin: da Giancarlo Perbellini di Casa Perbellini a Verona ad Alessandro Borghese, di grande fama televisiva; da Pino Cuttaia di La Madia a Licata, in Sicilia, a Viviana Varese di Viva a Milano; da Antonia Klugmann di Argine a Vencò di Dolegna del Collio, in provincia di Gorizia, a Davide Oldani di D’O di Cornaredo, nel milanese, a Giancarlo Bartolini dell’omonimo ristorante nel Museo delle Culture di Milano. Lamentano l’impossibilità di reperire esperti cucinieri e giovani da far crescere con stipendi ritenuti sostanziosi: 2000 euro per i cuochi, 1400 più le mance per i camerieri. Affermano che quanti si presentano, soprattutto i ragazzi, sono molto più interessati ai giorni liberi e all’orario quotidiano in un mestiere dove, al contrario – è la tesi degli chef – non bisogna guardare l’orologio. Ed è proprio questo l’aspetto più dibattuto della polemica, capace di arroventare l’atmosfera dai locali di grido alle locande di paese. Cuochi e camerieri sostengono di dover affrontare turni massacranti per paghe ben lontane da quelle prospettate. Diverse località del Meridione sono state tappezzate di manifesti espliciti sin dal titolo: «Cercasi schiavo per l’estate». Vi si legge: «Per la stagione estiva 800 euro al mese, 10 ore al giorno. Contratto irregolare o stipendio in nero. Giorno libero? Ah ah ah!». Eppure il rilancio del settore appare ben concreto, dopo un biennio disastroso causa pandemia: nel 2020-2021 la ristorazione nella vicina Penisola ha perso 243mila addetti, dei quali 113mila a tempo indeterminato. A Torino ha chiuso i battenti tra gli altri l’Acciuga Bistrot, che in sei mesi aveva raggiunto l’eccellenza tra i ristoranti di pesce. Nel cartello appeso sulle serrande abbassate il titolare ha scritto: «Non riesco ad assumere, quindi chiudo bottega». In poco più di quattro settimane dalla pubblicazione dei suoi annunci – afferma quest’ultimo – zero colloqui e solo qualche telefonata per chiedere informazioni. «Le paghe di 1700 euro (netti) al mese, per 12 mensilità, per cuoco e aiuto cuoco, e di 1400 euro
per cameriere di sala non sono state considerate appetibili». Non si arrende il proprietario di un minimarket di Firenze: fa distribuire volantini nei quali garantisce 6 mila euro netti per tre mesi, un giorno di riposo settimanale, un week end gratuito per due a fine contratto. Chissà se ha trovato. D’altronde, le previsioni a maggio delle associazioni di categoria certificavano che per l’estate su un fabbisogno di 390 mila lavoratori per i servizi di alloggio, ristorazione e turistici ne sarebbero mancati oltre 150mila, con prenotazioni record fino ad ottobre.
«Per la stagione estiva 800 euro al mese, dieci ore al giorno. Contratto irregolare o stipendio in nero. Giorno libero? Ah ah ah!» L’inattesa crisi di vocazione è addebitata sia ai lunghi mesi di lockdown, che hanno sviluppato l’amore per il tempo libero e la voglia di un lavoro autonomo da svolgere fra le mura domestiche, sia al reddito di cittadinanza (un sussidio introdotto nel 2019 destinato alla fascia di popolazione che si trova sotto la soglia della povertà assoluta) trasformato in cuscinetto di garanzia e che induce molti a volere una retribuzione in nero per non perderlo. Con questo desiderio di una maggiore qualità della vita vengono spiegati i crescenti abbandoni. A Milano in un anno si sono dimessi in 420mila; nel Veneto fra gennaio e aprile 2022 66mila hanno rinunciato al posto garantito. Contemporaneamente sono cresciute di quasi il 50 per cento le vendite porta a porta: attirano le percentuali sui risultati, con le quali incentivare il magro stipendio base (poco più di mille euro), e la gestione dei propri spazi. Intanto per molti italiani continua il miraggio di un lavoro in Svizzera. Stando ai dati pubblicati in maggio dall’Ufficio federale di statistica (Ust), i frontalieri continuano ad aumentare. Nel primo trimestre 2022 i lavoratori con permesso G erano oltre 365 mila a livello nazionale, in progressione del 6,2% su base annua. In Ticino erano quasi 75 mila, in aumento del 4%. Per saperne di più si legga l’articolo a lato.
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Settimanale di informazione e cultura
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ATTUALITÀ / RUBRICHE
Il Mercato e la Piazza
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di Angelo Rossi
Dai conti, la storia moderna del comune ◆
I dati statistici aiutano sempre a inquadrare gli avvenimenti storici, anche i meno importanti. La statistica svizzera, che risale, più o meno, alla data della creazione della Confederazione, ossia alla metà dell’Ottocento, è certamente una fonte importante per studiare lo sviluppo che il nostro paese ha conosciuto nel corso degli ultimi 170 anni. Per questo lungo periodo di tempo, per esempio, la statistica svizzera mette a disposizione informazioni sull’evoluzione della popolazione, nelle sue caratteristiche più importanti, a livello nazionale, cantonale e comunale. Sono le informazioni che si possono derivare dai censimenti federali della popolazione che si sono tenuti regolarmente, con scadenza decennale, fino all’anno 2000. Altrettanto importanti sono le informazioni fornite dal censimento federale delle aziende, effettuato, con scadenze diverse, dal 1905 al 2008.
Si può affermare che questi due censimenti federali sono stati, e continuano ad essere, la fonte di informazione insostituibile per chi vuole esaminare come siano evoluti in Svizzera, la popolazione, l’effettivo delle aziende e l’impiego nel lungo termine. Altre informazioni importanti, per esempio sull’evoluzione del potere di acquisto delle economie domestiche, possono essere dedotte dall’inchiesta sulla spesa delle economie domestiche che però fornisce dati, a livello del Ticino, solo a partire dagli anni Trenta del ventesimo secolo. Anche altre serie statistiche importanti iniziano solo a partire dal periodo della prima guerra mondiale, o anche più tardi, e non consentono quindi di analizzare lo sviluppo precedente. Per un’analisi secolare dello sviluppo del Ticino e dei suoi comuni vi sarebbe un’altra fonte che però finora è stata poco utilizzata. Si tratta dei dati concernenti le fi-
Affari Esteri
nanze comunali. La loro disponibilità varia da Comune a Comune. Lo stesso si può dire della cura con la quale i Comuni tenevano i loro conti. In particolare risulta difficile, più si va indietro nel tempo, ottenere dati sui bilanci e quindi sull’evoluzione del debito pubblico. I risultati della ricerca che Orlando Nosetti ha pubblicato nel numero appena uscito dell’Archivio storico ticinese mostrano però che laddove i dati sulle finanze sono stati conservati, l’analisi degli stessi consente di scoprire più di un aspetto nuovo di una località. Nosetti ha concentrato la sua attenzione sui conti di Brissago, un comune che, nell’Ottocento, contava, per la sua dimensione demografica ed economica, più di quanto non conti oggi. Il primo grafico interessante della sua ricerca è quello che descrive l’evoluzione del debito pubblico del comune dal 1822 al 1891. La curva del debito pubblico di Brissago, dopo essere modera-
tamente cresciuta nel primo ventennio di osservazione conosce un balzo verso l’alto (il debito praticamente raddoppia) nei tre anni tra il 1843 e il 1846, il triennio immediatamente precedente la creazione della Fabbrica Tabacchi, allora l’industria di maggiore importanza del Cantone. Tra il 1847 e la fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento, il debito pubblico rimane costante per poi diminuire di un terzo, nel giro di un paio d’anni. Passano ancora pochi anni e il debito pubblico comunale aumenta di nuovo: questa volta di circa ¼, per poi restare costante per un decennio e quindi diminuire lentamente fino alla fine del periodo di osservazione. Si potrebbe pensare che questo andamento della curva del debito comunale sia stato determinato, data la sua importanza, dall’andamento degli affari della Fabbrica Tabacchi. In effetti, precisa Nosetti, «non vi sono dati che attestino il contributo della Fabbrica
Tabacchi alla crescita del gettito fiscale, dal 1847 in poi». La fabbrica ha però contribuito a far crescere la popolazione del Comune nella seconda metà del secolo e, quindi, indirettamente ha favorito l’aumento delle sue entrate. Così in questo periodo il Comune di Brissago entra in una nuova era nella quale le ristrettezze finanziarie diminuiscono. Questo gli consente di offrire nuovi servizi alla cittadinanza. Lo possiamo dedurre dall’evoluzione della spesa pro-capite, ma anche comparando la distribuzione della spesa per destinazione alla metà del secolo e nel 1890. Mentre nel 1850 più del 70% della spesa era costituito da oneri finanziari (cioè, semplificando, dal costo del debito pubblico), nel 1890 la quota degli oneri finanziari si era ridotta al 26,5%. Il Comune, verso la fine del secolo dedicava già il 22,4% della spesa all’educazione, il 12,6% alla salute pubblica e un altro 12,6% alla previdenza sociale.
