Azione 30 del 22 luglio 2024

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edizione 30

MONDO MIGROS

Pagine 2 / 4 – 5

SOCIETÀ Pagina 3

TEMPO LIBERO Pagina 15

La neonata Swiss Super Bike Academy di Lugano cerca talenti da lanciare nel mondo dei motori

Consiglio cantonale dei giovani: ecco i sedici punti della Risoluzione sottoposta al Consiglio di Stato ◆

Reportage dal Ruanda, il piccolo Paese africano che si è sforzato di cancellare odio e divisioni etniche

ATTUALITÀ Pagina 27

Trump, forse ancora più forte

Born digital è il titolo della mostra che valorizza la collezione di arte digitale del Kunsthaus di Zurigo

CULTURA Pagina 33

Pagine 23 e 25

Quello stalking riguarda anche noi

La giornalista italiana Selvaggia Lucarelli può piacere oppure no, irritante come a volte sa essere con i suoi modi – per alcuni pedanti, il reiterare a spron battuto quando prende di mira una persona, e l’esposizione al pubblico ludibrio del bersaglio di turno, ovviamente soprattutto via social (oltre che sulle pagine del «Fatto Quotidiano»). Nelle sue inchieste, da una parte si concentra sulle truffe «a fin di bene», dall’altra si occupa di difesa dei diritti delle donne – ossia dei diritti umani – attraverso un’osservazione attenta della realtà e soprattutto, spesso da una prospettiva insolita e con ammirevole coraggio. A lei si imputano dunque tanto il naufragio del matrimonio della coppia più glamour della Penisola, i Ferragnez, in seguito all’affaire Balocco, quanto il suicidio di una pizzaiola accusata di essersi fatta pubblicità in modo subdolo. L’ultimo capitolo della sua lunga serie di inchieste, però, ha smosso un tema così delicato da tirare in causa parte del mondo della musica, facendo emergere ancora una volta quanto non sia esagerato parla-

re di un grave – e condiviso – problema di genere. Il caso nell’occhio del ciclone riguarda Morgan, istrionico (e volgare) personaggio televisivo, che avrebbe presuntamente stalkerato e progettato di rapire una sua ex, la cantante Angelica Schiatti, in arte Santangelica. La donna avrebbe prontamente denunciato le ripetute molestie, eppure, nonostante l’attivazione del codice rosso, il processo langue da quattro anni (la difesa cerca con insistenza un patteggiamento che lei, e fa bene, non è disposta a concedere). Lucarelli, nessuno sa come, ha avuto accesso alle carte processuali, comprendenti tutta una serie di prove, di cui fanno parte gli screenshot dei messaggi inviati da Morgan alla donna: proprio questi ultimi sono di una violenza verbale tale che, più che mettere in luce un grande artista, ci restituiscono un cattivo perdente, un uomo la cui irriverenza al confine con la maleducazione è sempre stata sdoganata come inarrivabile competenza. Protagonisti e location della vicenda sono interamente italiani, è vero, e sebbene da noi tutto

questo non potrebbe accadere (ma non perché non abbiamo degli stalker, quanto più perché il nostro codice penale nemmeno lo contempla, lo stalking: ora il Consiglio federale sembra disposto a cambiare idea, ma mette in guardia chiunque a non riporvi aspettative eccessive), ci riguarda molto più di quanto possiamo pensare. Le matrici di questi comportamenti, infatti, si assomigliano tutte, e oltre a mettere in luce il crescente senso di possesso di molti uomini nei confronti delle donne, ancora oggi possono fare spesso scattare dei meccanismi per cui non solo l’accusato, ma anche la vittima si ritrova a doversi difendere. Alle donne che denunciano si chiede infatti di riuscire a dimostrare a tutti gli effetti e con tutte le prove possibili, di avere davvero subito una molestia o un abuso, di non avere travisato un gesto in buona fede (ogni donna lo potrebbe confermare: i gesti in buona fede sono un’invenzione degli uomini), di non avere sciolto le briglie della propria immaginazione o, peggio ancora, di brame segrete. E tutto ciò in un clima ostile dove

molto spesso una delle reazioni più forti dell’opinione pubblica è quella di istillare il dubbio sulla veridicità della vittima. Lo sta facendo Morgan, gettando fango ovunque gli capiti, parlando di persecuzione e accanimento, lo hanno fatto, prima di lui, Beppe Grillo e Ignazio La Russa per difendere da pesanti accuse di reati sessuali i figlioletti Ciro o Leonardo Apache; e lo si fa anche da noi, in modo forse meno mediatico, ma non per questo meno doloroso per le vittime. L’estate con la sua presunta leggerezza non rappresenta dunque una scusa plausibile per non chinarsi, di nuovo e con rinnovato vigore, su temi che riguardano non solo le nostre figlie e sorelle, ma di riflesso la società tutta. L’educazione alla vita, infatti, avviene giorno dopo giorno e passo dopo passo: non può essere un processo a singhiozzo o episodico, ma deve diventare strutturato, così come certi codici comportamentali devono diventare prassi. La regolamentazione attraverso il codice penale sarebbe in questo senso già un grande passo in avanti.

Rampini, Zafesova e Marconi

Una nuova Migros vi aspetta a Grancia

Info Migros ◆ Il 25 luglio 2024 riaprirà a Grancia il nuovo e innovativo supermercato Migros. Per l’occasione la Cooperativa regionale Migros Ticino ha organizzato quattro settimane di sconti, omaggi, concorsi, simpatiche iniziative e animazione per i bambini

Inaugurato nel 2006, dopo regolari migliorie negli anni seguenti, questo apprezzato e ben frequentato punto vendita del Luganese aveva bisogno di un radicale aggiornamento per restare al passo con i tempi. Con l’intervento iniziato lo scorso 6 maggio si è deciso di fare un ulteriore importante passo avanti nel rinnovo della rete di vendita di Migros Ticino. L’investimento complessivo per i lavori di questo strategico negozio è stato di tre milioni di franchi. Dopo oltre sei settimane di cantiere riapre dunque questo giovedì in completa nuova veste la filiale Migros di Via Cantonale 28 a Grancia. Le opere hanno tenuto conto degli ambiziosi obiettivi di risparmio d’energia fissati dalla Cooperativa. Le strutture del supermercato, interamente ammodernate e all’avanguardia, sono ora caratterizzate dai più alti e innovativi standard di costruzione e sostenibilità a livello ambientale. Il nuovo impianto del freddo commerciale disporrà per la refrigerazione di frigoriferi a gas naturale CO2 di ultima generazione e totalmente chiusi da porte a vetro, che garantiranno la massima efficienza energetica. Inoltre, anche il nuovo impianto d’illuminazione LED a basso consumo farà la sua parte in questo progetto di innovazione.

Una migliore accessibilità

Il supermercato, in grado di servire comodamente tutta la popolazio-

ne residente nel Comune di Grancia e proveniente dai suoi dintorni, nonché i numerosi visitatori del Parco Commerciale Grancia, oltre ai turisti presenti in zona per lunghi periodi dell’anno, si presenta ora completamente nuovo, con spazi ampi e una superficie di vendita di 900 metri quadrati. L’esercizio è facilmente raggiungibile sia con i principali mezzi pubblici sia in auto, avendo una buona quantità di posteggi interni ed esterni proprio a ridosso della filiale e a disposizione della clientela Migros, gratuitamente. Il punto vendita sarà dotato di casse tradizionali e di una cassa per disabili, e per chi va un po’ di fretta, saranno presenti comode e veloci casse subito per il self

L’ampia offerta di Migros Grancia

Il supermercato sarà caratterizzato da assortimenti ben calibrati e orientati a soddisfare i più attuali bisogni degli avventori. La clientela avrà così la possibilità di farvi sia una spesa quotidiana veloce e completa, sia acquisti settimanali più importanti e consistenti. L’offerta di prodotti alimentari si è focalizzata sul fresco e sull’ultra fresco, con i fiori all’occhiello rappresentati dal ricco reparto frutta e verdura e dal curato e completo reparto

macelleria con banco a servizio e vasche a libero servizio, con carni e salumi preparati e imballati freschi. Ben riforniti saranno anche i reparti dedicati ai prodotti di consumo immediato, sia caldi sia freddi, e gli assortimenti Nostrani del Ticino e Migros bio, affiancati da una buona selezione di altri prodotti a valore aggiunto. Sarà pure presente l’area pasticceria, con un assortimento servito di torte fresche Migros.

Anche il reparto non alimentare sarà curato nel minimo dettaglio e spazierà dai beni di prima necessità ai numerosi articoli per la casa fino ad arrivare all’area della cosmetica. A completare questa nuova offerta, saranno presenti il moderno forno per la cottura del pane e il pratico servizio Smood, con consegna degli acquisti a domicilio o ritiro della spesa già pronta in filiale. Ricordiamo che Migros è presente a Grancia anche con un luminoso e moderno Ristorante Migros e con una delle tre filiali Migros Outlet presenti in Ticino. Un’ulteriore superficie di ca. 500 metri quadrati verrà invece affittata a terzi.

Le iniziative per la riapertura

Per festeggiare degnamente con gli avventori questa speciale occasione, dal 25 luglio al 17 agosto verranno concessi a rotazione degli sconti del 20% su diversi assortimenti alimentari. Sabato 27 luglio vi sarà la possibilità di salire sullo storico ca-

Un primo aiuto e poi la ricostruzione

mion vendita Migros, parcheggiato per l’occasione sull’adiacente piazzale del centro commerciale, mentre dalle 11.30 alle 14.30 il Ristorante Migros proporrà a tutti una grigliata mista al prezzo promozionale di CHF 5.90; per i più piccoli dalle 10.30 alle 17.00 animazione e trucca bimbi. Dal 29 al 31 luglio, per ogni CHF 60 franchi di spesa, si riceverà invece in omaggio un coloratissimo telo mare Migros in microfibra. Spicca poi il concorso proposto dal 5 al 7 agosto, con in palio una bicicletta elettrica Diamant Beryll Esprit del valore di CHF 3700 e due carte regalo Migros di CHF 500 e CHF 200! Il tagliando che si trova presso il supermercato va imbucato debitamente compilato nell’apposita urna entro e non oltre il 7 agosto 2024. Chiudono questo corposo e speciale pacchetto le sempre apprezzate degustazioni degli articoli Nostrani del Ticino, dal 12 al 14 agosto.

Orari e contatti

Il responsabile Stefano Aili e i suoi 16 collaboratori, cordiali e ben preparati, sono pronti a soddisfare i bisogni della clientela con cura e attenzione, in un clima accogliente e familiare.

Orari di apertura

Lu-ve: 9.00-19.00

Gio: 9.00-21.00

Sa: 9.00-18.30

Tel. 091 821 72 70.

Solidarietà ◆ Un milione di franchi per le vittime del maltempo; ecco come Migros utilizzerà i fondi di sostegno

Il maltempo di giugno e luglio ha causato gravi danni. Soprattutto nei Grigioni, in Ticino e in Vallese, la popolazione si trova ad affrontare grandi difficoltà. Per questo motivo Migros ha donato 1 milione di franchi per un aiuto rapido e senza complicazioni sul posto. «Ci siamo attivati immediatamente e abbiamo contattato le due aree di crisi della nostra regione: la Mesolcina e la Valle Maggia», spiega Rosy Croce, responsabile della cellula di crisi della Cooperativa Migros Ticino.

In Valle Maggia in poche ore è stata organizzata una consegna di generi di soccorso per gli insediamenti più isolati. «Oltre a prodotti di uso quotidiano come sapone e pannolini, abbiamo fornito anche coperte e sacchi a pelo», ricorda Croce. Per quanto riguarda il cibo, l’attenzione si è concentrata sugli alimenti di base: tè, caffè, riso, conserve in scatola e frutta secca, ad esempio, sono stati riuniti in un deposito insieme ad altri beni e poi trasportati in elicottero alle persone colpite.

In Mesolcina si erano già prestati i primi soccorsi, in questo caso era però

necessario un altro supporto: «Abbiamo ricevuto segnalazioni di problemi nel settore agricolo», afferma Croce. Da un lato, i campi e i pascoli dovevano essere liberati da massi e fango. Dall’altro, erano interrotte le vie di accesso agli alpeggi e al bestiame che vi pascola. «Ci è stato chiesto un sostegno per il ripristino delle strade», dice Croce.

Anche in Vallese al momento il sostegno di Migros si concentra sul-

la ricostruzione delle infrastrutture danneggiate. Come ad esempio a Saas-Grund, dove il ponte di Triftbach è stato gravemente danneggiato. Di conseguenza, alcune frazioni di montagna non erano più accessibili. «Anche il turismo è stato limitato», spiega l’impiegato comunale Sandro Kalbermatten. «Abbiamo dovuto ingaggiare un’impresa edile per realizzare una soluzione temporanea. Siamo riusciti a pagare i lavori di riparazione con

l’aiuto finanziario della Migros». Nel frattempo, a Saas-Grund le cose sono «più o meno» rientrate, afferma Kalbermatten. Le ferrovie di montagna funzionano. Alcuni sentieri escursionistici vengono ripuliti e riparati con l’aiuto di volontari. «I lavori di pulizia e ripristino sono in pieno svolgimento e ci terranno impegnati per diverse settimane, se non mesi». Insieme alle autorità locali sono stati approvati altri quattro progetti in Vallese: anche a Evolène e in Val d’Anniviers si stanno ricostruendo ponti. «Grazie al sostegno, siamo riusciti a costruire una passerella temporanea dopo il crollo di un ponte pedonale sul fiume Navizence», afferma David Melly, sindaco di d’Anniviers. «A lungo termine, dovremo sistemare il letto del fiume lungo diversi chilometri».

Nella Val de Bagnes il settore agricolo viene sostenuto nella pulizia dei pascoli. A Goms, gli aiuti vengono utilizzati per riparare i sentieri. «Siamo in costante contatto con gli altri comuni per fornire sostegno là dove è necessario», afferma Rainer Deutschmann, responsabile del settore si-

attualita@azione.ch cultura@azione.ch

Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

curezza e trasporti della Federazione delle cooperative Migros.

1 milione di franchi per le regioni colpite dalle tempeste Migros è toccata profondamente per le gravi conseguenze del maltempo in Svizzera e sostiene le regioni colpite dalle devastanti inondazioni con una donazione di un milione di franchi. L’obiettivo è quello di fornire un’assistenza rapida e diretta in accordo con le autorità locali. «Il nostro obiettivo è quello di poter aiutare le regioni colpite dalla catastrofe in modo rapido ed efficace», afferma Mario Irminger, Presidente della Direzione generale della Federazione delle Cooperative Migros (FMC). Della donazione di un milione di franchi, Migros ha devoluto 250’000 franchi alla campagna di raccolta in corso della Catena della Solidarietà. 500’000 franchi saranno destinati principalmente alle regioni ticinesi e vallesane gravemente colpite. Altri 250’000 franchi sono disponibili per garantire un sostegno in caso di ulteriori accadimenti.

checkout: sarà disponibile pure il servizio subitoGo.

SOCIETÀ

Dopo il lavoro, le pulizie

Abbiamo molti elettrodomestici, eppure il tempo che dedichiamo a riordinare e pulire le nostre case non diminuisce

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Associazioni e solidarietà

L’attività di MI-TI-CI Against Abuse e di City Angels Lugano si basa su una forte motivazione di tutti i volontari coinvolti

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La voce delle nuove generazioni

Tumore ai polmoni, avanza la ricerca Tre studi dimostrano come prolungare la vita dei pazienti, limitando le probabilità di recidiva, e come la telemedicina può aiutare in certi casi

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Ticino ◆ Il Consiglio cantonale dei giovani ha discusso ed elaborato la sua Risoluzione, i sedici punti sottoposti al Consiglio di Stato riguardano la salute, lo sport, la giustizia, la scuola, la mobilità, i trasporti e l’ambiente

La scuola, vissuta quotidianamente, ma anche la mobilità, la salute e spunti offerti dall’attualità come la nomina dei membri del Ministero Pubblico. Sono alcuni dei temi che gli iscritti al Consiglio cantonale dei giovani (CCG) hanno discusso e inserito nella Risoluzione votata dall’assemblea lo scorso maggio e poi inviata al Consiglio di Stato. La voce delle nuove generazioni su questioni legate a decisioni politiche si fa sentire ogni anno – questa è la ventiquattresima Risoluzione – con proposte concrete improntate alla qualità, alla sicurezza e all’inclusione. Sui sedici punti della Risoluzione, dopo la risposta dell’autorità cantonale, il CCG si confronterà direttamente con i rappresentanti del Consiglio di Stato in un incontro previsto a settembre.

Il Consiglio cantonale dei giovani raggruppa circa 120 iscritti di età compresa fra i 15 e i 19 anni, l’obiettivo è avvicinare i suoi membri ai meccanismi democratici e all’attività politica

Il CCG è il parlamento giovanile ticinese istituito dalla Legge giovani (1996) che sostiene e coordina progetti finalizzati alla partecipazione dei giovani alla vita sociale, culturale e politica del cantone. Avvicinare i suoi membri ai meccanismi democratici e all’attività politica attraverso lo scambio di idee fra pari e nel confronto con il potere esecutivo cantonale è l’obiettivo del CCG che raggruppa circa 120 iscritti (si può aderire sul sito www.ccg-ti.ch) di età compresa fra i 15 e i 19 anni. Composto dall’assemblea plenaria, dal comitato organizzativo e dal segretariato, il CCG svolge la sua attività principale in tre momenti dell’anno come spiega il presidente del comitato Adriano Conte, studente non ancora diciottenne che ha appena ottenuto la maturità al Liceo Leonardo Da Vinci di Lugano. «In origine erano previste tre giornate: la prima dedicata alle proposte, la seconda per elaborare la Risoluzione e la terza caratterizzata dall’incontro con il Consiglio di Stato. Durante il periodo del COVID-19 la prima giornata è stata sostituita da una modalità online che estende a un mese e mezzo la possibilità di presentare proposte scritte. Considerati la buona partecipazione e il vantaggio di disporre di più tempo per il dibattito sulle idee, il comitato ha deciso di mantenere la nuova modalità». Numerosi e di rilievo gli argomenti che hanno indotto i giovani a esprimersi, proponendo soluzioni per le criticità individuate nella loro vita quotidiana

e nella realtà cantonale. Nella Risoluzione 2024 figurano quindi questioni riguardanti la salute, lo sport, la giustizia, la scuola, la mobilità e i trasporti, come pure l’ambiente. Adriano Conte, presidente del comitato da un anno ma nel CCG già da quattro, evidenzia l’esistenza di fluttuazioni nelle priorità anche a dipendenza degli spunti offerti dall’attualità. Ad esempio, a seguito delle recenti vicissitudini legate alla nomina dei magistrati del Ministero pubblico, l’assemblea plenaria, che ha riunito un’ottantina di giovani, ha proposto di «modificare l’attuale sistema rendendo elettiva la carica di Procuratore Generale e lasciando a quest’ultimo il compito di formare il Pubblico Ministero». Precisa al riguardo il presidente: «Questa soluzione permette di affidare maggiore responsabilità agli elettori riducendo nel contempo il controllo politico dei partiti. Come già avviene in altri Stati, si rafforza il legame del potere giudiziario con la popolazione staccandolo dal Parlamento che rappresenta il potere legislativo».

Altre richieste di carattere generale riguardano l’introduzione del divieto di fumo negli spazi pubblici a tutela in particolare dei minori, «controlli più severi concernenti le competenze e le conoscenze necessarie per il mantenimento di un permesso di guida oltre i 65 anni», l’utilizzo di «dashcam» agli esami pratici di guida in modo da registrare l’esame per tutelarne la correttezza. Ai giovani premono quindi aspetti legati al benessere, alla sicurezza e alla trasparenza.

Fra le priorità figura ovviamente la scuola con l’accento posto sulla qualità dell’insegnamento. In questo caso l’esperienza personale degli studenti gioca un ruolo rilevante che li induce a chiedere «un maggior controllo della qualità formativa dei docenti con nomina». Viene pertanto proposto un sistema di valutazione dei professori e della loro capacità didattica che tenga in considerazione più punti di vista: i risultati degli studenti, l’osservazione delle lezioni da parte di colleghi o supervisori, la raccolta di feedback diversificati e la valutazione dell’impegno dei docenti nel migliorare le proprie competenze professionali. Aggiunge il nostro interlocutore: «In un punto separato della Risoluzione chiediamo pure di rendere le visite di verifica degli esperti di materia senza preavviso, così da poter valutare l’insegnamento proposto in condizioni “reali” corrispondenti all’attività ordinaria dell’insegnante. L’obiettivo è di spronare alcuni docenti che riproducono da anni il medesimo schema di insegnamento ad aggiornarsi. Ruolo, attività e responsabilità degli esperti di materia sono indicati nel Regolamento delle scuole superiori del quale chiediamo una più

rigida e coerente implementazione». Per stimolare l’interesse degli studenti, offrendo un approccio diverso della materia, si auspica l’introduzione di tornei scolastici alle scuole medie che vertano sulle materie di studio. I giovani ticinesi, uniti nel difendere i loro interessi collettivi, guardano anche a quanto avviene nel resto del Paese. Adriano Conte lo scorso aprile è stato eletto a Berna nel comitato direttivo della Federazione Svizzera dei Parlamenti dei Giovani. Di questa esperienza riferisce con entusiasmo, perché amplia le vedute e la rete di conoscenze. «Prima di far parte del comitato direttivo sono stato diversi anni delegato del CCG nella Federazione, trovando molto stimolante la possibilità di incontrare giovani provenienti da tutta la Svizzera. Ogni anno vengono organizzati due eventi maggiori ai quali partecipano quasi 200 ragazze e ragazzi che condividono l’interesse per la politica e il funzionamento delle isti-

tuzioni. Provengono però da culture e regioni diverse dove i parlamenti giovanili sono in parte strutturati in maniera differente. Vi è quindi la possibilità di trovare nuove ispirazioni per le attività che il CCG svolge in Ticino».

«Nella Svizzera francese – prosegue Adriano Conte – i dibattiti tra politici nelle scuole sono una tradizione. Riteniamo che rappresentino un valido momento di informazione e formazione e per questo motivo li abbiamo inseriti nella Risoluzione. Rispettando la rappresentatività partitica, i dibattiti favorirebbero l’implicazione dei giovani sui temi oggetto degli incontri e una comprensione altrettanto diretta del funzionamento della politica partitica, in sintonia con gli obiettivi del CCG». Dalle richieste inoltrate al Consiglio di Stato emerge che i giovani puntano a sfruttare i vantaggi delle risorse tecnologiche, mantenendo però soluzioni tradizionali laddove è in gioco l’inclusione. Viene infatti propo-

sta la creazione di «un’applicazione in cui siano inserite tutte le informazioni utili e necessarie ai cittadini e ai turisti». A livello di mobilità e trasporti, invece, da mantenere le carte giornaliere cartacee (abolizione prevista dal 2026) per «permettere a tutti gli utilizzatori dei mezzi pubblici di disporne equamente».

Le preoccupazioni dei giovani sono concrete, le loro riflessioni ad ampio raggio e le proposte motivate. Il comitato del CCG coordina le discussioni e la preparazione della Risoluzione, valutando l’idoneità delle richieste dal punto di vista giuridico e dei contenuti. Ne può così scaturire un interessante confronto con l’autorità cantonale chiamata a prendere in considerazione le esigenze delle nuove generazioni dalle quali possono scaturire soluzioni innovative.

Informazioni www.ccg-ti.ch

Stefania Hubmann
Il consigliere di Stato Christian Vitta porge il saluto istituzionale all’assemblea della CCG riunita lo scorso maggio nella sala del Gran Consiglio. (ccg-ti.ch)

Il re della produzione orticola ticinese

A Tahiti sull’alta cresta dell’onda

Reportage ◆ Il surfboard è cambiato, ma l’immensità del Pacifico è rimasta il principale teatro di quest’attività che ha avuto origine proprio

Origine e caratteristiche

Attualità ◆ Il pomodoro è l’indiscusso ortaggio più coltivato nel nostro Cantone. Al momento nei supermercati di Migros Ticino è disponibile un’ampia scelta di rosse prelibatezze

Tahiti viaggia sulla cresta dell’onda, quella cavalcata dagli atleti che – dal 27 al 30 luglio – gareggeranno al largo delle sue coste per aggiudicarsi l’oro olimpico in equilibrio su una leggera tavola. La capitale della Polinesia Francese ospiterà infatti le gare di surf dei Giochi Olimpici di Parigi 2024. Attività polinesiana per eccellenza: per i Maori il surf era un mezzo per domare i cavalloni dell’oceano Pacifico. «È straordinario, incredibile, gli abitanti di queste isole affrontano gigantesche onde a cavallo di tavole di solido legno rossastro lunghe da due a cinque metri» annotava nel diario di bordo James Cook, tra i primi europei a raggiungere la Polinesia, il primo a scoprire l’ardire del surf.

Il pomodoro è oggi una delle verdure più coltivate e consumate al mondo. Si ritiene che esso sia originario delle Ande, dove cresceva spontaneamente e veniva consumato dalle popolazioni locali. Introdotto in Europa nelle regioni mediterranee alla fine del XV secolo grazie al navigatore Cristoforo Colombo, per molto tempo il pomodoro fu considerato una pianta velenosa e veniva coltivato solo a scopo decorativo. Cominciò a essere utilizzato ampiamente in cucina a partire dal XVII secolo e presto divenne un ingrediente fondamentale in molte ricette delle cucine del Sud Europa. A partire dalla Prima guerra mondiale la coltura commerciale del pomodoro si generalizza in tutta Europa, Svizzera compresa. Il pomodoro è una pianta annuale, erbacea, esigente in calore e sensibile al freddo. Sebbene la maggior parte delle varietà abbiano una buccia di color rosso, esistono anche dei frutti rosa o gialli. Il suo elevato contenuto di vitamine e sali minerali e le poche calorie fanno del pomodoro un elemento importante della nostra alimentazione. Grazie alla sua versatilità il pomodoro è protagonista in molte ricette, sia fredde sia calde, per esempio in insalata da solo o accompagnato da altri ingredienti freschi come la mozzarella per creare la classica caprese; è imprescindibile nella preparazione di sughi e salse per paste e pizza; ma non disdegna nemmeno di essere grigliato, arrostito, essiccato o trasformato in corroboranti zuppe. In Svizzera il consumo pro capite annuo di pomodori è di ca. 7 kg, tanto da farne il secondo ortaggio più amato, dopo le carote.

Il pomodoro ticinese

Il mito delle isole dell’amore portò in Polinesia scrittori come Stevenson, Herman Melville, Mark Twain...

Insieme si sono aggiudicati il 90 per cento dei campionati mondiali.

Cavalcando l’onda

Gli atleti olimpici sono da giorni a Teahupo’o, la spiaggia di Tahiti Iti –la poco popolata penisola di Taiarapu (il cerchio piccolo dell’otto disegnato dalla maggiore delle Isole della Società) – dove si svolgeranno le gare. A Teahupo’o, già sede dei mondiali

Questo pomodoro viene venduto a grappoli con il proprio rametto incluso, da qui il nome. Rispetto ai pomodori convenzionali, presenta un sapore più marcato e aromatico. Si conserva bene per diversi giorni, grazie alla sua consistenza soda e carnosa.

fondersi con l’oceano e vincere la sfida sulla cresta dell’onda.

Le settimane dei Nostrani del Ticino fino al 5 agosto

Attualmente l’ampio assortimento di pomodori coltivati sul nostro territorio presente sugli scaffali di Migros Ticino comprende una decina di varietà, sia di produzione convenzionale sia di qualità biologica, che si distinguono per dimensione e forma. La scelta spazia dai pomodori a frutto piccolo (p.es cherry, datterino), a quelli a frutto medio (carnoso, ramato, intense), grande (cuore di bue) e allungato (peretto).

Paradiso degli esploratori

Sono una quindicina i produttori di pomodori soci della Tior, la società commerciale della FOFT (Federazione Ortofrutticola Ticinese), i quali coltivano i loro ortaggi secondo le direttive di IP-Suisse o di Bio Suisse. Le aziende sono situate sul Piano di Magadino e nel Mendrisiotto. I metodi di produzione sono diversificati a seconda delle strutture di ogni azienda agricola e sono effettuati principalmente al coperto, in serra o nei tunnel. I trapianti vengono effettuati nelle prime settimane dell’anno nelle strutture hi-tech e in tunnel da marzo. La raccolta inizia ad aprile e si protrae fino alla metà di novembre. Le tipologie coltivate sono oltre dieci e i quantitativi prodotti annuali si aggirano sulle 4000 tonnellate.

Sono trascorsi oltre due secoli e il surfboard è molto cambiato, grazie alla tecnologia e ai campioni australiani degli anni Settanta e Ottanta. Il legno è stato sostituito dalla fibra di vetro e l’introduzione della pinna posteriore (anche doppia e tripla) ha reso più facile direzionare, accelerare e stabilizzare la tavola, la cui lunghezza è stata adattata all’altezza dell’atleta. Il surfboard è cambiato, ma l’immensità del Pacifico è rimasta il principale teatro di quest’attività. Dagli arcipelaghi polinesiani si è estesa alle due sponde della maggiore entità geografica del Pianeta: occupa più di un terzo della superficie terrestre. California e costa orientale dell’Australia – distanti 12mila chilometri – sono diventate le principali patrie di questo sport, celebrato negli Stati Uniti da un film come Un mercoledì da leoni e in Australia da un’infinità di trofei.

