Azione 29 del 18 luglio 2022

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Anno LXXXV 18 luglio 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A.  Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

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SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

La pelle del bambino è soggetta a reazioni infiammatorie, ce ne parla la pediatra Cristina Delcò Volonté

Hackers, makers, bracconieri e falsi nueve, tutti, a modo loro, come moderni bricoleurs

L’uccisione dell’ex premier Shinzo Abe riporta il Giappone a un passato di violenza, incomprensioni

La street art dell’artista afghana Malina Suliman protagonista della mostra al Museo Casa Rusca

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Luigi Baldelli

Risaie in secca

Trump e la tentazione del colpo di stato Peter Schiesser

È agghiacciante la realtà che emerge dagli hearing alla Camera dei Rappresentanti sull’assalto al Campidoglio del  gennaio . Ricostruzioni dei fatti antecedenti, testimonianze, anche dei più stretti collaboratori di Trump e altri attori, mostrano una sua chiara strategia nel folle tentativo di non cedere la Casa Bianca. Trump ha fallito, ma ha portato gli Stati Uniti sull’orlo di un colpo di stato. La sua strategia si è articolata in tre filoni, adattandosi volta per volta alla situazione. Dapprima c’è stato il tentativo di usare il Dipartimento di giustizia per bloccare la certificazione del risultato delle elezioni negli Stati in cui il presidente aveva perso per poco, oltre che precedenti pressioni su funzionari e governatori di quegli Stati affinché trovassero voti in suo favore. Dimessosi William Barr dalla testa del Dipartimento di giustizia (DOJ), poiché riteneva ridicola la tesi del voto rubato, il presidente ha fatto pressione sul suo successore Jeffrey Rosen affinché indagasse i presunti brogli. Alla risposta che erano una pura fantasia, il presidente

ha brigato per installare alla testa del DOJ uno sconosciuto procuratore del dipartimento attivo in cause civili ambientali, Jeffrey Clark. Soltanto l’opposizione del suo intero staff e la minaccia di dimissioni in massa ai vertici del DOJ ha fatto desistere Trump. Che però non si è dato per vinto. Secondo filone: il  dicembre si è tenuta una strana riunione alla Casa Bianca fra il presidente, il suo avvocato Rudolph Giuliani, l’ex CEO di Overstock Patrick Byrne, l’avvocatessa Sidney Powell, l’ex ministro della giustizia Michael Flynn – tutti accomunati dalla mancanza di scrupoli nel mantenere al potere Trump. Informati d’urgenza, i consiglieri e i legali del presidente si sono precipitati nello Studio Ovale. Chi fuori dalla stanza sentiva le urla di quella riunione durata sei ore, in cui si è quasi arrivati alle mani, l’hanno definito «sconvolgente». Tutti i collaboratori di Trump hanno reiterato che quella dei brogli elettorali era una Big lie, una grande menzogna. Benché il presidente non cambiasse opinione, sono perlomeno riusciti a

fargli capire che l’idea di mandare l’esercito a sequestrare le macchine elettorali era un’assurdità e pure al di fuori dei poteri presidenziali. A questo punto Trump ha virato in direzione di un’insurrezione popolare: tre ore dopo, nel pieno della notte, ha inviato un tweet che ha portato dritto all’assalto del Campidoglio: «Grande protesta a D.C. il  gennaio. Be there, will be wild!» – venite, sarà selvaggio. Trump nelle prime ore del  dicembre aveva imboccato la terza strada per mantenersi al potere. Impossibilitato a controllare il Dipartimento di giustizia, come pure di usurpare il potere di sequestrare le macchine elettorali, gli restava l’appello ai suoi sostenitori e in particolare a quelle frange estremiste di destra che durante il suo mandato lo hanno sostenuto e lui ha sempre scusato (ha mostrato simpatia verso di loro quando a Charlottesville protestarono in un’adunata dai riflessi nazisti contro la rimozione di una statua del generale sudista Lee). Quel «venite, sarà selvaggio» è stato una chiamata alle armi. Per i sostenitori fondamentalmente pacifi-

ci del presidente, ma anche per gruppi militanti come gli Oath Keepers, i Three Percenters, i Proud Boys. I quali hanno poi guidato l’assalto al Campidoglio. La vicinanza all’informale entourage di Trump è provata anche da immagini e circostanze che vedono alcuni militanti di questi gruppi fra i bodyguard di Michael Flynn e l’amico di Trump Roger Stone, a lui legati anche nella creazione di account social sul Grande furto (delle elezioni). Ma, soprattutto, le testimonianze hanno indicato che lo stesso Trump, dopo il discorso infiammatorio in cui incitava a marciare sul Congresso il  gennaio, intendesse mettersi alla testa del corteo. Solo il rifiuto da parte degli agenti di sicurezza ha evitato uno scontro senza precedenti fra presidente e vice presidente (ricordiamo lo slogan «Impiccate Pence» urlato dai sostenitori di Trump). Tuttavia, i fan di Trump e la maggioranza dei repubblicani restano indifferenti, e per ora l’ex presidente non è indagato per sovversione: la democrazia negli Stati Uniti non è fuori pericolo, il  gennaio può ripetersi.


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Bambini e tecnologie digitali Ricerche recenti sfatano alcuni pregiudizi sul rapporto fra videogiochi e sviluppo cognitivo dei bambini

Una guerra dell’acqua tra poveri La siccità causata dai cambiamenti climatici ha messo in ginocchio le coltivazioni di riso della Lomellina

Una mulattiera di Verdabbio L’antica mulattiera collegava l’abitato ai terreni del piano, ora è stata ripristinata e recuperata insieme alle sue cinque cappelle votive

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La pediatra e neonatologa Cristina Delcò Volonté è responsabile dell’Ambulatorio pediatrico alla Clinica Sant’Anna di Sorengo. (Stefano Spinelli)

L’estate sulla pelle Medicina

Con la stagione calda bisogna prestare attenzione alle infezioni della pelle, soprattutto dei bambini

Maria Grazia Buletti

Il clima caldo e lo stare di più all’aria aperta fa sì che le infezioni della pelle siano più frequenti d’estate, problema che riguarda soprattutto i bambini. Ne parliamo con la pediatra e neonatologa Cristina Delcò Volonté, responsabile dell’Ambulatorio pediatrico alla Clinica Sant’Anna di Sorengo: «Rispetto a quella dell’adulto, la pelle del bambino è già di per sé più delicata, fragile e sensibile, dunque soggetta a reazioni infiammatorie più importanti in seguito a lesioni o eruzioni cutanee, frequenti in estate perché il bambino ha la pelle più esposta: si veste meno, ha braccia e gambe scoperte, gioca all’aria aperta». Circostanza che aumenta la probabilità di incappare in incidenti, cadute, traumi, piccole escoriazioni, punture d’insetti e via dicendo: «Tutte lesioni favorite da quella maggiore libertà di cui la pelle può godere durante la stagione calda. Possono allora aumentare anche le relative possibili infezioni, non influenzate affatto da fattori immunologici». Di per sé eritema, puntura di zanzara o ginocchio sbucciato sono lesioni banali. Eppure: «Potrebbero essere delle “porte d’ingresso” per germi come i batteri». È perciò importante sapere di che lesione si tratta: «Quando è apparsa, da quanto tempo è presente e come si è eventualmente modificata. Poi, bisogna considerare la manifesta-

zione di eventuali sintomi associati come febbre, dolore e prurito. Infine, si deve verificare se ci sono fattori che possano avere agevolato l’insorgere di un’infezione (assunzione di farmaci o esposizione alla luce solare)». Tutte informazioni importanti per far giungere a una diagnosi che permetta di impostare un’eventuale terapia. Le infezioni della pelle più comuni hanno origine batterica: «Ricordiamoci che la lesione di base è di norma banalissima. Il problema può insorgere dopo la rottura della barriera cutanea: una puntura di zanzara causa spesso prurito e il bambino potrebbe grattarsi generando la via d’entrata batterica». Non grattare le punture, proteggere e non toccare le ferite serve proprio a evitare che si infettino. Da qui l’importanza di osservare come si evolve il punto della lesione primaria: «Qualsiasi lesione cutanea del bambino, sia essa puntura di imenottero o zanzara, escoriazione o altro, va monitorata nel tempo: la mamma dovrà osservare se il punto è molto arrossato, se il rossore aumenta nel tempo, magari associato a un “tragitto” dell’infiammazione. Bisogna pure stare attenti all’insorgenza di un eventuale stato febbrile». In ogni caso, e nel dubbio, è importante rivolgersi al pediatra che con una visita accurata sarà in grado di valutare la situazione: «Secondo la gravità

dei sintomi, egli potrà prescrivere una terapia antibiotica locale o per bocca, ma sono rarissimi i casi in cui il battere arriva a circolare nel sangue (pensiamo a quei bambini con difese immunitarie fragili a priori o in quel momento)». Con la pediatra stiliamo una sorta di vademecum sulle situazioni più frequenti: «Dopo la puntura di un insetto non bisogna lasciarsi prendere dal panico anche se si tratta di ape o vespa: nella maggior parte dei casi basta applicare freddo, togliere l’eventuale pungiglione con una pinzetta, sorvegliare la zona punta, e si può dare un antidolorifico o antinfiammatorio per bocca dato che nelle ore successive la lesione può fare male». Con segni di allergia: «Se sono di grado leggero (orticaria con lesioni cutanee) basta un antistaminico per bocca che è saggio avere sempre in casa. I sintomi più severi (fino allo shock anafilattico) sono molto più rari e si manifestano nei minuti successivi alla puntura, con disturbi digestivi, crisi d’asma o complicanze più gravi per cui, sempre a dipendenza della severità, è consigliabile recarsi in ospedale o chiamare l’ambulanza». Le pulci delle anatre meritano un altro discorso: «Sono parassiti che vivono sulle anatre, coi quali si può entrare in contatto facendo il bagno nel lago (anche se in Ticino ce n’è mol-

to poco a confronto, ad esempio, del canton Ginevra). Per questo, si consiglia semplicemente di lavarsi bene dopo il bagno e asciugarsi sfregando bene la pelle con un asciugamano». Le zecche si possono contrastare facilmente: «Si trovano essenzialmente nei boschi in estate ed è bene sapere che non saltano ma vivono nel sottobosco, per cui basta vestirsi con pantaloni lunghi e scarpe adeguate, e controllare tutto il corpo del bambino al rientro a casa. Qualora se ne trovasse una, sarebbe sufficiente toglierla con l’apposita pinzetta senza versarci sopra liquidi o altro perché così rilascerebbe l’eventuale battere o virus se ne è portatrice». Le zecche possono trasmettere due malattie: «La borelliosi (o lyme) potenzialmente grave ma che può essere facilmente identificata grazie al tipico eritema (e quindi trattata efficacemente con antibiotici), e l’encefalite da zecca che invece si può prevenire con un vaccino dopo i cinque anni di età, dalla quale però qui da noi siamo ancora al riparo». Al mare, parliamo di punture di meduse: «Bisogna sciacquare la pelle con acqua dolce e provare a togliere con una pinzetta gli eventuali filamenti urticanti prima di applicare il ghiaccio. Se la bruciatura duole molto, si può pensare a un antidolorifico e antinfiammatorio, e nei giorni seguenti potrebbe dare sollievo una

pomata corticoide». Durante le passeggiate in montagna bisogna invece stare attenti soprattutto alle vipere: «I rettili hanno paura del rumore, ma in primavera, quando ancora assonnati si scaldano al sole, potrebbero essere meno reattivi. Bisogna insegnare ai bambini a non mettere le mani sotto i sassi e a non andare a toccarli». I colpi di sole sulla pelle sono in agguato al mare come in montagna: «Qui basta il buonsenso: non ci si espone nelle ore più calde e si protegge il lattante tenendolo all’ombra, con protezione fisica (maglietta e cappellino), eventualmente crema solare». Certi virus, così come la varicella, sono presenti tutto l’anno, ma per manifestarsi come detto prediligono l’estate, e si depositano su «mani, piedi e bocca. In caso di dubbio sullo stato generale del bambino, o se i genitori sono preoccupati, va consultato il pediatra». Un’ultima eruzione cutanea prevalentemente estiva è la fito-fotodermatosi: «È un’infiammazione cutanea dovuta al contatto di una pianta, potenziata dall’effetto del sole. Ad esempio, se associata al sole la linfa del fico ha effetto irritante. Per evitare il contatto bisogna proteggersi con i guanti, altrimenti sciacquare bene la parte cutanea interessata, applicare una crema e proteggersi dal sole. Non è pericoloso, ma molto fastidioso».


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Il territorio sotto la lente della ricerca artistica

Intervista ◆ Arte e tecnologia aiutano a ripensare comparti urbani e luoghi simbolici, ne parliamo con Silvia Converso collaboratrice dell’Istituto Design della SUPSI e organizzatrice della tappa ticinese della conferenza Traversing Topologies Matilde Fontana

Il Dicastero pianificazione della città di Mendrisio ha invitato la popolazione a reinventare con sguardi inusuali il comparto urbano delimitato dalla ferrovia da un lato e dall’autostrada dall’altro. Con la collaborazione dell’Accademia di Architettura, il progetto Transversal territory propone un laboratorio partecipativo che guarda al territorio con l’occhio della ricerca artistica: il workshop è affidato all’architetto e artista visuale Onzgi – Antoine de Perrot, affiancato dalla danzatrice Mansoureh Aalaii. La zona in trasformazione su cui i mendrisiensi sono chiamati a puntare lo sguardo e quindi a contribuire al rinnovamento è quella in cui lo scorso anno si è inserito il Campus SUPSI, che ha occupato l’area che per decenni è stata identificata come il sedime industriale della fabbrica di cerniere lampo RiRi. E proprio l’Istituto Design del Dipartimento Ambiente Costruzioni e Design della SUPSI, nelle scorse settimane ha promosso e in parte ospitato la conferenza itinerante Traversing Topologies, organizzata da SARN, la rete della Ricerca artistica in Svizzera, di cui fanno parte anche la Hochschule Luzern e l’Ecole de Design et Haute Ecole d’Art del Vallese. Localizzato tra Ticino, Vallese e Regione urana del Gottardo, l’itinerario ha offerto ai partecipanti la possibilità di confrontare progetti territoriali e tematici legati da una riflessione mediata da strumenti e approcci artistici e tecnologici. Con Iolanda Pensa, responsabile dell’area di ricerca Cultura e Territorio dell’Istituto Design SUPSI, l’organizzatrice della tappa ticinese della conferenza «viaggiante» è Silvia Converso, collaboratrice scientifica dell’Istituto Design, che ha risposto ad alcune domande tese a delineare, per quanto possibile, una ricerca multidisciplinare in rapida evoluzione. Silvia Converso, il filo conduttore delle tappe ticinesi della Conferenza Traversing Topologies è stato quello legato (riduttivamente) alla logistica: il Punto Franco con il magazzino delle merci e il Centro svizzero di calcolo scientifico CSCS con lo stoccaggio dei dati da elaborare. Come si legano tecnologia e arte in questi luoghi simbolo? Il workshop in questi due luoghi simbolici è stato organizzato insieme a Flavia Caviezel (Fachhochschule Nordwestschweiz) e Priska Giesler (Berner Fachhochschule) con

dell’architettura tradizionale e quella dell’informazione. Per quanto riguarda il Punto Franco, il magazzino doganale di Balerna è stato visitato e percorso virtualmente attraverso il progetto di ricerca di realtà aumentata di Christine Schranz ed esplorato «fisicamente» con una passeggiata lungo un percorso di osservazione sviluppato dall’artista Marie-Anne Lerjen. In questo caso lo sguardo digitale e la cosiddetta «promenade architecturale» hanno offerto spunti di riflessione su come si possa vivere, mettersi in relazione ed osservare lo spazio, la storia del luogo e le tratte percorse dalle merci depositate nei magazzini.

Il duo vodese Patrick Keller e Joel Vacheron durante la passeggiata proposta da Marie-Anne Lerjen al Punto Franco. (Claudia Cossu Fomiatti) In alto, video della performance «Dove il confine è invisibile» di Nicoletta Grillo presso la mostra IntangibleThresholds alla Biblioteca del Campus SUPSI a Mendrisio. (Nicoletta Grillo)

l’intento di riflettere su temi quali la mobilità, il trasporto e il deposito di merci liquide, solide e immateriali nella regione della Svizzera meridionale. I progetti presentati dagli artisti coinvolti esplorano gli spazi, il loro utilizzo e la loro funzione attraverso lo sguardo della ricerca artistica, andando così al di là del loro ruolo sul territorio. Il progetto fotografico dell’artista e fotografa zurighese Andrea Hel-

bling, realizzato proprio nello spazio del Centro di Calcolo di Cornaredo, così come il lavoro sullo storage design del duo vodese Patrick Keller e Joel Vacheron, hanno messo in luce la relazione tra la dimensione fisica e territoriale e le infrastrutture immateriali costruite da reti cloud che ospitano lo stoccaggio di dati digitali. Tecnologia e arte sono così legate da un’indagine spaziale sul ruolo

azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)

Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Simona Sala, Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Natascha Fioretti Ivan Leoni

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Anche il tema del confine, territoriale ma anche disciplinare è al centro di una ricerca sfociata in una recente mostra nel nuovo campus SUPSI di Mendrisio, che lei ha curato con Iolanda Pensa. Sì, sempre nell’ambito della conferenza Traversing Topologies, abbiamo allestito nella biblioteca del Campus Supsi la mostra Intangible Thresholds. Con le opere delle artiste Nicoletta Grillo del Politecnico di Milano e di Linda Herzog dell’Università di Berna, l’esposizione ha messo in luce il tema della percezione e dell’astrazione delle linee che costituiscono i margini, spaziali, temporali o visivi che siano. Per mezzo della fotografia, i progetti di Grillo e Herzog articolano un linguaggio visivo che ritrae l’immaterialità e la rappresentazione di regioni che si situano lungo le frontiere. In particolare, il progetto di Nicoletta Grillo indaga come la linea di confine tra la Lombardia e il Ticino sia oggi altamente smaterializzata e quasi invisibile. Eppure esso continua ad esistere come «paesaggio di confine» riprodotto da una serie di pratiche di attraversamento, come il frontalierato e la migrazione, e dagli immaginari ad essi associati.

Ma qual è l’approccio innovativo che offre la ricerca artistica? La ricerca artistica è forse l’ambito per eccellenza più creativo e ricettivo di tutte le arti. Considerata la sua natura fuori da ogni schema prestabilito, è il settore di ricerca che più di tutti (senza timore, con provocazione e libertà) sfida e trascende ogni categoria e che nel contempo accoglie ambiti disciplinari disparati e apparentemente inconciliabili tra loro. Proprio per questo motivo è sempre al passo con i tempi e addirittura può anticipare tendenze o visioni future, fungendo così da catalizzatore e aprendo la strada ad altri approcci e metodi di ricerca disciplinari. In ambito accademico e quindi di formazione o di perfezionamento professionale, come viene accolta questa contaminazione di approcci e discipline e come viene implementata la ricerca artistica? Nell’ambito delle Scuole universitarie professionali elvetiche la contaminazione tra gli approcci disciplinari è molto attiva: la permeabilità interdisciplinare tra le varie aree di ricerca dell’ambito creativo nel senso ampio del termine – quindi design, grafica, architettura, moda e arte – è molto alta, rispetto ad altri paesi. Nel caso dell’Istituto Design della SUPSI, di fatto tutti i progetti sono per definizione trasversali ai diversi ambiti disciplinari, del design, delle arti e delle altre discipline umanistiche e tecniche, proprio perché le discipline si integrano e complementano a vicenda, favorendo così la nascita di iniziative interdisciplinari proiettate ad includere il sapere e i vari metodi di ricerca. La ricerca artistica dà senz’altro un input audace e visionario, ma purtroppo, per certi versi, risente ancora di una minor disponibilità di fondi rispetto alle discipline tradizionalmente legate a logiche di mercato.

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Albicocche: il frutto simbolo del Vallese

Attualità ◆ I dolci frutti a nocciolo del cantone confinante sono nella loro piena stagione. Tanto vale farne una scorpacciata. Inoltre questa settimana alla Migros le albicocche bio vallesane sono in offerta speciale

Azione 26% Albicocche bio del Vallese 500 g Fr. 4.40 invece di 5.95

Valais/Wallis Promotion

Valais/Wallis Promotion

dal 19.7 al 25.7.2022

Quest’anno il raccolto di albicocche del Vallese è stato abbondante. Secondo l’associazione vallesana di categoria si prevede una produzione di qualcosa come  tonnellate. Grazie al clima favorevole di questa primavera, si è potuto contare su una raccolta precoce. Inoltre, a livello di qualità e gusto i frutti risultano essere eccellenti. I frutteti dedicati alla produzione di albicocche si estendono su una superficie di ca.  ettari, in modo particolare nelle regioni situate nella valle del Rodano, da Sierre a Vernayaz. Il % della produzione svizzera di albicocche proviene dal Vallese. Sono oltre  le varietà di albicocche coltivate in Vallese, ciò che permette di garantire un lungo periodo di raccolta, da giugno fino a settembre, come pure di offrire ai consumatori un’interessante molteplicità di sapori. Le albicocche sono particolarmente amate dagli svizzeri, che ne consumano annualmente ca.  kg a testa. I frutti provenienti dal Vallese sono facilmente riconoscibili grazie allo specifico logo impresso sulla confezione, al bel colore arancione, alla buccia delicata e vellutata e al diametro del prodotto, che deve essere di almeno  mm, rispettivamente  mm per le varietà più grosse. Inoltre, si caratterizzano per il loro sapore zuccherino e profumato: conformemente al marchio il tenore di zucchero deve essere di almeno ° Brix. Acquistando le albicocche vallesane, i consumatori contribuiscono altresì in modo significativo alla riduzione delle emissioni di CO, grazie ai tragitti ridotti tra

frutteti, magazzini e punti di vendita. A tal riguardo si stima un’impronta ecologica di / inferiore rispetto ai frutti proveniente dall’estero. Le albicocche si consumano da sole e sono parte integrante di molte ricette dolci e salate, dai dessert alle torte, dalle confetture ai nettari, dai sorbetti alle insalate fino a piatti a base di carne, in modo particolare di agnello, maiale e pollo. Naturalmente una delle specialità più conosciute è l’Abricotine AOP, l’acquavite di albicocche vallesana a denominazione di origine protetta, una bevanda molto apprezzata a fine pasto da sola o in aggiunta al gelato.

Alcune curiosità Oltre a importanti vitamine e sali minerali, le albicocche contengono anche antiossidanti che favoriscono un bel incarnato, a tal proposito esistono numerosi cosmetici a base di estratti del frutto che nutrono, idratano e rigenerano la pelle. La pianta dell’albicocco è originaria della Cina ed è stata probabilmente introdotta da noi attraverso i Romani. Le albicocche oggigiorno sono principalmente coltivate nella Turchia orientale, regione famosa per la produzione di albicocche essiccate. L’albero di albicocco può raggiungere un’altezza di sei metri. L’albicocca appartiene alla famiglia botanica delle rosacee.