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di Paola Peduzzi
Inflazione galoppante: Bezos contro Biden ◆
C’è un che di tondo nel modo con cui Jeff Bezos, l’ideatore di Amazon, s’è messo a discutere con Joe Biden, come a descrivere un’inconciliabilità strutturale o forse naturale tra il leader di un colosso tecnologico (e proprietario di un grande giornale, «The Washington Post») e il presidente degli Stati Uniti. Bezos non aveva buoni rapporti nemmeno con Donald Trump: c’entravano il divorzio di Bezos, il suo telefono hackerato, il «National Enquirer», media che gravita attorno al mondo trumpiano, con le immagini della nuova relazione sentimentale di Bezos messe in copertina, la pista saudita nell’hackeraggio (sembrava che fosse stato il principe saudita in persona, Mohammed bin Salman, ad essersi intrufolato nello smartphone di Bezos, lui che era capace di tutto, come fare a pezzi un giornalista dentro a un consolato, ma non veniva punito mai), i commenti sprezzanti di Tru-
mp e una faida personale mai sopita. Con Biden la faccenda è più seria. I toni di Bezos sono molto duri: si parla del prezzo della benzina. Negli Usa il prezzo della benzina non è mai stato un tema, perché lì la benzina costa poco. Ma, adesso che le risorse energetiche sono scarse e l’inflazione pare incontrollabile, la benzina è diventata materia di discussione (in media costa 4,8 dollari al gallone, in calo rispetto a maggio ma pur sempre alto; per fare un paragone, un gallone è pari a circa 3,7 litri). Biden ha chiesto alle aziende che distribuiscono la benzina negli Stati Uniti di abbassare i prezzi alle pompe di benzina. C’è una guerra in corso, ha detto, non è il momento delle speculazioni, già il costo della vita è alto. Bezos è intervenuto, dichiarando che l’inflazione è un problema troppo grande perché possa essere affrontato con dichiarazioni di questo tipo
(superficiali, intendeva) da parte della Casa Bianca e ha aggiunto: o questo appello «è un’azione di depistaggio o c’è un profondo fraintendimento delle dinamiche di base del mercato». In entrambi i casi Bezos sposa due linee di attacco popolari contro Biden, che affondano le loro radici non solo nella contrapposizione politica che in America è sempre più arcigna, ma anche in un conflitto di visioni economiche e di calcoli per il futuro: quella che sembrava inflazione fisiologica è un vortice cui nessuno sembra in grado di porre rimedio. La prima linea di attacco ripresa da Bezos riguarda il fraintendimento. I repubblicani si sono messi ad attaccare sulle pompe di benzina degli adesivi di fianco allo schermo in cui compare l’importo da pagare. Questi sticker ritraggono Biden con un gran sorriso e la frase «I did it»: questo l’ho fatto io, se pagate tanto la benzina è merito mio. Ci
sono alcuni consiglieri democratici che sono preoccupati perché gli adesivi stanno frantumando la (pur vera) linea di Biden: è la guerra di Vladimir Putin contro l’Ucraina, immotivata e violentissima, ad aver causato l’aumento del prezzo della benzina e l’aumento dell’inflazione. O meglio, a creare l’emergenza e l’ennesima instabilità, perché gli Stati Uniti non sono direttamente dipendenti dalle risorse russe. La malagestione dell’inflazione è però il secondo filone di attacco nei confronti del governo americano e come spesso accade l’origine è tutta interna al mondo democratico: Biden non ha capito nulla dell’inflazione, ha pensato che fosse un fenomeno transitorio, l’ha sottovalutata e ora che è così alta non riesce più a domarla. Uno dei più noti sostenitori ormai da anni di questa tesi è Larry Summers, ex ministro clintoniano ed ex economista capo
obamiano, cioè uno che tra i democratici ha credito. Summers dice che l’Amministrazione e la Federal reserve hanno voluto negare l’evidenza, si sono comportati come se l’aumento dei prezzi fosse fisiologico e hanno continuato a spendere: ora tornare indietro è complicato. Naturalmente i repubblicani si sono trovati col piatto già apparecchiato e si sono abbuffati: la questione economica è quella più sentita in previsione delle elezioni di metà mandato a novembre. L’associazione delle imprese che gestiscono la distribuzione di benzina è stata anche più dura: speriamo che lo stagista che ha scritto il tweet di Biden con l’appello ad abbassare i prezzi alle pompe di benzina, quindi al consumatore finale, si iscriva a settembre all’esame di Economia 1. Come a dire questa Amministrazione non capisce nulla, che è quello che insinua anche Bezos, ed è un gran problema.
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Zig-Zag
di Ovidio Biffi
Il nostro agente all’Aja ◆
Ho subito pensato a un romanzo di Graham Greene (Our man in Havana, da cui venne tratto anche un fortunato film con Alec Guinness protagonista) quando i media hanno diffuso questa notizia che, sommersa dalla solita valanga di informazioni sulla guerra in Ucraina o sulla Covid che ritorna, ha avuto poco rilievo: le autorità governative olandesi hanno confermato di aver rifiutato lo scorso mese di aprile l’ingresso nel Paese a un cittadino brasiliano e di averlo imbarcato sul primo volo disponibile per il Brasile. Il brasiliano respinto era Victor Muller Ferreira, nato nel 1989, giunto in Olanda per iniziare a lavorare come stagista presso il Tribunale penale internazionale dell’Aja, quello che per alcuni anni è stato presieduto da Carla Del Ponte e che da alcuni mesi sta indagando su sempre più evidenti crimini di guerra della Russia in Ucraina. L’uomo
espulso dall’Olanda, in realtà, era una spia russa. Non si chiama Victor, non è nato nel 1989 e non è nemmeno brasiliano: il mancato stagista del Tribunale penale internazionale (CPI) era Sergey Vladimirovich Cerkasov, nato nel 1985 in Russia e da anni agente del GRU, l’intelligence militare russo. La notizia di questo «piccolo» fallimento dell’intelligence russa riporta in primo piano la strategia perseguita sotto la guida di un Putin che, come noto, è stato, fino all’ultimo, attivo agente del KGB sovietico. Come rivela David Puente sul sito open.online, l’agente sovietico respinto in Olanda aveva preparato la sua assunzione al CPI inventando una storia strappalacrime e curando tutti i particolari, tranne uno. In breve: Victor affermava di essere nato a Rio, di aver scoperto che la madre biologica era morta poco
dopo la sua nascita e per questo lui aveva perso nel tempo i legami con ogni persona a lui cara. In Brasile era curatore anche di un blog personale (Politicsofus.net) incentrato su argomenti di geopolitica e di ideologia filo occidentale, sul quale esibiva commenti quasi certamente fasulli o comunque pilotati, utili a garantirgli una copertura anti-russa e rafforzati con la condivisione di indagini di Bellingcat, l’agenzia di giornalismo investigativo fondata dal giornalista britannico Eliot Higgins. Ed è qui che casca il povero Victor: incuriositi dal fatto che un cittadino brasiliano dimostrasse tanto interesse per i loro servizi, i redattori di Bellingcat hanno indagato e alla fine hanno potuto segnalare alle autorità olandesi che lo stagista brasiliano in realtà era un agente russo del GRU: il semplice spostamento di Victor dal Brasile all’Aja avrebbe consentito al
Cremlino di avere una sua talpa non in Olanda ma al CPI. Quindi il fallimento di Victor è anche una conferma di quanto stia mutando il panorama dello spionaggio. Certo, i fondamentali sopravvivono. Tuttavia ciò che i servizi segreti del Cremlino cercano di raggiungere, oggi non si limita alla raccolta di informazioni militari, politiche o tecnologiche, ma si spinge sino ad attivare presenze fisiche anche in enti o organizzazioni come il Tribunale penale internazionale dell’Aja in cui i cittadini russi non potrebbero mai avere accesso. Questa operazione di spionaggio, oltre a segnare un aggiornamento nelle strategie dell’intelligence russa, sottolinea anche la necessità di rivolgere maggiore attenzione a quanto il Cremlino sta mettendo in atto in Europa e, verosimilmente, un po’ in tutto il mondo. E forse è ipotizzando una simile «escalation» che, su-
bito dopo l’avvio dell’invasione dell’Ucraina, diversi paesi hanno proceduto a massicce espulsioni di «diplomatici» russi (oltre 150 nella sola Europa) e ora stanno estendendo indagini e controlli anche a «opinion leader» che continuano a rilasciare dichiarazioni di sostegno del regime putiniano sui social e nei media. Pur escludendo possibili o romanzate implicazioni (tipo: all’Aja qualcuno stava aspettando lo «stagista» Victor?), l’obiettivo dell’operazione olandese dimostra abbastanza chiaramente una verità: il Cremlino teme gli accertamenti che il Tribunale penale internazionale sta raccogliendo sui crimini di guerra compiuti dai suoi soldati in Ucraina e il GRU è già all’opera per conoscere e prepararsi a confutare prove e future accuse che il CPI presenterà contro Putin e il suo esercito. All’Aja comunque, anche senza Victor, si scava.