Particolarmente amati dai bambini per il loro sapore dolce e la consistenza succosa, i cherry si consumano principalmente crudi e sono un piacere anche per gli occhi. Sono tra i più piccoli della famiglia dei pomodori e sono noti anche come pomodori ciliegia.

il surf non lo si apprende in un giorno ma con un lungo lavoro di osservazione. I grandi campioni studiano le maree regolate dai cicli lunari, indagano potenza e direzione dei venti, si aggiornano sulle previsioni metereologiche. Passaggi fondamentali per catturare i cavalloni più lunghi, per

Tahiti è l’incarnazione del mito dei Mari del Sud, diffuso dai marinai delle prime esplorazioni di Samuel Wallis, Louis Antoine de Bougainville e James Cook: lo narrarono come un paradiso di isole con un’esuberante natura, popolate da ragazze sensuali che vivevano nude e pratica vano il libero amore. Donne formo se con lunghi capelli corvini, occhi orientali su zigomi alti e labbra car nose. Bellezze che ruotavano il baci no danzando il Eros ed esotismo confermato dall’ammutinamento del Bounty, il veliero arrivato a fine Settecento a Pa peete per introdurre il frutto del pane nei Caraibi, così da sfamare gli schiavi delle piantagioni: scoperti i piaceri di Tahiti, l’equipaggio non ne volle sapere di continuare il viaggio. Il mito delle isole dell’amore portò in Polinesia scrittori come Robert Louis Stevenson, Pierre Loti, Herman Melville, Mark Twain, Somerset Maugham che tra Honolulu, Sa-

In questa pagina trovate la classifica dei sei pomodori più apprezzati dalla clientela di Migros Ticino.

moa e Tahiti ambientarono romanzi e racconti, alimentando la leggenda. Nell’immaginario collettivo, la Polinesia divenne l’espressione più persuasiva dell’oceano primigenio. Là dove tutti sognavano di vivere «tra i fortunati che hanno visto l’aurora sulle isole più belle del mondo».

Paul Gauguin

Il pomodoro cuore di bue si caratterizza per le sue grosse dimensioni, la consistenza carnosa, la forma costoluta e l’aroma delicato. Ideale per il consumo crudo, si abbina bene ai formaggi freschi e alle pietanze alla griglia.

Questi pomodorini dalla forma che ricorda un dattero racchiudono tutto il sapore dell’estate e sono una delizia consumati come snack o aggiunti alle colorate insalate di stagione. Il loro gusto dolciastro e leggermente acidulo conquista ogni palato.

Più ancora che la letteratura a esal tare il mito furono le tele di Paul Gauguin, il primo artista europeo a viaggiare in Polinesia alla visionaria ricerca dei colori primi della pittura e della creazione, per «immergersi nel la natura vergine e condividere la vita dei selvaggi» come scrisse in Noa Noa Qui, tra orge, droghe e assenzio, Gauguin dipinse quadri audaci che svelarono colori, potenza, sensualità e mistero dei Mari del Sud. Ma Gauguin fu anche il primo a denunciare, a fine Ottocento, il paradosso di Tahiti. «La vita di Papeete divenne ben presto noiosa. Era l’Europa – l’Europa della quale avevo creduto di liberarmi – con l’aggravante dello snobismo coloniale, un’imitazione puerile e grottesca fino alla caricatura» scris

se. Nella sua recherche sauvage l’artista lasciò Tahiti per le Marchesi, le isole più torride ed estreme della Polinesia Francese, a cavallo dell’Equatore. Nel 1964 Tahiti gli dedicò il Musée Paul Gauguin, poco fuori dalla Papeete da lui detestata, vicino al lussureggiante Botanical Garden: ospita alcune opere minori dell’artista-

bilia; ma – testimone dell’indolenza polinesiana – dal 2014 è chiuso perti all’infinito. Il vero museo Gauguin polinesiano è a Hiva Oa, l’isola delle Marchesi dove è sepolto e dove è stata ricostruita la Maison de Jouir, teatro della sua scabrosa vita di eccessi.

Tondo e dal sapore particolarmente equilibrato, poco acido, questo pomodoro possiede una polpa soda e carnosa. Ideale per molte preparazioni culinarie, si presta bene sia consumato crudo che cotto.

Le parole di Gauguin tornano in mente a Papeete, sudaticcia e caotica capitale politica ed economica della Polinesia Francese. Centro logistico collegato da bretelle autostradali. Passaggio obbligato dei turisti diretti a Moorea, Bora Bora, Huahine e

26.7 e 27.7.2024

Migros S. Antonino + Migros Lugano

2.8 e 3.8.2024

Migros Locarno + Migros Agno

I peretti sono considerati i pomodori ideali per la preparazione di salse, passate e conserve. Si distinguono per la loro forma allungata, il colore rosso brillante, la polpa carnosa e densa e il gusto leggermente dolciastro.

Papeete
nelle altre isole del sogno vacanziero.
Marco Moretti, testo e foto
Bora Bora; sotto, Tahiti, Diadema, a sinistra, e un surfer in allenamento. Di fianco, in senso orario: donna polinesiana; un danzatore e un suonatore di chitarra di Tahiti; due partecipanti al festival del tatuaggio di Tahiti.

Freschi sapori dall’Alto Malcantone

Attualità ◆ L’azienda agricola di Marco e Isa Scoglio di Mugena produce squisite specialità casearie, tra cui i formaggini freschi di latte vaccino disponibili nei supermercati Migros

Azione 15%

Formaggini freschi ticinesi per 100 g Fr. 2.20 invece di 2.60 dal 23.7 al 29.7.2024

I formaggini sono una prelibatezza senza pari che non può mancare durante la stagione estiva, quando la voglia di piatti freschi e genuini ci stimola a immergerci nell’affascinante patrimonio culinario del nostro territorio. Tra i diversi formaggi freschi di produzione regionale ottenibili alla Migros, potete per esempio trovare i formaggini del Monte Lema, una specialità prodotta artigianalmente nell’Alto Malcantone dall’azienda agricola di Marco e Isa Scoglio. «La nostra azienda è attiva

da oltre due decenni e oggi alleviamo una settantina di bovini da latte di razza Brown Swiss, come pure altrettante capre», spiega Marco Scoglio. «Gli animali possono pascolare liberamente nei prati ai piedi della vetta del Monte Lema, nutrendosi di buona erba fresca e altre piante. Queste peculiarità fanno sì che i nostri bovini producano un latte ricco di sapori di montagna». Subito dopo la mungitura, il pregiato latte viene trasferito nel caseificio aziendale, dove l’esperto casaro lo trasforma in

formaggini seguendo un’antica e tradizionale ricetta della regione. «I nostri formaggini si distinguono per la loro consistenza soffice e il sapore fresco e delicato, dove risalta tutto l’aroma e il profumo del latte appena munto. Sono ottimi al naturale o con l’aggiunta di un filo d’olio e una spolverata di pepe. Accompagnati da una croccante insalata e pomodori nostrani si trasformano in un piatto fresco e nutriente ideale per assaporare tutto il gusto dell’estate», conclude Marco.

Marco Scoglio con la moglie Isa
Flavia Leuenberger

Le settimane dei Nostrani ti conaspettano azioni e degustazioni dal 23 luglio al 5 agosto.

Dove i laghi baciano le montagne e il verde è più intenso nascono sapori genuini e autentici.

Siamo schiavi degli elettrodomestici?

Tempi moderni ◆ In un nuovo libro due ricercatori inglesi raccontano quanto tempo perdiamo a riordinare le nostre case, quando invece potremmo pensare a nuove forme di condivisione collettiva

Le nostre case sono piene di elettrodomestici – lavatrice, lavastoviglie, aspirapolvere, macchina per il caffè, frullatore – pronti ad aiutarci in qualsiasi momento. Eppure, come spiegava già quarant’anni fa la storica americana Ruth Schwartz Cowan, nonostante tutta questa tecnologia al nostro servizio, il tempo che dedichiamo alle faccende domestiche non è diminuito rispetto al passato (quando le nostre bisnonne lavavano i panni nelle tinozze o al fiume).

Helen Hester, docente di Genere, tecnologia e politiche culturali alla University of West London e Nick Srnicek, politologo e docente di Economia digitale al King’s College di Londra, hanno deciso di dedicare un saggio partendo da quello che si può definire «il paradosso di Cowan»: avere automatizzato molti lavori domestici, restando comunque invischiati nelle pile di panni da lavare, piegare e stirare e nelle cucine da rassettare.

Con il libro Dopo il lavoro. Una storia della casa e della lotta per il tempo libero (Tlon) ci avvertono che è arrivato il momento di invertire la rotta. Più facile a dirsi che a farsi, viene da pensare, mentre ascoltiamo il rumore dell’ultima lavatrice che abbiamo caricato. Eppure possiamo fidarci delle loro intuizioni perché Hester e Srnicek sanno bene di cosa scrivono: entrambi genitori di tre figli piccoli, hanno lavori a tempo pieno e sono una coppia anche nella vita. Le cause del tempo eccessivo che dedichiamo alla pulizia e alla cura dei figli sono dovute a diverse ragioni, spiega Helen Hester ad «Azione»: la prima tra tutte è l’aspettativa sociale. La concezione di cosa sia pulito o sporco è costruita socialmente e i miglioramenti ottenuti con gli elettrodomestici hanno portato a un’escalation dei nostri standard: se l’aspirapolvere è più potente, ci aspettiamo tappeti più immacolati. «Prendiamo il bucato, per esempio – dice He-

Viale dei ciliegi

Cristina Bellemo-Danilo Fresta Come un fantasma

Edizioni Pelledoca, collana Piccole Piume (Da 7 anni)

Gita di classe al parco dei divertimenti. Bambini urlanti, spintonanti, gioiosi. Non tutti, però. Ci sono anche bambini, come Milo, e come quei piccoli lettori, o lettrici, che con intimo ed empatico conforto leggeranno questo libro, a cui i luoghi chiassosi e affollati non piacciono, e men che meno le attrazioni horror («che assurdità: andarsela a cercare, la paura. Quella ti veniva già abbastanza da sola…»). Ma «il giorno della gita, come tutte le cose brutte, arrivò in un lampo», Milo non riesce a evitarlo («è molto importante che tu stia coi tuoi compagni») ed eccolo lì, in pullman, con accanto come compagno il solito sedile vuoto, tra i gridolini, le risate, i battimani degli altri. Naturalmente appena arrivati i bambini si riversano alla casa dei fantasmi, con Milo che, rassegnato, per non restare indietro, li deve seguire. Ma mentre cerca di percorrerla il più in fretta possibile per togliersi il pensiero, inciampa, perde tempo, e quando sarà fuori non vedrà più la sua clas-

ster. – Con l’introduzione della lavatrice domestica, si è cominciato a faticare meno ad avere vestiti puliti, ma le persone hanno iniziato a fare più lavaggi. Negli anni Sessanta, la maggior parte delle famiglie lavava i panni un paio di volte a settimana». Adesso, c’è chi fa anche due lavatrici al giorno, soprattutto se ha dei figli. C’è l’idea che se possiamo fare di più, allora dovremmo spingerci oltre. I dispositivi domestici sono diventati dei «sorveglianti» silenziosi – come delle spade di Damocle sulle nostre teste –che rappresentano tutto il lavoro che potremmo e dovremmo svolgere. Ma sarebbe ingiusto dare la colpa soltanto alla tecnologia. Siamo influenzati anche dall’industria pubblicitaria che modella i nostri bisogni e ne inventa sempre di nuovi. Pensiamo, ad esempio, ai robot lavapavimenti – chi non ne ha desiderato uno,

almeno una volta nella vita? E quando smettiamo di pensare all’ordine delle nostre case tirate a lustro, attacchiamo con l’ossessione per la cura dei bambini e dei teenager: «La crescente ansia per il futuro del mercato del lavoro ha incoraggiato una genitorialità più intensiva: dedichiamo molto tempo alle attività educative e a trasportare i figli alle diverse attività extracurriculari». Certo, restano delle differenze tra i diversi Paesi. «Se gli inglesi, ad esempio, trascorrono meno tempo a cucinare, rivolgendosi sempre più al take-away e alle cene surgelate, lo stesso non vale per i francesi, che continuano a difendere la loro reputazione nazionale su questo fronte».

Forse ci troveremmo in una situazione diversa se la Storia avesse preso una piega diversa. Saremmo più liberi, magari, se avessero preso il soprav-

vento le pratiche dei riformatori sociali del Diciannovesimo secolo che sostenevano la socializzazione del lavoro domestico, con lavanderie e cucine di alta qualità operanti su scala di quartiere. Nel libro Dopo il lavoro c’è una sezione sulle cucine comuni e le strutture per l’infanzia della Russia rivoluzionaria, che negli anni Venti fecero parte di un tentativo sostenuto dallo Stato di liberare le donne dal lavoro domestico e di sostituire la famiglia tradizionale. L’esperimento fallì dopo alcuni anni, minato dalla mancanza di risorse, da una svolta verso il conservatorismo sociale sotto Stalin e dalla difficoltà di cambiare abitudini radicate. Ma la logica della condivisione di elettrodomestici costosi e dei lavori domestici laboriosi attraverso una vita comunitaria ha attirato anche società meno radicali, come gli Stati Uniti, la Finlandia e l’Austria.

A Vienna, ad esempio, un governo cittadino pionieristico di centrosinistra ha costruito complessi residenziali pubblici innovativi e tuttora ammirati, con strutture che vanno dai laboratori alle lavanderie, ritenendo che gli inquilini dovessero godere di «sufficienza privata» e di «lusso pubblico». Secondo Hester e suo marito, questi esperimenti «offrono ancora risorse allettanti» per ripensare la vita domestica dei giorni nostri. A Londra, dove vivono, esistono esperimenti interessanti che potrebbero funzionare da modello su larga scala. Si potrebbero, ad esempio, istituire servizi di noleggio locale di vestiti per bambini e condividere la spesa di «tecnici» tra gruppi di famiglie per affrontare i problemi informatici quotidiani.

Tuttavia, anche cambiamenti modesti richiedono un cambio di mentalità non da poco. Bisognerebbe passare dalla visione individualistica, nella quale siamo immersi fino al collo, a un approccio comunitario. Dovremmo immaginare di trascorrere più tempo fuori casa, insieme agli altri, in compagnia, in luoghi gratuiti e di qualità: centri ricreativi, piscine, biblioteche, spazi artistici, parchi pubblici e campi da gioco. Questa trasformazione dovrebbe poi combaciare con un’altra grande svolta della quale si parla molto, ma per la quale si fa ancora poco: ridurre il tempo di lavoro per guadagnare lo stipendio. «Sacrifichiamo il tempo libero, dimenticando che il tempo è la sostanza stessa della nostra vita. Dovremmo avere settimane lavorative più brevi, riconsiderando al contempo tutto il lavoro che svolgiamo a casa». Secondo Hester, «gli sforzi individuali possono portarci solo fino a un certo punto, perché inevitabilmente ci scontriamo con forze sociali implacabili. Speriamo che il nostro libro possa spingere a riflettere e a riorganizzarsi. Nel frattempo – conclude – non fa male anche smettere di stirare».

se, che nel frattempo è stata divisa in due gruppi dalle due maestre, ciascuna convinta che Milo sia nell’altro. E qui inizia l’avventura di Milo che deve arrangiarsi da solo, che cerca invano i compagni, che si imbatte in molte altre cose, anche nelle «zone d’ombra» del parco divertimenti, raccontate con acutezza, come quando, proprio sotto un cartellone pubblicitario con due pupazzi che sbandierano grande allegria dandosi il cinque, Milo vede passare quegli stessi due pupazzi che si trascinano stancamente sul vialetto, e sente i discorsi, non proprio entusiasti, delle due persone che stanno sotto quei costumi pelosi. Ma, oltre a que-

sta avventura esteriore, c’è tutta l’avventura interiore di Milo, anch’essa raccontata con sensibilità, prendendo le mosse proprio dalla metafora del «fantasma». Perché è come un fantasma che si sente Milo. Come tutti i bambini più introversi, sognatori, timidi, Milo spesso si sente non visto. E se ciò a volte può anche tornargli comodo, perché in questa invisibilità si può adagiare sentendosi al sicuro, ecco che qui, in mezzo alla folla del Luna Park che non lo nota, dove all’altoparlante ogni tanto cercano bambini che si sono persi, ma non lui, dove nessuno lo cerca perché nessuno si è accorto che è sparito, Milo sente tutta la tristezza della solitudine. Ma la supererà, grazie alla gioia (vera, profonda, non artificiale) di trovare qualcosa che consuona con i suoi interessi e le sue passioni, facendolo sentire al sicuro, e stavolta non grazie all’invisibilità del fantasma, bensì grazie all’energia vitale dell’esploratore. Questa ritrovata energia lo porterà anche alla gioia di ritrovare i suoi compagni, reinserendosi nel gruppo con loro. Una storia breve e incisiva, che dà lustro alla collana con cui l’editore Pelledoca si rivolge ai lettori più piccoli, una storia

in cui l’autrice, Cristina Bellemo, ha cura di ogni scena, vivida anche nei dettagli (come i due euro per il gelato dati a Milo dal nonno, «convinto che i gelati ancora costassero così poco») e di ogni parola, molto vicina alla sensibilità infantile, che più degli adulti si interroga sul linguaggio (ad esempio quando Milo si interroga sulla parola «chiosco», si dice così, o chiostro, casco, cresco?). Espressive anche le illustrazioni di Danilo Fresta.

Ryan T. Higgins

Non sono stato io! (Invece sì)

Gribaudo (Da 4 anni)

Quello del terzo incomodo, nelle relazioni di amicizia dei bambini, è un tema di grande importanza, da non sottovalutare, perché non privo, a volte, di grande sofferenza. A sdrammatizzare la questione arriva tutto lo humour dell’autore-illustratore americano Ryan Higgins, con questa storia del porcospino Norman che ha un’amica del cuore, Mildred. Mildred è un albero. E già qui, nel contesto teneramente surreale con cui prende il via questa adorabile storia, si capisce che ne verremo conquistati. Le illu-

strazioni faranno la loro parte, anche perché permetteranno all’autore una narrazione sia in terza persona, con immagini tradizionali accompagnate da testo, sia in prima persona, con i fumetti, che esprimono parole e pensieri di Norman. Del resto Mildred non parla, è un albero «vero», non un albero umanizzato. Il terzo incomodo sarà un altro alberello, prima piccolo, poi più grandicello, con foglie che addirittura sfiorano quelle di Mildred. Questo contatto sarà insopportabile per il povero porcospino, che si ridurrà a fare qualcosa di insensato… ma per fortuna rimediabile, nella scanzonata ironia delle pagine finali.

di Letizia Bolzani
Molta la tecnologia al nostro servizio eppure il tempo che dedichiamo alle faccende domestiche non diminuisce. (pexels.com)

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Due associazioni, tanta solidarietà

Territorio ◆ L’attività dei volontari di MI-TI-CI Against Abuse al fianco di donne e bambini vittime di abusi e quella decennale dei City Angels che affrontano con il dialogo situazioni di microcriminalità e disagio

Laddove le forze dell’ordine non possono arrivare ci sono loro. Associazioni così, attive 365 giorni all’anno, gratuitamente, con uno spiccato senso civico e a stretto contatto con gli agenti. Operano con nomi in codice. «Siamo degli occhi in più per la polizia» –dice Scorpio, nickname del presidente dei City Angels Svizzera e coordinatore della sezione di Lugano, che con quella di Chiasso conta una ventina di volontari formati, impegnati nel presidiare il territorio con regolarità, di sera e la notte, e spegnere sul nascere, attraverso il dialogo e la presenza corporativa, situazioni di microcriminalità o di disagio giovanile.

E a colmare implicitamente una grande porzione di lavoro della polizia, da cinque anni esiste MI-TI-CI Against Abuse, al fianco delle donne e dei minori che hanno subìto o stanno soffrendo qualsiasi forma di abuso: violenza domestica, fisica, psicologica o sessuale, atti di stalking o di bullismo. Presidente dell’associazione, formata da 18 persone, perlopiù appassionati motociclisti, è Manga (nome di copertura a salvaguardia della propria incolumità). Come è sorto il sodalizio? «L’idea è nata da mia moglie, pure lei attiva nell’associazione (risponde al nome di Pisola). Eravamo stufi di vedere notizie nei media di quanto accadeva in Ticino. Come bikers abbiamo voluto creare attorno al gruppo con cui ci ritrovavamo per i giri domenicali in moto un progetto per poterci mettere al fianco di donne e bambini vittime di abusi. Volevamo cercare di capire cosa potevamo fare per loro in queste situazioni di bisogno. Abbiamo dunque deciso di metterci a disposizione per assicurare loro l’accompagnamento dall’avvocato, ai diritti di visita, in tribunale, fasi molto delicate». Ma la protezione delle vittime non sarebbe una mansione che dovrebbe essere garantita dai poliziotti? «Assolutamente sì. Quel che abbiamo constatato con piacere è che dopo circa un anno e mezzo di attività siamo stati convocati dalla polizia cantonale, sezione violenza domestica, che, visto il nostro operato ben svolto, ha chiesto alla nostra associazione di diventare un loro partner ufficiale. Questo perché attualmente le forze dell’ordine non sono più nella possibilità di compiere questo tipo di servizi, servirebbero infatti il triplo degli agenti. Il numero delle segnalazioni è elevato: parliamo di tre casi al giorno in Ticino, di tre mamme, tre donne che chiamano in polizia perché stanno subendo una violenza domestica. Quando noi interveniamo a protezione di una mamma e di un minore siamo sempre in cinque».

Siete dunque esposti anche a rischi? «Esatto. Ma interveniamo in sicurezza: un volontario della polizia con esperienza trentennale ci ha impartito una formazione di difesa personale e nozioni sulla protezione delle vittime. Siamo stati confrontati più volte con aggressioni verbali e insulti da parte dei presunti autori di reato, ci vedono come persone ostruttive. Un paio di volte ci è capitato di dover chiamare le forze dell’ordine in nostro supporto perché le situazioni rischiavano di degenerare. Ma fortunatamente in cinque anni di attività non abbiamo mai subìto attacchi fisici. Noi cerchiamo sempre in primo luogo il dialogo e di portare la bandiera della pace, spieghiamo alla controparte chi siamo e qual è il nostro

ruolo. In ogni caso, prima di ogni nostro intervento andiamo a conoscere la vittima e, aspetto imprescindibile, le facciamo firmare una liberatoria con la quale ci autorizza a leggere gli atti giudiziari, perché per intervenire dobbiamo accertarci che ci sia stata una denuncia penale».

Da chi giungono le segnalazioni alla vostra associazione? «Avvocati, polizia cantonale, la rete degli servizi sociali, i Comuni, le scuole. Ci contattano richiedendo il nostro intervento».

Quanto vi impegna quest’attività? «A volte mi dico che sta diventando quasi come un lavoro. Ognuno di noi ha una propria occupazione, alcuni di noi sono liberi professionisti che dunque possono conciliare lavoro e attività di MI-TI-CI e altri scalano volentieri ore a vantaggio dell’operatività dell’associazione. Ad oggi siamo in 18 ma cerchiamo altri volontari, una sede sociale e qualche filantropo che ci sostenga per coprire le spese vive». Luoghi comuni dipingono i bikers come persone rudi. Si può affermare che avete un cuore di pietra? «In certe situazioni dobbiamo avere un cuore grande per assolvere alla nostra missione, non direi di pietra, dobbiamo agire con determinazione e in sicurezza. Sotto tanta pelle batte un cuore umano. In cinque anni di attività siamo riusciti a intervenire in oltre 50 situazioni. In alcuni periodi raggiungiamo picchi di sei o sette interventi, come sotto le festività di Natale per garantire l’accompagnamento ai diritti di visita dei minori dal papà. Lavoriamo inoltre spesso i sabati e le domeniche, siamo insomma attivi 365 giorni all’anno e sempre raggiungibili allo 079 669 91 98 o per e-mail a miticiticino@gmail.com».

I dieci anni di City Angels Lugano

«Per diventare volontario attivo non sono necessari grandi muscoli, basta un grande cuore». È questo il motto dei City Angels Svizzera, basco blu, simbolo delle forze Onu portatrici di pace e giubba rossa, il colore dell’emergenza. Il presidente e coordinatore della sezione di Lugano, Scorpio, all’anagrafe Antonio Chiarella, agente di sicurezza in pensione da un anno, è volontario al fronte dal pri-

mo giorno in cui è stata fondata l’associazione, dieci anni fa, con regolari turni notturni a pattugliare le strade della città. Li chiamano «angeli della solidarietà e della sicurezza». Segnalano situazioni alla polizia, degrado, microcriminalità, e agiscono principalmente in ottica di prevenzio-

I volontari dell’associazione MI-TI-CI Against Abuse sono appassionati biker attivi 365 giorni all’anno. (miticiticino.ch)

ne. «Lugano per fortuna è comunque una città molto sicura. Lo posso dire perché noi di notte la giriamo a piedi e notiamo quel che non va. C’è tanta polizia in servizio. In auto, chiaramente, gli agenti non possono essere presenti ovunque, così noi, spostandoci a piedi, siamo in grado di avere un

altro punto di osservazione e assistiamo a situazioni di disordine: da chi fa baldoria a chi spacca cose con i calci, a chi imbratta muri con gli spray, a chi attacca lite. Ma appena ci vedono in gruppo si calmano, fungiamo da deterrente e questo rappresenta il nostro punto forte. Molti minorenni stanno in giro fino a mezzanotte, poi spariscono e arrivano quelli più grandi». Come agite? «Cerchiamo di fare la loro conoscenza. Con il dialogo otteniamo buoni risultati. I giovani sono bravi, occorre parlare con loro: hanno bisogno di ascolto e dei loro spazi. Poi, chiaro, c’è chi fa casino o il pazzo per strada, individui spesso alterati dall’alcol». E in questi casi? «Chiamiamo la polizia. Se ci sono situazioni sospette le segnaliamo alle forze dell’ordine. Abbiamo inoltre una buona collaborazione con i servizi sociali». Quali sono i luoghi delle vostre ronde notturne a Lugano? «Pensilina, Parco Ciani, stazione, autosili, Foce, via Nassa, lungolago. Giriamo in gruppi di tre o cinque volontari, con turni il venerdì e il sabato dalle 21 alle 24 e fino alle 3 del mattino, nel momento dell’uscita dalle discoteche. Talora ci spostiamo pure in macchina o con gli autobus, anche a protezione dei conducenti che talvolta la sera sono confrontati con passeggeri problematici».

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Tumore al polmone: aumenta la sopravvivenza

Medicina ◆ I risultati sono incoraggianti secondo gli ultimi studi presentati di recente al Congresso dell’American Society of Clinical Oncology di Chicago

Polmoni, seno, prostata e colon retto. Sono questi i quattro principali organi colpiti dal tumore, i cosiddetti «Big Killer», e anche la Svizzera non fa eccezione con numeri complessivi che toccano – secondo le ultime indagini – oltre 45mila persone ogni anno. Uno su cinque si sviluppa prima dei 70 anni e gli uomini si ammalano e muoiono in percentuali più alte delle donne. Il cancro alla prostata è il più frequente tra gli uomini ma a provocare il maggior numero di decessi sono quelli ai polmoni, ai bronchi e alla trachea. Tra le donne il più diffuso è al seno, che è anche il più letale insieme al polmone, come riportano i dati dell’Ufficio federale di statistica (Ust). Tuttavia, ed è una premessa importante: mentre in passato si distinguevano i tumori solo in base all’organo bersaglio, con il tempo si è iniziato a ragionare per sottogruppi e mutazioni genetiche presenti. Ciò significa confrontarsi con malattie che si comportano anche differentemente, si classificano in maniera diversa e i cui trattamenti possono essere specifici; ecco perché vanno selezionati i pazienti con la caratteristiche giuste per rispondere con successo alle cure.

Da Chicago, dove si è da poco concluso il Congresso dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO), che ha riunito oltre 35mila esperti, arriva una buona notizia sul tumore al polmone per la forma «non a piccole cellule» (NSCLC) avanzata con una specifica mutazione detta «ALK»: il trattamento con l’inibitore della tirosina chinasi (TKI) ALK (la molecola Lorlatinib) ha portato a una sopravvivenza libera da progressione

più lunga (PFS) e un migliore controllo e prevenzione delle metastasi cerebrali rispetto alla terapia di riferimento (molecola «Crizotinib»). Il valore PFS rappresenta il tempo che trascorre dalla cura all’eventuale ripresa della malattia.

Nello studio di fase 3, denominato «crown» e a cui sono stati sottoposti 296 pazienti, la sopravvivenza a cinque anni è stata del 60% nel gruppo Lorlatinib e dell’8% nel gruppo Crizotinib. Nei pazienti che non presentavano metastasi cerebrali all’inizio dello studio, solo 4 su 114 hanno sviluppato metastasi cerebrali nel gruppo Lorlatinib e quei 4 hanno sviluppato metastasi cerebrali entro i primi 16 mesi di trattamento.