Splendidamente riciclati

Attualità ◆ Da Micasa il tema sostenibilità riveste un ruolo sempre più importante. Per esempio con gli articoli a base di materiali riciclati, che potete ora scoprire nel vostro negozio specializzato di S. Antonino

La sostenibilità sta molto a cuore a Micasa, tanto che gran parte dell’assortimento è certificato da importanti marchi di qualità riconosciuti per la loro valenza ambientale e sociale. Tra questi possiamo citare per esempio i label FSC (gestione forestale sostenibile); GOTS (fibre naturali biologiche); Bio Cotton (tessili rispettosi dell’ambiente); Made in Green (materiali senza sostanze nocive); Topten (prodotti a risparmio energetico) o ancora Made in Switzerland (promozione della produzione nazionale). Oltre a questi, ultimamente Micasa ha ampliato costantemente la gamma di prodotti realizzati con materiali riciclati - articoli riconoscibili grazie ai marchi internazionali GRS (Global Recycled Standard) e Cradle to Cradle Certified – con l’obiettivo di favo-

rire una produzione responsabile che permetta di risparmiare preziose risorse e di ridurre rifiuti. Venite allora a scoprire come viene data nuova vita a PET, cartone, tessuto, poliestere o addirittura bucce di mele, materiali trasformati per esempio in cuscini, lampade, tappeti, tavoli, panche e molti accessori per la casa. A proposito: Micasa ha introdotto diversi articoli dell’innovativo marchio tedesco WYE Design, prodotti fatti con materiali riciclati della lavorazione del legno che possono essere a loro volta di nuovo riciclati. Che si tratti di tavoli, sgabelli o taglieri, i prodotti si caratterizzano per la loro robustezza e il design accattivante. Per saperne di più Micasa.ch/recycling


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SOCIETÀ

Intelligenti si diventa giocando... ai videogame Tecnologie digitali

Studi recenti indagano il rapporto fra videogiochi e sviluppo cognitivo nei bambini sfatando alcuni pregiudizi

Alla fine degli anni ’ del secolo scorso, lo psicologo neozelandese James R. Flynn osservò come l’intelligenza di noi esseri umani avesse avuto, da quando abbiamo cominciato a misurarla, una crescita costante. Il fenomeno prese il suo nome, effetto Flynn: ogni generazione, in media, ha un quoziente intellettivo superiore a quella che l’ha preceduta. Siamo dunque destinati a diventare esseri di straordinaria intelligenza? Qualche dubbio, osservando la nostra specie, è naturale che sorga. In realtà, a partire dagli anni Duemila, i dati ci dicono che la tendenza si è invertita. Cos’è successo? La questione è tutt’altro che oziosa: se pensiamo alle sfide che ci attendono, l’idea di un’inesorabile deriva verso la stupidità non ci fa certo dormire sonni tranquilli. Cos’è cambiato nella nostra vita? Sul banco degli imputati, manco a dirlo, sono finiti tutti quei comportamenti legati in modo più o meno diretto all’uso e abuso di strumenti digitali, dai videogiochi ai social, fino al crescente disinteresse verso la lettura e i libri – come se un tempo fossimo stati tutti bibliofili! – a vantaggio di schermi dispensatori di contenuti digitali. Quest’idea è filtrata nella comunicazione di massa, alimentando pregiudizi verso gli strumenti digitali e portando, spesso, noi genitori, ad adottare comportamenti schizofrenici e veti sull’accesso dei nostri figli al mondo digitale, che, se pur in parte giustificati, il più delle volte nascono da una conoscenza superficiale di questi strumenti, da idee piuttosto vaghe, o, peggio, da semplice pigrizia. Mio figlio ha otto anni e, fin da piccolissimo, come una farfallina notturna, è attratto da ogni tipo di schermo; un’attrazione fatale che, da genitori ormai dipendenti da tecnologie digitali, cerchiamo goffamente di frenare… non certo dando il buon esempio. Dopo aver letto i consigli di autorevoli pedagogisti, i vademecum dell’Organizzazione mondiale della sanità, e ogni genere di rubrica di psicologia da magazine, mi sono fatto l’idea che ridurre al minimo, o, addirittura, eliminare l’esposizione a ogni tipo di schermo possa tout court favo-

rire il suo sviluppo cognitivo. Punto. Sono arrivato a demonizzare quella tecnologia di cui, io per primo, non posso più fare a meno. Continuo a proteggerlo da ogni stimolo digitale, limitando l’uso di tablet, smartphone, PC, ogni tipo di videogioco, ma più mi ostino, più lui ne subisce il fascino clandestino. Che fare dunque? Beh… per cominciare, dovrei capire che le ricette servono a poco e la realtà è più complessa. A maggio di quest’anno, sulla rivista «Scientific reports», è stato pubblicato un importante studio condotto dai ricercatori del prestigioso centro di ricerca svedese Karolinska Institute che ha messo in correlazione l’uso di schermi (per guardare la TV, giocare ai videogame o socializzare) con lo sviluppo delle abilità cognitive nei bambini. Oltre  bambini statunitensi, fra i nove e i dieci anni, sono stati osservati nel loro utilizzo quotidiano di ogni tipo di schermo; sono state misurate, con opportuni test, le loro capacità cognitive, e incrociati i dati con quelli genetici e relativi allo stile di vita della famiglia. Dopo un paio di anni, i test sono stati ripetuti. In media, i bambini trascorrevano , ore al giorno davanti alla TV, mezz’ora sui social e un’ora con i videogiochi. In modo inatteso, la ricerca ha mostrato come i videogiochi avessero addirittura un impatto positivo sull’intelligenza, tanto che i bambini e le bambine che giocavano di più presentavano, anche a distanza di anni, uno sviluppo cognitivo maggiore. I ricercatori si sono focalizzati solo sulle abilità cognitive, sono stati presi in considerazione solo bambini statunitensi e come forma di «intelligenza» solo la capacità di apprendere, di pensare razionalmente, di comprendere idee complesse, e sappiamo che esistono forme diverse, altrettanto importanti, come l’intelligenza emotiva. Non si è tenuto conto neppure del tipo di contenuti dei videogame, ed è ragionevole supporre che possano giocare un ruolo importante. Tuttavia, lo studio ha confermato che i fattori ambientali sono determinanti nello sviluppo cognitivo di un bambino e che limitarsi a vietare prodotti digitali come i videogiochi o non

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Fabio Meliciani

considerarli rilevanti per la crescita cognitiva dei nostri figli è sbagliato. Addirittura, i videogiochi possono avere un ruolo nello sviluppo delle abilità di lettura. Uno studio delle università di Ginevra e di Trento, pubblicato nello stesso mese sulla prestigiosa rivista «Nature», ha mostrato, infatti, come i videogiochi di azione possano rafforzare le capacità di lettura e attenzione di bambini e bambine con abilità nella norma, e questo dopo che gli effetti positivi erano già stati osservati nei bambini con dislessia, cioè con difficoltà specifiche nella lettura. In particolare, i ricercatori hanno sviluppato un videogioco, Skies of Manawak, capace di stimolare e allenare in modo divertente tutte le funzioni cognitive coinvolte nella lettura.  bambini italofoni, dagli  ai  anni, divisi in due gruppi, hanno giocato per sei settimane, con tempi ben controllati, a Skies of Manawak e a Scratch, un famoso gioco educativo creato dai ricercatori del MIT di Boston, per insegnare le basi della programmazione. Alla fine, il gruppo di bambini che aveva giocato a Skies of Manawak

mostrava una maggiore capacità di attenzione, e, soprattutto, una migliore velocità e accuratezza nella lettura, abilità conservate anche a distanza di molti mesi, con un miglioramento significativo dei risultati scolastici. La capacità di prendere decisioni sotto pressione, di mantenere l’attenzione alta nel tempo, di reagire prontamente a situazioni imprevedibili sono tutte abilità richieste da un videogioco d’azione, e il loro allenamento, spiegano i ricercatori, insieme alla costante variabilità nella stimolazione delle funzioni cognitive, cioè all’impossibilità di svolgere azioni meccaniche e automatizzate, hanno un impatto positivo sulle capacità di lettura. «Certo – dice Sara Giulivi, linguista della Supsi, esperta di lettura e dislessia – il tipo di strumento, i suoi contenuti, l’uso che ne facciamo, anche in termini di tempo, è cruciale: in questo caso, si trattava di un videogioco “sicuro”, non violento; questo ci mostra come gli strumenti digitali in un contesto di consapevolezza possano anche portare benefici significativi». «Inoltre, ancora più

importante – continua Giulivi – è evidente che per migliorare la lettura nei bambini è molto utile allenare le abilità sottostanti (la memoria di lavoro, l’attenzione, le abilità visuo-spaziali) oltre alla lettura in sé». E conclude la ricercatrice: «anche in Svizzera, al Politecnico di Losanna, per esempio, o qui alla Supsi, esistono progetti che utilizzano videogiochi e supporti digitali per migliorare le abilità che stanno alla base della lettura e della scrittura. Tutto questo, ribadisco, ci fa dire che le tecnologie digitali non sono da evitare e demonizzare, anche nei bambini; vanno semmai conosciute e sfruttate, con tempi e modi appropriati, nell’ottica di un’educazione innovativa e inclusiva». Gli strumenti e i contenuti digitali sono ormai pervasivi e il rischio che si trasformino in fonti di discriminazione ed esclusione sociale è alto; per questo, anche noi genitori, come utilizzatori adulti di questi strumenti e, bene o male, come esempio per i nostri figli, dovremmo, quantomeno, fare ogni sforzo per saperne di più.

Per chi ama la natura

Migros Ticino rinuncia a vendere fuochi d’artificio

Immergersi nel verde: con Nomady è facile. La piattaforma online permette di prenotare campeggi da privati e semplici sistemazioni nella natura. La start-up di Einsiedeln (SZ), di cui Migros detiene una partecipa-

Dopo attenta riflessione Migros Ticino, in qualità di azienda responsabile, nonostante la sempre alta richiesta da parte della clientela, ha deciso di fare un passo ulteriore verso la salvaguardia dell’ambiente e della fauna, rinunciando alla vendita dei tradizionali fuochi d’artificio. Sulla decisione hanno pesato importanti fattori quali l’attuale dibattito globale sul clima e gli inquinanti atmosferici e la tutela del nostro territorio. Quest’ultimo nel periodo estivo è spesso soggetto a un’alta concentrazione di polveri fini – che ha ripercussioni anche sul suolo e sulla qualità delle acque –, a temperature molto elevate e a periodi di siccità prolungata. Condizioni que-

Turismo sostenibile ◆ In viaggio con Nomady, Salvaguardia dell’ambiente ◆ L’azienda ha deciso di allinearsi alla filosofia la piattaforma per prenotare campeggi presso privati della maggior parte delle cooperative Migros

zione, è attiva da tre anni e nel frattempo in Svizzera è diventata leader del turismo sostenibile. Su nomady.camp si trovano  proposte in Svizzera, Germania, Francia, Italia e Austria.

ste che fanno aumentare in maniera forte e concreta il pericolo di incendi boschivi. Inoltre, anche l’aspetto dell’in-

quinamento fonico non è stato sottovalutato: da una parte della popolazione i fuochi d’artificio sono percepiti come molesti e possono essere una fonte di spavento e stress per i bimbi piccoli e per gli animali, poiché sono improvvisi e molto rumorosi. Per la fauna selvatica ma anche per quella domestica la paura è, infatti, un problema sia dal punto di vista psicologico sia dal punto di vista fisico: può minacciare la sicurezza perché in un momento di forte ansia e panico, con reazioni incontrollate, le bestie possono ferirsi o causare incidenti, mettendo potenzialmente a rischio la propria vita e quella di terzi nel tentativo di fuggire o nascondersi dagli scoppi.


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La polvere della terra

Reportage ◆ Il cambiamento climatico sta facendo soffrire la Lomellina, territorio perlopiù coltivato a risaie, oggi inaridito per la mancanza d’acqua Luigi Baldelli, testo e foto

Le distese di campi di riso in questo periodo dell’anno qui a Mortara, nella Lomellina, territorio pavese in Pianura Padana, dovrebbero essere di un colore verde smeraldo. Il colore delle piante delle risaie che crescono sane e forti, circondate dai riflessi dell’acqua che le bagnano. Invece la vista che si presenta davanti all’obiettivo è quella di una pianura bruciata dal sole. Terreni arsi con le piantine oramai destinate a non produrre più il cereale. La siccità causata dai cambiamenti climatici ha colpito duro da queste parti, perché la mancanza di piogge e il conseguente abbassamento dei livelli di fiumi e laghi impedisce ai canali di portare l’acqua necessaria a questi campi. L’Italia è il primo produttore di riso in Europa e nel triangolo Vercelli, Novara e Pavia, la Lomellina è quella che sta pagando in maniera più consistente queste ripercussioni del clima. Nelle tre province, dove si concentra il % della produzione nazionale di riso, sono circa mila gli ettari di terreno destinati a risaie e di questi circa la metà sono nel pavese. Ma il riso, per crescere, ha bisogno di acqua, tanta. E acqua non c’è né di questi tempi. «L’acqua, attraverso i canali, arriva dal Po, Dora Baltea e lago Maggiore, mi spiega Luigi Ferraris,  anni e coltivatore di riso da più di , e noi qui in Lomellina siamo la parte finale di questo flusso. Prima il vercellese, poi la zona di Novara e infine noi. Ma con la scarsità di acqua le conseguenze sono che a noi ne arriva sempre meno perché è usata da chi ha i campi a monte, nelle altre due province». Il suolo sotto le scarpe è arido e mentre cammina in mezzo ai suoi campi di riso, nuvole di polvere di terra si alzano a ogni passo.

Pavia è parte delle tre province dove cresce il 70% della produzione nazionale italiana di riso, con circa 170mila ettari di campi Cambiamenti climatici che hanno portato a una guerra dell’acqua con le varie province che si accusano a vicenda. «No, non è solo una guerra dell’acqua – continua a dirmi Luigi, mentre osserva le piante di riso secche e oramai di colore giallo oro – è una guerra tra poveri. E dobbiamo prendere coscienza che questa siccità, questa assenza di piogge, questo clima che sta cambiando sono segnali preoccupanti». L’acqua per irrigare è stata razionata permettendo l’allagamento delle risaie solo alcuni giorni al mese. Ma la disperazione di perdere il raccolto ha portato alcuni contadini a fare gesti al limite della legalità, come chi di notte pompa la poca acqua dai canali, acqua destinata ad altri. Oppure agricoltori che hanno preso decisioni drastiche e cioè quali campi irrigare e quali no. Una scelta di forza maggiore per cercare di salvare il salvabile dissetando un solo campo invece che due. Così si spera di far sopravvivere una parte del raccolto. Ad oggi, secondo le stime di Confagricoltura Pavia, sicuramente il %-% della produzione di riso è compromessa e se continua così si può raggiungere il %. Ma per molti coltivatori oramai le speranze di raccogliere il riso si sono ridotte davvero al lumicino.

Su una strada sterrata ai bordi di una grande risaia incontro Guido, un vecchio contadino di ottant’anni, il cappello di paglia per proteggersi dal sole, la schiena un po’ curva e il collo proteso in avanti mentre guarda uno dei suoi campi di riso completamente brullo: «Non ho mai visto una cosa del genere in tutta la mia vita», mi parla a voce bassa e ferma mentre

le mani nodose si grattano la guancia, «magari arriva un po’ di pioggia e lo salviamo questo campo». Ma forse non ci crede neanche lui, in questa preghiera e nei suoi occhi tristi vedo una speranza disperata, una ricerca di conforto. La siccità ha giocato con i terreni delle risaie di questa parte di pianura creando una coperta a macchia di

leopardo, dove si alternano spazi verdi a spazi completamente bruciati dal sole. Ma la paura, la rabbia e la disperazione hanno raggiunto tutti i coltivatori della zona. «Cerco di non venire più a vedere i miei campi di riso, evito di passare da queste parti. Mi si stringe il cuore a vedere questi terreni totalmente bruciati dal sole» sono le prime parole che dice Elisabetta,

camicia a quadri e capelli raccolti in una lunga coda. Lei è una agricoltrice che ha ereditato l’azienda dal padre, il quale a sua volta l’aveva ereditata dal nonno.  ettari di cui % andato distrutto dalla siccità. «Prima producevo mila quintali di riso all’anno. Quest’anno non riuscirò ad arrivare a mila quintali. Sono preoccupata, arrabbiata, mi sento abbandonata. Questa terra era del mio bisnonno e mi sento in colpa a non potergli dare l’acqua di cui ha bisogno anche se lo so, non è colpa mia». Si mette le mani sui fianchi come se sentisse il peso dello sconforto sulle spalle, mentre il vento alza polvere e sabbia. «Non c’è mai stato così tanto vento in questo periodo. Anche questo secondo me fa parte dei cambiamenti climatici». Davanti a lei una risaia grande come due campi di calcio completamente secca. «Già un mese fa ho visto che il riso era in sofferenza. Oggi posso dire che non raccoglierò nulla da questo campo» continua mentre rimane ferma come una statua di sale sotto al sole cocente e lo sguardo fisso davanti. Poi con voce agitata inizia a rivolgere domande a qualche immaginario interlocutore: «Perché non ci danno l’acqua? Perché le altre province riescono ad allagare i loro campi e salvare parte del loro raccolto? Perché l’acqua non viene distribuita in modo equo?». Domande che rimangono senza risposta o forse la risposta la dà lei stessa poco dopo. «Non sono state prese le strade giuste, il profitto ha cercato di prendere il sopravvento sulla natura e la natura si è ribellata e non ci da più l’acqua di cui abbiamo bisogno». Ora il suono della sua voce è più calmo mentre il vento le scompiglia i capelli. «Io ho l’agricoltura nel sangue e questa terra non l’abbandono, continuerò a combattere, è la mia vita. Mio padre quando ero piccola mi portava con lui nei campi e mi diceva sempre che bisogna amare e rispettare la terra per non sentire la fatica del lavoro. Sì, dobbiamo tornare a rispettare la terra se vogliamo che lei ci rispetti». Il vento continua ad alzare la polvere ed Elisabetta continua a guardare con dispiacere e nostalgia i suoi campi aridi. Poi si passa le mani sugli occhi e con la voce tremante mi dice una bugia: «Scusami, non sto piangendo, queste lacrime sono colpa della polvere». Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.


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La mulattiera e le sue cappelle Territorio

Recuperata e ripristina l’antica mulattiera che da Verdabbio portava le genti al piano

E.Stampanoni

E.Stampanoni

Elia Stampanoni

È un cordone ombelicale che collegava l’abitato con i terreni al piano. La descrive così Dante Peduzzi nell’introduzione all’opuscolo dedicato alla mulattiera di Verdabbio edito dal Comune di Grono. Il tracciato permette infatti di raggiungere le superfici al piano e gli abitanti del villaggio mesolcinese furono di fatto costretti, in seguito all’esiguità di superfici idonee nelle vicinanze, a sfruttare i terreni agricoli sul fondovalle, nella località Piani di Verdabbio. Idearono e costruirono quindi questo ripido percorso che rappresentava, analogamente ad altre vie storiche del nostro territorio, un passaggio essenziale per raggiungere campi e prati, preziosi luoghi di produzione primaria. Le prime notizie sulla sua esistenza sono state ritrovate su un’antica pergamena del , ma si suppone che la realizzazione possa essere addirittura antecedente a questa data. La carreggiata è poi caduta in disuso, anche se mai del tutto abbandonata, con la mo-

torizzazione e con la costruzione (negli anni ’) della strada carrozzabile che da Grono conduce oggi a Verdabbio. Il tracciato ha quindi subito negli anni un inevitabile deperimento, a seguito dell’incuria e dell’avanzata della vegetazione, senza però mai essere completamente dimenticata. E così, nel , un gruppo di lavoro si è attivato per recuperare e risanare il percorso, inserito dal  nell’Inventario federale delle vie di comunicazione storiche della Svizzera (IVS). L’oggetto «GR », con i suoi due segmenti è infatti inserito nel catalogo dell’IVS, classificato come tracciato storico d’importanza nazionale e «con molta sostanza». Sull’opuscolo citato e nelle schede pubblicate sul sito dell’IVS, si possono vedere alcune immagini di come era la tratta prima degli interventi, ripristinata tra il  e il  dal Comune di Grono, di cui Verdabbio è divenuto frazione con l’aggregazione avvenuta nel . Interventi che han-

no interessato anche le cinque cappelle distribuite tra il nucleo di Verdabbio, l’imbocco della mulattiera e poi distribuite lungo la discesa che, in circa  metri, permette di superare il dislivello di  metri tra il villaggio e il piano, passando poco sopra i grotti di Cama, altro luogo d’indubbio interesse (di cui avevamo riferito su «Azione » del ). Le cappelle suggellano pure l’importanza di questa mulattiera e una di esse, la Capèla di Piét, è un’edicola votiva molto suggestiva che svetta sopra un masso ai lati del tracciato. La loro datazione risale, nella maggior parte dei casi, al  o inizio . Fa eccezione l’edicola votiva all’incrocio tra la Cará de Dèra e la Cará de Dósc, che potrebbe risalire al , impreziosita dalla raffigurazione di Santa Caterina e Sant’Antonio Abate, presenti ancora in stato frammentario. Partendo dall’alto, come facevano gli abitanti in passato per recarsi alle stalle, ai prati o ai campi situati al

piano, la mulattiera presenta una serie d’interessanti caratteristiche, spaziando da gradoni a ciottolato, da pietre a grandi piode. Immerso in un fitto bosco e quindi piacevolmente all’ombra anche nelle calde giornate estive, il cammino scende senza curve e con una pendenza piò o meno costante, interrotto solo dall’attraversamento della strada asfaltata, la quale pure collega il paese con suoi terreni pianeggianti. Un percorso affascinante, che colpisce ulteriormente se si cerca d’immaginare chi nel passato costruì questa via di comunicazione, solo ed esclusivamente con le proprie forze. Oltre a grossi sassi e a imponenti alberi, ai lati della via troviamo anche dei lunghi tratti di muri a secco, dei quali oltre  metri sono stati oggetto del lavoro di recupero. Negli interventi rientrano anche il risanamento di  metri lineari di cordoli e di  metri quadrati di ciottolato o selciato, il taglio di oltre  alberi e la potatura di altri , così come

l’estirpazione di oltre  ceppaie. Tante fatiche che hanno ridato nuova vita e viabilità a questa mulattiera, un tragitto con una lunga storia e che oggi termina (per chi scende) poco sopra i Piani di Verdabbio, per poi proseguire sulla rete pedestre o allacciandosi alla via asfalta che porta al fondovalle. La visita alla mulattiera si può ben abbinare a un’escursione in questa ricca regione, come per esempio ai citati grotti di Cama oppure anche allo stesso paese di Verdabbio che, oltre al semplice fascino del borgo, offre la possibilità di scoprire i massi coppellari. Un percorso disegnato nel ripido pendio in cui si trova la frazione di Grono va infatti alla scoperta di una quindicina di questi macigni, caratterizzati da incisioni sulla loro superficie, non attribuibili a cause naturali, bensì eseguite dall’essere umano in un passato ancora ricco di misteri. Informazioni www.visit-moesano.ch Annuncio pubblicitario

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SOCIETÀ / RUBRICHE ●

Approdi e derive

di Lina Bertola

Il lavoro che non manca ◆

Voli cancellati per mancanza di personale; mancanza di personale nella ristorazione; in Svizzera mancano i bagnini. Così alcuni titoli letti negli ultimi tempi. Della questione si occupano economisti e politici. Si ragiona attorno agli effetti dei licenziamenti legati alla pandemia, al peggioramento delle condizioni di occupazione o, ancora, si riflette sul tema dei salari non sempre adeguati. Queste chiavi interpretative possono felicemente coniugarsi anche con una lettura dal respiro più ampio, che vada alle radici storiche e culturali del significato stesso del lavoro. C’è sempre anche una percezione soggettiva dell’esperienza lavorativa, del suo valore esistenziale; c’è sempre un vissuto personale del proprio agire non riducibile al solo valore economico del proprio fare. Allargare lo sguardo significa cercare di com-

prendere il senso del lavoro, e le sue attuali trasformazioni, allo specchio dei valori della nostra civiltà. Approdi e derive della nostra cultura possono essere intercettati anche alla luce del significato che questa parola ha assunto nel corso del tempo. Attorno al concetto di lavoro, nelle varie epoche, si è infatti costituito un orizzonte di senso, un ordine di valori e di significati in cui esprimere la nostra identità, in cui trovare risposte a quel conosci te stesso che sempre interpella ciascuno di noi. Questo sguardo storico-filosofico, accanto alle spiegazioni di natura economica e politica, può aiutarci a riflettere su possibili trasformazioni identitarie, sul manifestarsi del senso della vita in forme inedite, e forse inattese, che potrebbero mettere in discussione un valore ben radicato nella nostra cultura. La modernità ha infatti concepito il lavoro come un

valore fondamentale dell’esistenza; lo ha pensato e rappresentato come luogo privilegiato per l’espressione della natura umana. Ma non è stato sempre così. Nel mondo antico, all’esercizio di attività lavorative non era riconosciuta particolare valenza positiva. Questa visione emerge bene nel pensiero di Aristotele: la vera realizzazione della natura umana non è nell’azione pratica, strumentale, ma nell’agire etico e politico e soprattutto nella conoscenza contemplativa. Il valore anche di atteggiamenti non contemplativi nei confronti della natura trova invece riconoscimento nel cristianesimo, basti pensare alle regole monastiche in cui il lavoro acquisisce dignità spirituale. Ora et labora: il lavoro disciplina la vita in vista della salvezza. La completa valorizzazione del lavoro, non solo come mezzo per una vita buona, ma come piena realizzazione della natura umana, si

compie tuttavia in epoca moderna. Nella costruzione di una nuova visione del mondo, che pone al centro il lavoro, si sono intrecciate diverse prospettive. La prima nasce dalla rivoluzione scientifica: la conoscenza oggettiva della natura offrirà all’uomo la possibilità di imparare a dominarla. È la visione di Bacone da cui il valore del lavoro come capacità di sfruttare le risorse naturali. Un altro aspetto è legato al bisogno di legittimare la proprietà privata. Nel suo secondo Trattato sul governo, il filosofo John Locke lo dice esplicitamente: il lavoro fonda il diritto alla proprietà. A livello identitario ciò comporta il pieno riconoscimento del valore dell’individuo; un valore che sarà ulteriormente rinforzato nell’etica illuminista. Poi c’è la potente costruzione filosofica di Hegel che fa del lavoro il luogo fondamentale di mediazione tra

uomo e natura. Da questa visione del lavoro prende le mosse Marx per denunciarne il tradimento: è il concetto, per certi versi ancora attuale, di lavoro alienato. Attuale soprattutto perché spesso nel lavoro non riusciamo più a riconoscere gli ideali della modernità. Dallo sfruttamento delle risorse naturali al sogno transumano di immortalità il passo è breve; così come breve è stato il passaggio dall’etica dell’individuo all’individualismo di mobbing e competizione. Insomma, c’è di che non più riconoscersi nel proprio lavoro. Alcune indagini sociologiche, soprattutto in Francia, lo stanno confermando: spesso si vive uno scollamento tra il suo significato economico e il suo significato esistenziale. E allora qualcuno può anche arrivare a pensare: perché lavorare per portare avanti un mondo in cui non ci riconosciamo più?

Terre Rare

di Alessandro Zanoli

Per un web accessibile e certificato ◆

Da varie settimane stiamo discutendo in questa rubrica del complesso rapporto tra le tecnologie digitali e noi utenti. Ci è capitato di scoprire di recente, grazie alla Newsletter del progetto Migros Engagement, che proprio all’interno della nostra azienda opera un esperto il quale si occupa di uno degli aspetti che ci sta a cuore. Lenthe Soekhdew Basant è «Customer Experience Specialist» della Federazione delle cooperative Migros. Una delle sue mansioni è verificare che le pagine web e le app proposte dall’azienda siano accessibili alle persone non vedenti. Egli stesso è non vedente, e il suo strumento di lavoro principale è il software Screenreader, un programma che legge ad alta voce i testi pubblicati sullo schermo del PC o sul telefono cellulare. Altro suo strumento di lavoro è la tastiera Braille, che traduce i caratteri visivi sullo schermo in impulsi tattili.