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Anno LXXXV 11 luglio 2022
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CULTURA ●
Senza Peter Brook Storia della carriera e dell’idea di un «teatro elementare e necessario» che ci lascia in eredità uno dei più grandi registi del Novecento
L’incontro con Giona Nazzaro Dal primo amore, quello letterario, al cinema, il direttore artistico del Locarno Film Festival si racconta lanciando la 75esima edizione
Esordi e successi di Fernando Corena La straordinaria ascesa del cantante e attore ginevrino applaudito in tutto il mondo che scelse Lugano per ritirarsi dalla scena
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Un quartiere per l’arte, la fotografia e il design Musei
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Con l’inaugurazione del nuovo edificio sede del MUDAC e del Musée de l’Elysée si completa a Losanna la Platforme 10
Elio Schenini
Con l’inaugurazione del nuovo edificio, progettato dallo studio portoghese Aires Mateus, in cui avranno sede il MUDAC e il Musée de l’Elysée, si è completato nelle scorse settimane il progetto di Platforme 10, una sorta di quartiere museale nato per riunire in quella che un tempo era un’area industriale a fianco della stazione, i tre principali musei di Losanna. Se oggi è il momento della festa e della gioia per il traguardo raggiunto, è giusto anche ricordare che questa inaugurazione è in qualche modo l’atto finale di un processo lunghissimo che ha avuto inizio negli anni Novanta e che è stato contrassegnato da lunghe discussioni e polemiche ed è dovuto passare anche da una votazione popolare negativa. Oggi però, vedendo i risultati, ci sembra di poter dire che pur andando piano, o anzi, per dirla meglio, proprio perché è andata piano, Losanna ha saputo andare lontano. Platforme 10 si presenta infatti come una realtà unica nel contesto nazionale, che ha saputo creare sinergie e collaborazioni tra istituzioni diverse, riqualificando una vecchia area industriale nel cuore della città. Questo anche a dimostrazione del fatto che il dibattito pubblico, anche acceso, non deve essere visto come un fastidioso intralcio ad una visione efficentista e sbrigativa della cosa pubblica, ma come uno strumento essenziale per dare vita a progetti condivisi destinati a durare nel tempo. Per parlare di questa nuova realtà abbiamo incontrato Chantal Prod’Hom, direttrice del MUDAC e dal 2015 al 2020 presidente del Consiglio di direzione di Platforme 10. Lei che questa vicenda l’ha seguita fin dall’inizio, ci spiega qual è la specificità di Platform10 nel panorama museale svizzero e quali sono le ragioni che vi hanno portato a puntare su questa soluzione? Dopo il voto negativo del 2008 che ha bocciato l’idea di un museo ai bordi del lago, la nuova sede scelta per il Museo Cantonale di Belle Arti (MCBA) ha rappresentato una straordinaria manna dal cielo: le Ferrovie Federali Svizzere avevano appena deciso di lasciare il sito di 25’000 mq che occupavano accanto alla stazione ferroviaria di Losanna per una nuova sede più adatta alle loro esigenze (riparazione di locomotive), liberando così uno spazio eccezionale nel centro della città, uno spazio che era sempre stato completamente chiuso al pubblico. È stata la dimensione del sito a far nascere l’idea (a lanciarla è stato Pierre Keller) di installarvi non uno ma tre musei, scegliendo, oltre al MACBA, due istituzioni di Losanna insediate in antichi palazzi molto belli ma non adatti alle esigenze
do molto evidente, nel campo delle arti dello spettacolo (teatro, danza, musica) – fornendo mezzi e sostegni adeguati. Il progetto di Losanna è unico nel suo genere, in quanto non si tratta di un ampliamento di musei esistenti, ma della creazione di un grande distretto artistico (composto da tre musei ospitati in due nuovi edifici progettati da due diversi architetti) nel centro di una città dinamica e di una stazione ferroviaria che sarà fortemente sviluppata (si prevedono 200’000 passeggeri al giorno entro il 2030).
Sopra, un momento dell’inaugurazione il 15 giugno scorso, sullo sfondo il nuovo edificio che ospita il MUDAC e il Musée de l’Elysée. (© Wiliam Gammuto) Sotto, la direttrice del MUDAC Chantal Prod’Hom. (© Etienne Malapert)
museali. Il concorso di architettura per il MCBA è stato quindi integrato da un concorso di idee per la creazione, sullo stesso sito, del Musée de l’Elysée e del MUDAC. Riunire tre discipline complementari aveva senso anche in termini di creazione di un vero e proprio distretto artistico. L’ambizione del progetto è stata quindi fin dall’inizio quella di non limitarsi a spostare tre musei, ma di creare un nuovo quartiere nel centro della città, accanto a una stazione ferroviaria particolarmente attiva. Se l’idea di riunire tre musei in un unico luogo, composto di due edifici, può apparire suggestiva e indubbiamente attrattiva per il pubblico, dal punto di vista organizzativo e gestionale può risultare più complesso armonizzare le esigenze di istituzioni, comunque
indipendenti, all’interno dell’entità unitaria rappresentata da Platform10. Il modello di governance scelto è quello di una fondazione di diritto pubblico, con un proprio consiglio di fondazione e il cui comitato direttivo oltre che da un direttore generale è composto dai direttori dei tre musei. Ci può spiegare nella pratica come funziona questo sistema e come vengono risolti i potenziali conflitti? La nuova struttura, in funzione da gennaio 2021 si compone di un’unica Fondazione, Platforme 10, e di una Direzione generale. L’organo esecutivo dell’insieme è il Consiglio di direzione, che comprende i direttori dei tre musei, il responsabile dell’amministrazione e delle finanze, il responsabile delle risorse umane e il Direttore generale, che è anche colui che presiede il Consiglio di direzione. Tutte le decisioni pratiche e organizzative sono prese all’interno di questo organo. La programmazione dei musei è di competenza dei tre direttori. Il punto più importante di questa organizzazione è che i direttori gestiscono i rispettivi musei in piena autonomia dal punto di vista artistico. Tutti gli altri aspetti operativi sono discussi e decisi nelle riunioni del Consiglio di direzione. Da un anno e mezzo a questa parte, queste riunioni, che hanno cadenza settimanale, permettono di discutere tutti i complessi aspetti organizzativi che riguardano i tre team e la Direzione Generale (circa 130
persone). Stiamo imparando a lavorare insieme e, cosa significativa, i tre direttori in carica al momento dell’introduzione di questo modello di governance lasceranno il loro posto nel 2022 (Photo Elysée ha una nuova direttrice dal primo giugno, il MCBA un nuovo direttore dal primo luglio e il MUDAC lo avrà dal primo gennaio del prossimo anno). I tre nuovi direttori svilupperanno quindi il progetto con l’attuale struttura di Plateforme 10. Negli ultimi anni la realtà dei musei d’arte svizzeri è stata caratterizzata da ampliamenti, ristrutturazioni, nuove edificazioni. Oltre a Losanna possiamo ricordare il Kunsthaus di Zurigo, il Kunstmuseum di Basilea e quello di Coira. Tra poco toccherà anche alla Fondazione Beyeler. Possiamo leggere questo fervore architettonico e questo diventare più grandi come una testimonianza del buono stato di salute dei musei d’arte e dell’importanza del loro ruolo culturale all’interno della società oppure si tratta semplicemente di attrarre più pubblico? Penso che l’aspetto «turistico» abbia un ruolo trainante in tutti questi progetti, ma è sempre associato alla dimensione culturale. La Città di Losanna, da molti decenni incoraggia in maniera importante la cultura, sostenendo le sue numerose iniziative e strutture – non solo per quanto riguarda i musei ma anche, in mo-
Oltre a coniugare sobrietà formale e impatto visivo, il progetto architettonico di Manuel Aires Mateus sembra anche estremamente funzionale. Quali sono le caratteristiche principali del nuovo edificio? La luce e la capacità di padroneggiare e articolare gli spazi vuoti sono le caratteristiche principali dell’architettura dei fratelli Aires Mateus. L’impressionante geometria della hall d’ingresso, costruita da diagonali che definiscono forme piramidali e sfaccettature molto spettacolari, ha una sorprendente qualità funzionale. L’intero spazio è fluido, tutte le funzioni (ricezione, biglietteria, lounge, bar e museumshop) sono interconnesse e fluide. I due piani destinati alla presentazione delle collezioni e delle mostre temporanee dei due musei (1500 mq ciascuno) sono semplici, aperti e perfettamente funzionali. La qualità della luce zenitale negli spazi espositivi del MUDAC è unica e lo fa vivere con il tempo atmosferico. Le collezioni di entrambi i musei sono invece conservate al secondo piano interrato, climatizzate e accessibili con un ascensore. Lei ha già annunciato il suo pensionamento a partire dall’inizio del prossimo anno e la ricerca del nuovo direttore/direttrice è già iniziata. In virtù dell’esperienza maturata in questi anni che hanno portato alla nascita di Platforme 10, qual è il consiglio principale che vorrebbe dare al suo successore? Di proporre la propria programmazione approfittando di questo meraviglioso strumento con cui avrà la possibilità di lavorare. Il MUDAC si è sempre caratterizzato per una programmazione multidisciplinare. Il contesto della Plateforme 10, che offre la possibilità di lavorare a fianco dei colleghi delle arti visive e della fotografia, permetterà di sviluppare queste collaborazioni in modo ancora più significativo e naturale. Informazioni Plateforme 10, Avenue LouisRuchonnet 1, Losanna. www.plateforme10.ch
