Azione 31 del 2 agosto 2022

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Anno LXXXV 2 agosto 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

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SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Quando il «baby blues» perdura, si parla di depressione post-parto, che può avere anche conseguenze gravi

Individuare le coordinate materiali e concettuali dello spazio esplorato con la fotografia di viaggio

Con Droupadi Murmu, l’India elegge la prima presidente donna e di origine tribale

È uscita una nuova versione di Suite francese, il capolavoro di Irène Némirovsky. Ed è una sorpresa

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Vicini, ma quanto?

Simona Sala

Keystone

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Credit Suisse all’ultima spiaggia Peter Schiesser

Se ci avessero detto 15 anni fa, prima della crisi finanziaria del 2008, che il valore del titolo di Credit Suisse sarebbe passato da quasi 90 a poco più di cinque franchi, non lo avremmo creduto possibile. Durante quella tempesta, scatenata dalla crisi dei mutui negli Stati Uniti, il CS non aveva neppure avuto bisogno dell’ombrello finanziario della Confederazione, diversamente da UBS, giunta a un passo dal fallimento. Per cui negli anni successivi, quando le banche centrali degli Stati Uniti e dell’Unione europea avevano inondato il mondo di carta moneta per evitare l’implosione dell’economia, non aveva avuto motivo di cambiare la sua strategia, caratterizzata da un forte investment banking e un’alta propensione al rischio. In un periodo in cui i tassi erano vicini allo zero valeva la pena investire in borsa, l’investment banking era una gallina dalle uova d’oro, la compra-vendita di azioni, il finanziamento di fusioni e acquisizioni di aziende portava centinaia di milioni di profitti. Il CEO di Credit Suisse Brady Dougan brillava come un Re Mida, indennizzato lautamen-

te con complessivi 150 milioni di franchi. Poi i problemi hanno cominciato ad accumularsi fino a manifestarsi visibilmente nel 2015. Il manager americano ha dovuto lasciare il posto a Tidjane Thiam, costui poi a Thomas Gottstein. Che non hanno avuto maggior fortuna, poiché nel 2021 il bubbone è esploso. L’investment banking si è rivelato sì fonte di grossi guadagni in certi anni, ma in altri anche di grosse perdite. Inoltre sono venuti a galla numerosi scandali, figli dell’eccessiva propensione al rischio: il 1. marzo del 2021 Credit Suisse ha annunciato perdite stimate fra i 2 e i 3 miliardi di franchi per investimenti andati male nella Greensill Capital; il 29 marzo il fallimento dello Hedge Fond Archegos causa un danno di 10 miliardi di dollari, il Credit Suisse perde 5 miliardi; il 19 ottobre l’organo di sorveglianza finanziaria Finma rimprovera al CS di non aver segnalato gli atti di corruzione avvenuti in un affare che ha coinvolto due aziende statali in Mozambico: del credito di un miliardo di dollari concesso dalla banca, 150 milioni sono serviti

per corrompere funzionari statali del paese africano e 50 milioni sono stati intascati dall’ufficio londinese del Credit Suisse – la banca ha accettato una multa di 475 milioni di dollari e dovrà risarcire il Mozambico con altri 200 milioni; per finire, il 17 dicembre il ministero pubblico della Confederazione ha accusato la banca di non aver chiuso i conti sui cui transitavano capitali della mafia bulgara. In totale, fra multe e perdite per investimenti rischiosi, il Credit Suisse ha perso in dieci anni oltre 10 miliardi di franchi, e soprattutto la fiducia di investitori e clienti (negli ultimi anni i patrimoni gestiti sono diminuiti di oltre 7 miliardi). Una combinazione tossica, perché la chiave del successo di una grande banca sta nella fiducia che si ripone in essa. Ora, dopo la perdita di 1,6 miliardi nel primo trimestre del 2020 e di fronte al disastro continuo, il Consiglio d’amministrazione del Credit Suisse tenta la rivoluzione: l’investment banking verrà ridotto a servizio di sostegno della gestione patrimoniale, si forzerà ulteriormente il cambio di cultura, via da un’alta propensione

al rischio, inoltre i costi dovranno essere ridotti da 16,8 a 15,5 miliardi di franchi, ciò che lascia presagire migliaia di licenziamenti. In sintesi, è il cammino che UBS ha imboccato dieci anni fa. Non a caso il presidente del CdA Axel Lehmann e il nuovo CEO Ulrich Körner hanno entrambi lavorato all’UBS. Körner stesso ha contribuito a cambiarne la strategia, dopo essere stato chiamato all’UBS dal Credit Suisse. L’ottimismo dei vertici della banca non è condiviso da tutti, a leggere la stampa d’Oltralpe. Ulrich Körner è bravo a risparmiare, ma non ha raggiunto gli obiettivi di profitto quando era a capo dell’Asset Management all’UBS. Inoltre è di animo schivo, non propriamente un motivatore, ciò che non gli renderà facile trasmettere il cambiamento culturale. L’analista di Vontobel Andreas Venditti, citato dal «Tages Anzeiger» è severo: il Credit Suisse ha alle spalle molti piani di risparmio e ogni volta i profitti sono calati. Perché è calata anche la fiducia dei clienti. Il punto è che il CS non può sbagliare, questa volta, se non vuole essere assorbito da un’altra banca.


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MONDO MIGROS

Ascoltare, capire, cambiare Incontri

A colloquio con il direttore della Cooperativa Migros Ticino Mattia Keller

Simona Sala

Mattia Keller il Ticino l’ha lasciato subito dopo le scuole medie, per frequentare prima un collegio a Svitto e poi la formazione superiore in economia a Zurigo. Sono seguite alcune importanti esperienze Oltralpe, ma senza mai dimenticare quel Ticino delle origini che in qualche modo ha forse determinato il calore umano di Keller e il riconoscimento da parte sua dell’importanza delle tradizioni. Da bambino Mattia Keller aiutava lo zio nella produzione di insaccati a Maroggia, e ancora oggi il lago, che vede dal suo paese di Arogno, rappresenta un punto fermo per l’uomo che è a capo di Migros Ticino dal dicembre dello scorso anno. Poco più di sei mesi per tastare il polso alla più grande azienda privata del Cantone, ma anche per prendere consapevolezza delle sfide e dei problemi che a ritmo quasi accelerato si susseguono all’orizzonte. Abbiamo incontrato Mattia Keller per un primo bilancio. Mattia Keller, dal primo dicembre è direttore della Cooperativa Migros Ticino. Considerando che Migros è il primo datore privato del Ticino, si tratta di una grande sfida. Come l’ha affrontata? Sì, le sfide sono molte. Ciò che forse mi ha dato una certa ansia è il pensiero di essere solamente il quarto direttore di Migros Ticino, e chi mi ha preceduto ha veramente influenzato questa azienda. Il primo, Charles Henri Hochstrasser, l’ha fondata nel 1933, il secondo, Ulrico Hochstrasser, l’ha portata avanti e sviluppata e il terzo, Lorenzo Emma, vi ha lavorato per quasi vent’anni, radicandola ancor più nel territorio, introducendo la stupenda gamma di prodotti Nostrani del Ticino e ampliandone la rete di vendita, il che non è poco. D’altra parte però ho sempre pensato che la conduzione di un’azienda, indipendentemente da dove essa si trovi, comporta sempre le stesse sfide: occorre immedesimarsi, imparare, capire per poi dare impulsi forti, ed è una consapevolezza che mi ha permesso di iniziare con serenità. La sfida però in questo caso comprende anche un senso di responsabilità… Sì, certo, provo un sentimento di responsabilità per il territorio da cui provengo e, come ho già detto in altre occasioni, la cosa bella è che attraverso la mia posizione ho modo di fare qualcosa di buono per il nostro cantone. D’altra parte sono consapevole dell’importanza di questo ruolo e degli errori che potrei potenzialmente commettere e che avrebbero un grande impatto su molte persone. A questo proposito basti pensare alla gamma dei prodotti Nostrani del Ticino, e al peso che hanno sulla nostra agricoltura: dietro ogni prodotto c’è una realtà locale, persone quasi della porta accanto, verso le quali l’azienda sente una grande responsabilità.

Come è stato accolto da Migros Ticino dopo che il suo predecessore Lorenzo Emma l’ha guidata per quasi un ventennio? L’azienda mi ha accolto molto bene, trasmettendomi un senso diffuso di volontà di fare e di crescere, anche per quanto riguarda la cultura aziendale. Ogni giorno trascorso in azienda per me rappresenta una scoperta: mi rendo conto di quanto sia incredibile la Comunità Migros, che si sta rivelando pozzo infinito di idee, di progetti, di specialisti, di tecnologia e di spunti. Queste risorse però vanno utilizzate e messe in rete tra di loro così da favorire il più possibile ogni tipo di scambio. Mi piace a questo proposito rifarmi al concetto di «ponte» tanto caro a Duttweiler: abbiamo un ponte, ma è giunto il momento di rafforzarne i sostegni e allargare la sua carreggiata. Attraverso l’enorme attenzione suscitata nei media a livello nazionale, la recente votazione sull’introduzione dell’alcol ha dimostrato l’importanza di questa azienda anche a livello di opinione pubblica. In fondo Migros è ad oggi l’unica azienda di vendita al dettaglio in grado di suscitare tali discussioni politiche. Come ha vissuto la votazione? Sebbene la rilevanza della realtà Migros mi fosse ben nota, anche perché l’azienda della mia famiglia fino al 2011 ha rifornito Migros Ticino, è solo nel momento in cui sono entrato a farne parte che ho compreso fino in fondo tutte le implicazioni. Basti pensare al fatto che Migros Ticino ha ben 104’000 soci, ossia quasi un terzo della popolazione o che, come ha dimostrato una recente statistica, il marchio Migros è di gran lunga il più riconosciuto in Svizzera. Credo che proprio per questo la votazione sull’introduzione dell’alcol sia stata percepita come una votazione federale, sia a livello di opinione pubblica sia dai corrispondenti dei giornali. Uno degli aspetti emersi durante la raccolta di opinioni nel periodo della votazione è quello legato ai valori della Migros. Molte persone, anche giovani, guardavano all’introduzione dell’alcol negli scaffali dei supermercati come a un tradimento dei valori cari al fondatore di Migros Gottlieb Duttweiler. Quanto è sentita la questione dei valori a livello aziendale? La cultura aziendale si basa su molti valori che da sempre permeano il mondo Migros. Basti pensare allo 0,5% della cifra d’affari in favore del Percento culturale Migros, che nessuno oserebbe mai mettere in discussione. Oppure al fatto che quando si tratta di prendere delle misure più incisive, come lo è stata recentemente la chiusura di alcune sedi della Scuola Club Migros, si cercano immediatamente tutte le vie per andare incontro alle persone interessate, sostenendole come e dove possibile.

guardo vorrei incrementare il numero degli apprendisti presenti formati da Migros Ticino: la nostra azienda può trasmettere ottime competenze, e ciò va valorizzato.

Mattia Keller, classe 1974, è direttore di Migros Ticino da dicembre 2021.

Chi lavora per Migros non subisce le pressioni dettate da grossi investitori, e forse anche questo contribuisce a una cultura del rispetto e a un’attenzione più marcata ad aspetti che potremmo chiamare «integrativi» in senso lato. Le faccio un esempio: dal 1989 Migros Ticino collabora con la Fondazione Diamante, e a nessuno passerebbe per la testa di mettere in discussione questo sodalizio, semplicemente perché è giusto così. La cultura del rispetto è tangibile anche in occasione degli incontri con i miei pari a livello nazionale: pur essendo Migros Ticino la seconda cooperativa più piccola della Svizzera, sono trattato e considerato alla stessa stregua di tutti gli altri, poiché l’importanza delle persone non dipende dalla cifra d’affari che esse rappresentano. Vorrei anche sottolineare l’importanza del rispetto per il territorio: noi siamo qui per il nostro territorio, e in futuro ciò dovrà trasparire ancora di più, ad esempio attraverso un’ulteriore valorizzazione dei Nostrani del Ticino. Fra i suoi compiti vi è anche quello di conservare il delicato equilibrio tra la tradizione aziendale e lo spirito innovativo che la contraddistingue. Come si muove fra questi due fronti? E dove intravvede i margini di manovra e di crescita? Portando innovazione e impulsi evolutivi, ma tenendo ben presente l’eredità culturale Migros. I margini di crescita ci sono. Occorre rivitalizzare e ristrutturare la rete di filiali, introdurre novità tecnologiche che facilitano la vita e reagire in maniera agile e rapida ai bisogni dei consumatori. Al momento ad esempio stiamo provando con successo una nuova modalità di esporre frutta e verdura. Abbiamo inoltre introdotto la possibilità di acquistare alimenti sfusi bio (pasta,

riso, legumi, noci, frutta secca, cereali, semi e dolciumi) per la clientela sensibile alla sostenibilità e i risultati di questo test si sono visti subito. Dovremo anche espandere la rete dei punti vendita e in tale ambito ci appoggeremo a un nuovo concetto, con i supermercati di prossimità VOI (v. «Azione» del 13 giugno 2022). Il futuro ci chiede una nuova gestione degli spazi, poiché se un tempo si riempivano gli scaffali nella convinzione che più merce era esposta e più la gente comprava, oggi non funziona più così: è necessaria una migliore leggibilità dell’assortimento: il cliente deve orientarsi facilmente e sentirsi a suo agio in negozio. Anche la digitalizzazione giocherà un ruolo sempre più grande, per iniziare attraverso l’introduzione di etichette elettroniche di prezzo sugli scaffali. Il Ticino è confrontato con un altro grosso problema, sui cui è assai difficile avere un’influenza: la gente si reca spesso e volentieri oltre confine per fare la spesa… Oggi ci troviamo in una specie di tempesta perfetta, siamo in una situazione di concomitanza di molti effetti negativi. Oltre alla riapertura totale di tutti gli esercizi siamo confrontati con un cambio euro-franco per noi sfavorevole, con una differenza significativa del prezzo della benzina, con l’inflazione, con gli effetti del conflitto ucraino e con l’idea radicata che l’Italia sia più conveniente a prescindere. Eppure l’Italia è il paese europeo che ha subito l’inflazione più importante degli ultimi mesi. A queste condizioni quadro è difficile rispondere a breve termine. Noi però dobbiamo restare sulla via tracciata, e continuare nel nostro lavoro di orientamento costante ai bisogni del cliente, rinnovamento, ammodernamento, espansione e formazione del personale. A questo ri-

Crede che i grandi centri commerciali abbiano ancora un futuro? Certo che sì! L’essere umano tende spesso a suddividere il mondo in bianco o nero. Sebbene abbia sentito molte persone affermare che i centri commerciali sono ormai morti, io credo invece che debbano evolvere, cambiare. Ci sarà sempre il bisogno di fare un acquisto che «vada oltre», di un assortimento più ampio, ma soprattutto di vedere e toccare la merce fisicamente. Quello che va cambiato è l’orientamento dei centri commerciali. Prendiamo ad esempio il Centro di Sant’Antonino: l’offerta commerciale deve evolvere; il giardino esterno e il parco giochi verranno valorizzati maggiormente, trasformandosi così in un punto d’incontro. Si dovranno cercare nuovi scopi e modi di fruizione degli spazi a vantaggio di tutti i negozi presenti. La pandemia sul lungo termine ci costringerà a rivedere la questione degli spazi e degli spostamenti, i consumi saranno indubbiamente più decentralizzati nel proprio quartiere o paese, ma ciò porterà, auspicabilmente, anche a una qualità di vita migliore. Dalla fine della pandemia Migros non ha mai del tutto «richiamato» i propri dipendenti in ufficio, dando loro modo, laddove possibile, di lavorare parzialmente in homeworking: un’ulteriore prova della sensibilità di Migros? Migros ha sempre dimostrato grande sensibilità verso i cambiamenti profondi della società. La pandemia ha cambiato le nostre abitudini, ci siamo resi conto di potere recuperare delle dimensioni private che forse avevamo perso, e in questo nuovo contesto l’azienda ha voluto dare fiducia ai propri dipendenti istituzionalizzando la possibilità di lavorare da casa. Durante il Covid ci si è resi conto che le cose funzionavano lo stesso, perché dunque non fare un passo evolutivo? Proprio recentemente Migros ha firmato un nuovo contratto collettivo nazionale di lavoro (che entrerà in vigore nel 2023) che prevede tra gli altri miglioramenti per i collaboratori, un adattamento ai loro nuovi bisogni, soprattutto una migliore conciliabilità tra lavoro e vita privata. A poco più di mezz’anno dal suo ingresso in azienda sente già di potere fare un bilancio della sua conduzione? Sono molto contento, anche se credo che «molto» e «contento» non siano le parole giuste. Sono infatti insufficienti per esprimere quello che provo: sono estremamente stimolato, ho trovato un’apertura incredibile tra i colleghi, e ogni giorno intravvedo nuovi margini di miglioramento e sviluppo.

azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)

Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Simona Sala, Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Natascha Fioretti Ivan Leoni

Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938

Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano

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Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera Fr. 48.– Estero a partire da Fr. 70.–


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SOCIETÀ ●

Un museo per Donetta A colloquio con Maria Rosaria Bozzini, che grazie a impegno e passione ha dato vita al prezioso Archivio Donetta

Mondo artico e spirito di sopravvivenza La mutazione dell’habitat è uno dei principali fattori del cambiamento negli animali per adattabilità, distribuzione e vitalità delle specie

Notizie dal vicinato Il Gottlieb Duttweiler Institut ha pubblicato i risultati della prima ricerca sui rapporti di vicinato in Svizzera

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Chi perde la gioia del lieto evento? Medicina ◆ La depressione post-parto può avere conseguenze anche gravi e causare molta sofferenza alla paziente e alla famiglia Maria Grazia Buletti

Diventare genitori comporta cambiamenti importanti, talvolta fonte di tensioni e stress. Nei giorni che seguono il parto, molte donne vivono il «baby blues», una condizione fisiologica comune caratterizzata da sentimenti di tristezza e preoccupazione. In questo frangente può capitare che la mamma abbia la sensazione di non riuscire a far fronte alla situazione. «È un disturbo transitorio, dovuto principalmente ai cambiamenti fisiologici e ormonali, che di solito scompare nel giro di poco tempo. Non va sottovalutato lo sforzo del parto e le variazioni ormonali a carico dell’asse ipotalamo-ipofisario». A parlare è lo psichiatra e psicoterapeuta Antonio Malgaroli, dell’ambulatorio per l’ansia e lo stress della Clinica Sant’Anna di Sorengo che specifica: «Se invece perdura, si tratta di una depressione post parto, forse scatenata dall’accentuata sensibilità della donna verso la riduzione dei livelli di estrogeni e progestinici che avviene a ridosso del parto, da un’alterata sensibilità ai neurosteroidi o all’ossitocina, oppure ancora da un’alterata funzionalità immunitaria. La sintomatologia è complessa: dalla tristezza continua, all’irritabilità, all’agitazione, alle difficoltà di concentrazione, all’ansia, paura, senso di inadeguatezza e di colpa. La donna teme di non essere all’altezza dei compiti e delle responsabilità che l’aspettano, mentre la vergogna e la paura di essere giudicata come una persona psicologicamente debole o come “un cattivo genitore” le impediscono spesso di cercare aiuto». Eppure, in Svizzera è molto diffusa: secondo l’associazione Svizzera Depressione Post Partum essa interessa circa il 15% delle neomamme. In linea con gli studi epidemiologici, Malgaroli conferma che la depressione post parto colpisce, a diversi livelli di gravità, dal 7 al 12% delle neomamme: «Nel 50% dei casi, l’aumento del livello di ansia e i cambiamenti del tono dell’umore precedono il parto». I molteplici fattori di rischio biologici e psicosociali variano da persona a persona, tra questi: «una precedente storia clinica di ansia e depressione, uno scarso supporto sociale e/o familiare, eventi stressanti o traumatici quali i lutti famigliari, i problemi sul lavoro, le difficoltà relazionali e via dicendo». Una ricerca condotta dall’équipe del professor Umberto Volpe della clinica psichiatrica dell’Università Politecnica delle Marche conferma pure altri fattori rischio come l’età

più giovane della madre, la bassa scolarità e l’aver già sofferto di depressione. La pervasività della depressione post parto rinforza l’importanza di riuscire a individuare e sostenere le neomamme che si trovano in questa difficile situazione, spiega Malgaroli: «Possiamo equiparare le aree che compongono il cervello a tante piccole scatole dove ciascuna svolge una funzione specifica. Tutto può funzionare in modo coordinato solo se ogni scatola “ascolta” ciò che le altre stanno facendo. Una capacità d’ascolto non ancora ben chiara che evidentemente può dipendere da forme di iperconnessione o dall’effetto di molecole chimiche che agiscono a distanza quali gli ormoni (estrogeni, progestinici, steroidi, ossitocina, prolattina) e alcuni neurotrasmettitori (norepinefrina, serotonina, dopamina). Nelle persone che soffrono di depressione si osservano anomalie a carico di quasi tutte le strutture cerebrali e ciò fa pensare a una minore efficienza di queste vie di iperconnessione». Esistono però importanti differenze tra la classica depressione e quella post parto: «Due condizioni non perfettamente sovrapponibili, forse per le brusche variazioni ormonali che accompagnano il parto e l’allattamento». È ben noto come alcuni di questi ormoni (ad esempio gli estrogeni) abbiano un enorme effetto sulla plasticità sinaptica di alcune aree cerebrali, con la più evidente conseguenza del malfunzionamento di quella rete neuronale che sottintende la relazione madre-figlio, e che condiziona lo sviluppo psicofisico del bambino: «È dimostrata l’importanza del contatto materno nello sviluppo della relazione fra mamma e neonato; ad esempio, il bambino guarda la mamma e attende da lei una risposta. Se lei non mostra interesse, non ha una reazione facciale empatica, il neonato si mette a piangere perché manca questo messaggio emotivo. La coppia mamma-neonato “in salute” mostra una grande attenzione reciproca, un’intensa comunicazione verbale e visiva, segnali veicolati dai sorrisi, dal contatto fisico, dall’abbraccio, dai baci. Questo genera un senso di tranquillità e sicurezza». Non a caso, nello sviluppo della relazione, quando la mamma incoraggia il figlio a fare qualcosa che teme, egli acquisisce la sicurezza che gli permette di farlo. Quindi, la depressione post parto non chiama in causa solo la salute della donna, ma anche il benessere del bambino: «Una mam-