Questa molecola di terza generazione è designata proprio per superare la barriera ematoencefalica e agire quindi a livello cerebrale, nonché per essere attiva anche in pazienti già trattati in cui si siano sviluppate delle mutazioni secondarie di resistenza ai farmaci. «Questo studio conferma l’eccezionale efficacia duratura del farmaco come scelta di prima linea e i risultati rappresentano alcuni dei migliori mai osservati per questo tipo di tumore al polmone ALK TKI», ha affermato David R. Spigel, Direttore scientifico del Sarah Cannon Research Institute di Nashville (Tennessee, USA). Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica «Journal of Clinical Oncology».

Altri risultati importanti si hanno avuti sempre sul tumore al polmone ma in questo caso «a piccole cellule» (SCLC): i pazienti che hanno ricevuto un’aggiunta di immunoterapia, do-

po la chemioterapia tradizionale e le radiazioni, hanno vissuto più a lungo e dimostrando minor probabilità di recidiva della malattia, secondo la ricerca di fase3 «Adriatic», che ha coinvolto 730 persone. Nel gruppo dell’immunoterapia, rispetto a quelli trattati con il placebo, la sopravvivenza globale mediana è stata di circa 56 mesi per il primo gruppo e di 33 per il secondo, mentre la sopravvivenza libera da progressione mediana è stata di circa 17 mesi rispetto a 9; valutata dopo due anni è risultata del 46% rispetto al 34%. «Abbiamo osservato progressi nell’immunoterapia nel carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC) localmente avanzato, non resecabile con la chirurgia e metastatico e, più recentemente, in quello do-

ve si può intervenire in sala operatoria nello stadio iniziale. Abbiamo anche assistito a progressi nelle forme estese e metastatiche, ma questo è il primo studio che dimostra che l’immunoterapia aiuta i pazienti affetti da questo tipo di tumore in stadio limitato o non metastatico», aggiunge David R. Spigel autore principale dello studio. Non da ultimo si è anche parlato di scambi telematici e sistemi di comunicazione remota: «La telemedicina ha il potenziale per ridurre sostanzialmente il carico sui pazienti, sui medici e sulle risorse sanitarie, pur mantenendo un’assistenza di qualità. I nostri risultati evidenziano la necessità fondamentale per i sistemi sanitari e i politici di adottare la telemedicina in modo più ampio negli standard di cure palliative basati sull’evidenza»,

sempre in tema di polmone è questo l’appello di Joseph Greer, co-direttore del Cancer Outcomes Research & Education Program presso il Massachusetts General Hospital e principale autore di un altro studio presentato al Congresso di Chicago. Ben 1250 pazienti over 65 sono stati suddivisi in due gruppi, ciascuno con sessioni di cure palliative ogni quattro settimane, dove affrontare momenti di comprensione della malattia, dei sintomi, di decisione delle cure ma tramite visite video oppure tramite la presenza del personale. Dopo sei mesi i punteggi sulla qualità della vita erano statisticamente equivalenti per i due gruppi, il tasso di partecipazione degli operatori sanitari era inferiore nel gruppo di telemedicina, e quindi a parità di numero si occupavano di altri incarichi pur avendo lo stesso risultato, infine i due gruppi di studio non differivano significativamente in termini di depressione, o attacchi di ansia riferiti dai pazienti.

«La ricerca mostra che le cure palliative precoci migliorano gli esiti dei pazienti con tumore al polmone non a piccole cellule in stadio avanzato, compresa la sopravvivenza. Ha dimostrato che ricorrere alle cure palliative in telemedicina è fattibile e produce risultati paragonabili all’assistenza di persona», conclude Charu Aggarwal, Leslye M. Heisler, professore associato per l’eccellenza del cancro polmonare e direttore del Precision Oncology Innovation, Penn Center for Innovazione nella cura del cancro presso l’Università della Pennsylvania.

La Grande Panda, ibrida o elettrica, è pronta ai box

Motori ◆ Fiat festeggia i suoi primi 125 anni promettendo entro la fine dell’anno un’economica d’eccezione

Mario Alberto Cucchi

Era l’undici luglio 1899 quando, in Italia, a Torino, nacque la Fiat dalla comune volontà di una dozzina di aristocratici, possidenti, imprenditori e professionisti torinesi di impiantare una fabbrica per la produzione di automobili. Quest’anno, l’undici luglio 2024, la «Fabbrica Italiana di Automobili» ha festeggiato i suoi 125 anni. Non una cifra tonda ma un momento importante per l’azienda che ora fa parte del gruppo Stellantis che riunisce al suo interno ben tredici marchi. Per l’occasione è stato organizzato un grande evento a Torino sul tetto del Lingotto. In via Nizza, laddove nel maggio del 1923 era stata inaugurata la fabbrica realizzata in cemento armato per una superficie di 150mila metri quadrati, ora si trova un grande centro commerciale con cinema e hotel. Al compleanno sul tetto del Lingotto, dove si trova una pista ed è stato inaugurato un museo, c’erano proprio tutti: la prima linea dirigenziale di Stellantis con il presidente John Elkann, il Ceo di Stellantis Carlos Tavares e ovviamente il Ceo di Fiat e Abarth, Olivier François, a fare gli onori di casa. È ricomparso persino Lapo Elkann che da tempo non era presente. Tutti schierati davanti a 190 giornalisti arrivati da ogni parte del mondo per spegnere le candeline. Incontro importante anche per fa-

re il punto della situazione e per capire non solo la strada che sta prendendo Fiat ma anche Stellantis con i suoi 160mila dipendenti, gli oltre 100 siti produttivi e i quasi 200 miliardi di euro di fatturato che la rendono uno dei più grandi Gruppi automobilistici al mondo.

Il Governo italiano era presente con il senatore Adolfo Urso. Proprio lui, il Ministro delle imprese e del made in Italy, lo stesso che ha causato il cambio di nome dell’ultima Alfa Romeo da Milano a Junior, lo stesso che ha fatto levare le bandiere italiane alla Topolino, proprio lui ha preso la parola per primo senza risparmiarsi alcune frecciatine: «Noi non ci rassegniamo, non vogliamo che Torino diventi un museo industriale». Ha poi ricordato le origini del Costruttore italiano e ha ribadito la volontà del Governo affinché Stellantis continui a considerare l’Italia centrale. «La fabbrica non è solo un luogo di produzione ma un motore di sviluppo per l’intera nazione, vogliamo che sia ancora così. Tanti hanno inventato la loro piccola impresa attorno alla Fiat, quel modello va tutelato, non è l’anomalia ma la forza del sistema Italia» ha continuato il Ministro. «Il profitto è legittimo ma non a ogni costo: vanno rispettate intere generazioni che hanno contribuito a creare il suc-

cesso di un’impresa. L’impresa che ha fondato l’industria italiana deve assumersi la responsabilità sociale del rilancio dell’auto in Italia nel rispetto di quello che la Fiat ha dato all’Italia e di quello che l’Italia ha dato alla Fiat. Lavoriamo insieme perché si rinnovi questa storia di successo. Questa era ed è la città dell’auto», ha concluso poco prima dell’inaugurazione di Casa Fiat, il nuovo museo sul tetto del Lingotto.

La paura che la produzione Fiat venga sempre più spostata all’estero è evidente nelle sue parole. Dopo di lui ha preso la parola il Carlo Tavares: «Sono felice di festeggiare questo

compleanno come pochi giorni fa ho festeggiato quello di Opel». Così ha subito ridimensionato l’evento. «C’è ancora molto da fare per Fiat nell’era di Stellantis, il mondo sta cambiando. Oggi in Europa quattro auto a batterie (elettriche) su dieci sono delle Fiat 500e. Siamo sulla buona strada per raggiungere la carbon neutrality entro il 2038» ha concluso Tavares.

La gran parte dell’eredità è definita da quello che viene dopo e ci sono i presupposti perché Fiat sopravviva a tutti noi. «Continuiamo a costruire delle grandissime automobili “anche” in Italia» ha detto John Elkann, nipote dell’Avvocato Gianni Agnelli. «Nel

1999 abbiamo festeggiato il centenario e mio nonno Gianni era qui. Oggi Fiat è il primo marchio di Stellantis, che sono orgoglioso di aver contribuito a creare tre anni fa. Grazie a Stellantis, Fiat ha potuto conquistare sempre più clienti. Fiat è presente in oltre settanta Paesi, ha attraversato crisi, guerre, calamità naturali. Nel mio caso, questi ultimi 25 anni sono stati duri; ho e abbiamo avuto anche paura di non farcela, di fronte alle tantissime avversità che abbiamo dovuto affrontare». Onesto.

A chiudere l’evento, una parata di auto sul tetto del Lingotto dove tra quelle che hanno fatto la storia si sono esibite anche le novità: tra tutte, la Grande Panda che arriverà nelle concessionarie entro la fine dell’anno con motorizzazioni ibride e full electric a un prezzo inferiore ai 25mila franchi svizzeri. Ha sfilato anche la 500 Giorgio Armani realizzata in collaborazione con lo stilista che, a sua volta, ha compiuto gli anni, 90, proprio l’11 luglio.

Una cosa sembrerebbe certa. I vertici di Stellantis hanno spiegato ad «Azione» che per loro il futuro dell’auto è elettrico e lavorano per non produrre più auto dotate del solo motore termico dato che ritengono che il loro valore residuo nel giro di pochi anni sarà bassissimo. Ci crediamo?

Fiat Grande Panda sul tetto del Lingotto.

Cibo vero per amici veri

Approdi e derive

Il VAR che non ti aspetti

È proprio vero che ciò che riusciamo a vedere in qualche modo è già dentro i nostri occhi: è qualcosa che, senza saperlo, già sappiamo e che, proprio per questo, desideriamo vedere affiorare nel nostro sguardo.

Ne erano ben consapevoli gli antichi filosofi e maestri di saggezza, Platone in primis, che intrecciava ogni conoscenza con un sapere già presente nell’anima. Era ben chiaro anche nelle splendide Confessioni di sant’Agostino, testimone e cantore di quella Verità che risuona dal nostro mondo interiore. E lo ha confermato, nel secolo scorso, la psicologia della Gestalt con le sue celebri immagini ambivalenti, ad esempio quelle ben conosciute dell’anitra/coniglio, o della giovane/vecchia, in cui riesci a vedere solo la figura che già hai negli occhi.

Questa ineludibile presenza di noi stessi ci accompagna sempre nel guardare il mondo, nel conoscerlo, nel cercare di comprenderlo e soprattutto

Terre Rare

nell’abitarlo e condividerlo. Della potenza inattesa di questo intimo sguardo ho potuto fare esperienza anche mentre seguivo le partite del campionato europeo di calcio appena concluso. Davanti allo schermo ho sperimentato in prima persona la presenza di qualcosa che già abitava il mio sguardo senza essere stato invitato. Ero lì, tutta intenta a inseguire le vicissitudini del pallone che danzava tra i piedi dei giocatori, ed ecco che un altro film si è impossessato dei miei occhi e li ha riempiti di altri frammenti inattesi di varia umanità. Una specie di «assistente» del cuore e della mente, un VAR che non ti aspetti, insomma, a squadernarmi dettagli che mi catturano e proiettano ciò che sto guardando dentro un altro panorama. Come prigioniero di una moviola impertinente, il mio sguardo è stato catturato dalle mani. Catturato soprattutto da una scena ricorrente: quella di mani aperte che si protendono inermi

e innocenti verso l’altro, arbitro o avversario che sia; mani che raccontano il rituale di un potente diniego: ti ho fatto cadere, sgambettato, strattonato, ti ho inflitto molte altre carinerie, ma le mie mani non lo sanno, non lo vogliono sapere e per questo mi stanno convincendo della loro verità. Lo dicono loro, io non c’entro con quello che ti è successo.

Ma altri fotogrammi mi hanno riempito gli occhi, partita dopo partita, a cominciare dal momento rituale degli inni nazionali in cui lo sguardo era subito catturato dal quieto silenzio di mani aperte, ospitali e contemplative, nell’accogliere le emozioni del corpo e della musica che le attraversava. E poco prima, da piccole mani timide ed emozionate di bambini, come fossero delicati e fragili fiori donati a mani grandi, in attesa di emozioni ancora indecifrate.

Molti altri ancora sarebbero i racconti possibili, capaci di custodire e di espri-

mere un di più della nostra umanità e di dar forma a quella sua infinita poesia, sempre piena di ambivalenze e di contraddizioni, in continua tensione tra la gratitudine e la bellezza e il loro rovescio.

Per quanto riguarda il mio racconto parallelo, capisco ora che la narrazione inattesa che mi ha accompagnata durante le partite mi ha permesso di restare in contatto con un sapere originario custodito nelle radici della nostra civiltà: con quello sguardo inaugurale dei primi filosofi in cui le mani erano state riconosciute come un luogo simbolico, non solo fisico, della specificità degli esseri umani e della loro intelligenza. Con una straordinaria intuizione, già Anassagora di Clazomene, vissuto nel V secolo a.C., affermava che l’uomo è il più intelligente degli animali perché ha le mani, sorgente e insieme espressione dello sviluppo della ragione. Aristotele capovolge la prospettiva. L’uomo ha le mani perché è il

più intelligente degli animali: la natura non fa nulla invano e distribuisce agli animali quanto sono in grado di usare. Pur nelle sue profonde differenze, la cultura greca apre uno spazio di pensiero in cui le mani assurgono a espressione anche simbolica dell’intelligenza. Nel De anima Aristotele arriva a sostenere che l’anima è come la mano perché la mano è lo strumento degli strumenti. Il filosofo Sennett ricorda che Renzo Piano ebbe a dirgli: «faccio edifici molto complessi ma io disegno sempre a mano; è in questo modo che imparo a conoscere l’oggetto a cui lavoro»

La mano sente, la mano pensa, è in contatto con l’essenza delle cose. Così, mentre attendevo i verdetti di tanti VAR giudicanti, ho potuto accogliere una moviola segreta e complice, con la sua lentezza sapiente e ospitale che non giudica ma tiene vivo il legame tra le vicende del mondo e il nostro mondo interiore.

Non so se succede anche a voi, ma immagino di sì. Nelle ultime settimane mi è capitato di ricevere una quantità inverosimile di messaggi spam nella «buca delle lettere» elettronica. Consultando siti di controllo come haveibeenpwned.com e altri, ho potuto verificare come il mio indirizzo e-mail, nel corso degli anni, sia uno tra i molti raccolti da hacker illegalmente in servizi web come Dropbox, Linkedin, Myheritage e altri ancora. Verificato nuovamente di aver aggiornato le password relative all’account, dopo aver accertato il furto, cosa rimane da fare a un povero utente bistrattato dalla malavita informatica?

Ho pensato di capire come reagire a questa posta fastidiosa, e di vedere se esistesse per caso il modo di segnalare l’accaduto alle autorità. Ebbene, un servizio di aiuto esiste: il sito

web a cui fare riferimento si chiama www.antiphishing.ch ed è amministrato dall’Ufficio federale della cibersicurezza (ncsc.admin.ch). In quelle pagine si legge ad esempio che è possibile segnalare le e-mail moleste inoltrandole all’indirizzo: reports@antiphishing.ch.

A questo punto ho contattato i responsabili del servizio e ho potuto inviare loro alcune domande sull’argomento. A Roman Hüssy, Co-chef GovCERT dell’Ufficio federale della cibersicurezza (GovCERT significa: Government Computer Emergency Response Team), ho domandato che cosa occorra fare quando si è vittime frequenti di spam, se esiste una soluzione definitiva e se cambiare indirizzo e-mail sia utile.

«Le e-mail di spam – spiega Hüssy –sono una seccatura. Se si utilizza un indirizzo e-mail da molto tempo e lo

Il chill come antidoto all’ansia

«Che belle le vacanze, me la sto chillando!». È impossibile dialogare per più di cinque minuti con uno Gen Z senza imbattersi nella Parola dei figli forse per eccellenza degli ultimi tempi: chill, dall’inglese to chill, ossia rilassarsi, che in italiano diventa «chillare». Il momento migliore dell’anno per farlo è l’estate, ma il termine è usatissimo in qualsiasi contesto. Quando chiediamo a nostro figlio di andare a studiare e lui ci risponde «Chill: il compito in classe è tra due giorni …» vuole dirci di stare tranquilli (che, parafrasando, può anche significare di non rompere). Mentre quando gli domandiamo com’è andato e lui ribatte «Nel chill » sta per «Tranquilli, è andato», e vai poi tu a capire se significa che prenderà almeno la sufficienza o semplicemente che se l’è tolto dalle scatole! È sinonimo di scialla , un invito a prendere le cose con calma, niente

stress. «Stai chill » vuol dire stai tranquillo. «Nel chill » con calma. E se ci viene in mente di chiedere che tipo è il nuovo amico, non è difficile sentirsi rispondere: «Un tipo chill », cioè un tipo tranquillo, simpatico. Quando invece sentite l’adolescente in chiamata chiedere a un’amica: «Oggi vieni a chillare da me?», aspettatevi di ritrovarvi ospiti in casa, perché l’invito tradotto sta per «Oggi vieni a casa mia nel chill ?». Ripeterlo, per crederci. La domanda che mi sorge spontanea, infatti, sentendo utilizzare con tale frequenza il termine che pare buono per ogni occasione – ed è stampato anche su magliette e felpe al motto di « stay chill » – è se per i Gen Z evocare il chill sia una sorta di antidoto alla loro ansia: essere in grado di mantenere la calma e il controllo in situazioni stressanti è una questione di sopravvivenza. Lo evocano, per au-

si è fornito in varie occasioni, spesso si ricevono messaggi di posta elettronica inviati automaticamente e in massa senza averli richiesti. Questo succede perché l’indirizzo in questione è stato ceduto da un’azienda o è stato raccolto nel contesto di un ciberattacco. Una parte di queste e-mail indesiderate viene intercettata dal filtro antispam del rispettivo programma di posta elettronica. Quasi sempre dietro a e-mail di questo genere si celano cibercriminali che hanno l’obiettivo di trarne qualche vantaggio. Inviano queste e-mail in massa senza fare distinzioni. E fino a quando riusciranno a realizzare guadagni con le loro truffe, continueranno a inviare questo genere di messaggi. Come utente si può valutare di utilizzare un indirizzo dedicato per e-mail importanti da usare solo in poche occasioni. La maggior parte dei provider di

servizi di posta elettronica impiegano filtri antispam per fare in modo che molti di questi messaggi indesiderati non finiscano nelle nostre caselle di posta elettronica». Ma che cosa succede quando si invia una segnalazione a reports@antiphishing.ch? «Le segnalazioni – continua Hüssy – sono sottoposte a un esame preliminare automatico. Molte pagine web vengono ripetutamente segnalate all’UFCS, per questo il primo passo è quello di eliminare i doppioni. In seguito vengono raccolte le informazioni accessibili più facilmente, come ad esempio capire quale provider gestisce la pagina web sospetta. In seguito la pagina segnalata viene fotografata e analizzata, ciò che aiuta a capire se si tratta effettivamente di phishing o meno. Al termine del processo ogni segnalazione viene esaminata manualmente

dai tecnici. Se una pagina web viene identificata come phishing, solitamente viene inviata al mittente una notifica via e-mail. Quando possibile, questa viene poi inviata al provider che ospita il sito, a coloro che hanno registrato il nome del sito e al titolare del dominio stesso. Inoltre, quando possibile, l’UFCS informa anche il proprietario del marchio usato impropriamente dai criminali informatici per la campagna di phishing» Infine l’Ufficio federale della cibersicurezza mi segnala che esistono altre iniziative o servizi simili, pubblici o privati, che possono essere utili a chi è vittima di spam, come ad esempio: www.isitphishing.org/, www.phishtank.org/, www.phishing-initiative. eu/contrib/.

(L’intervista a Roman Hüssy continuerà nel prossimo numero della nostra rubrica)

toconvincersi che è possibile: scialla! Ai nostri tempi avremmo parlato di un’affermazione fatalista, forse, o anche un po’ menefreghista, perché può anche avere una sfumatura simile a chissenefrega: «Se Dio vuole succede, rilassati». Di fronte ai Gen Z che sono i nostri figli invece non possiamo liquidare il chill semplicemente come un invito a non scalmanarci troppo. Riflettiamoci insieme! Correva l’anno 2018 quando per descriverli abbiamo utilizzato il claim Generazione Like, quella a cui torna il buonumore se l’influencer di turno a cui è dedicata la fanpage sui social mette il cuoricino sul post, compare il sorriso sul viso quando il proprio account è menzionato nelle storie Instagram degli amici, cresce il compiacimento all’aumentare dei follower, esulta se è nel gruppo WhatsApp giusto per organizzare le uscite ed è soddisfatta

se dopo un pomeriggio di tentativi riesce a postare 10 secondi di video. Adesso, invece, dobbiamo prendere atto che la Generazione Like è diventata la Generazione Ansia : il timore di non riuscire a stare al passo, la paura di fallire e di non esser abbastanza (es. abbastanza magri, belli, popolari ecc.) è evidentemente collegata anche alla metrica dei social con la misurazione costante della popolarità.

Tutto quel che li circonda, troppo spesso genitori compresi, li vorrebbe performanti. Lo psicologo sociale Jonathan Haidt, autore del saggio The Anxious Generation: How the Great Rewiring of Childhood Is Causing an Epidemic of Mental Illness («La generazione ansiosa – Come il grande ricablaggio dell’infanzia sta causando un’epidemia di malattie mentali», uscito il 26 marzo 2024, per ora solo in inglese), è convinto

che la combinazione tossica sia l’iperprotezione nel mondo reale da parte di noi genitori diventati troppo iperprotettivi e la sottoprotezione nel mondo virtuale che li rende dipendenti dai colpi di dopamina dei Mi piace, retweet e commenti dei social. «Secondo una varietà di misure e in una varietà di Paesi, i membri della Generazione Z – scrive Haidt – soffrono di ansia, depressione, autolesionismo e disturbi correlati a livelli più alti rispetto a qualsiasi altra generazione per la quale disponiamo di dati». Ecco, davanti a tutto ciò mi viene da pensare che la Generazione Like che si è trasformata in Generazione Ansia stia facendo del chill il suo motto per invitare sé stessi e gli altri a curarsi. Prendendo le distanze, magari inconsciamente, anche e soprattutto dalla necessità di essere sempre performanti. Tanto più in estate!

di Lina Bertola
di Simona Ravizza
di Alessandro Zanoli

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Nelle isole del mito di Stevenson Tahiti viaggia sulla cresta dell’onda che i surfisti – dal 27 al 30 luglio – cavalcheranno al largo delle sue coste per aggiudicarsi l’oro olimpico

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Polpette vegetariane di melanzane Messa da parte la carne macinata, resta comunque il gusto grazie alla verdura gratinata nella salsa di pomodoro

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Dadi in mano col desiderio di volare Due giochi da tavolo portano pilota e copilota di aerei a sorvolare gli aeroporti più difficili del mondo in cieli tempestosi e avventurosi

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Talents’ Dream , sogni che corrono sull’asfalto

Adrenalina ◆ Si chiama Swiss Super Bike Academy, e ha sede a Lugano, la neonata società in cerca di talenti da far crescere e di fondi che glielo permettano

Il bisogno aguzza l’ingegno. E lo fa in una manciata di secondi: oggi parliamo di cavalli, sgommate e, soprattutto, di velocità. Tanta velocità. Anche oltre i duecento chilometri orari, che sono quelli che può raggiungere la moto con cui Alessio Guarnieri, uno dei protagonisti odierni, cerca di farsi un nome sui principali circuiti internazionali. Proprio così, il 19enne di Paradiso non è che uno dei talenti su cui si punteranno i riflettori non solo di «Adrenalina» e, a dirla tutta, nemmeno il principale interprete (anche se non è detto che in futuro torneremo probabilmente sulla sua storia: restate… sintonizzati), visto che il tema trattato è di più ampio respiro. In un senso lato, il giovane Alessio Guarnieri è la «chiave» per affrontarlo. Nonché il punto iniziale di tutto.

«Grazie alla consulenza di Roby Rolfo, abbiamo creato un team incaricato di visionare potenziali piloti da integrare nel nostro progetto»

«Beh, la storia di Alessio è la storia di molti altri, giovani e meno giovani, che hanno nel sangue una passione, un sogno che troppo spesso si infrange contro un ostacolo insormontabile: quello dei costi» racconta il papà Francesco. «Così in molti, troppi, non possono far altro che spegnere il motore e rinunciare per sempre alle loro speranze di gloria. E non è giusto che debba finire così… Di questo passo, a restare in sella rischiano di essere unicamente i più fortunati, ossia quelli che se lo possono permettere».

Anche Francesco si è dunque trovato davanti al bivio. «Abbiamo deciso di andare avanti, di lasciare che i suoi sogni potessero continuare a correre a tutta velocità sul rettilineo dei circuiti, non senza i sacrifici che tutto questo comportava». Poi, appunto, ecco l’intuizione, l’idea che avrebbe potuto dare l’accelerazione a questi sogni. Quelli di Alessio, certo, ma, più in senso lato, quelli di tanti altri che macinano chilometri su chilometri di asfalto in motodromi e autodromi (ma anche kartodromi…) di tutto il mondo.

«Effettivamente è andata così: Talents’ Dream nasce da un’esigenza. In fondo è la storia di un po’ tutti i progetti che ambiscono ad avere successo. Alessio, lasciatosi alle spalle diversi anni vissuti a tutta velocità con i kart, a fine 2019 si è avvicinato al mondo delle due-ruote, di cui in precedenza era completamente a digiuno. I primi colpi di gas in sella a una

moto li ha dati su un mezzo senza marce, a presa diretta, su un circuito dalle dimensioni ridotte, in Italia. Ma è stato amore a prima vista, e soprattutto, è bastato questo primo assaggio per capire che la stoffa e il talento per fare bene, li aveva, per cui valeva la pena continuare su questa strada. D’altro canto, e non è un mistero, gli sport motoristici in generale, e il

motorsport in particolare, sono sport che comportano un investimento (finanziario) non indifferente, ragion per cui o trovi qualcuno che ti sponsorizza, o trovi qualcuno che ti mantenga. Ma alla realtà dei fatti, nella stragrande maggioranza dei casi, solo i piloti affermati possono ambire a staccare qualche contratto pubblicitario di un certo peso, mentre gli altri, quelli magari pure talentuosi, ma che questo talento ancora non hanno avuto la possibilità di mostrarlo nella sua interezza, sono costretti ad arrangiarsi con mezzi propri. Col rischio che poi alcuni potenziali campioni di domani si perdano per strada». Che fare allora?

Il bisogno, per rifarsi all’incipit dell’articolo, aguzza l’ingegno. Per cercare di dare una sua risposta alla domanda, Francesco ha deciso di creare Talents’ Dream, «una piattaforma lanciata a febbraio 2024, dopo una lunga preparazione (passata anche attraverso la pandemia e il suo interminabile strascico) che mira a dare una possibilità (e anche i mezzi) a chi ha talento, affinché possa andare avanti per la sua strada. Abbiamo ovviamente cominciato con le moto, dato che il «pilota zero» era Alessio, ma

l’intenzione è quella di abbracciare tutti gli sport motoristici in generale, dai kart fino al rally. Insomma, tutto quello che romba, su due o quattro ruote, strada o circuito… Grazie alla consulenza di un rider d’esperienza qual è Roby Rolfo, abbiamo creato un team incaricato di visionare potenziali piloti da integrare nel nostro progetto, che nei suoi intenti vorrebbe diventare una sorta di accademia in cui coltivare la propria passione e farsi un nome nel mondo dei motori. Lo scouting di Roby ha permesso di individuale e integrare nel nostro progetto già diversi volti interessanti, fra cui Bettina Pfister, una giovane ragazza ticinese, o, ancora, un ragazzo indiano che corre nel Mondiale Junior, un paio d’altri talenti spagnoli, uno portoghese e diversi altri ancora. Tutti inglobati nella società che abbiamo denominato Swiss Super Bike Academy, con sede a Lugano. Parallelamente è stata istituita una Equity Crowfunding, sorta di raccolta fondi –ma non a fondo perso – per sostenere le attività di questi giovani talenti, affinché possano andare avanti per la loro strada o il loro circuito».

«La rispondenza è stata subito notevole, basti pensare, per dare qual-

che cifra, che siamo arrivati a quota 300mila euro in una manciata di giorni appena, sebbene l’obiettivo ideale fosse quello di raccogliere tra i 100 e i 300mila euro (perché parte sì dal Ticino, ma Talents’ Dream vuol essere un trampolino di lancio per i giovani aspiranti piloti di tutto il mondo) in novanta giorni. La riprova che il nostro è un progetto concreto e con buone basi, è anche l’eco che ha avuto sui media: di noi hanno parlato anche alcune testate di un certo peso, come il “Sole 24 ore”, il “Corriere della Sera” e non da ultimo la “Gazzetta dello Sport”. Insomma, siamo sulla strada giusta».

Ma non è finita qui: prima… dell’ultimo giro, Francesco Guarnieri pensa già al secondo passo da fare: «Che sarebbe quello di unire il mondo della finanza, da dove provengo io, a quello dello sport. I piloti che vengono integrati nel nostro progetto cedono a Talent’s Dream i diritti sulla loro immagine per un minimo di cinque anni, ragion per cui qualora un pilota dovesse farsi strada e un nome, pure noi, e di riflesso le persone che hanno deciso di investire su di lui, ne trarrebbero un beneficio (anche notevole) dal punto di vista finanziario».