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MONDO MIGROS
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CULTURA
Il teatro vivo e vivificante di Peter Brook Personaggio
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È morto a 97 anni uno dei più grandi registi del Novecento
Nel corso di un’avventura teatrale di insolita lunghezza, Peter Brook ha indagato mondi geo-culturali diversissimi fra loro (Europa, Africa, Asia), attingendo e adattando inventivamente modi espressivi propri delle loro tradizioni spettacolari, e compiendo scelte di repertorio apparentemente eclettiche. L’arco eccezionalmente ampio della sua attività di regista si configura tuttavia come un coerente processo di semplificazione e di avvicinamento a quello che lui chiamava «teatro elementare e necessario». «Elementare», in quanto teso al raggiungimento di un massimo di intensità attraverso il minimo impiego di mezzi extra-attoriali; «necessario», perché utile allo spettatore. E dicendo «utile» non si vuol dire didascalico, perché Brook ha sempre creduto che il teatro deve essere anzitutto divertimento e comunicazione energetica. Nato a Londra nel 1925 da genitori russi emigrati prima in Francia, poi in Belgio, infine in Gran Bretagna, Brook firma la sua prima regia nel ’42, quando è studente a Oxford, mettendo in scena il Doctor Faustus di Marlowe. Nel ’45 e nel ’46, con la Royal Shakespeare Company, inscena Re Giovanni e Pene d’amor perdute. Unico e imprescindibile per profondità di sguardo, ampiezza di visione e intensità poetica, Shakespeare è l’autore al quale farà più volte ritorno, con risultati talora straordinari, come nel ’62 con Re Lear, e ancor più nel ’70 col meraviglioso Sogno di una notte di mezza estate: spettacolo che fece per due anni il giro del mondo, e in cui erano presenti due degli aspetti che si ritroveranno in tutta la sua successiva attività registica: la semplificazione (nel corso del tempo sempre più radicale) dell’apparato scenografico, e l’impiego, per gli allestimenti al chiuso, dell’illuminazione a giorno. Dei suoi venti spettacoli shakespeariani, sono di assoluto rilievo anche
La tempesta del 1990 (che era un’ulteriore e affascinante tappa nel viaggio di approfondimento delle culture teatrali extraeuropee, in particolare del teatro orientale), e La tragedia di Amleto del 2001 (Amleto era il trentacinquenne William Nadylam, di padre africano e madre indiana, e il pubblico era disposto lungo tre lati di un tappeto quadrangolare color rosso fiamma che era lo spazio quasi vuoto di una rappresentazione in piena luce). Quanto agli spettacoli degli anni Sessanta (coi quali intendeva concretizzare il suo modo d’intendere i principi artaudiani del «teatro della crudeltà»), menzionerò soltanto la messinscena de Il balcone di Jean Genet (1960), e quella, sconvolgente, famosissima, del Marat/Sade di Peter Weiss (1964), di cui nel ’66 diresse anche un’affascinante trasposizione cinematografica. L’anno del Sogno, il 1970, è anche l’anno di un svolta decisiva. Accogliendo certe suggestioni del «teatro povero» di Grotowski, Brook si trasferisce a Parigi e fonda il Centre International de Recherches Théâtrales (C.I.R.T.), che nel ’71, a Persepoli, rappresenta Orghast: uno spettacolo con 25 attori di nazionalità diverse, e una lingua appositamente elaborata dal poeta Ted Hughes mescolando suoni e parole tratte anch’esse da lingue diverse. Con questo spettacolo, Brook si proponeva di «scoprire le condizioni per elaborare un teatro della semplicità, un teatro capace di parlare a spettatori completamente diversi tra loro per bagaglio culturale». Altra data fondamentale è il 1974: Brook assume la direzione del malandato Théâtre des Bouffes du Nord (situato nel decimo arrondissement, in prossimità della Gare du Nord), lo rende agibile a norma di legge e ne fa la sede della sua compagnia. L’anno seguente va in scena uno spettacolo a
Keystone
Giovanni Fattorini
mio parere poco riuscito, Gli Iks (ispirato dalla lettura di un libro dell’etnologo inglese Colin Turnbull e da un viaggio di ricognizione in Africa compiuto con la compagnia), che si occupa di una tribù africana prossima all’estinzione. Dall’interesse sempre più vivo per le realtà culturali e geo-politiche dell’Africa nasceranno altri spettacoli. Ne menzionerò solo uno del 1989 che mi è piaciuto molto, Woza Albert, basato su un testo satirico anti-afrikaner splendidamente interpretato da due soli attori (il senegalese Mamadou Dioume e il malinese Macary Sangaré) che davano vita a una ventina di personaggi. La ricerca di una forma elementare di drammaturgia raggiunge il suo culmine col fluviale e splendido The Mahabharata (di cui Brook dirige anche una versione filmica), ispirato
al monumentale poema epico indiano composto di circa 120’000 strofe (lo spettacolo, che durava dalle nove di sera alle sei del mattino, debuttò nel luglio del 1985 in una cava a circa 15 km da Avignone). Altri spettacoli basati su un testo drammatico meriterebbero almeno una menzione. Mancando lo spazio, concluderò parlando brevemente della messinscena di un’opera lirica: il Don Giovanni di Mozart, presentato in prima mondiale al Festival di Aix-en-Provence (il giovane Daniel Harding dirigeva la Mahler Chamber Orchestra) il 9 luglio del 1998. «Don Giovanni non è il “gran peccatore”. È un uomo che vive l’istante, è così che si presenta ai nostri occhi, vive l’istante con incredibile verve». In questa dichiarazione erano condensate le motivazioni fondamenta-
li della vitalistica, meravigliosamente fluida concertazione di gesti e movimenti dei cantanti diretti – in quanto attori – dal regista anglo-francese. Ancora una volta, sorprendeva e affascinava un tratto peculiare della genialità di Brook: la capacità di coniugare la verità (cioè il realismo) del gesto attoriale e l’antinaturalismo degli elementi scenici. Lo spazio dell’azione era un praticabile quadrangolare, leggermente aggettante oltre la ribalta e sempre illuminato a giorno. Alla fine, per consentire agli interpreti di ringraziare il pubblico, il praticabile veniva rapidamente liberato dai pochi e semplici arredi: diventava «lo spazio vuoto» (the empty space) – che è anche il titolo di un famoso saggio di Brook – dotato del potere di attirare a sé gli attori-personaggi, traendoli dalla zona d’ombra che lo circondava.
Gianandrea Noseda al Verbier Festival Musica
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Il direttore d’orchestra sostituirà Valery Gergiev, lo zar del podio e figura cardinale delle edizioni passate della rassegna
Enrico Parola
Seppur non preannunciato, Gianandrea Noseda sarà il grande protagonista del Festival di Verbier: dirigerà il concerto inaugurale e altri tre degli appuntamenti più attesi, tra cui Un ballo in maschera di Verdi (la Messa da requiem del Cigno di Busseto interpretata tra queste montagne nel 2013 è ancora visibile integralmente sul sito del festival). D’altronde in questo periodo la Svizzera sta caratterizzando la sua carriera: oltre a essere alla guida della National Orchestra di Washington dopo esserlo stato a Torino e alla BBC, e a salire sui podi più prestigiosi del pianeta (ha anche diretto il concerto per la consegna dei Nobel), il direttore d’orchestra è stato chiamato a condurre l’Opernhaus di Zurigo: «Sto dirigendo Tristan und Isolde e mi attende Falstaff: è un ambiente cosmopolita, l’orchestra raggruppa musicisti di 26 Paesi, il livello della masse artistiche è straordinario, frutto della traiettoria virtuosa tracciato in questi anni» racconta il maestro nato a Milano 58 anni fa, che subito si concentra sui tre concerti che lo
attendono sul podio dell’orchestra del Festival. «A Verbier ci sono già stato, è una realtà che conosco bene come la sua orchestra, una formazione di giovani talenti che hanno lo smalto tecnico e l’energico entusiasmo di chi sta iniziando il suo percorso nella ribalta maggiore; mi è capitato di andare in un teatro e ritrovarmi davanti alcuni orchestrali che mi dicevano: “Maestro, si ricorda? Abbiamo suonato assieme Tosca a Verbier?”; faremo sicuramente musica con tanta energia».