Lo psichiatra Antonio Malgaroli, ambulatorio per l’ansia e lo stress, e Ilaria Liberali, responsabile del Dipartimento materno– infantile entrambi in forza alla Clinica Sant’Anna di Sorengo. (Stefano Spinelli)

ma che soffre di ansia e depressione post parto induce uno stato analogo nel bambino, facilitando l’insorgenza di difficoltà emotive e cognitive nel corso del suo sviluppo». Raccogliere quegli allarmi descritti fa sì che il disagio non sfoci in una vera e propria depressione post parto (anche grave) dalla quale non si esce se non sostenuti adeguatamente. Resta da capire come affrontare la situazione prima che precipiti o cronicizzi, scalfendo l’alone di vergogna che troppo spesso impedisce alla madre di chiedere aiuto anche quando riconosce che «qualcosa non va». Lo psichiatra sottolinea che «La gravidanza è un periodo di grande e faticoso cambiamento per la donna che potrebbe trovarsi a essere come un elastico in tensione per troppo tempo, perdendo elasticità. Allo-

ra, prima si interviene e meglio è». Dal canto suo, Ilaria Liberali (responsabile del Dipartimento materno-infantile alla Clinica Sant’Anna di Sorengo) esprime la difficoltà del personale medico e ostetrico di rendersene conto nei pochi giorni di degenza per il parto: «Siamo sempre attenti a cogliere eventuali segnali sospetti nella relazione mamma-neonato, comunicandoli a chi di dovere: ad esempio, se la mamma non è interessata al suo bambino, non vuole allattarlo, non lo tiene in braccio e mostra chiaro disinteresse». Al di là di ciò, è importante creare una solida rete di sostegno: «La vergogna è qualcosa che ha a che fare con sé stesse; la mamma che soffre di questa forma depressiva fatica a comunicarla, ma l’ostetrica che conduce il corso di preparazione al parto, e poi la

rete molto efficace delle levatrici indipendenti che agganciano la neomamma andando a domicilio, sapranno cogliere gli aspetti allarmanti». Inoltre, anche nel nostro Cantone, come nel resto della Svizzera, mette radici l’Associazione Svizzera Depressione Post Partum (www.depressione-postpartum.ch) che, per voce della referente psicologa Elena Ganzit, «dal 2006 si impegna con molta passione, attraverso la collaborazione di alcune donne che ne hanno sofferto, a fornire maggiori informazioni, una migliore rete di contatti e un aiuto più rapido. La nostra assistenza è gratuita ed è possibile grazie a donazioni e quote associative». Quando nasce un bambino le incertezze sono tante, ed è per questo che è importante saper chiedere aiuto, se necessario, per il benessere di tutti.


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Gli amati pomodori ticinesi

Attualità ◆ La stagione dei pomodori regionali è nel suo pieno svolgimento. Attualmente alla Migros trovate un’ampia scelta di varietà per soddisfare ogni gusto e desiderio

Il pomodoro ramato viene venduto a grappoli e presenta un sapore più marcato rispetto al pomodoro tondo. È il pomodoro più venduto in Svizzera e si può gustare sia crudo che cotto in una miriade di ricette.

Questa deliziosa varietà di pomodoro mantiene la forma e il colore anche se tagliato finissimo o cotto. Ricco di polpa ma poverissimo di succo, l’intense è ottimo per bruschette, caprese, sandwich, ma anche grigliato o cotto al forno.

Il re per eccellenza delle salse e passate è il pomodoro peretto, conosciuto anche come San Marzano per le sue origini. Ha una forma allungata, una polpa povera di succo e un gusto leggermente dolciastro. Il suo aroma si sviluppa in modo particolare durante la cottura.

Questo pomodorino a forma di uovo è molto saporito. Il caratteristico gusto dolce si sprigiona a piena maturazione. Si mantiene croccante anche se maturo. Molto apprezzato come snack o per decorazioni, è disponibile anche in altri colori. Di grosse dimensioni, colore rosso intenso e caratteristica forma a cuore: l’aromatico pomodoro cuore di bue non tradisce il suo nome. Un singolo frutto può arrivare a pesare anche 300 grammi. È ottimo abbinato ai formaggi freschi. I pomodori sono l’ortaggio simbolo della produzione orticola ticinese. Insostituibili in cucina, è proprio durante l’estate che raggiungono il massimo del loro splendore, grazie anche a un clima favorevole che contribuisce allo sviluppo ideale dei deliziosi frutti a sud delle Alpi. Che si tratti di una classica caprese con la mozzarella, di uno sfizioso sugo per la pasta, di un’insalatina mista di stagione oppure di un rinfrescante gazpacho… l’uso culinario dei pomodori è praticamente infinito. Renato Mocettini di

L’orticoltore Renato Mocettini.

Unico in fatto di qualità e gusto, il kumato è un pomodoro dall’originale colore marrone scuro con un perfetto equilibrio tra acidità e dolcezza. Grazie a una polpa soda e profumata, è ideale per la preparazione di fantasiose insalate.

Cadenazzo è uno delle decine di orticoltori del nostro cantone che produce pomodori nel massimo rispetto per l’ambiente. Nella sua azienda a conduzione familiare sita sul Piano di Magadino coltiva alcune varietà di pomodoro tra le più apprezzate dai consumatori locali ma anche d’oltralpe, nella fattispecie cuore di bue, marmande, ramato, cherry e peretto intense. «La superficie dedicata alla loro produzione si estende su oltre un ettaro, interamente sotto serra o tunnel», ci spiega l’orticoltore bel-

linzonese che tra le sue altre colture principali può annoverare cetrioli, insalate, zucchine, melanzane e cavolfiori. Malgrado la siccità che sta colpendo quest’anno anche la nostra regione, secondo Renato è comunque una buona stagione per i pomodori: «Sia la qualità che la quantità sono soddisfacenti. Essendo coltivati sotto serra o tunnel, rimangono più protetti dalle condizioni meteorologiche avverse. In ogni caso il pomodoro è una pianta che ama in modo particolare il calore. Sicuramente a soffrire mag-

Foto di Flavia Leuenberger Ceppi

I pomodorini cherry o ciliegia possiedono un aroma dolce e intenso. Sono ideali per il consumo crudo, poiché con il calore tendono a perdere sapore. Particolarmente amati anche dai bambini, sono ottenibili anche in altri colori.

giormente del gran caldo sono le colture in campo aperto, le quali vanno annaffiate più spesso rispetto a stagioni con piogge più regolari». Il grosso della produzione ticinese di pomodori va da maggio a fine settembre. Renato Mocettini in questo periodo rifornisce dei suoi ortaggi Migros Ticino tramite la TIOR SA di Cadenazzo, la società della Federazione Ortofrutticola Ticinese (FOFT) che commercializza gran parte della produzione orticola ticinese. Quale momento migliore per farne una scorpacciata?

Rassegna artigianato ticinese Attualità

Dal 2 al 13 agosto il Centro S. Antonino ospita un’attività dedicata agli artigiani del nostro Cantone

Dopo due anni di stop dovuti alla pandemia, ritorna l’apprezzata rassegna dedicata agli artigiani del nostro Cantone. Questa attività, diventata ormai un appuntamento fisso tra le proposte dal Centro S. Antonino, quest’anno vedrà la partecipazione di una decina di artigiani provenienti da tutto il Ticino che come consuetudine esporranno le loro creazioni in un caratteristico contesto di «piazzetta di mercato». Si potranno così ammirare per esempio opere eseguite artigianalmente con il legno, la vetro-fusione, il feltro, la ceramica, il sapone o ancora

con la lana e il tombolo. Inoltre, durante le giornate d’esposizione, sono previste alcune dimostrazioni dal vivo e un concorso che non mancheranno di coinvolgere e appassionare i visitatori del centro commerciale. La rassegna è organizzata in collaborazione con l’Associazione Artigiani del Ticino, istituzione senza scopo di lucro che riunisce e promuove gli artigiani che producono nella nostra regione. Scopri di più centrosantantonino.ch facebook.com/centrosantantonino


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MONDO MIGROS

Passione Funko Pop

Novità ◆ I Melectronics di Lugano, Agno e Locarno propongono un’ampia scelta di figure Funko Pop tutte da collezionare

Gusto avvolgente e fresco Novità ◆ La stracciatella di burrata è una specialità pugliese tutta da gustare

Stracciatella di burrata Murgella 140 g Fr. 3.95 In vendita nelle maggiori filiali Migros

Conosciuti anche come «bobbleheads», ossia pupazzi con la testa che ciondola, i Funko Pop da qualche tempo sono diventati dei veri e propri oggetti di culto per i collezionisti di tutto il mondo. Ispirati a personaggi di fantasia di film, serie tv e fumetti (p.es. Marvel, Disney, Star Wars o

DC), ma anche a celebrità del mondo reale come musicisti e sportivi, i Funko Pop sono delle figure di ca. 10 cm realizzate in vinile che si distinguono per il design dallo stile innovativo e inconfondibile, in grado di sedurre sia grandi che piccini. Un’ampia selezione di figure Funko Pop è ora dispo-

nibile nei reparti Melectronics di Lugano, Agno e Locarno. A proposito: se sei alla ricerca di un personaggio particolare oppure di una limited edition che non riesci a trovare in negozio, gli addetti di Melectronics faranno il possibile per procurartelo. Vieni a curiosare!

Da sola spalmata su pane tostato, per accompagnare e arricchire verdure, paste, salumi o altri piatti della tradizione mediterranea, la stracciatella di burrata Murgella rappresenta un versatile e gustoso connubio all’insegna dell’equilibrio e della semplicità. Specialità preparata con il ripieno della

classica burrata, viene ottenuta con pasta filata «stracciata» e cremosa panna UHT. Questa delizia, vero e proprio orgoglio della tradizione culinaria pugliese, viene preparata senza l’utilizzo di caglio animale, pertanto è certificata come prodotto vegetariano dall’Associazione Vegetariana Italiana. Annuncio pubblicitario

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Anno LXXXV 2 agosto 2022

Settimanale di informazione e cultura

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SOCIETÀ

Una passione nata nella stanza del fumo

Incontri ◆ Storia di Maria Rosa Bozzini che negli anni Ottanta contribuì a fondare l’Archivio del fotografo bleniese Roberto Donetta a Corzoneso Sara Rossi Guidicelli

Ci sono vari modi di prendersi cura del territorio e della sua storia. A volte bastano piccoli gesti, ma qui oggi vogliamo parlare di un grande gesto. Partiamo dal presente. Corzoneso, terrazzo affacciato sulla Valle di Blenio. Ci sono il paese e la frazione di Casserio. A Casserio c’è una casa, rotonda, chiamata appunto Casa Rotonda. Dentro c’è un’esposizione di fotografie di Roberto Donetta. Infatti lì si trova la sede della Fondazione Donetta, che possiede 5000 lastre del fotografo bleniese Roberto Donetta (1865-1932). Ogni anno la Fondazione propone alcuni eventi per mettere in valore l’opera del fotografo di inizio Novecento, importante sia come testimone di un’epoca sia come artista.

Maria Rosa Bozzini è da sempre amante di quelle che chiama affettuosamente «cose vecchie»

Maria Rosa Bozzini negli spazi espositivi e davanti alla celebre Casa Rotonda di Corzoneso. (Stefano Spinelli)

re alle persone di venire, guardare le riproduzioni e provare a riconoscere i nomi, i luoghi e le date delle immagini di Donetta. «Arrivavano le donnine del paese, prima timide, poi sempre più coraggiose. Adagio adagio uscivano discussioni su ogni fotografia; “Qui la Luisa non c’è perché era andata a suonare il vespro…”; “Ti ricordi la scuola, quando il maestro ci diceva…”; “Uh guarda qua questo con tanti capelli, era soprannominato Schiscianügra [schiaccianuvola]…” Quanti ricordi potevano scaturire da ogni foto! Saltava fuori la vita, quello che c’era e quello che non c’era sull’immagine. Avremmo dovuto filmare quei momenti. Purtroppo molte informazioni non le avremo mai, ma qualcosa negli anni siamo riusciti a raccogliere». Il Comune ha poi restaurato la Casa Rotonda, che oggi è riconosciuta come un gioiello di architettura settecentesca molto particolare e atipica. «La mia vita si è arricchita», racconta Maria Rosa. «Ho incontrato persone che, senza questo progetto, non avrei mai conosciuto e una re-

altà con cui non sarei mai entrata in contatto. Ho sempre avuto un mio bisogno di storia, e quindi, per continuare a raccontare dobbiamo fare un altro passo indietro». Torniamo all’infanzia.

La stanza del fumo era un solaio disordinato che conservava vestiti e fotografie, i ricordi di chi li aveva posseduti La famiglia Bozzini era originaria di Corzoneso ma da piccola Maria Rosa era cresciuta a Giornico. «Secondo me questo è importante», mi dice. «Negli anni Quaranta, in Leventina, c’era un grande fermento culturale. C’erano le cave di granito e vi lavoravano molti fiorentini che oltre a braccia forti avevano portato con sé un certo buon gusto, il canto, il belparlare, un’idea giocosa di vita e di festa». Maria Rosa, da bambina, dopo la scuola si prendeva una fetta di pane, burro e zucchero e andava in cimitero a guardare i nomi e i volti del passa-

Stefano Spinelli

Facciamo un passo indietro. Maria Rosa Bozzini, anni Ottanta. Originaria di Corzoneso, è la persona che ha dato il via a questa riscoperta del patrimonio. Amante delle «cose vecchie», legata al suo paese d’origine, un giorno ha deciso di studiare meglio quel personaggio della sua infanzia e le fotografie che aveva lasciato. Maria Rosa non ha mai conosciuto Donetta di persona, però si ricordava che la gente parlava di lui e che lui aveva lasciato – oltre a una cattiva immagine di sé – bellissime immagini importanti per la memoria della Valle e delle persone che l’abitavano. E così si è messa a cercare informazioni e ha trovato scatoloni pieni zeppi di lastre; al Comune, nella casa parrocchiale e nelle case della gente. Donetta era morto in miseria e antipatia generale e non si aveva idea del valore del suo lavoro. Maria Rosa, invece, fin da giovanissima era stata capace di scorgere nei ritratti di Roberto Donetta una bellezza speciale. «Ho cercato chi aveva una cultura fotografica, perché né io né chi all’epoca mi aiutava in questo inizio di impresa avevamo un’istruzione in tal senso», mi racconta oggi questa signora dallo spirito elegante nella sua casa di Corzoneso. Mentre raccoglieva piano piano 5000 lastre sparse per il territorio «ho scoperto che non bisognava metterci su le dita! E che le lastre prima di essere sviluppate in fotografie nascondono molti dettagli e quindi permettono alla fantasia di colmare tutte le lacune… mi sono divertita tantissimo», sorride Maria Rosa Bozzini, che durante la prima catalogazione degli anni Ottanta collaborò con Egidia Bozzini e con Giuseppe Donetta. Poi andarono dal direttore del Museo Cantonale Marco Franciolli, che subito riconobbe il valore artistico-culturale dell’Archivio che stava nascendo. Fu lui a consigliare la collaborazione con il fotografo Alberto Flammer che sviluppò con entusiasmo molte fotografie di Donetta, comprendendone il talento. Nel 1983 organizzarono a Corzoneso la prima modesta mostra di fotografie che ebbe un discreto successo. In quel periodo già da un po’ di tempo aprivano al pubblico un giorno al mese la Casa Rotonda per permette-

to. Era interessata alle lapidi, non alla terra con le ossa. Perché? Perché era come un album fotografico, racconta. Non erano storie di morte, ma di vita. Fiorentini e cimiteri… ma c’è un altro aspetto della sua infanzia che ha determinato tutto ciò che è arrivato dopo: la stanza del fumo. «Se non avessi avuto le fotografie della stanza del fumo, non so se avrei fatto tutto quello che poi ha dato avvio alla Fondazione Donetta», mi confida. E allora entriamo nella stanza del fumo, negli anni Quaranta e Cinquanta, in un pomeriggio di pioggia insieme alla Maria Rosa bambina, che d’estate andava in vacanza a Corzoneso dagli zii. «Per le vacanze estive partivamo da Giornico con bauli di cibo e vestiti, bagagli immensi, gabbie con le galline, insomma era una specie di transumanza. A Corzoneso all’epoca non avremmo trovato tutto quello che comunemente avevamo in Leventina, quindi ci portavamo dietro di tutto. Però quello che c’era nella casa degli zii in Valle di Blenio è stato impagabile e credo abbia attivato la mia curiosità per sempre». Nella stanza del fumo c’era il ripostiglio dove si metteva quello che non si voleva buttare via, era una specie di solaio disordinato. Un tempo era la stanza dove andava a finire il fumo di tutti i camini di casa, ma poi aveva conservato solo il nome ed era diventata la classica soffitta ingombra di vecchie cose. «Io vi andavo quando era troppo brutto per giocare di fuori e frugavo indisturbata in questa soffitta: mi impressionavano i vestiti delle donne del paese che erano emigrate a Londra. C’erano abiti luccicanti da ballo e una gran quantità di gioielli falsi ma di grande effetto. Il gruppo di teatro del Comune usava questi vestiti che però tenevamo noi nella stanza del fumo perché la nostra casa era in alto e non temeva le inon-

dazioni. E poi c’erano le fotografie di famiglia…». Ecco da dove nasce la Fondazione Donetta. Lì, in quei momenti solitari e silenziosi è nato l’amore di una bambina per le piccole storie di paese. Sfogliava i ricordi di famiglia, le piacevano. «Ho sempre un pensiero per i personaggi delle foto», continua Maria Rosa Bozzini. «Sono portata a credere che questi personaggi sono soddisfatti di sapere che la propria immagine ha una continuità. Per questo penso che mostrare le fotografie d’epoca ai posteri non possa che far piacere ai nostri antenati. Ma soprattutto credo che sia importante per la Valle di Blenio, la nostra piccola storia che è dentro alla grande storia. E poi anche per Roberto Donetta, che aveva un carattere difficile però a me commuove. Mi commuove per esempio perché gli piacevano i fiori. Gli piacevano veramente. Guarda qua queste foto: buttava via i soldi per fare una lastra con su soltanto dei fiori. Era poverissimo ma era un artista, perché faceva quello che voleva, non quello che lo faceva guadagnare». E un pensiero va anche alla fotografia, come arte, contro quella eseguita in fretta, in massa, scattata perché altrimenti abbiamo paura di dimenticarci. Invece la fotografia fatta lentamente, raramente, ci aiuta a ricordare, che è un atto diverso dalla paura di dimenticare. Perché ricordare vuol dire: mettere vicino al cuore, ed è un atto d’amore. Informazioni www.archiviodonetta.ch Maria Rosa Bozzini parteciperà insieme a Marco Franciolli all’incontro per i 90 anni dalla morte di Roberto Donetta in programma il 4 settembre alla Casa Rotonda.