Al di là degli aspetti legati all’andicap visivo, il lavoro di Lenthe Basant è però indirizzato a tutti gli utenti delle piattaforme digitali di Migros. «Il mio compito è verificare l’accessibilità e l’usabilità delle pubblicazioni online di Migros» ci ha raccontato in un’intervista. «Collaborando con i progettisti delle strutture cerchiamo da un lato di rendere adatti i prodotti a tutti gli utilizzatori e, d’altro canto, di configurarli in modo ottimale affinché siano correttamente rilevati da Google e dagli altri motori di ricerca. Il termine tecnico specifico è SEO: “Searching engine optimization”. È importante tenere conto del fatto che il nostro lavoro è mirato sulle esigenze di tutti gli utenti, non soltanto di chi soffre di una disabilità, in modo che tutti possano essere avvantaggiati nell’uso delle varie piattaforme digitali». A Lenthe Basant abbiamo sottoposto un nostro dubbio ricorrente: «Sì,

La nutrizionista

anch’io ho l’impressione che spesso troppi siti web siano concepiti con criteri che privilegiano il design e l’estetica. La facilità d’uso e la praticità nella navigazione, la strutturazione delle gerarchie e l’accessibilità sembrano proprio, purtroppo, venire in secondo piano» ci ha confermato. Gli abbiamo chiesto quindi se esistono gli strumenti efficaci di controllo che potrebbero ovviare al problema. «Come punti di riferimento in questo settore, per i prodotti destinati al web e le varie forme di piattaforme, esistono oggi perlomeno le Linee guida per l’accessibilità dei contenuti Web WC (https://www.w.org/Translations/WCAG-it/), elaborate da un gruppo di lavoro internazionale che si chiama The Accessibility Guidelines Working Group». Si tratta di una serie di indicazioni che, come spiega il sito web specifico, definiscono specifiche tecniche per rendere i contenuti

Web più accessibili alle persone con disabilità. Tali linee guida comunque rendono anche i contenuti Web più utilizzabili da persone anziane con problemi dovuti all’invecchiamento e spesso migliorano in generale l’usabilità per tutti gli utenti. «Al momento non esiste nulla di più elaborato» continua il nostro interlocutore. «Occorre dire, tra l’altro, che queste stesse linee guida non sono semplici da implementare. Quello che può aiutare, e che eventualmente segnalerei a chi fosse interessato, sono i cosiddetti Accessibility Plug-Ins. Si tratta di programmi (offerti anche come estensioni per vari Browser) che permettono semplici verifiche sull’accessibilità dei siti web, e che offrono, anche a chi non possieda una grande capacità tecnica specifica, di verificare la navigazione dei propri siti e di apportare eventuali correzioni. Alcuni esempi di questi programmi so-

no Axe Dev Tools (www.deque.com), oppure Wave (wave.webaim.org): i migliori tra loro sono segnalati direttamente dal sito di WCAG». Ecco dunque che veniamo a conoscenza dell’esistenza di standards ufficiali nella realizzazione di prodotti digitali online. Resta da vedere se tali raccomandazioni sono realmente seguite. «In generale le linee guida di WC AG .x sono riconosciute dalla maggior parte delle nazioni» ci spiega ancora Lenthe Basant. «Purtroppo, le raccomandazioni sono implementate poco o per nulla. In Svizzera, tra l’altro, esiste la Fondazione Zugang für Alle (www.access-for-all. ch) che si occupa di verificare l’adozione delle norme WC AG per i siti web ed eventualmente di ottenere una certificazione in tal senso. Il mio lavoro quotidiano è di sostenere i progettisti nel processo di adeguamento dei prodotti digitali di Migros».

di Laura Botticelli

Una foglia di menta… contro la disidratazione nei più piccoli ◆

Si parla sempre dell’importanza di idratarsi per adulti e anziani ma ai bambini chi ci pensa? Io mi sforzo, ho  anni, sono in forma e in salute e ho tre splendidi nipotini (uno di  anno, una di  e l’altro di  anni). Quando li curo ho notato che bevono pochissimo, però è vero che sono piccoli, ma con le temperature alte mi preoccupo, quanto devono bere? Non hanno mai sete, cosa posso fare? La ringrazio per una sua risposta. / Mariarosaria Gentile Mariarosaria, che meraviglia essere nonna di tre bambini, sicuramente saranno anche loro complici della sua buona salute. E come ben dice, l’idratazione è importantissima per tutti, grandi e piccini e non solo in estate, con queste temperature alte, ma anche in tutto il resto dell’anno. Calcoli che nei bambini il % del corpo umano è costituito da acqua. Bere è fondamentale perché se

il corpo riceve troppo poco liquido, il sangue si addensa, quindi scorre molto più lentamente attraverso il corpo. Di conseguenza, i muscoli e il cervello ricevono troppo poco ossigeno e sostanze nutritive. E che cosa succede? Diventiamo esausti e abbiamo difficoltà a concentrarci. È molto importante tenere sotto controllo i bambini perché quando giocano spesso fanno fatica a fermarsi a bere. A altri sintomi di disidratazione sono labbra secche o bocca appiccicosa, minzione ridotta o urina di colore scuro – l’urina dovrebbe essere di un giallo molto chiaro, quasi trasparente –, irritabilità e pelle arrossata. Se posso aggiungo per chi ha figli o nipoti adolescenti che ulteriori segnali a quelli citati possono essere vertigini, crampi, male alla testa, battito accelerato, sete, sentirsi eccessivamente caldi o freddi. Vorrei ribadire che anche gli adulti che sperimentino queste

sensazioni sono molto probabilmente disidratati. Per tornare sui bambini, quanto devono bere? Non , litri come noi adulti di sicuro; la Società Svizzera di Nutrizione raccomanda per i bambini di  anno di bere  dl, - anni  dl, - anni  dl, - anni  dl e - anni  l. Naturalmente col caldo e con l’attività fisica (i bambini sono sempre in movimento) i valori possono essere superiori. Attenzione perché esistono delle malattie legate al calore: se i bambini si disidratano o sono sopraffatti dal caldo, sono a rischio di esaurimento da calore che si verifica a causa di un’eccessiva sudorazione, che causa disidratazione e aumento della temperatura corporea interna. Se ciò accade, si deve spostare il bambino al riparo dalla luce solare in un luogo fresco, reidratarlo con acqua fredda, fargli indossare abiti leggeri e freschi e usare asciugamani freddi o impac-

chi di ghiaccio per abbassare la temperatura corporea del bambino. Per sicurezza, se i sintomi sono preoccupanti o durano più di un’ora, è opportuno parlare con il pediatra. Un’altra possibile malattia è il colpo di calore, a volte chiamato colpo di sole, ed è il più grave. Avviene quando il corpo si surriscalda a un punto in cui inizia a spegnersi. Se il bambino è confuso o non risponde, ha il polso rapido o una temperatura superiore a °C, è necessario un trattamento medico immediato. Come fare per evitare queste situazioni potenzialmente pericolose e incoraggiarli a bere? Noi adulti siamo il loro esempio maggiore, cerchiamo quindi di bere spesso pure noi acqua e tisane così che apprendano le buone abitudini. Vediamo come preferiscono bere; molti sono più facilitati e invogliati a bere dalla borraccia, altri dal bicchiere, indaghiamo coi no-

stri bimbi e coinvolgiamoli comprando una bella borraccia o un bicchiere anche portatile coi loro personaggi o animali o colori preferiti. Un’altra maniera è cambiare il sapore dell’acqua creando dei «cocktail» speciali aggiungendo magari delle fette di arancia o menta o cetriolo o ananas o zenzero e chi più ne ha più ne metta, oppure facendo raffreddare delle tisane alla frutta o alle erbe o alla vaniglia, oppure ancora rendendola leggermente frizzante per dargli quel brio in più. In estate io preparo dei ghiaccioli fatti in casa con acqua e succo di frutta. All’inizio magari sarà un obbligo ma presto poi diventerà un’abitudine. Informazioni Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 18 luglio 2022

TEMPO LIBERO La grotta di Kastania A renderla unica, l’abbondanza, la ricchezza e la diversità delle forme di stalattiti e stalagmiti

Bacco secondo Platina «Niente è più pronto del vino nel soccorrere i corpi affaticati, purché sia preso con moderazione»

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Gli alleati in cucina Sono molti gli ingredienti che arricchiscono i nostri piatti anche se non sempre necessari

Crea con noi Una semplice scatola di cartone diventa il più classico dei giochi: la pista delle biglie

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Hackers, makers, bracconieri e falsi nueve Tra il ludico e il dilettevole ◆ Un esercito di originali creativi del bricolage pratici di codici binari e serie TV, opportunisti dei palloni vaganti e giardinieri dilettanti Sebastiano Caroni

Si muovono agevolmente dai margini al centro, e dal centro ai margini. Parlano i linguaggi della contemporaneità, si spostano fra le righe, spesso in modo imprevedibile, sfuggendo gli sguardi, eludendo i controlli, depistando le logiche. Sono legati al doppio filo della creatività: per sopravvivere al presente devono essere creativi e, se sono abbastanza bravi, il futuro li ricompenserà. Si chiamano hackers, makers, bracconieri e falsi nueve. Sono tutti, a modo loro, dei moderni bricoleurs. Chi manipolando codici binari, chi guardando serie TV, chi giocando di opportunismo sui palloni vaganti, e chi dilettandosi con gli strumenti del giardinaggio. Per sociologi e antropologi, il bricoleur è una figura importante. L’antropologo Claude Levi-Strauss, per dire, ha nobilitato il bricolage trasformandolo in metafora della cultura come atto creativo. Così come gli antropologi hanno trovato nel bricolage – e in un insieme di tecniche localizzate e appartenenti alla sfera dell’arte e del tempo libero –, una chiave di volta per illustrare il costante processo di assembramento, costruzione, e trasformazione del reale, allo stesso modo anche le nostre quattro figure ci rimandano al passaggio dal locale al globale. I nessi che avvicinano le nostre quattro figure all’arte del bricolage

si leggono, inoltre, anche nel destino delle parole che le definiscono. Delle quattro figure proposte, l’hacker e il maker provengono dallo stesso humus socio-culturale e sono decisamente contigue. Tuttavia, se il verbo inglese to make e il sostantivo maker rimandano a un significato sufficientemente generico per indicare attività diverse, il verbo inglese to hack all’inizio era piuttosto lontano dal senso che lo ha reso popolare: in effetti, in origine to hack significa fare a pezzi, e il sostantivo hack significa taglio o ferita. Nondimeno, come sappiamo, da qualche decennio il termine hacker è entrato in tutte le lingue del mondo con il significato di «dilettante appassionato di informatica, capace di introdursi senza autorizzazione in reti protette di computer o di realizzare virus informatici» (www.dizionari. corriere.it). La nascita e l’ascesa della figura dell’hacker è inscindibile dalla storia della controcultura americana. Nelle intenzioni dei precursori, però, lo spirito che il termine hacker incarnava non si esauriva nell’idea di smanettare abilmente con il computer. Quando la pratica dell’hacking nacque e si diffuse, l’hacker intercettava un ventaglio piuttosto ampio di attività che andavano dalle sperimentazioni musicali con chitarre distorte e luci stroboscopiche,

all’organizzazione di comunità eco-sostenibili, alla propensione per i viaggi psichedelici; fino, appunto, all’interesse per i computer. Steward Brand, uno dei pionieri della rivoluzione culturale che ci porta all’odierna società dell’informazione e della comunicazione, una volta si espresse in questi termini: «un hacker non dà nulla per scontato, ritiene che la creatività possa essere applicata a qualsiasi cosa e che la varietà che ne deriva aumenti i nostri livelli di adattabilità, resilienza e piacere». Semplificando un po’ le cose, gli hacker e i loro cugini maker sono fondamentalmente degli sperimentatori e degli autodidatti. La loro passione è l’artigianato in tutte le sue forme, dai computer al legno passando per il giardinaggio. L’affinità fra i due termini è confermata dal fatto che a popolarizzare il termine maker esaltandone l’anima rivoluzionaria da bricoleur sono, ancora una volta, i precursori della controcultura come Brand o Kevin Kelly, oggi nei panni dei nuovi guru della Silicon Valley. Chris Anderson, ex direttore della rivista «Wired», non ha dubbi sulla portata del fenomeno. Ecco cosa dice nel suo libro Makers: The New Industrial Revolution (): «Se ti piace seminare, sei un maker in giardino. Sferruzzare e cucire, tenere un album dei ricordi, decorare con le perline, e ricama-

re a punto croce: è tutto making». Di fronte a una tale promessa di inclusività, e a un tale entusiasmo, siamo tentati anche noi di lasciare tutto e di unirci alla causa dei makers: chissà che magari non ci ritroveremo a decorare perline in un moderno makerspace, uno spazio multifunzionale concepito per ospitare le attività e incoraggiare lo spirito imprenditoriale dei makers. A patto, naturalmente, di non scordarci dell’imprescindibile animo ribelle che caratterizza tanto gli hackers che i makers, e che ritroviamo nella figura del bracconiere. In realtà però non stiamo parlando di un vero e proprio bracconaggio, perché in questo caso il termine, usato da Michel de Certeau ne L’invenzione del quotidiano (), è da intendere in senso figurato. Secondo il gesuita, antropologo, linguista e storico francese ognuno di noi nella vita quotidiana mette in atto tutta una serie di micro-strategie, sviluppa dei rituali e delle tecniche attraverso cui personalizza la propria esperienza dello spazio e del tempo. Selezioniamo le informazioni che ci sono utili, disegniamo delle mappe con cui solchiamo il territorio. Come quando facciamo zapping, o attraversiamo con rapidità, a grandi salti, il paesaggio dell’offerta multimediale di una piattaforma streaming, per fermarci giusto il tempo di prendere

(saccheggiare) quello che ci interessa. Comportandoci, di fatto, come dei bracconieri digitali. Il termine «bracconaggio» usato da Michel De Certeau ha un senso positivo, perché permette di spiegare come ognuno di noi si ingegna a comporre, a mo’ di bricoleur, la propria quotidianità, arrangiandosi in modo creativo con le risorse a disposizione. Chi deve far prova di ingegno e di opportunismo, e di fiuto del goal, è anche il falso nueve. Si tratta di un ruolo, o forse sarebbe meglio dire un non-ruolo, calcistico, sintomatico dell’evoluzione di questo sport e di come alcuni suoi protagonisti (su tutti il tecnico spagnolo Pep Guardiola) abbiano inciso su tale evoluzione. Un sito specialistico lo definisce così: «Il falso nueve (…) è un giocatore che non va praticamente mai a occupare lo spazio della prima punta, che diventa decisivo in quella zona di campo proprio per la sua assenza». Inserendosi nella logica di uno sport dinamico e fluido, il falso nueve incarna l’imprevedibilità e la velocità del calcio moderno. Sta a lui capire quando, mettendo insieme i pezzi del gioco, uscire dall’invisibilità per costruirsi, quasi dal nulla – come un bricoleur modello –, l’azione vincente. E di sicuro qualcuno dirà, commentando l’azione, che ha rubato un goal. Come un bracconiere.


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TEMPO LIBERO

Stalattiti, stalagmiti e «funghi». Sotto, Il tortuoso percorso circolare che collega Neapoli con i villaggi di montagna Paradisi, Ano Kastania, Faraklo e Mesochori offre viste spettacolari sula baia di Vatika. In basso, ingresso della grotta: le visite guidate durano circa 40 minuti e possono essere limitati a gruppi di max. 10 persone a causa del coronavirus.

Un viaggio tra i cristalli della terra

Reportage ◆ Si trova ai piedi del monte Parnone ed è chiamata anche la vecchia chiesa di Agios Andreas, si tratta della Grotta di Kastania Simona Dalla Valle, testo e foto

Nell’estremità meridionale del Peloponneso, nascosta ai piedi del monte Parnone e a circa  km dalla cittadina di Neapoli, si trova la grotta di Kastania. L’antro è situato nei pressi del villaggio di Kato Kastania e l’unico modo per raggiungerlo è seguire il tortuoso percorso circolare che collega Neapoli con i villaggi di montagna Paradisi, Ano Kastania, Faraklo e Mesochori. È difficile tenere gli occhi sulla strada quando la vista è così avvincente, ma il tragitto è stretto e tortuoso, per cui richiede una guida attenta. I verdeggianti pendii montuosi si affacciano sul capo Akra Kamili, punteggiati da villaggi pittoreschi e chiese bizantine a picco sul blu intenso dell’antico mare di Mirtoo, la parte orientale dell’Egeo. Sfregiata dai passaggi di pirati e conquistatori, nelle vicinanze si trova la vecchia chiesa di Agios Andreas, un altro nome con il quale la grotta è conosciuta. La vera dimensione della Σπήλαιο Καστανιάς non è del tutto nota, poiché la sua esplorazione non è stata completata. La parte esplorata copre un’area di  mq sviluppata su due livelli, con una parte visitabile di  m di lunghezza. Tuttavia, non è la dimensione a rendere unica la grotta, ma l’abbondanza, la ricchezza e la diversità delle forme di stalattiti e stalagmiti. Anche l’occasione della sua scoperta ha un che di fiabesco. All’inizio del secolo scorso, il pastore Costas Stivaktas notò il movimento di un gruppo di api che si infilavano di continuo in una piccola buca nel terreno, uscendone… rinvigorite. La scoperta lo spinse ad aprire una fessura nel terreno e a continuare a scavare fino a rivelare una sorgente d’acqua prima, e in seguito una grotta di una bellezza toccante. Da allora, il pastore e i suoi figli entrarono spesso nella grotta per procurarsi l’acqua, facendosi luce con della sterpaglia acce-

sa alla maniera di una torcia. Questo continuò fino al , quando Stivaktas vide una cartolina che raffigurava la grotta e si rese conto della fama crescente del luogo. Tra enormi cascate di pietra rossa e bianca, gigantesche colonne multiformi e lastre che pendono dal soffitto simili alle figure formate dalla cera di una candela, si osservano formazioni simili ad animali come polpi e coralli così come elefanti e figure umane, a seconda dell’immaginazione di chi osserva. Una stalagmite piatta e rotonda è chiamata «il biscotto». Altre ancora richiamano i drappeggi di una tenda o una cascata. Queste ultime, in particolare, si formano quando l’acqua invece di scorrere direttamente dal soffitto, fluisce lungo le pareti. La colorazione bianca, più comune, è in genere formata da calcite, un minerale bianco. I colori più frequenti in relazione alla calcite sono il bianco sporco, bianco latteo o crema. Un corridoio a spirale conduce alla prima sezione, decorata con stalagmiti di varie forme e colonne. A sinistra, si trova la «camera rossa», che segue una direzione discendente. Il colore è dato dalla presenza di impurità all’interno dell’acqua, in genere causata dalla presenza di ossidi di ferro che, a seconda della quantità, conferiscono tonalità dal giallo e arancione fino al bruno. Una colorazione bruna o rossastra può essere causata anche dalla presenza di ossido di rame, mentre la presenza di ossido di manganese può creare colori più cupi come il nero o il marrone scuro. Sulla destra, una serie di pilastri conducono alla «camera dell’acqua», una grande e impressionante stanza con un piccolo stagno, proprio quello che portò Stivaktas alla scoperta della grotta. Una fila di enormi stalagmiti a un livello superiore sono poi simile a una grande balconata. A volte, quando stalagmiti e stalattiti si incontra-

no, finiscono per formare colonne o pilastri la cui altezza può superare una dozzina di metri. Passate la «camera dell’acqua» e l’«appartamento dei cespugli» si entra nella «camera dei funghi», una vasta stanza adornata da stalagmiti dalle forme più disparate. Queste formazioni, facilmente riconoscibili dall’aspetto bizzarro e apparentemente casuale, si sviluppano da piastre sulle pareti. La loro formazione dipende dalle gocce d’acqua che, cadendo dal soffitto, si schiantano sul terreno; ogni volta che schizzano in diverse direzioni, depositano una piccola quantità di calcare. Oltrepassandole si arriva alla «scala reale», decorata con stalagmiti a forma di cactus. La loro stratificazione ha portato alla creazione di una sorta di giardino esotico. Si accede dunque alla «camera degli abeti» con le gigantesche stalagmiti simili a piante, e alla «camera delle candele», salendo un’altra rampa di scale, con stalagmiti di alabastro che ricordano ceri pasquali. La «camera del cioccolato» prende il nome da un pilastro dal colore scuro. A sinistra, attraverso un’apertura, si può ammirare la «camera dell’alabastro» la cui decorazione bianca e trasparente è in netto contrasto con la prima camera in termini di colore e qualità. La trasparenza delle formazioni denota una maggiore purezza dell’acqua. Seguendo il corridoio a spirale al termine della visita guidata, che dura circa  minuti, si può godere di una bella vista d’insieme di tutte le camere. La grotta si è formata da calcari del Giurassico (che datano circa - milioni di anni), come risultato di disordini geologici e reazioni chimiche avvenute circa tre milioni di anni or sono, seguite da un periodo attivo di stillicidio e dalla formazione di sedimenti chimici. Al suo interno, il carbonato di calcio in forma di cristalli

arricchiti con gli ossidi metallici del sottosuolo ha creato una stupefacente tavolozza di sette colori. Da notare anche le stalagmiti piatte, le stalattiti eccentriche (così chiamate perché assumono strane forme a grappolo o si spingono in varie direzioni) e le elictiti (a causa della loro lenta formazione, la struttura cristallina della calcite depositata si altera, ruotando attorno a sé stessa e prendendo

una caratteristica forma a spirale). Con un po’ di fortuna, durante la visita è possibile incontrare un abitante della grotta, il dolichopoda, un genere di insetto con lunghe antenne sottili e piccoli occhi dalla visibilità ridotta. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica


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TEMPO LIBERO

La bevanda allungata del Platina Vino nella storia

Il nettare di Bacco secondo Bartolomeo Sacchi

Davide Comoli

Il rinnovato interesse che caratterizzò la cultura umanistica in tutte le sue espressioni, in Italia e più in generale in Europa, favorì un grosso fermento in tutti i campi portando «l’uomo» a riacquistare la consapevolezza delle proprie potenzialità. Dopo i secoli ritenuti bui del Medioevo, grazie a questa poderosa spinta nasce «l’uomo nuovo». Il rinnovato interesse per l’uomo favorì tra l’altro il moltiplicarsi dei trattati di gastronomia, questo anche grazie alle condizioni economico-sociali molto migliorate rispetto al passato. Il merito della diffusione dei testi, senza nulla togliere alla bravura degli autori, va indubbiamente alla competenza e al successivo evolversi dell’invenzione della stampa. La vigorosa spinta intellettuale prodotta da questa corrente, portò soprattutto le varie nobili corti della penisola a reagire alla lunga astinenza medievale, indulgendo nel lusso e nel fasto che non riguardava solamente le classi più elevate con i rispettivi personaggi, ma anche il popolo. In questa gara nell’esibizione di opulenza e vari privilegi, possiamo senza dubbio alcuno porre al vertice la Corte Pontificia, con i Papi e i suoi alti prelati, spesso più uomini di mondo che ministri di Dio. Ed è proprio qui, in questa sede, dove intrighi, nepotismi, voltafaccia repentini e favori alle grandi famiglie romane (Orsini, Colonna, Caetani,

Altieri, Borgia, eccetera), nasceva una delle maggiori opere della letteratura gastronomica italiana la: De honesta voluptate et valetudine (l’onesto piacere della mensa e la salute), scritta in latino (lingua degli umanisti) nel  dall’insigne Bartolomeo Sacchi detto il «Platina»; nato nel  a Piadena (in latino Platina) nel cremonese, morì di peste («pestilentia extintus est») il  settembre  a Roma. Egli dapprima seguì la carriera delle armi e solo più tardi si volse alla lettere, già in età matura. Nel  lo troviamo a Firenze, dove ha cordiale dimestichezza con Cosimo e Pietro de Medici, e nel  Francesco Gonzaga, secondogenito del marchese Lodovico, viene eletto Cardinale e sceglie il Platina come segretario; gli sarà sempre prodigo di affettuosa e benevola protezione, salvandolo due volte dalla prigione dove era stato relegato dal Pontefice Paolo II. Grazie a una cultura umanistica che comportava una certa deontologia morale, il mal costume dell’epoca gli procurò non pochi dispiaceri, soprattutto da parte di Paolo II, del quale con tutto il rancore che aveva dentro nel suo Liber de vita Christi ac omnium pontificum (Un libro sulla vita di Cristo e di tutti i Pontefici, opera dedicata al successore di Paolo II), Sisto IV del Rovere , scrisse: «Hebbe così in odio gli studii della humanità et così li dispreggiava e vilipendeva, che tutti

quelli che vi davano opera soleva egli chiamare heretici». Ma non divaghiamo, il De honesta voluptate et valetudine è suddiviso in dieci libri per un totale di  capitoletti. Nel libro I ci sono chiari riferimenti a precetti igienici dell’abitazione, sonno, amplesso, esercizi fisici, parla del cuoco e di alcuni frutti. Nel II ancora frutti, latte e formaggi; nel III frutta secca, droghe, erbe profumate; nel IV preparazione delle verdure, animali domestici e selvatici da pelo; nel V animali domestici e selvatici da piuma. Nel libro VI inizia poi il ricettario vero e proprio e si rifà al Libro de Arte coquinaria (Libro di arte culinaria, vanto della nostra Val di Blenio, circa ) di Maestro Martino. A capo  (Cibaria Alba) il Platina scrive: «Il mio amico Martino di Como dal quale son tratte in gran parte delle cose che scrivo» e vivacizza le ricette con fatterelli, notizie e personaggi. Nei libri che seguono tratta del modo di cucinare le vivande ed elenca le varie salse. È nel libro X che alla fine tratta del vino e degli accorgimenti per placare le emozioni. Di seguito trascriviamo dunque alcuni passaggi del suo De vino, pur non condividendone totalmente le dichiarazioni: «La cena e il pranzo senza bevande, non solo sono ritenuti poco gradevoli, ma anche poco salutari, poiché il be-

Sisto IV nomina Bartolomeo Sacchi, detto il Palatina, Prefetto della Biblioteca Vaticana, affresco di Melozzo da Forlì (1438-1494). (Jean Louis Mazieres)

re, per chi ha sete è più dolce e gradito di qualsiasi cibo per chi abbia fame. Conviene innaffiare il cibo, sia per rinfrescare i polmoni sia per meglio stemperare e digerire quello che abbiamo mangiato. Il vino che Androchide, scrivendo ad Alessandro col proposito di frenare la sua intemperanza, chiamò sangue della terra, ha il potere di riscaldare e di rinfrescare… Ne viene che niente è più pronto del vino nel soccorrere i corpi affaticati, purché sia preso con moderazione. Niente invece è più dannoso se venisse a mancare il senso della misura. A causa dell’ubriachezza gli uomini

diventano infatti tremebondi, grevi, pallidi e maleodoranti, smemorati, cisposi, sterili e tardi a procreare, canuti e calvi e vecchi anzitempo». Il Nostro parla poi di quando e che tipo di vino usare a seconda della stagione, dell’età, delle proprietà dei vari tipi di vino e il modo di vinificare, concludendo così: «Quanto a noi è sufficiente che passiamo in rassegna i vini maggiormente pregiati (-). Ma prima desidero esortare i lettori a non credermi per questo un beone; poiché non c’è nessuno più di me per principio e per natura, faccia uso di vino allungato». Annuncio pubblicitario

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TEMPO LIBERO

Più che ingredienti, «arricchitori» Gastronomia

Non sono indispensabili ma di certo molto utili per dare quel tocco in più alle nostre preparazioni

mente sciacquati, ma hanno un uso più limitato. Concentrato di pomodoro. È una salsa di pomodoro disidratata. Teoricamente si può fare in casa, ma è meglio comprarlo già fatto, in tubetto. Può essere semplice, doppio e triplo, con crescenti tassi di disidratazione – ovviamente, meglio utilizzare il triplo. Si utilizza dopo averlo stemperato in un liquido. Serve a dare spessore alle preparazioni e a legarne i sapori, va benissimo anche come colorante, soprattutto in spezzatini o ragù di carni, che diventano di un colore più bello, mattone invece che beige, si sa che l’occhio vuole la sua parte. È un prodotto veramente versatile e di utilizzo universale. Senape e cioccolato grattugiato sono dei leganti (quasi) altrettanto versatili del concentrato di pomodoro. La senape è più intrusiva. E anche in questi casi:  g per  persone. Funghi secchi. È un altro onnipresente ingrediente della cucina. Si utilizzano prevalentemente funghi porcini, venduti a fette o sminuzzati. Prima dell’uso bisogna farli rinvenire, cioè ammollarli in acqua tiepida.  minuti sono sufficienti,  ora è meglio. Alla fine, si scolano, si strizzano e si tagliano a julienne o si tritano. Non gettate l’acqua di ammollo: basta filtrarla in un passino a trama fine per sostituire parzialmente l’acqua o il brodo vegetale nella preparazione dove si aggiungono i funghi ammollati. Le dosi indicative, salvo le solite eccezioni, sono anche qui  g di funghi secchi per  persone. Pangrattato. Serve a legare gli ingredienti sminuzzati, è una crosta per ingredienti fritti e ha altri innumerevoli utilizzi. Perché non penalizzi una preparazione, meglio utilizzare del (buon) pane casereccio secco, privarlo della crosta e grattugiarlo quando va usato: è una cosa facile da fare.