La sua presenza tra le vette elvetiche, quest’anno, si lega alla guerra: Noseda è stato chiamato a sostituire Valery Gergiev, lo zar del podio che nelle edizioni passate era stato la figura cardinale della rassegna, ma in questi ultimi mesi non ha più diretto in Europa a causa della sua vicinanza a Putin; vicino e molto era stato anche Noseda a Gergiev, che nel 1997 lo aveva scelto come direttore principale ospite del Mariinskij di San Pietroburgo, un onore mai attri-
Gianandrea Noseda dirige l’orchestra sul palco di Verbier. (© Nicolas Brodard)
buito a un musicista non russo. «Al Mariinskij, in tutti gli ambiti del teatro, lavoravano russi, ucraini, georgiani e così via; è struggente ricordare oggi quell’esperienza. Non voglio ora parlare di guerra, a chi ha colpe la storia presenterà il conto; vorrei però rimarcare come la cultura e l’arte sono sempre un inno alla bellezza e alla verità dell’uomo, un ponte che unisce e un’occasione di dialogo; ostracizzare o addirittura bandire letterati, pittori e musicisti di una certa nazione per ciò che accade anche secoli dopo di loro è un’assurdità». Proprio per questo Noseda ha voluto mantenere gli stessi programmi pensati da Gergiev: in tutti e tre i concerti ci saranno sinfonie di Shostakovich e brani del moscovita Rodion Schedrin, di cui si festeggiano i novant’anni. «Ci fu un periodo in cui Shostakovich viveva letteralmente con la valigia in mano: non era ben visto dal Partito Comunista e c’era la non remota possibilità che venisse deportato in Siberia. Suoneremo la prima sinfonia, compito di Conservatorio di un geniale diciannovenne, la quarta, che è una del-
le mie preferite per la sua forza, e la quindicesima e ultima, un addio alla vita e alla musica vibrante di echi di Rossini, Mahler e Wagner, Glinka e sue stesse opere. Ciò che mi colpisce nella sua scrittura è la nettezza: come Mozart, è sempre chiaro quello che vuol dire, non ci sono fraintendimenti o dubbi possibili». Discorso diverso con Schedrin: «Non avevo mai affrontato questi tre brani, li ho studiati a Zurigo tra prove e serate; è un autore che ha vissuto tutta la storia russa recente, dal Comunismo al suo crollo fino ai giorni nostri, e che ama dialogare con la storia musicale; eseguiremo i suoi Frammenti ispirati al Testamento di Heiligestad di Beethoven, i Dialoghi con Shostakovich e il secondo concerto per pianoforte, che vedrà solista una giovane e talentuosa ucraina, Anna Fedorova; è simbolico che ci sia proprio lei davanti alla partitura di uno dei più importanti compositori russi contemporanei». Dove e quando Verbier Festival, dal 16 al 22 luglio. www.verbierfestival.com
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MONDO MIGROS
LE MUCCHE FELICI FANNO IL LATTE MIGLIORE
Il latte da bere in vendita alla Migros è solo di mucche al pascolo. Come vivono le mucche secondo lo standard IP-Suisse e cosa rende diverso il loro latte?
Perché solo latte di pascolo?
Che cos’è il latte di pascolo?
La Migros vende esclusivamente latte prodotto da mucche al pascolo. Il latte da bere proposto dalla Migros, quale che sia la categoria di prezzo, soddisfa come minimo i requisiti IP-Suisse. In più ci sono le varianti bio, che rispondono alle specifiche Bio Suisse e Demeter. Con il nuovo standard la Migros riconferma il proprio impegno a favore del benessere delle mucche da latte e il proprio sostegno a un’economia lattiera svizzera all’insegna della sostenibilità.
Per latte di pascolo s’intende quello prodotto da mucche allevate secondo criteri ben definiti: i bovini hanno tanta libertà di movimento all’aperto e durante la stagione vegetativa pascolano liberi nei campi. In estate mangiano quindi l’erba fresca dei pascoli e in inverno si cibano soprattutto di foraggio insilato, del tutto privo di soia.
L’etichetta IP-Suisse I prodotti con il marchio di qualità IP-Suisse si riconoscono dal simbolo della coccinella rossa sulla confezione. Gli agricoltori e gli allevatori aderenti producono in Svizzera nel massimo rispetto dell’ambiente e degli animali, che vengono allevati tenendo conto delle loro specifiche esigenze.
Foto: Getty Images
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Anno LXXXV 11 luglio 2022
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CULTURA
Il Film Festival di tutti Cinema
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Giona Nazzaro si racconta presentando la 75esima edizione
Natascha Fioretti
Classe 1965, nato a Zurigo, critico cinematografico, Giona Nazzaro dal 2021 è il direttore artistico del Locarno Film Festival che per la sua 75esima edizione ci aspetta dal vivo in Piazza Grande e dintorni dal 3 al 13 agosto. Una vita nel cinema, prima di approdarvi, negli anni della sua formazione Giona Nazzaro ha coltivato un altro grande amore, quello per la letteratura: «L’idea di dedicarmi a un percorso di studi fatto di libri, di note a piè di pagina, di dettagli filologici, mi intrigava molto così come l’idea di sprofondare nei libri. Poi però c’era il cinema e il cinema è sempre stato un universo che mi ha affascinato con la sua estrema diversità. La letteratura mi imponeva un percorso, il cinema, invece, era aperto, poteva permettermi di dialogare contemporaneamente con Ozu e Rossellini, John Ford e Howard Hawks. Per questo, al momento di decidere, ho preso la strada del cinema». Il programma della nuova edizione è stato presentato il 6 luglio scorso (tutte le informazioni sono su www. locarnofestival.ch), noi vi raccontiamo lo spirito e la visione del direttore artistico. Se dovesse scegliere due parole per dare un’identità a questa 75esima edizione del Festival quali sceglierebbe? Libero e inclusivo. «Libero» fa pensare al Pardo alla carriera al regista Costa-Gavras. Costa-Gavras è un autore che con i suoi film ha attraversato tutta la storia del XX secolo. Un autore che è scappato da un paese in uno stato di dittatura ed è diventato assistente collaboratore di alcuni dei registi francesi più importanti dell’epoca. Ha raccontato i mali di un mondo diviso da una guerra fredda spietata. Ha raccontato i volti più oscuri dell’imperialismo statunitense, gli orrori dello stalinismo e allo stesso tempo ha sempre tentato di dialogare con il numero più ampio possibile di spettatori. L’artista è per Costa-Gavras una persona che dialoga con altri individui, dunque, lui ha sempre interpretato il suo essere regista non in chiave solipsista ma come un artista che si pone deliberatamente in una posizione di interlocuzione collettiva. Questo ha
fatto sì che dopo gli anni dell’impegno legato soprattutto agli anni 70, la cinefilia più esigente gli ha un po’ voltato le spalle perché sembrava non condividere le urgenze formalistiche di tutta una serie di autori. In realtà Costa-Gravas è un classico, un autentico maestro, rivedere oggi i suoi film significa scoprire un cineasta che non solo ha detto cose importanti ma lo ha fatto sempre esplorando la forma cinematografica. Film come La confessione, L’affare della Sezione Speciale sono assolutamente straordinari. Un noir come Compartiment tueurs, la sua opera prima, è un film straordinario che vedremo in Piazza Grande insieme a Un homme de trop, altro film clamoroso per come racconta le ambiguità morali di chi subisce un’invasione e deve assumersi l’onere di respingere questa aggressione ma allo stesso tempo è costretto a riflettere su come non replicare l’ingiustizia subita per mantenere il proprio principio. Ci sembrava giusto riportare l’attenzione su un cineasta che oggi è dato troppo facilmente per scontato. «Incarna con suprema libertà un’idea di artista e di cinema americano che amiamo profondamente» si legge nella nota che motiva il premio alla carriera a Matt Dillon. Esiste ancora questa idea di cinema americano? Esiste ormai un po’ di meno. Poi quando si parla cinema americano si rischia sempre di essere o generici o superficiali. Matt Dillon teoricamente era il classico attore che non sarebbe dovuto durare più di una stagione. A dar retta alle critiche dell’epoca, passati gli anni della pubertà, avrebbe dovuto scomparire e invece con una grandissima intelligenza artistica e con un grandissimo acume strategico non solo è sopravvissuto, non solo si è affermato portando avanti scelte mai convenzionali ma ha saputo trovare un ambito nel quale esistere come Matt Dillon cambiando continuamente. È il ragazzo della 56esima strada, è Rusty il selvaggio, è uno di Tutti pazzi per Mary però è anche il serial killer spietato del film di Lars Von Trier, è il tossicomane di Drugstore Cowboy. Già solo citando questi film ci si rende conto che in ognuno lui è contemporaneamente Matt Dillon ma è anche quel personaggio