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Vista in elicottero del ghiaccio del pancake sul fiordo vicino a Tasiilaq, Groenlandia orientale. (Franco Banfi)

Così sopravvivono i grandi mammiferi artici Surriscaldamento

Adattabilità, distribuzione e vitalità degli orsi polari a seguito della perdita di ghiaccio artico

Sabrina Belloni

A perdita d’occhio c’è solo mare, rocce, qualche scampolo di neve e ghiaccio ridotto ai minimi termini. Il cielo è blu intenso, terso, nemmeno un accenno di foschia o di nuvole. Niente vegetazione e nessun segno di vita, almeno finché gli occhi non si abituano a scrutare attentamente fra i riverberi dell’intensa luce solare, beffarda. Un paio di urie si librano in volo, decollando dalle falesie a picco sul mare per cercare cibo in oceano aperto. Guardando oltre, in lontananza e in rilievo lungo la costa rocciosa, scorgo un orso polare vagare in cerca di cibo, indifferente alla mia presenza e a quella dei miei compagni di viaggio. Chi ha avuto l’opportunità di recarsi recentemente nell’arcipelago delle Svalbard e in Groenlandia, ha visto in prima persona la scarsità e la riduzione della banchisa ghiacciata su cui cacciano, si spostano, si riproducono e vivono i grandi mammiferi artici. In conseguenza delle mutazioni climatiche e del riscaldamento generalizzato, le banchise di ghiaccio che si formano dal congelamento dell’acqua marina sono più sottili, precarie e durano meno rispetto ad alcuni anni or sono. Per le medesime cause, i ghiacciai formatisi in centinaia di anni per l’accumulo e il congelamento delle precipitazioni nevose (acqua dolce) si sgretolano e riversano in mare iceberg e piattaforme di ghiaccio che vanno alla deriva, seguendo la traiettoria dei venti e il flusso delle correnti finché si dissolvono nel mare. La mutazione dell’habitat è uno dei principali fattori del cambiamento negli animali che lì vivono, di adattabilità, distribuzione e vitalità delle specie. Nel corso dei millenni, le specie selvatiche si sono adattate agli ambienti nei quali hanno vissuto, e hanno sviluppato caratteristiche morfologiche e fisiologiche uniche per soddisfare efficacemente le loro esigenze in territori in perpetua e lenta mutazione. Tali processi evolutivi sono par-

ticolarmente importanti per i mammiferi marini che devono bilanciare i costi energetici straordinariamente ingenti della vita in ambienti termici difficili, con tassi metabolici elevati, e hanno pertanto la necessità di alimentarsi adeguatamente nei pochi mesi ove le prede sono disponibili. Gli orsi polari hanno una dieta estremamente specializzata, cacciano quasi esclusivamente foche ad alto contenuto energetico e il loro apporto nutritivo annuale è acquisito in brevi periodi stagionali. La riduzione delle banchise solide di ghiaccio marino è una continua sfida alla possibilità di cacciare e costringe gli orsi polari a nuotare a lungo, con un dispendio energetico notevole. Durante i mesi estivi, l’assenza di banchise solide li spinge a cercare cibo nell’ecosistema terrestre, che offre limitate risorse alimentari energeticamente interessanti a garantirne la sopravvivenza. Il Norwegian Polar Institute quest’anno ha monitorato cinquanta orsi polari delle Svalbard e li ha trovati in buona salute. Si sono adattati a nutrirsi delle uova deposte dagli edredoni e da altri uccelli marini, divenendo inattesi competitori delle volpi artiche, le quali solitamente rubano alcune uova dai nidi e le nascondono in anfratti del terreno per cibarsene nei mesi più severi dell’anno. Ma una cosa è sostenere una scarna popolazione di volpi artiche (un esemplare adulto pesa in media dai tre ai cinque chili), tutt’altro è mantenere una popolazione di orsi polari affamati (i maschi adulti pesano dai 350 ai 700 chili, le femmine tra i 150 e i 250 chili), che divora interi nidi, costituendo così una minaccia per la sopravvivenza delle grosse anatre. Anche in Groenlandia i ricercatori hanno notato un’evoluzione nelle modalità di caccia degli orsi polari. La ricercatrice Kristin Laidre e la genetista Beth Shapiro dell’università di Washington hanno monitorato per due anni una popolazione che vive lungo la costa sud-orientale, in fiordi re-

Orso polare (Ursus marimus) che (sopra) passeggia intorno al ghiaccio galleggiante e, qui, sul ghiaccio in via di estinzione (IUCN), Spitsbergen, Svalbard, arcipelago norvegese, Norvegia, Oceano Artico. (Franco Banfi)

moti, privi di banchisa solida per oltre otto mesi ogni anno, e l’ha trovata in buone condizioni. Questi orsi cacciano nel modo tradizionale (sopra la banchisa ghiacciata) durante i freddi mesi primaverili mentre in estate e autunno (durante il disgelo) predano le foche sul mélange glaciale, un miscuglio galleggiante di iceberg che si distaccano dai ghiacciai (acqua dolce) limitrofi alla costa, frammenti di ghiaccio marino e neve che resiste sulla parte anteriore dei ghiacciai nei fiordi. Usano il mélange come se fosse ghiaccio marino: camminando in equilibrio precario e nuotando fra i pezzi di ghiaccio, tendono

agguati alle foche che riposano sulle piattaforme galleggianti. Diversamente dal normale comportamento degli orsi polari, questa popolazione non si sposta inseguendo le banchise marine che si dissolvono per la regressione stagionale, né si trasferisce sulla terraferma per cacciare. Gli orsi polari che vivono nella Groenlandia nord-orientale percorrono una distanza media di quaranta chilometri ogni quattro giorni, sprecando un’enorme energia. Mentre la distanza media percorsa era di soli dieci chilometri ogni quattro giorni per gli orsi polari che risiedono nella regione sudorientale e si sono adattati a con-

vivere con il mélange glaciale. Alcuni esemplari si spostano solamente tra i fiordi vicini e a volte restano nello stesso fiordo tutto l’anno. Questa popolazione vive in una zona remota, e le ricercatrici hanno rilevato che si tratta probabilmente del gruppo geneticamente più isolato dell’intero pianeta: si stima che abbia vissuto almeno 700 anni senza alcuna interazione con altre popolazioni di orsi polari. I campioni di tessuti raccolti da 83 esemplari dotati di tag dal 1993 al 2021 rivelano che coloro che vivono nei pressi del 64° parallelo latitudine nord (al di sotto del circolo polare artico) non interagiscono con quelli che vivono più a nord. La Groenlandia ha più di due trilioni di tonnellate d’acqua rinchiuse in un’enorme coltre di ghiaccio che ricopre l’80 per cento del suo territorio. Secondo i dati satellitari del servizio di monitoraggio effettuato da Polar Portal, il 2021 è stato il 25esimo anno consecutivo in cui la calotta ghiacciata della Groenlandia ha perso più massa durante la stagione dello scioglimento (estate) di quella accumulata in inverno. Tuttavia le fasi climatiche si alternano. Nel 2022 lo scioglimento stagionale della superficie in Groenlandia è iniziato lentamente. I venti persistenti provenienti da nord-ovest hanno mantenuto il numero totale di giorni di fusione della calotta glaciale costiera occidentale ben al di sotto della media. L’accumulo di neve dello scorso inverno è stato leggermente superiore alla media e fino al 20 giugno 2022, la calotta glaciale della Groenlandia ha avuto la più bassa fusione della superficie primaverile negli ultimi dieci anni. L’estensione aerea totale della fusione superficiale è stata di poco più di 2,27 milioni di chilometri quadrati, ben al di sotto della media del 1981-2010 di 3,72 milioni di chilometri quadrati (fonte National Snow and Ice Data Center). Ci auguriamo che sia l’inizio di un nuovo trend.


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Quelli della porta accanto

Società ◆ Il Percento culturale Migros ha commissionato al GDI il primo studio sul vicinato svizzero: stare bene con i vicini non può fare che bene, come spiega Jakub Samochowiec Simona Sala

Chi più chi meno, ne abbiamo tutti. Stiamo parlando dei nostri vicini di casa, ma anche del nostro rapporto con il vicinato in senso più ampio; il vicinato è infatti un sistema relazionale la cui importanza è stata resa evidente nel periodo pandemico, e cui il Percento culturale Migros ha deciso di dedicare il primo studio empirico nazionale (completandolo con iniziative parallele, v. box), affidato a Karin Frick, Marta Kwiatkowski e Jakub Samochowiec, ricercatori del GDI, Gottlieb Duttweiler Institut, di Rüschlikon. I risultati offrono uno spaccato del funzionamento dei rapporti tra vicini di casa, mettendo in evidenza aspettative e desideri, e fornendo un identikit della donna o dell’uomo della porta accanto. Quattro sono, per cominciare i tipi di vicini di casa, e questa tipologizzazione del vicinato è stata resa possibile proprio dalla ricerca. Il gruppo più importante (raggiunge quasi la metà degli intervistati) è rappresentato dai «riservati», ossia vicini di casa che investono molto nella distanza, nella discrezione e nell’indipendenza. A questi si contrappongono (e raggiungono circa il 30%) coloro che nel vicinato cercano ispirazione organizzando ad esempio progetti comuni. Il 14% degli interpellati invece desidererebbe rapporti più stretti e familiari con i vicini di casa, pur senza slanci organizzativi, mentre l’«ultima» categoria (ammontante al 10%) è quella dei vicini «orientati ai valori condivisi». Ma attenzione, in gioco non ci sono solidarietà e sostegno reciproco, quanto più il rispetto del prossimo riguardo ad esempio al regolamento della casa. Jakub Samochowiec, psicologo sociale e ricercatore del GDI, ha voluto illustrarci alcuni degli aspetti più interessanti della ricerca. Quali risultati l’hanno colpita? Forse il fatto che una buona parte della Svizzera ha un rapporto piuttosto distanziato con i vicini di casa. La gente si conosce, ma non sembra sentire la necessità di contatti più stretti. Allo stesso tempo però abbiamo rilevato fiducia e una certa soddisfazione nei confronti dei vicini. Trovo interessante la combinazione tra distanza e fiducia, poiché ci lascia dedurre come la latenza di rapporti, che tocca quasi metà della popolazione, contenga un

Il materiale a nostra disposizione è insufficiente per potere evidenziare delle differenze. Credo però che chi ancora non conosce a sufficienza la lingua (il questionario è stato distribuito in italiano, tedesco e francese) difficilmente partecipi a un sondaggio di questo tipo, per cui il dato al momento ci sfugge.

Cooperativa abitativa zurighese Familienheim Genossenschaft, quartiere Friesenberg, fra le più grandi della Svizzera. (Keystone)

importante margine di manovra. Mi spiego, grazie alla fiducia e nonostante un certo distacco, i rapporti con i vicini sono potenzialmente implementabili in qualsiasi momento. Avete osservato grandi differenze culturali tra le regioni linguistiche? No. La differenza più grande osservata è che i cantoni latini hanno un concetto più ampio di vicinato, che non si limita ai dirimpettai, ma può estendersi per un intero quartiere. Sempre nella Svizzera romanda abbiamo trovato la percentuale più alta di persone desiderose di intensificare i propri rapporti con i vicini (25%). Nella Svizzera tedesca e in Ticino solo il 15% ha espresso questo desiderio. Ma il vero discrimine è da ricercarsi nell’età degli intervistati: le persone anziane curano di più i contatti con i

propri vicini di casa, auspicandone un incremento. Dipende dal fatto che i giovani oggi siano meno stanziali? Sì, inoltre le persone tra i 25 e i 40 anni sono più mobili, di sera escono più spesso e in generale trascorrono meno tempo a casa. Durante il lockdown i vicini sono diventati importanti, poiché erano le uniche persone che era permesso vedere. Cosa è rimasto di tutto ciò? Non molto, tant’è vero che il 75% degli interpellati sostiene di incontrare i propri vicini con la stessa frequenza di prima della pandemia. E anche se un 10% dice di incontrarli più spesso, un altro 10% invece li vede ancora meno. A lungo termine non è cambiato nulla, ma abbiamo capito che c’è la con-

Vincere con l’#iniziativadivicinato L’#iniziativadivicinato comprende diversi sottoprogetti che promuovono il buon vicinato. Si parte dall’estrazione a sorte di 500 carte regalo Migros da 500 franchi per piccoli progetti di vicinato. Nell’autunno 2022 seguirà un concorso di idee per sostenere progetti di vicinato di maggiore portata. L’iniziativa terminerà a maggio 2023 con la Giornata del vicinato. Svolgendo un ruolo di

commerciante al dettaglio, Migros rappresenta per molte persone un luogo importante del vicinato. Per questo il Percento culturale Migros ha commissionato lo studio i cui risultati hanno motivato Impegno Migros a lanciare l’#iniziativadivicinato, con l’obiettivo di promuovere i rapporti di buon vicinato. Per maggiori informazioni e per partecipare: migros-engagement.ch/vicinato

sapevolezza del fatto che l’amicizia, anche se latente, può venire riattivata in qualsiasi momento. Come detto si tratta di relazioni umane ad alto potenziale di sviluppo. In ogni caso, nonostante durante il lockdown i rapporti con il vicinato siano diventati importanti, questi non sono stati facili, proprio per la natura della stessa della pandemia, che richiedeva il distanziamento sociale. Avete trovato delle differenze tra chi abita in affitto e chi vive in una casa propria? E tra classi sociali? La differenza è relativamente piccola, ma abbiamo notato come le persone che vivono in un palazzo (è considerato tale se ha più di tre appartamenti) hanno espresso un maggiore desiderio di contatti con i propri vicini rispetto agli altri, e questo confuterebbe l’idea secondo cui molti vogliono vivere in modo il più possibile anonimo. Dalla ricerca risulta anche che chi vive in un quartiere di case a schiera o costruito e pensato in modo organico, è più facilitato ad avere contatti con i vicini e sembra anche più soddisfatto. Non abbiamo rilevato differenze tra classi sociali diverse, ma le persone benestanti non sono più felici delle altre dei propri rapporti con i vicini. Siete riusciti a differenziare dei risultati per appartenenza etnica? I rapporti tra chi ha un background migratorio sono più stretti?

Qual è il leitmotiv, se ve n’è uno, tra gli intervistati? Una risposta ricorrente è stata: «le cose vanno bene così come sono». Ma credo che questa affermazione sia riconducibile al fatto che molti non sanno cosa si perdono. Se nel 2007 avessimo chiesto alla popolazione se desiderava uno smartphone, probabilmente la maggior avrebbe risposto in modo negativo, sostenendo che le cose andavano bene così come erano… perché non sapeva cosa si perdeva. Anche se non è un leitmotiv, credo che dobbiamo soffermarci sul fatto che il 30% degli intervistati vorrebbe più occasioni e luoghi di incontro. È emerso che sono necessari dei luoghi in cui i vicini di casa possano incontrarsi in modo spontaneo. Basterebbero degli accorgimenti architettonici come uno spazio esterno comune curato. Chi vive di più il proprio vicinato si è mostrato più soddisfatto dello stesso. Il vicinato dunque come concetto positivo e dal grande potenziale di sviluppo… Sì, e lo dimostrano diversi studi realizzati anche intorno ad altre crisi sociali. Ho letto recentemente di uno studio realizzato a Chicago sugli effetti della canicola: nei quartieri in cui i vicini di casa si conoscevano, vi sono state meno morti legate al caldo. I buoni rapporti di vicinato permettono infatti una maggiore attenzione reciproca. A Chicago inoltre, a causa del caldo, molti hanno deciso di dormire all’aperto, ma ciò è possibile solamente se si conoscono i propri vicini e ci si può fidare. Se implementati, questi valori hanno il potenziale di rendere la società più resiliente di fronte alle crisi che la investono e la investiranno.

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SOCIETÀ / RUBRICHE

Approdi e derive

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di Lina Bertola

Pensieri del mare

«Una ferita forse / a malincuore si richiude. // Resta l’onda che viene incontro e torna / a varcar l’orizzonte scintillante / nel cuore ammiccando un vento che chiama / al largo i tuoi pensieri in cerca di una riva». Per suggerire l’atmosfera e i colori dei miei pensieri di oggi ho scelto questi delicati versi, ancora inediti, del poeta Leopoldo Lonati. Proprio come le vibrazioni di questa poesia, anche i miei pensieri vengono dal mare, parlano di una ferita, e forse cercano al largo una riva. Cicladi, Egeo, alba, acqua limpida e generosa di luce. Riesco finalmente ad accogliere il corpo del mare e a confondervi la soglia e i confini del mio esserci. Da molto tempo non ne trovavo la forza; non trovavo il coraggio di venire qui, a incontrare questa bellezza. Una bellezza per me troppo inquietante che, indifferente al nostro sguardo, continua a inghiottire i sogni di tanti disperati. E quanti sogni in attesa sui fondali di questo mare!

Ora sono qui, a raccontare di questo incontro con la bellezza e a cercare, anche, di dar voce ai sentimenti di inquietudine e di sofferenza che spesso ci abitano mentre attraversiamo le troppe contraddizioni di questo mondo. Sono sentimenti che possono rendere anche l’esperienza della bellezza un’esperienza dolorosa. Sento forte, ancora e sempre, il dolore di troppe anime tradite; sento forte questo silenzio assordante che esce dall’acqua per gridarci la sua tragica verità: con forza la sua voce mi raggiunge, sempre ancora. Eppure la bellezza di quest’alba del mare suscita in me anche una dolce percezione di felicità. Immergersi in queste luci e in queste acque è un’esperienza felice, nel senso più autentico della parola: un espandersi, un fiorire, o forse uno sbocciare altrimenti. Mi sono concessa questa testimonianza personale perché l’intrecciarsi di emozioni e sentimenti così diversi

invita sempre il pensiero a interrogarsi: da questi intrecci tormentati nascono domande che penso tocchino molti di noi. Quando la nostra vita è attraversata anche dalla sofferenza, da un dolore personale o dalla percezione di tante sofferenze attorno a noi, ci viene da chiederci se davvero possiamo accogliere e assaporare questa intima felicità. Oggi sento, nei pensieri e nelle sensazioni del corpo, territorio infinito dell’anima, che ciò è comunque possibile: sento che la felicità venuta dal mare, la felicità che mi sorprende qui e ora, non appartiene a questo attimo fuggente. Sto sperimentando, in prima persona, un luminoso insegnamento della saggezza degli antichi filosofi, e cioè che la vera felicità non ha dimora in questi attimi, ma si dipana nella trama di un’intera vita, quando è una vita buona. In una vita sbocciata, la felicità abita silenziosa, spesso ospitando anche ombre, difficoltà, nostal-

gie; accogliendo un nostro intimo dolore o le sofferenze di un modo ferito, di cui ci sentiamo parte. E quando, come nella poesia, la ferita si richiude, riconosciamo nell’attimo la sua voce e possiamo infine ascoltarla. È così che accogliamo la pienezza della vita. Mi piace pensare che sia questa la vita buona di cui ci parla Aristotele: una vita sbocciata anche nel dare ospitalità alle sofferenze. Una trama intessuta lentamente nei risvolti del nostro vivere che ci accompagna, dall’alba fino al tramonto. Vivere questa esperienza della felicità significa riuscire ad andare oltre l’oblio, la rimozione o il diniego di sofferenze che faremmo troppa fatica a sopportare; significa non concedere nulla al disincanto di chi distoglie lo sguardo dal mondo, da un mondo percepito come presenza ineluttabile su cui non abbiamo nessuna presa. Sperimentare questa felicità che sta sempre altrove, al di là degli attimi del nostro vivere, signifi-

ca riuscire ad accogliere tutta la bellezza di una natura sempre indifferente al nostro sguardo. Non ci guarda la natura, ma solo ci offre, per tornare ai versi iniziali, «una riva in alto mare», dove forse un altro sguardo diventa possibile. Questo sguardo possibile sembra emergere da alcune parole di Christian Bobin, disseminate nel suo splendido L’homme-joie. «Il mondo non è che un campo di battaglia, ci sono cavalieri neri dappertutto; in fondo alle nostre anime risuona il rumore delle spade. Ma questo non ha alcuna importanza. Sono passato vicino ad uno stagno», racconta, «coperto di lentiggini d’acqua: questo sì che è importante. Noi massacriamo tutta la dolcezza della vita e lei ritorna sempre». E aggiunge: «c’è una vita che non si arresta mai, una vita che non riusciamo a cogliere perché solo raramente sappiamo essere alla sua altezza».