Alessio Guarnieri; sotto, con il padre Francesco. (Talents’ Dream)
Moreno Invernizzi

A Tahiti sull’alta cresta dell’onda

Reportage ◆ Il surfboard è cambiato, ma l’immensità del Pacifico è rimasta il principale teatro di quest’attività che ha avuto origine proprio

Tahiti viaggia sulla cresta dell’onda, quella cavalcata dagli atleti che – dal 27 al 30 luglio – gareggeranno al largo delle sue coste per aggiudicarsi l’oro olimpico in equilibrio su una leggera tavola. La capitale della Polinesia Francese ospiterà infatti le gare di surf dei Giochi Olimpici di Parigi 2024. Attività polinesiana per eccellenza: per i Maori il surf era un mezzo per domare i cavalloni dell’oceano Pacifico. «È straordinario, incredibile, gli abitanti di queste isole affrontano gigantesche onde a cavallo di tavole di solido legno rossastro lunghe da due a cinque metri» annotava nel diario di bordo James Cook, tra i primi europei a raggiungere la Polinesia, il primo a scoprire l’ardire del surf.

Il mito delle isole dell’amore portò in Polinesia scrittori come Stevenson, Herman Melville, Mark Twain...

Sono trascorsi oltre due secoli e il surfboard è molto cambiato, grazie alla tecnologia e ai campioni australiani degli anni Settanta e Ottanta. Il legno è stato sostituito dalla fibra di vetro e l’introduzione della pinna posteriore (anche doppia e tripla) ha reso più facile direzionare, accelerare e stabilizzare la tavola, la cui lunghezza è stata adattata all’altezza dell’atleta. Il surfboard è cambiato, ma l’immensità del Pacifico è rimasta il principale teatro di quest’attività. Dagli arcipelaghi polinesiani si è estesa alle due sponde della maggiore entità geografica del Pianeta: occupa più di un terzo della superficie terrestre. California e costa orientale dell’Australia – distanti 12mila chilometri – sono diventate le principali patrie di questo sport, celebrato negli Stati Uniti da un film come Un mercoledì da leoni e in Australia da un’infinità di trofei.

Insieme si sono aggiudicati il 90 per cento dei campionati mondiali.

Cavalcando l’onda

Gli atleti olimpici sono da giorni a Teahupo’o, la spiaggia di Tahiti Iti –la poco popolata penisola di Taiarapu (il cerchio piccolo dell’otto disegnato dalla maggiore delle Isole della Società) – dove si svolgeranno le gare. A Teahupo’o, già sede dei mondiali di surf, si assiste ogni giorno alle imprese dei giovani tahitiani che catturano il frangersi delle mareggiate più lunghe, cavalcano le onde, sfrecciano tra la schiuma ruotando il surfboard con spericolata abilità, infilzano i tunnel d’acqua in velocità per evitare di essere ingoiati dal moto centrifugo dell’onda. Istinto, forza e familiarità di un popolo che vive in simbiosi con il mare, ma anche esperienza perché il surf non lo si apprende in un giorno ma con un lungo lavoro di osservazione. I grandi campioni studiano le maree regolate dai cicli lunari, indagano potenza e direzione dei venti, si aggiornano sulle previsioni metereologiche. Passaggi fondamentali per catturare i cavalloni più lunghi, per

fondersi con l’oceano e vincere la sfida sulla cresta dell’onda.

Paradiso degli esploratori

Tahiti è l’incarnazione del mito dei Mari del Sud, diffuso dai marinai delle prime esplorazioni di Samuel Wallis, Louis Antoine de Bougainville e James Cook: lo narrarono come un paradiso di isole con un’esuberante natura, popolate da ragazze sensuali che vivevano nude e praticavano il libero amore. Donne formose con lunghi capelli corvini, occhi orientali su zigomi alti e labbra carnose. Bellezze che ruotavano il bacino danzando il tamure

Eros ed esotismo confermato dall’ammutinamento del Bounty, il veliero arrivato a fine Settecento a Papeete per introdurre il frutto del pane nei Caraibi, così da sfamare gli schiavi delle piantagioni: scoperti i piaceri di Tahiti, l’equipaggio non ne volle sapere di continuare il viaggio. Il mito delle isole dell’amore portò in Polinesia scrittori come Robert Louis Stevenson, Pierre Loti, Herman Melville, Mark Twain, Somerset Maugham che tra Honolulu, Sa-

moa e Tahiti ambientarono romanzi e racconti, alimentando la leggenda. Nell’immaginario collettivo, la Polinesia divenne l’espressione più persuasiva dell’oceano primigenio. Là dove tutti sognavano di vivere «tra i fortunati che hanno visto l’aurora sulle isole più belle del mondo».

Paul Gauguin

Più ancora che la letteratura a esaltare il mito furono le tele di Paul Gauguin, il primo artista europeo a viaggiare in Polinesia alla visionaria ricerca dei colori primi della pittura e della creazione, per «immergersi nella natura vergine e condividere la vita dei selvaggi» come scrisse in Noa Noa Qui, tra orge, droghe e assenzio, Gauguin dipinse quadri audaci che svelarono colori, potenza, sensualità e mistero dei Mari del Sud. Ma Gauguin fu anche il primo a denunciare, a fine Ottocento, il paradosso di Tahiti. «La vita di Papeete divenne ben presto noiosa. Era l’Europa – l’Europa della quale avevo creduto di liberarmi – con l’aggravante dello snobismo coloniale, un’imitazione puerile e grottesca fino alla caricatura» scris-

se. Nella sua recherche sauvage l’artista lasciò Tahiti per le Marchesi, le isole più torride ed estreme della Polinesia Francese, a cavallo dell’Equatore. Nel 1964 Tahiti gli dedicò il Musée Paul Gauguin, poco fuori dalla Papeete da lui detestata, vicino al lussureggiante Botanical Garden: ospita alcune opere minori dell’artista e ne documenta vita e opera con foto dei suoi dipinti, immagini d’epoca, oggetti, giornali, libri e memorabilia; ma – testimone dell’indolenza polinesiana – dal 2014 è chiuso per lavori di rinnovamento procrastinati all’infinito. Il vero museo Gauguin polinesiano è a Hiva Oa, l’isola delle Marchesi dove è sepolto e dove è stata ricostruita la Maison de Jouir, teatro della sua scabrosa vita di eccessi.

Papeete

Le parole di Gauguin tornano in mente a Papeete, sudaticcia e caotica capitale politica ed economica della Polinesia Francese. Centro logistico collegato da bretelle autostradali. Passaggio obbligato dei turisti diretti a Moorea, Bora Bora, Huahine e nelle altre isole del sogno vacanziero.

Marco Moretti, testo e foto
Bora Bora; sotto, Tahiti, Diadema, a sinistra, e un surfer in allenamento. Di fianco, in senso orario: donna polinesiana; un danzatore e un suonatore di chitarra di Tahiti; due partecipanti al festival del tatuaggio di Tahiti.

olimpionica, tra miti e artisti

negli arcipelaghi polinesiani

Nell’area metropolitana di Papeete, estesa su venti chilometri di costa e servita dai truck (i colorati camion del trasporto pubblico), sono concentrati affari, burocrazia, telecomunicazioni e aeroporto internazionale.

Ci vivono metà dei 300mila abitanti della Polinesia Francese (190mila sono residenti a Tahiti). Entrare in città all’ora di punta significa impantanarsi nel traffico, il principale guaio urbano insieme a disagio sociale, obesità e inquinamento. E più che maori, oggi Tahiti è meticcia: qui in due secoli e mezzo i polinesiani si sono mischiati con inglesi, francesi, americani, spagnoli e cinesi.

Nel centro di Papeete ci sono tre edifici monumentali. Notre Dame, la cattedrale neogotica del 1875. Il palazzo vescovile del 1869, più antico e migliore esempio d’architettura coloniale. E l’Hotel de Ville, il Municipio costruito nel 1990 in stile neocoloniale sul modello dell’antica reggia dei Pomare, la famiglia reale tahitiana. È il simbolo della decadenza culturale maori, iniziata nel 1797 con i puritani della London Missionary Society che vietarono la nudità. Proseguita nel 1819 con la messa al bando del tatuaggio, la principale espressione culturale tahitiana. E terminata nel 1880 con la cessione da parte di Pomare V del potere alla Francia in cambio di una pensione a 5mila franchi francesi dell’epoca. Storia e tradizioni sono illustrate al Musée de Tahiti e des Iles di Fa’aa con una collezione di tiki, le sculture antropomorfe, in legno o pietra, di divinità polinesiane, a fianco di una serie di poggiatesta (testimoni della cultura dell’ozio), a un’antica piroga, ad armi, monili e attrezzi agricoli e per la pesca. Colori, odori e sapori dei Mari del Sud s’incontrano al mercato coperto, tra i banchi che vendono frutto del pane, taro, olio di cocco, vaniglia. Al primo piano si comprano abiti e souvenir: pareo, conchiglie, bigiotteria, paglie, sculture di divinità falliche. E in un piccolo ristorante economico, rarità in una delle città più care del mondo, si gusta il più noto piatto polinesiano: pesce crudo marinato in lime e latte di cocco. Tutto a uso e consumo dei turisti che raggiungono le Isole della Società soprattutto per i viaggi di nozze: banale capolinea delle isole dell’amore.

L’invasione della favola

Il turismo ha cambiato radicalmente Tahiti. Iniziò nel 1961 con l’apertura dell’aeroporto internazionale,

scalo sulla lunghissima rotta tra Los Angeles e Auckland (Nuova Zelanda). Ma il volano fu nel 1962 con la riedizione del film Gli ammutinati del Bounty, diretto da Lewis Milestone e interpretata da Marlon Brando (la prima edizione era di Frank Lloyd, nel 1935, con Clarke Gable nel ruolo protagonista). Il film diffuse nel mondo lo scenario da favola di Bora Bora, dove Brando conobbe Tarita Teriipaia, la ballerina – figlia di un pescatore locale – di 17 anni più giovane di lui, una bellezza polinesiana con sangue cinese. La loro storia d’amore riempì le pagine dei rotocalchi. La più bella delle Isole di Sottovento divenne una seducente cartolina, una meta da sognare, da raggiungere una volta nella vita.

Vista dal cielo, Bora Bora appare come un miraggio verde e turchese in mezzo all’oceano blu notte. Le acque trasparenti della sua laguna – imprigionata da una barriera corallina su cui si sono formati numerosi motu (isolotti cresciuti sulle madrepore emerse) tempestati di palme – circondano il vulcano che domina l’isola. Brando sposò Tarita in terze nozze e comprò Tetiaroa, un atollo formato da dodici motu sepolti di palme e imprigionati da un lungo reef corallino. Situata 42 chilometri a nord di Tahiti, era disabitata. Fu la residenza estiva dei Pomare fino al 1904, quando la famiglia reale la cedette al dentista e console inglese Walter William per pagare otturazioni e dentiere. Brando voleva farne il suo buen retiro lontano da paparazzi e Hollywood. Un luogo rispettoso di cultura locale e biodiversità. «Se posso fare a modo mio, Tetiaroa rimarrà per sempre un luogo che ricorda ai tahitiani cosa sono e cosa erano secoli fa» affermò. «La mia mente è sempre calma quando mi immagino seduto di notte sulla mia isola dei Mari del Sud». In realtà fu un disastro, naufragò il rapporto con Tarita, i loro figli ebbero fini tragiche, il resort fu una voragine finanziaria finché non passò a Pacific Beachcomber diventando uno dei più esclusivi del mondo (8mila franchi svizzeri per due notti a coppia).

Nel tatuaggio, radici e identità maori

Ancora più del surf, è il tatuaggio la più importante eredità culturale polinesiana. È praticato da tremila anni nella maggioranza delle isole del Pacifico. Insieme al pareo, derivato dal tahitiano pareu (gonna), è l’unico termine maori adottato dalle lingue europee. Deriva da ta tatau: significa segnare il tempo, perché era il tatuaggio a scandire la vita degli abitanti di queste isole.

I maschi venivano tatuati a dieci anni e le femmine a quattordici, in un rito di passaggio dalla pubertà all’età adulta che, oltre alla pelle, marcava la vita dell’iniziato. Uomini e donne si decoravano gran parte di corpo e viso. Gli abitanti dei diversi arcipelaghi erano riconosciuti, per status e provenienza, dalle decorazioni sulla pelle. Il tatuaggio aveva implicazioni rituali, magiche, estetiche ed erotiche.

I disegni cutanei erano talismani: proteggevano da malattie e malocchio, e aumentavano il coraggio. Esaltavano la bellezza e influivano sul desiderio sessuale: in alcune iso-

le, chi non era tatuato veniva spesso rifiutato dal sesso opposto. I loro motivi erano geometrici (losanghe, cerchi, greche, stelle, fasce e tratti intermittenti) o figurativi (animali, piante, azioni di combattimento). Erano totem che perpetuavano la discendenza, gli antenati: variavano a seconda di provenienza geografica, età, sesso, clan, ruolo sociale. Alcune decorazioni erano riservate a capi e sacerdoti. Veniva praticato incidendo la cute con denti di maiale e colorando la ferita con tintura di carbone fossile. Alle Marchesi gli uomini si ornavano con bande nere e motivi geometrici gambe, braccia, collo, faccia e glutei; mentre le donne avevano disegni

Delusi dal vuoto culturale, a Tahiti ci si consola con la natura. L’imponente massiccio del Diadema fuori Papeete. L’interno montagnoso e le sue profonde valli foderate di foresta pluviale lacerata da spettacolari cascate come a Tefa’aurumai. La stradina nell’interno di Tahiti Iti che conduce all’altopiano di Taravao, dove tra i prati verdi pascolano le vacche: da qui si gode il panorama sull’istmo, prima di raggiungere Teahupo’o, dove i ragazzi polinesiani continuano a sfidare l’oceano in equilibrio su una tavola.

Informazioni

Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

attorno a bocca e orecchie. A Tahiti e nelle Isole della Società solo i capi si tatuavano il volto e, mentre molti uomini decoravano l’intero corpo, le donne avevano motivi incisi solo su polsi, mani e caviglie.

A Tahiti, la conversione al cristianesimo portò nel 1819 re Pomare – su pressione della London Missionary Society – a proibire il tatuaggio in quanto attività degradante. Scelta che alimentò il declino culturale maori. Il divieto fu presto imposto dall’Isola di Pasqua alle Hawaii. L’antica pratica sopravvisse solo nelle Samoa Occidentali. Dove negli anni Settanta, si recarono alcuni tahitiani – alla ricerca delle radici smarrite – per reimparare la tecnica del tatuaggio, che oggi anche qui è praticata con aghi indolori e moderni metodi igienici. Insieme ai simboli ancestrali, i tahitiani si fanno incidere sulla pelle figure stilizzate di tartarughe, rettili, pesci. E ogni novembre Tahiti ospita un festival internazionale dedicato a questa tradizione.

Polpette di melanzana in salsa di pomodoro

Ingredienti

Piatto principale

Ingredienti per 4 persone

600 g di melanzane, ad esempio varietà perlina

8 c d’olio d’oliva

½ cc di sale

½ mazzetto di basilico

80 g circa di pangrattato

1 uovo grande

120 g di parmigiano

grattugiato

2 spicchi d’aglio

pepe dal macinapepe

5 dl di salsa di pomodoro

Preparazione

1. Scaldate il forno statico a 180 °C (calore inferiore e superiore).

2. Tagliate le melanzane a pezzetti. Mescolateli con la metà dell’olio e del sale e stendete la massa su una teglia foderata di carta da forno. Dorate le melanzane in forno per circa 25 minuti, rigirandole una volta durante la cottura. Sfornate e lasciate raffreddare un po’.

3. Tritate grossolanamente le melanzane. Tritate il basilico. Mettete in una scodella entrambi con il pangrattato, l’uovo e la metà del parmigiano. Aggiungete poi anche l’aglio tritato. Mescolate bene e condite con sale e pepe.

4. Formate, con l’impasto, delle palline che abbiano le dimensioni di una noce.

5. Rosolatele da ogni lato nel resto dell’olio a porzioni. Mettetele con la salsa di pomodoro in una teglia resistente al forno. Cospargete con il parmigiano restante. Cuocete in forno per circa 20 minuti.

6. Guarnite a piacere con il basilico. Accompagnate con la focaccia.

Consiglio utile

Rosolate una piccola polpetta di melanzane per testarne la consistenza. Se la massa si sfalda, aggiungete un po’ di pangrattato.

Preparazione: circa 20 minuti; cottura in forno: circa 45 minuti

Per persona: circa 19 g di proteine, 30 g di grassi, 30 g di carboidrati, 450 kcal.

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Così si pilota un aereo in mezzo alla tempesta

Colpo critico ◆ Dalla velocità all’assetto di volo, dai freni alle comunicazioni con la torre di controllo, in mezzo a mille variabili

C’è stato un momento in cui ho pensato di non farcela. Eravamo sopra l’Aeroporto internazionale di Kuala Lumpur, in Malesia, e il volo stava procedendo bene. La mia copilota e io avevamo appena annunciato il nostro arrivo alla torre di controllo, quando di colpo il cielo si è fatto nero. Tuoni, scrosci di pioggia. Una ragnatela di lampi. Come mantenere l’aereo in assetto? Come gestire l’apertura degli alettoni? Semoga berjaya… buona fortuna! Ce la siamo vista brutta, ma alla fine abbiamo bevuto un paio di caffè e siamo riusciti ad atterrare.

L’aspetto più simpatico è l’impressione di essere lassù, con il casco e gli occhialoni, nell’azzardo dei venti

In futuro mi aspetta l’aeroporto di Keflavik, in Islanda: dovrò stare attento alla neve e ai blizzard di ghiaccio. Chissà, magari riuscirò a portare un aereo di linea anche a Paro, in Bhutan. È uno degli aeroporti più difficili al mondo, circondato com’è da picchi montuosi alti fino a seimila metri, e solo un ristretto numero di piloti ha il permesso di portarci un velivolo.

Naturalmente, il vantaggio è che posso fare tutto questo seduto al tavolo del mio soggiorno.

In Sky team (Luc Rémond, Scorpion Masqué, 2023) due partecipanti collaborano per pilotare un aereo di linea, scegliendo una serie di missioni dalle più facili alle più complesse (tipo l’aeroporto di Kuala Lumpur).

I due giocatori siedono l’uno accanto all’altro, proprio come in una cabina di pilotaggio, e gestiscono vari fattori perché l’atterraggio si svolga senza problemi: dalla velocità all’assetto di volo, dai freni alle comunicazioni con la torre di controllo, in mezzo a mille variabili come il vento o la pioggia. Per fortuna il gioco offre la possibilità di bere un caffè per cambiare il valore di uno o più dadi…

Si fa presto a spiegare il successo di Sky team. È un gioco ben costruito, semplice ed elegante, ma soprattutto ha un’ambientazione credibile, anche perché l’autore si è avvalso della consulenza di un comandante di bordo professionista. Sembra davvero di essere lì, pilota e copilota insieme nell’abitacolo, con la necessità di capirsi senza parole per fare la cosa giusta al momento giusto.

Difficile trovare qualcuno che non abbia fantasticato di volare almeno una volta. Oltre a essere uno tra i sogni più diffusi, è anche un desiderio primordiale, che affonda le radici nella storia dell’umanità. Da sempre gli esseri umani invidiano la libertà degli uccelli. È un inganno, naturalmente, perché non basta volare per

Giochi e passatempi

Cruciverba

Le persone in Giappone, prima di entrare in un santuario, si… Trova il resto della frase leggendo, a soluzione ultimata, le lettere evidenziate (Frase: 10, 2, 4, 1, 2, 5)

ORIZZONTALI

1. Non è padrone di sé

7. È ripetitivo

8. Avverbio di luogo

9. Due vocali

10. Mobile User Objective System

11. Pic cole costruzioni ad alta quota

12. Nome maschile

13. Macchina semplice

17. La gente in una folla

18. Nome femminile

19. Un anagramma di gala

20. Usata anticamente nelle gare di corsa

21. Re di Francia

22. Sette in una famosa danza

23. Simbolo chimico del cloro

24. Vasi di terracotta

25. Uno strumento

VERTICALI

1. Gabbia per polli

2. L’eroina Marzia degli Ubaldini

3. Una nota Hillary (Iniz.)

4. Un uccello

5. Senza alcun contenuto

essere liberi. Però, nella simulazione ludica di un volo, è impossibile non provare un piacere quasi infantile. Un altro gioco che offre sensazioni simili è Winged victory (Carlo Amaddeo, WBS Games, 2017). Lo scenario è diverso: si tratta di affrontare un combattimento aereo durante la prima guerra mondiale, pilotando un Sopwith Camel o il triplano Fokker di Manfred Von Richthofen, conosciuto come il Barone Rosso (e

famoso anche per la parodia che ne fece Charles Schulz nelle strisce dei Peanuts, dove Snoopy lotta invano contro l’asso dell’aria tedesco). Meno adatto ai principianti, consente ai giocatori (da 1 a 8) di cimentarsi in manovre spericolate, dai «semplici» looping fino alla spettacolare virata di Immelmann. Tutto questo tenendo conto della velocità, dell’aerodinamica, del consumo di energia e, naturalmente, degli av-

6. Dipartimento della Francia settentrionale

10. Impasto per costruzioni

11. Nazione europea 12. Affitto 13. Scrupolosamente devota

Donna senza precedenti...

Pronome personale 16. Un buco nella stoffa... 17. Nome femminile

18. Nilo senza fine

20. Lo sono i tempi andati

22. Le iniziali dell’attore Cassel

23. Le iniziali di Pisacane

versari. A differenza di tutti gli altri giochi simili, la plancia di Winged victory non mostra i velivoli dall’alto, come in una mappa, bensì di lato, in uno spaccato laterale; questo rende le azioni più veloci e intuitive. Anche in questo caso, l’aspetto più simpatico non sono comunque le tattiche di combattimento, ma l’impressione di essere lassù, con il casco e gli occhialoni, nell’azzardo dei venti. Il sogno ricorrente di volare, dicono, è tipico degli anni giovanili, come se il cervello avesse bisogno anche nel sonno di continui impulsi, di speranze rinnovate. Ma è bello pensare ogni tanto al volo anche in età più matura, per non perdere lo slancio. Il poeta Mario Luzi aveva settantun anni quando, nel volume Per il battesimo dei nostri frammenti (Garzanti 1985), imitò nei suoi versi la leggiadria di uno stormo di uccelli. Da secoli, da millenni prima che gli esseri umani pensassero anche solo alla possibilità di staccarsi da terra, già sognavano di «essere rondini» e di medicare così il peso dei loro pensieri. Ecco l’inizio della poesia: «Sgorgano / l’una dall’altra / esse, traboccano / fuori dal loro primo caldo gruppo, l’una / dopo l’altra, disfano / le loro rapide pattuglie / sbandando sotto la loro impavida veemenza / ed eccole si lanciano, / nero zampillo ricadente, / su, alte nell’aria…».

DIPINTO NEL DIPINTO – Nel dipinto «Vecchio Pescatore», mettendo uno specchio al centro del viso del pescatore, appaiono due volti, una... Resto della frase: …PERSONA CHE PREGA E IL DIAVOLO

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera

cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del

Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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ATTUALITÀ

Elezioni americane

L’attentato in Pennsylvania aiuta Trump nella corsa alla Casa Bianca, ma la speranza di fermarlo resta

Pagina 23

Focus sul Ruanda

Dopo le stragi degli anni Novanta il Paese si è sforzato di cancellare le divisioni e costruirsi un futuro

Pagina 27

Emergenza fentanyl

Il ruolo della Cina nella crisi dell’oppioide sintetico spacciato negli Usa da narcos sudamericani

Pagina 28

L’importanza dei contanti

La crescente diffusione di mezzi alternativi di pagamento fa temere la scomparsa del franco fisico

Pagina 29

Se la guerra comincia a stancare

L’analisi ◆ Un confronto fra gli obiettivi russi e quelli ucraini; il ruolo degli Stati Uniti e della Cina per arrivare a una tregua

Un fantasma si aggira tra gli europalazzi di Bruxelles. Il fantasma di Viktor Orbán. Il primo ministro e padre padrone della Repubblica di Ungheria ha sfidato il protocollo e le buone maniere comunitarie intestandosi, da presidente di turno dell’Unione Europea, una missione vertiginosa per tentare di aprire un dialogo tra i contendenti nella guerra d’Ucraina.

Orbán ha prima visitato semiclandestinamente Zelensky a Kiev, poi Putin al Cremlino, di lì dirigendosi verso Pechino per incontrare Xi Jinping e chiudere il cerchio a Washington (Biden) e soprattutto a Mar-aLago (Trump) per riportare all’alleato americano il senso della sua esplorazione. Orbán è abbastanza intelligente per capire che non spetta a lui negoziare la pace tra Russia e Ucraina. E sa anche che la trattativa non è per domani. Ciò premesso ha rivolto ai duellanti – Zelensky e Putin – una domanda cardine. Potete immaginare un cessate-il-fuoco a tempo limitato, per esempio due o quattro settimane, durante il quale avviare un negoziato

di pace? La risposta di entrambi è stata più o meno negativa. Zelensky e Putin litigano su tutto ma concordano su un punto che esclude l’ipotesi Orbán: non si fidano affatto l’uno dell’altro. Sia il leader ucraino sia quello russo hanno detto che sarebbero volentieri disponibili a cessare il fuoco, salvo che sono certi che l’avversario ne approfitterebbe per ricompattare le fila e passare all’attacco. Risposta abbastanza scontata ma che non è parsa a Orbán come un no definitivo.

La novità è la penetrazione di Pechino nello spazio europeo, di cui le recenti esercitazioni militari in Bielorussia sono sintomo fino a ieri impensabile

La missione del leader ungherese segnala comunque che da entrambe le parti si comincia ad agognare la sospensione del conflitto. Non una vera e propria pace, ma una tregua solida e di lungo periodo a condizioni tutte da determinare.

Zelensky si trova in una condizione estremamente critica: serie e continue perdite al fronte; esodo di popolazione verso Paesi vicini e lontani; malessere interno, per ora tenuto sotto controllo, ma che segnala come la sua leadership non sia più indiscussa. Mandato ormai scaduto, giustificato però con la legge marziale che impedisce di tenere regolari elezioni in un Paese parzialmente occupato. Soprattutto, Zelensky ha fissato i termini della vittoria secondo parametri ormai irrealistici. Il recupero totale dei territori persi nella guerra è evidente utopia.

Quanto a Putin, la dinamica bellica volge chiaramente in suo favore. Allo stesso tempo rischia di attrarre i russi troppo in profondità nel territorio ucraino, verso aree che forse potrebbe conquistare ma difficilmente tenere. Il paradosso dello scontro è che tecnicamente gli attuali confini di fatto tra Russia e Ucraina sono difendibili per entrambi. Le province prese, anche solo in parte, dalle truppe del Cremlino sono abitate quasi totalmente da russi o russofoni.

La popolazione di ceppo ucraino e di vocazione antirussa se n’è andata da tempo. Di conseguenza anche i territori di fatto sotto il controllo di Kiev sono molto più omogenei di quanto non fossero prima del 24 febbraio. Salvo la perdita continua di popolazione che non vuole andare al fronte e spesso lascia l’Ucraina. Ma la posta in gioco non è strettamente territoriale. Non per gli ucraini, meno ancora per i russi. Gli ucraini sanno che prima o poi dovranno rinunciare a un pezzo notevole del territorio che pertiene loro in base al diritto internazionale. Il vero obiettivo è l’ingresso nel sistema euroatlantico. Ciò che potrà avvenire forse in futuro a partire da quell’80 per cento di Repubblica Ucraina che dovrebbe restare sotto Kiev una volta sancita la pace (tregua).

Quanto a Putin, per lui la collocazione geopolitica dell’Ucraina è l’obiettivo strategico dell’invasione. Prima del 24 febbraio il Cremlino vedeva la penetrazione atlantica nell’Ucraina come sempre più pervasiva e minacciosa e la considerava pericolo esisten-

ziale. Putin ha già fatto capire di poter rinunciare a parte dei territori già annessi, peraltro non tutti controllati. In cambio però vuole la neutralizzazione dell’Ucraina. In una forma o in un’altra Kiev deve restare al di fuori dello spazio atlantico, mentre non ci sono più obiezioni alla sua adesione all’Unione europea (anche perché così i costi della ricostruzione sarebbero largamente pagati dai Ventisette). Su queste basi potrà trovarsi un compromesso? Molto dipenderà da Trump o chi per lui andrà alla Casa Bianca (leggi articoli alle pagine 23 e 25, ndr). Un ruolo importante però lo sta già giocando la Cina. La novità strategica di lungo periodo è infatti la penetrazione di Pechino nello spazio europeo, di cui le recenti esercitazioni militari in Bielorussia, in prossimità di Polonia e Ucraina, sono sintomo fino a ieri impensabile. Prima del 24 febbraio sapevamo che gli equilibri europei di sicurezza dipendevano essenzialmente da russi e americani. D’ora in poi nell’equazione dovremo integrare anche la Cina e forse altri Paesi asiatici.