lì. È uno dei pochi ad aver conservato la propria identità pur sparendo sempre nel ruolo che gli veniva offerto. Pur essendo un attore estremamente dotato di lui si ricordano i personaggi e non i manierismi legati a una scuola di recitazione piuttosto che a un’altra. L’altra cosa interessante è che Matt Dillon è diventato l’idea di un cinema americano e non la somma dei ruoli che ha interpretato. È una cosa che si può dire solo dei grandissimi. Questo attore ha una grandissima e straordinaria opacità hollywoodiana che io intendo come il maggiore dei complimenti che si possa fare a un interprete. L’interprete opaco è la nostra porta privilegiata per sparire in un film. Se l’interprete è troppo evidente noi restiamo davanti alla porta a contemplarne il taglio, la serratura, il materiale, a chiederci se si entra con il codice o con la chiave. Gli attori meravigliosamente opachi danno l’impressione di essere aperti, di non fare nulla, mentre invece fanno tantissimo. Con il premio a Matt Dillon volevamo onorare questo modo di lavorare. Renderete omaggio anche a Douglas Sirk con una bella retrospettiva. Qual è la sua attualità? L’attualità di Sirk è l’attualità dei maestri e i maestri sono sempre attuali. In un momento storico in cui si discute molto del riequilibrio delle asimmetrie tra donne e uomini, delle asimmetrie di genere, un cineasta come Douglas Sirk che ha affrontato le complessità relazionali tra uomini e donne, donne e donne, uomini e uomini, tocca molto da vicino molte delle corde contemporanee. Sirk è un cineasta estremamente moderno. Per molto tempo è stato considerato soltanto un autore di fotoromanzi perché i suoi film sembravano non avere uno stile, avevano un elemento melodrammatico molto forte, e si faceva un po’ fatica a capire cosa esattamente stesse dicendo questo signore. Jean-Luc Godard dichiarava in modo molto perentorio che lui aveva ragione ad amare Douglas Sirk e gli altri avessero torto a non apprezzarlo. «La verità è nei miei occhi» diceva a proposito di uno degli ultimi film di Sirk; aveva ragione lui, figurarsi. Parlando di Costa-Gavras diceva che i suoi film erano per un ampio
numero di spettatori. Lo è anche il suo Festival? Il Locarno Film Festival non è di Giona Nazzaro ma della gente che viene al Festival. Io credo profondamente in un cinema che sia d’autore, forte, radicale ma che desidera mettersi in comunicazione con il pubblico. Non credo in un cinema che deliberatamente sceglie di essere per pochi. Parafrasando, il voler essere per pochi è una malattia infantile del cinema d’autore ma il cinema senza pubblico non può esistere, il pubblico ha bisogno del cinema, il pubblico ha bisogno di incontrare il cinema. I grandi film del passato che oggi apprezziamo e definiamo dei classici sono tali perché hanno incontrato lo sguardo di milioni e milioni di persone. Sto pensando a Viaggio a Tokyo di Ozu, Viaggio in Italia di Rossellini, Fino all’ultimo respiro di Godard, sto pensando a Buster Keaton, a Alfred Hitchcock. Se i loro film restano è perché hanno significato qualcosa per più generazioni. Dico semplicemente che se devo scegliere tra una sala piena e una sala vuota, scelgo sempre la sala piena. E se voglio riempirla scelgo un film che sia motivato cinematograficamente, sia espressione di un punto di vista autoriale e sia in grado di avere una conversazione con il pubblico. Nonostante la consapevolezza che abbiamo nei confronti della complessità della situazione relativa all’industria cinematografica e audiovisiva, non per niente abbiamo istituito la cattedra per il fu-
turo del cinema, nulla ci impedisce di desiderare di entrare in contatto con il numero più ampio possibile di persone senza giocare al ribasso. Uno dei pregiudizi, anche inconsapevoli, di chi giudica l’esito di una manifestazione culturale è quello di pensare che se ha avuto successo allora qualcuno deve avere giocato al ribasso. Spesso e volentieri si tende a sottovalutare l’intelligenza del pubblico. Il pubblico non è questa massa informe in movimento spinta da un telecomando occulto. Il pubblico va lì dove si sente rispettato. La sfida di Locarno è avere un programma ambizioso in linea con la sua storia che sia in grado di interpellare l’emozione dell’immagine in movimento in tutte le sue forme e, allo stesso tempo, riuscire a creare una conversazione, coinvolgere il pubblico come possibile attore di questa conversazione. Questo lo rivendico con molta determinazione. Non credo nel conforto di un manipolo di persone che ti dicono «bene, bravo, bis!». Se la sala è vuota c’è qualcosa che non ha funzionato. C’è un modo per far capire alle persone la grandezza di un film enorme come Sátántangó di Béla Tarr e convincerli a restare in sala fino alla fine. Non c’è bisogno di essere elitari per amare delle opere ambiziose. È una questione di come vogliamo raccontare quello che facciamo e che ci piace. L’intervista integrale è disponibile sul nostro sito (www.azione.ch) Annuncio pubblicitario
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CULTURA
Artista della commedia Musica
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Sulle orme di Fernando Corena, cantante e attore dalle grandi doti che aveva uno stretto legame con Lugano
Carlo Piccardi
Figlio di padre turco e di madre italiana, Fernando Corena (1916-1984) nacque a Ginevra. La mescolanza delle origini, la carriera internazionale a cui deve la celebrità, non impedirono mai che egli si sentisse fondamentalmente svizzero e nel proprio paese ritornasse periodicamente a ritessere relazioni professionali e d’amicizia, fino a trasformare i soggiorni periodici nella sua casa di Castagnola, panoramicamente affacciata sul golfo di Lugano, in residenza definitiva dopo il ritiro dalle scene. Avviati gli studi di teologia all’università di Friburgo, la sorte volle che battesse una strada esattamente opposta, non appena scoperte le risorse dei propri mezzi vocali. Vincitore di un concorso locale a Ginevra, fu incoraggiato da Vittorio Gui a intraprendere la carriera di cantante. Fu a Lugano, nella seconda metà degli anni Trenta, che egli mosse i primi passi entrando a far parte della cerchia dei solisti riuniti da Edwin Loehrer intorno al Coro della Radio della Svizzera italiana. Corena partecipò quindi alla storia di quella che allora era denominata Radio Monteceneri, di un’iniziativa pionieristica non solo nel senso di aver avviato un discorso di novità nell’ambiente provinciale a cui allora era condannata la regione, ma (attraverso l’azione intensa e precorritrice del maestro sangallese) diventata un riferimento nella scoperta degli anti-
Fernando Corena al Palazzo dei Congressi in uno scatto del 27 maggio 1976 (Keystone)
chi repertori musicali italiani, fra cui le opere buffe su cui Corena forgiò le caratteristiche della sua personalità artistica. La scuola di Loehrer, legata alle necessità di frequenti trasmissioni in diretta e quindi di una lettura rapida di musiche sempre nuove, fu una palestra straordinariamente importante per un cantante istintivo, indot-
to ad autoregolarsi attraverso la disciplina del collettivo di cui faceva parte. I suoi inizi di carriera non gli consentirono subito di identificare i ruoli in cui si sarebbe poi rivelato magistrale interprete. In Italia apparve nel 1947, a Trieste come Varlaam nel Boris Godunov, mentre il debutto alla Scala nella stagione 1948/49 gli fu con-
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cesso addirittura in occasione di una prima esecuzione, nel Cordovano di Goffredo Petrassi. Nonostante l’antipatia mai celata per il repertorio teatrale moderno e contemporaneo, per conquistarsi una posizione egli dovette cimentarsi più volte con opere nuove, tra cui va menzionata L’Allegra brigata di Malipiero, opere che più tardi non praticò più ma la cui fortuna sarebbe stata incrementata dal valore della sua presenza. Da ricordare inoltre al Maggio musicale fiorentino la sua apparizione in Guerra e pace di Prokof ’ev, in Amahl e i visitatori notturni di Menotti, nel Figliol prodigo e in Venere prigioniera di Malipiero. D’altra parte, benché impegnato in ruoli insoliti, pubblico e critica si avvidero subito delle sue potenzialità fuori del comune. Dopo l’apparizione nel Cordovano diretto da Nino Sanzogno la sera del 12 maggio 1949, «Il Tempo» di Milano scriveva: «Il basso Fernando Corena, il vecchio tradito, si è rivelato un cantante ed un attore di doti grandissime». La regia di quel lavoro era del ventottenne Giorgio Strehler il quale trovò facilmente in Corena la collaborazione di cui abbisognava per il nuovo tipo di allestimento di cui era alla ricerca nel processo di svecchiamento di una tradizione teatrale italiana rimasta ferma ai luoghi comuni. In questo senso il successivo lavoro che ebbe modo di sviluppare con registi quali Luchino Visconti e Franco Zeffirelli, in una pratica teatrale alla ricerca di una più organica definizione del rapporto tra musica e scena, colloca Corena fra i protagonisti di quella stagione di rinnovamento. Proprio tale concetto di regia, che trovava le ragioni della stretta interdipendenza del movimento scenico nello sviluppo temporale della musica, sperimentava nella frenesia delle azioni che animano il tessuto dell’opera comica le sue potenzialità. Il ruolo del basso buffo, incarnato in modo insieme esemplare e naturale da Corena, risorgeva appunto in quegli anni come emblema di un teatro musicale ritrovato non solo nei suoi valori musicali ma anche in quelli di intense e sfaccettate caratterizzazioni. Attraverso i teatri della penisola nacquero quindi a nuova vita opere desuete quali La serva padrona di Pergolesi, L’osteria portoghese di Cherubini, e il Rossini rimasto in ombra dell’Italiana in Algeri e di Cenerentola.