Terre Rare

di Alessandro Zanoli

Intelligenza artificiale e stupidità naturale ◆

Il concetto di «intelligenza artificiale» (ne parlano tutti di questi tempi, e quindi ne parliamo anche noi) colpisce la fantasia e, probabilmente, per molti, non nel modo migliore. Qualcuno ricorderà le concitate, drammatiche scene finali di 2001 Odissea nello spazio, quando l’astronauta prigioniero della stazione orbitale è costretto a disinserire l’ossessivo computer HAL 9000 che gli impedisce di portare a termine la sua missione. È un bellissimo esempio di conflitto tra logica cibernetica e necessità pragmatica umana. Certo, l’idea che un calcolatore elettronico possa manifestare una propria autonomia di pensiero e di giudizio, svincolandosi dalle direttive impartite dai suoi programmatori, è altamente preoccupante. Inquieto è, ad esempio, Blake Lemoine, ingegnere informatico fino a poco tempo fa incaricato da Google di tenere sotto osservazione il sistema di comprensione

del linguaggio LaMDa, un progetto che l’azienda sta sostenendo. Lemoine ha espresso pubblicamente i suoi dubbi sull’eticità del progetto, in quanto si è reso conto che il sofisticatissimo software ha candidamente affermato di considerarsi un essere vivente, una persona senziente e autonoma. I responsabili dell’azienda hanno tenuto a far sapere che i timori di Lemoine sono esagerati. Altri undici esperti si sono chinati sull’argomento e hanno smentito il loro collega. Non so se le ragioni ufficiali bastino a rassicurare tutti. Ma al di là di questo, di nuovo, ogni notizia che riguardi aspetti preoccupanti dell’uso di tecnologia è superata dai fatti. L’implementazione dell’intelligenza artificiale nella nostra quotidianità è già avanzata e i suoi risultati si possono vedere già oggi in molti settori. Altri seguiranno. Uno di quelli forse più accettato, e anche auspicato, è quel-

Le parole dei figli

lo connesso alla guida autonoma degli autoveicoli, anche se in tale contesto molti dubbi e disfunzioni devono ancora essere presi in considerazione. Insomma, a motivare la ritrosia di molte persone è proprio il timore (non ingiustificato) che l’intelligenza artificiale possa eventualmente prendere il sopravvento sulla nostra stupidità naturale. Il dubbio si fonda, occorre riconoscerlo, su una scarsa conoscenza dell’oggetto stesso e della sua diffusione. Come detto, l’AI è già al lavoro oggi, in molti ambiti scientifici, ludici o mediatici, senza suscitare particolari proteste. L’agenzia informativa Keystone-ATS, ad esempio, utilizza un programma di nome Lena, che è in grado, partendo da una serie di dati statistici, di realizzare brevi testi di commento (come ci ha confermato un collaboratore, è stato utilizzato in occasione di alcune tornate elettorali).

È proprio in ambito mediatico e redazionale che si discute e si discuterà. La capacità performativa dimostrata dall’intelligenza artificiale nella redazione di testi è ormai assodata. Chi sostiene la validità di tale uso della tecnologia afferma però che il «redattore artificiale» non potrà mai fare a meno di un «caporedattore analogico». Il giornalista del futuro, in altre parole, non dovrà redigere testi, ma controllare con attenzione che i processi di produzione automatica corrispondano sempre agli standard qualitativi previsti per un’informazione affidabile e corretta. Il dibattito è aperto da tempo e, come sempre, ormai ampiamente di retroguardia. Per chiudere, essendo impossibile suggellare queste righe con una conclusione qualsiasi, mi limiterei a segnalare un ultimo uso forse poco conosciuto dell’intelligenza artificiale.

Un’azienda attiva nella Silicon Valley propone a chi è interessato un motore di intelligenza artificiale personalizzato, in grado di replicare il funzionamento mentale di ogni persona. L’obiettivo è, al momento della morte dell’io biologico, di accendere questo io virtuale, lasciandolo attivo per l’eternità. Ma anche questo annuncio è ormai superato dalla normalità dell’uso: l’implementazione di un sistema simile è già prevista a medio termine anche per l’assistente vocale Alexa, di Amazon. Basteranno pochi minuti di file audio per insegnarle a replicarne il tono di voce e poi si potrà simulare il dialogo con un nostro conoscente passato tra i più. Insomma, l’obiettivo dell’intelligenza artificiale sarà forse quello di sopravvivere agli esseri umani. Non ci sarà bisogno di staccare la spina, allora: alla fine, annoiata di sé stessa, forse l’AI se la staccherà da sola.

di Simona Ravizza

Community

Community è Una parola dei figli che avevo deciso di esaminare come consegna del mondo dei social, anche per capire perché gli Gen Z sono tanto attratti dalla vita sulle piattaforme. La mia idea era di analizzare in che modo gli adolescenti le utilizzano per fare gruppo o, ancora meglio, per sentirsi parte di un gruppo che è una delle massime aspirazioni a quell’età (ce lo ricordiamo?). Tutte queste informazioni le ho raccolte e le leggerete qui sotto. Ma devo confessarvi subito una cosa: sulle conclusioni che pensavo di trarre ho dovuto ricredermi. Ma andiamo con ordine. Perché agli Gen Z piace fare community? Perché – come è sempre stato per qualsiasi adolescente – ti senti parte di un gruppo, quindi di persone della tua età che ti capiscono, con i tuoi stessi interessi, e ti senti meno solo: è semplicemente bello condividere le tue passioni con

qualcuno che le ha in comune con te. Noi siamo stati Paninari dopotutto. Nell’era dei social il desiderio di community trova piena soddisfazione sulle piattaforme. Al di là della questione dell’algoritmo di TiKTok che tende a riproporti gli argomenti che ti interessano e dunque a creare una comunità e di cui più volte abbiamo parlato anche a Il caffè delle mamme, gli esempi di community virtuali sono molteplici. Sempre all’interno di TikTok c’è BookTok, intorno a cui si riuniscono gli adolescenti a cui piace leggere: gli Gen Z si scambiano teorie, consigli etc. sui libri che non è più da sfigati leggere ma fa trendy. Ci sono i fandom, l’esempio per eccellenza delle community: sono gruppi in cui si riuniscono gli appassionati di serie tv, film e (di nuovo) libri. Vengono postati video, recensioni, pareri, commenti: le discussioni su que-

sta e quella teoria imperversano. I fandom ci sono su TikTok e su Wattpad, l’App a cui abbiamo già dedicato una puntata de Le parole dei figli dove chiunque può scrivere e leggere storie in tutte le lingue. Gli adolescenti considerano interessanti i fandom perché ti puoi confrontare con coetanei che hanno visto la tua stessa serie o letto il tuo stesso libro. È una comunità di appassionati di un genere cinematografico o letterario, di un autore o di una moda. Ci sono i gruppi Whatsapp che ti fanno sentire parte di un gruppo d’élite, quindi di gente simpatica. Noi li usiamo troppo spesso per sproloqui infiniti (vedi le chat di classe), loro per marcare l’appartenenza a un gruppo di persone e avere la prova di avere tanti amici. E poi ci sono le community che nascono intorno alle pagine Instagram, come vi ho già raccontato riportando l’e-

sperienza di Kim, il figlio 16enne di mio marito, che partendo dalla propria passione per il calcio ha raccolto intorno a ilragazzoconunpallone un gruppo di 40mila appassionati. Ebbene, dopo questa carrellata di modi di fare comunità sui social, io pensavo di dovere concludere con la riflessione banale che noi una volta facevamo comunità intorno a un muretto o in una piazza, e che adesso assistiamo alla trasposizione social di un desiderio tipicamente adolescenziale. Il sottinteso poteva essere il rimpianto dei bei tempi andati in cui tutto era più vero. È in questa visione che a mio avviso sta l’errore. In attesa davanti ai cancelli, l’ultimo giorno delle medie ho visto uscire Clotilde, le sue amiche, i suoi amici, i suoi compagni, e altri ragazzi a me sconosciuti con le lacrime agli occhi. La commozione a volte si è addirittu-

ra trasformata in pianti a dirotto tra l’augurio di una buona estate e la promessa di rimanere in contatto. Ho visto baci e abbracci che nulla avevano di virtuale. E ho scoperto zaini pieni di bigliettini e lettere: la confessione che l’abbraccio di un’amica fa sentire a casa, il ringraziamento per la parola giusta in un momento difficile che è stato puro conforto, i complimenti sentiti per i bei voti presi, la consapevolezza di sentirsi fratelli e sorelle, una semplice dichiarazione di simpatia. Prove tangibili di amicizia vera che a quell’età valgono più di un amore. Una comunità commovente che sì fa gruppo anche sui social, ma senza nulla togliere alla vita fuori dalla Rete. L’ho visto con i miei occhi e ci voglio credere. Anzi: ci credo. Ed è uno spaccato che voglio condividere perché penso che possa rappresentare gran parte degli adolescenti.


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TEMPO LIBERO ●

Settantacinque chilometri in tre ore Elbasan-Durazzo, l’ultima tratta ferroviaria dell’Albania a bordo di un treno che porta i segni della storia del paese e delle sue genti

I vigneti del Roero Da Montà a Neive, dove le forre profonde emerse dal mare danno una connotazione esclusiva a un’interessante zona del Piemonte

Un’originale decorazione floreale Carta, cartone e cartoncino per divertirsi con la tecnica del collage e riutilizzare anche le vecchie edizioni del nostro settimanale

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Il mondo nel mirino Fotografia

I reportage di viaggio dipendono più che dal luogo visitato, dalla progettazione del viaggiatore

Sfogliando le pagine di The Americans dell’immenso Robert Frank – un libro di foto di viaggi in luoghi e in tempi lontani – m’imbatto nello strano sentimento di ritrovare in quelle immagini pezzi della mia storia. Non tanto perché quelle fotografie illustrino realtà o avvenimenti da me vissuti di persona, ma in quanto già il solo guardarle – come ponti verso un indefinito altrove – mi proiettano in quello stato emotivo che, viaggiando, la scoperta di nuovi orizzonti provoca in noi. E quelle foto, a modo loro, ai miei viaggi, alle mie immagini, ai sentimenti vissuti, mi hanno riportato. A molti di voi sarà già successo di ritrovarvi all’improvviso immersi in realtà culturali nuove, fatte di luci, profumi, suoni, colori, e tante altre cose diverse da quelle a cui siamo avvezzi. Sbarcare in simili realtà, se ben disposti, significa venir felicemente sommersi da un marasma di nuovi codici, di nuovi linguaggi – perlopiù inizialmente incomprensibili – a cui dover far fronte. Espressioni del corpo, fisionomie, accostamenti di sapori, di colori, modi di stare insieme, di comunicare – verbalmente, graficamente –, e così via, potranno essere così diversi da quelli conosciuti da produrre in noi un’intensa condizione di spaesamento. Di straniamento. Tutto ci incuriosirà, ci apparirà interessante, degno di nota. In quel vortice di nuove sensazioni potremmo anche perderci – si pensi alla sindrome di Stendhal –, per i più rappresenterà invece una gioiosa occasione di rinnovamento, di crescita e di confronto. La fotografia di viaggio dovrebbe saper parlare di questa condizione, grazie a un’attenzione particolare all’alterità. Ed è forse anche grazie alla fotografia, per chi la pratica, che poco a poco riusciamo a ritrovarci, a disegnare in simili contesti le coordinate materiali e concettuali dello spazio che stiamo esplorando, la rete di relazioni che lo avvolgono. Certo, ognuno a suo modo, senza pretese di scientifica oggettività ed esaustività, ma a partire dalle proprie esigenze, dal proprio stretto intendimento. Non che questo esercizio sia attuabile unicamente recandoci all’altro capo del mondo, anzi. Realtà culturali prossime alla nostra, e persino la nostra stessa realtà quotidiana, se approcciate per il giusto verso, ridirigendo lo sguardo consueto che portiamo su ciò che ci circonda, ci permetteranno di andare incontro a territori a noi ancora vergini, tutti da esplorare. Però siamo in estate, e l’estate per tanti è tempo di vacanza, e le vacanze – lo sappiamo – spesso ci portano altrove. In questa ritrovata alterità proviamo allora ad applicare quanto detto sopra seguendo questi

Alicia Bruce

Stefano Spinelli

pochi suggerimenti, capaci forse d’indicare possibili percorsi. Nel caso non ne aveste già sui vostri scaffali, prima di partire passate in una libreria ben fornita e cercatevi un libro di foto di viaggio di un buon fotografo. E non intendo quei manuali che vi dicono cosa fotografare, quando e come realizzare gli scatti migliori. Senza voler escludere a priori questo genere di pubblicazioni – talvolta vi si trovano ottimi consigli –, l’esercizio che qui propongo è quello di prendere un libro di fotografie e di analizzare le modalità – tecniche, compositive – con cui il fotografo ha affrontato i suoi soggetti: su quali si è concentrato – c’è omogeneità o diversità tra loro? L’uso che fa della luce; che ne è del tempo. Che cosa eventualmente collega una fotografia alle seguenti – e qui vi riporto all’idea della scorsa puntata di stampare almeno alcune delle foto che farete e di porle in un album, come fosse un libro. Per facilitarvi la scelta, direi di acquistare un classico del Novecento, con foto scattate ancora su pellicola, magari in bianco e nero, ma non per forza. Una monografia che illu-

stra un solo viaggio, o più viaggi nella medesima realtà. Oppure una raccolta di foto di viaggi in vari luoghi, come più facilmente si troverà. Facciamo qualche nome? Robert Frank, Sebastião Salgado, René Burri, Henri Cartier-Bresson, Ferdinando Scianna, Werner Bischof, Josef Koudelka, Luigi Ghirri, tanto per fare qualche esempio. Oltre a molto altro, hanno tutti realizzato anche libri di viaggi, ognuno a modo suo, con dei tagli ben particolari. Vi assicuro che il loro sguardo non vi lascerà indifferenti e potrà rivelarsi una buona fonte d’ispirazione. Un secondo suggerimento è quello di elaborare una traccia di progetto. Non troppo precisato, che vi indichi anche solo delle linee direttrici da seguire. Siccome non sarà la realtà ad adattarsi al nostro progetto, starà alla nostra sensatezza adattarlo semmai, strada facendo, alle realtà incontrate. Il progetto dovrebbe tener conto delle vostre sensibilità e preferenze, e delle caratteristiche predominanti – fisiche, storiche, sociali, culturali… – del luogo dove vi state per recare. Che sia in un contesto urbano, metropolitano,

o in una piccola località, che sia turistica o meno, in piena natura o in una selva di cemento, in ognuna di queste situazioni si può trovare un filo conduttore che ci permetta di costruire, a partire dal nostro originale punto di vista, un racconto non banale dei luoghi da noi visitati. Evitiamo poi di fotografare il già visto e stravisto, usciamo da quegli inutili automatismi. Focalizziamoci su quanto invece più ci tocca, arriva a emozionarci, c’interroga, ci turba, c’incuriosisce. Avendone il tempo, chiediamoci prima di scattare se quell’immagine che vediamo aggiungerà davvero qualcosa di significativo e di visualmente interessante al racconto che vogliamo riportare a casa. Ricordiamoci che stiamo scattando fotografie e non dipingendo bei quadretti. Usiamo dunque le caratteristiche specifiche che distinguono il nostro mezzo e il linguaggio che più gli pertiene. Nel corso dei giorni, proverei a dedicare un tempo stabilito esclusivamente alla fotografia. Nulla di troppo stringente, ovvio. Ma eviterei di girovagare tutto il giorno con la macchina

fotografica appesa al collo, pensando o sperando che prima o poi qualcosa di fotografabile si possa presentare davanti all’obiettivo. Perché accadrà di sicuro, ma si può anche fotografare con l’occhio della mente e nello stesso tempo goderci senza mediazioni e frustrazioni il contesto in cui ci troviamo immersi. Almeno, io la vedo un po’ così. La quantità di tempo e in quale momento della giornata dare spazio alla fotografia dipenderanno da voi e dalle strette esigenze legate ai soggetti scelti e alla quantità e qualità di luce necessaria e disponibile. Infine, l’attrezzatura da prendere con sé: anche questa sarà determinata dalla scelta dei soggetti. Ma, come regola, direi: non più dello stretto necessario. Batterie e schede di ricambio incluse. Provate a limitarvi a uno, massimo due obiettivi (forse i più caratteristici per il tipo di fotografia che volete fare? A voi la riflessione). Avrete meno peso da portarvi in giro – fattore non da poco, specie sotto al solleone –, e darete meno nell’occhio, così da poter lavorare con agio, senza troppi intoppi e arrovellamenti. Buone vacanze!


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Elogio alla lentezza Reportage

Durazzo-Elbasan andata e ritorno sull’ultimo tratto ferroviario dell’Albania, con contadini e pensionati

Luigi Baldelli, testo e foto

«Perché vuoi andare in treno a Elbasan? Con il pullman fai molto prima ed è più comodo». Fasciata in una camicia verde acqua e con i capelli biondo tinto, mi guarda con curiosità la bigliettaia della stazione di Durazzo. È appoggiata alla porta del suo ufficio: «Nessuno straniero prende il treno per Elbasan, pochissimi gli albanesi» continua guardandomi fisso negli occhi. È un treno per pensionati che abitano in una delle stazioni lungo il tragitto dove non arrivano i pulmini privati di linea, o per contadini che portano al mercato di Durazzo i loro prodotti. Le spiego che Elbasan-Durazzo è l’ultima tratta ferroviaria dell’Albania, e che è proprio per questa ragione che voglio salire a bordo del treno. «Questo lo so. Ma tu lo sai che ci mette tre ore per fare 75 chilometri? Lo sai che molti vetri sono rotti e se piove entra l’acqua?» cerca di convincermi, mentre mi sbarra con il corpo l’ingresso nella piccola biglietteria. «Sì lo so, ma voglio andare lo stesso». Borbotta qualcosa, incredula e, rassegnata, alla fine stacca il biglietto. La storia delle ferrovie albanesi è certamente affascinante. La costruzione inizia nel 1946 e diventa fondamentale durante la dittatura comunista di Henver Hoxha, dato che il trasporto su rotaia è l’unico mezzo per la popolazione di spostarsi da un luogo all’altro, in quanto le automobili private sono vietate. Si tratta di una rete ferroviaria unica, a scartamento ridotto, che non permette il collegamento con le altre linee delle nazioni vicine. Il tragitto da Durazzo ad Elbasan è rimasto l’unico tratto ancora attivo. Una volta si poteva viaggiare dal nord di Scutari fino al sud di Valona,

passando per Tirana e Durazzo, oppure da Durazzo a Pogradec verso est vicino al confine con la Macedonia. Si contavano circa settecento chilometri di strada ferrata con più di novemila dipendenti. Nonostante il grande utilizzo da parte della popolazione, lo stato delle linee dopo trent’anni, ormai malridotte, portò tuttavia verso il loro smantellamento, complici la fine della dittatura a inizio degli anni Novanta e un sempre maggior uso di automobili e pullman. Vennero così chiuse tutte le tratte. Grazie a un rilancio nel 1992, negli anni successivi le ferrovie albanesi ripresero vigore. Ma tutto naufragò di nuovo intorno al 2010. Oggi esi-

ste solo questo treno: il mio modesto Orient Express, una vecchia locomotiva e tre vagoni decorati con graffiti, fermi sui binari sotto il sole di Durazzo. Mi siedo nel primo vagone, dove i sedili sono rotti e mancano alcuni vetri. Un anziano e distinto signore è seduto poco lontano, viso sereno e occhi azzurri: «Dove vai?» mi chiede. Gli spiego, motivandolo a raccontarmi che lui era un meccanico della compagnia ferroviaria, aggiustava locomotive, e che una volta i treni non erano in queste condizioni: «Oramai lo usiamo in pochi, il treno. Per me è comodo, è l’unico mezzo che ho per andare a trovare mia figlia e mio nipote a Durazzo». Ci sono solo due corse al giorno: una la mattina presto da Elbasan a Durazzo e una il pomeriggio che fa il viaggio di ritorno. Alle due, puntuale, il treno si muove lentamente. Nel vagone accanto una coppia mangia un frugale pranzo. Una ragazza guarda fuori dal finestrino parlando sottovo-