Come si fa?

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Parliamo oggi di alcuni «arricchitori», cioè ingredienti che usiamo per arricchire i nostri piatti, mai del tutto indispensabili però molto utili. Sono più di quanto si pensi; quelli di cui parlo oggi sono una mia personale selezione. Cipolle. Questo bulbo è di utilizzo veramente universale, ineliminabile. In origine killer dei batteri, oggi il suo sapore sta nel nostro DNA e se manca la pietanza non piace. Come tutti sanno, meglio non soffriggerle (cuocerle) con un grasso, perché sopra i °C degradano. Quindi spezzettatele, stufatele con poca acqua, frullatele e tenetele in frigo in un barattolo di vetro aggiungendole a cucchiai quando serve. Aglio. È sempre stato un grande sanificatore, anch’egli killer di batteri. Oggi ha senso aggiungere  spicchio di aglio, non di più, solo per profumare un grasso che si sta scaldando, salvo le solite eccezioni. Quindi private lo spicchio di aglio della tunica (la buccia) che lo ricopre e schiacciate leggermente il bulbillo (lo spicchio vero e proprio) con il batticarne o con la lama piatta di un pesante coltello in modo da permettere all’aglio di aromatizzare al meglio il grasso. A fine cottura si può levare – essendo intero è facile – o anche no, dipende dai gusti, io non lo levo mai ma ognuno faccia come vuole. Pur amandolo, ben raramente ha senso tritarlo e aggiungerlo a una preparazione. Capperi. Sono buoni e quasi universali, soprattutto in piatti di pesce. In genere si utilizzano quelli sotto sale, previa dissalazione, e normalmente bastano  g per  persone. Per dissalarli, dovete sciacquarli bene e poi metterli in una bacinella colma di acqua. Lasciateli a mollo per una ventina di minuti, se potete cambiando l’acqua un paio di volte, poi scolateli, sciacquateli ancora e strizzateli. I capperi sott’aceto vanno solo rapida-

Pixnio.com

Allan Bay

Vediamo come si fanno due piatti unici, che amo moltissimo. Maiale con le prugne (ingredienti per  persone). Tagliate  g di polpa di maiale a cubi. In una casseruola fate scaldare un filo di olio. Fateli colorire rigirandoli da tutti i lati. Sfumate con un bicchierino di vi-

no. Coprite a filo di brodo bollente, unite  cucchiaiate di soffritto di cipolle e lasciate sobbollire coperto per  minuti. Unite alla carne  g di prugne secche denocciolate e proseguite la cottura per altri  minuti. Insaporite con qualche chiodo di garofano, una punta di noce moscata e timo e regolate di sale e pepe. Lessate  g di riso basmati in acqua bollente salata per  minuti, poi scolatelo e disponetene la metà in una pirofila imburrata. Coprite con il maiale, fondo di cottura compreso, e ricoprite con il riso rimasto. Distribuite alcuni fiocchetti di burro sul riso, chiudete la pirofila, con il suo coperchio o con carta d’allu-

minio, e cuocete in forno a ° per  minuti. Khoresh con albicocche (per ). Piatto della festa in quella vasta area che va da Istanbul al Pakistan. Semplice e perfetto. Tagliate a dadi  g di spalla di agnello, fatela saltare in padella con abbondante burro per  minuti, coprite a filo di brodo di agnello (o di vitello o di verdure) bollente, unite  cucchiaiate di soffritto di cipolla e cuocete coperto per  ora. Unite  g di albicocche secche denocciolate, fatte rinvenire in acqua tiepida per  minuti, strizzate e spezzettate, dunque cuocete per  minuti. Regolate di sale e servite con riso pilaf.

Ballando coi gusti

Oggi due proposte molto estive, che non richiedono cottura – a parte la tostatura dei pinoli…

Peperonata, o quasi, con pinoli, alici, capperi e olive

Seppia con zucchine al basilico

Ingredienti per 4 persone: 1 peperone rosso – 1 peperone giallo – 1 cipolla rossa – 10 pomodorini – foglie di basilico – 1 cucchiaino di origano secco – 4 filetti di alice sott’olio – 1 manciata di pinoli tostati – 1 cucchiaio di capperi sotto sale – 1 cucchiaino di peperoncino in polvere – olio di oliva – sale.

Ingredienti per 4 persone: 300 g di seppie già pulite – 200 g di zucchine piccole – 1 limone – foglie di basilico – 1 spicchio di aglio – olio di oliva – sale e pepe.

Con un coltellino ben affilato pelate i peperoni, tagliateli a metà, togliete le parti bianche e i semi e tagliateli a piccole falde. Sciacquate i capperi, sgocciolate le alici dall’olio e tagliatele a pezzetti. Tagliate la cipolla al velo e i pomodorini in  parti. Mettete tutte le verdure in una ciotola, unitevi i pinoli, le alici, l’origano, il peperoncino e le foglie di basilico spezzettate. Condite con olio e sale e mescolate con cura.

Lavate le zucchine, spuntatele e con un pelapatate tagliatele a fette sottili e poi a julienne. Mettete la julienne di zucchine in una ciotola e conditele con olio, sale, pepe e basilico spezzettato. Togliete i tentacoli alle seppie e teneteli da parte per altre preparazioni. Aprite le seppie e tagliatele a listarelle sottilissime. Sfregate una ciotola con l’aglio schiacciato e mettetevi le seppie. Conditele con olio, sale, pepe e poco succo di limone. Mettete sul piatto le zucchine al basilico e sovrapponete le seppie. Decorate con foglie di basilico e spicchi sottili di limone.


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Come ottenere da una semplice scatola di cartone un gioco intramontabile

Giovanna Grimaldi Leoni

Il tutorial di oggi ha come protagonista uno dei giochi classici più amati dai bambini: la pista delle biglie. Vediamo insieme come crearne una utilizzando carta, cartone e tanta creatività. Semplice e veloce da realizzare insieme ai vostri bambini che potranno colorare le casette con la tecnica che preferiscono e creare degli sfondi nelle molte sfumature del verde da cui ricavare alberi e cespugli. Procedimento Con la tecnica che preferite colorate di verde un foglio bianco. Potete divertirvi a mischiare tecniche diverse per ottenere delle texture interessanti. Lasciate asciugare.

re con la pendenza della «strada» che andate a creare. Nota: nel posizionare le strisce fate in modo che l’ultima arrivi a  cm dal fondo della scatola in modo che le biglie finiscano la loro corsa in un contenitore che incollerete in seguito. Con le strisce da cm create per ogni tratto di pista le barriere di protezione, sempre fissando il tutto con la colla. Eviterete così che le biglie prendendo velocità fuoriescano. Decorate quest’ultime con dei tratti verticali di pennarello nero. Rivestite la parte dove scivolerà la biglia con del cartoncino verde applicato con colla vinilica, quindi posizionate le casette e gli alberi che avete ritagliato in precedenza. Potete creare questi elementi utilizzando vari materiali di riciclo nei toni del verde. Alternare materiali con consistenze, spessori e tonalità diverse rende la composizione più interessante! Posizionate alla fine del percorso della biglia un contenitore fatto semplicemente piegando una striscia di cartone a «U». Se necessario regolate l’altezza in modo che si inserisca perfettamente tra l’ultimo tratto e il profilo della scatola. La vostra pista è pronta, non vi resta che provarla con le vostre biglie o alcune perle in legno. Buon divertimento!

Stampate il cartamodello (che trovate su www.azione.ch) su carta spessa (almeno g) e coloratelo. Ritagliate le tre casette. Dal cartone di riciclo tagliate - strisce larghe cm e altrettante da cm. Regolate ora la lunghezza delle strisce in base alla vostra scatola, in modo da avere un paio di strisce larghe quasi quanto la vostra base, ed altre più corte. Dai fogli verdi colorati in precedenza, e dagli altri materiali di riciclo color verde ritagliate piante e piccoli arbusti. Con la colla a caldo applicate le strisce da  cm alla base, è importante utilizzare un cartone sufficientemente spesso (ca. mm) in modo che la pista risulti ben rigida e non esagera-

Giochi e passatempi Cruciverba

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Il dottore alla paziente: «Cara signora se vuole dormire non deve portare i suoi problemi a letto!». Trova cosa replica la paziente leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 2, 2, 2, 3, 6, 3, 5, 7, 3, 6) ORIZZONTALI 1. Sudicio, sporco 5. Animali... di classe 9. Infatti latino 10. Fiume nordafricano 11. Sa scriverla il poeta 12. Si spostano insieme ai monti 13. Andato per Giulio Cesare 15. Particella negativa 16. Piccoli frutti 17. Nome di donna 18. Sette in una famosa danza 19. Un passato di patate 20. Indossate da vescovi e sacerdoti 22. Elargite dalla natura 23. Fanno parte della cooperativa 24. Era detta «caput mundi» 25. Preposizione 26. Custodite dalle vestali 27. Condimento per la pasta 28. Non cambia se letta al contrario

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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Sudoku

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• Il coperchio o il fondo di una scatola (profondità di almeno 5 mm, misure 20x30 cm o più grande) • Cartone di riciclo da scatoloni un po’ spessi • Cartoncini bianchi e verdi • Materiali vari (piccoli pezzi) nei toni del verde: panno, gomma crepla, adesivi, carta per collage, panni da cucina • Colori, pennarelli, pastelli, acquarelli (a scelta e da mischiare liberamente) • Forbici, taglierino, righello • Colla a caldo e colla vinilica bianca • Stampante per il cartamodello

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku 5

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29. Un’interruzione di corrente... 30. Il noto della Vigna 31. Persona che non mangia carne e derivati animali 32. Sono imbarcazioni VERTICALI 1. A questa si paragona la donna forte e combattiva 2. Hanno creste spumose 3. Cattive 4. Abbreviazione di decimetro 5. Anagramma di seri 6. Eliminano i cigolii 7. Adesso per Trilussa 8. Fallita... in Francia 10. Le ha grandi l’elefante 12. Taglia, dimensione

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13. Scritta sulla croce di Gesù 14. Lodare e celebrare pubblicamente 16. Alberi da frutto 17. Una fibra grezza 18. Si spiega cantando 19. Mela 21. Circondata da merli 22. Di legno nella botte 24. Increspatura cutanea 25. Osso del bacino 27. Con, insieme, nei prefissi 28. Fiume della Francia 29. Le iniziali dell’attore Abatantuono 30. Le iniziali di un giornalista Angela

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Soluzione della settimana precedente PERSONAGGI E CURIOSITÀ – Winston Churchill aveva… Resto della frase: …UN’ANCORA TATUATA SUL BRACCIO.

U N T A

L E A L E

O R A R I

S O B C E R I N T

A N’ C A T I P U R M N I A T

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


Settimanale di informazione e cultura

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azione – Cooperativa Migros Ticino

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TEMPO LIBERO / RUBRICHE ●

Viaggiatori d’Occidente

di Claudio Visentin

Crisi nei cieli ◆

#revengetravel è l’hashtag dell’estate ; o #liberationtravel, se preferite. Di certo dopo lunghi mesi di lockdown e restrizioni assortite la voglia di recuperare il tempo perduto è esplosiva. Il  % degli europei sta organizzando un viaggio da qui a novembre (European Travel Commission); le prenotazioni hanno sorpassato i livelli pre-pandemia (Mastercard); in rete si registrano ricerche record in ambito turistico (Google). L’ottimismo tuttavia deve fare i conti con la realtà. Per cominciare dobbiamo quasi imparare da capo i fondamenti del viaggio: quanto tempo prima devo chiedere il visto? Cosa si mette in valigia per più settimane? Guide cartacee oppure online? Inoltre la macchina organizzativa del turismo fatica a rimettersi in moto. A guerra, inflazione, aumento del prezzo dei carburanti e risvegli del morbo si è aggiunto nelle ultime settimane il caos negli aeroporti di mezza Europa.

Amsterdam Schipol ha ridotto la sua operatività del %, Londra Gatwick del % e così via. Di conseguenza le compagnie aeree hanno dovuto cancellare molte partenze. British Airways per esempio ha annullato quasi diciottomila voli in giugno, togliendo dal mercato tre milioni di posti. Non va meglio per KLM, Lufthansa, easyJet, Ryanair. La principale strozzatura sembra essere la carenza di personale. Qualche compagnia ha licenziato buona parte dei suoi collaboratori con troppa disinvoltura nei momenti difficili e, quando la domanda è ripartita di colpo, ha scoperto che questi nel frattempo hanno trovato altre occupazioni. A Heathrow, il principale aeroporto di Londra, negli anni scorsi un assistente di terra guadagnava poco meno di ventimila sterline, ora non lo si trova neanche a trenta (e comunque ci vuole tempo per addestrare nuovi collaboratori). In questi anni

il personale rimasto in servizio ha visto peggiorare le sue condizioni contrattuali e se ha accettato la situazione quando le principali compagnie aeree perdevano sino a un milione di dollari l’ora (!), ora è molto meno conciliante: da qui i numerosi scioperi. Anche l’introduzione di nuove tecnologie per evitare contatti personali sta creando disagi perché non ancora abbastanza sperimentate. Ci sono poi gli imprevisti di sempre: nell’aeroporto parigino Charles de Gaulle un banale guasto tecnico ha mandato in tilt il sistema di riconsegna bagagli. Ognuno ha una storia da raccontare. Lo scorso  giugno il veterano della Royal Air Force (RAF) Joe Rylance,  anni, è rimasto seduto per terra per un’ora in uno stretto corridoio dell’aeroporto di Pisa, prima di sentirsi dire che il suo volo per Manchester era cancellato. Avrà rimpianto il tempo quando, pilotando aerei da guerra, almeno riusciva a decollare?

Al di là delle diverse storie, è diffusa la convinzione che questa non sia una crisi passeggera. Un portavoce di British Airways ha sostenuto che «l’aviazione affronta il periodo più impegnativo della sua storia». In Germania il ministro del Lavoro Hubertus Heil ha ammesso che «qualcosa è andato storto». E anche l’amministratore delegato di Ryanair, Michael O’ Leary, con la consueta franchezza ha affermato che da molti punti di vista il tempo delle compagnie low cost potrebbe essere finito: «Non credo che i viaggi aerei siano sostenibili nel medio periodo se il prezzo di un biglietto è di quaranta euro». Nelle previsioni di O’ Leary il costo di un volo Ryanair potrebbe passare a cinquanta o sessanta euro, tra ecotasse e aumenti del carburante, ma la sua stima sembra davvero ottimistica. Io non mi stupirei se aumentassero di dieci volte. Nel mondo delle compagnie low cost infatti ci so-

no troppi costi nascosti, attualmente scaricati sulle destinazioni, sull’ambiente, sulle condizioni di lavoro di assistenti e piloti. È una situazione paradossale. Certo queste compagnie hanno molto ampliato la platea dei viaggiatori, ma hanno davvero reso il volo alla portata di tutti? Anche se paghi l’aereo poche decine di euro, viaggiare resta costoso, tra alberghi, ristoranti, attrazioni. Volare è un privilegio? Prima della pandemia solo il % della popolazione mondiale prendeva l’aereo almeno una volta l’anno e nel  appena l’% ha fatto almeno un volo aereo (secondo uno studio dell’università Linnaeus). I passeggeri sono quasi tutti professionisti, dirigenti e funzionari; solo % gli operai. In compenso l’% degli esseri umani, i Frequent Flyer, causa da solo il % delle emissioni di CO attribuite agli aerei. Una volta superato il caos, serviranno idee nuove.

Passeggiate svizzere

di Oliver Scharpf

L’Isola dei Cipressi ◆

Mi era venuto un colpo, acciuffando con lo sguardo, sulla corriera, tornando da non so dove non mi ricordo più quando, un’isoletta su un lago la sera. Rimasto a lungo negli occhi quel miraggio insulare insperato, ultima possibilità di un’isola a due passi da casa, quando decisi di andarci non si poteva. Inaccessibile negli ultimi tempi, tra surrealistici problemi burocratici legati ai wallaby e poi il covid, alle quattro e qualcosa salpiamo da Bosisio Parini. Paesello soporifero ribattezzato così nel , in omaggio al poeta Giuseppe Parini nato qui due secoli prima. E ben noto agli intenditori di Segantini: si trova sullo sfondo dell’Ave Maria a trasbordo (). In primo piano, al tramonto, una barca tipo Lucia stracarica di pecore con madre e bambino in grembo e ai remi un uomo con basco mezzo addormentato, è in mezzo al lago di Pusiano. Dove adesso a bordo

di un battello elettrico, in ventuno, ci dirigiamo, con tutta calma, verso l’Isola dei Cipressi. Dal  di proprietà della famiglia Gavazzi, industriali serici di Valmarenca, i casini vari sono iniziati – mi svela «il mozzo» Luigino – a partire dai fuochi d’artificio alle due di notte al matrimonio di Ambrosini, centrocampista del Milan, nel giugno . Wallaby spaventati, guardie forestali, visite annullate, accuse ingiuste di zoo abusivo, invidie paesane riemerse eccetera. Una pietra sopra e via, da quest’anno si riparte con le visite guidate della Pro Loco Bosisio Parini come quella di oggi, capitanata da Gian Luigi che ha una faccia da attore. Il senso di miraggio si ripete, quando, alle quattro e ventitré, avvisto l’isoletta lacustre briantea. Forse sono le cime dei cipressi a conferirle quel tocco di irrealtà. Accentuata dalle nuvole a pecorelle che

pennellano il cielo, ma magari si tratta solo di islomania. Appena sbarchiamo sull’Isola dei Cipressi ( m), un caldo pomeriggio ai primi di luglio, gli strani versi di uccelli esotici hanno quantomeno il pregio di zittire, per un attimo, Letizia, la guida. Un pavone innamorato della canna dell’acqua, fa la ruota e tutti «aah, uuh». «L’isola fu molto cara agli svaghi amorosi del Beauharnais» si scopre nel libro dedicato alla storia dell’isola di Gerolamo Gavazzi, proprietario attuale e ideatore della fauna esotica. Si tratta di Eugène de Beauharnais (-), figliastro di Napoleone e viceré d’Italia. Un altro visitatore illustre, più fugace, ma pure lui indaffarrato in un’avventura amorosa (quasi sketch involontario su una barchetta), è Stendhal che nel Diario del viaggio in Brianza, ritrovato dopo la morte tra le sue carte, annota il ventotto agosto :

«è più grande di quanto si potesse pensare». Due ettari circa, popolata da quindici wallaby ed esplorata ora a passo di wallabee. Mocassini in pelle scamosciata nati nel  e chiamati così ispirandosi ai salti di questi marsupiali troppo piccoli per essere definiti canguri. Infatti il passo è agile e molleggiato. Sul prato girano le gru coronate. In una casetta stile cottage c’è un micromuseo dove si possono vedere le punte di lance del neolitico ritrovate qui. Granparte della comitiva sembra però più attratta da un megatrampolino per tuffi in ferro battuto floreale. La casa sull’albero attira anche molto. «Architettura scozzese» dice, seria, Letizia. In giro con noi c’è anche Marcello, il custode dell’isola da una vita. Oggi ha il compito di tenere d’occhio il fagiano argentato che l’ultima volta se l’è presa con Luigino. Una bambina accarezza

una tartaruga, un’altra più grande va a caccia di piume per terra. Si lancia uno sguardo alla casa rustica di fine ottocento, non lontana dalla quale c’è l’alcova dell’Eugène de Beauharnais, ma aspettiamo tutti la grande attrazione dell’isola: i wallabee. Saliamo su un’altura dietro la casa nota come «la terrazza dei cipressi», percorsa da antiche mura tipo castello da dove, si dovrebbero vedere, nell’ombra della vegetazione, i wallaby. Eccone uno, poi due, immobili, bellissimi. Salta fuori anche Simone Gavazzi tutto sorridente. L’idea dei wallaby liberi è ancora un segno dell’anglofilia di suo papà, Gerolamo Gavazzi. Li aveva visti in un parco inglese che secondo le mie ricerche dovrebbe essere nel Sussex. Sir Edmund Giles Loder, esperto di rododendri, verso il , introduce nei Leonardslee Gardens i primi wallaby da cui discendono quelli che vivono ancora lì.

Sport in Azione

di Giancarlo Dionisio

Pronti per un altro giro di giostra ◆

Durante il week end appena trascorso è partita la nuova stagione di Super e di Challenge League. Il calcio ticinese si è presentato al via con una novità. Dopo due anni torna a essere rappresentato da due società: il Lugano nella massima serie e il Bellinzona nel campionato cadetto. Si tratta di uno scenario per certi versi inimmaginabile, per altri prevedibile. Qualcuno all’ombra dei castelli storcerà il naso. Ma come, perché inimmaginabile? Beh, non possiamo sottacere che di questi tempi diventi sempre più difficile raccogliere fondi e risorse per mantenere un club sportivo nell’élite nazionale del calcio o dell’hockey su ghiaccio. Dopo che era stato decretato, nel maggio del , il fallimento per eccesso di debiti dell’AC Bellinzona targata Giulini, si poteva ipotizzare una

tendenza votata a una sorta di selezione naturale. Mentre il Lugano di Angelo Renzetti prima, quello di Joe Mansueto oggi, pareva già più destinato a raccogliere risorse, pubblico, affetto anche da altri angoli del Cantone che non fossero quelli abituali. Dopo la conquista della coppa Svizzera da parte dei ragazzi sotto la guida del Condottiero Mattia Croci-Torti, questa ipotesi sembrava ancora più concreta. Il fallimento, aveva infatti costretto i Granata a ripartire l’anno successivo dalla a Lega. Il Locarno, per ragioni analoghe, navigava ancora più in basso. Ora si è assestato in a lega. Dal canto suo il Chiasso, retrocesso due anni fa in Promotion League, è alle prese con dei cambiamenti di assetto societario che, almeno per il momento, non

danno l’impressione di essere preludio di una risalita. Perché quindi accennavo a uno scenario anche prevedibile? Perché la storia e la passione possono far compiere miracoli. Si sa che a Bellinzona il calcio è scolpito nel DNA della gente. Se i colori granata corrono, il pubblico vola. Con pazienza e con tenacia , la società presieduta da Paolo Righettti ha saputo risorgere dalle proprie ceneri. E ora eccola qua, in Challenge League. Da come si è mossa sul mercato non sembra affatto intenzionata a fungere da comparsa. L’ex internazionale David Sesa a dirigere l’orchestra, e l’ex rossocrociato Gaetano Berardi, rientrato, a  anni, da una lunga e proficua esperienza all’estero, sono solo le luci più luminose di un gruppo che promette faville. In Ticino siamo viziati dall’acce-

so dualismo tra Lugano e Ambrì-Piotta, senza il quale amore e slanci verso il campionato di hockey su ghiaccio ne uscirebbero molto ridimensionati. Basta confrontare gli indici di ascolto televisivo dei derby, con quelli delle partite che coinvolgono almeno una delle due ticinesi, e quelli delle sfide prive di loro. È un viaggio agli inferi. Sarà possibile ricostruire la cultura del derby anche nel calcio? Chissà? Faccio fatica a trovare una risposta. Se guardassi la storia e tornassi indietro a un epoca non lontanissima, in una Lega Nazionale con  squadre, di cui  ticinesi, la risposta sarebbe scontata. Ma il calcio di oggi è diversissimo da quello di  o  anni fa. E non sto alludendo a questioni tecniche, tattiche o atletiche. Penso, oltre ovviamente alle risorse

finanziarie, alle importanti esigenze strutturali: dallo stadio, compatibile con le norme UEFA, a tutte le figure professionali necessarie per far funzionare il meccanismo. Giorni fa, sollecitato sulla coesistenza nell’élite di Lugano e Bellinzona, Mattia Croci-Torti, con diplomazia, ha dichiarato che per i nostri giovani non è facile compiere il grande balzo dalla U del Team Ticino alla Super League. Solo i fenomeni ce la farebbero senza soffrire. Per gli altri ragazzi è necessario un percorso graduale e morbido. Oggi ci ritroviamo con alcune squadre ticinesi in a lega, una in Promotion, una in Challenge e una in Super. Uno scenario apparentemente ideale. Se non fosse che lo spirito di campanile, da un lato può mettere le ali, dall’altro può rivelarsi un pesantissimo fardello.


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ATTUALITÀ

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La guerra del gas La Russia chiude i rubinetti mentre l’Europa si interroga su come emanciparsi a livello energetico

Scarsità e inflazione La maggioranza degli esperti non ha visto arrivare la più grande svolta economica degli ultimi anni

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L’India a Saint-Tropez La vicenda di Bannu Pan Dei e del generale Jean-François Allard, timorosi di incappare nella «sati»

Una tassa poco contestata Pronta la legge per introdurre l’imposta del 15 per cento sugli utili delle multinazionali

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Quando l’illusione della sicurezza si spezza Giappone

L’uccisione dell’ex premier Shinzo Abe riporta il paese ad un passato caratterizzato da incomprensione e violenza

Giulia Pompili

Per annunciare la sua morte ai media internazionali hanno aspettato che la moglie, Akie Abe, arrivasse all’ospedale di Nara dove Shinzo Abe – ex premier del Giappone – era stato ricoverato poche ore prima, privo di sensi e in collasso cardiaco. Un protocollo necessario per controllare le comunicazioni e il loro impatto sui media, ma anche una gentilezza nei confronti di questa donna di  anni,  dei quali trascorsi accanto a una delle personalità più importanti del paese. Shinzo Abe era un politico divisivo, controverso, ma una figura politica di quella statura, in Asia orientale, non si vedeva da parecchio tempo. Come da decenni non si vedeva un attacco a un politico nell’esercizio delle sue funzioni: un proiettile sparato a distanza ravvicinatissima durante un comizio elettorale. Per rivivere episodi di violenza politica di questo tenore, in Giappone, bisogna tornare indietro in un passato che ciclicamente viene messo da parte, accantonato, dimenticato. Dal Dopoguerra in poi, dopo la resa incondizionata dell’Impero giapponese che mise fine alla Seconda guerra mondiale in Asia, il paese del Sol levante, quello dell’imperialismo e delle colonizzazioni, si era trasformato in un luogo sicuro, con un tasso di microcriminalità quasi pari a zero, e in generale pacifico, complice una rigidissima legge sul controllo delle armi da fuoco. Ma come ogni posto in cui la discussione pubblica può essere dura, violenta e polarizzata, il mito della sicurezza del paese è stato di tanto in tanto tradito. Soprattutto dalla criminalità organizzata: nel  il sindaco di Nagasaki, Iccho Ito, è stato ucciso con un colpo di pistola per strada da un uomo in collera con il municipio, che si era rifiutato di risarcirlo dopo che la sua auto era stata danneggiata in un cantiere di lavori pubblici. Quell’uomo era Tetsuya Shiroo, boss locale legato alla Yamaguchi-gumi, una delle più grandi e potenti organizzazioni criminali della Yakuza giapponese. La mafia nipponica è anche quella che ha a disposizione più armi da fuoco e i rari casi di cronaca in cui, di recente, sono state coinvolte pistole o fucili hanno quasi sempre a che fare con la Yakuza. In ogni caso, secondo l’Agenzia nazionale di polizia, nel  in Giappone si sono verificati soltanto  incidenti con armi da fuoco. È rimasta uccisa solo una persona, in un paese di  milioni di abitanti. La legge sul controllo delle armi è stata introdotta in Giappone negli anni Cinquanta, ma è una tradizione che risale al Settecento, quando l’arma più usata era la spada (katana) e non la pistola. La strategia nipponica è sempre stata quella della de-escalation, anche negli scontri tra la cri-

Funerale di Shinzo Abe. (Shutterstock)

minalità e la polizia. Molto più di quelle occidentali, le forze dell’ordine giapponesi studiano le arti marziali, kendo e judo; usano più facilmente i manganelli rispetto alle pistole d’ordinanza. In questo modo, secondo gli esperti, si creano di rado situazioni di pericolo in cui polizia e criminali si confrontano con armi da fuoco. C’è anche una certa attitudine della società nipponica all’autocontrollo, al non creare disturbo negli altri, soprattutto quando si tratta di essere tra la gente, alla luce del giorno.