Viktor Orbán (qui insieme a Zelensky)
si è intestato
una missione
vertiginosa per tentare di aprire un dialogo tra i contendenti nella guerra d’Ucraina. (Keystone)
Lucio Caracciolo

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Ancora una possibilità per i democratici

USA – 1 ◆ L’attentato in Pennsylvania aiuta un poco Trump nella corsa alla Casa Bianca,

Federico Rampini

A poco più di 100 giorni dal voto americano del 5 novembre, come valutare l’impatto dell’attentato a Donald Trump e della convention repubblicana a Milwaukee? L’impressione è di un beneficio netto per Trump, ma non bisogna precipitarsi a concludere – come alcuni stanno già facendo sia in America sia all’estero – che i giochi siano fatti e che lui abbia ormai la vittoria in tasca. È bene ricordare alcune ragioni di cautela. Le ultime elezioni presidenziali americane ci hanno restituito l’immagine di una Nazione spaccata in due; vittorie e sconfitte sono state spesso determinate da piccoli spostamenti percentuali, pochi voti hanno assegnato alcuni degli Stati «in bilico». Non sembra che l’America del 2024 sia veramente cambiata. Le due tribù che votano democratico e repubblicano diffidano l’una dell’altra, il giorno dell’elezione si mobilitano «contro» un avversario più che a sostegno del proprio candidato. Questo è più vero che mai nell’era Trump. La stragrande maggioranza dei democratici non si lascerebbe convincere per nessuna ragione al mondo a votare Trump, e viceversa

L’ultimo che riuscì a suscitare un vero entusiasmo in proprio favore fu Barack Obama, ma solo in occasione della sua prima elezione nel 2008; il «fenomeno Obama» si era già ridimensionato e normalizzato nella rielezione del 2012 quando vinse contro Mitt Romney. Se questa è la situazione, anche le ultime débacle di Joe Biden (disastrosa performance nel duello tv contro Trump; assedio da parte di tanti democratici che gli chiedono esplicitamente di ritirarsi) non hanno l’effetto di spostare tanti voti da una casella all’altra. La stragrande maggioranza degli elettori democratici non si lascerebbe convincere per nessuna ragione al mondo a votare Trump, e viceversa. Tutto ciò che i media raffigurano come tempeste, colpi di scena, shock, si traduce in movimenti elettorali modesti. A spostarsi forse saranno i pochi indecisi, una percentuale assai modesta. Può esserci un altro tipo di effetto elettorale, quello che si riflette nella mobilitazione della propria base. Per quanto gli elettori democratici non siano disponibili a passare al campo avverso, una piccola parte di loro potrebbe rinunciare a votare se il proprio candidato li deludesse. Le percentuali di affluenza alle urne possono variare, è proprio su questo che agì il fattore Obama nel 2008, quando aumentò la partecipazione elettorale dei giovani. Fatte queste riserve che escludono enormi spostamenti di voti e vittorie a «valanga», vengo all’attentato in Pennsylvania. In qualche limitata misura aiuta Trump. In diversi modi. Anzitutto c’è l’impatto durevo-

Trump ferito e, sotto, la famiglia di Obama dopo l’elezione del 2008. Barack Obama è stato l’ultimo presidente a suscitare un vero entusiasmo in proprio favore. (Keystone)

le dell’immagine «iconica» che ci accompagnerà fino al 5 novembre:

Trump colpito e ferito, con il viso sanguinante, che si rialza, tende il pugno verso la folla dei sostenitori, grida «combattete!» prima di seguire la scorta. Rimarrà come un episodio emblematico di un leader indomito, grintoso, che di fronte al pericolo ha dimostrato carattere, coraggio, presenza di spirito. È tanto più efficace in quanto il paragone viene fatto con un Biden che perde colpi, ha momenti d’incertezza e cali di lucidità. Oltretutto, notizia di giovedì scorso, ha contratto il Covid e ha dovuto sospendere la sua campagna elettorale.

Trump ferito rimarrà come un episodio emblematico di un leader grintoso che di fronte al pericolo ha dimostrato coraggio

Un secondo vantaggio si è avuto sulla convention repubblicana di Milwaukee. Poteva essere un evento di ordinaria amministrazione, la ratifica scontata della candidatura di Trump, con scarsa attenzione dell’opinione pubblica. Il fatto che la convention si sia aperta 48 ore dopo l’attentato ha regalato a quell’evento una visibilità enorme, quindi un momento di poderosa pubblicità per il partito repubblicano. I notabili del Grand Old Party si sono schierati a sostegno di Trump con un fervore e un entusiasmo moltiplicati dall’attentato, compresa quella Nikki Haley che lo aveva osteggiato fino all’ultimo.

Il terzo vantaggio è l’opportunità per la destra di «restituire» alla sinistra le accuse di istigazione alla violenza. Dopo l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 si era svolto un processo pubblico a senso unico, sui media progressisti sembrava che la violenza eversiva fosse un male esclusivo del trumpismo. Quel processo era abbastanza squilibrato perché cancellava la memoria di quanto accaduto nell’estate 2020, quando frange di estrema sinistra avevano dato l’assalto alle istituzioni e alle forze dell’ordine, avevano incendiato e saccheggiato i quartieri di alcune città, adducendo a pretesto l’antirazzismo e l’antifascismo. Però le violenze dell’estate 2020 erano state coperte da un’ampia indul-

genza, mentre l’orrore e lo sdegno per il 6 gennaio 2021 rimanevano. Dopo l’attentato a Trump la narrazione repubblicana è passata prevedibilmente alla controffensiva. È stata riesumata, ad esempio, una copertina del magazine progressista «The New Republic» dove Trump appariva come un nuovo Adolf Hitler. Un caso fra tanti, di equiparazione del candidato repubblicano ai peggiori dittatori della storia, despoti colpevoli di grandi crimini. Addirittura lo stesso Biden in passato aveva incitato i suoi sostenitori a mettere Trump «in the bullseye», termine che indica il centro del bersaglio usato nel tiro a segno. Linguaggio usato con leggerezza, del quale Biden ha dovuto scu-

sarsi in un’intervista successiva all’attentato. In ogni caso una parte della sinistra americana considera davvero Trump come un aspirante dittatore e un criminale: da qui a giudicare moralmente lecita la sua eliminazione fisica, il passo è breve. Delle menti fragili, in un Paese dove abbondano le armi da fuoco, possono essere sollecitate a passare all’azione. Lo scrittore Jonathan Safran Foer ha osservato, a proposito dell’attentato: «Un solo centimetro e il mondo sarebbe diverso». L’esercizio di fanta-politica merita di essere condotto fino in fondo. Quanti a sinistra avrebbero considerato l’attentatore un eroe, un difensore della democrazia, se davvero Trump è un nuovo Hitler? E quanti a destra avrebbero ricavato dalla morte di Trump un incitamento a difendersi con le armi, visto che la sinistra aveva dato il via alla guerra civile? Questo genere di analisi rimescolano le carte, impediscono di raffigurare l’America in modo manicheo dividendola tra buoni e cattivi, perché ognuno ha i suoi scheletri nell’armadio. Un segnale che l’attentato alla sua vita ha conquistato nuove simpatie a Trump viene dal mondo del capitalismo digitale. Elon Musk e altri imprenditori della Silicon Valley hanno deciso subito dopo il tragico evento in Pennsylvania (dove, non dimentichiamolo, è morto un vigile del fuoco) di annunciare delle donazioni per la campagna elettorale del repubblicano. Subito si è alzato un coro da sinistra per denunciare «il candidato dei miliardari». Anche in questo caso bisogna evitare le faziosità.

Dopo il tragico evento in Pennsylvania Elon Musk e altri imprenditori hanno annunciato delle donazioni per la campagna di Trump

Il capitalismo americano da molto tempo finanzia i democratici, assai più di quanto versi donazioni ai repubblicani. Non a caso nella propaganda trumpiana o di Robert Kennedy Jr la sinistra viene spesso dileggiata come «il partito di George Soros e Bill Gates». Comunque è falsa la leggenda che il denaro decida le elezioni: altrimenti nel 2016 avrebbe stravinto Hillary Clinton che aveva un tesoro di finanziamenti assai superiore al suo rivale. La scelta di campo di Musk e altri imprenditori della Silicon Valley non era inevitabile, è stata la risultante finale di un’esasperazione per gli eccessi della woke culture che in California ha sprigionato tutto il suo dogmatismo. In ogni caso, se Trump è in leggero vantaggio, la strada maestra per ribaltare i rapporti di forze è cambiare candidato in campo democratico. È ancora possibile, anche se il tempo comincia a scarseggiare. Andrebbe fatto prima della convention democratica di agosto.

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Trump e la guerra in Ucraina

USA – 2 ◆ Cosa succederebbe se a novembre venisse rieletto The Donald

La chance di Harris

USA – 3 ◆ La vicepresidente al posto di Biden?

Cristina Marconi

Trump non nutre grandi simpatie per l’Ucraina, mentre ha mostrato spesso apprezzamento per Putin. Ma resta la sua imprevedibilità. (Keystone)

«Se Donald Trump ha un piano di pace lo riveli ora, se dobbiamo perdere il nostro Stato, ci serve saperlo adesso»: l’esortazione di Volodymyr Zelensky al candidato repubblicano alla Casa Bianca, in una intervista di inizio luglio, ha ricordato che il 5 novembre 2024 è una scadenza cruciale, non soltanto per gli Stati Uniti, e a Kiev come a Mosca non nascondono di aspettare l’election day con notevole ansia. La vittoria di Trump sarebbe un terremoto di portata globale, e la sua promessa di «far finire in 24 ore la guerra» della Russia contro l’Ucraina preoccupa Kiev quanto i suoi alleati europei. E forse preoccupa perfino Vladimir Putin che qualche mese fa aveva confessato a sorpresa di preferire che alla Casa Bianca restasse il «più prevedibile» Joe Biden.

A giudicare dal suo mandato precedente, Donald Trump non è un politico che nutre grandi simpatie per l’Ucraina, mentre ha mostrato spesso apprezzamento per Putin. Il candidato repubblicano non riesce a perdonare a Zelensky l’Ukraine-gate, la telefonata che gli aveva fatto nel 2019 con la richiesta di incriminare per corruzione Hunter Biden, minacciando altrimenti di togliere gli aiuti militari a Kiev. Zelensky si era rifiutato e il ricatto, rivelato dai media, è costato al presidente repubblicano il tentativo di impeachment. Trump ha ripetuto spesso e volentieri il pregiudizio sull’Ucraina come «Paese corrotto», funzionale alla sua battaglia contro la leadership democratica: un’indagine su presunte tangenti contro il figlio di Biden che lavorava a Kiev era perfetta per la sua immagine di uomo che sfida il «deep State» di Washington. È stata la fazione dei trumpiani al Congresso a bloccare per mesi, all’inizio del 2024, l’invio di nuove armi alla resistenza ucraina, e il suo candidato alla vicepresidenza, J.D. Vance, ha mostrato esplicite simpatie filorusse e una altrettanto manifesta ostilità verso gli aiuti a Zelensky.

Premesse che fanno temere, o sperare, in base allo schieramento, e diversi esperti internazionali hanno visto nel tentativo di Putin di una nuova offensiva in Ucraina il desiderio di conquistare più territori prima dell’arrivo di Trump. È altrettanto probabile che tutta una serie di mosse strategiche degli alleati occidentali – dalla serie di accordi bilaterali

sull’assistenza militare stretti dai vari Paesi con Kiev, all’impegno di aiuto agli ucraini in ambito Nato – sia stato funzionale a minimizzare i rischi di un eventuale ritorno del repubblicano alla guida degli Usa. Mosse che sono probabilmente servite a rassicurare ucraini, ma anche molte capitali dell’Europa dell’est, e dopo il vertice dell’Alleanza atlantica a Washington Zelensky ha dichiarato di non temere un cambio di rotta degli Usa.

Il piano di pace in 24 ore

Del resto, con l’avvicinarsi delle elezioni e la risalita di Trump nei sondaggi, si passa dalle clamorose dichiarazioni elettorali alla politica. Mentre Viktor Orban ha intrapreso un tour diplomatico che l’ha portato da Kiev a Mosca e Pechino, per poi volare a Mar-a-Lago, in quello che molti esponenti dell’Unione europea hanno criticato come un esplicito tentativo di negoziare per conto di Trump, emissari repubblicani – secondo le indiscrezioni dei media americani – avrebbero già cominciato un dialogo con la Nato e i vari Governi occidentali. Il «piano di pace in 24 ore» di Trump rimane un segreto, anche se varie fughe di notizie lo riassumono come una doppia minaccia: a Putin di incrementare gli aiuti a Kiev se non si ferma, e a Zelensky di togliere gli aiuti se non accetta di piegarsi al dittatore russo. Il progetto di negoziato pubblicato da due esperti militari vicini a Trump, il generale Keith Kellogg e Fred Fleitz, rivela qualcosa di più: l’idea sarebbe «congelare» il conflitto lungo la linea del fronte esistente, e di cancellare la promessa di un ingresso dell’Ucraina nella Nato, garantendo invece la sua sicurezza da una nuova invasione russa con una serie di accordi, e con nuovi massicci aiuti militari. Non è chiaro se il piano prevedrebbe anche la concessione di territori ucraini occupati, anche se fonti vicine a Trump sostengono che vorrebbe consegnare a Putin la Crimea e le regioni di Donetsk e Luhansk. Piano che però, come avverte lo stesso Fleitz, è tutt’altro che definitivo: «Trump ha reagito positivamente al progetto, ma non arriverei a dire che l’ha approvato», ha detto a Reuters. Difficile immaginare un’America che accetterebbe il precedente di

un cambiamento dei confini di uno Stato con la forza militare, aprendo la strada a un effetto domino globale. Come la presidenza precedente del candidato repubblicano ha già dimostrato, i proclami elettorali sono molto lontani dalla politica reale: anche nel 2016 The Donald prometteva di risolvere tutti i problemi con Putin in un incontro, finendo per diventare il presidente americano che ha imposto più sanzioni alla Russia, arrivando anche a un filo dallo scontro con i militari russi in Siria. Il motivo è molto semplice: per quanto isolazionista e simpatizzante dei «valori tradizionali», il gruppo dirigente trumpiano è consapevole che Putin ha fatto dell’antiamericanismo il perno della sua ideologia, e che cedere a lui pezzi di Ucraina significherebbe, per dirla con Zelensky, «diventare un presidente perdente». Anche le eventuali pressioni degli alleati europei di Trump non significano necessariamente un’alleanza a favore della Russia e contro l’Ucraina: gli Usa non hanno a Mosca interessi economici cospicui né dipendono dal suo gas, e ovviamente non condividono la retorica antiamericana che ispira le critiche agli aiuti per Kiev di molte destre (e sinistre) europee. Infine un rafforzamento di Putin significherebbe anche un rafforzamento dello schieramento del «Sud globale» a guida cinese: e se il primo, visto da Washington, potrebbe essere una sconfitta tattica, la seconda sarebbe strategica.

Turbolenze diplomatiche

Il vero rischio di una presidenza Trump non è dunque tanto quello di «giocare con la vita del popolo ucraino» negandogli gli aiuti, come teme Zelensky, quanto l’ingresso, da gennaio 2025, in una fase di turbolenza diplomatica. Il tratto e il metodo di Trump, come nota perfino Putin, è l’imprevedibilità, e la sua agenda è guidata da aspirazioni e risentimenti soprattutto interni all’America. Più che sacrificare l’Ucraina, e con essa la sicurezza europea, la Casa Bianca repubblicana potrebbe relegarla in fondo alla lista delle sue priorità. È quasi certo che non riuscirebbe a farlo per molto tempo, ma anche pochi mesi basterebbero per produrre effetti pesantissimi, non solo per gli ucraini.

C’è qualcosa di fresco in Kamala Harris (nella foto in basso). Come se fosse stata appena scoperta. Magari l’essere stata tenuta così in disparte, lontana dai riflettori da un’amministrazione che, secondo lei, negli anni non ha fatto nulla per valorizzarla, si rivelerà un vantaggio per la vicepresidente degli Stati Uniti. Ora che la situazione sembra precipitare per i democratici –dopo l’attentato a Donald Trump, il ticket con l’inquietante, energico J. D. Vance e i dubbi sulla lucidità e la salute di Joe Biden – la stampa ha preso a interessarsi a lei. A chiedersi se davvero questa donna di quasi sessant’anni, ex procuratrice della California, con mamma di origine indiana e padre giamaicano, sia solo una figura bidimensionale scelta per accontentare le minoranze, e non quello che tutto il resto del suo curriculum suggerisce, ossia una persona capace, intelligente, preparata e pugnace, anche se – e su questo solo il tempo saprà dirlo – forse meno versata nell’arte di fare di ogni situazione un’opportunità. Intanto la sua linea sta vincendo: Kamala Harris «non solo è una fantastica vicepresidente, ma potrebbe essere presidente», ha riconosciuto Biden (che starebbe valutando il da farsi dopo aver contratto il Covid), dando seguito alla dichiarazione cavalleresca e un po’ paternalistica del maggio scorso: «Il mio nome è Joe Biden. Lavoro per Kamala Harris. Le ho chiesto di essere la mia vicepresidente perché avevo bisogno di qualcuno di più intelligente di me». I repubblicani la odiano e ne hanno fatto il bersaglio di critiche, battute sul fatto che votando Biden si rischia di ritrovarsi lei alla Casa Bianca. Anche Nikki Haley, l’ex rivale di Trump, e la moglie di Vance sono di origine indiana, a riprova che la questione razziale inizia a funzionare a intermittenza in un mondo sempre più multietnico. La vera aggravante nel caso di Harris, nell’inconscio dei trumpiani, è che è una giurista e quindi rappresenta quell’odiato sistema che da anni perseguita il loro pupillo e che, soprattutto, ha una posizione netta sull’aborto e sulla libertà di scelta delle donne. Ma anche da sinistra in molti sono perplessi sul fatto che una donna appartenente a una minoranza etnica possa ottenere i voti necessari in un Paese che ha fatto fatica ad accettare Hillary Clinton. Nonostante la serie infinita di nomi che sono stati fatti nelle ultime settimane come alternativa a Biden, Harris si sta comportando con esemplare fair play, mostrandosi salda e stabile, leale al suo capo e decisa, anche nelle interviste, a non fare passi falsi. Ogni tentativo di tirarle fuori una dichiarazione fuori luogo sta fallendo, ma si stanno moltiplicando gli articoli in cui si cerca di guardarla più da vicino,

nel caso fosse un altro di quei casi di politica che non è stata vista arrivare. La stampa si interroga, per capire se qualcosa ci sia sfuggito di questa vicepresidente tutta giusta da un punto di vista simbolico e così inefficace nei suoi primi passi, quando rilasciava interviste catastrofiche e le sue dichiarazioni venivano definite «macedonie di parole». La si accusava di alterigia, ha avuto due anni deboli, poi tutto a un tratto si è svegliata. Sulla giustizia riproduttiva si è fatta sentire. Non ha paura di parlare di aborto, sebbene nel contesto più ovattato della salute delle donne e di sostegno alle famiglie. E quando la storica sentenza Roe vs Wade è stata annullata nel 2022, ha tuonato: «Come osano dire a una donna quello che deve fare con il suo corpo?». Lo stesso Biden sembra aver scelto di valorizzare la sua vice, in un momento di grande difficoltà. Certo, ultimamente l’ha chiamata «vicepresident Trump», ma il lapsus rispetto a quanto fatto nel dibattito televisivo è apparso tutto sommato trascurabile. Intorno a lui si punta a nominarlo ufficialmente in tempi rapidi, in modo da far tacere le voci che, dai donatori hollywoodiani fino alla base, hanno chiesto al presidente di passare il testimone a qualcun altro, più giovane e in forma. Intanto la figura di lei sta assumendo risalto, andando a dare un po’ di sostanza al fatto che nessun vicepresidente americano sia mai stato in teoria così vicino alla presidenza. A lei è legata una base di donne, famiglie, minoranze etniche, persone più a sinistra del presidente, gente che sulle armi vorrebbe un intervento più deciso, e non la si può rimuovere senza irritare questa base. Anche i giovani democratici che sono più sensibili alla crisi in Medio Oriente e alla situazione drammatica di Gaza la apprezzano, anche se lei sostiene che ci sia una differenza di tono, più che di sostanza, rispetto alla linea di Biden. I giovani «stanno mostrando quella che dovrebbe essere un’emozione umana», ha detto, precisando di respingere comunque molte delle cose che vengono dette durante le manifestazioni. La principale accusa nei suoi confronti è di non avere istinto politico. Sull’immigrazione, per esempio, non ha potuto fare granché anche perché Biden non ha dato priorità alla cosa, pur lasciando a lei il dossier nominalmente. E il fatto che sia stata tenuta fuori dal team Biden le dà una buona carta: può sempre dire che lei avrebbe voluto fare altrimenti. Nei sondaggi non va male, è al 42% e sta risalendo. Anche l’attendismo potrebbe essere un asset forte: un altro attendista con una mente giuridica, Keir Starmer, ha appena vinto le elezioni del Regno Unito usando l’antichissima tecnica di farsi sottovalutare fino a raggiungere l’obiettivo.

Primo soccorso per denti sensibili

I dolori dovuti ai denti sensibili possono rovinare il piacere di gustare bevande calde o gelati. Una migliore igiene orale e dentifrici speciali possono prevenire e alleviare il problema.

Basta un sorso di caffè caldo o un gelato in una giornata estiva per avvertire subito una sensazione di dolore lancinante ai denti. Ed ecco rovinato rapidamente il piacere di assaporare quella bevanda o quel cibo. Il mal di denti, descritto come breve e acuto, è tipico delle persone con denti sensibili. Questa reazione si verifica quando la dentina, che si trova sotto lo smalto, viene esposta agli agenti esterni. Tale situazione può essere causata dalla recessione gengivale o dall’erosione dello smalto.

Che fare in caso di colletti dentali scoperti?

Per la prevenzione dei colletti dentali scoperti è importante una corretta igiene orale: chi spazzola i propri denti in modo troppo energico può danneggiare il tessuto con l’eccessiva pressione e, con il tempo, esporre i colletti dentali agli agenti esterni. Tuttavia, se si riconosce e si corregge la tecnica di

spazzolamento dei denti, talvolta è ancora possibile rimediare al danno fatto: occorre effettuare dei delicati movimenti circolari con lo spazzolino invece di strofinare con forza.

Un aiuto efficace per denti sensibili

Anche dentifrici speciali come Sensodyne possono essere d’aiuto: questi formano uno strato protettivo sulle aree esposte e contengono fluoruro stannoso, che chiude i canaletti che portano al nervo del dente. In questo modo si arresta il dolore e, allo stesso tempo, si protegge il dente dalla carie.

Sensodyne

Ruanda, una realtà costruita sul perdono

Reportage ◆ Dopo le stragi degli anni ’90 il Paese si è sforzato di cancellare le divisioni etniche e guarda con speranza al futuro

Secondo una tradizione dell’antico regno africano del Ruanda, chiunque fosse stato in grado di toccare il palo che reggeva l’ingresso della capanna del re, su regale concessione o anche solo con astuzia, aveva diritto al perdono incondizionato per qualsiasi colpa avesse commesso. Oggi una ricostruzione di quella capanna, fatta di paglia intrecciata e protetta dalle inyambo, vacche sacre dalle immense corna e dal latte pregiato, è conservata nella vecchia capitale di Nyanza, circa 90 chilometri a sud dall’attuale capitale ruandese, Kigali. La parola «perdono» è forse una chiave per cercare di capire oggi un Paese minuscolo, esteso poco più della Lombardia, al centro di un Continente sconfinato nella regione dei grandi laghi, a 75 miglia a sud dell’equatore. La società ruandese oggi è costruita sul perdono.

Nel 1994 il Paese fu dilaniato da un genocidio che colpì la minoranza tutsi operato dall’etnia maggioritaria, gli hutu

Nel 1994 il Paese fu dilaniato da un genocidio che colpì la minoranza etnica tutsi operato dall’etnia maggioritaria, gli hutu. Fu messo in atto un piano di sterminio covato per anni e che venne portato a termine, con una crudeltà inimmaginabile, da milizie paramilitari, ma anche da gente comune indottrinata all’odio. La comunità internazionale non seppe, o non volle, reagire. I massacri del ’94 durarono 100 interminabili giorni, causando circa 800mila morti e si conclusero con il collasso della società ruandese e la fine del gruppo di potere che aveva architettato le stragi. Gli oppositori di quel regime, capitanati dall’attuale presidente del Paese Paul Kagame, vinsero la guerra civile e si avviò una lenta e non facile ricostruzione dello Stato dalle fondamenta. Un passo importante è stato quello di cercare di perseguire i mandanti dei massacri, ma anche di perdonare tanti esecutori materiali degli eccidi che furono spinti a uccidere dalle minacce, dalla logica del branco e dall’idea di doversi difendere a tutti i costi da un fantomatico nemico che la propaganda martellante indicava come «gli scarafaggi».

Oggi il Ruanda è pacifico e straordinariamente sicuro per gli stranieri, anche se nel vicino Congo i conflitti non si sono mai placati e sono in parte ancora la conseguenza dei fatti del ’94. Il Paese si è sforzato di cancellare ogni divisione etnica, perseguendo una forte visione comune basata su un patriottismo unitario e senza odi settari. Ma forse il perdono è qualcosa che anche il visitatore europeo deve essere spinto a chiedere. Il Ruanda fu l’ultimo angolo d’Africa a resistere alle mire coloniali dell’era degli imperi. L’avventuriero senza scrupoli Henry Morton Stanley nel 1857 cercò di esplorarlo e venne respinto dalle frecce, ma un inviato del kaiser tedesco, il conte Von Götzen, riuscì anni dopo a essere accolto amichevolmente, gettando le basi di una relazione con la Germania che di fatto soggiogò quel piccolo regno rimasto per secoli sconosciuto al mondo. Ne seguì uno sfruttamento brutale del territorio. Gli europei saccheggiarono legname e risorse e importarono i propri conflitti. In Ruanda fu combattuta anche una triste replica della prima guerra mondiale. Belgi e tedeschi si con-

frontarono sulle rive dal lago Kivu. I belgi, che già controllavano il Congo, si appropriarono del Ruanda e applicando il vecchio sistema romano del «divide et impera»: resero istituzionale la divisione tra hutu e tutsi, generando odi etnici che nei decenni si sono acuiti, scatenando, dopo la fine del dominio coloniale, scontri periodici e rappresaglie culminate con l’apocalisse del 1994.

La visita in Ruanda per questo non può non iniziare che dal Memoriale del genocidio di Kigali. Nella lingua locale kinyarwanda la parola è «kwibuka» («ricordati»), lo slogan scelto per una serie di iniziative che scandiscono il trentennale dalle stragi. Va difesa la memoria di quello che è stato, ribadita l’intenzione di non ripetere il passato e di proteggere quello che si è riuscito a costruire in questi tre decenni, anche attraverso un perdono che sembrava impossibile. Il memoriale di Kigali non solo racconta in immagini la storia di quello che accadde, ma custodisce anche i resti di decine di miglia di persone. Il visitatore è portato a interrogarsi e a chiedersi perché la storia e l’uomo sembrino incapaci di liberarsi dall’odio e dall’orrore. Forse la soluzione sta proprio nella parola «perdono».

Ma pensare al Ruanda solo come luogo di sofferenza è un altro errore di cui rischiamo di doverci pentire. Alla fine della primavera si conclude la stagione delle piogge che lascia

dietro di sé un paesaggio di un verde quasi incantato, il Paese è in gran parte collinare, i boschi si alternano a rigogliose coltivazioni di tè, patate, cassava, caffè, riso, grano, fiori, canna da zucchero. Circa il 70% della popolazione è impiegata nell’agricoltura che compone un terzo del prodotto interno lordo, garantendo anche un buon margine per le esportazioni. Il vivacissimo mercato popolare della capitale nel quartiere Kimironko è una splendida vetrina di questa ricchezza, frutto del generosissimo terreno vulcanico che garantisce più raccolti all’anno e la sussistenza anche dei villaggi più remoti. Kigali però è una città che guarda alla modernità e che poco ha in comune con il minaccioso caos di altre capitali africane come Nairobi, Dakar o Lagos. Il centro direzionale della città dove sorgono l’aeroporto, un convention center, gli hotel internazionali e i palazzi istituzionali, farebbe invidia quanto a ordine, pulizia e fluidità del traffico a diverse grandi città europee. La capitale non ha subito il processo di alcune grandi città africane (e anche dell’Asia) che alcuni sociologi hanno definito «clochardizzazione di massa». Da quando è tornata la pace, non c’è stato quel movimento migratorio dalle campagne alle città che ha creato immense baraccopoli e intere fasce di popolazione che vivono in condizioni di grave emarginazione. Il Ruan-

da ha cercato risorse per sostenere lo sviluppo, raccogliendo tanti capitali dall’estero. Oggi il partner principale è la Cina che nel 2022 ha investito più di 180 milioni di dollari nel Paese e sta diventando non solo il maggior referente commerciale, ma anche il maggior contractor per le opere pubbliche. In cantiere ci sono grandi progetti come un aeroporto internazionale nel distretto di Bugesera a sud di Kigali, una nuova smart city, un parco tecnologico e un nuovo stadio all’interno della capitale e diversi progetti energetici per sfruttare i bacini idroelettrici e i depositi di gas del lago Kivu. Il Governo ha puntato però molto sul turismo, anche con una incisiva campagna promozionale internazionale con il motto «Visit Rwanda», potendo contare su un’altra ricchezza unica: i parchi nazionali. Nel 2023 un milione e 400mila turisti sono arrivati nel Paese, la speranza è di raggiungere i due milioni, un obiettivo quasi raggiunto prima della pandemia.