La consacrazione definitiva avvenne con il debutto americano, nel 1954 al Metropolitan nella parte di Leporello. Il critico del «Musical America» riportava immediatamente che «Mr. Corena would seem to be a most valuable addition to the number of singing actor in the house». Pochi giorni dopo gli veniva già affidata la parte di Bartolo nel Barbiere e da allora la notorietà di Fernando Corena come basso buffo fu completa. In particolare di lui veniva apprezzato l’innato humor e il senso della misura. In occasione della ripresa newyorkese del Don Giovanni accanto a Cesare Siepi, col quale formò una coppia rimasta canonica, il primo novembre 1957 scriveva il «New York Herald Tribune»: «He is a good actor, not a clown, and he as an uncommonly good voice which is in no need of husbanding». Nel 1955 seguì il debutto inglese al Festival di Edimburgo nel Falstaff. Nonostante l’individuazione delle risorse del comico la sua intelligenza interpretativa gli consentì infatti di affrontare con pazienza e maturità di mezzi anche ruoli drammatici. Seguiranno le apparizioni a Parigi, Berlino, Monaco, Amsterdam, Bruxelles, Barcellona, Buenos Aires ecc. e ancora in Italia naturalmente, ma soprattutto a Vienna dove approfondì con il carattere anche l’eleganza dei ruoli mozartiani, culminati nell’impareggiabile interpretazione di Osmin nel Ratto dal serraglio a cui fu chiamato nel 1965 dal Festival di Salisburgo, sotto la regia di Giorgio Strehler. Ma fu soprattutto a New York che egli legò il suo nome. Stabilmente vincolato per un quarto di secolo al Metropolitan, vi aveva trovato la propria famiglia artistica, che in occasione del venticinquesimo lo festeggiò con una grande serata di gala. Il traguardo meritava bene di essere celebrato alla grande pensando alle ventisei stagioni consecutive, ai 18 titoli su un totale di 723 rappresentazioni ripartite tra Old Opera House, Lincoln Center e tounées varie. Più specificamente 121 volte Sagrestano in Tosca, 116 Bartolo, 76 Leporello, 53 Dulcamara, 52 Melitone ed altre figure meno appariscenti ma tutte caratterizzate da una profonda penetrazione della natura del comico. Fernando Corena era un artista completo: la bellezza del timbro vocale gli concedeva di primeggiare musicalmente con eleganza e raffinatezza, un istinto teatrale impareggiabile ne faceva un personaggio trainante, dall’effetto sicuro sul pubblico. I registi avevano poco da insegnargli, semmai il contrario. La lunga esperienza di palcoscenico aveva fatto maturare in lui idee originali di mess’in scena. Probabilmente, se la malattia non l’avesse impedito, negli ultimi anni avrebbe trovato modo di mettere a frutto questo suo patrimonio di conoscenze, inutile dire quanto prezioso in un mondo dello spettacolo in cui i registi si improvvisano e si impongono al di là del rispetto degli spartiti e dei valori musicali e drammatici. La sua scomparsa il 26 novembre 1984 a Lugano interruppe un discorso di promesse che una personalità tanto ricca poteva ancora realizzare, ma non ha potuto cancellare il ricordo e il significato di una carriera logica e completa nel suo svolgimento, che ha segnato un’epoca di crescita internazionale del melodramma e che di lui restituisce una figura esemplare d’antologia.
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CULTURA / RUBRICHE
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In fin della fiera
di Bruno Gambarotta
Non si può fermare il progresso ◆
Ho avuto il raro privilegio di visitare tra i primi la grande sala ipogea venuta alla luce nel corso degli scavi per la nuova linea della metropolitana di Torino. La signorina che mi ha guidato nella visita, un’archeologa giovane e valorosa (e perciò precaria), chiede di non essere citata e a malincuore mi adeguo. Si è anche raccomandata di non dire niente a nessuno. Non sto a descrivervi l’emozione provata entrando attraverso un cunicolo in un ambiente che, se fosse una chiesa sarebbe a navata unica, con volta a botte; ai due lati si aprono numerose nicchie, alcune spoglie e altre riccamente addobbate. Dalla parete di fondo, a metà altezza, aggetta una piattaforma che regge una statua in bronzo alta un paio di metri del dio Taurinus, un torello rampante intento a rosicchiare un grissino. Non ci sono più dubbi: ci troviamo nel luogo favoleggiato da secoli e che nes-
suno finora era stato in grado di trovare: il tempio dove veniva praticato l’antichissimo culto della «Torinesità». La nicchia di destra è contornata da un arco con il motto: «Ogni cosa a suo posto e un posto per ogni cosa» ed è dedicata al rito del «Se ne vale la pena». Sullo sfondo di un pannello ricoperto da una trama di locandine di spettacoli teatrali, film, concerti, balletti, cori, arte circense si staccano due automi a grandezza naturale con le tipiche fattezze dei torinesi. Inserendo un gettone nell’apposita fessura si può ascoltare un breve dialogo registrato. Per accentuare il senso della realtà i due automi muovono la bocca in sincrono. Il primo automa nomina il titolo di un evento in programma e poi domanda: «È uno spettacolo valido?». Risponde l’altro: «Conforme. In ogni caso c’è un messaggio forte. Merita. Ma poi non venga a prendersela con me se non le piace». Simmetrica a
questa nicchia si trova a sinistra quella dedicata al «Culto delle referenze»; da fessure nel muro escono cartigli più o meno lunghi a seconda delle frasi che contengono. Qualche esempio: «È tanto una brava persona, peccato quel vizio del bere, nessuno è perfetto». «Per essere brava è brava. Specie lontano da oggetti fragili. Addirittura perfetta per una famiglia abituata a mangiare e bere in piatti e bicchieri di plastica». Troppo lungo sarebbe descrivere tutte le numerose nicchie che si succedono ai due lati del tempio; dirò solo di quelle che più mi hanno colpito. La nicchia dei commercianti che dicono in coro di no a tutte le proposte della pubblica amministrazione. «Volete l’isola pedonale?» «No, i nostri clienti vogliono arrivare in macchina fin davanti al negozio». «Volete abolire l’isola pedonale?» «No, i nostri clienti ormai si sono abituati a venire da noi a
piedi». «Volete l’orario di apertura serale?» «I nostri commessi non si fermerebbero e i nostri clienti di sera non escono». «Volete chiudere prima di sera?». «No. Vendiamo più di sera che di giorno». E così all’infinito. Audace è la nicchia detta dei «Direttori del personale»: gli automi che li rappresentano a turno si alzano dai loro scranni e proclamano: «La nostra più che un’azienda è una grande famiglia» e subito dopo fanno manichetta al visitatore che si trova a rivestire il ruolo del dipendente andato a chiedere un aumento o uno scatto di carriera. La nicchia dei «Consigli non richiesti» riproduce la sala d’attesa di un medico di famiglia, con le riviste dell’anno scorso sui tavolini e i propagandisti delle case farmaceutiche che si infilano nello studio del medico non appena apre la porta. Lì i discorsi si intrecciano. Molto istruttiva la nicchia delle «Notizie più che sicure». Molte, com’è
ovvio, fanno riferimento all’industria manifatturiera: «È più che certo, non è una fake sui social, a me l’ha riferito mio cognato che ha conosciuto in palestra l’autista del vice direttore: tempo due mesi chiudono baracca e burattini e trasferiscono tutta la produzione in Mongolia, là sono disposti a lavorare 18 ore al giorno pagate 8 e nella loro lingua non c’è la parola sciopero». Infine, nella nicchia centrale, in fondo alla sala, sotto la statua di Taurinus, sopra un ripiano di marmo che ricorda l’ara dei sacrifici, sono deposte tutte le cose nate a Torino e che da Torino sono state portate via: il cinema, la radio, la moda, la TV, l’aeronautica, il vermouth, l’intelligenza artificiale… Peccato che questa bella sala sia destinata a scomparire: blocca lo scavo della metropolitana e non si può fermare il progresso. I Torinesi tra le tante cose rimpiangeranno anche questa: una in più o in meno cosa cambia?