La strategia nipponica è sempre stata quella della de-escalation, anche negli scontri tra la criminalità e la polizia È anche per questo che a Shinzo Abe, ex primo ministro, come a tutti i politici di oggi nel paese, era permesso di fare intere campagne elettorali tra la gente, riducendo il più possibile la distanza anche fisica con gli elettori. Quando è stato ucciso si trovava su un piccolo podio posizionato ad una intersezione stradale davanti alla stazione ferroviaria della città di Nara. Aveva iniziato a parlare da circa

due minuti quando il quarantunenne Tetsuya Yamagami è uscito dalla folla, si è avvicinato alle spalle all’ex primo ministro brandendo un’arma rudimentale, tenuta insieme da uno scotch da pacchi nero. Ha premuto il grilletto due volte. Al secondo, Abe si è accasciato a terra. Si è discusso molto dello shock collettivo che ha provocato l’attentato contro Shinzo Abe. Un uomo che ha rappresentato molto per il Giappone, anche perché era uno dei pochi politici a essere riconosciuti all’estero, e che aveva dato stabilità al paese dopo un periodo di esecutivi che duravano al massimo un anno. Shinzo Abe era il volto di una diplomazia nuova, con idee fuori dalle rigidità burocratiche. Aveva carisma e, appena insediato per la seconda volta, nel , iniziò a lavorare a un progetto che porta il suo nome, le Abenomics: una serie di politiche economiche coraggiose e innovative che ancora oggi vengono studiate dagli analisti. Abe però era anche un leader controverso. La sua corrente all’interno del Partito liberal democratico giapponese era quella più nazionalista e conservatrice, faceva parte della Nippon Kaigi, una lobby di nazionalisti frequentata anche da esponenti del ne-

gazionismo e del revisionismo storico giapponese. Molti erano i suoi oppositori, in politica ma anche tra i cittadini. Lo shock collettivo provocato dalla sua uccisione, dunque, non si spiega soltanto con la statura della sua figura politica. Forse il suo attentato ha ricordato a molti quello contro suo nonno, Nobusuke Kishi, che era stato uno dei funzionari giapponesi nella Manciuria occupata e poi sfuggì alla condanna per crimini di guerra. Nel  Kishi era primo ministro, fu accoltellato sei volte da un nazionalista scontento delle politiche di avvicinamento del Giappone all’America. Qualche mese dopo Inejiro Asanuma, leader del partito socialista giapponese, fu colpito a morte da un uomo armato di spada durante un dibattito televisivo. Gli anni Sessanta furono anni turbolenti per la politica giapponese; il clima poi addirittura peggiorò con l’arrivo del terrorismo dell’Armata rossa nipponica. L’attacco contro Abe ha fatto tornare i giapponesi a un passato che pareva sepolto, a una politica e una società arrabbiata e fuori controllo che sembrava dimenticata. Secondo la polizia Tetsuya Yamagami, l’attentatore, non avrebbe agito con motivazioni politiche, ma a causa di un «risentimento» nei confronti di

Abe. L’ex primo ministro aveva infatti appoggiato politicamente la Chiesa dell’unificazione, una setta religiosa a cui appartiene la madre di Yamagami e per colpa della quale la sua famiglia è finita in bancarotta (tale setta fu fondata nel  dal predicatore sudcoreano Sun Myung Moon, divenuto celebre nell’America degli anni Settanta perché organizzava matrimoni di massa tra adepti). Ma al di là del movente, che emergerà probabilmente in fase processuale, un attacco a un uomo politico, con arma da fuoco, a due giorni dalle elezioni per il rinnovo di una parte del Parlamento, ha fatto emergere anche la fragilità dei sistemi di sicurezza per proteggere gli ex capi di governo. L’agenzia per la sicurezza pubblica giapponese ha aperto un’indagine. C’è da capire come mai i bodyguard di Abe non abbiano agito in tempo e perché il corpo di uno degli uomini politici più importanti del Giappone moderno, con la camicia macchiata di sangue, sia rimasto a terra così a lungo prima di essere trasportato in ospedale. Per i giapponesi il trauma collettivo più grande, forse, è questo: aver creduto di essere salvi, ma la violenza può esplodere anche in uno dei paesi più sicuri al mondo.


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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

Stazione di compressione del gas in Germania. (Keystone)

Fra i Libri di Paolo A. Dossena

La guerra del gas continua mentre l’Europa teme l’inverno

Prospettive ◆ Putin spera nel cedimento dell’Ue prima che l’assenza di entrate dalle bollette europee faccia saltare i suoi conti. Bruxelles vaglia i modi per sottrarsi alla dipendenza energetica da Mosca

Anna Zafesova

Volodymyr Zelensky non ha più alcun dubbio: «Ormai è chiaro che la Russia cercherà non soltanto di limitare il più possibile, ma anche di chiudere completamente la fornitura di gas all’Europa nel momento più difficile. Questo è ciò a cui dobbiamo prepararci ora». Il presidente ucraino ha delineato questa prospettiva in uno dei suoi discorsi pronunciati ogni sera, reagendo alla disputa sulla turbina che il Canada non voleva fornire alla Germania per il funzionamento del gasdotto Nord stream . La turbina della Siemens, in riparazione a Montréal, è diventata il pretesto per un braccio di ferro energetico che, almeno in un primo momento, è stato vinto da Berlino e da Mosca. La seconda ha usato l’assenza del macchinario per bloccare il principale gasdotto che porta il metano russo in Nord Europa, e la prima ha costretto i partner occidentali a esentarla dalle sanzioni con una scappatoia burocratica. Un cedimento che, secondo Zelensky, apre la strada alla guerra del gas: «Ogni concessione viene percepita dalla dirigenza russa come un incentivo per ulteriori, più forti pressioni. La Russia non ha mai rispettato le regole nel settore energetico e non giocherà correttamente nemmeno ora, a meno che non sia obbligata a farlo».

«La Russia non ha mai rispettato le regole nel settore energetico e non giocherà correttamente nemmeno ora, a meno che non sia obbligata a farlo» Pochi si illudono che la sospensione, da parte di Gazprom, dell’erogazione del gas verso l’Europa – per ora decisa per la durata di dieci giorni, con la scusa di un «problema tecni-

co» dovuto appunto alla turbina rimasta in Canada – non sia un ricatto politico. Nelle settimane precedenti le forniture erano già state ridotte del  per cento, mentre i rubinetti di alcuni altri gasdotti, in particolare quelli che transitano da Polonia e Ucraina, sono stati chiusi già da tempo. In realtà i leader europei sono d’accordo con Zelensky nel ritenere che Putin stia minacciando l’Europa di una chiusura totale del gas. Il ministro dell’Economia tedesco, Robert Habeck, ha parlato di «situazione senza precedenti», in cui «tutto è possibile», compreso un aumento dei volumi di gas via Nord stream in caso di ripristino: «Ma anche che non arrivi più niente e dobbiamo prepararci al peggio». Dello stesso avviso è il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire, che ha proposto ai maggiori industriali francesi di «prepararsi al taglio del gas russo, oggi è lo scenario più probabile». E il governo ungherese ha annunciato l’introduzione di uno «stato d’emergenza energetico», dicendo a chiare lettere quello che tutti più o meno pensano: quest’inverno l’Europa non avrà abbastanza energia. In realtà la rinuncia al gas russo è un obiettivo dell’Unione europea che Ursula von der Leyen ha dichiarato più volte pubblicamente. Era evidente come la dipendenza energetica da Mosca fosse diventata insostenibile con l’invasione dell’Ucraina, per motivi politici, strategici e anche morali: è impossibile condannare una guerra e aiutare l’aggredito mentre si finanziano le bombe. La decisione era inevitabile, il problema era il come, il quando e con quali modalità. Se perfino i grandi industriali della Francia – che viaggia per il  per cento con la propria elettricità generata da centrali nucleari e dipende dal gas russo soltanto in misura minima – stanno

riconvertendo urgentemente le loro produzioni dal gas al petrolio, paesi con una forte dipendenza dal metano russo – Austria, Ungheria, Germania, Italia – rischiano seri problemi economici e perfino una recessione stimata dai pessimisti nel - per cento del Pil. A Bruxelles si sta lavorando anche sulla proposta di Mario Draghi di porre un tetto al prezzo del gas importato dalla Russia, ma intanto il «price cap» resta uno strumento da collaudare. La Commissione europea presenterà tra pochi giorni il piano d’emergenza per far fronte a un eventuale taglio totale del gas, che prevede risarcimenti e incentivi per le industrie e i paesi colpiti.

Senza Gazprom che pompa gas in Europa il Cremlino potrebbe esaurire in fretta i soldi, non solo per la guerra ma anche per le pensioni Quello che aumenta l’incertezza è l’imprevedibilità della situazione. L’Europa era d’accordo sul rinunciare al gas russo, alle sue condizioni e con i suoi tempi. Quello che non si aspettava è che Putin sarebbe andato incontro al pericolo. Per vent’anni l’assioma sul quale si basava la politica russa era quello di mantenere ed espandere le forniture di metano in Europa, la base del gettito fiscale del regime. La transizione green, insieme alla rinuncia al nucleare da parte della Germania, era diventata per il Cremlino una rendita garantita, e la chiusura dei gasdotti europei equivaleva a un suicidio. Le forniture di gas verso l’Asia, soprattutto la Cina, sono infatti infinitamente minori e a un prezzo molto più basso di quello pagato dagli europei, senza parlare poi del fatto che è prati-

camente impossibile dirottare il metano destinato all’ovest verso est (se non a prezzo di spese miliardarie e anni di lavori per i nuovi gasdotti). Senza Gazprom che pompa gas in Europa il Cremlino potrebbe esaurire rapidamente i soldi, non solo per la guerra in Ucraina ma anche per le pensioni ai russi. Un gesto insensato, dunque, che però appare ormai evidente Putin voglia compiere. Per la prima volta nella storia a giugno Gazprom ha annunciato che non pagherà dividendi agli azionisti, tra cui molti occidentali. Una nazionalizzazione di fatto: lo Stato russo si prenderà i soldi dalle tasse incrementate di recente, mentre i privati rimangono senza un soldo. La capitalizzazione del colosso energetico è subito crollata in borsa, ma l’impressione è che il governo russo sia pronto a sacrificare la sua società maggiore. Una delle spiegazioni potrebbe essere quella che il Cremlino si è reso conto dell’inesorabilità dell’embargo sul gas e ha deciso di contrattaccare, anticipando il gioco occidentale e gettando nel panico i paesi impreparati. Già a giugno, per la prima volta, il fornitore principale di gas all’Ue sono stati gli Usa, non più la Russia. Mosca continua a sperare di spaccare l’Europa, nell’idea che gli elettori europei non vorranno patire razionamenti di riscaldamento o bollette maggiorate, e che i governi Ue verranno a più miti consigli pur di non perdere le elezioni. Il fattore cruciale è il tempo: Putin spera che l’Europa ceda prima che l’assenza di entrate dalle bollette europee faccia saltare i conti del Cremlino. Il calcolo di Bruxelles – che ha più libertà di manovra e mezzi – è ovviamente l’esatto opposto, cioè che il sistema russo incentrato su Gazprom collassi prima che il consenso politico in alcuni paesi Ue venga meno.

Ucraina anno zero, di Giulio Sapelli, Edizioni Angelo Guerini e Associati, maggio 2022 Attori, strumenti e conseguenze del conflitto ucraino sono ciò che troverete in questo saggio dell’economista e storico Giulio Sapelli, con introduzione di Lucio Caracciolo, collaboratore di «Azione». Il quale avverte: quella ucraina è una «guerra indiretta», con interessi «troppo vasti (…) fra Russia e Stati Uniti». Guerra che ha fatto saltare il sistema internazionale, la cui ricostruzione sarà operazione lenta e costosa, forse «impossibile», con conseguenze potenzialmente catastrofiche per sicurezza ed economia europee. Quanto agli attori descritti da Sapelli, essi agiscono nel mondo frantumato «a geometrie molto variabili». Gli Usa fanno una politica che da dopo il  è da ricondurre funzionalmente al disegno unipolarista, che proclama i diritti umani «bombardando a tutto spiano (…) dall’Iraq, alla Siria, alla Libia». Il secondo attore è la Russia, per la quale l’Ucraina non esiste, non è che un’invenzione creata da un «colpo di Stato nazista». Ucraina vista come un’appendice di Russia e – la zona di Leopoli – Polonia. Altri attori sono «le potenze medie come Israele, Turchia e India», destinate ad assumere un ruolo sempre più importante. Questo vale soprattutto per la Turchia, membro della Nato che sta inaugurando «il suo futuro neo-ottomano in Siria e in Libia» in collaborazione con l’Egitto e sotto la guida di Erdogan. Uno che è stato messo nelle condizioni di «trasformare la Costituzione in un suo armamentario di guerra contro tutti». Sapelli non specifica che il presidente turco è l’uomo che mandava convogli di rifornimenti di ogni genere all’Isis, lo suggerisce tra le righe quando cita la lotta «contro wahabismo e Califfato». Passiamo agli strumenti, le sanzioni americane, usate storicamente più contro gli amici che contro i nemici. «Le sanzioni sono un motivo costante dell’azione nordamericana: sono state impiegate (…) con Gheddafi in funzione anti-italiana, con Assad in Siria in funzione anti-francese e anti-russa, con il conflitto libanese (…) che ha prostrato e indebolito la Francia». Venendo al presente, «le sanzioni Usa, a cui l’Ue ha aderito, colpiscono al cuore il ruolo economico dell’Europa: ne devastano i rifornimenti delle fonti fossili energetiche. In più colpiscono i Paesi sottosviluppati attraverso la mancanza dei rifornimenti di grano e di agenti chimici per l’agricoltura derivanti dal petrolio, sottoposto a embargo e soprattutto al rincaro dei prezzi». Ecco l’imposizione del gas naturale americano in sostituzione di quello russo, «sostituzione imposta con le sanzioni che danneggiano più l’Europa che la Russia». Sapelli e Caracciolo sembrano d’accordo nell’affermare che è impossibile regalare qualche parola di ottimismo, «la dispenseremmo se potessimo crederci». Le conseguenze della guerra in Ucraina sono già evidenti ad entrambi: declino dell’Europa (che già nel  si era inutilmente opposta alla guerra Usa in Iraq), ascesa della Cina, frantumazione del sistema internazionale sostituito dalle guerre ideologiche, religiose e da rapporti di forza intesi brutalmente. In conclusione, ecco la profezia di Caracciolo: «Fra qualche mese (…) coloro che a voce più alta hanno (…) invocato più armi per la resistenza (…) converranno che quel capitolo (…) dev’essere chiuso (…) voltandosi dall’altra parte, o meglio concentrandosi sul proprio ombelico».


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L’era della scarsità e il fallimento degli economisti L’analisi

L’inflazione galoppante che caratterizza Stati Uniti ed Eurozona non è soltanto conseguenza della guerra in Ucraina

L’inflazione record è rivelatrice di questo: siamo entrati nell’era della scarsità. La novità sancisce anche il fallimento degli economisti. La stragrande maggioranza degli esperti – pubblici e privati, impiegati nel mondo della finanza o nei governi o nell’accademia – non ha visto arrivare la più grande svolta economica degli ultimi anni, il passaggio da un periodo deflazionistico (stagnazione di tutto, anche dei prezzi) a un periodo di penurie generalizzate e forti rialzi dei prezzi. Il fiasco degli economisti è gravido di conseguenze, ha contribuito a peggiorare le cose perché ha spinto banche centrali e governi ad azioni che hanno aggravato l’inflazione anziché prevenirla. Non è la prima volta che la professione dell’economista esce malconcia dal test della realtà, anzi gli ultimi anni sono un susseguirsi di casi simili: non seppero prevedere il , sbagliarono ricette sull’Eurozona, previdero Apocalissi mai avvenute dopo Brexit e i dazi di Trump.

Già il 2021 si concluse con un’inflazione che era dal doppio al triplo rispetto alla media delle previsioni di tutti i grandi istituti economici Le eccezioni esistono ma sono davvero esigue. Larry Summers (ex segretario al Tesoro Usa) e Olivier Blanchard (ex economista capo del Fondo monetario internazionale) furono tra i pochi a lanciare l’allarme inflazione all’inizio del . Inascoltati, perché la maggior parte dei loro colleghi era del parere opposto: l’inflazione sarebbe stata una fiammata breve, una conseguenza del tutto temporanea della pandemia. Ancora un anno fa a quest’epoca la Federal Reserve e la stragrande maggioranza degli economisti prevedevano un’inflazione del % a fine anno. Tant’è, già il  si concluse con un’inflazione che era dal doppio al triplo rispetto alla media delle previsioni di tutti i grandi istituti economici, incluse le banche centrali. E tuttora gli economisti sono incapaci di spiegare l’allineamento dell’inflazione europea su quella americana (a giugno tassi record del ,% nell’Eurozona e del ,% negli Usa).

Il fatto che la schiacciante maggioranza degli economisti fosse «dalla parte sbagliata» delle previsioni, spiega perché l’economia più ricca del pianeta e la banca centrale più potente hanno gettato benzina sul fuoco dell’inflazione quando c’erano già tutte le condizioni dell’incendio. Convinti che l’America e il mondo fossero sull’orlo del baratro per colpa della pandemia, cioè in una situazione molto simile al cataclisma finanziario del , due governi americani (le Amministrazioni Trump e Biden) e la Federal Reserve hanno esagerato nel loro sostegno alla domanda. Trump nel  ha firmato due manovre di spesa pubblica da  miliardi di dollari. Appena insediatosi alla Casa Bianca nel gennaio  il suo successore ne ha varato una terza da  miliardi, sordo agli appelli di Summers che la considerava irresponsabile: infatti l’economia Usa era già ripartita alla grande, il reddito delle famiglie stava recuperando velocemente, la disoccupazione veniva riassorbita a ritmi sostenuti. Forse in parte i democratici hanno voluto ignorare il pericolo inflazione perché questo assecondava un’agenda politica: la paura di un disastro economico creava condizioni ideali per lanciare un vasto programma di aiuti alle famiglie, spese sociali e assistenziali. Era il periodo «Biden-Roosevelt», in cui il presidente insediatosi un anno e mezzo fa si sentiva il continuatore del New Deal di novant’anni prima. Del resto l’inondazione di potere d’acquisto creata dalle tre manovre pari a  miliardi, insieme con il blocco dell’immigrazione, ha rafforzato il potere contrattuale dei lavoratori americani, che nell’anno magico del  hanno incassato aumenti salariali record. L’ultimo mese ha visto un aumento salariale del ,% che è molto consistente, ancorché inferiore al rincaro dei prezzi. Se la sinistra americana poteva ignorare il pericolo inflazione per una deliberata scelta ideologica, meno giustificabile è l’errore di previsione della Federal Reserve: ancora nel novembre  la banca centrale era impegnata a creare liquidità acquistando titoli del Tesoro e obbligazioni legate ai mutui, al ritmo di  miliardi al mese. Altra benzina sul fuoco dell’inflazione. Certo nessuno aveva previsto l’invasione dell’Ucrai-

AFP

Federico Rampini

na da parte di Vladimir Putin, scattata il  febbraio (anche se ci sarebbe da discutere pure su questa «sorpresa» rispetto a un evento premeditato dal ). Ma scarsità e inflazione non sono conseguenze della guerra, non soltanto. L’aggressione all’Ucraina ha aggravato le penurie in certi settori – energia, derrate alimentari, alcuni minerali e metalli – ma i problemi di approvvigionamento erano presenti anche prima. Gli errori di previsione e i conseguenti ritardi di reazione ora si ritorcono contro le autorità. Biden non trae giovamento dagli aumenti salariali, perché il rincaro del costo della vita sta cancellando i benefici per i lavoratori e la fiducia dei consumatori precipita. La sua banca centrale è costretta a rincorrere gli eventi, a operare una stretta monetaria più dura e più veloce, perché la sua credibilità è stata intaccata sui mercati. Restano tanti misteri. L’Europa ha speso molto meno per aiutare i suoi cittadini durante la pandemia, non ha creato quell’eccesso di domanda che è stato generato da Trump-Biden, eppure si ritrova con un carovita molto simile. Il Giappone ha una politica monetaria altrettanto generosa di quella ameri-

cana eppure non conosce segnali d’inflazione significativi. Anche la Cina rientra nel catalogo dei misteri, perché ha dei rialzi forsennati nei costi di produzione (materie prime), ha conosciuto arresti di produzione prolungati (lockdown), e tuttavia al momento non subisce tensioni inflazionistiche paragonabili a quelle occidentali. Per ora la recessione americana è rinviata? Il dato dell’occupazione a giugno è stato ottimo, superiore alle attese: +mila posti di lavoro creati. La creazione di nuova occupazione continua a viaggiare quasi ai ritmi del trimestre precedente, in cui le assunzioni nette erano in media  mila al mese. Dunque non c’è stato quel rallentamento che sembrava nell’aria visti tutti gli altri segnali negativi: l’alta inflazione che comincia a frenare i consumi, qualche indebolimento dell’attività industriale, gli annunci di licenziamenti in alcuni gioielli Big Tech com Tesla e Netflix. Invece la disoccupazione resta inchiodata al ,% cioè quel minimo storico che raggiunse prima della pandemia. Di converso la Federal Reserve sarà incoraggiata a infliggere nuovi rialzi dei tassi, perché con un mercato del

lavoro così vigoroso ci vorrà una terapia d’urto per riportare sotto controllo l’inflazione. Strano mercato del lavoro, però. Le aziende americane continuano a fare una fatica tremenda a riempire i posti vacanti. Una spiegazione è il calo dell’immigrazione, che riducendo l’immissione di nuova manodopera ha rafforzato il potere contrattuale dei lavoratori. I capitalisti americani protestavano sotto Trump e protestano tuttora perché Biden ha mantenuto una serie di restrizioni ai flussi migratori. Se e quando si riapriranno le frontiere, è chiaro che sarà un sollievo per le aziende e un danno per i lavoratori. Poi c’è la questione giovanile. I giovani, indottrinati da un ambientalismo ultrà, non vogliono più fare lavori «sporchi». Industria, manifattura non li attirano, anzi li spaventano. Il digitale invece, abbracciando il «Vangelo verde» del nostro tempo, ha convinto le nuove generazioni che «salverà il pianeta». Naturalmente è un’impostura, né Google né Facebook, né Amazon né Apple salveranno un bel niente, però il loro fascino sui giovani è enorme, un’intera generazione sogna solo attività digitali. Annuncio pubblicitario

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Veduta di Saint-Tropez. Bannu e JeanFrançois vivono ancora nei busti marmorei in un giardino, nei nomi delle strade, nel palazzo del centro. (Shutterstock)

La principessa indiana di Saint-Tropez

Fili di seta ◆ La storia di Bannu Pan Dei e del generale Jean-François Allard ha lasciato tracce nell’incantevole cittadina della Costa Azzurra Francesca Marino

C’è un India anche lontano dall’India. Un India che corre su di un filo sottile ma resistente, un filo che si è dipanato per quattro generazioni senza mai sfaldarsi o rompersi. Un filo, sconosciuto ai più, che unisce Saint-Tropez a Delhi attraverso spazio e tempo. Un filo fatto di memoria e ricordi, dipanato da una storia vera che potrebbe essere facilmente uscita dalla penna di un grande scrittore di romanzi d’avventura. Salgari, o Dumas l’avrebbero adorata. È una storia che comincia virtualmente sul campo di battaglia di Waterloo, dopo la disfatta di Napoleone. Jean-François Allard, capitano del Settimo ussari decorato con la Legion d’onore dalle mani dell’imperatore stesso, era sopravvissuto al massacro del suo reggimento perché non si trovava là: era stato inviato fuori dal campo di battaglia per portare degli ordini. Dopo la disfatta, come molti ufficiali, era stato obbligato al soggiorno nel proprio luogo di nascita: Saint-Tropez, appunto. Poco più di un villaggio di pescatori, all’epoca. Un villaggio da cui molti, troppi, sognavano di partire. Il capitano mal sopportava il confino e l’inattività, sognava di raggiungere Giuseppe Bonaparte fuggito in America, sognava ancora il sogno dell’Imperatore spedito in esilio a Sant’Elena. Ottenuto un permesso di visitare uno zio a Livorno, il capitano Allard parte e arriva in Italia, senza però riuscire a imbarcarsi per l’America. Comincia invece a viaggiare verso est. Arriva in Persia, dove regna Abbas Mirza e dove entra al servizio dell’erede al trono: per breve tempo, però, perché gli inglesi non si fidano di un capitano di Napoleone e costringono i regnanti a licenziarlo. Viaggiando ancora più a est, senza mai voltarsi indietro, JeanFrançois raggiunge l’India, e il regno indipendente del Punjab guidato dal leggendario maharaja Ranjit Singh. Quest’ultimo incarica Allard di formare un corpo scelto di dragoni e lancieri, conferisce al capitano il grado di generale e lo mette a ca-

po dei cosiddetti «corpi europei» che combattevano al suo servizio. Allard, però, non è un soldato qualunque. È un uomo colto, uno che scrive poesie, un esperto di numismatica. Uno che si è messo a studiare l’urdu e il persiano. Un uomo affascinante, dicono. Che diventa presto uno dei più intimi amici del maharaja.