L’attrazione principale del paese è il Volcanoes National Park, uno dei pochi lasciti positivi del colonialismo, che fa parte del complesso dei Monti Virunga, un territorio unico nel pianeta dominato da cinque cime vulcaniche che è al confine tra Ruanda, Congo e Uganda. L’area è celebre soprattutto per essere l’unico habitat al mondo in cui vive il gorilla di montagna, il più grande primate del pianeta e uno dei nostri più vicini parenti nel regno animale. Secondo le più recenti stime ne sopravvivono in natura poco più di mille, un numero assai esiguo, ma per fortuna in costante crescita. Anche la loro esistenza fu minacciata dai fatti di trent’anni fa. Le pendici dei monti Virunga furono dapprima terreno di scontro della guerra civile tra esercito governativo ed esuli tutsi poi, nell’estate del 1994, divennero una delle vie di fuga di centinaia di migliaia di profughi hutu che scapparono verso il Congo e l’Uganda temendo una rappresaglia per quello che era accaduto. Le aree protette vennero devastate e il parco poté riaprire solo nel 1999. Entrare in contatto con i gorilla oggi è estremamente facile e per nulla rischioso (se si rispettano le regole

che vengono ben illustrate dai guardia parco), ma è molto costoso, ci sono solo una decina di famiglie che sono abituate al contatto con i turisti e possono incontrare un massimo di dieci persone per giorno. Il permesso per poter avere questa esperienza costa 1500 dollari e nella stagione turistica la prenotazione con largo anticipo è necessaria. Ma il parco consente altre esperienze assai meno onerose e altrettanto uniche. Si possono intraprendere escursioni di varia difficoltà come quella, impegnativa, in cima al monte Bisoke o quella, semplicissima, per vedere da vicino un’altra specie di primati rarissima e unica di queste terre, la «golden monkey», l’innocuo e coloratissimo cercopiteco dorato ghiotto di bambù. È davvero turismo sostenibile. L’afflusso di visitatori che di solito fanno base a Musanze, la città ai piedi dei monti, consente non solo che l’accoglienza diventi assai più redditizia di ogni forma di bracconaggio, ma incentiva programmi di conservazione e sostiene i progetti di espansione del parco. Il secondo parco nazionale più visitato è quello a est, l’Akagera National Park ai confini con la Tanzania che promette un più tradizionale safari africano. Qui si possono vedere i cosiddetti «big five» cioè i cinque grandi animali della savana: leone, leopardo, rinoceronte, elefante e bufalo. Ma se con i gorilla e i primati del Volcanoes National Park il contatto è diretto, qui, inevitabilmente, l’incontro avviene attraverso il finestrino di un fuoristrada. Alla fine in Ruanda l’avventura è più nelle emozioni che negli imprevisti. Le dimensioni ridotte del Paese e una rete di strade non estesissima, ma ben asfaltata, permettono di viaggiare in sicurezza e in tempi sempre ragionevoli.

Il Ruanda fu l’ultimo angolo d’Africa a resistere alle mire coloniali.

La Germania soggiogò quel piccolo regno

La disciplina degli automobilisti è invidiabile e i limiti di velocità sono rispettati e fatti rispettare. Gli hotel sono numerosi e confortevoli anche per chi ha un budget ridotto. La cucina forse richiede un po’ di adattamento, come i tempi d’attesa nei ristoranti che difficilmente scendono sotto l’ora. L’anno prossimo il Paese ospiterà il Campionato Mondiale di ciclismo su strada, che per la prima volta verrà svolto in terra africana. Un ulteriore segno di apertura e di volontà di stare sotto i riflettori del mondo. Le testate giornalistiche ruandesi ogni giorno comunicano progressi che suscitano una certa invidia: successi in campo sanitario, ambientale ed economico. Non è in realtà oro tutto quello che luccica. Le relazioni politiche con i confinanti Congo e del Burundi rimangono problematiche, il Governo ruandese è accusato da più parti di aver zittito ogni opposizione, di armare le milizie che combattono a est del confine e di sottrarre le ricchezze minerarie congolesi. La classe media cresce, ma milioni di persone hanno solo lo stretto necessario per vivere. Ma la speranza è che una popolazione giovane, cresciuta con la consapevolezza dell’importanza della memoria e della necessità del perdono, possa riscrivere, con le proprie regole e una volta e per sempre, la storia di questo angolo d’Africa.

Istantanea da Ruhengeri, Parco del Virunga; sotto la capitale Kigali. (Cammarata)

Di tutte le crisi sanitarie che ha avuto l’America, non c’è niente che stia uccidendo più americani tra i diciotto e i quarantanove anni del fentanyl. Una media di quasi trecento persone al giorno, sul territorio degli Stati Uniti, muore per effetto di overdose o di tossicodipendenza dal potentissimo oppioide sintetico: la crisi si sta allargando anche al Canada e al Messico, e minaccia lentamente anche l’Europa. Il fentanyl ha iniziato a circolare massicciamente alla fine degli anni Novanta, quando è stato perfezionato per la terapia del dolore nelle cure palliative, solo che poi funzionava talmente bene che ha cominciato a essere prescritto un po’ per tutto, dalle distorsioni al recupero dopo interventi chirurgici maggiori.

Una media di quasi 300 persone al giorno, sul territorio degli Usa, muore per effetto di overdose o tossicodipendenza dall’oppioide sintetico

In passato in molti, in America, hanno dato la colpa dell’epidemia di fentanyl attuale soprattutto ai medici americani, incapaci di prevedere le possibili conseguenze della prescrizione di un potente antidolorifico, che dà dipendenza nella maggior parte dei casi, anche a ragazzini. Quando le prescrizioni del medico terminavano, le persone hanno iniziato a rivolgersi al mercato nero e agli spacciatori per continuare le somministrazioni: nel giro di poco il fentanyl è diventato una delle droghe più richieste, aumentando esponenzialmente il giro d’affari degli oppioidi.

Ci sono state sentenze contro medici che prescrivevano con facilità l’antidolorifico, in cambio magari di incentivi economici illegali delle case farmaceutiche (il caso della Insys Therapeutics è stato anche oggetto di un film diretto nel 2023 da David Yates, Pain Hustlers), ma già da qualche anno il problema è diventato talmente urgente da essere una priorità della

politica americana. Nel 2017 era stato l’ex presidente Donald Trump il primo a «dichiarare guerra» al fentanyl, ma al di là degli annunci, i risultati sono sempre stati scarsi: i numeri dei morti per overdose da oppioidi sintetici in America non hanno fatto altro che aumentare, con un picco tra il 2019 e il 2022. Poco meno di un anno fa l’Amministrazione Biden ha deciso di mettere in piedi una gigantesca operazione per fermare il flusso di fentanyl, dichiarata nel frattempo un’emergenza e una minaccia alla sicurezza nazionale, attraverso il rafforzamento dei controlli ai confini, la cooperazione internazionale anche con diversi Paesi europei e soprattutto tramite una sofisticata strategia diplomatica. Perché, se a spacciare sulle strade americane sono i più noti cartelli della droga sudamericani, fra Messico e Colombia, secondo diverse agenzie d’intelligence americane a fornire alle fabbriche illegali i componenti con cui «cucinare» il

fentanyl sarebbe la Repubblica popolare cinese, che è quindi diventata centrale nella guerra contro la diffusione illegale dell’oppioide. La droga, nel giro di pochissimo, si è trasformata in uno dei temi più complessi da affrontare fra Washington e Pechino. Il sospetto che ci fosse anche la Cina dietro al mercato illegale della droga sintetica c’era sempre stato, ma la capacità della leadership cinese di tenere sotto controllo anche i suoi boss dell’illegalità, e in qualche modo autorizzare indirettamente anche attività illegali di questo tipo, era rimasto sempre e solo un sospetto. Fino a qualche mese fa. Nell’aprile scorso, dopo un’indagine durata mesi, il comitato ristretto della Camera americana sulla competizione strategica tra gli Stati Uniti e il Partito comunista cinese ha pubblicato un report di cui si è discusso molto, e che rivela per la prima volta che la leadership cinese ha in effetti un ruolo nella mortale epidemia di

fentanyl. «La Cina è la principale fonte geografica della crisi del fentanyl», si legge nel report. «Le aziende cinesi producono quasi tutti i precursori illeciti del fentanyl, gli ingredienti chiave che guidano il commercio illecito globale», e sarebbero proprio queste aziende ad aver beneficiato di sovvenzioni e incentivi da parte del Governo cinese, ma non solo: «Ci sono anche esempi di alcune di queste aziende che hanno goduto di visite in loco da parte di funzionari governativi provinciali della Repubblica popolare che si sono complimentati con loro per il loro impatto sull’economia provinciale». Insomma, non solo la Cina aiuta e promuove le aziende che trafficano illegalmente con i precursori delle droghe sintetiche, ma collabora sempre meno con il resto del mondo per tentare di fermarne il commercio internazionale attraverso canali illegali e il dark web. È anche per questo che nel novembre scorso, quando per la prima

volta dopo un anno si incontrarono in California il presidente americano Joe Biden e il leader cinese Xi Jinping, uno degli argomenti chiave in discussione tra i due era proprio la guerra al fentanyl. A distanza di otto mesi da quell’incontro, sembra che la Cina stia iniziando a fare dei passi concreti verso la collaborazione con l’America sull’emergenza: la scorsa settimana il «Wall Street Journal» ha scritto che negli ultimi mesi le autorità cinesi «hanno silenziosamente bloccato alcuni venditori di precursori chimici utilizzati dai cartelli messicani per produrre il fentanyl, e dicono di stare per imporre le nuove normative restrittive su tre ulteriori sostanze chimiche».

Non solo: sulla base di informazioni d’intelligence condivise con l’America, la Cina il mese scorso ha collaborato a una indagine transnazionale che ha colpito una complessa partnership tra il cartello messicano Sinaloa e un sistema di riciclaggio di denaro cinese. Ma naturalmente il problema è che questo equilibrio di cooperazione fra America e Cina potrebbe fermarsi in qualsiasi momento, dicono gli esperti, soprattutto in caso di criticità politiche o come ricatto da parte di Pechino. Anche secondo media statali cinesi come il «Global Times», la crisi del fentanyl diventa un problema politico: l’America non si fida di noi e ci accusa di continuo. Secondo Andreas Kluth, editorialista di Bloomberg che si occupa di sicurezza americana, se c’è qualcuno che sa quanto droghe e narcotici possano essere usati come un’arma geopolitica, sono i cinesi: «Nel Diciannovesimo secolo la Gran Bretagna vendeva alla Cina l’oppio coltivato in India per finanziare le importazioni di tè cinese nell’Impero britannico. Quando i cinesi cercarono di fermare questo sordido commercio che stava facendo ammalare e corrompendo il paese, gli inglesi attaccarono la Cina». Era il 1839, la prima guerra dell’oppio e l’inizio di quello che i cinesi chiamano il loro «secolo di umiliazione» da parte dell’occidente, un’eredità che Xi si è impegnato a riscattare.

Un agente della polizia di Portland e una persona collassata a causa del fentanyl. (Keystone)

L’importanza del denaro contante

Svizzera ◆ La crescente diffusione di mezzi alternativi di pagamento fa temere la scomparsa del franco fisico, ma c’è

Ignazio Bonoli

Fin dall’antichità il denaro ha avuto principalmente due funzioni: quella di misura del valore di un bene (per lo scambio) e quella di tesaurizzazione (o risparmio). Non è difficile vedere come questa seconda funzione sia ormai quasi scomparsa a causa dell’inflazione, che ne diminuisce il valore reale, o a causa delle svalutazioni (volute o anche non volute). In questo contesto il franco svizzero ha però sempre avuto un ruolo particolare, che gli ha fatto spesso rivestire la funzione di bene rifugio durante le molte crisi valutarie che si sono succedute. Questa solidità (anche sul piano interno, dal momento che l’inflazione in Svizzera è generalmente inferiore a quella di altri Paesi) ha fatto sì che il franco godesse di un costante prestigio anche come moneta concreta. Vi sono stati perfino momenti in cui il contenuto in argento del 5 franchi, o anche del 2 franchi, comportasse in valore più argento del valore nominale della moneta.

Questi accenni possono contribuire a capire perché, anche ai giorni nostri, dove ormai imperano modi di pagamento ben diversi dal versamento di monete contanti, il Consiglio federale e la Banca nazionale (BN) sottolineino in ogni occasione l’importanza di mantenere il tradizionale pagamento in contanti. È però evidente come, anche negli affari privati, il contante stia sempre più perdendo d’importanza. Anche la pandemia ha contribuito

a questa tendenza: lo scambio di monete rappresenta un potenziale modo di diffondere l’infezione.

Secondo un’indagine dello Swiss Payment Monitor dell’Università di San Gallo, la quota di pagamenti contanti per persona privata, per acquisti in negozi fisici, è scesa dal 52% del 1919 al 29% verso la fine del 2023. Anche le indagini regolari della BN mostrano una diminuzione che va dal 70% del 2017 al 36% del 2022. Nonostante questo il denaro contante sembra conservare un certo fascino come mezzo di conservazione di valore. Chi non ha (o non ha più dopo certi scossoni) completamente fiducia nelle banche, tiene sempre da parte un po’ di contante per i casi di bisogno. Statisticamente però è provato che, per tutte le transazioni che caratterizzano l’economia svizzera, l’uso del contante è fortemente e costantemente diminuito. Dopo il record del 1940 (ma eravamo agli inizi della seconda guerra mondiale), la circolazione di banconote in Svizzera è diminuita di circa il 25%, fissandosi negli anni 2000 al 7% del totale della circolazione totale di moneta. Ma, dopo la crisi finanziaria del 2008-2009, la tendenza è bruscamente cambiata e si è visto un aumento al 10% del totale delle transazioni. Si stima che la metà di questa circolazione sia dovuta alle banconote da 1000 franchi, cioè quelle che meglio si prestano alla tesaurizzazione. Il popolo svizzero sarà però an-

cora chiamato a dire la sua su questo tema. Sono infatti state lanciate due iniziative popolari che chiedono una modifica della Costituzione federale. Una è opera del gruppo che aveva già promosso l’iniziativa «Per la libertà e l’integrità fisica», poi bocciata con il 74 di voti contrari. L’iniziativa «Il denaro contante è libertà» è riuscita in quanto ha raccolto quasi 137’000 firme valide. Chiede due cose: la Confederazione deve sempre mettere a disposizione un numero sufficiente di monete e banconote; l’eventuale sostituzione del franco svizzero con un’altra valuta deve avere l’approvazione del Popolo e dei Cantoni.

Secondo gli ambienti governativi l’iniziativa sfonda porte aperte poiché questi principi sono già contemplati nelle leggi. Il Consiglio federale sarebbe però d’accordo di inserirli anche nella Costituzione. E propone un controprogetto che precisa che la valuta svizzera è il franco e che la Banca nazionale garantisce l’approvvigionamento in denaro contante. Gli iniziativisti non sono però soddisfatti. Vorrebbero che si dicesse «franco svizzero» e si precisasse meglio un eventuale cambio di valuta. Problemi che si risolverebbero da sé con l’apposito articolo costituzionale. Ma non basta, per cui ecco una seconda iniziativa dello stesso proponente («Chi vuole pagare in contanti deve poterlo fare!»). Essa chiede che nel commercio

al dettaglio e in altri punti di vendita, anche automatici, si possa sempre usare denaro contante. Sembra una banalità ma sta sollevando problemi. Già nel 2022 il Consiglio nazionale aveva respinto una mozione UDC che istituiva l’obbligo di accettare sempre denaro contante. Si possono però vedere talvolta indicazioni come «Non si accettano contanti». Il problema si risolve generalmente con un accordo fra le parti. Ma la seconda iniziativa si estende anche a prescrizioni come l’accessibilità alle banconote (per es. un distributore ogni tanti Km o minuti a piedi). Sembra che la raccolta di firme per questa iniziativa abbia un buon riscontro. Dal canto suo il Con-

siglio federale in un rapporto constata «una spirale negativa» di crescenti limitazioni nell’accettazione del contante, specie nei Paesi del Nord, mentre in Svizzera la situazione è diversa. Secondo l’abituale indagine della Banca nazionale, nel 2023 oltre il 90% dei punti di vendita accettava contanti. Per favorire il cliente, per la fiducia, i tempi di calcolazione e i costi. È comunque singolare constatare – come fa sempre uno studio dell’Università di San Gallo – che il pagamento contante, tenuto conto dei costi globali per transazione e dell’ammontare della somma, genera più costi di un pagamento per esempio con carta di debito o credito.

Suggerimento di presentazione
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chi non ci sta

CONSIGLI

Calabroni

I calabroni continuano ad avere una cattiva reputazione nonostante siano insetti rari e pacifici. Crescono fino a quattro centimetri e hanno un corpo lanuginoso. Questi insetti ci lasciano in pace se non li disturbiamo.

Prevenzione:

tieni le distanze dai nidi di calabrone e non coprirne le aperture. Non cercare di colpirli. I calabroni sono attratti dai colori scuri ed è quindi meglio indossare abiti chiari.

Trattamento:

la puntura di calabrone può causare gonfiore, prurito e arrossamenti su un’area di circa dieci centimetri. In questo caso è utile raffreddare la zona colpita con ghiaccio, gel o roll-on.

Cos’è questoronzio insistente?

Gli insetti svolgono un ruolo importante in natura, ma in estate possono essere pure molto fastidiosi quando pungono.

Ti spieghiamo come riconoscerli e come prevenire o curare le punture

Testo: Edita Diznar

Zanzare

Solo le femmine pungono. A differenza dei maschi che si nutrono di linfa, le zanzare femmine hanno bisogno di succhiare sangue dagli esseri umani o dagli animali ogni tre o quattro giorni per produrre le uova. Le zanzare reagiscono al CO2 che respiriamo, al sudore, ai colori scuri, a determinati gruppi sanguigni e all’odore del corpo.

Prevenzione: usa uno spray contro le zanzare e indossa se possibile indumenti chiari, lunghi e larghi.

Trattamento: la puntura di zanzara scompare in genere spontaneamente. Non grattarti, altrimenti la saliva della zanzara si diffonde e puoi causare ancora più prurito e infiammazioni. Raffredda la parte punta con ghiaccio, gel o roll-on. È utile anche la matita termica in quanto scompone le proteine della saliva delle zanzare che causano il prurito.

Api

Le api si nutrono di linfa e nettare garantendo così l’impollinazione di molte delle nostre colture. Questo è fondamentale per l’ecosistema e per la nostra sopravvivenza. Questi piccoli insetti pelosi e tondeggianti pungono solo quando si sentono in pericolo. La pagano però con la vita in quanto il pungiglione e la parte posteriore del corpo si staccano dopo una puntura.

Prevenzione: non tentare di scacciare le api che ti ronzano attorno agitando le braccia o facendo aria. Spruzzale piuttosto con acqua, perché non l’amano.

Trattamento: in caso di puntura, togli il pungiglione con una pinzetta. Quindi raffredda la zona con ghiaccio, gel o roll-on. Oppure usa la matita termica.

Zanzare Tigre

Le zanzare tigre asiatiche sono più piccole delle zanzare autoctone e presentano un disegno bianco e nero. Da alcuni anni sono arrivate anche in Svizzera. Sono insetti diurni e nettamente più aggressivi delle specie notturne. Vivono in sciami e amano l’acqua stagnante, come ad esempio quella che si raccoglie nei serbatoi dell’acqua piovana o nei sottovasi. Chi pensa di essere stato punto da una zanzara tigre, dovrebbe se possibile catturare l’insetto e segnalarlo sul sito zanzare-svizzera.ch.

Prevenzione: monta delle zanzariere e applica uno spray antizanzare. Anche indossare abiti lunghi e chiari può essere di aiuto.

Trattamento: in caso di puntura di zanzara tigre non grattarti e raffredda la parte con ghiaccio, gel o roll-on. Oppure applica la matita termica.

Vespe

Se si sentono minacciate o se temono per il loro nido, le vespe pungono. In teoria possono attaccare più volte. Per il resto però sono insetti pacifici. Amano ronzare intorno a bevande e cibo e sono ghiotte di carne. A differenza delle api non sono pelose e presentano un corpo più snello a righe gialle e nere.

Prevenzione: tieni le distanze dalle vespe e non agitarti. Non colpirle e non cercare di mandarle via. Copri alimenti e bevande e spruzza le vespe con acqua.

Trattamento: puntura di vespa? Allontanati dal nido per evitare di attirare ancora più vespe con l’odore del veleno della vespa. Può essere utile raffreddare la parte con ghiaccio, gel o roll-on oppure applicare la matita termica.

CONSIGLI

Insetti

animali di grandi dimensioni come bovini o cavalli, ma anche le persone. Le loro punture sono dolorose, perché in realtà non pungono ma incidono letteralmente la pelle con il loro apparato buccale molto affilato. Solo le femmine prendono di mira gli esseri umani, attratte dal sudore e dal calore corporeo.

Prevenzione: purtroppo i prodotti contro gli insetti li tengono lontani solo limitatamente. Al contrario può essere utile indossare abiti chiari, lunghi e larghi. I tafani si trovano principalmente nei campi, nei pascoli, nei centri di equitazione, nelle paludi e ai margini dei boschi. Bisognerebbe pertanto evitare questi luoghi nelle giornate estive calde e umide.

Trattamento: raffredda la parte colpita con ghiaccio, gel o roll-on. In genere il morso di tafano guarisce spontaneamente.

* Utilizzare i biocidi con cautela. Prima dell’uso, leggere sempre l’etichetta e le informazioni merceologiche.
Questi rimedi proteggono e leniscono
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Passione bollente: raclette e bruschetta

RACLETTE ESTIVA

Che ne dici di una raclette estiva? Fai così: tosta del pane per farne delle bruschette croccanti. Fondi il formaggio per raclette e distribuiscilo sulle fette di pane. Guarnisci quindi con ingredienti estivi come albicocche, fichi, mirtilli ed erbe aromatiche. Buon appetito!

CULTURA

Negli scatti l’amore per la sua terra

La Biblioteca di Breggia a Morbio Superiore rende omaggio con una bella mostra al lavoro del fotografo momò Giovanni Luisoni

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Toni Servillo tra cinema e teatro Intervista all’attore de La grande bellezza che questa sera sotto il cielo di Varese leggerà le pagine di Giovanni Testori per Renato Guttuso

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Confessioni di un bevitore

Le pagine di Lawrence Osborne ci conducono in un affascinante viaggio etilico e geografico che può avere qualche controindicazione

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Born Digital racconta i nuovi volti dell’arte

Mostre ◆ Un progetto espositivo valorizza l’importante collezione di arte digitale – 620 opere – del Kunsthaus di Zurigo

Emanuela Burgazzoli

Una mostra sull’arte digitale che costituisce «la punta di un iceberg», come la direttrice del Kunsthaus Ann Demeester definisce la collezione di Medienkunst del museo zurighese che conta 620 opere (molte di queste mai esposte) ed è una delle più importanti a livello svizzero. Video art soprattutto, ma anche diapositive, computer art, installazioni digitali e immersive. Se chiediamo cosa si intende oggi per «Medienkunst» a Eléonore Bernard, co-curatrice insieme a Luca Rey, dell’esposizione che presenta una selezione di undici lavori scelti nel decennio a cavallo del nuovo millennio tra il 1995 e il 2005, ci risponde che la questione terminologica è un po’ complicata, ma che «gli elementi discriminanti per definire questa tipologia d’arte in sintesi sono la durata temporale e la componente tecnica o tecnologica: queste opere non esistono come esistono già compiutamente un dipinto o una scultura, ma vivono nel tempo della loro presentazione, che è specifica per ognuna di esse»

Come è nata la mostra

La «rivoluzione francese» della video art risale agli anni Sessanta e oggi tutta la Medienkunst è diventata parte integrante delle collezioni pubbliche; ma non lo era alla fine negli anni Settanta quando Ursula Perucchi-Petri, conservatrice al Kunsthaus, grazie a un soggiorno a New York, ha scoperto questa nuova arte lanciando una lungimirante campagna di acquisizioni culminata nel 1995 con un’importante pubblicazione sulla video art.

Sul lavoro pionieristico di Perucchi-Petri si innesta direttamente il progetto Born Digital, un articolato lavoro di restauro, archiviazione e valorizzazione, come ci spiega Eléonore Bernard, che lavora da cinque anni come conservatrice di new media al Kunsthaus: «La mostra Born Digital è nata da un progetto di restauro di due anni, grazie anche al finanziamento della fondazione Memoriav (associazione per la salvaguardia del patrimonio culturale audiovisivo in Svizzera, ndr); abbiamo potuto restaurare una cinquantina di opere della collezione, che abbiamo scelto anche per le loro caratteristiche tecniche; rispetto al 2014 quando abbiamo restaurato e digitalizzato dei video analogici, questa volta ci siamo concentrati esclusivamente su opere che hanno una componente digitale, in particolare sulle più “antiche”, quelle entrate in collezione tra il 1995 e il 2005, che erano state acquistate in formato DVD e compact disc, supporti ormai a rischio. Si trattava quindi di aggiornarle sul piano tecnico senza perdere però le informazioni sui loro contenuti artistici; abbiamo così dovuto ricontattare gli artisti

per essere sicuri di poterle presentare nella forma più fedele all’originale; è stato possibile anche grazie a una stretta collaborazione tra il dipartimento di restauro e quello di arti grafiche» I progressi tecnologici e l’arrivo di nuovi software e supporti sono una continua sfida per i restauratori. «Ci chiediamo se e come dobbiamo migrare il contenuto su altri supporti, per renderlo compatibile con i dispositivi attuali; se è sempre possibile sostituire uno schermo catodico con uno schermo piatto al plasma; ogni tipo di traduzione e migrazione implica delle modifiche e quindi pone un problema di originalità dell’opera», conclude Bernard.

Gli artisti esposti

Del resto il medium, si sa, è anche il messaggio; e che la tecnologia influenzi i contenuti e l’estetica lo dimostra l’opera di una pioniera della nuova video art, l’artista svizzera e ormai star internazionale Pipilotti Rist. Il suo Pickelporno – oggi in collezione al Kunsthaus – girato nel 1992 contiene già tutti i tratti del suo stile ludico e

sperimentale; poco dopo l’avvento sul mercato di piccoli schermi le consente di realizzare Yoghurt on Skin – Velvet on TV (1994), installazione in cui i video sono nascosti come piccoli tesori in borsette e conchiglie.

«La mostra Born Digital è nata da un progetto di restauro di due anni, grazie anche al finanziamento della fondazione Memoriav»

La sua carriera riflette in modo esemplare – secondo Tobia Bezzola – la moltiplicazione delle possibilità espressive offerte dalle nuove tecnologie; l’allora conservatore al Kunsthaus (e attuale direttore del Masi), insieme alla curatrice Mirjam Varadinis, sono stati due testimoni diretti dell’evoluzione della new media art, che poneva nuove sfide anche sul piano dell’allestimento e della presentazione: come attirare il pubblico dei musei verso queste nuove forme d’arte? I video di lunga durata richiedevano infatti una capacità di concentrazione inabituale in un luogo come il museo, dove si è

abituati a un continuo «zapping» visivo da un’opera all’altra. Nel selezionare i lavori esposti in mostra, l’intenzione dei due curatori, non a caso due «nativi digitali», era quella di documentare sia la svolta tecnologica epocale dall’analogico al digitale sia la ricchezza espressiva e stilistica della collezione, che deriva anche da una tendenza ad abbattere i confini tra i vari media per creare un’arte transmediale. Significativo in questo senso il progetto Mae West (2003/2004), della scultrice e video artista americana Rita McBride, che costruisce un viaggio visivo tra danza, architettura, musica, a metà tra il vintage e il futuristico. Le interferenze e le distorsioni visive diventano invece un pretesto estetico per Tatjana Marušić, che nella sua videoinstallazione dal titolo Woman under influence (2003) lavora su un film-tv degli anni Novanta grazie a un software di elaborazione di immagini. Sono anni di grande sperimentazione, che esplorano i temi imposti dai cambiamenti tecnologici, come il rapporto tra reale e virtuale, ma anche grandi temi sociali quali la migrazione o le sottoculture nelle città

di un mondo in piena globalizzazione, come nel caso di Cosplayer, omaggio al fenomeno del Costume Play, quasi sconosciuto nel 2004, dell’artista cinese Cao Fei: in questo video di 8 minuti appaiono 16 personaggi in costume che si cimentano silenziosamente in duelli in stile manga e videogames, nello scenario di periferie urbane quasi apocalittiche. Diventa quasi naturale riflettere su temi politici come l’identità nazionale, utilizzando gli stessi strumenti di una società mediatica di quegli anni: è il caso di I love Swtizerland (2002) di Com&Com, monologo televisivo fittizio che racconta di una società elvetica sospesa tra miti nazionalisti e modernità, progressismo e tradizionalismo. Oggi la tecnologia apre continuamente nuovi orizzonti, facendo entrare il futuro nel nostro presente, anche nell’arte, che non sappiamo che cosa ci riserverà.