ce al telefono. Due contadini mi offrono di comprare ciliegie. E infine arriva il controllore: Mirela, una donna sorridente, con la sua camicia azzurra della divisa e il fischietto appeso al collo. Anche per lei è strano vedere uno straniero su questo treno. «È dal 1981 che lavoro sui treni. Prima avevamo una bella divisa, con giacca e cappello», mi racconta mentre si accende una sigaretta. «Ah, se vuoi puoi fumare. Nessun divieto» dice buttando fuori il fumo. «Questo treno aveva dieci vagoni ed era sempre pieno di gente. Alla prossima stazione ti faccio andare nella locomotiva». Dopo più di mezz’ora siamo appena usciti dalla periferia della città. Alla fermata di Lekai scendo dal vagone per salire sulla locomotiva. Mi accoglie Bujar, macchinista allegro e cordiale che mi fa accomodare su una poltrona accanto a lui e dopo pochi minuti fa ripartire il treno. La sua voce si espande nel piccolo abitacolo. «Questa locomotiva è cecoslovacca, del 1980. Anche io ho iniziato a guidare i treni in quell’anno». Si muove piano questo piccolo convoglio ferroviario, «perché le rotaie sono vecchie e in alcuni punti rovinate» mi spiega. Fuori, giù in fondo, si vede il mare a sud di Durazzo. «Una volta qui era tutta una pineta, 200 o 300 metri di alberi prima di arrivare alla spiaggia. Li hanno tolti e oggi ci sono solo grandi alberghi per i turisti d’estate» prende fiato mentre guarda con attenzione davanti a sé, la strada di ferro. «Facendo negli anni sempre lo stesso percorso, ho visto i cambiamenti di questo Paese. Tanti passeggeri e ora pochi, ci sono nuove strade e tante automobili. Qui c’erano alberi e prati e ora alberghi e nuove case». Il cielo è diventato grigio e minaccia pioggia. A metà tragitto ritorno nei vagoni dove trovo una contadina con cappello di paglia e i piedi nudi appoggiati sul sedile di fronte. «È andata al mercato a vendere la verdura», mi spiega il controllore. «Oramai lo usano solo loro, perché possono caricare tutto quello che vogliono. E i pensionati, perché costa poco il biglietto». Sono passate già due ore, il paesaggio intorno si fa prati e case di campagna. Ogni tanto una nuova costruzione stona con l’ambiente. Mi siedo e mi lascio cullare dal treno. È un elogio alla lentezza. Piccole stazioni fanno da sosta al dondolio del vagone. Dal finestrino vedo una vecchia contadina, con il tipico fazzoletto bianco sulla testa, che raduna le galline. Sembra di tornare indietro nel tempo, quando da piccolo viaggiavo in terza classe per andare in vacanza. Treni lenti, odore di fumo, paesaggi antichi. Oramai nei vagoni non c’è più nessuno, solo io e due signore anziane che stanno in religioso silenzio. Inizia a piovere e da alcuni finestrini senza vetri entra l’acqua. La periferia di Elbasan, quarta città dell’Albania e sede di un dismesso centro metallurgico, è marcata dalle vecchie fabbriche abbandonate. Manca poco e siamo arrivati con solo venti minuti di ritardo. «Ti è piaciuto il viaggio? Se vuoi, domani mattina alle 6,30 partiamo per Durazzo» mi grida il macchinista alla stazione di Elbasan mentre mi allontano sulla banchina, sotto una pioggia battente. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica


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Nella terra vitata del Roero

Bacco giramondo ◆ Terreni con arenarie di origine marina e sabbie ricche di fossili rendono il suolo ideale per produrre vini rossi profumati e caldi, ma anche bianchi freschi e fruttati – Piemonte 3a parte Davide Comoli

Usciti da Torino sulla S29 arriviamo a Montà, siamo nel Roero, qui le «rocche», forre profonde e scoscese, frutto di erosione, emerse milioni di anni or sono dal mare, danno una connotazione esclusiva a questa zona del Piemonte. Una manciata di chilometri e arriviamo a Canale, la nostra prima tappa, famosa per le sue succulenti pesche. Questo borgo agricolo è anche il luogo in cui – grazie ai fratelli Enrico e Marco Faccenda (Cascina Chicco) – facciamo conoscenza delle specialità enologiche di tale lembo piemontese. Un ricco piatto di salumeria roerina (antico vanto di casa Faccenda) di cui sottolineiamo il «prosciutto cotto al forno», c’invita alla degustazione. Qui, terreni con arenarie di origine marina e sabbie ricche di fossili rendono il suolo soffice; un’ideale situazione per produrre vini rossi profumati e caldi, ma anche bianchi freschi e fruttati. Un profumato e fresco Nebbiolo, vinificato in bianco «Metodo classico», apre la degustazione seguito da una Favorita, un bianco molto beverino. L’Arneis è un po’ il simbolo del Roero e dona un vino bianco con note olfattive molto interessanti, fresche e fruttate, piacevolmente amarognolo, ma noi chiudiamo con un prestigioso Roero Valmaggiore rosso, ottenuto da uve Nebbiolo, vino potente, ma armonico, vellutato e dai profumi delicati, ma soprattutto di facile beva. Stivate alcune bottiglie di nettare, ringraziati Enrico e Marco Faccenda, ripartiamo per il nostro giro nel Roero. I colori dell’autunno creano meravigliosi quadri con il profilo delle colline ricoperte di vigne dopo la vendemmia. Colline spesso impreziosite dalla sagoma di un castello, una torre, un edificio sei-settecentesco, o anche solo da una chiesetta o una cappella di campagna che emergono dalla trama dei filari. Sempre sulla riva sinistra del Tanaro che divide il Roero dalle Langhe, troviamo Priocca, Govone, Castellinaldo e, tra il su e giù dei rilievi

Vigneti nel Roero, a La Morra. (Pixabay.com)

ricoperti con l’albero sacro a Bacco, arriviamo a Castagnito. Ilaria, la proprietaria, ci accoglie con cordialità e, senza troppo tergiversare, ci serve un fumante «civet di lepre» (salmì) marinato per giorni nel Dolcetto, con crostoni di polenta. Meritevole da menzionare è il Barbera d’Alba prodotto da vecchie vigne, dal colore rubino intenso, note di spezie dolci al naso iniziali, poi amarena, cassis e lieve cacao, che ben si sposa con la portata calda. Ilaria poi ci vizia servendoci delle pere «madernassa» cotte nel vino con zucchero, cannella e chiodi di garofano. Sono pere dalla buccia sottile, di piccole dimensioni, che si trovano su alberi isolati sparsi tra i vigneti tra Canale, Guarene e Castagnito. Si riparte: Guarene, Piobesi, S. Vittoria d’Alba, Cinzano dove è d’obbligo una visita al museo che raccoglie la storia del bicchiere. Una breve deviazione per il piccolo villaggio di Pocapaglia, circondato da un paesaggio di calanchi e burroni, spettacolo moz-

zafiato al tramonto. Quattro chilometri e siamo a Bra per la notte. La generosa cittadina, oltre a distribuire i suoi eleganti palazzi intorno a via Vittorio Emanuele II e con la vicina Pollenzo, è la capitale del buongusto (Slow-Food). Un piccolo assaggio di «carne cruda» con lamelle di tartufo bianco e un carrello di formaggi con differenti mieli delle valli piemontesi, tome varie, formaggelle del bec, robiole, seirass, gli erborinati Castelmagno e il raro Murianengo, sono sostenuti da un giovane Nebbiolo d’Alba. A tal proposito va detto che il Nebbiolo di questa zona deve essere bevuto piuttosto giovane per meglio apprezzare i suoi aromi floreali e fruttati, per la sua media struttura gradevolmente tannica. La classica panna cotta è invece servita con un Birbet, che tradotto dal dialetto significa birichino (è il nome che nel Roero viene dato al Brachetto), dolce e dal caratteristico sentore di muschio. L’indomani raggiungiamo Verduno, dove dal giardino del castello so-

vrastante le vigne di Pelaverga, dalle cui uve si trae un vino cerasuolo, fragrante e speziato, si gode un fantastico colpo d’occhio sul susseguirsi ininterrotto di colline che offrono squarci di possente bellezza. La Morra, Novello, Barolo con il suo castello e il museo del vino. Il lettore ci perdoni se abbandoniamo veloci le Langhe sabaude e barocche per inoltrarci in quelle più aspre e parimenti ricche di storia. Stiamo infatti attraversando i filari dei cru più prestigiosi del Nebbiolo, quelli che produrranno il Barolo (re dei vini e vino da re); la zona del Barolo comprende il territorio di undici comuni. A Monforte scendiamo lungo i vigneti che ricoprono la collina, attraversiamo le frazioni di Perno e Castelletto, arriviamo a Castiglione Falletto con il castello dalle torri cilindriche. Purtroppo lo spazio concessoci c’impedisce di soffermarci di più sul binomio inscindibile di vino/cucina di questo territorio. Qui sembra che il tempo si sia fermato: che emozione la vista dei filari colorati dall’autunno che accarezzano i fianchi dei poggi. Rari «ciabòt» (casotti per gli attrezzi) sono i testimoni di un passato recente e ci ricordano il romanzo La malora scritto dal grande albese Beppe Fenoglio. Arriviamo a Serralunga d’Alba, che ospita la Casa di Caccia di Bela Rosin, dove si consumò la tresca con Vittorio Emanuele II. A Diano d’Alba le vigne di Dolcetto producono un vino di pronta beva, Grinzane Cavour. Un anfiteatro di colline nel cui mezzo il Tanaro disegna una esse: siamo ad Alba, da sempre questa piccola città è il cuore delle Langhe. Alla sera mentre si va a cena, percorrendo la piazza che dal Duomo va nella via Maestra, l’aria si riempie di una densa nuvola di nocciole tostate (la tonda gentile) di cacao, ma si percepisce pure in sottofondo il profumo acuto e penetrante del tartufo. Come un sacerdote officiante «il patron» arriva con un carrello dove in piatti di

porcellana presenta le fumanti catetiche, sette polpe di carne, i sette ammennicoli e le sette salse d’accompagnamento, poi comincia a tranciare i tocchi armato di un grosso coltello e forchettone. Un Barolo Bussia 2011 granato intenso con accenni di viola, rosa e ribes e dai tannini fitti, ma ben integrati e dalla persistenza lunga è il degno «compare» del nostro «bollito misto». Una tazza del brodo di cottura con una nuvola di Dolcetto, prima di passare al raro formaggio: un Castelmagno invecchiato 40 mesi, e a Barolo Le Ginestre 2013, di grande struttura e complessità. Al mattino risaliamo la collina di Altavilla e raggiungiamo la frazione di San Rocco Seno d’Elvio, luogo natale dell’imperatore romano Elvio Pertinace (126-193), ucciso dopo 87 giorni di regno. Un’impervia strada ci porta a Treiso, situato in un anfiteatro di marna bianca: siamo nel regno del Barbaresco. Treiso è un piccolo paese da cui si gode una straordinaria scenografia sulle vallate sottostanti. Seguendo le insegne delle molte cantine, arriviamo a Barbaresco, arroccato su una collina allungata con la sua torre costruita intorno all’anno 1000. I vigneti disegnano colline e valli in una splendida conca, dove ci sono le vigne dei grandi cru (Rabaja Asili). Ritornando indietro tra i filari di Dolcetto, Barbera, Nebbiolo, Moscato, si arriva a Neive; da questo piccolo gioiello dopo una pausa pranzo lasceremo le Langhe. Cardi gobbi con fonduta di Castelmagno e tartufo vengono impreziositi da un raffinato Barbaresco Cottà 2015, mentre (quando ce vò ce vò) un Barbaresco Sorì Tildin 2015 del mitico Gaja, elegantissimo, di un rubino granato luminoso, enfatizza i classici «Tajarin» al tuorlo d’uovo, dove non viene lesinato il Bianco d’Alba. Il bunet al cacao e dolci gianduiotti si sposeranno a meraviglia con il Barolo Chinato che seguirà, altra gemma dell’Enologia piemontese.

Un albero di giada in casa Mondoverde

Dicono porti fortuna, così tanta da meritarsi il soprannome di pianta dei soldi

Anita Negretti

durante tutta la stagione fredda, mentre da maggio, con una certa fatica, la trascino in giardino, dove le foglie assumono un colore brillante, che in piena estate acquisiscono sfumature rossastre per via dell’esposizione al sole.

La scorsa estate ho provveduto a trapiantarla essendo cresciuta in un vaso veramente piccolo per la sua chioma: come tutte le crassulacee, l’apparato radicale è ridotto, quasi sproporzionato per il suo fogliame, ed è

Pixabay.com

Per la maggior parte delle piante che ho in giardino e in casa, potrei dire – perché lo ricordo bene – dove le ho acquistate o da chi le ho ricevute in regalo. Per la maggior parte ma non per tutte: non vale, infatti, per un enorme esemplare di Crassula ovata, nota in italiano con il nome «Albero di giada», che troneggia davanti al mio divano. Ha raggiunto la ragguardevole altezza di ottanta centimetri e ha una chioma che supera il metro; il suo fusto principale, di colore grigio scuro, ha un diametro di venti centimetri, segno che ha molti anni alle spalle. La chioma è formata da molteplici rami colmi di foglioline succulente, di color verde giada, che con la loro allegria mi accolgono ogni volta che rientro in casa. Con il dubbio di averla rubacchiata alcuni anni fa a mia madre (certi furti finiscono in prescrizione subito, secondo la legge degli amanti delle piante!), vive placida e rigogliosa in casa

proprio per questo, cioè per far sì che rimanga stabile nel vaso, che bisogna piantumarla in un contenitore adeguato, riempiendolo per quasi la metà con argilla espansa e per la restante parte con terriccio per piante d’appartamento miscelata con sabbia o terriccio apposito per cactacee. Dopo una leggera innaffiata al momento del rinvaso, l’ho lasciata all’asciutto per tre-quattro settimane, adottando questa pratica di bagnatura anche per il resto dell’anno. Le crassule sono infatti molto sensibili alla marcescenza radicale, che provoca velocemente la morte della pianta. Proveniente dall’America meridionale, assomiglia a un bonsai con rami ben definiti e un aspetto curato, ma ha il pregio di non dover ricevere cure complicate come questi altri; inoltre è diventata famosa negli ultimi decenni, grazie alla tecnica orientale del feng shui, che ha regalato all’albero di giada l’aura di una pianta in grado di portare guadagni e prosperità a chi

la possiede e per questo viene chiamata anche albero dei soldi. Ogni nuova foglia dovrebbe significare nuove entrate economiche, mentre i fiori, che sbocciano in inverno (ma a volte con una certa difficoltà), indicheranno la nascita di nuove amicizie in base a quanto saranno rigogliosi. Verità o leggenda? Non importa, una pianta così bella e decorativa merita di entrare in case e uffici con o senza superstizioni a cui credere. Ma se proprio volete accertarvi della buona sorte che potrebbe nascondere, provate a moltiplicarla e a regalare delle piccole piantine di crassula ai vostri amici più cari: basterà prelevare un ramo lungo tre-quattro centimetri e interrarlo. Nello stesso vaso potrete sperimentare anche la talea di foglie di crassula: ancor più semplicemente basterà interrare in senso verticale metà della superficie di una fogliolina e attendere la formazione di una rosetta di gemme a foglia.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 2 agosto 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

TEMPO LIBERO

La decorazione a collage Crea con noi

Un’idea di riciclo di materiale per colorare un angolo di casa e lasciare messaggi

Giovanna Grimaldi Leoni

Una decorazione floreale in carta, cartone e cartoncino per divertirsi con la tecnica del collage e riutilizzare anche le vecchie edizioni del nostro settimanale. Realizzata completamente con materiale di riciclo diventa anche un simpatico modo per lasciare un messaggio ai propri cari durante la giornata rallegrando al contempo un angolo di casa. Procedimento Stampate il cartamodello (che trovate su www.azione.ch) e riportate su cartone le sagome dei fiori e del cuo-

Dalla gruccia con un tronchese ricavate gli steli dei fiori, in modo che abbiano misure diverse tra loro. Tenete gli steli più lunghi per i fiori più grandi. Prendete la scatolina e con del cartoncino rivestitene il coperchio su cui andrete a praticare 4 fori da cui far passare gli steli. Fissate sul fondo della scatolina con la colla a caldo 4 mezzi tappi di sughero che manterranno i vostri fiori ben saldi. Infilate i vostri steli nel sughero premendo con forza, quindi fateli passare dai fori attraverso il coperchio della scatola. Se volete, infilate ora qualche perla di legno colorata che andrà a posizionarsi alla base dello stelo. Inserite all’estremità degli steli i fiori. Se avete utilizzato un cartone spesso vi basterà infilarli al centro tra i due cartoni che lo compongono. Fissate se necessario con una punta di colla. Regolate la composizione piegando un poco i gambi in modo che tutti i fiori siano ben visibili, e se la scatola non dovesse risultare ben salda appesantitela inserendo all’interno qualche sassolino. Idea in più: volete utilizzare questa composizione per lasciare un messaggio ai vostri cari? Prendete delle piccole calamite, rivestitele con un bottone e fissate in questo modo agli steli i vostri biglietti.

re. Dalla copia di «Azione» ricavate tante piccole strisce di carta utilizzando preferibilmente le parti con il testo scritto piccolo. Diluite la colla vinilica con un po’ di acqua e con un pennello piatto applicate le strisce sulle sagome, rivestendole completamente (fronte e retro). Lasciate asciugare. Decorate i fiori a piacere divertendovi con la tecnica a collage e utilizzando i ritagli di carta o cartoncino dei vostri colori preferiti. Aggiungete a piacere bottoni, strass o altro che la vostra creatività e la vostra fantasia vi suggeriscono.

Giochi e passatempi Cruciverba

Trova una delle sagge frasi di Gandhi, risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 3, 2, 11, 3, 4, 6, 3, 5)

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27. Preposizione francese 28. Monte delle Dolomiti 30. Asino... in Francese 31. Antico nome di Tokyo VERTICALI 1. Vi sbarcò Pisacane 2. Codice d’identificazione per cellulari 4. Nello stesso luogo 5. Ha un taglio in testa 6. Si usa infilato 7. Nel viale e nella piazza 8. Pronome personale

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• Una piccola scatola di circa 10x10cm • Una gruccia appendiabiti o del fil di ferro • Un tronchese • Carta e cartoncino nei colori a scelta • Una vecchia edizione di «Azione» • Colla vinilica (bianca) e pennello piatto • Bottoni decorativi • Qualche perla (facoltativa) • Colla a caldo • Forbici • Stampante per il cartamodello (I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

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ORIZZONTALI 1. L’ultima della scala... 3. Vi si allevano i pesci 8. Le iniziali dell’attrice Chiatti 10. Si nasconde in un boccone 12. In occidente è reato 14. Ravveduto 16. Fanno rima... con ma 17. Una lirica come «Il 5 maggio» 18. Ciao in portoghese 20. Si dividono al bivio 21. Risolve problemi di natura ortopedica 22. Due vocali 23. 1006 romani 25. Calciatore brasiliano attaccante del San Paolo

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9. Ottimo sui maccheroni 11. Sul pulsante dell’accensione 13. Il tutolo ne è una parte 15. Pronome personale francese 18. Harvard University 19. Cuore di pietra 20. Molti in Germania 21. È simile alla tombola 22. Golfo arabo 24. Pronome personale 25. Ventre prominente 26. Le iniziali dello psicologo Morelli 29. Di nove... vocali

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Soluzione della settimana precedente PREZIOSO FRUTTO – Il frutto nella foto, si chiama: ACEROLA – Una delle sue più importanti proprietà: MOLTO RICCO DI VITAMINA «C».