Jean-François Allard è un uomo colto, uno che scrive poesie, un esperto di numismatica. Diventa amico del maharaja Ha circa quarant’anni quando viene inviato alla corte di Chamba, nell’attuale Stato indiano dell’Himachal Pradesh, per riscuotere dei tributi. E qui la storia si avvolge di un certo velo di mistero. Al suo ritorno a Lahore, difatti, la quindicenne principessa figlia del re di Chamba, Bannu Pan Dei, viaggia con lui. Scappata col generale francese o forse presa come ostaggio. Certo è che, un anno dopo, Jean-François sposa la giovane: si dice sia stato un matrimonio d’amore, per cui Bannu è stata disconosciuta dalla famiglia. I due vivono in uno splendido palazzo a Lahore, dove mettono al mondo sette figli e dove occupano un posto di rilievo a corte. Un giorno però il generale Allard assiste a una sati, il sacrifico della vedova sulla pira funebre del marito, allora piuttosto comune in India. Comincia a immaginare cosa potrebbe accadere a Bannu se lui morisse in India sul campo di battaglia, e decide quindi di portare tutta la famiglia a Saint-Tropez dove costruisce un palazzo per la sua sposa e per i suoi figli: il palazzo Pan Dei, che è adesso ridotto a meno di metà della sua originaria grandezza ed è stato tristemente ridotto dai nuovi proprietari a un banale e orrendo albergo in stile Buddha bar. Lasciata in Francia la famiglia, Allard ritorna a Lahore e al suo esercito: ritornerà nell’Esagono soltanto un’altra volta prima di morire in combattimento, nel , a Peshawar.

Sarà sepolto, secondo i suoi desideri, a Lahore, con onori degni di un principe reale. Dall’altra parte del mare, intanto, Bannu, proprietaria anche di una bellissima casa di campagna e di molti acri di terra che arrivano a toccare il mare, passeggia ogni giorno fino alla spiaggia dove si ferma a guardare oltre l’azzurro, quella distesa d’azzurro che la unisce e la divide al tempo stesso da suo marito. Alla notizia della morte di Jean-François, Bannu decide di convertirsi al cattolicesimo perché, dice, quando morirà vuole trovarsi «nello stesso cielo di mio marito». Il suo personale modo, sostiene Henri Prévost-Allard che da Bannu e Jean-François discende direttamente, di immolarsi alla morte del marito. Quel marito per cui aveva abbandonato tutto senza voltarsi indietro e a cui desiderava essere unita per sempre. Di lei, in famiglia, rimangono i ritratti che la raffigurano da sola o con i figli. Restano scialli e abiti dai ricami squisiti, vestigia di un tempo che sembra sempre più lontano. Rimangono le scarpine con un minuscolo tacco della piccola Marie-Charlotte, la prima figlia morta a poco più di due anni. Rimane, soprattutto, il fortissimo legame con l’India trasmesso a suoi figli e da loro ai loro figli: un legame ancora talmente sentito che gli Allard continuano a considerarsi, come si sono sempre considerati, in parte indiani. Bannu e Allard, assieme al maharaja Ranjit Singh, vivono ancora, sotto forma di busti marmorei, in un grazioso giardinetto di Saint-Tropez. Vivono nei nomi delle strade, nel palazzo del centro. Nei ricordi di famiglia trasmessi e accuratamente conservati, nei viaggi in India degli Allard sulla tracce della memoria. Bannu è sepolta nel locale cimitero, che guarda il mare per sempre. E io me la immagino così. Me la immagino quasi al tramonto, in quell’ora dorata che rende il mare di Saint-Tropez ancora più azzurro e addolcisce i contorni di cielo e terra. Dritta in piedi ad aspettare e, forse, a guardare verso l’India. Per sempre.

Quelle vedove sacrificate Usanze

Cos’è la «sati» e come veniva giustificata

Romina Borla

Per quanto romantica possa apparire la vicenda di Bannu e del generale francese (articolo a lato), essa chiama in causa due usanze che di romantico hanno ben poco: quella dei matrimoni precoci, una decisa violazione dei diritti umani ricorda l’Unicef (Bannu fu un’adolescente che sposò un uomo molto più vecchio di lei), e quella della «sati» – in sanscrito «la buona», «la fedele» – una pratica che prevede il sacrificio delle vedove sulla pira funeraria del marito deceduto. «Quest’ultima nasce nel contesto dell’induismo – spiega Tommaso Bobbio, docente di Storia dell’India all’Università di Torino – e viene giustificata adducendo motivazioni morali e religiose: la donna, in quanto legata anche spiritualmente alla figura del marito, abbandona questa vita nel momento in cui la lascia lui, quasi a perpetuare il vincolo matrimoniale. È un gesto che dimostra totale devozione. Vale la pena ricordare che nella tradizione induista la vita non finisce con la morte. Questa è solo un passaggio da un’esistenza a quella successiva, in un ciclo di continue rinascite». Ci sono anche ragioni economico-sociali sottese alla «sati», aggiunge l’esperto. Ragioni collegate al ruolo femminile nella concezione indiana più tradizionale: quando la donna si sposa viene presa in carico dalla famiglia del marito in cambio del pagamento della dote (un altro elemento discutibile da considerare, ancora oggi diffuso nel paese, che ha un grande impatto soprattutto nei contesti famigliari più fragili). «La donna, insomma, è considerata un peso economico. Se il consorte muore, la vedova diviene un problema per la famiglia del marito… La sati, espressione estrema di questo tipo di relazioni sociali, è una sorta di risposta al problema». Emerge qui, in tutta la sua forza, un aspetto fondamentale della questione, «quanto la sati fosse una scelta consapevole o una costrizione imposta dalla famiglia e da costumi sociali radicati. Tanto più che era vista come un punto d’onore per chi la praticava e il suo entourage». Un’altra consuetudine diffusa, afferma il nostro interlocutore, è quella dell’allontanamento della vedova dal focolare domestico. Questa si ritrova sola (di rado la famiglia di origine l’accoglie di nuovo), in situazioni di povertà estrema, senza potersi riscattare in alcun modo. Sottolinea Bobbio: «Accade anche oggi di vedere anziane signore, in miseria, vestite di bianco, il colore del lutto, che vivono per strada o in case comunità». Tornando alla «sati», si tratta di un’usanza di cui ci sono rimaste testimonianze molto antiche. «Il primo riferimento esplicito a questa pratica in sanscrito

– si legge sull’Enciclopedia Britannica – appare nel grande poema epico indiano Mahabharata (compilato intorno al  d.C.). La pratica è menzionata anche da Diodoro Siculo, autore greco del I secolo a.C. (...)». Bobbio avverte: le certezze sono poche. Anche quanto fosse diffusa è materia di discussione. «Non era comunque praticata solo da una casta in particolare. Quando francesi e – da metà Settecento – inglesi giunsero in India, conquistando porzioni di territorio, notarono la sati insieme ad altre consuetudini: la giudicarono una pratica barbara. Nelle menti dei colonizzatori, quella indiana era una società primitiva da civilizzare, liberandola da usanze irrazionali e dannose». Nei primi decenni dell’ – continua il docente – la «sati» è un tema di discussione nella società inglese, vi sono dei dibattiti in Parlamento a riguardo. La pratica – insieme alla descrizione delle «misere» donne indiane, vittime sacrificali inconsapevoli – entra nella letteratura ottocentesca, non solo anglosassone. Anche Il giro del mondo in ottanta giorni () di Jules Verne ne parla: giunto in India, il gentiluomo inglese Fogg si trova di fronte a un drappello di persone che sta conducendo una vedova verso la pira del marito. Interviene e la salva. «A inizio ’ – dice Bobbio – pure nei circoli intellettuali indiani si discute tanto di sati, soprattutto a Calcutta, nel Bengala, in contrapposizione ma anche in dialogo con gli inglesi». La pratica viene abolita già nel  ma, come spesso capita, le usanze sono dure a morire. Casi di «sati» si verificano infatti anche nel Ventesimo secolo, come quello di Roop Kanwar, una vedova di  anni arsa viva nel  dopo la morte del marito .enne. «Fu una vicenda che fece scalpore. Un atto praticato alla luce del sole. L’opinione pubblica si spaccò: da un lato chi difendeva l’azione volontaria della ragazza e dall’altro chi sosteneva fosse stata uccisa. Ci furono dei processi; gli imputati vennero tutti assolti». Di certo la mentalità che ha permesso il perpetuarsi di tale usanza è da ricollegare alla visione tradizionale della donna indiana, afferma Bobbio. «Nascere donna in India è ancora uno svantaggio. Lo dimostrano il fenomeno dell’aborto preventivo dei feti femmina e delle spose bambine, le violenze domestiche all’ordine del giorno. Ma bisogna stare attenti a non assumere gli occhi dei colonizzatori inglesi che si sentivano superiori... La sati – da condannare, come l’emarginazione delle vedove – riflette una condizione di subordinazione della donna presente, in altre forme, anche nelle nostre società». Illustrazione del 1874 che mostra una vedova sulla pira funeraria del marito. (Keystone)


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Tassa minima sulle multinazionali: legge pronta

Fiscalità ◆ Il principio è acquisito, ma il gettito ancora incerto. Molte sono le proposte di ripartizione delle maggiori entrate. Si andrà al voto popolare nel giugno 2023 Ignazio Bonoli

Lo scorso giugno, il Consiglio federale ha inviato alle Camere il testo definitivo del progetto di applicazione della tassazione minima del % degli utili delle società, concordata nell’ambito dell’OCSE. In realtà, le discussioni nell’ambito dell’organizzazione internazionale non sono ancora terminate, ma l’accordo per l’applicazione del principio è acquisito. Esso concerne le multinazionali con una cifra annua d’affari di almeno  milioni di euro, che devono pagare almeno il % d’imposta sugli utili realizzati in tutti i paesi in cui operano. In realtà, le società non sono tutte costrette a pagare questo tasso d’imposta, ma nel caso in cui uno Stato concedesse un tasso d’imposta inferiore, altri Stati nei quali la multinazionale è attiva, potrebbero chiedere la differenza. Lo scopo è quello di ostacolare un’eccessiva concorrenza nell’attirare attività economiche sul proprio suolo tramite lo strumento fiscale. Con questo sistema il vantaggio fiscale verrebbe eliminato, per cui tutti gli Stati sarebbero sollecitati ad applicare, a queste condizioni, il tasso minimo d’imposta del %. Ne avevamo accennato più volte su queste pagine («Azione» del ..), sottolineando che in Svizzera l’applicazione del principio avrebbe incontrato parecchie difficoltà, a causa delle sovranità fiscali dei Cantoni. Il ministro delle finanze federali Ueli Maurer aveva però garantito fin dall’inizio che la Svizzera si sarebbe adeguata, per cui il messaggio attuale propone a tutti i Cantoni di rivedere i loro sistemi di tassazione delle multinazionali («Azione» del ..). Attualmente  Cantoni e Semi-cantoni su  applicano un tasso d’imposta inferiore al %. Per esempio, nel Canton Zurigo, attualmente con un tasso d’imposta tra il  e il % a seconda dei comuni, parecchie aziende sarebbero interessate dal provvedimento, ma godrebbero di una leggera diminuzione dell’imposta

Il ministro delle finanze Ueli Maurer ha fin da subito dichiarato che la Svizzera adotterà la minimum tax rate dell’OCSE. (Keystone)

sugli utili aziendali. In Ticino, il tasso d’imposizione sugli utili è già vicino al %, per cui non ci dovrebbero essere grandi differenze con la nuova tassazione. I Cantoni che hanno finora applicato tassi di favore dovranno aumentare le imposte. Il Consiglio federale vorrebbe introdurre il nuovo sistema mediante un’imposta speciale che si applichi soltanto alle aziende maggiori, cioè quelle che sono considerate nelle direttive dell’OCSE. Si tratterebbe di circa  imprese con sede principale in Svizzera e di circa  gruppi internazionali, con sede all’estero e con attività anche in Svizzera. Tutte le altre aziende non sarebbero soggette a queste nuove regole fiscali. Allo stato attuale delle cose, il Consiglio federale valuta un gettito delle nuove imposte tra  e , miliardi di franchi all’anno.

Si tratta di un’approssimazione, poiché le regole fiscali dell’OCSE sono diverse da quelle svizzere, già per la definizione dell’utile imponibile. Non è ancora chiaro se la definizione usata dall’OCSE allargherà o ridurrà la base fiscale e, a seconda dell’azienda e dell’anno considerato, si potrebbero verificare importanti differenze. Le nuove regole potrebbero anche provocare un diverso comportamento delle aziende nei confronti del fisco. Dal momento che in Svizzera le imposte sono definite nella Costituzione federale, sarà necessaria una votazione popolare. La stessa dovrebbe aver luogo nel giugno  e le nuove regole potrebbero entrare in vigore nel . Il principio non è messo in discussione, ma restano aperte almeno due questioni: come si potranno dividere le maggiori entrate tra Con-

federazione e Cantoni e come si potrebbero utilizzare? Durante la consultazione si è visto che a sinistra si vorrebbe privilegiare la Confederazione, a destra i Cantoni. Effettivamente il Consiglio federale, all’inizio, avrebbe voluto lasciare tutto il gettito ai Cantoni. Ma, dopo la consultazione, il Consiglio federale propone il % alla Confederazione e il resto ai Cantoni. È, per finire, la proposta che potrebbe incontrare anche il consenso del Parlamento. Resta aperta la questione a sapere quale destinazione potrebbero avere le maggiori entrate per la Confederazione. Le proposte sono fioccate numerose, ma la cifra valutata non è sicura: si potrebbe muovere fra  e  milioni di franchi. Una parte verrebbe già usata per aumentare la parte della Confederazione nella compen-

sazione finanziaria intercantonale. Il resto verrebbe destinato a finanziamenti vincolati per migliorare l’attrattività economica, questo perché la nuova imposta peggiorerebbe la posizione della Svizzera nella concorrenza fiscale internazionale. Il governo vorrebbe anche stimolare l’istruzione e la ricerca, tra l’altro anche con il previsto fondo nazionale per l’innovazione, a favore di giovani imprese. Per finire, si potrebbe finanziare anche la digitalizzazione dell’amministrazione federale, riducendo così il crescente onere amministrativo delle aziende. Su tutto plana però il dubbio che, vincolando a scopi precisi le maggiori entrate, si riduca lo spazio di manovra delle autorità federali. Senza contare poi che, una volta vincolata una spesa nella legge o nella Costituzione, sarà molto difficile toglierla.

Come posso mantenere la mia indipendenza finanziaria?

La consulenza della Banca Migros ◆ Senza un reddito da lavoro è difficile assicurare un’indipendenza finanziaria – Soprattutto vanno evitate lacune nei contributi di previdenza

Mi sono sposata recentemente e presto avrò un bambino. Dopo il parto vorrei smettere di lavorare per un po’ e tornare quindi al lavoro al %. Come devo gestire le mie finanze per mantenere una certa indipendenza e arrivare alla vecchiaia ben coperta? Sembra difficile assicurare la propria indipendenza finanziaria senza un proprio reddito da lavoro. Potrebbe magari concordare un salario con il suo partner per tutto il lavoro svolto in casa. Se dispone di un patrimonio, potrebbe eventualmente utilizzarlo per farlo fruttare. La cosa più importante rimane però quella di prevenire le lacune nei contribuiti di previdenza, che spesso riguardano proprio la cassa pensioni. Purtroppo non esistono molte possibilità per prevenire in anticipo tali lacune. Pensando al secondo pi-

lastro, è consigliabile quindi continuare a lavorare. Anche il grado di occupazione risp. il salario svolgono un ruolo in questo caso: chi non raggiunge un reddito annuo di almeno ’ franchi, in genere non dispone di un secondo pilastro. Se più avanti desidera tornare a lavorare di più, dovrebbe assolutamente versare gli arretrati in quanto potrebbe essere interessante anche dal punto di vista fiscale. Un’altra possibilità è quella di versare i contribuiti alla cassa pensioni oppure di considerare di continuare a lavorare oltre l’età di pensionamento. Questa però è una cosa lontana nel futuro. Se oggi le è possibile prevenire attivamente le lacune nell’AVS, lo faccia. Ogni anno di contribuzione mancante comporta una riduzione della rendita di vecchiaia del ,%. Per evitare ciò, deve versare ogni an-

Isabelle von der Weid, consulente della Banca Migros Svizzera occidentale ed esperta in materia di previdenza.

no il contributo minimo AVS di  franchi. Come mamma però le vengono calcolati quale reddito i cosiddetti accrediti per compiti educativi. Essi corrispondono a un importo fisso che ammonta al triplo dell’importo della rendita media (attualmente Fr. ’). Buono a sapersi: il reddito realizzato durante il matrimonio da ambedue i partner viene attribuito per metà a ciascun coniuge in caso di divorzio. Il cosiddetto splitting rappresenta quindi un’ulteriore sicurezza. Qui può calcolare i contributi da versare annualmente per evitare lacune: https://www.bsv.admin.ch/ bsv/it/home/informazioni-per/versicherte/ahv.html Accrediti per compiti educativi: https://www.ahv-iv.ch/p/..i Se temporaneamente non lavora affatto, non è possibile versare i contributi del ° pilastro, ovvero la previ-

denza individuale vincolata. Pertanto nel frattempo dovrebbe assolutamente costituire un ° pilastro non obbligatorio o ad esempio accantonare dei risparmi con un piano di risparmio in fondi. Se non dispone di mezzi propri, può pattuire con suo marito il pagamento dei contributi quale remunerazione parziale per i lavori domestici effettuati. Consiglio: richieda alla cassa di compensazione AVS un estratto del suo conto AVS. Le lacune contributive possono essere colmate entro cinque anni versando gli arretrati. Informazioni https://www.ch.ch/de/ pensionierung/altersvorsorge/ die-1-saule--ahv-/ e su: https:// www.ch.ch/it/imposte-e-finanze/ previdenza-per-la-vecchiaia/ avs/contributi-avs/


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ATTUALITÀ / RUBRICHE ●

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Il Ticino e gli altri ◆

Uno degli argomenti che, da sempre, vengono proposti dai sostenitori del federalismo, per dimostrare quali siano i suoi vantaggi, è che una larga autonomia dei cantoni consente di meglio adattare la legislazione e l’offerta di servizi del settore pubblico alle caratteristiche della domanda. Così, per esempio, un cantone alpino non sarà obbligato ad offrire ai suoi abitanti i medesimi servizi di un cantone urbano. Come conseguenza di questo frazionamento della potestà di decidere, però, possono emergere col tempo differenze anche sensibili tra un cantone e l’altro che possono anche creare tensioni tra i confederati. Il federalismo svizzero cerca di contenere le stesse insistendo sul principio della solidarietà tra i cantoni. Così i governi ai vari livelli del sistema sono sempre alla ricerca della via di mezzo che, da una parte, consenta loro di evidenziare certe differenze e, dall’altra, impedisca che le disparità esistenti ven-

gano considerate come vere e proprie ingiustizie. A queste riflessioni sono stato spinto dalla lettura di un interessante articolo di Mauro Stanga, dal titolo Il cantone Ticino nel contesto svizzero, pubblicato nel numero più recente della rivista «Dati» del nostro Ufficio cantonale di statistica. Non si tratta di un inventario esaustivo delle differenze tra il Ticino e gli altri cantoni, ma di un primo approccio al problema delle differenze intercantonali e dei contrasti tra i diversi livelli del federalismo. Secondo l’autore lo stesso dovrebbe consentire di «mettere in luce il contesto generale in cui queste differenze riescono a convivere in un unico sistema federalista». Un contributo statistico, quindi, alla ricerca dell’aurea via di mezzo del federalismo elvetico. Nel suo contributo Stanga si sofferma in particolare su differenze che discendono dalla posizione geografica e dalla cultura particolari del canton

Ticino. Già per essere isolato dalla barriera alpina dal resto della Svizzera, nonché per il fatto di parlare una lingua diversa, il Ticino ha le sue specificità statistiche come, per esempio, quella di non ospitare praticamente lavoratori pendolari da altri cantoni. Quasi a compensare questa insufficienza il Ticino è un cantone nel quale la quota di popolazione con passato migratorio è nettamente superiore alla media nazionale e nel quale la quota di lavoratori svizzeri è altrettanto nettamente inferiore alla medesima. Non solo, ma in Ticino la quota di persone che dichiara di sentirsi minacciata dagli stranieri sul mercato del lavoro è largamente superiore alla media svizzera. La cultura ha poi anche la sua parte nel determinare queste differenze. Stanga lo dimostra riferendosi a statistiche che riguardano aspetti della salute e dell’alimentazione. Dalle stesse emerge la figura di un ticinese più pigro dello svizzero me-

dio e meno attento ad alimentarsi in modo sano. In conclusione, tra il Ticino e il resto della Svizzera esistono differenze anche sensibili. Le stesse, come si è già ricordato, possono essere fatte risalire o alla situazione geografica particolare del cantone o ad aspetti culturali, per non parlare dell’influsso della storia. Si tratta sempre e comunque di specificità che depongono in favore di un sistema federalista che assicuri larghe autonomie ai cantoni. Se questo postulato è chiaro e comprensibile, la sua applicazione non è sempre delle più facili. Ce lo ricorda Stanga evocando, nella parte conclusiva del suo articolo, il caso della recente pandemia di Coronavirus. Nei primi mesi di diffusione del virus il Ticino, che col Grigioni era stato tra i primi cantoni ad essere colpiti, aveva più volte insistito presso il governo federale perché, tenuto conto della gravità della situazione nella quale il cantone si trovava, si adottas-

sero misure più severe. Stanga ricorda che «sono in effetti state adottate soluzioni diverse a livello cantonale ticinese, inizialmente senza l’assenso di Berna, in un crescendo rapidissimo che ha esasperato gli animi ma ha anche creato un rinnovato e diffuso senso di appartenenza e di unità proprio sul piano cantonale». Le frizioni con l’autorità federale sono poi rientrate con il generalizzarsi della pandemia e l’adozione di misure severe da parte bernese. Osserviamo che l’avvio della campagna di lotta contro il Coronavirus ha sollevato problemi del medesimo tipo anche in Germania, in Austria e in Spagna, ossia in tutti i paesi in cui la politica sanitaria è affidata, in via di principio, ai livelli di potere regionali mentre gli interventi in casi straordinari – come una pandemia o una catastrofe – sono di competenza centrale. In una struttura federalista, quindi, trovare la via di mezzo non è sempre facile.

In&Outlet

di Aldo Cazzullo

L’Occidente senza più leader ◆

Il Regno Unito senza un premier, l’Italia in piena crisi politica: altrettanti favori a Putin. È l’estate dell’Occidente senza leader, o dai leader dimezzati. Nella storia britannica Boris Johnson non è un passante. È l’uomo che ha portato il Regno Unito fuori dall’Europa. La sua caduta sembra confermare che la Brexit non è stata una grande idea. Che il sovranismo e il nazionalismo sono una reazione comprensibile ma controproducente al mondo globale, e non mettono nessuno al riparo dal drammatico fenomeno del , l’impennata dei prezzi. Quasi una famiglia britannica su dieci – l’ha scritto «The Guardian» – non ha abbastanza da mangiare: il cibo costa troppo e mancano le sterline per acquistarlo. Questo non significa che la caduta di Johnson sia di per sé una buona notizia per i sostenitori dell’Europa, del libero scambio, della collaborazione tra i Paesi; né per affrontare le emergenze globali. La caduta di Johnson conferma anzi che il

fronte occidentale è più che mai fragile. Come sono fragili le varie leadership. A Parigi Emmanuel Macron è appena stato rieletto, ma non ha conquistato la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale e ha davanti a sé  anni difficili. A Berlino Olaf Scholz non ha l’esperienza e probabilmente neppure la statura di Angela Merkel. A Madrid il premier socialista Pedro Sanchez si è visto per la prima volta superare nei sondaggi dalla destra popolare, che però – si vota l’anno prossimo – non avrebbe la maggioranza assoluta neppure con gli estremisti di Vox. A Washington Joe Biden si avvia verso una disastrosa sconfitta alle elezioni di metà mandato a novembre, con probabile rinuncia alla ricandidatura, senza che i democratici abbiano un leader pronto e senza che i repubblicani riescano a liberarsi del fantasma di Trump. Poi c’è il caso italiano. Mario Draghi, presidente del Consiglio molto stimato in ambito internazionale, ha visto frantumarsi la

sua maggioranza; l’unico partito di opposizione è il primo nei sondaggi; leghisti e grillini minacciano di far saltare tutto. In questo contesto, le parole di Putin – «in Ucraina abbiamo appena iniziato» – possono suonare come una sinistra smargiassata, ma ci ricordano pure che, se è sempre difficile misurare il consenso di una dittatura, è sempre facile misurare il consenso di una democrazia. E in Occidente la democrazia rappresentativa, nelle sue varianti, non è mai stata così sotto attacco. La pandemia e la guerra possono suonare un richiamo all’ordine; ma il segno del nostro tempo resta la rivolta contro l’establishment, contro le élites, contro il sistema. Al di là delle bizzarrie del personaggio, Johnson aveva tentato proprio questo: incanalare l’ondata populista nell’alveo della politica tradizionale, del partito conservatore, della propria personale fortuna. E finora gli era andata bene. Boris era sindaco di Londra. Ma aveva un rivale, fin dai tempi dell’a-

dolescenza a Eton: David Cameron, allora primo ministro. Quando Cameron rinegoziò il rapporto di Londra con l’Europa e lo sottopose a referendum, Johnson scommise sul no. Vinse la scommessa, sottrasse la vittoria a Nigel Farage – vero antisistema – fece il ministro degli Esteri di Teresa May, divenne premier e stravinse le elezioni del dicembre  con lo slogan «Get Brexit done»: abbiamo voluto la Brexit, ora facciamola. Johnson non è caduto per la gestione della pandemia, né per il protagonismo sull’Ucraina, né tanto meno per le proprie bizzarrie. La vita privata disordinata, i party, i collaboratori sbagliati sono storie che – quando il leader, il partito, il governo sono in salute – scivolano via. Diventano fatali quando le cose vanno male. Il declino delle leadership è uno dei segni del nostro tempo. Dove sono le Thatcher e i Blair, i Kohl e le Merkel? A prescindere dagli errori – la poll tax e la guerra in Iraq, i fondi neri della Cdu e

la scarsa generosità con gli alleati europei – quelli erano primi ministri, quelli erano cancellieri. Adesso i leader sembrano fungibili, come i segretari del Pd in Italia. Sarkozy rischia la galera, Hollande è ricordato solo per i suoi amori. Difficilmente Scholz aprirà un’era. L’altro ieri toccava a Cameron, ieri a May, ora a Johnson, domani chissà; la regina Elisabetta seppellisce politicamente un altro premier, ma neppure lei è eterna. Resta un dato: il populismo sta riprendendo fiato grazie alla ripresa dell’inflazione, alla corsa dei prezzi del gas, del carburante, del cibo, delle materie prime, all’impoverimento del ceto medio, alla disperazione delle classi popolari. O i governi in carica riescono a fermare la speculazione, senza aumentare le tasse sugli onesti e senza caricare di altro debito le generazioni future, oppure faranno la fine di Johnson. E sui tormentati confini orientali d’Europa si allungherà ancora di più l’ombra di Putin.