Dove e quando Born Digital, Kunsthaus Zürich, fino al 29 settembre. Orari: ma-me, ve-do 10.00-18.00; gio 10.00-20.00. www.kunsthaus.ch

Yves Netzhammer & Bjørn Melhus, Die umgekehrte Rüstung, 2002, Kunsthaus Zürich. (© Franca Candrian, Kunsthaus Zürich)

L’arte radicale e introspettiva di Ben Vautier

In ricordo ◆ Ritratto dell’artista franco-svizzero che ci ha lasciati qualche tempo fa Elio Schenini

Nel pomeriggio del cinque giugno scorso la notizia che quella mattina l’artista franco-svizzero Ben Vautier, in arte Ben, si era tolto la vita nella sua casa di Nizza ha cominciato a rimbalzare da un sito d’informazione all’altro. Poche ore prima, alle tre di notte, la moglie, Annie Baricalla, con la quale Ben era sposato dal 1964, era deceduta a causa di un ictus di cui era stata vittima nei giorni precedenti. L’atto con cui Ben ha deciso di porre fine alla propria esistenza, se da un lato ha rivelato a tutti l’indissolubile rapporto simbiotico che lo legava da ormai sessant’anni alla sua compagna, senza la quale non ha potuto e non ha voluto continuare a vivere, dall’altro ha suggellato un percorso che dalla fine degli anni Cinquanta si è snodato con estrema coerenza lungo il confine impercettibile che separa arte e vita.

Il percorso artistico di Ben è strettamente legato a Nizza, la città in cui si era trasferito alla fine degli anni Quaranta

A dispetto della leggerezza giocosa e del disordine caotico che sembrano improntare la sua opera, Ben era infatti un artista di un rigore ossessivo e di una costanza quasi maniacale. Il suo gesto non può non richiamare alla memoria la performance realizzata nei primi anni Sessanta, Me tirer une balle dans la tête, in cui l’artista mimava l’atto. Una di quelle azioni provocatorie che ne fanno un antesignano di molte delle cose che si sarebbero viste nei decenni successivi e di cui, in un libro del 2014 dedi-

cato alla sua attività performativa di quel periodo, aveva sibillinamente ribadito l’attualità, commentandola con queste scarne parole: «progetto in corso» (adesso è chiaro che non si trattava di una di quelle boutade ironiche a cui ci aveva spesso abituati).

Del resto Ben l’aveva dichiarato fin dal 1961 con la consueta sintesi epigrammatica per la quale è diventato giustamente famoso: mourir est une oeuvre d’art. E in effetti per lui, che ancora nel 2009 ad artisti e scrittori morti suicidi, quali Pollock, Rothko, Virginia Woolf, Diane Arbus e Guy Debord, aveva dedicato una serie di lavori, quella attorno al tema è stata una riflessione costante. Una riflessione alla fine tradotta in atto che getta una luce diversa su tutta la sua opera, sottraendola definitivamente alle categorie del burlesco e della farsa in cui una visione superficiale e frettolosa l’ha spesso confinata. Quanto a lui questo desse fastidio lo si può intuire anche da alcune interviste disponibili in rete, in cui era costretto a ribadire che, al di là dello humor e dell’ironia che la caratterizzano, la sua opera nasceva nel segno della radicalità, dell’introspezione e dell’autoanalisi.

Il percorso artistico di Ben è strettamente legato a Nizza, la città in cui

si era trasferito alla fine degli anni Quaranta con la madre, che apparteneva a una ricca famiglia francese, dopo che quest’ultima si era separata dal padre, che era invece originario del Canton Vaud. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, il Magasin – un piccolo negozio di dischi usati che Ben aveva trasformato ben presto in una vera e propria opera d’arte e che dal 1975, dopo essere stato smontato e rimontato, fa parte della collezione del Centre Pompidou di Parigi – era diventato il luogo di ritrovo per tutta quella serie di esperienze all’incrocio tra Nouveau Réalisme e Fluxus che vanno sotto il nome di École de Nice. Oltre a Ben, gli artisti che ne facevano parte erano Yves Klein, Arman, Martial Raysse, George Brecht e Robert Filliou, ossia alcuni dei principali esponenti di quella generazione che per prima nell’Europa del secondo dopoguerra ha cercato di fare i conti con l’ingombrante lascito duchampiano. Come affermava Ben, il gesto di Duchamp, che nel 1914 aveva preso un oggetto qualsiasi (il famoso scolabottiglie) e l’aveva trasformato in arte semplicemente designandolo come tale, è stato l’atto fondativo dell’arte contemporanea.

Ma come la celebre porta nel-

lo studio di Duchamp al numero 11 di Rue Larrey a Parigi che aprendosi su un locale ne chiudeva un altro, nel momento stesso in cui inaugurava questo nuovo corso dell’arte, il readymade finiva per rinchiudere l’arte contemporanea in un cul-de-sac o, come amava dire Ben, in un buco nero in cui tutto veniva attratto e nulla poteva più uscire. È questa sfida che Ben e gli artisti di Fluxus hanno assunto su di loro, spingendo l’intuizione di Duchamp fino alle sue estreme conseguenze: non solo ogni oggetto poteva diventare arte (come recita la sua frase nell’immagine), ma anche ogni attitudine, ogni gesto. In questo modo ogni distinzione tra arte e vita veniva a cadere e l’artista poteva appropriarsi di qualsiasi cosa. Ed è esattamente quello che fece Ben nei primi anni Sessanta quando si mise a firmare di tutto, dalle uova alla linea dell’orizzonte. Ma se tutto è arte, allora nulla è più arte. Di questo Ben era perfettamente consapevole e attorno a questo paradosso ha continuato ad arrovellarsi, convinto che non si potesse più tornare indietro, ma che allo stesso tempo occorresse trovare una strada per andare oltre Duchamp. Il suo è stato un incessante sforzo di dire sempre la verità, anche quan-

do questa poteva risultare sgradevole, a partire da una scepsi sistematica da antico filosofo greco. Uno sforzo che ha preso corpo nei suoi celebri quadri con il fondo nero e le scritte bianche vergate con calligrafia infantile, che di volta in volta demistificano, provocano, invitano a riflettere, denunciano, svelano. Le sue scritte erano il frutto di un pensiero torrenziale e un’attività teorica infaticabile che nel web aveva trovato un luogo ideale in cui espandersi e che l’avevano fatto conoscere al grande pubblico anche per le polemiche che a volte avevano suscitato. Come non ricordare, ad esempio, l’infuocato dibattito originato dalla scritta Suiza no existe che campeggiava nel padiglione svizzero all’esposizione universale di Siviglia del 1992. Ma fin dall’inizio è stata soprattutto l’arte stessa il soggetto che Ben amava interrogare e mettere in discussione, a partire da quella volta in cui si era presentato nelle strade di Nizza con un cartello al collo che recitava: regardez-moi cela suffit. A dire che l’arte, qualsiasi essa sia, nasce sempre dall’impulso di un individuo di affermare il proprio io. Ma se l’arte non è che il bisogno primario di un ego di manifestarsi, allora l’unico modo per cambiare l’arte è distruggere l’ego (to change art destroy ego, 1965).

Di fronte ai paradossi, Ben non è mai arretrato, ma ha continuato per tutta la vita a girarci intorno fino a quel giorno del 5 giugno scorso. Il gesto di un artista che avendo sempre sostenuto che arte e vita sono la stessa cosa non ha voluto sottrarsi alla possibilità di scriverne il finale e unirsi per sempre alla sua Annie.

Giovanni Luisoni, un momò a caccia di immagini

Mostre ◆ Fino al 31 dicembre la Biblioteca di Breggia rende omaggio al fotografo e all’amore che nutre per la sua terra

Giovanni Medolago

Abbiamo sempre provato una curiosa empatia per chi resta chinato sullo stesso argomento per anni annorum. Vedi il pianista Stephen Kovacevich, capace di dedicare sette anni sette della sua vita per l’incisione dell’integrale delle sonate di Beethoven. «Senza vacanze – tenne a precisarci in una sua estemporanea apparizione al Cinema Lux di Massagno. Qualche pausa solo nei weekend!». Stesso discorso – la fedele dedizione a un tema – vale pure per François Truffaut, regista che ha fatto ruotare gran parte della sua lunga filmografia attorno all’amore: per il cinema (La nuit américaine, Oscar 1973) e surtout quello tra una donna e un uomo: felice, contrastato, adulterino, addirittura tragico.

Da mezzo secolo sta facendo altrettanto il fotografo Giovanni Luisoni, scandagliando il suo Mendrisiotto (nato a Stabio, classe 1944, da una vita risiede a Morbio Superiore), armato della sua apparecchiatura e soprattutto dell’amore per la sua terra. È tuttavia ancora ben animato dall’entusiasmo dei suoi esordi, con il libro Quattro passi in valle (Salvioni editore, 2003). La valle, per l’esattezza, era quella di Muggio e i quattro passi vennero buttati là con Alberto Nessi, da allora suo fedele complice, in particolare firmando alcune prefazioni dei suoi libri. In una di queste, Nessi

lo definisce «un cacciatore di immagini», aggiungendo che «le guide di Luisoni mi sembrano la mitezza, l’arguzia popolare, il legame per il passato, dimostrato dall’attenzione per gli ultimi barbagli di quella vita contadina che ha ormai perso ogni rilievo nella società del terziario». Quella civiltà contadina così ben documentata da Gino Pedroli (1898-1986), maestro riconosciuto dello stesso Luisoni. Alle doti del fotografo momò già citate da Nessi, aggiungiamo anche l’umiltà e la modestia. Ha infatti alle spalle numerose pubblicazioni, una dal titolo curioso, Il risveglio del dimenticato, dal sottotitolo però esplicito: Mendrisiotto, un microcosmo in bianco e nero. Suoi i ritratti di illustri anonimi (il postino, il cantoniere, il falegname), ma al suo obiettivo non si sono negati personaggi quali Botta l’archistar, lo scultore Pierino Sulmoni e, tra i pittori, Samuele Gabai e Miro Carcano, sornione più che mai in una foto del 1990. Le sue immagini sono state esposte in gallerie prestigiose e su di lui hanno scritto autori importanti, tra cui Gertrud Leutenegger (Premio Schiller 1986 e a Soletta lo scorso anno). Eppure, quando gli si ricordano questi illustri trascorsi, lui la mette giù facile… «Sulla soglia di casa abbiamo tutto e basta avere il cuore e la mente aperti per trovare spunti interessanti. E li trovo ancora oggi, magari negli stessi luoghi, momenti, stagioni. Però ogni volta è diverso, ogni volta scopro che qualcosa è cambiato. Questo territorio si è insinuato dentro di me al punto che non potrei fare altro o scegliere un altrove» L’ultima sua pubblicazione s’intitola, guarda caso!, Mendrisiotto: natu-

ra protagonista ed è stata concepita e realizzata per sottolineare i vent’anni d’attività della Biblioteca del Comune di Breggia. In questa sede si potranno ammirare 20 grandi foto (molte delle quali inedite, ma tutte dal canonico b&n) nelle quali è facile riconoscere quelli che, con felice sinestesia, son stati definiti luoghi del silenzio

Le fioriture nel biotipo, la primavera sul torrente Breggia, i casolari sul Monte Generoso, il parco del Daniello, un curioso triangolo isoscele còlto, bianchissimo, dietro le fronde ormai spoglie di un albero. L’artista stavolta gioca in casa: la Biblioteca di Breggia è a pochi passi dalla sua dimora. Ogni immagine ha, come sempre nell’opera di Luisoni, la sua didascalia: «Diciamo pure che è un mio vezzo. Ma la mostra ha anche uno scopo didattico, quello di far scoprire angoli nascosti del Mendrisiotto, quelli scovati nelle mie peregrinazioni nel corso degli anni e che adesso propongo nell’esposizione. Accanto all’indicazione del luogo dov’è stata scattata la foto, ancor più importante mi sembra la datazione. Lo stesso luogo, la stessa immagine – a distanza di mesi o anni – possono rivelare particolari magari prima nascosti e che vanno ri/ scoperti».

Dove e quando Giovanni Luisoni, Natura protagonista. Biblioteca di Breggia, Morbio Superiore; fino al 31 dicembre.

Orari: lu 7.30-10.30 / 14.00-16.00; ma 7.30-10.30 / 14.00-16.30; me 16.00-19.00; gio 7.30-10.30; ve 16.00-19.00. www.comunebreggia.ch

Giovanni Luisoni, La campagna nel cuore, Genestrerio 2005. (© Giovanni Luisoni)

Ai giovani diamo cose vere

Incontri ◆ Toni Servillo questa sera sarà a Varese per uno spettacolo teatrale

Enrico Parola

Quattro anni fa il «New York Times» l’ha inserito tra i cento migliori attori del secolo, e come miglior attore ha vinto quattro David di Donatello e altrettanti Nastri d’argento, senza dimenticare i tre Ciak d’oro i due European Film Awards e Globi d’oro. Toni Servillo, volto indimenticabile in Gomorra di Garrone e di Giulio Andreotti ne Il divo, candidato all’Hollywood Film Festival per l’interpretazione di Jep Gambardella ne La grande bellezza, il film di Paolo Sorrentino premio Oscar come miglior pellicola straniera, sarà ospite stasera della rassegna teatrale Tra Sacro e Sacro Monte di Varese. Appuntamento che ha portato in questi anni il meglio del teatro italiano tra le cappelle del Sacro Monte in cui Annunciazione, Natività, Passione e Crocifissione, Resurrezione e Assunzione gloriosa in cielo si fanno mirabili scene di teatro barocco con statue e affreschi racchiuse in quindici, monumentali cappelle: Piera Degli Esposti e Lucilla Morlacchi, Giorgio Albertazzi, che lì lesse il suo amico Eliot, Massimo Popolizio e Massimo Giannini, quest’anno Laura Marinoni e questo giovedì Davide Van De Sfroos a omaggiare Bob Dylan.

Stasera però, anche per la straordinaria richiesta del pubblico, Servillo non si esibisce in cima alla Via Sacra, bensì ai Giardini Estensi, accompagnato dall’Orchestra Sacro Monte nella lettura dei testi che Giovanni Testori dedicò alla pittura di Renato Guttuso. Per noi l’occasione di incontrarlo.

Che cosa la porta dal grande schermo a leggere Testori a Varese?

L’esigenza di vivere io in prima persona e di proporre al pubblico, e innanzitutto desidererei ai giovani, l’esperienza di qualcosa di bello, di significativo, di valore. In questi mesi sto portando in tournée Tre modi per non morire di un grande scrittore quale è Giuseppe Montesano, dove pagine di Baudelaire si intrecciano con i versi di Dante e dei tragediografi greci, e devo dire che è palpabile l’interesse degli spettatori, tra cui tanti giovani. È una tappa di un percorso che accompagna tutta la mia carriera: per me teatro e cinema non sono mai stati inconciliabili, non ho mai dato la priorità al grande scher-

mo, anche se ovviamente è quello che dà la notorietà maggiore. Faccio degli esempi: nel 2001 ho recitato nel primo film con Sorrentino (L’uomo in più, ndr), quattro anni dopo con il suo Le conseguenze dell’amore ho vinto un David di Donatello come miglior attore protagonista (nella foto ritratto in quell’occasione a Cinecittà, ndr) e un Nastro d’argento; però allo stesso tempo facevo la regia del Malato immaginario di Molière, dal 2002, per quattro anni, ho girato l’Europa con Sabato, domenica e lunedì di Eduardo De Filippo. E così anche dopo: ad esempio alla regia della Trilogia della villeggiatura di Goldoni sono seguiti i David di Donatello per La ragazza del lago e Il divo

Dalla sua prospettiva, dal punto di vista di chi sta sul palco e guarda verso la platea, scorge ancora nella gente il desiderio di una «grande bellezza»?

Sì, e penso di poter dare questo giudizio non solo limitandolo a chi viene a vedere degli spettacoli teatrali, quindi in qualche modo un «campione selezionato». Parliamo dei giovani, che ci sono e non sono pochi tra il pubblico: è vero quel che si dice su social, cellulari e i vari strumenti che tendono a immergerli sempre più in una dimensione virtuale, ma è altrettanto vero che appena si propone loro qualcosa di concreto, di «vero», pieno di bellezza e senso, questo fa esplodere la loro sete di concretezza, di realtà. E loro scattano, ne sono calamitati. Ciò mi suscita ammirazione ma non mi stupisce, perché è una nostra dimensione costitutiva, che può essere anestetizzata, magari anche parzialmente soffocata, ma mai totalmente e definitivamente repressa, anzi. È sempre pronta a riemergere e vibrare con potenza, ma deve trovarsi davanti qualcosa per cui valga la pena farlo. Per questo reputo uno dei nostri non solo impegni, ma doveri principali di attori il continuare a mettere in contatto i giovani e non solo i giovani con certe espressioni artistiche e certe esperienze dell’umano.

Che espressione artistica e che esperienza umana emerge dagli scritti che Giovanni Testori dedicò a Renato Guttuso? È la storia di un’amicizia in cui ci

I nostri fantasmi

Editoria ◆ Il femminismo critico di Jessa Crispin

Laura Marzi

I miei tre papà. Come liberarsi dai fantasmi del patriarcato di Jessa Crispin, edito da Sur con la traduzione di Giuliana Lupi, è un libro più unico che raro.

Ultimamente capita, soprattutto a quelle che se ne occupano da anni, di provare una certa frustrazione quando il discorso vira sul femminismo: sono pochi infatti i testi o i momenti di riflessione in cui si riesce ad arricchire il discorso critico sul tema, d’altra parte sono molte le angosce rispetto a un mondo occidentale spesso governato dalle donne eppure sempre più in crisi. Uno dei problemi di questo appiattimento del dibattito sono la superficialità e l’eccessiva semplificazione del modo di affrontare una questione così importante. Crispin non la fa difficile, questo non è un libro per specialiste dell’argomento, ma non sposta mai l’obiettivo dal bersaglio, non fa mai finta che i problemi principali della nostra civiltà non siano la violenza e la venerazione del denaro.

sono stati momenti di vicinanza e di allontanamento, di profonda sintonia e di contrasti anche aspri; ma tutto, sempre, in nome di un di più di amore, di un affetto più grande che tutto abbracciava e ricomponeva. È interessante notare che secondo Testori contrasti e ricomposizioni sono anche la cifra del linguaggio, dello stile e anche dello spirito della pittura di Guttuso: vedeva nei suoi quadri l’ombra di una ferita, la traccia di una lacerazione, come se sulla realtà rappresentata sulla tela incombesse una minaccia; ma allo stesso tempo riconosceva nel pittore una sorta di chirurgo in grado di suturare quelle ferite, di ricomporre quelle lacerazioni. Non sempre: talvolta continuano a sanguinare; Testori arriva addirittura a scrivere che nelle tele di Guttuso sente «stridore di denti».

Un linguaggio non tipico del critico d’arte.

Mi colpisce molto, infatti, perché è un esempio mirabile di incontro tra l’arte pittorica e l’arte dello scrivere; e quando un grande scrittore si dedica all’arte, eleva la prosa d’arte e soprattutto, ancor più importante, fa incontrare la critica d’arte con la vita vera, con la vita vissuta. Allo stesso modo, le ricomposizioni che Testori rintraccia nell’arte di Guttuso e che segnarono il loro rapporto di amicizia, penso siano anche una suggestione per il rapporto tra Nord e Sud: una questione sempre aperta e sempre problematica, ma Testori, lombardo di Novate Milanese, e Guttuso, palermitano di Bagheria, ci raccontano di un’intensa corrispondenza tra un uomo del Nord e un uomo del Sud, dove l’unità tra loro è segnata dall’arte, dalla cultura, dal senso della bellezza cui entrambi anelavano. Credo possa essere un suggerimento, un elemento di riflessione quanto mai attuale.

Dove e quando

Toni Servillo, Sotto i cieli di Varese, le pagine di Giovanni Testori per Renato Guttuso. Il romanzo di un’amicizia. 22 luglio, ore 21.00, Varese, Giardini Estensi.

Per i biglietti e per il programma

della manifestazione Tra Sacro e Sacro Monte consultare il sito: www.trasacroesacromonte.it

Il testo si divide in tre parti: «il padre di famiglia», «il cittadino», «il dio». Si apre con la descrizione della sua vita in una casa nello Stato del Kansas, non lontano da dove ha trascorso la sua infanzia e adolescenza, infestata da un fantasma, l’uomo che vi abitava prima. Non importa credere o meno all’esistenza degli spiriti, ciò che conta è provare a interrogarsi su cosa comporti, che significhi l’immagine del fantasma dell’uomo nella vita di ognuna di noi. La prima questione che Crispin affronta è di come gli uomini in carne e ossa si ostinino a trasformare in ectoplasma le loro mogli, figlie, fidanzate: «di questi tempi ogni donna bianca morta diventa una storia. Un podcast in otto episodi o una docuserie in otto puntate su Netflix […] E perché non raccontarla quella storia? Raccontare le storie non cambia le cose in meglio? Ma sono decenni che raccontiamo queste storie e i cadaveri continuano ad accumularsi». È bene specificare che l’intera riflessione di Crispin è radicata nella società statunitense, infatti spesso da questa parte del mondo le storie delle donne uccise vengono rimosse perché l’industria europea dello storytelling è meno potente, evidentemente. Ci sono degli aspetti, poi, legati soprattutto al fanatismo religioso e alla possibilità per tutti di detenere armi da fuoco, col numero di stragi che ne conseguono, che mal si adattano al contesto europeo. È anche vero, però, che la distanza che si percepisce non è affatto così sconfinata e a prevalere non è infatti la sensazione che gli esempi che Crispin utilizza non ci riguardino quanto quella di appartenere anche a noi a quella stessa civiltà. La riflessione sulle ingiustizie perpetrate da una società dominata dall’avidità è inevitabile in un testo fortemente politico come questo: Crispin si sofferma per decine di pagine sul concetto di innocenza, su come giudicare coloro che negli Stati Uniti sono considerati degli eroi anche se hanno commesso delle stragi o su come continuare a vivere in un mondo in cui vengono trasmessi tantissimi film su donne e uomini che a un certo punto imbracciano il fucile per salvare l’umanità, dicono, peccato che lo facciano ammazzando decine di altri esseri umani.

È molto interessante, infatti, il modo in cui Crispin smitizza il concetto di comunità, particolarmente in

voga nell’ultimo periodo. Di fronte all’individualismo dilagante, infatti, si cerca giustamente un antidoto, ma la risposta non risiede nel chiudersi insieme a persone che la pensano come noi, che abitano nello stesso posto o che appartengono alla stessa etnia: «i neonazisti hanno un grande senso della comunità, e così pure i no-vax e i miliziani. Quello di cui abbiamo bisogno è la società». A partire da questa distinzione Crispin fa un riferimento memorabile al cosmopolitismo, concetto sorto in seno alla riflessione degli enciclopedisti nel XVIII secolo in Francia che certamente non erano abbastanza femministi, ma hanno posto pietre miliari rispetto all’ideale della libertà: «il cosmopolita vedendo una prateria incontaminata non sogna di costruirci un ritiro per artisti esauriti. Vedendo una donna col velo non si sente tenuto a dirle che non è obbligata a vivere in quel mondo. Magari contribuirà a creare un ambiente dov’è possibile prosperare, ma non ha un’idea rigida di cosa significhi prosperare. Se non quella di evitare situazioni in cui un gruppo ne soffochi un altro».

Crispin pone due assunti fondamentali: le donne sono hantées, perseguitate dai fantasmi di padri, fratelli, preti, inquisitori, giudici, assassini di ogni tipo. Per questo permane in noi la sofferenza di millenni di soprusi, anche mentre viviamo le nostre vite di donne emancipate. Poi la filosofa statunitense fa giustamente notare che nessuna di noi può «fingere di non vedere il sangue sul pavimento». Ciò che va perseguita, quindi, è la liberazione perché non c’è potere senza liberazione come scrive Susan Sontag (ne abbiamo parlato nell’articolo Politica e femminismo sul numero 26 di «Azione») e perché il patriarcato non è stato davvero depotenziato se le donne continuano a essere uccise, violentate, abusate per lo più dai familiari, se l’aborto viene reso illegale, se ovunque nel mondo non si difende mai l’umanità, ma sempre la ricchezza di pochi e poco conta che a farlo sia una persona con la gonna. La liberazione, in un testo come questo in cui l’aspetto spirituale è fondamentale, non è certo cosa semplice, né qui si trovano le istruzioni per realizzarla, ma c’è almeno un consiglio che seppur piccolo può essere utile e che per quanto semplice spesso dimentichiamo: «potevo semplicemente andarmene».

Bibliografia

Jessa Crispin, I miei tre papà. Come liberarsi dai fantasmi del patriarcato, Sur, Roma, 2024.

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Confessione semiseria di un bevitore

Editoria ◆ Quello di Lawrence Osborne è un affascinante viaggio etilico e geografico con alcune controindicazioni Angelo Ferracuti

L’autore del libro è un alcolista incallito che passa le sue giornate a bere seduto alticcio ai tavoli «in stato sedentario di animazione sospesa», o nelle camere di hotel di lusso, tra camerieri che arrivano con secchielli di ghiaccio, pinze e bottiglie di Gordon’s invece che di Martini, in genere mescolato con vodka. Lo stile di Santi e bevitori (Adelphi, 2024, traduzione Mariagrazia Gini) di Lawrence Osborne è allegro e sempre un po’ sopra le righe come il reporter di viaggio, scrittore e giornalista inglese del «New York Times», autore di Il turista nudo e Bangkok, una prosa dal ritmo implacabile di un racconto dal vero scritto con la lingua del romanzo. Il protagonista è il centro della narrazione, l’occhio alterato che guarda, riferisce, è sempre lui, il semiserio Osborne perennemente in viaggio, il quale ebbro pensa con voluttà al suo «laghetto di vodka lievemente gelatinosa», come pensa che «può darsi che le molecole d’alcol in circolo nel sangue giorno dopo giorno, notte dopo notte, con effetti al limite dell’impercettibile, facciano sentire l’occidentale libero, senza catene e superbo alla massima potenza».

Il libro, o i reportage-racconti del libro, cominciano in un sontuoso albergo di Milano dove l’autore si concede un gin tonic, «tre parti di tonica per una di gin, Gordon’s, tre cubetti di ghiaccio e un’idea di scorza di lime», come spiega perentorio al cameriere. Ma presto vengono svelate le intenzioni e il taglio delle short stories, in tutto una quindicina, diciamo pure il tema non poco intrigante, fare «un

viaggio alcolico in terre astemie», un viaggio nel mondo islamico per capire dal di dentro la vita degli uomini sobri. Ma questo libro è molte cose, una confessione autobiografica di uno «cresciuto a bagno nell’alcol» in un sobborgo inglese, una passione genetica dovuta alle origine irlandesi della madre, alcolista anche lei, un saggio sulle dipendenze etiliche e sull’uso del bere nelle classi sociali europee e in special modo in quella anglosassone, ma soprattutto una dissertazione in forma di racconto sullo scontro di civiltà tra Oriente e Occidente, con tanto di dati storici, notazioni culturali, «in uno spirito di reciproca incomprensione». Avvincente, con una prosa scintillante alla Capote, seguiamo il mondano ma a volte anche squattrinato Osborne nei suoi giri eccentrici in Medio Oriente, tra descrizioni di scorci di città, aeroporti, approdi in alberghi di lusso, quando si descrive nei suoi reportage narrativi caldi e passionali ad alta tensione emotiva.

Già in viaggio verso l’isola di Giava, una notte Osborne si ferma nella città religiosa di Solo, luogo abitato da jihadisti di al-Qaida e scuole coraniche, dove i fondamentalisti islamici hanno in passato fatto attentati nei bar che mescevano vini e liquori, e al risveglio nella sua pensioncina in cerca di alcol capisce che lì è completamente bandito, «seicentomila persone e non un solo bar». Parlando con alcuni studenti in veste bianca, questi, ammonendolo severamente, gli dicono che il bere «è una piaga, una malattia dell’anima». Per difendersi, mentre passa giornate senza bere, in

debito con «le chimiche dell’alcol», immagina «un alcolista musulmano», l’idea folle che gli «fa sperare che la razza umana possa salvarsi». Ma non si scoraggia, e nei viaggi successivi trova sempre un luogo dove poter bere in santa pace, a Beirut scola l’arak, al Time out, dove incontra il proprietario Jacques Tabet, che dopo avergli versato sei bicchieri di porto gli confessa: «Odio essere sobrio». Poi finisce a cena con Walid Jumblatt, «il signore della guerra druso» che produce il Kefraya, «un vino americanizzato, corposo e fruttato, più o meno ributtante».