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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TEMPO LIBERO

Viaggiatori d’Occidente

di Claudio Visentin

L’insostenibile peso culturale di una città come Trieste ◆

Sono a Trieste. Il mio ostello si chiama Hotello e in effetti è più simile a un confortevole albergo che a un ruvido ostello della gioventù: posizione centrale, camere nuove e pulite, una luminosa terrazza affacciata sul mare. Ostelli simili stanno sorgendo in ogni città importante, per adulti che rimpiangono l’atmosfera (ma non i disagi) dei loro viaggi d’un tempo e giovani abituati a maggiori comodità. Ho qualche giorno a disposizione per vedere Trieste. La città è semplicemente meravigliosa: da quando nel 1719 Carlo VI prima e sua figlia Maria Teresa poi crearono un porto franco, là dove c’erano solo saline e paludi, nel giro di pochi decenni il villaggio arroccato sul colle di San Giusto si trasformò in una metropoli internazionale, dove si parlano molte lingue diverse (italiano, triestino, sloveno, tedesco…), mescolando culture e religioni. E pazienza se poi il nazionalismo avvelenò i pozzi e la favola

bella finì tra le pietraie insanguinate del Carso, aprendo la porta al nazionalismo fascista, la Seconda guerra mondiale, l’ex risiera di San Sabba, le foibe… Come contraddire Karl Kraus? «Sangue e suolo generano solo il tetano». Insomma Trieste ha davvero tanto da raccontare, eppure stranamente la prospettiva non mi elettrizza. Rimango disteso nella mia stanza anche quando il sole è già alto. La verità è che sono un poco spaventato. La visita di una grande città può essere terribilmente faticosa. Per cominciare la guida sul comodino è un massiccio volume di quasi quattrocento pagine, colmo di luoghi che reclamano il mio interesse. Il timore di mancare qualche luogo imperdibile e apparire ridicolo al ritorno («Sei stato a Trieste e non hai visto questo o quello?») aumenta il disagio. La grande letteratura aggiunge tutto il peso della sua autorità. Nessuna città, quanto Trie-

Passeggiate svizzere

ste, è stata narrata da grandi scrittori (Joyce, Svevo, Saba, Biagio Marin…). Anzi proprio questo, secondo Montale, sarebbe il suo tratto distintivo, la ragione profonda della sua fascinazione, ma in questo momento questa prospettiva di ulteriori letture mi schiaccia ancora più sul cuscino. Nel frattempo la signora delle pulizie mette dentro la testa, si scusa e se ne va, ma il messaggio è chiaro: è tempo di uscire. Cerco faticosamente di visitare qualcosa, ma il disinganno è immediato; l’impresa è troppo superiore alle mie forze. In uno spazio ristretto si sovrappongono le epoche più diverse. Il celebre teatro romano di Trieste (riscoperto solo nel 1938), in pieno centro cittadino, è davanti alla Questura, e a poca distanza dalla seicentesca chiesa della Beata Vergine del Rosario. Nel volgere di pochi minuti dovrei trasformarmi in archeologo, storico dell’arte, architetto. Mi rifugio nella vicina osteria da Mari-

no, ma anche qui c’è una storia d’ascoltare: il locale infatti fu aperto nel 1925 dall’ebreo Samuele Cesana e per questo chiuso nel 1940, al tempo delle infami leggi razziali. Dopo la guerra fu riaperto appunto da tale Marino e presto divenne il ritrovo abituale di studenti universitari e attori teatrali. Tra vini e salumi, maturo una decisione radicale: la guida massiccia finisce nel bidone della carta. I miei prossimi passi per Trieste saranno guidati dal caso. Prendo la prima a destra, poi la prima a sinistra e così via, sino a quando un ostacolo sbarra il cammino. Oppure mi assoggetto alla legge di un numero: prendo l’autobus 5, scendo alla quinta fermata e così via. Soprattutto guardo le persone, nel puro spirito del people watching (l’equivalente umano del bird watching). I celebri caffè triestini, una delle attrazioni più conosciute, sono perfetti da questo punto di vista; e poi ancora le fanciulle che passeggia-

no per la strada, i musicisti agli angoli della via, gli altri turisti con la loro babele di lingue diverse. A poco a poco mi riconcilio con la città, mi rassereno, torno aperto e disponibile. Soprattutto la mia curiosità si risveglia. Nelle ore seguenti alcune letture casuali o conversazioni coi triestini incontrati mi svelano percorsi affascinanti quanto poco battuti. Per esempio alla fine degli anni Sessanta la legge Basaglia ha ridato voce e dignità ai matti: oggi un elegante caffè, il Posto delle fragole, occupa gli spazi del manicomio. E un piccolo Museo della bora (!) esplora il rapporto dei triestini col loro celebre vento. Mentre scende la sera guardo Trieste dal mare a bordo di un battello di linea, il «Delfino verde». Quasi solo qui è possibile ammirare il tramonto del sole sull’Adriatico da una città italiana. Il disco arancione che s’immerge nel mare illumina un turista che ha ritrovato il piacere del viaggio.

di Oliver Scharpf

L’Isolino Partegora

In kayak parto per l’Isolino Partegora. Un tempo conosciuto anche come Isolino Crivelli, si trova nell’insenatura del Lago Maggiore dove c’è Angera. Una parte di lago nota come gora – acqua stagnante, paludosa – che ha dato forse il nome a questo isolino che potrebbero anche benissimo chiamare Sant’Arialdo. Per via del suo martirio: fatto a pezzi il ventisette giugno 1066 lì sull’isolino a cui non ci si fa quasi caso, talmente dentro l’insenatura e vicino alla riva che si confonde con i canneti dell’altra sponda. Eppure qui i vecchietti che bevono il bianchino al chiosco sul viale alberato, tra le riflessioni sui loro orti e le battutacce sulle graziose turiste tedesche che passano via, lo chiamano solo «l’isulin». Prendo subito confidenza con questa imbarcazione nata tra gli inuit, in Groenlandia, nella baia di Disko. Il remo affonda docile ed efficace nel la-

go e la rotta si aggiusta rapida. Potrei prendere velocità, per raggiungere il prima possibile l’undicesima non conosciutissima isola del Lago Maggiore, ma voglio gustarmi questo inedito viaggio. Supero dunque, con tutta calma, un banco di alghe verdi che per me sono già un’avventura. Il Santuario della Madonna della Riva, ai piedi della Rocca di Angera per la quale è molto conosciuta questa località, ora è in asse con l’apertura del porto asburgico. Al fianco del quale sono entrato in acqua sette minuti fa circa. Approdo così in kayak, una tarda mattina verso la fine di luglio, sull’isolino Partegora (198 m). Trascino in secca la mia imbarcazione inuit a nolo e sbarco, a piedi nudi, sulla spiaggia. Un po’ dimenticata da tutti, anche grazie al divieto di ormeggio per barche a motore, qui, nidificano, in santa pace, cigni, folaghe, germani reali e altri uccelli. Le loro orme,

Sport in Azione

sulla sabbia umida, compongono un disegno geometrico niente male che mi ricorda i geroglifici di Paul Klee o certi petroglifi dello Utah. Sabbia paludosa dove si sprofonda un po’, acqua calda trasparente, non un’anima viva, e la presenza di vongole asiatiche, provocano un effetto spaesante. L’incavo madreperlaceo di diversi gusci spiaggiati di conchiglie giganti in giro, è quasi esotica fantascienza. Si tratta di mega vongole balzate all’onore della cronaca locale qualche anno fa visto che si trovano misteriosamente solo ad Angera ed identificate come Anodonta woodiana. Tra i pioppi trovo la lapide commemorativa ottocentesca posta dal conte Crivelli: «Qui / il 27 giugno 1066 / il diacono Arialdo Alciato / subiva il martirio / da mano eretica e incontinente / consacrando col suo sangue / questo lembo di terra angerese» si legge scolpito sopra. Sotto la lapide per Sant’Arial-

do – sostenuta da due colonne rosa di Baveno ormai ingrigito che formano, col frontone sopra, una specie di tempietto – ce n’è un’altra. Risale al venti novembre 1945 ed è per onorare la memoria dei due figli caduti in guerra (Franco e Alberto, capitani navali) del commendatore Attilio Brovelli e sancisce la donazione fatta per questa ragione, dell’Isolino Partegora, al comune di Angera. Sbuco sulla spiaggia all’estremità nord di questo isolino «di appena 350 metri di giro» come viene indicato tra le pagine della Grande illustrazione del Lombardo-Veneto (1856), dettagliata enciclopedia storico-toponomastica in sei volumi a cura di Cesare Cantù. Più paludosa, il passo si sofferma meno e aumenta di ampiezza, oltre che prendere una piega Nureyev. In questa zona, Alessandro Volta, aggirandosi in barca incuriosito da strane bollicine che risalivano a galla e al-

cuni gorgoglii, il tre novembre 1776, scopre il metano. Fruga sul fondale melmoso con un bastone, raccoglie quell’aria in «un capace vaso di vetro» come rivela lo stesso Alessandro Volta in Lettere sull’aria infiammabile nativa delle paludi (1777). «E così questo minuscolo isolino, lungo neanche cento metri, circondato da canneti con qualche albero al centro, si è conquistato un posto nella storia» scrive Ambrogio Borsani in Avventure di piccole terre (2016). Io scopro, oltre a esemplari di gusci vuoti, scintillanti al sole, di Anodonta woodiana lunghi sedici centimetri, bottiglie vuote di plastica senza messaggi. Una scarpa con il tacco a spillo però, di colpo, arenata nella sabbia nerastra ed erbosa di quest’isoletta spartana, modesta e indomita che arricchisce il mio isolario negli immediati dintorni, non è certo una scoperta da poco.

di Giancarlo Dionisio

Sport per tutti, e non solo per diventare campioni ◆

Gioventù+Sport (G+S) è una delle organizzazioni cardine della formazione sportiva in Svizzera. Quest’anno festeggia il suo 50esimo compleanno. Lo fa in piena salute, dandosi nuovi obiettivi contenuti nell’Agenda 2025. «Agenda» è – o dovrebbe essere – un termine da prendere alla lettera, nel suo significato etimologico di «da fare». Non c’è ragione per credere che non sarà così. Lo scorso 30 marzo il Consiglio Federale ha sancito la revisione parziale dell’ordinanza sulla promozione dello sport e dell’attività fisica. Il primo dei tre pacchetti, che entrerà in vigore il prossimo 1. dicembre, prevede il rafforzamento del volontariato, il maggior coinvolgimento delle società sportive nel processo di promozione dello sport e della salute, e lo snellimento degli aspetti normativi e formali.

G+S è il frutto di una rinascita. Prima del 1972 si chiamava IP, Istruzione Preparatoria. Aveva scopi tutto sommato analoghi rispetto a quelli sviluppatisi negli anni a seguire, ma il profumo di uniforme e di servizio militare era nell’aria. Lo si percepiva soprattutto nei modi. I movimenti di protesta planetari degli anni Sessanta hanno portato dei cambiamenti sostanziali anche nella concezione dello sport e della formazione dei giovani sportivi. Per lo meno là dove non vi erano regimi totalitari in cui lo sport era considerato uno strumento di affermazione della propria potenza e del proprio potere. Sono mutate, ad esempio, e non di poco, la figura dell’allenatore e dell’allora maestro di ginnastica. Fischietto e tamburello sono stati messi in naftalina, per lasciare il posto a metodologie educative e formative

meno costringenti e più coinvolgenti. Si è allargato enormemente lo spettro delle attività proposte. Attualmente sono più di ottanta le discipline sportive contemplate. Soprattutto è cambiata la veste di IP che, come G+S, a livello cantonale, è passata dal cappello del Dipartimento che gestiva gli affari militari, a quello del DPE (Dipartimento della Pubblica Educazione), diventato in seguito DECS (Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport). Alzi la mano chi, durante il suo iter scolastico non è stato coinvolto, almeno una volta, in un corso o in un campo organizzato sotto l’egida di G+S. Annualmente sono oltre 80mila i corsi e i campi; 1 milione le presenze, da parte di 637mila bambini; 100 i milioni elargiti dalla Confederazione a sostegno di tutto il movimento.

Lo sport in Svizzera è gestito dal Dipartimento federale della difesa, della protezione della popolazione e dello sport (DDPS), diretto dalla consigliera federale Viola Amherd. Il centro nevralgico è l’Ufficio federale dello sport (UFSPO), con sede a Macolin. La filosofia, semplicissima, è basata su due assi: sport d’élite e sport di base. Un sistema che suscita critiche ed entusiasmi. Le prime da parte di chi vorrebbe fossero elargite maggiori sovvenzioni alle varie Federazioni che si occupano dei nostri atleti di punta. I secondi da parte di chi si rallegra del fatto che il Governo abbia ben chiaro in testa il ruolo popolare e sociale dello sport. Ovvero quello di promuovere la salute e l’integrazione. Gioventù+Sport si pone a cavallo tra i due percorsi. Da un lato, corsi e campi, consentono agli oltre 150mi-

la monitori e ai 6mila esperti di scoprire talenti. Dall’altro fanno sì che sempre più bambini si tuffino in attività al tempo stesso socializzanti e formative. Con ogni probabilità, senza il sostegno di G+S, molte società sportive non riuscirebbero a garantirsi la continuità. Oppure sarebbero costrette ad aumentare a dismisura i costi da riversare sulle famiglie. Parimenti, molte scuole, cantonali o comunali che siano, dovrebbero rinunciare all’organizzazione di settimane bianche e campi polisportivi. Insomma se questa benemerita organizzazione riuscisse a formare nuovi Federer, Cologna o Cancellara, sarebbe semplicemente un gradito e succulento optional. Il fatto che offra semplicemente delle opportunità, è più che sufficiente. Quindi… lunga vita a G+S.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 2 agosto 2022

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ATTUALITÀ ●

Sotto le bombe con una paura continua Reportage da Charkiv e dintorni, dove i continui bombardamenti russi minano il morale dei soldati ucraini e della popolazione

Corsa allo spazio senza regole Le mire economiche delle grandi potenze rendono urgente un nuovo trattato internazionale sullo spazio

Più solidarietà ed equilibrio La nuova perequazione finanziaria intercantonale svizzera dà i suoi frutti: ai cantoni deboli garantito un minimo vitale

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Dalla tribù alla presidenza India

Per la prima volta una donna di origini tribali ascende alla più alta carica dello Stato

Francesca Marino

«È un tributo al potere della nostra democrazia, che una bambina nata in una povera casa dentro a una remota area tribale possa arrivare a ricoprire la più alta carica Costituzionale dell’India. Non è una mia vittoria personale, l’essere stata eletta Presidente dell’India, ma è una vittoria per ogni persona di umili origini. La mia elezione prova che i poveri, in India, possono non soltanto avere dei sogni, ma che possono anche realizzarli».

Figlia di un capo-villaggio, Droupadi Murmu è stata fino al 2021 governatore dello Stato di Jahrkand. (Keystone)

«Ai miei tempi la carriera politica non era ben vista, nella mia comunità si pensava che le donne non dovessero fare politica» Le prime, commoventi parole di Droupadi Murmu dopo aver giurato come quindicesimo presidente dell’India, hanno fatto praticamente il giro del mondo. Perché questa signora piccola, dal sorriso schivo e dai modi semplici e diretti, non è soltanto il nuovo presidente eletto della più grande democrazia del mondo, ma è un simbolo, e un simbolo potente. Prima di tutto, i record: la signora Murmu, sessantaquattro anni, è il più giovane presidente eletto nella storia dell’India, e il primo a essere nato dopo l’Indipendenza. Non è la prima donna presidente: prima di lei, nel 2007, era stata eletta Pratibha Patil. È però la prima persona di origine tribale a ricoprire una carica istituzionale di questo calibro: appartiene alla tribù dei Santhal, la più grossa minoranza tribale degli Stati indiani del Jarkhand e del West Bengal, con presenze anche in Orissa, Bihar e Assam oltre che in Bangladesh. Leggenda vuole che la piccola Droupadi, figlia del capo-villaggio di Baidaposi, in un remoto distretto dell’Orissa, salisse sul palco dove un politico locale stava chiudendo un comizio domandandogli a gran voce sostegno per poter studiare a Bubaneshwar, la capitale dello Stato. E che il politico fosse così impressionato dalla bambina da trovarle un posto in una scuola governativa e, in seguito, al Ramadevi Women’s College. Uscita di scuola, Droupadi ormai ragazza diventa un’insegnante e, in seguito, un politico prima locale e poi nazionale. Distinguendosi dalla massa per la vicinanza ai suoi elettori e per le battaglie su problemi concreti che riguardano la comunità tutta. Leggende a parte, la piccola signora Santhal fa una carriera politica di tutto rispetto ricoprendo ruoli di primo piano nel governo dell’Orissa. Fino a che la sua vita viene letteralmente devastata: perde nel giro di pochi anni il marito e due figli, uno dei quali in circostanze piuttosto misteriose.

Non è un posto facile, l’Orissa, e tanto più non è facile se sei una donna e appartieni a una minoranza protetta. Come ha dichiarato anni fa la stessa Murmu: «Ai miei tempi, la carriera politica non era molto ben vista. Specialmente, per una donna. Perché nella comunità di cui faccio parte si pensa che le donne non debbano entrare in politica». I tribali, in Orissa come nel vicino Jarkhand (Stato di cui la signora Murmu è diventata governatore nel 2015), vivono una situazione complessa. Le popolazioni tribali, in India, sono protette da uno specifico dettato costituzionale e soggette a un programma che prevede lo sviluppo delle varie tribù senza alcuna ingerenza esterna e l’impiego, nella gestione del programma, di operatori sociali rispettosi, per ovvie ragioni, di cultura e tradizioni locali. Il rispetto di usi e costumi viene costantemente invocato nelle sedi più disparate, ma finisce per somigliare al caro, vecchio mito del «buon selvaggio». Mito che, come fa notare l’antropologo francese Marc Augé, ha però molto a

che vedere con la gestione del potere da parte delle culture dominanti. Per cui, spesso, rispetto fa rima con sottosviluppo e carità, più che con diritti e sviluppo sostenibile. Dalle statistiche, si evince difatti che più del 66% della popolazione tribale è analfabeta e che il 32% dei bambini abbandona la scuola dopo la prima elementare. Che il tasso di alfabetizzazione femminile, in particolare, raggiunge a stento l’8,3%. Che il 72% dei tribali vive al di sotto della soglia di povertà, e il 50% è stato sfrattato dalle proprie terre: sempre in nome dello «sviluppo», ovviamente. Secondo un rapporto del National Advisory Council, più di nove milioni di tribali, negli ultimi cinquant’anni, sono stati sradicati dalle loro terre a favore di cosiddetti progetti di sviluppo. Soltanto il 60% di questi ha ricevuto una qualche forma di compensazione o beneficiato di una cosiddetta «riabilitazione». La maggior parte dei tribali sopravvive in slum ai bordi delle cittadine, in condizioni di assoluta miseria. In Jarkhand, lo

Stato di cui Droupadi Murmu è stata governatore fino al 2021, i tribali protestano da anni contro lo sviluppo indiscriminato che lede i loro diritti costituzionali avvelenando l’ambiente e respingendo ai margini le comunità. A complicare il tutto, si sono unite alle proteste anche i guerriglieri Naxaliti, che usano sempre più di frequente il Jharkhand come base logistica, come sede di campi di addestramento dei guerriglieri o di reclutamento di giovani tribali: la povertà, la rabbia e l’insoddisfazione, unite alla quasi totale latitanza delle istituzioni nella zona, hanno fornito ai Naxaliti una solida piattaforma su cui operare più o meno indisturbati sfruttando e acuendo abilmente le diseguaglianze sociali ed economiche. La signora Murmu, durante tutti gli anni del suo governatorato, si è battuta perché alla sua gente venissero riconosciuti i diritti garantiti dalla Costituzione e dalla legge indiana. Per questo motivo, la sua elezione è stata salutata dalle popolazioni tribali con manifestazioni di vera e pro-

pria esultanza. Per questo motivo, la sua elezione riveste una così alta carica simbolica. L’India, come già sottolineato, ha avuto un presidente donna nel 2007, una donna primo ministro già nel 1966 e numerose donne alla guida dei singoli Stati. A dispetto di quello che se ne dice all’estero, ha avuto anche un paio di presidenti musulmani, e il presidente uscente è un Dalit, un «intoccabile» secondo le regole induiste. Non era mai successo, però, che una persona di origine tribale, e per di più una donna, venisse chiamata a ricoprire la massima carica dello Stato. Hanno danzato al suono dei tamburi e pregato attorno agli alberi sacri, nel villaggio in cui è nata la signora Murmu. Sperando che, con lei a ricoprire la carica più prestigiosa dello Stato, i tribali ottengano finalmente vera giustizia e il pieno riconoscimento dei loro diritti. E che molte altre bambine come Droupadi, tra qualche anno, percorrano la stessa strada. Fino a che, un giorno, l’elezione di un tribale non farà più notizia perché sarà diventata una cosa normale.