Il presente come storia

di Orazio Martinetti

Caro potente della Terra ti scrivo ◆

Il lamento riguardante il presunto disimpegno o silenzio degli intellettuali su guerre e tragedie, dittature e ingiustizie, è ricorrente. Il che è in parte vero, se il riferimento è alle figure che hanno dominato il dibattito pubblico tra Otto e Novecento, a partire dal celebre «j’accuse» di Zola sul caso Dreyfus o al più recente «io so, ma non ho le prove» di Pasolini. Il fatto è che i luoghi della cultura e la sfera dell’informazione negli ultimi decenni sono profondamente cambiati, relegando gli «intellos» tanto cari ai francesi in un angolo, scalzati da altre forme di protesta e da strumenti mediatici non più legati ai canali tradizionali, dal quotidiano al libro. Perché questa è la novità della nostra epoca, l’irruzione delle reti sociali nella quotidianità, uno spazio ove ognuno ha la possibilità di prendere la parola e quindi di esprimer-

si (su tutto e spesso contro tutti). Siamo al massimo della democraticità, se vogliamo, ma anche al massimo della confusione. Non per nulla l’esplosione delle Reti (Facebook, Instagram, Twitter eccetera) ha consentito una parallela propagazione di notizie false. Anche i siti seri e organizzati scientificamente, che pure per fortuna esistono, faticano a farsi largo nel sabba delle fandonie e delle dissimulazioni. La propaganda è sempre esistita; ha accompagnato e sorretto come arma ausiliaria i conflitti, quelli bellici ma soprattutto quelli ideologici. Proprio in questi giorni abbiamo recuperato dalla cantina in cui placidamente dormiva un libello di Bertrand Russell intitolato Lettera ai potenti della Terra. Pubblicata nel periodico laburista «New Statesman» nel  e tradotta da Einaudi l’anno successivo, la missiva del matematico e fi-

losofo inglese, nato centocinquant’anni fa, esortava i rappresentanti delle due massime potenze di allora, Stati Uniti e Unione Sovietica, a deporre le armi (nucleari) e a cooperare fattivamente per costruire un orizzonte di pace. Russell sottolineava inoltre lo spreco di risorse, umane e materiali, che l’insensata corsa all’atomica comportava per entrambi i paesi: «È evidente che sia la Russia che l’America potrebbero risparmiare i nove decimi delle loro spese attuali se concludessero un trattato di alleanza e si dedicassero di comune accordo alla preservazione della pace nel mondo». Al pressante invito del filosofo risposero Nikita Kruscev e, per conto del presidente Eisenhower, il segretario di stato John Foster Dulles. Il primo colse l’occasione per magnificare le conquiste del sistema sovietico e per assicurare piena disponibilità al dialogo; il secon-

do ritenne invece fallace la missione che il capo del Cremlino si auto-attribuiva, ricordando che «in nessuna parte del mondo il partito comunista mantiene oggi il proprio dominio se non imponendolo con la forza alla grande maggioranza della popolazione». Occorre ricordare che le tensioni crescevano di anno in anno, dal blocco di Berlino del ’- alla successiva guerra di Corea dei primi anni Cinquanta, raggiungendo l’apice con la divisione della Germania e la crisi dei missili di Cuba (ottobre ). Dalla tenaglia est-ovest era impossibile sfuggire. Anche la neutrale Svizzera, già negli anni Cinquanta, avviò preparativi per dotarsi della bomba atomica: un’iniziativa costituzionale lanciata per vietarne l’introduzione, giunta alle urne nel , fu respinta dal popolo, dando via libera alla ricerca controllata dai mili-

tari (solo quattro cantoni approvarono l’iniziativa, tra cui il Ticino). Il progetto fu successivamente abbandonato a favore dello sfruttamento civile dell’energia nucleare. Ma torniamo a Russell e alla sua supplica. Preso atto delle risposte, egli concluse che non coglievano il nocciolo della questione: «Non posso affermare che, fino a questo momento, il risultato sia stato molto incoraggiante». Lo sconforto, per il filosofo, persisteva: «Noi siamo tutti in pericolo, in mortale pericolo, noi stessi, i nostri figli, i nostri nipoti: non i nostri pronipoti, se non riusciamo nell’intento, giacché, in quel caso, non avremo pronipoti». Rileggendo quelle pagine non possiamo non rivolgere un pensiero alle sordità odierne, all’incomunicabilità tra le grandi potenze, alla loro «libido dominandi» che soffoca sul nascere ogni tentativo di vero dialogo.


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Bistecca di maiale con erbe aromatiche e limone Le bistecche di collo di maiale alla griglia, precedentemente marinate, vengono servite con un mix di erbe aromatiche, scorza di limone e olio d’oliva. Accompagnate da patate al forno (perfette le country cuts) diventano subito protagoniste del party in giardino. Ricetta su migusto.ch

VENTAGLIO D’AROMI PER LA BISTECCA ALLA GRIGLIA La bistecca di maiale alla griglia è un classico del menù estivo, e la marinata gioca un ruolo centrale nell’esaltarne il sapore.

MARINATA BASE • • • •

1 spicchio d’aglio 3 dl di olio di girasole ½ cucchiaino di sale ¼ di cucchiaino di pepe

Spremi l'aglio nell'olio. Aggiusta di sale e pepe. Tre marinate che si possono realizzare a partire da questa base:

 Mediterranea Testo: Heidi Bacchilega

Le bistecche di maiale si ricavano da diverse parti dell’animale. La carne del collo è quasi sempre marmorizzata, ovvero percorsa da venature di grasso che la rendono particolarmente succosa. Lonza e filetto sono invece piuttosto magri e richiedono nella preparazione un minimo di know-how per evitare che si asciughino troppo. Dopo la cottura, in padella o sulla griglia, le bistecche dovrebbero riposare per una decina di minuti, così che le fibre della carne tornino a distendersi.

• • • •

½ mazzetto di rosmarino ½ mazzetto di timo 4 rametti di salvia 1 cucchiaio di senape a grana grossa

Per la marinata al profumo di Mediterraneo trita le erbe aromatiche e mescolale insieme alla senape a un terzo della marinata base. Questa marinata si abbina ottimamente anche a funghi e verdure. La dose indicata è sufficiente per circa  g di prodotto da grigliare.


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MONDO MIGROS

Bistecca di maiale con albicocche e feta In combinazione con albicocche, feta e cipolle, la bistecca di lonza alla griglia acquista un sapore tutto speciale. Si sposa bene con un’insalata fresca.

IDEE FRESCHE DI BANCO

Ricetta su migusto.ch

Al banco della carne hai solo l’imbarazzo della scelta. Sulla griglia estiva la carne di maiale la fa generalmente da padrona, ma anche gli estimatori della carne bovina trovano... pane per i propri denti al banco del fresco: filetto, entrecôte o scamone vengono proposti – secondo disponibilità – anche nella variante dry-aged e persino di qualità bio da manzo allevato al pascolo. Chi preferisce la carne di vitello può puntare, ad esempio, sul carré. Tutti i tipi di carne vengono anche marinati secondo richiesta, tagliati nello spessore desiderato e confezionati ad hoc. Inoltre i nostri esperti al banco sono più che disponibili a fornire utili dritte in materia di preparazione e cottura. Rivolgiti a loro con fiducia, sanno sempre come consigliarti al meglio.

20%*  Americana

• 4 cucchiai di salsa barbecue • 1 cucchiaio di sciroppo d'acero • 1 cucchiaino di paprika

Mescola la salsa barbecue, lo sciroppo d'acero e la paprika a un terzo della marinata base. Questa marinata è perfetta per la carne di pollo e di maiale. La dose indicata è sufficiente per circa  g di prodotto da grigliare.

 Asiatica 1 gambo di lemongrass 1 peperoncino 3 cucchiai di salsa di soia 2 cucchiai di salsa di ostriche 1 cucchiaio di semi di sesamo

Per la marinata in stile asiatico taglia in due il gambo di lemongrass nel senso della lunghezza e tritalo finemente. Affetta il peperoncino a rondelle sottili. Mescola entrambi con la salsa di soia e la salsa di ostriche. Aggiungi i semi di sesamo e unisci il tutto a un terzo della marinata base. Questa marinata si sposa bene con gamberetti, pesce e tofu. La dose indicata è sufficiente per circa  g di prodotto da grigliare.

Bistecca di collo di maiale Scotta la bistecca sulla griglia a fiamma alta, dopodiché riduci la temperatura. Bistecca di collo di maiale IP Suisse, marinata, prezzo del giorno Foto: Migusto

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Artista antisistema Bice Lazzari e i suoi segni poveri in mostra alla Galleria internazionale d’arte moderna di Ca’ Pesaro

La parte di Malvasia Intervista all’italianista e critica letteraria Gilda Policastro sul suo romanzo uscito per La Nave di Teseo

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Gli artisti e il potere Brevi vignette letterarie sui grandi scrittori del Novecento nell’antologia di Hans Magnus Enzensberger

Dance Fever Florence + The Machine sono tornati con un nuovo album che ben promette per il futuro della band

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Il messaggio importante di Malina Suliman Mostra

L’artista afghana e la sua street art sono protagoniste al Museo Casa Rusca di Locarno fino al 15 agosto

Alessia Brughera

Kabul, anni Duemila. Per le strade della città più popolosa dell’Afghanistan compare un graffito raffigurante uno scheletro avvolto in un burqa blu. Pochi e sommari spruzzi di una bomboletta spray delineano un’immagine nitida e potente. «Un autoritratto», lo definisce Malina Suliman, l’artista che lo ha realizzato pensando alla sua storia e a quella di tutte le donne afghane costrette ad annullare il proprio corpo e la propria identità in nome di una cultura tanto oppressiva quanto radicata nella loro terra. Quando incomincia a eseguire le sue opere di street art, Suliman, nata nel  a Kandahar, è l’unica artista afghana a utilizzare questa tecnica, praticamente quasi del tutto sconosciuta fino a quel momento nel suo Paese. L’arte lì viene presentata solo nei contesti espositivi istituzionali, dove però le donne non possono mettere piede senza l’autorizzazione concessa dall’uomo di famiglia. Scendere in strada, per Suliman, è così l’unico modo per comunicare con un pubblico più vasto, soprattutto con le persone che per motivi sociali e culturali non possono frequentare musei e gallerie, perché è proprio a loro che vuole parlare dando voce ai muri della città. Lo spazio urbano diventa il luogo migliore per sollecitare riflessioni su questioni di ampia portata che possano coinvolgere tutti. E poco importa se per la paura di essere scoperta e punita i suoi graffiti spesso non si presentano con una resa finale impeccabile: ciò che preme all’artista è trasmettere un messaggio importante, e quello è sempre arrivato forte e chiaro, anche a coloro che l’hanno minacciata e persino lapidata durante la realizzazione delle sue opere ritenendole una provocazione alle tradizioni musulmane. Come Suliman stessa ha raccontato, sebbene non abbia incominciato a dedicarsi all’arte a causa delle iniquità di cui è stata testimone e vittima, la sua ricerca l’ha condotta in maniera del tutto naturale a focalizzarsi sui temi della giustizia sociale. Partendo dai lavori sui muri di Kabul, di Kandahar e di Mazar-i-Sharif, la sua attività si è fatta fin da subito strumento di esplorazione e di denuncia dei meccanismi di esclusione e di discriminazione, incarnando le idee più liberali ed egualitarie delle nuove generazioni afghane. Con l’intento di generare discussioni e di innescare un vero e proprio processo di cambiamento, Suliman affronta con coraggio argomenti che riguardano i diritti delle donne nella società, le gerarchie di classe e razza, le lotte geopolitiche e di potere, la migrazione, la convivenza di culture diverse e le questioni legate all’iden-

Qui a lato, l’opera Ispirazione dalla street art. Al centro, un ritratto della giovane artista nata nel 1990 a Kandahar. Sotto, Turban as Symbol of Male Supremacy. Tutte le foto sono di Cosimo Filippini © Museo Casa Rusca)

tità. Tutte questioni che l’artista vive in prima persona e che poi trasferisce nelle sue opere, interrogando il passato per agire sul presente. Basta leggere la sua biografia per accorgersi di quanto queste problematiche abbiano da sempre condizionato l’esistenza di Suliman. Cresciuta al tempo dei talebani, è stata costretta fin dall’età di dodici anni a indossare il burqa, un’imposizione che ha minato nel profondo la sua personalità. Intenzionata a studiare arte, ha dovuto farlo di nascosto dal padre frequentando una scuola a Karachi, in Pakistan. Aggredita per strada mentre creava i suoi graffiti, è stata poi segregata per un anno intero tra le mura domestiche dalla sua famiglia, e, quando la situazione si è fatta ancor più pericolosa è stata ob-

bligata ad abbandonare l’Afghanistan per trasferirsi nei Paesi Bassi, dove ha dovuto ricalibrare e ricostruire la sua identità di artista secondo la sensibilità dell’Occidente. Eppure Suliman non ha mai desistito, arrivando a esporre i propri lavori in molti contesti internazionali e aiutando anche i suoi colleghi artisti (una categoria molto fragile nel Paese afghano che fino al  puniva con la pena di morte gli autori di opere non gradite) attraverso la creazione della Kandahar Fine Arts Association. Anche lontana dalla propria terra d’origine, Suliman ha continuato a trattare i temi a essa legati, quelli che appartengono alla propria storia. L’Afghanistan è uno Stato in guerra, turbato da continui conflitti civili e dall’occupazione di eserciti stranieri che ben poco hanno realmente fatto per cambiare la sua travagliata situazione. Con la ripresa totale del controllo da parte dei talebani, dopo la ritirata degli occidentali guidati dagli Stati Uniti nell’agosto dello scorso anno, il Paese è ripiombato nell’inferno dell’estremismo e dell’oscurantismo. Suliman sa, però, che ciò che condanna con le proprie opere non sono solo le restrizioni dettate dai fondamentalisti. La sua lotta è contro le consuetudini che hanno messo radici nel corso dei secoli in tutto l’Afghanistan, indipendentemente dai gruppi etnici e dalle aree geografiche, intridendo la società di dottrine misogine e anticulturali. E non è allora un caso che la mostra a lei dedicata, allestita negli spazi del Museo Casa Rusca a Locarno,

ruoti attorno all’immagine di burqa e turbanti, parti in causa di un contrasto mai sanato tra obbedienza e potere. Nei lavori esposti nella rassegna questi elementi con un forte portato simbolico appartenenti alla tradizione afghana vengono inseriti dall’artista in una cornice inedita e caricati di nuove valenze estetiche e concettuali. Tra le opere locarnesi che più fanno riflettere c’è un’installazione video facente parte di un progetto nato nel  a Londra dal titolo Beyond the Veil – A Decontextualisation. Quello che Suliman vuole fare è condurre una ricerca sul significato degli artefatti tipici del suo Paese, cercando di capire cosa succede nel momento in cui questi vengono inseriti in un contesto differente da quello consueto. Due sono i video proposti, uno mostra alcune donne che indossano il burqa afghano mentre camminano per le strade di Kabul, l’altro presenta la medesima situazione per le strade di Amsterdam (dove tra l’altro vige un parziale divieto di indossare il velo in luoghi pubblici), cogliendo così le diverse reazioni dei passanti. Attorno al turbante, simbolo di autorità e di influenza maschile, ruotano invece alcuni lavori di Suliman intitolati Turban as Symbol of Male Supremacy. Nell’installazione tessile esposta a Locarno, la stoffa di questi copricapi viene utilizzata dall’artista per confezionare lingerie femminile e miniabiti, in una sorta di riconversione fisica e concettuale di uno degli accessori più significativi della tradizione musulmana. Interessante, poi, è la sala dove Suliman propone un intervento pittorico parietale che richiama l’arte di strada praticata in Afghanistan come forma di espressione libera e accessibile a tutti, con il tema a lei tanto caro della discriminazione femminile che si concretizza nella rappresentazione di donne-albero le cui radici vengono recise a colpi d’ascia da piccole sagome nere. A fine percorso c’è spazio anche per un’installazione realizzata sul pavimento con le spezie tipiche delle terre afghane che ci parla della non facile esperienza d’integrazione in Occidente di Suliman, in lotta questa volta per scrollarsi di dosso la riduttiva etichetta di rifugiata che spesso le viene affibbiata e per riuscire a far comprendere anche qui la potenza di un’arte che partendo dalla tormentata storia di un Paese assume un carattere universale. Dove e quando Malina Suliman, Museo Casa Rusca, Locarno. Fino al 15 agosto 2022. Orari: da ma a do 10.0012.00/14.00-17.00, lu chiuso.


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CULTURA

L’esserci e l’arte Mostre

Bice Lazzari, artista antisistema, è in mostra a Ca’ Pesaro di Venezia con i suoi segni «poveri»

Giovanni Bellei

Chiariamo subito: a Venezia durante il periodo della Biennale le mostre prolificano in modo vergognoso. Potete trovare di tutto. Dai nomi altisonanti all’ultimo imbrattatele. Ci sono artisti che sono presenti in maniera costante ogni due anni e sono nomi di richiamo che attirano i turisti come, per esempio, Anselm Kiefer, in questo caso a Palazzo Ducale. Potete poi vedere: Daniel Richter all’Ateneo Veneto, Antoni Clavé a Palazzo Franchetti, Marc Quinn al Museo Archeologico Nazionale, Georg Baselitz a Palazzo Grimani, Marlene Dumas a Palazzo Grassi, Tony Cragg al Museo del Vetro di Murano… Questa volta preferisco scrivere di un’artista misconosciuta, appartata: Bice Lazzari, che troviamo in una piccola mostra alla Galleria internazionale d’arte moderna di Ca’ Pesaro. Ho «incontrato» il suo lavoro esattamente il  maggio  leggendo una monografia di Guido Montana intitolata L’esserci e l’arte edita da Silva nel . Montana era uno dei miei critici di riferimento: eretico, al di fuori dagli schemi e sempre contrario all’arte ufficiale. Quella sponsorizzata dalle grandi gallerie e dai musei che contano. Scriveva di autenticità e di valore del segno, ma soprattutto collaborava anche con la stampa anarchica. Una prosa criptica, involuta, difficile da leggere. Lo incontrai a Roma e per questo rimase sorpreso che apprezzassi i suoi libri fra i quali La rivoluzione egualitaria post-industriale del . Li conservo ancora tutti con cura, ben sottolineati. Ritrovarli mi ha fatto tornare indietro nel tempo. Un po’ come leggere di recente il Diario da Kiev dello scrittore Markijan Kamyš su «la Repubblica» che cita volentieri i ricordi del nonno sulla machnovcina con capitale Huljajpole: quella repubblica anarchica fondata da Nestor Machno a Sud-est del Dnepr, nell’oblast di Zaporizhzhja, che difese con il suo esercito di cavalieri contro le truppe bianche prima e bolsceviche dopo dal  al . Torniamo a Bice Lazzari. Montana la incontra per la prima volta nel  assieme al marito, l’architetto Diego Rosa, durante un’inaugurazione. Un comune amico li presentò. Rimase colpito dalla sua modestia: non parlava del suo lavoro, non lo ha invitato, come di solito, nel suo studio in una sorta di pudore intrinseco. Da qui il libro che contiene anche una lunga intervista. Così in sintesi il

A lato, Misure e segni. Curvature, 1967, Tempera e matita su tela. (Collezione Peggy Guggenheim Collection, Venezia) Sotto, Superfici e segni n. 1, 1973- 1974, Acrilico su tela. (Collezione privata)

pensiero di Montana: «I segni dell’artista (Lazzari) non dicono spavaldamente di essere “poveri” per prevalere sulla ricchezza smodata delle immagini massificate…». Segue in nota un attacco all’Arte povera che considera più o meno la traduzione italiana di alcune tendenze non artistiche proliferate in America come la Minimal art o l’Anti-form. Tutte si fondano sul rifiuto delle categorie estetiche tendendo a rendere banale un oggetto comune. Insomma un intellettualismo, un’astuzia dell’elemento mondano. «Si tratta in altre parole, scrive, di un’operazione falsamente eversiva che stimola l’anticonformismo di élite a porre la sua egemonia filistea nell’ordine del sistema». Per Montana un artista diviene «vecchio» quando si adegua al compromesso sistemico, mentre un arti-

sta autentico dovrebbe basarsi su un successo interiore costruito su valori autentici che si ottiene non «prostituendosi» alle regole del sistema ben-

sì respingendo il sistema fino in fondo per affermare una vera e semplice «presenza operativa». Bice Lazzari, quindi, è un’artista

antisistema e i suoi segni «poveri» diventano ricchezza operativa, significanti, traducendosi in valore in sé. Bice Lazzari è nata a Venezia il  novembre . A  anni si iscrive all’Accademia di Belle arti della città lagunare dove frequenta i corsi di decorazione. Quelli di pittura non sono adatti a una signorina di buona famiglia per via delle lezioni di nudo. Dopo la disfatta di Caporetto la famiglia si trasferisce a Firenze dove frequenta un corso di ornato. Nel  prende il diploma, sempre a Venezia. In quegli anni giovanili dipinge paesaggi e in seguito, per vivere e mantenersi, disegna motivi decorativi per tessuti. Nel  si trasferisce a Roma ove realizza modelli per stoffe, oggetti in legno intarsiato, gioielli. Nel  sposa l’architetto Diego Rosa. Si spostano prima a Venezia poi a Milano per ritornare a Roma. Nel  viene premiata alla Biennale di Venezia per il mosaico La verità. In quegli anni scopre una vena astratta. Negli anni Sessanta abbandona la pittura a olio per la tempera e poi l’acrilico. Nel  conosce Guido Montana, direttore della rivista «Arte oggi», con il quale inizia un rapporto quasi esclusivo. Nel  viene inserita nella mostra milanese di Lea Vergine L’altra metà dell’avanguardia. Muore a Roma nel . La mostra veneziana ci offre alcuni lavori che spaziano dalla metà degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta; in pratica il periodo che copre l’informale e l’ultimo minimalismo astratto. Lavori, quest’ultimi, pieni di autocontrollo, essenziali, rigorosi, dettati da un equilibrio fra presenza e assenza. Apparentemente sembrano vuoti ma la composizione perfettamente equilibrata, i segni esangui e precisi mostrano una scrupolosa selezione mentale e manuale. Giulio Carlo Argan scrive in occasione della sua partecipazione alla mostra L’altra metà dell’avanguardia su «L’Espresso»: «Una pittrice ormai ottantenne che ha speso la vita a distillare la qualità dalla quantità e a isolare l’essenza pura del segno senza brutali appelli alle origini, ma attraverso l’alchemica decantazione di tutta una cultura». Dove e quando Bice Lazzari. Fra spazio e misura, A cura di Paola Ugolini, Ca’ Pesaro, Venezia. Fino al 23 ottobre. Orari: 10.00-18.00, chiuso lunedì. www.visitmuve.it Annuncio pubblicitario


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MONDO MIGROS

BUONO A SAPERSI Ruby è una varietà di cacao che cresce in Ecuador, Brasile e Costa d’Avorio. Il cioccolato omonimo, sbarcato da poco sul mercato, porta una ventata di gusto e colore nella tradizionale triade di cioccolato fondente, al latte e bianco. Perché il sapore fruttato e il naturale colore rosa intenso (da cui il nome che, letteralmente, significa «rubino») ne fanno un’esperienza unica per occhi e palato.

CHI L’HA INVENTATO? Gli esperti dell’azienda belga Callebaut hanno scoperto la nuova varietà di cacao già una quindicina di anni fa, ma c’è voluto parecchio tempo prima che riuscissero a mettere a punto la ricetta per il cioccolato Ruby.

CHE SAPORE HA?

Foto: Lukas Lienhard, Styling: Mirjam Käser

Oltre che per il colore insolito, Ruby si distingue dalle varietà di cioccolato tradizionali anche per il gusto, intensamente fruttato con una leggera nota acidula e vagamente paragonabile a quello di un lampone acerbo.

BLÉVITA, UN SOGNO IN ROSA Il cioccolato Ruby fa parlare di sé in tutto il mondo dal 2019 e adesso è arrivato anche nei nuovi biscotti Blévita in edizione limitata – il modo migliore per regalare una nota di originale dolcezza alla giornata.