Le avventure alcoliche in Paesi mediorientali continuano e quando a Islamabad gli chiedono perché è andato a visitare un Paese che non ha una vera vocazione turistica, lo scrittore inglese risponde «sono venuto a

L’enigma dell’alfiere libero

SmartTV ◆ Alessandro Barbero in autunno su LA7 con un nuovo programma

Marco Züblin

Alessandro Barbero è una sorta di enigma mediatico, di paradosso. Medievista illustre, saggista insigne, divulgatore acuto e ironico, narratore di talento, presenza costante su social, televisione e quotidiani, conferenziere di efficacia e impatto ben fuori dal comune. Tutto bene, si dirà; ma, allora, perché «enigma»? In un mondo normale (meglio, di antica normalità) il successo mediatico di Barbero sarebbe banale, dovuto e platealmente riconosciuto; diventa invece curiosa eccezione (anzi eresia) nel panorama attuale di media, stampa e politica, in cui l’ignoranza orgogliosamente squadernata e rivendicata sta diventando un valore, «il» valore, in cui storia e memoria sono finite dal robivecchi (o in qualche inferno dei colti, dei professoroni e di sbertucciate élites), in cui spiegazione e contestualizzazione sono visti con sospetto; e in cui tutto viaggia a vele spiegate sul carro sgangherato degli anatemi ciechi e delle feroci condanne senza appello, tanto più forti e urlati quanto meno sostenuti da prova. Quindi, la presenza di un alfiere del pensiero libero e laterale ha un sapore di antiche cose, di valori ormai decaduti e ferocemente rottamati; non solo, si accampa (con il sorriso, ma con quel rigore un po’ sabaudo che tanto piace) come prova in atto della pochezza di quelli che occupano manu militari i media più seguiti. Barbero è un’icona, ma davvero; icona della sinistra certamente, ma

soprattutto di coloro che guardano con delusione alle derive mediatiche del pensiero, trovando in Barbero una sorta di porto protetto, di spazio per una riflessione che abbia un respiro autentico, non di minima banalità. E gli altri, i trionfatori della compagnia di giro? Gli altri lo ignorano, fuggono il confronto. Eppure Barbero non teme di manifestare opinioni forti, di operare chiare scelte di campo, dall’Ucraina a Gaza, al ruolo degli Stati Uniti, alla crisi del modello occidentale; a differenza di quanto accade ad alcuni, che navigano su analoghe procellose acque, contro di lui non si scatena però la solita canèa degli opinionisti da un tanto al chilo, e i giornalai travestiti da pensosi esperti non sparano contro

di lui a palle incatenate. Sperano che il loro silenzio spenga la voce del «nemico», più probabilmente temono che il professore piemontese li rimetta, con modi urbani ma senza sconti, nel sottoscala per lazzaroni in cui meriterebbero di stare.

Accanto al suo magistero in storia medievale e militare all’Università degli Studi del Piemonte orientale, Alessandro Barbero ha svolto opera di divulgazione storica prima in radio, poi nella tv pubblica e ora, forse a causa degli sviluppi recenti nel servizio pubblico, nella tv privata (LA7). In quelle sedi, si è soprattutto goduto dello storico – che magari un po’ sdogana qualche astuto ammiccamento al presente (historia magistra vitae, ricordate Cicerone?) – e del suo rigoroso rispetto dei fatti; il suo impegno civile e la sua tensione etica si ritrovano invece soprattutto nelle attività di conferenziere e su internet.

LA7 ha deciso, dopo il successo inatteso del programma In viaggio con Barbero, di dare uno spazio (mezz’ora in seconda serata, 26 puntate, dall’autunno) in cui Barbero risponderà a domande del pubblico su storia e attualità. I «vassalli di Barbero», cioè i membri della community www.vassallidibarbero.it, ma non solo loro, si attendono che questo spazio possa diventare un punto di riferimento, una sorta di nucleo di resistenza; qualcosa di profondamente nuovo, anzi di fecondamente antico.

vedere se riesco a ubriacarmi qui», confessando: «In Pakistan, mi hanno detto, l’alcol è così vietato che ubriacarsi può essere un’avventura culturale. Chissà com’è sbronzarsi in uno dei Paesi più pericolosi e ostili all’alcol del mondo». Perché con l’ascesa dell’Islam i bar, questi templi dell’avventura etilica, di cui parla nel capitolo I bar nella vita di un uomo, elencando i suoi preferiti, «sono diventati bersagli ovvi in tutto il mondo musulmano», anche perché «l’ostilità al modo di vivere occidentale trova nell’alcol un bersaglio», anche se poi «al tempo stesso gli estremisti tollerano le decapitazioni, le droghe, l’eroina, i sequestri e coltivano l’oppio». Instancabile, mai domo, perennemente in fuga da sé stesso, Osborne riesce a procurarsi da bere, nella fattispecie una birra, anche in Thai-

landia, al confine malese mentre imperversa la guerra civile, seguendo un ermafrodita mentre attraversa una via «picchiettando sui tacchi» il quale da uno stanzino gli porta una Chang, una birra locale, offrendogli subito anche il suo corpo; poi passaggi a Bangkok o all’isola di Islay, sempre in cerca di bevute, mentre a Mascate in viaggio con la fidanzata italiana la notte di Natale cerca disperatamente una bottiglia di champagne che non riuscirà mai a bere. Un viaggio irresistibile nel mondo dell’alcol e in quello interiore di chi beve, tra «proibizionisti e alcolizzati», questo libro racconta eccessi estatici ma anche gli aspetti umilianti del bere eccessivo come «l’erosione della memoria recente», perché: «La mente che si ricompone dopo una sbornia è piena di domande, ma non trova le risposte. In preda a un hangover galoppante, non ricorda proprio come sia andata a finire». Uno degli effetti collaterali, durante e dopo la lettura, almeno in un lettore per nulla astemio come me, anzi molto aperto e favorevole alle avventure etiliche, è che si viene assaliti dalla voglia di bere forte, bere e bere un drink dietro l’altro come Osborne, maestro «dell’arte di bere senza sete», come ha definito l’alcolismo lo scrittore olandese Ilja Leonard Pfeijffer, che continua a oltranza fino a perdere completamente il controllo, senza provare mai il benché minimo senso di colpa.

Bibliografia

Lawrence Osborne, Santi e bevitori, Adelphi, Milano, 2024.

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In fin della fiera

La colonia e quella spianata brulla

Siamo in spiaggia. Il più giovane dei miei nipoti nota che sono riluttante a entrare in acqua, è curioso di sapere quand’è stata la prima volta che ho conosciuto il mare. In colonia, rispondo. In colonia? Com’era?

Per tentare di ricordarmi qualcosa devo pensare al cibo. Chissà perché. La colonia estiva per me è un mattone di marmellata solida, di colore rossiccio, dalla quale una signorina taglia una fettina trasparente e me la spalma su una fetta di pane. La mia colazione. L’anno di quell’unica volta che sono andato in colonia?

Quasi certamente il 1949, lo collego alla scomparsa del Torino. Avevo 12 anni e mia madre, con un negozio di parrucchiera ad Asti, era associata agli artigiani e da loro era arrivata l’offerta di mandare un figlio al mare, in colonia. Destinazione Arma di Taggia, da raggiungere in treno. Dalla stazione si dovevano percorrere un bel po’ di chilometri per

Pop Cult

arrivare alla meta: un grande edificio al centro di una spianata brulla e polverosa. Si capiva che fino a poco prima era stata una caserma perché sotto i cespugli del recinto si trovava ancora qualche bossolo di mitraglia contraerea, uguali a quelli da noi raccolti agli Sbocchi Nord di Asti dove c’era stata la postazione della contraerea. Si andava al mare la mattina in spiaggia libera, dopo aver fatto colazione (la famosa fettina di marmellata solida). Il primo giorno cinque minuti in acqua e poi, al fischio delle signorine, fuori! Tutti quei chilometri a piedi per cinque minuti. Ma poi di giorno in giorno i minuti sarebbero aumentati fino a diventare un paio d’ore. Ci facevano attraversare Arma di Taggia camminando in fila per due, come tanti soldatini. Anche nella nostra città ci facevano andare in fila per due. Una volta all’anno, il 17 gennaio, quando, per festeggia-

re il compleanno di Vittorio Alfieri, ci portavano al teatro Alfieri, per assistere alla rappresentazione di una tragedia di Vittorio Alfieri. La professoressa ci spiegava che ogni anno era diversa, ma a noi sembrava sempre la stessa, che cambiassero solo il titolo sui manifesti. In ogni caso sempre di tragedia si trattava. Ci costringevano a sedere nelle prime file della platea per vigilare, guai a distrarsi. In loggione c’erano gli studenti del liceo Alfieri, loro al ritorno in classe avrebbero trovato il tema da svolgere. All’uscita, per consolarci, ci portavano alla gelateria Alfieri, la migliore della città, quella sotto i portici di piazza Alfieri, proprio all’altezza del monumento a Vittorio Alfieri. Forse è inutile precisare che Vittorio Alfieri, detto il Trageda, è nato ad Asti. Torniamo alla colonia. Per tranquillizzare le nostre famiglie, per far sapere che stavamo benissimo, che quella colonia era il

paradiso in terra, le signorine ci fornivano di cartoline, quante ne volevamo. Bisognava scriverle e riconsegnarle, avrebbero provveduto loro a spedirle a destinazione. Dopo averle lette, naturalmente. C’era un modo per aggirare quell’odiosa censura. Affidare la cartolina, con il destinatario e il vero quadro della situazione, durante l’andata al mare in fila per due, a qualche signora incrociata per caso, lontano dagli occhi delle signorine. Sussurrando, con l’aria supplichevole del condannato ai lavori forzati: «È per la mia mamma, me la può spedire?» Sottinteso, dopo averla affrancata. Le signorine nel pomeriggio ci lasciavano in pace, dal paese salivano dei giovanotti a far loro la corte. Quella grande spianata brulla ospitava interminabili partite a pallone. Ero così scarso che per farmi accettare dal capitano di una squadra dovevo corromperlo offrendogli qualcosa

Il crowdfunding e le sue implicazioni etico-morali

Nel novero delle molte, nuove opportunità che l’avvento di internet e la diffusione dei social network hanno prodotto, un posto di riguardo è riservato alle cosiddette raccolte fondi o, secondo un termine nato con l’era digitale, crowdfunding, ovvero la possibilità di raccogliere denaro destinato a una qualsiasi causa o scopo, potendo però disporre di un’utenza potenzialmente internazionale, a differenza di quanto avveniva con le collette di un tempo.

A tale scopo esistono infatti molteplici piattaforme online, presso le quali chiunque può aprire un account e presentare il progetto per il quale intende richiedere donazioni; il che, oltre a sensibilizzare l’opinione pubblica e raccogliere consensi, permette di promuovere in modo del tutto autonomo una determinata causa. Un’opportunità significativa, soprat-

Xenia

tutto nel caso di iniziative appoggiate da organizzazioni non governative, che rivestano una forte rilevanza sociale o per le quali gli attivisti coinvolti non abbiano altra possibilità che rivolgersi alla generosità dei privati. E del resto un esempio calzante lo si può trovare nella recente liberazione dal carcere del fondatore di Wikileaks, Julian Assange – la famiglia del quale ha subito avviato un crowdfunding allo scopo di restituire al Governo australiano l’ingente somma spesa per il noleggio del jet privato inviato a prelevare Assange a Londra. Ciò ha permesso ai sostenitori di offrire un contributo personale, avendo la certezza che, per quanto elevata, la somma sarebbe stata infine raggiunta proprio grazie all’unione di molte donazioni, il che illustra perfettamente il punto di forza di questo particolare mezzo di finanziamento.

Un amore impossibile

Sottile come una palma, derisa con nomignoli tipo «lampione», «semaforo», «fiammifero». Superava i compagni di tutta la testa. Tendeva a sbattere la fronte sulle porte. I piedi spenzolavano oltre il materasso. La chiamerò Halimatu. È nata in uno Stato popoloso della costa occidentale dell’Africa. Suo padre è emigrato in Europa. All’inizio sentiva la sua voce per telefono, poi nemmeno quella. Halimatu è rimasta con la madre e i fratelli: ritiene di aver avuto un’infanzia felice. La madre era una commerciante – benché il termine non corrisponda al nostro: non ha mai avuto un negozio. Vendeva cose, comunque, e non le hai mai fatto mancare il necessario. Il fratello maggiore è stato reclutato da un emissario di una squadra di calcio inglese, ed è partito appena adolescente. Il secondo praticava l’atletica leggera – velocista: si alle-

nava duramente, col sogno di andare alle Olimpiadi. A lei hanno consigliato la pallavolo. Cos’altro poteva fare? A quindici anni era già alta un metro e novanta. L’indossatrice, forse. Ma nessuno glielo ha mai detto. Nel giro di tre anni è entrata in una squadra vera. Stipendio decente, pari a quello di un’insegnante. Lo sport era diventato la sua professione. Campionato, giochi panafricani, qualche vaga proposta di andare a giocare all’estero. Poi però si è innamorata. E non dell’allenatore, o del preparatore – come sarebbe stato auspicabile. Dell’alzatrice: taciturna, introversa, sembrava sempre triste. Si chiamava Blessing, ed è stata davvero una benedizione. La meraviglia di cui Halimatu sarà sempre grata alla vita, è che il suo amore impossibile era ricambiato. Segreto, e clandestino –perché nel suo Paese si può morire,

Tuttavia, ogni nuova possibilità fornita dal mondo digitale – ormai divenuto per certi versi più presente di quello «reale» – sembra comportare anche un rovescio della medaglia. Come spesso accade con quanto gestito interamente attraverso lo schermo di un computer, anche nel caso del crowdfunding non è infatti possibile esercitare nessuna forma di reale controllo: una volta che la raccolta fondi ha avuto fine non c’è modo in cui i donatori possano verificare quale uso viene fatto del loro denaro, visto che il promotore del progetto non ha alcuna responsabilità nei confronti di chiunque abbia elargito un contributo. Vi è poi un’ulteriore problema, legato al fatto che le regolamentazioni per le raccolte fondi variano da una piattaforma all’altra: benché il responsabile debba stabilire fin dall’inizio la cifra che si prefigge

di raggiungere (solitamente entro un determinato lasso di tempo, superato il quale il crowdfunding verrà chiuso), alcuni siti permettono di «aggiornare» l’importo desiderato – non solo nel corso della campagna, ma perfino una volta raggiunto l’obiettivo iniziale, in modo da poter accumulare quanto più denaro possibile; il che, nel caso di raccolte fondi dal forte richiamo mediatico, pone più di un quesito etico. Soprattutto, da quando il crowdfunding si è imposto nell’immaginario collettivo, abbiamo assistito a un nuovo fenomeno: quello di giovani che istituiscono, a titolo del tutto personale, simili collette online per motivazioni spesso effimere, quali la necessità di finanziare un loro exploit artistico o un viaggio all’estero; in sostanza, laddove un tempo simili iniziative sarebbero state riservate a si-

da mangiare, sottraendolo dal mio deposito o da quello del mio compagno se lo trovavo addormentato. Anche così, il capitano che accettava di prendermi aveva diritto ad avere in squadra un giocatore in più, dodici contro undici. Il mio destino era di stare in porta. Anche l’altro portiere era una schiappa, le partite terminavano con punteggi astronomici. Il resto del tempo lo trascorrevo seduto su un gradino dell’ingresso e contemplavo per ore quel nulla, quello sterminato squallore della spianata polverosa e brulla. Non potevo saperlo ma quelle ore di meditazione mi sarebbero state utili come esercizio preparatorio. A vent’anni, per essere ammesso nella confraternita degli intellettuali, dovevi dimostrare di essere un cinefilo, di frequentare il cineclub, di esaltare come capolavori assoluti quelle micidiali coltellate inferte dagli ultimi film di Michelangelo Antonioni.

tuazioni d’emergenza (ad esempio, per rimediare ai danni provocati da un disastro naturale), oggi qualsiasi gesto necessario a soddisfare un’ambizione personale sembra giustificare un intervento esterno. È come se internet ci avesse resi così pigri e «viziati» da impedire ai nostri millennials di concepire l’idea di dover faticare per un determinato obiettivo, o pagare di tasca propria un qualsiasi sfizio. Ed ecco che forse la vera ragion d’essere del crowdfunding dovrebbe essere un’altra: quella di rappresentare un aiuto concreto per il raggiungimento di obiettivi che hanno a che fare con la collettività, e non un ennesimo mezzo per esercitare un egocentrismo di stampo tipicamente moderno – il che, in fondo, significa anche impegnarsi per evitarne l’abuso, proprio come si fa con qualsiasi attività online.

per un amore così. E però vissuto e goduto ogni istante, per mesi. Credevano di essere state accorte. In pubblico mai neanche sfiorate. Invece qualcuno doveva aver notato gli sguardi muti che si scambiavano negli spogliatoi. La loro intesa. O semplicemente la felicità. Dopo le partite andavano via insieme. Altissime, entrambe, come ombre della sera. Le hanno prese di mira. A ventidue anni né Halimatu né Blessing avevano il fidanzato. Chi si era avvicinato era stato respinto con fermezza. Insomma, qualcuno aveva capito. Una notte erano state aggredite in casa – sputi, calci, bastonate. Gli sconosciuti, forse pagati per farlo, le avevano minacciate ed erano convincenti. Alla clinica avevano raccontato di aver avuto un incidente. Blessing aveva un polso fratturato, a lei avevano spezzato le dita. Per prudenza avevano evitato di incontrarsi fino alla

ripresa degli allenamenti. Ma Blessing non si era mai più presentata. Il suo telefono squillava a vuoto, poi si era spento. Mesi di angoscia, sgomento. E Blessing? Dov’era? Cosa le avevano fatto? Sguardi malevoli, frasi sinistre. Buttati dal terrazzo prima che lo faccia qualcun altro. Cosa aspetti a ucciderti? Sei malata. Indegna. Il disonore della tua famiglia. Il dirigente della squadra l’aveva licenziata col pretesto di scarso rendimento. Il fratello le aveva detto che doveva andarsene e le aveva prestato i cinquemila dollari per il viaggio. Non ve lo racconto, perché lo conoscete. Il deserto, la Libia, il barcone. La traversata di notte, il motore in avaria. Le onde. I pianti e le preghiere. Ma poi una nave li aveva avvistati, e dopo un giorno alla deriva erano stati raccolti. Per tre anni Halimatu non ha voluto

neanche toccare la palla. Non parlava con nessuno, non voleva spiegare perché fosse partita. La vergogna, anche qui. Ma quando la sua richiesta d’asilo era stata respinta, la giovane avvocata che assisteva i migranti era riuscita a convincerla a fidarsi di lei. Il ricorso è stato accolto. Halimatu non ha ricominciato a giocare. Senza Blessing, le pareva di non averne diritto. Insegna minivolley ai bambini. Per anni è rimasta sola. Mai più un amore – poiché a Blessing non è stato concesso. Ma alla fine la vita prevale. Alla fidanzata italiana non ha mai raccontato le circostanze del suo arrivo. Però quando hanno avuto una bambina, e l’infermiera ha osservato di non aver mai visto una neonata tanto lunga, ha sorriso. Spera che Benedetta abbia ereditato la sua statura. Sarebbe bello se un giorno diventasse una campionessa di pallavolo.

di Melania Mazzucco
di Benedicta Froelich
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Biscotti prussiani M-Classic in conf. speciale, 516 g, (100 g = 0.70)

Migros Ticino

Tutta la frutta con nocciolo Migros Bio e Demeter per es. nettarine Migros Bio, Spagna/Italia/Francia, al kg, 5.55 invece di 6.95

3.30

invece di 4.95 Uva Vittoria Italia, al kg

5.95 invece di 7.50

3.95 invece di 5.50 Pomodorini ciliegia a grappolo Svizzera, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.79)

Intense

di 5.90

verdi Migros Bio Svizzera, 500 g, (100 g = 0.94)

Migros Ticino
Fagiolini

Grandi bontà a piccoli prezzi

3.50 invece di 5.90

1.95

invece di 2.50

Bistecche di collo di maiale marinate Grill mi, IP-SUISSE in conf. speciale, 4 pezzi, per 100 g 22% Ali

2.25 invece di 2.90

Costine carrè di maiale Svizzera, per 100 g, in self-service 22%

4.95

invece di 6.20

Tartare di manzo Svizzera, prodotta e imballata in filiale, per 100 g, in self-service 20%

Bontà appena pescate, direttamente sulla tua tavola

31%

13.95

invece di 20.25

Gamberetti M-Classic, sbollentati, tail-off, ASC d'allevamento, Ecuador, in conf. speciale, 450 g, (100 g = 3.10)

33%

Pacific Prawns ASC o frutti di mare misti, Costa prodotto surgelato, in conf. speciale, per es. Pacific Prawns ASC, 800 g, 19.75 invece di 29.60, (100 g = 2.47)

2.55 invece di 3.70

Tranci di salmone con rosmarino Grill mi, ASC d'allevamento, Norvegia, in vaschetta per grill, per 100 g, in self-service 30%

15.95

Tsubaki 345 g, in self-service, (100 g = 4.62)

20%

In vendita anche al banco

Tutto il pesce svizzero al banco e in self-service, per es. filetti di trota salmonata con pelle, d'allevamento, per 100 g, al banco, 3.40 invece di 4.30

Sushi

Soffice, cremoso o alle noci?

Il nostro pane della settimana: la corona vanta una mollica soffice e la nota intensa tipica della cottura in soluzione alcalina. Formato molto facile da dividere

2.95

Torta alle noci engadinese o grigionese Migros Bio, per es. engadinese, 500 g, 6.35 invece di 7.95, prodotto confezionato, (100 g = 1.27)
7.95
Torta Foresta Nera M-Classic Ø 16 cm, 500 g, prodotto confezionato, (100 g = 1.20)

Formaggi e latticini

Qui la cremosità è sublime

LO SAPEVI?

Il Caprice des Dieux è prodotto in un caseificio della Francia orientale. Tutti i produttori di latte distano meno di 70 km dal caseificio. Per gustare appieno questo formaggio cremoso dalla crosta vellutata occorre toglierlo per tempo dal frigorifero affinché possa sprigionare tutta la sua cremosità.

Tutto l'assortimento Galbani

NOSTRANI DEL TICINO

conserva a lungo fuori dal frigo 5.25

Migros Ticino offre un assortimento di oltre 500 prodotti della regione. La scelta comprende articoli di tutte le categorie, dalla verdura alla carne, dai formaggi alle bibite fino alle specialità più ricercate. Tutti i prodotti provengono da fornitori locali che li lavorano in modo responsabile e sostenibile.

Serviti a 360 gradi Scorta

a partire da 2 pezzi 20%

Tutto l'assortimento di cereali, Nestlé per es. Cini Minis, 500 g, 4.– invece di 4.95, (100 g = 0.79)

20%

Graneo o Snacketti, Zweifel disponibili in diverse varietà, per es. Graneo Original, 2 x 100g, 4.70 invece di 5.90, (100 g = 2.35)

conf. da 4 25%

Rio Mare disponibili in diverse varietà e in confezioni multiple, per es. Tonno all'olio d'oliva, 4 x 104 g, 14.– invece di 18.80, (100 g = 3.37)

Tutti i tipi di aceto balsamico e condimento, Ponti e Giacobazzi per es. aceto balsamico di Modena Ponti, 500 ml, 3.80 invece di 4.80, (100 ml = 0.76) 20%

conf. da 2

da 2 40%

Pasta ripiena Anna's Best Tortellini Tricolore al basilico o Tortelloni Ricotta & spinaci, per es. Tricolore al basilico, 2 x 500 g, 6.95 invece di 11.60, (100 g = 0.70)

Tutti i tipi di pasta, i sughi per pasta e le conserve di pomodoro, Migros Bio (prodotti Alnatura e Demeter esclusi), per es. fusilli integrali, 500 g, 1.80 invece di 2.25, (100 g = 0.36) 20%

4.75

Tutti i sofficini M-Classic prodotti surgelati, per es. al formaggio, 8 pezzi, 480 g, (100 g = 0.99) 20%

invece di 5.95

16.50

invece di 22.–

Mini pizze Piccolinis Buitoni prodotto surgelato, in confezione speciale, al prosciutto o alla mozzarella, 40 pezzi, 1,2 kg, (100 g = 1.38) 25%

conf. da 2 20%

Cornatur scaloppine con mozzarella e pesto o nuggets, per es. scaloppine, 2 x 240 g, 9.50 invece di 11.90, (100 g = 1.98)

conf.

Gelatamente irresistibili

Proprio quel che ci vuole per decorare la tavola il 1° agosto

Tutto l'assortimento Crème d'Or prodotti surgelati (art. spacchettati esclusi), per es. Vanille Bourbon, 1 litro, 8.75 invece di 10.95

Blub blub blub, glu glu glu

Gazéifiée o Naturelle, 24 x 500 ml, (100 ml = 0.08) conf. da 24 50%

9.–

invece di 18.–

6 x 1,5 litri, (100 ml = 0.03) conf. da 6

2.95 invece di 4.95

Tutti gli sciroppi in bottiglie di PET 750 ml e 1,5 litri, per es. al lampone, 750 ml, 2.35 invece di 2.95, (100 ml = 0.31) 20%

well Antioxidant, Awake oppure Reload, 6 x 500 ml, per es. Antioxidant, 9.95 invece di 13.50, (100 ml = 0.33) conf. da 6

LO SAPEVI?

La linea Clean & Free del marchio di cosmetici Manhattan che non esegue test su animali è caratterizzata da prodotti vegani al 100% senza oli minerali e con oltre il 70% di ingredienti naturali. Il nuovo mascara Clean & Free Lash Loader fornisce il 300% di volume in più grazie alle fibre vegetali addensanti, senza appesantire le ciglia.

conf. da 2 25%

Collutori Listerine per es. Fresh Mint, 2 x 500 ml, 7.95 invece di 10.70, (100 ml = 0.80)

a

25%

Collutori Listerine

conf. da 3 20%

Fazzoletti di carta o salviettine cosmetiche, Linsoft, FSC® per es. fazzoletti di carta in scatola, 3 x 100 pezzi, 5.50 invece di 6.90

(confezioni multiple e da viaggio escluse), per es. protezione gengive Total Care, 500 ml, 4.90 invece di 6.50, (100 ml = 0.98)

Tutto l'assortimento Sensodyne e Parodontax (confezioni multiple e speciali escluse), per es. dentifricio Repair & Protect, 75 ml, 5.55 invece di 7.40, (10 ml = 0.74) 25%

conf. da 4 20%

Salviettine cosmetiche Kleenex in confezioni multiple, per es. Original, FSC®, 4 x 72 pezzi, 6.40 invece di 8.–

a partire da 2 pezzi 20%

Tutto l'assortimento Molfina e Gynofit (confezioni multiple e sacchetti igienici esclusi), per es. Bodyform Air Molfina, FSC®, 46 pezzi, 1.50 invece di 1.85, (1 pz. = 0.03)

conf. da 3 20%

Dischetti di cotone Primella o bio e bastoncini ovattati Primella per es. dischetti Primella, 3 x 80 pezzi, 4.65 invece di 5.85, (100 pz. = 1.94)

6.70 invece di 8.40

Fazzoletti Tempo, FSC® in conf. multipla o speciale, per es. Classic, 30 x 10 pezzi 20%

4.25

Fazzoletti di carta Linsoft Classic, FSC® in conf. speciale, 42 x 10 pezzi Hit

partire da 2 pezzi

Per amore dei nostri piccini

a partire da 2 pezzi 20%

Tutto l'assortimento di prodotti per la cura dei bebè e di detergenti, Milette (confezioni multiple escluse), per es. shampoo, 300 ml, 2.40 invece di 2.95, (100 ml = 0.80)

20x

19.95 Pampers Extra Large 7 28 pezzi, (1 pz. = 0.71)

i pannolini DryNites e Little Swimmers, Huggies per es. Little Swimmers 3–4, 12 pezzi, 9.75 invece di 12.95 a partire da 2 pezzi 25%

Per un sederino piacevolmente asciutto 11.95

da 7

Calze per bambini disponibili in diversi colori, numeri 27/30–39/42

Tutti

Un affare pulito in tutto e per tutto

15.50

di 25.85 Carta per uso domestico Plenty, FSC® Fun Design, Original o 1/2 strappo, in conf. speciali, per es. Fun Design, 12 rotoli

16.95 invece di 19.95

Rose nobili Fairtrade disponibili in diversi colori, mazzo da 9, lunghezza dello stelo 60 cm, il mazzo 15%

Tutti i cactus e le piante grasse per es. Aloe vera, vaso, Ø 15 cm, 11.95 invece di 14.95

Prelibatezze per cani e gatti

Solo 2 calorie per pezzo

Shake Ups Multivitamins e Catnip, Dreamies per es. Shake Ups Multivitamins, 55 g, 2.95, (10 g = 0.54), in vendita nelle maggiori filiali

11.90 Vital Balance

con agnello 12 x 85 g, (100 g = 1.17)

Senza cereali, con verdure aggiunte

di proteine 10.45 Cesar Natural Goodness 8 x 100 g, (100 g = 1.31), in vendita nelle maggiori filiali 20x

Cuts di cinghiale

Mini Steaks di cervo Adventuros

g, (10 g = 0.57)

Prezzi imbattibili del weekend

Brunch: buono Prezzo: anche

Emmentaler dolce per 100 g, prodotto confezionato 20%

1.35

invece di 1.70

Tutti gli yogurt bio e i vegurt V-Love Migros Bio (yogurt di latte di pecora e di bufala esclusi), per es. moca Migros Bio, Fairtrade, 180 g, –.80 invece di –.95, (100 g = 0.42)

Salmone affumicato Migros Bio d'allevamento, Norvegia, in conf. speciale, 180 g, (100 g = 6.64) 30%

Tutte le trecce precotte per es. treccia al burro IP-SUISSE, 550 g, 2.80 invece di 3.50, (100 g = 0.51) 20%

partire da 2 pezzi 30% 11.95 invece di 17.10

Tutti i tipi di caffè istantaneo, Nescafé per es. Gold De Luxe, in vasetto, 100 g, 5.80 invece di 8.25

Tutti i rösti M-Classic per es. original, 500 g, 1.75 invece di 2.50, (100 g = 0.35)

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