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Anno LXXXV 2 agosto 2022

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ATTUALITÀ

«Nessuno deve sentirsi al sicuro»

Reportage ◆ L’esercito russo applica da settimane una strategia del terrore, bombardando anche località che fino a ieri non erano toccate dalla guerra, per fiaccare la resistenza degli ucraini Francesca Mannocchi

Quando Ivan sale alla guida del suo mezzo militare ha il volto più scuro di due mesi fa. L’ultima volta che ci eravamo visti era maggio, l’esercito ucraino stava riconquistando posizioni a nord di Kharkiv, le forze ucraine hanno respinto con forza ogni avanzata russa e hanno cominciato a usare la città come base per distruggere colonne di equipaggiamento russo che tentavano di viaggiare verso occidente da est. La città cominciava finalmente a respirare dopo settimane di incessanti attacchi missilistici che avevano colpito luoghi simbolici come Piazza della Libertà e devastato l’intero quartiere di Nort Saltivka. Putin sembrava aver ridimensionato i suoi obiettivi dichiarati alla fine di febbraio, sembravano lontani i giorni dell’assalto a Kiev, con i paracadutisti che erano arrivati nella capitale per colpire il cuore dello Stato, rimuovere il Presidente Zelensky e fare dell’Ucraina uno Stato vassallo sul modello della Bielorussia. Ivan era fiducioso che i villaggi liberati lo sarebbero rimasti, che il sollievo delle persone che tornavano alla vita dopo mesi di occupazione russa sarebbe diventato la norma. Invece a luglio l’aria a Kharkiv era di nuovo cupa, di nuovo grave. «Pensavamo che l’offensiva di terra intorno Kharkiv fosse finita – dice Ivan – invece avevamo gridato vittoria troppo in fretta. Oggi hanno cambiato strategia, da qui non possiamo che definirla strategia del terrore. Colpiscono senza un criterio, ammesso che in guerra ne esista uno, uccidendo civili a ogni ora del giorno». Le parole di Ivan sintetizzano la situazione che la seconda città del paese sta vivendo da qualche settimana. Attacchi indiscriminati su edifici civili che, secondo le istituzioni locali, hanno provocato la morte di almeno cinquanta persone. Quando parla di strategia del terrore, Ivan racconta lo stato d’animo che molti ucraini stanno vivendo soprattutto dopo i recenti attacchi al centro commerciale di Kremenchuk e nel centro città di Vinnytsia: attacchi avvenuti in pieno giorno, in luoghi frequentati da civili, in città risparmiate dai combattimenti e distanti centinaia di chilometri dal fronte. Questo tipo di eventi, per i cittadini, recano con sé un messaggio molto chiaro: nessuno deve sentirsi al sicuro da nessuna parte. «Per la Russia –

continua Ivan – continuare a provocare vittime civili nelle zone di Kharkiv significa impedire alla popolazione di tornare a una forma di stabilità precedente al 24 febbraio. Oggi la Russia vuole punirci, piegare lo spirito combattivo della città e assicurarsi che la prossima volta che una colonna di mezzi russi attraverserà i villaggi vicini al confine in direzione di Kharkiv, la gente si arrenderà all’invasore». Il morale dei soldati lungo i villaggi diventati di nuovo linee del fronte non è molto diverso. I nuovi missili Himars ad alta precisione e lunga gittata qui non sono ancora arrivati e l’inferiorità dei mezzi si fa sentire. Nelle trincee, dove si vive come durante la prima guerra mondiale, l’entusiasmo per le consegne di armi tanto celebrate in Occidente sembra un mondo lontano. Lì, nascosti sottoterra, si contano le munizioni: «abbiamo un pezzo d’artiglieria ogni quindici dei loro» dice Andrii, della 127 brigata di fanteria, incontrato in una base militare di cui chiede di non rivelare la posizione per ragioni di sicurezza, «quando ci mandano qui sappiamo che stiamo andando a morire». L’esercito ucraino sta rafforzando le posizioni a nord di Kharkiv perché teme che la Russia potrebbe lanciare un nuovo attacco di terra nel prossimo futuro. È la loro tattica, dice ancora Andrii «iniziano con attacchi missilistici, poi arriva l’artiglieria pesante e poi si spostano con carri armati e fanteria. Un copione sempre uguale, che si sta ripetendo». Ivan attraversa i chilometri che separano la città dai villaggi vicino al confine che sono tornati a essere una linea del fronte. Villaggi feriti, fatti di strade deserte e piccole abitazioni di legno danneggiate dai missili, crateri sull’asfalto. Città fantasma. Si ferma in ogni paese, intorno il rumore dei colpi d’artiglieria a ricordare che la guerra non solo non è rallentata, ma si sta riavvicinando. Da lontano si vedono colonne di fumo che si alzano dagli edifici colpiti. Nella città di Zolochiv, a soli quindici chilometri dal confine russo, sono rimasti solo gli anziani. Le famiglie sono andate via tutte, i bambini sono stati sfollati con le madri, così pure i malati e i disabili. Resta la bottega di Ludmylla, l’unica aperta, al bordo della strada. L’interno del suo negozio è buio, l’elettricità a Zolochiv

Le macerie della casa della cultura a Chuhuiv. (Keystone)

è saltata all’inizio di marzo e da allora nessuno l’ha ripristinata. Ludmylla avrebbe potuto andare via, ma oltre a essere la proprietaria del negozio, è anche la responsabile della comunità e, dice, non poteva lasciare soli gli anziani che non vogliono andare via. Gli scaffali del suo negozio sono semivuoti, restano ancora un po’ di formaggio, le verdure che riesce a procurare, le uova, il pane. Non si lamenta, non chiede spiegazioni, non vuole dare colpe a nessuno: «la guerra ormai è qui, arriverà il tempo delle responsabilità, ora è tempo di aiutarsi gli uni con gli altri, è il tempo della comunità, non dei processi». Prepara un caffè, ringrazia Ivan per aver portato qualche scatola di beni alimentari, garantisce che saprà distribuirli alle persone bisognose. Lei sa dove vivono, sa che da Zolovich non se ne andranno. Per due ragioni, spiega. La prima è l’età, pensano di aver vissuto abbastanza e se morte deve essere che almeno sia a casa loro. La seconda è che non capiscono questa guerra. Non capiscono perché i russi abbiano invaso casa loro. Non comprendono le ragioni per cui le loro famiglie che vivono oltreconfine siano d’improvviso diventate nemiche. Così è per Oleg, un ottantenne che vive poco distante dalla sua bottega.

Suo figlio vive a Belgorod, in Russia, da trent’anni, ha combattuto nell’Armata Rossa. Negli anni i rapporti tra i due si sono allentati fino a farli allontanare del tutto. Quando casa di Oleg è stata colpita da un missile russo, l’uomo ha chiamato il figlio per raccontargli l’accaduto: avrei potuto morire, gli ha detto, raccontando di quanto era da poco accaduto al suo vicino, un veterano della seconda guerra mondiale che aveva combattuto per cacciare i nazisti ed era rimasto vittima dell’offensiva del Cremlino in Ucraina. Il paradosso della storia. Suo figlio però non gli ha creduto. Non erano missili russi, gli ha detto, sono «i nazisti ucraini che distruggono le vostre città». Vostre, gli ha ripetuto più volte, come se Zolochiv non fosse stata, un giorno, anche casa sua. Da allora Oleg non ha più provato a chiamarlo, non si sono più parlati. Era la metà di marzo. È con questo peso che si vive oggi nelle terre di confine. Quando sale di nuovo sul suo mezzo in direzione di Kharkiv, Ivan ha il volto ancora più cupo. «La guerra è già diventata lunga, e quando i conflitti diventano cronici alimentano gli odi di domani», poche tragicamente limpide parole per dire che quanto più a lungo prosegue la guerra militare, tanto più sarà alto il rischio che

si radicalizzeranno posizioni estremiste, odi. È già così nella società russa nutrita dalla propaganda del Cremlino, comincia a essere così anche in Ucraina, dove intere città stanno attuando dei piani di derussificazione. Vengono cambiati i nomi delle vie, banditi i partiti politici considerati filorussi, rimosse statue raffiguranti grandi autori e filosofi e musicisti di origine russa. Anche su questo Ivan ha una spiegazione: «quello che per voi in Europa è espressione della storica cultura russa, per noi è sinonimo di un passato coloniale. Per noi Dostojevsky rappresenta la radice dell’esercito invasore». Poco prima di arrivare nella sua base a Kharkiv, Ivan riceve una telefonata. È sua moglie. È scappata a febbraio con i due figli a Vinnitsya, pensando che quella città, al centro del paese, sarebbe stata risparmiata dai missili. Per quattro mesi hanno vissuto distanti ma nello stesso paese. Dopo l’attacco del mese scorso, la moglie di Ivan ha deciso di lasciare il paese. Ivan li guarda dallo schermo del telefono, abbozza un sorriso che non riesce a essere naturale. Dice loro buon viaggio. E poi, una volta chiusa la telefonata, ripete: questa è la strategia del terrore, nessuno si sente più sicuro in nessun luogo, qui. Annuncio pubblicitario


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ATTUALITÀ

Il Far West spaziale Scienza e politica

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Urge un nuovo Trattato sullo Spazio extra-atmosferico

Loris Fedele

Riletture

Il libro che rovesciò le certezze

Alfredo Venturi

La capsula spaziale Orion a Cape Canaveral, destinata a portare astronauti sulla Luna e oltre, nell’ambito del programma Artemis. (Keystone)

I prossimi passi per esplorare e usare lo Spazio a beneficio dei cittadini europei erano la voce in agenda di un meeting tenutosi a metà giugno 2022 in Olanda all’ESTEC, il centro tecnico operativo dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Vi ha partecipato anche l’amministratore della NASA, nel chiaro intento politico di dar peso alla collaborazione europeo-americana in campo spaziale e come segno di apprezzamento per il ruolo che l’Europa svolge e svolgerà nei programmi comuni che porteranno l’uomo sulla Luna e su Marte. La guerra in Ucraina ha congelato i rapporti con la Russia, che adesso mirerebbe, per ritorsione o per calcolo, ad avvicinarsi alla Cina, mentre gli Stati Uniti sembrano cercare coesione con l’Europa. Il conflitto sviluppatosi a terra potrebbe andare oltre la nostra atmosfera e condizionare il lavoro nello Spazio. Come è noto l’ESA fornisce i moduli di servizio per la nuova capsula americana Orion, destinata a portare gli astronauti sulla Luna e oltre. È anche coinvolta nella Stazione spaziale internazionale (ISS), dove gli americani e gli europei stanno oggi vivendo con i russi da separati in casa, ciascuno nei propri moduli nella misura del possibile. La Russia ha annunciato di volersi ritirare nel 2024. ISS finirà di operare alla fine di questo decennio e il futuro appare incerto. Di sicuro c’è la disponibilità e la volontà degli americani di portare presto anche un europeo a calcare con loro il suolo lunare. Lo ha affermato Bill Nelson, amministratore della NASA, nel ricordato meeting di metà giugno. Questo «premio» sottolineerebbe l’apprezzamento USA per il prezioso contributo europeo al programma Artemis, che riporterà l’umanità sulla Luna. A sottolineare l’aspetto politico e propagandistico dell’intera operazione sono già stati annunciati come obiettivo la presenza di una donna e di un uomo di colore tra gli astronauti che sbarcheranno sul nostro satellite naturale. Una tappa fondamentale del programma Artemis è la messa in orbita attorno alla Luna di una stazione spaziale, il Lunar Gateway (Portale lunare) usato come punto di appoggio per il successivo sbarco. È stata progettata dai partner dell’attuale ISS e

60 anni di ecologia

quindi dalla NASA americana, dalla russa Roscosmos, dall’ESA e dalla JAXA giapponese. Si compone di diversi moduli più un braccio robotico fornito dal Canada. Il lancio di Gateway, previsto a partire dal 2024, probabilmente subirà ritardi e modificazioni (c’erano anche componenti russe nel progetto) ma si farà. Nell’operazione per parte americana saranno coinvolti anche i privati, gli Elon Musk e i Jeff Bezos per intenderci, e sicuramente degli altri. Questi miliardari che vi metteranno i loro lanciatori e un sacco di soldi non mirano di certo alla Luna al fine di accrescere il sapere dell’umanità, ma per fare affari. Sul nostro satellite naturale vi sono risorse minerarie preziosissime per sviluppare tecnologie avanzate, cosa che aprirebbe per i privati una sorta di nuova corsa all’oro. Siccome anche gli Stati basano le loro decisioni soprattutto su motivazioni economiche piuttosto che di tipo intellettuale ed etico, è naturale domandarci: la Cina e la Russia con i loro programmi per la Luna e per Marte faranno lo stesso? E l’Europa che strategia seguirà? In questo clima di competizione dai rilevanti risvolti politici si sente il bisogno di ribadire le leggi del Diritto internazionale dello Spazio, come ha menzionato Mariasole Agazzi, studentessa in Scienze naturali interdisciplinari del politecnico di Zurigo, in un suo articolo dell’ottobre 2021: «l’uomo progetta di colonizzare la Luna e di raggiungere Marte con le stesse leggi riconosciute a livello internazionale di cui disponeva solo dieci anni dopo che Neil Armstrong aveva toccato la superficie lunare. È come se l’uomo cercasse di regolamentare il trasporto automatizzato con le stesse regole applicate alle prime automobili nel XIX secolo: il fallimento è inevitabile». Agazzi ricordava che nel 1967, in piena guerra fredda, le due super potenze mondiali spaziali di allora, Stati Uniti e Unione Sovietica, fecero firmare alle Nazioni Unite il «Trattato sullo Spazio extra-atmosferico», tutt’ora valido. Si compone di 17 articoli nei quali si stabilisce che l’esplorazione dello Spazio deve essere condotta nell’interesse di tutti, si vieta alle nazioni di prendersi risorse e di rivendicare la proprietà sui

corpi celesti e di non usarli per scopi militari. Si stabilisce inoltre un regime di responsabilità per eventuali danni arrecati. Se si guardano oggi con gli occhi degli avvocati le formulazioni delle voci di questo Trattato, sorgono dubbi sulle interpretazioni che si potrebbero dare sul significato e sullo sfruttamento dei cosiddetti «beni comuni». Per questo una nuova legislazione planetaria appare necessaria, con un aggiornamento del Trattato del 1967 e l’aggiunta di regole più precise e inequivocabili. Non devono esserci zone grigie. Tanto più che un «Accordo sulla Luna» del 1978, che voleva mettere dei paletti allo sfruttamento lunare, fu firmato solo da 18 Stati, tra i quali non figuravano Stati Uniti, Russia e Cina e quindi risulta praticamente obsoleto. Negli ultimi anni ci sono stati segnali inquietanti di anarchia spaziale: nel novembre 2021 la Russia che lancia un missile contro un proprio satellite e lo fa andare in mille pezzi incurante dei danni che i detriti avrebbero potuto causare (anche alla Stazione spaziale parzialmente occupata dagli stessi russi), ma soprattutto il varo di una legge nel novembre 2015 del Congresso USA che conferiva unilateralmente alle aziende americane il diritto di possedere e vendere risorse estratte sui pianeti e sugli asteroidi, in chiaro contrasto con i primi articoli del Trattato sullo spazio. Questo per l’aspetto economico della questione. Per quello politico, sempre negli Stati Uniti, con una legge del 2019 è stato riorganizzato il comando militare aerospaziale nazionale in un nuovo servizio che dovrebbe «garantire libertà operative da e verso lo spazio». Cosa stiano facendo Russia e Cina ovviamente non si sa. Tuttavia quello spazio che si pensava come luogo di ricerca scientifica e cooperazione internazionale rischia di somigliare sempre di più a un campo di scontro politico-militare e a un nuovo Far West economico, con regole insufficienti per tutelarlo. I conflitti terrestri e i nostri pregiudizi sembrano già nello spazio, per lo meno a livello economico. Ma la Scienza con la S maiuscola guarda al bene dell’umanità, cerca di essere apolitica, non conosce frontiere. Deve allargare il nostro sapere, non l’ampiezza del borsellino.

Primavera silenziosa, Silent Spring, Der stumme Frühling, Printemps silencieux. Non conosce frontiere linguistiche il libro della biologa americana Rachel Carson che diede il via al movimento ambientalista. Quel saggio compie sessant’anni e davvero non li dimostra. In patria e altrove continua a lanciare il suo grido d’allarme contro l’uso scriteriato dei fitofarmaci in agricoltura, più in generale contro tutte le offese inflitte all’ambiente da uno sviluppo dominato dalla ricerca del profitto fine a sé stesso. Quello stesso grido che nel 1962, quando Silent Spring comparve nelle librerie americane, colse di sorpresa gli avvelenatori del pianeta denunciando gli effetti perversi della chimica applicata alle coltivazioni, in particolare la lotta contro gli insetti infestanti attraverso l’uso incontrollato del DDT. Aggredita da un tumore, Rachel Carson morì non ancora cinquantasettenne due anni dopo la comparsa del suo bestseller, e dunque non poté assaporarne il frutto più prezioso, la messa al bando del DDT da parte degli Stati Uniti che fu decisa all’inizio degli anni Settanta. Cioè un quarto di secolo dopo il Nobel per la medicina allo scienziato svizzero Paul Hermann Müller, premiato per averne scoperto le proprietà come insetticida: con pieno merito del resto, visto il suo ruolo nella lotta contro la malaria e altre patologie epidemiche. La fine del DDT come fitofarmaco fu l’esito di un duello fra la nascente opinione ecologista e la resistenza delle grandi industrie chimiche e agro-alimentari. Prima di raggiungere la fama l’autrice di Silent Spring aveva insegnato zoologia alla Johns Hopkins e all’Università del Maryland, aveva iniziato un lavoro d’informazione al dipartimento della pesca, aveva denunciato i flussi provenienti dai campi di sostanze che intossicavano le acque, aveva dato alle stampe opere come la celebre trilogia del mare: Under the Sea Wind, The Sea Around Us (pubblicato anche in italiano: Il mare intorno a noi) e The Edge of the Sea. Quando comparve Silent Spring fu investita da una valanga di critiche, tacciata di superficialità e approssimazione, addirittura di comunismo, un’accusa che nell’America di allora poteva costare molto cara. Aveva gettato un sasso in uno stagno rabbiosamente reattivo. La biologa ricorda nel suo saggio che le monocolture hanno moltiplicato i parassiti delle piante coltivate, e che negli anni Quaranta si cominciarono a usare antiparassitari sintetici, che si rivelarono tossici non soltanto

La biologa americana Rachel Carson. (Keystone)

per gli insetti presi di mira in quanto nocivi ma anche per quelli utili. Dai terreni queste sostanze si riversano nei fiumi, nei laghi e nel mare andando a compromettere la catena alimentare della fauna acquatica. Cause ed effetti si rincorrono creando effetti diabolici, come la strage dei pettirossi che si registrava in quegli anni in America. A ucciderli erano le conseguenze della disinfestazione con il DDT dell’olmo bianco minacciato da certi coleotteri. I pettirossi si nutrivano di lombrichi che basavano la loro dieta sulle foglie cadute dagli olmi, impregnate di veleno. Ben poco interessata alla sorte dei pettirossi, l’industria coinvolta si difese deridendo l’autrice di Silent Spring e dichiarandola incompetente, visto che le sue specialità erano la zoologia e la biologia marina, ma non la biochimica. Si sventolavano studi e ricerche compiacenti, volti a dimostrare che la clamorosa denuncia non era che la fantasia di una bird-watcher prevenuta e in malafede. Il fatto stesso di essere donna la rendeva un facile bersaglio per chi condiva le critiche con un tocco di oscurantismo. Tuttavia il libro ebbe un enorme successo, promuovendo un’adesione di massa alle ragioni della denuncia e assicurando all’autrice risorse finanziarie che le permisero, nel poco tempo che le restò da vivere, di fare a meno del lavoro al dipartimento della pesca per concentrarsi sulla ricerca.

Silent Spring, di Rachel Carson, influenza ancora oggi il dibattito sull’uso di sostanze chimiche nell’agricoltura Rachel Carson ha il merito storico di avere sconvolto il tradizionale ordine delle priorità collocando la sostenibilità ambientale davanti allo sviluppo, innalzando i maltrattamenti del pianeta al livello di grande questione popolare profondamente sentita in ogni parte del mondo. Come più tardi Naomi Klein con la sua critica della globalizzazione sfrenata o Al Gore con la grande campagna ecologista che lo premiò con il Nobel per la pace, la sua lezione è fra gli elementi fondanti della moderna coscienza ambientalista. Per questo Silent Spring, anche se il DDT è quasi scomparso (ma non senza che dopo la messa al bando ingenti scorte ne venissero rifilate a quello che allora si chiamava Terzo Mondo) rimane di stretta attualità. In nome dei livelli di produzione l’agricoltura continua a impiegare sostanze chimiche dagli effetti sconosciuti, quando non chiaramente dannosi. Per non parlare delle modificazioni genetiche, invocate in tempi di crisi come l’attuale per fronteggiare la crescente domanda mondiale di cibo. Le posizioni della studiosa americana, serene ed equilibrate, non la collocano certo fra gli esagitati dell’ecologismo militante come volevano i suoi detrattori. Il suo è un invito al buonsenso. Non chiede di fare a meno dei fitofarmaci ma semplicemente di farne un uso ragionevole. Quanto basterebbe per salvare gli organismi che popolano la Terra, noi compresi, per far sì che la primavera conservi quel suo fascino fatto di profumi e di suoni: il cinguettio degli uccelli, il ronzio degli insetti. Per non condannarla al drammatico silenzio evocato da quel titolo amaro e suggestivo.