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CULTURA

«La letteratura è una bugia»

Fratture

Editoria/1 ◆ Nel nuovo romanzo di Gilda Policastro, La parte di Malvasia, lo sguardo su vita-e-morte si attorciglia in una forma letteraria sfaccettata

Editoria/2 ◆ Lorenza Noseda torna in libreria

Manuela Mazzi

«Era questo, lo scopo del dolore: la sua cura». Un dolore generativo, più che generato dalla violenza del vivere, la malattia, la perdita, i conflitti di genere e interiori, le parti estreme dei desideri, la carnalità e il corpo, la ricerca del male (dal quale, la radice di Malvasia, malvagia); un dolore che arriva a generare la morte, che a sua volta genera dolore, facendosi entrambi oggetto d’indagine, come fossero il morto di cui occuparsi, per il quale binomio forse si vorrebbe trovare una ragione. Tanto è ciò a cui si va incontro prendendo in mano l’ultimo romanzo della scrittrice, oltre che poetessa e critica letteraria romana Gilda Policastro, La parte di Malvasia. L’avvio del romanzo è volutamente travestito da giallo tradizionale, con la messa in scena del classico «misterioso omicidio della straniera», quasi a voler fare accomodare il lettore, per trasformarsi poche pagine dopo in una scomposizione della materia narrativa che si frammenta sempre più, pagina dopo pagina, trasformando le immagini in taglienti schegge di vetro, nelle quali il male, vero protagonista di quest’opera, tende a riflettersi ma anche a distorcersi per offrire a noi una percezione delle sue sfaccettature più recondite, comprese quelle di un certo disagio psicologico. Il tutto reso da una forma disarticolata, ovvero ricomposta con un montaggio narrativo che disorienta più che inquietare. Il cosiddetto plot, pur non essendo romanzo di trama, parte infatti dalla scomparsa di una donna, Malvasia, peraltro sconosciuta ai più e arrivata nel quartiere da poco, non si sa da dove. Ad accertarne la morte – presumibilmente violenta e avvenuta per mano di terzi – sono il commissario Arena e l’aiutante Gippo, che avviano le indagini. Da qui il testo perde ogni topos del genere (de Giovanni nel suo blurb parla di «Un’altra sfumatura del nero»), mantenendo tuttavia la tensione narrativa che gioca sulla curiosità del lettore spinto a girare le pagine per capire dove l’autrice vuole portarlo. Gilda Policastro, la malattia, il male, la morte, ma anche una certa forma di violenza e di impotenza, sono temi a lei cari, considerate anche le altre sue opere come Cella o Il farmaco. Il «male» si presta meglio alla forma del romanzo letterario? Non so se si presta «meglio», bisognerebbe anche capire qual è l’alternativa, cos’è il bene, come si racconta, o se può essere narrativamente interessante. Ad ogni modo per me la cosa essenziale non è raccontare il male, ma non eliderlo dalla scena, in nome di un malinteso senso della piacevolezza narrativa, o della soglia di tollerabilità del lettore (che si presume sempre omologato, e sempre ingenuo). Lo scorso anno è uscita una serie violentissima che è diventata fenomeno di massa, Squid game, però poi si è gridato allo scandalo per Le ripetizioni di Giulio Mozzi. Non capisco questo recinto stretto di cui si circonda la letteratura: esistono ancora temi interdetti? Pasolini lo processavano per oscenità negli anni Sessanta e Settanta, penso che oggi, al netto della censura di Fa-

Gilda Policastro è studiosa di Letteratura italiana, scrittrice e critica letteraria.

cebook, che riguarda soprattutto la politica, dovremmo sentirci un po’ più aperti. In Malvasia le voci narranti si attorcigliano, confondono, poche volte chiariscono con lucide sentenze, altre volte si fanno metaletterarie, e pure capita che si rivolgano al lettore: sono più ammiccamenti o inneschi del dispositivo drammatico? Niente di tutto questo: il romanzo nasce da un’immaginazione, da una fantasia su una donna morta. Dunque il problema era: come si fa parlare una donna morta? La si fa raccontare dagli altri, ma ci si sente poi responsabili di appropriazione anzi di esproprio di identità. E quindi ogni tanto Malvasia torna a riprendersi quello che è suo, una voce «deportata», per dirla con un poeta a me caro. Malvasia è l’impossibilità di raccontare la morte che solo ci sia dato di vivere, che è quella degli altri. Se gli altri sono persone care, l’appropriazione o l’esproprio è ancora più indebito (e doloroso). Quella fluttuazione risponde a questo tipo di esigenza, ma è più letteraria che programmatica, o forse è più emotiva che letteraria. Il testo mette talvolta a nudo uno sguardo «maschilista»: quanto contiene Malvasia della dualità maschile/femminile e quanto ha che fare con gli attuali temi di genere? Quando penso al genere, mi viene in mente sempre l’ambivalenza di Leopardi, in cui il «gener frale» è il femminile, ma poi alla fine la natura umana in quanto tale. Non credo che ci sia uno sguardo maschilista nel libro, ma in generale lo sguardo sui corpi delle donne e sulle qualità prettamente estetiche è uno sguardo che nell’immaginario (soprattutto femminile, a ben pensarci) si consegna o si attribuisce al maschio. Ci si apparecchia per essere guardate. La parte di Malvasia poi è ambientato in un mondo piccolo, in un paese che da un lato è come quello dai confini di gesso di Dogville, ma somiglia anche al paesello di quindicimila anime in cui sono cresciuta e tante

donne che conosco, come me, in posti come il paese o il quartiere hanno introiettato lo sguardo del maschio, ma in generale dell’altro. Che poi in un’ottica non maschilista è anche la prima misura della propria identità, fuori dallo specchio. E in merito alla violenza sulle donne? Il libro non parla di violenza sulle donne, se non per accidente, con un articolo di giornale, quindi qualcosa di episodico, sebbene drammatico. La violenza maggiore sulle donne e sulle creature, nel libro, è la morte, ma prima ancora la malattia, o anche solo l’invecchiamento. Come dico in un passaggio del libro, quando si è vecchi c’è questa inversione per cui la conquista dell’autonomia della vita adulta regredisce a dipendenza degli altri e tutte le abilità acquisite nel tempo si rovesciano in incapacità e rinunce. Ma qui lo spiego, nel libro lo dico (o lo mostro). La natura letteraria del romanzo è evidente da stili e forma: quanto sono dati dal godimento che si può trarre da un esercizio di bravura e quanto è funzionale alla narrazione? (Penso ad esempio ai capitoli dialogici, uno reso tale anche graficamente; e alla paratassi di alcuni paragrafi). Faccio fatica a pensare agli esercizi di bravura come a un problema. Il talento non è da nascondere in nessuna disciplina, sport, arte, solo in letteratura se sei bravo a scrivere te ne devi quasi vergognare e «dirlo peggio», così non spaventi nessuno. Ma perché? Io non mi sono mai spaventata e quando mi è capitato (leggendo Mann, ad esempio), è stato un bell’effetto. Ho cominciato a leggere di più per capire di più, non a leggere cose scritte peggio per capirle meglio. In che modo dialoga, se dialogo c’è, Malvasia con La cognizione del dolore di Gadda? O altre opere, come I fratelli Karamazov di Dostoevskij? Con I Karamazov in modo esplicito, perché uno dei temi del libro è l’esplorazione del dolore ma anche

della violenza ingiustificata e familiare, come quella dei genitori che torturano senza ragione la loro figlioletta in Dostoevskij. Ma il passo mi serve non in modo didascalico per rivendicare l’innocenza delle creature: al contrario, per indagare la presenza di un mondo pulsionale oscuro che può risultare incomprensibile, ma che pure esiste (quello che all’inizio della conversazione chiamavamo «il male»). La Cognizione è uno dei miei libri formativi: una mia compagna di corso ci fece la tesi, e mi appassionai alle sue ricerche. Nel libro ci sono due citazioni dirette, che non svelo perché sono molto riconoscibili. Quello che mi interessa è come Gadda arrivi alla verità (dell’esistenza, non della trama) attraverso un percorso graduale: con Malvasia ci ho provato, ma nell’esperienza che volevo mettere in forma era più forte la tensione prodotta dallo choc. Io racconto una diagnosi, Gadda un progettato matricidio. Ma forse nella mia «diagnosi» c’era anche questo. Letterariamente, dico. «La verità è sopravvalutata, io voglio solo bugie. La letteratura è una bugia, la più grande bugia che l’uomo ha inventato», si legge nel romanzo: come può la letteratura svelare verità sul mondo, se di fatto è «sempre» una bugia? Ah, questo bisognerebbe chiederlo a Dante, che si finge impunemente tra mostri, dannati e diavoli o tra santi e Vergini e nessuno dei suoi lettori, specie ai suoi tempi, gli negava la sospensione dell’incredulità. Quello che voglio dire è che la letteratura è sempre un’operazione a tavolino, il che per altre arti è un’ovvietà. Il selfie che ti sei scattata per i tuoi profili social è un’idea di te, una messa in forma di una cosa che vagamente somiglia a te, ma non sei tu. È una bugia. Malvasia è il mio selfie: ma anche questa è una bugia. Bibliografia La parte di Malvasia, Gilda Policastro, La nave di Teseo Editore, 2021, pp. 208.

Anche nella più mite quotidianità, anche durante una domenica tranquilla, anche se il male si manifesta in un lento progredire, arriva sempre un momento in cui qualcosa spezza la linea della narrazione, crea una frattura insanabile tra un prima e un dopo. Sospende le vite, le cambia, a volte le scuote per poi farle tornare com’erano, anche se niente sarà mai più com’era. Questa ci pare essere l’idea di controllo dei nove racconti di Una domenica tranquilla di Lorenza Noseda (Dadò Editore, ). Eventi, si diceva, che incrinando la quotidianità, fanno muovere i protagonisti lungo traversie che ne deviano il precorso. Un percorso condizionato da un passato e da un presente che non sempre avrà un futuro, come capita nella Lettera a Thérèse, bel racconto dedicato all’amante che fu di Modigliani (Jeanne Hébutherne, la quale posò spesso come sua modella). Di certo, le pagine che ci sono piaciute di più. La struttura di questi testi è tradizionale, fatta eccezione per un tentativo autoriale, attraverso il quale l’autrice sperimenta l’intreccio di più punti di vista. Lo fa nel primo racconto, che però non ci sembra del tutto riuscito. Caratteristica interessante è la voce che ha il sapore di casa, e non solo per i molti rimandi domestici che quasi tutti i racconti hanno come ambientazione, ma per la lingua impiegata, per il lessico e per una certa predilezione nell’uso di quei modi di dire che si usavano per dare consigli secondo la saggezza popolare, per riassumere concetti altrimenti più complicati da esprimere, oppure anche solo per risparmiare parole. Tra i secondi: «un giovanotto alle prime armi»; «senz’arte né parte»; «non cava un ragno dal buco». Scivola persino nel dialetto: «Quand la merda la munta in scagn…». Frasi fatte che qui tuttavia rafforzano una lingua tesa non a simulare il parlato ma a vivificare i regionalismi, sottolineandone le sfumature. Basti notare i termini nei quali ci si imbatte con piacere, e un po’ in tutte le pagine; lessico che per l’appunto fa parte – preso nell’insieme – della lingua cosiddetta svizzeraitaliana, e che qui prendono il valore di uno stilema: «grembiule»; «quai»; «lift»; «minestrone»; «pulloverino»; così come troviamo locuzioni ancora più significative: «facciamo le imposte»; «intortando anche quelli del cantone», «le torte (…) meglio di quelle dello Sprüngli»; e persino, lo diciamo con un filo d’orgoglio, viene menzionata «la Scuola Club della Migros»… La citazione più bella? «Non strapazzare il tuo talento. Se lo fai tu, anche gli altri riterranno giusto farlo a pezzi, pensando con ciò di rafforzare il loro». / Ma.Ma.


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CULTURA

Artisti della sopravvivenza Pubblicazione

Da Brecht a Bulgakov alla Bachmann, i grandi scrittori del Novecento secondo Hans Magnus Enzensberger

Luigi Forte

Hans Magnus Enzensberger non finisce mai di stupirci. Nel , a quasi novant’anni, questo maestro del paradosso e dell’ironia, figura simbolo della letteratura tedesca contemporanea, ha pubblicato un’affascinante antologia di ritratti di scrittori del Novecento, Artisti della sopravvivenza, che Einaudi ci propone ora nell’ottima traduzione di Isabella Amico di Meane. C’era solo l’imbarazzo della scelta, ma l’autore s’è destreggiato come sempre con grande disinvoltura accostando le figure più diverse, che in un modo o nell’altro hanno avuto a che fare col potere. Sia accondiscendendo o collaborando, sia contrastandolo con la fragile e imperitura forza della parola. Del resto la grande fioritura artistica e letteraria del ventesimo secolo ha conosciuto da vicino terrore di stato ed epurazioni, fascismi e dittature comuniste, e non sempre ha saputo sottrarsi alle più svariate ambivalenze politiche e morali. Basta una frase su Hans Fallada, l’autore del bestseller del , E adesso, pover’uomo, a riassumere la pesante situazione di quegli anni: «Senza compromessi – scrive Enzensberger –, Fallada non si sentiva più al sicuro». Non stupisce. Anche un maestro come Brecht, su un altro versante, espresse la sua solidarietà al partito dopo le proteste operaie del maggio  nella Rdt e solo nei suoi ultimi giorni di vita fece i conti con Stalin «benemerito assassino del popolo». C’erano poi quelli, come Pound e Céline, che rimasero fedeli alla loro predilezione per il fascismo fino alla fine. Anzi, ricorda Ernst Jünger che il francese, conosciuto e frequentato durante l’occupazione di Parigi, pretendeva che i nazisti macellassero gli ebrei «senza risparmiarne nessuno». Vignette letterarie, definisce Enzensberger i suoi brevi, talvolta caustici e folgoranti flash, richiamandosi a un tipo di ritratto particolarmente in voga nell’Ottocento in cui l’immagine sfumava «verso i margini svanen-

do gradualmente sullo sfondo». Ombre e luci di esistenze che affollano la scena artistica lasciando nel lettore un turbinio di sensazioni, curiosità incalzanti ed emozioni senza fine. Dietro c’è la mano sapiente di un autore che è poeta e critico, romanziere e giornalista e che si muove con disinvolta eleganza tra Bulgakov e Lawrence, Sartre e D’Annunzio, Brecht, Miller, Moravia e Ionesco e moltissimi altri ( nell’originale ridotti a  nell’edizione italiana), accanto ai premi Nobel Gide e Pasternak, Nelly Sachs e I.B. Singer, Canetti, Paz e Márquez. Sembra una grande fiera letteraria in cui si accavallano dati biografici, brevi e spesso impietosi giudizi critici, folgorazioni ed entusiasmi, ricordi personali e divagazioni civettuole. Enzensberger non perde mai la sua verve e il suo sguardo s’insinua malizioso nelle vite altrui. Ci ricorda una Colette da belle époque, fra storie d’amore scandalose, che si esibisce come ballerina, fa la giornalista e la scrittrice, commuovendo perfino Marcel Proust, per poi essere nominata Grand Officier della Legione d’onore. E che dire del bisessuale Cocteau, un vip oppresso dai molti talenti, di cui a Parigi si diceva che il suo nome fosse il plurale della parola «cocktail»? O di Gertrude Stein, icona dell’avanguardia americana ed europea, dispotica e megalomane, o di Hašek, l’autore del geniale romanzo sul bravo soldato Švejk, assiduo frequentatore di birrerie e taverne praghesi che scriveva articoli su specie animali immaginarie? Una cosa è certa: anche i grandi autori escono dal cliché della storia letteraria per mostrare la problematica fragilità della vita. Come Alfred Döblin, «piccolo e occhialuto signore ebreo», che bazzicò manicomi per anni, si rifugiò durante il nazismo a Parigi, solo e senza soldi, in seguito a Hollywood, per poi sentirsi, al rientro in Germania sempre più superfluo. Fa specie se si pensa al grande scrittore dell’epocale romanzo Berlin

Primo piano dell’autore. (Keystone)

Alexanderplatz, di cui tuttavia molti anni dopo la sua morte nel  il critico Reich-Ranicki scrisse: «Svagato e caparbio ha cercato la sua strada – un autentico folle fra gli scrittori del nostro secolo». Del resto anche Robert Musil che insegue a fatica l’epilogo del suo grande opus L’uomo senza qualità, appare qui su uno sfondo triste e malinconico: si prese la sifilide, soffrì di malattie psicosomatiche, e fuggì a Ginevra con la moglie ebrea dopo l’Anschluss, dove li attendevano solitudine e impoverimento. Lo scenario di fondo del libro non perde comunque mai di vista i drammatici interrogativi di un’epoca stravolta dalla violenza. Qualcuno, come Cocteau, riuscì a cavarsela benissimo: nella Francia occupata potè continua-

re a pubblicare e a girare film. Per non parlare di chi col potere fascista flirtò come D’Annunzio, «un clown contro la sua volontà», o chi lo condivise come Céline, o il norvegese Knut Hamsun che nel  a Vienna elogiò Hitler come crociato che «avrebbe messo l’Inghilterra in ginocchio». Andò peggio ad Anna Achmatova, l’inavvicinabile regina della lirica russa – come la chiama Enzensberger che la conobbe al premio Etna-Taormina nel  – che nonostante una poesia scritta per i settant’anni di Stalin definito «uomo saggio / che ha salvato noi tutti dall’orrore e dalla morte» fu esclusa dall’associazione degli scrittori. Destino condiviso da Pasternak, nonostante avesse elogiato a suo tempo Stalin («le sue gesta quanto il globo

della terra sono grandi») e ricevuto il Nobel alla fine degli anni Cinquanta, che dovette poi rifiutare per la campagna denigratoria del Politbjuro. Niente al confronto dei panegirici che García Marquez distribuì a Castro verso cui provava un’irrefrenabile attrazione, ossessionato forse dal potere politico e dal senso di solitudine e isolamento che spesso lo accompagna. Enzensberger non esita nei suoi giudizi nemmeno di fronte a figure di grande rilievo: dice di Canetti che «volava sempre alto» e trova insopportabile il suo libro Auto da fé, così come definisce «pallone gonfiato» Breton che, tornato a Parigi da New York, nel dopoguerra non smette di strombazzare il suo movimento surrealista ormai alle corde. Parla invece con affetto e ammirazione di due donne per lui importanti, come Nelly Sachs, che emanava un’intensità – ricorda – «che sulle prime mi intimidì», e Ingeborg Bachmann, con la quale ci fu una lunga amicizia e un dialogo molto intenso nei caffè di via Veneto durante il comune soggiorno romano. E si esalta di fronte all’umorismo e all’arguzia di Ionesco, che si prendeva gioco del pubblico, in sintonia con Raymond Queneau che giocava con il nonsense nell’ideale ambiente del Collegio di Patafisica. Questo libro non finisce mai. Dai brevi, incisivi ritratti nascono storie che s’intrecciano all’infinito, curiosità e stimoli che percorrono il mondo, contraddizioni e ambiguità che sono la storia stessa del Novecento. È un percorso letterario che sfocia nella vita ed è il mondo tutt’intorno che si sente vibrare, nella follia e nella violenza come in mille gesti di speranza legati alla parola liberatrice. Bibliografia Artisti della sopravvivenza. Sessanta vignette letterarie del Novecento, Hans Magnus Enzensberger, Einaudi, Torino, 2022.

Innovatore audace dei linguaggi Ricordo

Se n’è andato Angelo Guglielmi, pensatore critico e direttore storico di RaiTre

Paolo Di Stefano

Non amava la letteratura sentimentale né quella autobiografica, ma neanche i romanzi di intreccio e i racconti di genere. Angelo Guglielmi, nato ad Arona nel  e morto a Roma la scorsa settimana, era rimasto fedele alla sua prima matrice: quella promossa dalla neoavanguardia degli anni  a cui partecipò da protagonista, accanto a Umberto Eco, a Edoardo Sanguineti, a Nanni Balestrini e ad altri. Era uno degli ultimi critici radicali, che avevano fiducia nella letteratura come invenzione di forme, di strutture, di stile, di linguaggi. Aveva un’idea antagonistica di letteratura, l’opposto dell’adesione alla realtà: per questo fu tra i primi a squalificare il neorealismo e a condannare ingiustamente Bassani e Cassola come «Liale del ’». Non che i contenuti fossero da ignorare, ma secondo lui non erano i tratti caratterizzanti della letteratura. Il massimo, per Guglielmi, era Carlo Emilio Gadda, che rovesciò i suoi malumori dentro una scrittura tutta sua, non riconducibile ad altre esperienze: accanto a Gadda, tra i suoi preferiti c’erano Tommaso Landolfi e l’«incomprensibile» Gior-

gio Manganelli, il grande manierista che intendeva la letteratura come menzogna. Per Guglielmi il romanzo era uno strumento di scoperta e di conoscenza del mondo attraverso la lingua. Guglielmi ebbe due grandi interessi. Il primo fu la letteratura, a cui si dedicò come critico militante per diversi giornali, attento ai libri via via che uscivano. L’altro fu la televisione, per cui lavorò sin da giovanissimo come funzionario e poi come direttore di RaiTre dal . Da direttore, Guglielmi ruppe con l’impostazione pedagogica delle origini. La neotelevisione per lui non era un «nastro trasportatore» di teatro, musica, cultura, cinema. La sua «tv verità», come fu battezzata, doveva essere da un lato un grande romanzo popolare che raccontava, appunto, la realtà fino ad allora tenuta nascosta dal varietà e dai telequiz. Chi l’ha visto? è una sua fortunatissima invenzione, come la rubrica di Corrado Augias Telefono giallo, dove si ricostruivano i grandi misteri giudiziari contemporanei. E però, d’altro canto, la sua neotelevisione era anche un organismo

Angelo Guglielmi. (Youtube )

sperimentale e satirico: la composizione spiazzante di Blob è una geniale creatura sua e di Enrico Ghezzi, e da lui nacque l’idea di lanciare Piero Chiambretti con Il portalettere. Fatto sta che da rete minoritaria, legata al Partito comunista secondo la più

sfacciata delle lottizzazioni, RaiTre divenne un luogo di culto, un laboratorio di formule sempre nuove: «il nostro impegno puntava sulla continua sorpresa, convinti che le attese si creano deludendole», scrisse Guglielmi molti anni dopo. Da quel progetto era nato un litigio epico con Giorgio Strehler, che pretendeva dalla tv di Stato la trasmissione tradizionale del teatro, mentre Guglielmi sosteneva che la tv doveva essere produzione autonoma di linguaggi, di generi e di stili. Aveva uno strano carattere, tra rigidità ed estrema apertura, Guglielmi, fiero delle sue intuizioni come dei suoi errori. Tra i tanti, un suo libro molto bello è Sfido a riconoscermi, che rendeva omaggio al suo Gadda, ma soprattutto raccontava, lui ostile all’autobiografia, il sé stesso bambino a Roma, figlio di un ferroviere, era sempre in movimento e di corsa, piccolo di statura, bugiardo incallito, magrissimo e affamato, sgobbone e un po’ tracotante sin da ragazzino, coltivava la sensazione perenne di dover inseguire qualcuno e qualcosa come in una corsa a handicap: lo

vediamo a cinque anni vagabondare in solitudine da un quartiere all’altro della Capitale e a sette anni prendere il treno da Roma per raggiungere, del tutto indesiderato, una zia ricca in Puglia. È il gusto della scorribanda, lo stesso che mise a frutto come critico: oltre a odiare l’autobiografia, Guglielmi detestava la critica accademica, portato com’era a sorvolare i testi, assaporarli, leggerli e interpretarli per forza di intuizioni piuttosto che per analisi in profondità. Idiosincratico, si direbbe, e diretto nei giudizi: non bisognava parlargli di Pasolini (apprezzava solo Petrolio), né di Eco narratore («adottatore di romanzi»), Arbasino era un suo gradito compagno di strada tranne quando «faceva il verso a sé stesso», non amava la «rigidità ideologica» di Sciascia e non salvava Moravia. Come Montale, preferiva dichiarare ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Non erano molti gli autori di oggi su cui scommetteva a occhi chiusi. Tra questi, Michele Mari e Antonio Moresco. Trent’anni di intolleranza (la mia) è un suo titolo significativo.


Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 18 luglio 2022

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39

CULTURA

Florence + The Machine

Musica ◆ La sacerdotessa del pop-rock torna con un nuovo album in cui ripercorre sentieri familiari eppure sempre suggestivi Benedicta Froehlich

Se è vero che i vari lockdown pandemici del - sono stati difficili per tutti, è altrettanto vero che lo sono stati particolarmente per chiunque soffrisse di scompensi psicologici o problemi di salute mentale; e questo vale, naturalmente, anche per gli artisti, da sempre caratterizzabili come individui particolarmente sensibili. E pochi, in fondo, possono definirsi sensibili quanto Florence Welch, da anni anima della formazione britannica nota con il nome di Florence + The Machine e appartenente alla tradizione delle grandi muse del poprock, a cavallo tra Kate Bush, Patti Smith e Pat Benatar. Ecco quindi che l’attesissimo ritorno discografico della diafana ed eterea Florence – la quale, ancora una volta, presenta al pubblico la solita, irresistibile estetica demodé, a cavallo tra art nouveau e atmosfere da pittura preraffaelita - avviene tramite un disco per molti versi esuberante quale il nuovo Dance Fever, il cui titolo non rappresenta una connotazione stilistica, bensì un riferimento al desiderio di vita notturna che le restrizioni pandemiche hanno a lungo frustrato. Non solo: con quest’album, i Florence + the Machine decidono di effettuare un vero e proprio ritorno alle atmosfere e suggestioni del periodo tra il

 e il  – gli anni del debutto Lungs e del successivo Ceremonials, a tutt’oggi i maggiori successi della formazione. E proprio come con i precedenti album, anche per Dance Fever la Welch va a creare una sorta di «esperienza cinematica» nella cura assoluta dedicata ai videoclip che accompagnano i singoli estratti dal CD – e che, lungi dall’essere semplici ausilii commerciali, diventano a tutti gli effetti elemento fondamentale nella fruizione del disco, fornendo un corrispettivo visivo ai brani e condendoli di interpretazioni particolarmente mirate. Un esempio perfetto è il video di Free, che vede la star del cinema britannico Bill Nighy affiancare l’artista nei panni della sua sindrome ansiosa, qui vista alla stregua di entità fisica e tangibile al fianco di una sempre più instabile Florence – la quale, da parte sua, in questi nuovi exploit appare sempre più come un’incarnazione fuori tempo massimo dell’Ofelia dipinta a metà  da John Everett Millais (si veda anche King, in cui l’artista si presenta nei panni di una sorta di apparizione soprannaturale, giunta ad interrogarsi sul tragico, eterno divario tra responsabilità familiari femminili e velleità artistiche). Del resto, l’intero album è incen-

trato proprio sui mai risolti conflitti psicologici della cantante, ai quali ampio spazio è sempre stato dedicato nei lavori della band, sotto forma di candide e quantomeno esplicite confessioni. E nel caso di Dance Fever, l’infinito psicodramma della Welch ci regala, tra le altre, gemme assolute come il pezzo di chiusura Morning Elvis, in cui le conseguenze dell’ennesimo episodio di ubriachezza di Florence, che stavolta la portano a mancare una visita a Graceland, diventano scarna e vibrante riflessione sul disagio psichico in generale, come su qualsiasi forma di perdita del sé: «ho ancora paura, sono ancora pazza e spaventata / ma se riesco ad arrivare fino al palco, vi mostrerò cosa significa essere stati risparmiati». Certo, tutto ciò presenta anche un altro lato, forse meno positivo, della medaglia, poiché l’unico difetto di Dance Fever sta nel fatto che vi sia poco o nulla di nuovo (o anche solo vagamente sperimentale) nella tracklist: la band sembra aver deciso di andare sul sicuro, ricalcando le sonorità del passato – una decisione che potrebbe avere qualcosa a che fare con la claustrofobica angoscia pandemica all’interno della quale il disco è stato concepito. Ma davanti all’orgogliosa, disarmante franchezza e forza

La copertina dell’album.

espressiva della performer, viene naturale perdonare quella che potrebbe apparire come una decisione di comodo; anche perché Dance Fever può comunque definirsi come uno dei picchi finora più alti della personale espressione stilistica di Florence + The Machine – il tutto grazie a brani dalla potenza quasi epica, nei quali è evidente la volontà di ricalcare il percorso di altre iconiche performer femminili quali Stevie Nicks e Bonnie Tyler. E se tracce di spessore quali Heaven is Here, Girls Against God e Dream Girl Evil sono vere e proprie «dichiarazioni d’indipendenza» infuse di puro girl power, la medesima, disperata energia si può trovare in My Love,

Daffodil e Cassandra (nuovamente incentrati su figure femminili di grande forza), nonché in The Bomb, agrodolce ritratto di una relazione terribilmente sbilanciata. Così, nonostante la natura vagamente risaputa, Dance Fever rappresenta comunque un altro centro perfetto per Florence + The Machine: e il fatto che i fan non possano che apprezzare una volta di più l’eterna, bruciante sincerità e onestà artistica qui espresse dalla loro tormentata eroina nonché i suoi immancabili gorgheggi, simbolo di una potenza vocale tutt’altro che sopita – promette bene per il futuro artistico della Welch e della sua formazione. Annuncio pubblicitario

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