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Xenia
di Melania Mazzucco
Nino
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Una mattina di fine agosto, sulla tortuosa strada del Tusheti, nella Georgia nordorientale, la jeep avanza circondata da una nebbia impenetrabile. Dal viaggio di andata, ricordo che la strada non ha parapetti né barriere e corre sul ciglio della montagna, le curve sono brusche e i tornanti verticali. Nello strapiombo, carcasse di veicoli arrugginiti. Una strada impervia ed epica: l’unica che – attraverso il passo Abano – collega il Tusheti al fondovalle e al resto del paese: la regione è come un’isola, circondata dalle cime del Caucaso Maggiore, che formano il confine della nazione. L’autista, il volto celato da un berretto di lana fatto a mano, con motivi fantastici, guida alla cieca con sicurezza, mantenendo una velocità sostenuta. Deve ricondurre a valle gli escursionisti sparsi tra i sentieri del Tusheti: le previsioni annunciano neve, il passo sarà chiuso e la circolazione interrotta fino
all’estate prossima. Una frenata brusca ci proietta contro i sedili anteriori. «D** can!» bestemmia l’autista, con credibile accento veneto. Il resto del viaggio lo trascorriamo senza pensare più alla strada, alla nebbia e al burrone: Beso ci racconta la storia di sua madre. Nino è nata in una famiglia di pastori, in uno dei dieci villaggi medievali del Tusheti. Si trova a suo agio solo negli spazi aperti. Col marito, operaio a valle, è rimasta insieme giusto il tempo di fare due figli. Soldi sempre meno, unica prospettiva emigrare in qualche città. Nel 1996 una cugina di Telavi – svanita in Italia da anni – le propone un lavoro perfetto: vitto, alloggio e stipendio. Nino ha quarant’anni e non conosce altro che le sue montagne. Affida i figli alla sorella – il grande ha dieci anni, il piccolo, Bezo, sei – e parte. Diventa la badante di un’anziana con l’Alzheimer. Ha una stanza col bagno privato, ma intristisce nel condomi-
nio di pianura, in una cittadina in provincia di Venezia. La presenza di altre connazionali che l’hanno preceduta le rende meno aspra la solitudine. Rinuncia subito al suo nome, perché non sa spiegare che Nino, al suo paese, è un nome femminile. Diventa Nina. Parla georgiano e russo, perché l’ha studiato a scuola. Il figlio della signora inglese, la signora solo veneto. Nino accudiva pecore e cavalli, sa fare il formaggio e lavorare a maglia la lana, ma non ha esperienza di infermiera, non può leggere nemmeno i bugiardini delle medicine. Tuttavia è una donna ingegnosa, efficiente e ricca di fantasia: si organizza e riesce nell’impresa di assistere la sua datrice di lavoro meglio di quante l’hanno preceduta. La signora crede che Nino sia sua madre. Nino in verità bada a lei come alla figlia che non ha avuto – la cambia, la lava, la pettina, la sorregge: ma la strana famiglia tutta mentale che hanno creato funziona.
Vivono insieme per sei anni. Nino ci pensa giorno e notte, ma non torna mai nel Tusheti. La signora si spegne fra le sue braccia sussurrando «mamma mamma». Il giorno stesso del funerale Nino riceve tre offerte di lavoro, e può permettersi di scegliere la migliore. Resta in Veneto altri tredici anni, cambiando sei signore. Le accompagna nel declino, nel dolore, talvolta nella disperazione – tutte alla morte. Con le rimesse, il primo figlio studia, e diventa proprietario di una ditta di trasporti ad Akhmeta. Bezo invece è come lei: ama solo le montagne. Dai dieci anni, trascorre l’estate in Italia, dove pure Nino ha scoperto di avere diritto alle ferie. Quando incontra la madre non la riconosce: non esistevano ancora le videochiamate. Ma dopo due settimane con lei vorrebbe restare. Il lavoro di Nino non le permette di tenerlo con sé. Quando muore la settima signora, Nino rifiu-
ta tutte le offerte e ritorna. Restaura la casa di legno e pietra nel villaggio dei suoi, l’ultimo prima del baluardo di quasi quattromila metri che fa da confine col Daghestan. Raccoglie arnesi tradizionali, mobili, manufatti di artigianato. Ricomincia a fare la maglia e vende ai viaggiatori che si spingono fin lì calze di lana, cappelli e manopole. Quelle che ho addosso le ho comprate da lei: vi ha intrecciato gli stessi motivi che Bezo porta sul berretto. Era la donna col volto di pietra seduta sulla panca di legno, Nino. Non mi ha detto di conoscere l’italiano, gli faccio notare. L’ha fatto per te, ride Bezo. In Italia stava solo con persone che devono morire. Non vuole ricordarsi. È una donna piena di gioia. Ma sono io che devo ricordarmi di lei. Per sette italiane è stata un messaggero – l’angelo della soglia. Non ha raccontato a nessuna del suo mondo, di sé.
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A video spento
di Aldo Grasso
È la Storia che crea le parole ◆
Ma che cos’è lo scwha? È un carattere dell’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA), il sistema che viene utilizzato per definire la corretta pronuncia delle migliaia di lingue scritte che esistono nel mondo. È da collocarsi nel mezzo di tutto il sistema di vocali e la sua pronuncia è un suono indefinito. Il simbolo che definisce lo schwa è simile a una «e» rovesciata, « ». Tra le prime a parlare dello «schwa» in Italia è stata Vera Gheno, sociolinguista specializzata in comunicazione digitale nonché conduttrice di Linguacce, trasmissione radiofonica in onda su Rai Radio 1. «Lo schwa, dal punto di vista semantico, può funzionare come genere indistinto, perché indica un suono che sta al centro del rettangolo delle vocali, quindi è neutro come pronuncia: la vocale media per eccellenza. Per questo, mi sembrava particolarmente adatto a indicare un genere indistinto», ha detto Vera Gheno e
Chi ha paura dello «schwa»? Tantissimi, a giudicare dalle polemiche che stanno incendiando social, web e giornali da quando è uscito per Einaudi Così non schwa un pamphlet di Andrea De Benedetti. Dice in sintesi l’autore, 51 anni, linguista: va bene il «linguaggio inclusivo», ma l’esasperazione rischia di generare mostri e di trasformarsi in ricatto morale verso chi non si allinea. Usare quel segno a forma di «e» rovesciata diventa un obbligo quasi etico, imposto come vessillo del politicamente corretto nel nome del rispetto di ogni minoranza. Il libro è così presentato: «Il linguaggio inclusivo è un’idea seducente. Tuttavia il cuore del problema sta quasi sempre altrove. Perché i significati sono più importanti dei significanti. Perché includere certe categorie può significare escluderne altre. E perché le buone pratiche, ove fondate sul ricatto morale, rischiano seriamente di convertirsi in cattive regole».
durante un’intervista. Il suo, però, non vuole essere un tentativo di teorizzazione o una proposta strutturale ma «un modo per richiamare l’attenzione su un’istanza». Lei stessa, infatti, chiarisce che «nessuno sano di mente ha mai detto: “Aboliamo i generi e usiamo il genere indistinto”. Però ci sono persone che si sentono a disagio con il fatto che l’italiano ha solo maschile e femminile». Andrea Debenedetti mostra non poche perplessità: «Fin dagli anni Ottanta studiose come Alma Sabatini hanno posto il problema della rappresentanza femminile nella lingua. Come declinare al femminile cariche e professioni: “avvocatessa” o “avvocata”? Come superare il cosiddetto “maschile sovraesteso” o “maschile non marcato” per indicare una collettività mista? Viene di lì lo sdoppiamento in formule oggi comuni come “cittadine e cittadini”. Il problema sorge quando si vuol
dare rappresentanza a persone e comunità “non binarie”, che non si riconoscono in alcuno dei due generi. Lo schwa istituisce una terza desinenza. Reintroduce in sostanza il genere neutro nella lingua italiana… Lo schwa è sconosciuto a molti dialetti. Non è presente nell’italiano standard. Suscita un effetto straniante in chi parla e in chi ascolta. La lingua parlata nasce sempre prima di quella scritta, e la pretesa di impiantarlo nella lingua scritta senza prima farlo transitare dalla lingua parlata è una cosa innaturale, una forzatura che inverte la priorità ontologica del parlato rispetto allo scritto. E poi in chi vuole imporlo c’è un atteggiamento ideologico e anche un po’ ricattatorio». Andrea Debenedetti è convinto che la lingua sia anche uno strumento potente che cambia le cose, ma che sia uno strumento infinitamente più complesso delle componenti che ne costitui-
scono l’ossatura. La lingua, qualsiasi lingua, è fatta di contesti, di relazioni, di necessità. Molto del cosiddetto «Politicamente corretto» invece finisce per trasmettere un messaggio che è: «iniziamo dal lessico e poi tutto il resto verrà». E invece no. Bisogna iniziare da altro, risolvere le diseguaglianze, e poi il lessico verrà di seguito. Sono le parole che cambiano il mondo o viceversa? Nomina sunt consequentia rerum è una frase latina il cui significato letterale è «i nomi sono conseguenti alle cose»; è un’espressione che deve la sua notorietà soprattutto al fatto che fu citata da Dante Alighieri nella Vita Nuova (XIII, 4). Oggi abbiamo il compito di “dialogare con il linguaggio” aiutandolo a evitare parole espulsive che costruiscono capri espiatori oppure che svalutano o ignorano categorie specifiche già messe a dura prova dalla storia. È la Storia che crea le parole.
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