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La nuova via dà i suoi frutti

Compensazione finanziaria intercantonale ◆ Con il nuovo metodo si accorda ai cantoni più poveri un «reddito minimo garantito» – Zugo versa ancora più soldi agli altri cantoni Ignazio Bonoli

Il Dipartimento federale delle finanze ha pubblicato i dati più recenti della compensazione finanziaria fra i cantoni, con la partecipazione della Confederazione. In pratica si tratta delle previsioni di quanto i cantoni più ricchi dovranno pagare e quelli «poveri» potranno incassare il prossimo anno. I cantoni possono far presenti le loro osservazioni. Dal 2008 è stato elaborato un nuovo metodo di prelievo e di distribuzione e si è cambiato anche il nome del provvedimento in Nuova compensazione finanziaria (NCF o NFA in tedesco). Il lettore ricorderà che, nonostante l’accordo di base fra cantoni e Confederazione, ben presto i cantoni chiamati a pagare si sono lamentati dei troppi soldi da versare e anche del cattivo uso che alcuni cantoni ne avrebbero fatto. Queste lamentele hanno portato, due anni fa, a una revisione del metodo da applicare, metodo che avrebbe dovuto contenere entro limiti ragionevoli l’esborso richiesto ai cantoni più fortunati. In particolare non si è più lasciata la facoltà al Parlamento di decidere politicamente le somme da prelevare e da distribuire. Oggi queste decisioni sono praticamente automatiche, nel senso che quando le differenze di forza finanziaria fra cantoni aumentano, aumentano anche le cifre della compensazione finanziaria. Lo si vede chiaramente nel contributo chiesto al canton Zugo, da sempre il cantone che ha versato più soldi alla compensazione. Già nel 2017 questo cantone ricco aveva toccato il primato di versamenti con 340 milioni di franchi. Non è quindi senza una certa sorpresa che, nel 2023, a questo cantone verranno chiesti 365,9 milioni di franchi. Quindi un nuovo primato assoluto. Con il nuovo metodo si attribuisce però ai cantoni più poveri una specie di «reddito minimo garantito». Questo minimo è stato fissato, in base alla media delle singole forze finanziarie dei cantoni, nell’86,5% della media svizzera. Sotto questa media si trovano oggi solo tre cantoni: Vallese, Giura e Friburgo. Quindi, per la prima volta, non figura tra i maggiori beneficiari il canton Berna. Fatto questo che aveva sollevato parecchia meraviglia e quindi dubbi sul sistema stesso della NCF.

Con la nuova tassazione sulle multinazionali Zugo avrà ancora maggiori entrate fiscali e devolverà milioni aggiuntivi alla NFC. (Keystone)

Nel 2023, Berna non solo non figura più fra i cantoni più poveri, ma supera perfino cantoni come Soletta, Uri, Glarona e Neuchâtel. Il Ticino, con un indice di forza finanziaria del 93,4%, si situa quasi sempre sopra la media di tutti i cantoni. Il canton Grigioni ha un indice di forza finanziaria dell’83,2% e, con i due Appenzello, Uri e Vallese, si trova fra i cantoni che ricevono i maggiori contributi per l’aggravio geotopografico. I cantoni che hanno avuto un aumento della forza finanziaria sono, invece, oltre a Zugo (+10,5 punti), Basilea-città (+11,2 punti) e Appenzello interno (+4,9 punti). Due parole di commento vanno forse dedicate alla situazione eccezionale del canton Zugo che, per così dire, sotto questo aspetto appare vittima del proprio successo. Il che significa un nuovo aumento dei contributi da versare alla compensazione. È, infatti, un cantone molto attratti-

vo anche dal punto fiscale e, in periodi di crescita economica, non subisce danni dalla concorrenza di altri cantoni vicini, come ad esempio Svitto. Zugo attira, infatti, non solo importanti aziende, ma anche parecchi buoni contribuenti fra le persone fisiche. Questo fa sì che il substrato fiscale del cantone sia costantemente migliore di quello di altri cantoni. Se si tiene conto della sostanza, di tutti i redditi e degli utili aziendali sui quali il cantone può prelevare un’imposta, si giunge alla conclusione che questa base fiscale è di 2,7 volte superiore alla media dei cantoni svizzeri. Questo spiega perché il canton Zugo può finanziare le sue uscite mediante un prelievo di imposte più basse che altrove. Ovviamente le differenze aumentano se si estende il confronto ai cantoni finanziariamente più deboli. Per esempio, la base fiscale del canton Vallese è soltanto di un quar-

to di quella del canton Zugo. E questo spiega perché, ancora una volta, il contributo percepito dal canton Vallese raggiunge il nuovo primato di 844 milioni di franchi, ossia 2400 franchi per abitante. Sono compresi in questa cifra anche i contributi che la Confederazione attribuisce ai cantoni con territorio difficile, dal punto di vista geografico e topografico. Ai cantoni urbani la Confederazione concede invece contributi per particolari fattori socio-demografici, come quote importanti di anziani o di redditi modesti. Le cifre fornite dalla Confederazione non contemplano ancora gli effetti della nuova tassazione delle multinazionali. Mentre alcuni cantoni dovranno diminuire le imposte alle società interessate, probabilmente il canton Zugo dovrà invece aumentarle. Esso potrà contare su un maggior gettito fiscale, che a sua volta farà aumentare il contributo alla NCF. Se-

condo il responsabile cantonale delle finanze, questo contributo potrebbe superare il mezzo miliardo di franchi. La posizione del canton Zugo è, in questo frangente, ancora una volta particolare. Potrebbe utilizzare il maggior gettito per una diminuzione generale delle imposte, già basse, e generare così nuove lamentele sulla concorrenza sleale. Oppure – e l’idea è ancora del responsabile delle finanze – potrebbe trasferire il surplus fiscale agli altri cantoni o alla Confederazione. Quest’ultima ci ha però già pensato formulando l’intenzione, condivisa dal resto di cantoni, secondo cui un quarto delle maggiori imposte da prelevare andrebbe riversato alla Confederazione, che potrebbe utilizzarlo a sua volta per interventi a favore dei cantoni. Comunque anche la compensazione finanziaria fra cantoni ne beneficerà, dato e non concesso che la crescita economica continui più o meno sui ritmi attuali. Annuncio gratuito SPINAS CIVIL VOICES

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ATTUALITÀ / RUBRICHE

Il Mercato e la Piazza

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di Angelo Rossi

E se Putin chiude il rubinetto del gas? ◆

È arrivata la stagione delle vacanze. Ma anche quest’anno chi andrà in ferie, al mare o in montagna, difficilmente troverà la distensione che è propria a questo periodo. Il prossimo futuro è infatti segnato da numerose incertezze. Se ne sono accorti anche i redattori della Segreteria di stato per l’economia (la SECO) che, preparando l’edizione di giugno del loro trimestrale rendiconto sull’andamento della nostra economia, hanno ritenuto opportuno aggiungere, al tradizionale capitolo sulle previsioni macroeonomiche, uno scenario per descrivere quello che potrebbe capitare quest’inverno e nel prossimo anno se tutto dovesse andar male. L’idea che sta dietro a questo esercizio è che, dopo tutto, dipingere il diavolo sulla parete può servire per prepararci al peggio. Può anche servire per quantificare, in modo affidabile, le conseguenze economiche di una crisi energetica come potrebbe essere quella

scatenata dal conflitto ucraino. L’ipotesi negativa sulla quale si basa lo scenario è che la Russia sopprima in maniera durevole le forniture di gas ai paesi europei e che questi non siano in grado di rimpiazzare queste forniture, almeno nell’immediato. Questa decisione avrà naturalmente una serie di ripercussioni negative sull’evoluzione congiunturale delle economie di questi paesi nel 2022 e nel 2023. La conseguenza diretta di questa decisione sarà, a detta dei redattori della SECO, un aumento «brutale» e prolungato nel tempo dei prezzi dell’energia. Siccome la domanda di energia è inelastica (ossia non cambia in modo significativo al variare dei prezzi), l’aumento dei prezzi dell’energia dovrebbe indurre una riduzione importante della domanda per altri beni di consumo. D’altra parte, per effetto delle incertezze che pesano sul futuro dell’economia e dell’aumentato costo del rischio, anche gli investimen-

ti diminuiranno. Il persistere di questa situazione farà infine aumentare la volatilità dei mercati finanziari. La recessione economica in Europa non è però imminente. Stando agli autori di questo scenario essa non si manifesterà che quando le riserve di gas naturale dei paesi europei non basteranno più per coprire il fabbisogno dell’industria. Sarà allora che la produzione industriale perderà buona parte del suo dinamismo, il che potrebbe indurre una recessione economica nei paesi della zona euro. D’altra parte, la diminuzione dell’offerta di beni manufatturati farà rincarare il prezzo di certi prodotti. Il tasso di inflazione, di conseguenza, potrebbe aumentare creando nuovi problemi di aggiustamento a livello di politiche monetarie. Anche l’economia svizzera potrebbe risentire di questa evoluzione negativa. Se lo scenario negativo, descritto sommariamente qui sopra, dovesse realizzarsi, il

tasso di crescita del prodotto interno lordo si ridurrebbe, per il 2022, dal 2,6 al 2,4% e, per il 2023, dal’1,9 allo 0%. Anche il tasso di inflazione dovrebbe salire rispetto alle previsioni fatte nel mese di giugno. Tuttavia, anche in questo scenario negativo l’aumento dei prezzi non supererebbe, né nel 2022, né nel 2023, il 3% il che garantisce all’economia svizzera una situazione eccezionalmente positiva rispetto al resto delle economie europee e di Oltre Atlantico, per le quali si prevedono, almeno per il 2022, tassi di inflazione superiori al 7%. Le ragioni di questa differenza sono due: da un parte la minore dipendenza del mercato energetico svizzero dal gas naturale e dall’altra la probabile rivalutazione del franco svizzero rispetto alla moneta europea. Come dobbiamo giudicare le valutazioni contenute in questo scenario? Il fatto che i redattori del rendiconto congiunturale trimestrale

della SECO abbiano ritenuto necessario formularlo, testimonia che anche i responsabili della nostra politica economica sono preoccupati dall’evoluzione in corso e da quello che la stessa potrebbe riservarci per i prossimi mesi. Tuttavia, quando confrontiamo i risultati delle previsioni contenute in questo scenario con quelli delle previsioni per il 2022 e il 2023 fatte, sempre dalla SECO, nel mese di giugno di quest’anno, non ci sembra che emergano motivi di particolare preoccupazione per l’economia svizzera almeno per quel che riguarda l’andamento di aggregati come il prodotto interno lordo o l’evoluzione dell’inflazione. Attenzione però, i redattori dello scenario avvertono, chiudendo il loro rapporto, che «la soppressione di fattori di produzione essenziali potrebbe avere conseguenze economiche individuali molto più importanti» di quanto non emerga dall’esame a livello aggregato.

In&Outlet

di Aldo Cazzullo

Quale Italia dopo Draghi? ◆

C’è qualcosa di irrazionale, in un Paese come l’Italia che veleggia verso i tremila miliardi di euro di debito pubblico e si priva di un uomo come Mario Draghi. Nello stesso tempo, quello che è accaduto mercoledì 20 luglio in Senato è perfettamente logico. Il populismo, di destra – Salvini – e di sinistra o presunta tale – i 5 Stelle –, poteva restare imbrigliato nella logica liberale ed europeista in tempo di crisi e in circostanze eccezionali. Ma già nel gennaio scorso, ignorando la disponibilità di Draghi a proseguire per sette anni al Quirinale il suo ruolo di garante dell’ancoraggio europeo e atlantico dell’Italia, i populisti avevano di fatto chiuso l’esperienza della solidarietà nazionale. Si è pensato che la guerra in Ucraina, con la crisi energetica e l’impennata dei prezzi, avrebbe prorogato l’emergenza, quindi il governo. Passati i primi mesi, è accaduto il contrario. È proprio la linea della fermezza ver-

so Putin ad aver mandato in frantumi la maggioranza; a meno che qualcuno non creda seriamente che il governo sia caduto su tassisti e bagnini. Ma ora si apre un’altra pagina. E sarà difficile fare come se la guerra non ci fosse, come se l’emergenza economica non esistesse, come se il governo Draghi non ci fosse mai stato. Anzi, prima di dimettersi Draghi ha posto alcuni punti con cui chiunque intenda governare il Paese dovrà confrontarsi. L’Italia è sempre più indebitata. Fronteggia una drammatica crisi energetica, priva com’è di fonti nucleari e naturali, in difficoltà financo a far funzionare i rigassificatori necessari a usare quelle che importa. Si è impegnata con l’Europa a una serie di riforme liberali, in cambio di decine di miliardi a fondo perduto. Ha un ruolo-chiave nella costruzione europea e nel confronto con la Russia di Putin. Cosa pensano di questi temi i lea-

Il presente come storia

der che si candidano alla successione di Draghi? Si preparano a promettere tutto a tutti, facendo esplodere il debito pubblico? Hanno un piano per evitare il razionamento energetico nel prossimo inverno, con il rischio di fermare la produzione industriale? Porteranno avanti l’agenda delle riforme, o si arrenderanno alle categorie che gridano di più? Soprattutto: sono per rafforzare l’Europa, d’intesa con Macron, Scholz, von der Leyen? O sono per indebolirla, d’intesa con Orban? Infine: sono contro Putin? O sono con Putin? Non sarebbe serio sottrarsi, in campagna elettorale, a queste risposte. I partiti che si presenteranno alle elezioni di inizio autunno non saranno gli stessi che si conoscono ora. Al centro nascerà una forza per federare coloro che sono usciti dai Cinque Stelle, da Forza Italia, dallo stesso Pd. A destra è probabile che Berlusconi e Sal-

vini tenteranno di unirsi, più dopo il voto che non prima, creando un gruppo parlamentare comune nella speranza di non consegnare a Giorgia Meloni le chiavi della coalizione favorita da tutti i sondaggi. Sarà interessante vedere se il Pd tenterà di far propria l’agenda Draghi senza Draghi, o cercherà di recuperare il rapporto con Conte. Sarà ancora più interessante capire quanto resterà nel centrodestra dei valori e delle scelte del governo di solidarietà nazionale, e quanto sarà concesso alle ragioni del populismo. Non perché il centrodestra debba snaturarsi, ma perché deve decidere non solo tra libertà e protezionismo, ma anche tra Bruxelles, Parigi, Berlino da una parte e Budapest e Mosca dall’altra. Gli italiani sono consapevoli di avere di fronte un periodo difficile: la pandemia che sembra non finire mai, il rialzo dei prezzi e dei tassi dei mutui, il

crollo del potere d’acquisto. Hanno diritto a essere presi sul serio, e più ancora a non essere presi in giro. Quanto a Draghi, da trent’anni in Italia si parla di Seconda Repubblica, ma la Costituzione non è cambiata: è sempre la stessa in cui il segretario della Dc contava molto più del presidente del Consiglio. L’Italia resta la Repubblica dei partiti. Prodi e Monti avranno commesso molti errori; ma se entrambi hanno sentito l’esigenza di farsi un partito, è perché si sono resi conto che – a prescindere dalle tue capacità e dai tuoi successi – senza un partito alle spalle alla lunga non puoi fare politica. Draghi non si impegnerà in campagna elettorale. Pensa semmai a un posto in Europa. Chiudo con una previsione, che non è ovviamente un auspicio. La destra vincerà le elezioni. Ma se governerà in chiave sovranista e nazionalista, contro l’Ue e magari contro l’America, faticherà a durare a lungo.

di Orazio Martinetti

Autolesionisti per dispetto

Non è facile misurare la temperatura della coscienza nazionale di un paese; non c’è un’ascella sotto la quale infilare il termometro e da qui stabilire il grado di patriottismo su una scala che inevitabilmente varia nel tempo. Di solito non si va oltre la cronaca, cercando di cogliere gli umori che gli esponenti politici trasmettono nelle varie regioni del paese nel giorno del Natale della Patria. Esistono però altri approcci, meno soggettivi e più legati al numero, ovvero alle indagini statistiche e ai sondaggi su temi specifici. Da segnalare, in proposito, un articolo uscito sul periodico «Dati» edito dall’Ufficio di statistica (Ustat), firmato da Mauro Stanga. Titolo: Il Cantone Ticino nel contesto svizzero. L’autore ha focalizzato la sua attenzione su alcuni snodi significativi delle relazioni interne, quali la mobilità, la presenza ticinese nel governo centrale, le difformità di voto del cantone rispetto all’esito globa-

le, la situazione del mercato del lavoro (la sfera senz’altro più «esplosiva»), la visione salutistica dei cittadini, con infine un accenno sulle incomprensioni sorte tra Bellinzona e Berna sul modo di affrontare l’emergenza pandemica. Sappiamo quanto sia delicata l’impalcatura federalistica elvetica. In genere appare solida e «resiliente», ovvero capace di assorbire le sconfessioni popolari senza mai sfasciarsi; è la sua forza, derivata dall’esperienza maturata nei secoli. A volte però s’incrina: succede quando affiorano fessurazioni interne che non sono estemporanee ma espressione di un’indole diversa, che non si piega all’omologazione. Si parla allora di «Röstigraben» tra cantoni alemanni e Romandia, e anche, ma meno frequentemente, di «Polentagraben», fra Svizzera tedesca e Ticino. In proposito Stanga osserva, percentuali alla mano, che il nostro cantone non è più quel figlio che fa tribolare

(«Schmerzenskind») tanto evocato in passato dalla pubblicistica d’oltralpe otto-novecentesca. Certo, alcuni casi destarono clamore, come quando il popolo fu chiamato alle urne per decidere l’obbligatorietà delle cinture di sicurezza (30 novembre 1980). In quell’occasione ben l’82% dei votanti ticinesi disse no all’obbligo (mentre a livello nazionale la misura fu approvata dal 51,6%). L’indignazione, a sud delle Alpi, fu quasi unanime. L’«Eco di Locarno» così commentò quell’infelice esito: «L’obbligo di allacciare le cinture di sicurezza per chi circola in automobile e anche l’obbligo di portare il casco per chi circola con veicoli a motore a due ruote è dunque stato imposto dagli svizzero-tedeschi ai romandi e ai ticinesi. Evviva la democrazia. Evviva anche lo Stato-balia, che si sente in dovere di proteggere il cittadino (evidentemente incapace di pensare a se stesso) a costo di limitare la

sua libertà personale». «Dittatura della maggioranza», avrebbe detto Tocqueville; ma più prosaicamente queste erano le regole del gioco di un sistema che non ammetteva eccezioni (di fatto la «disobbedienza civile» dei latini si protrasse per alcuni anni, in parte tollerata dalle autorità di polizia). Indirettamente la votazione riportava in superficie antichi e radicati pregiudizi, quali lo spirito anarchico degli ex-sudditi, la loro passione per i motori, la loro innata indisciplina. La ricerca di Stanga mostra che negli ultimi decenni questa «diversità» è venuta meno. Il Ticino si è ammansito, accodandosi viepiù alle frange più conservatrici della Svizzera tedesca controllate dall’Udc. Tale svolta è stata indotta, come noto, dall’instabilità del suo mercato del lavoro e da un’economia che non riesce ancora a rientrare negli standard nazionali in fatto di salari e produttività. Di qui il rifles-

so anti-europeo e in parte anti-italiano che soprattutto la Lega ha saputo coltivare, agganciandolo a una sempre efficace campagna contro l’élite cosmopolita e contro l’orso bernese. Questa indubbia integrazione nell’orbita politica, economica e anche formativa (università e ricerca) elvetica non ha tuttavia messo a tacere il regionalismo rivendicativo, che come sappiamo ha alle spalle una lunga storia. Sennonché non tutte le sollecitazioni si sono rivelate legittime e coerenti con lo status di minoranza italofona; anzi, l’ultima in ordine di tempo, incentrata sul taglio del canone radiotelevisivo a duecento franchi annui, non si può definire che autolesionistica, sostenuta dalla destra solo perché la Rsi è considerata «rossa». Bene, diranno a Berna, se voi stessi ritenete di ridurre le sovvenzioni, sarete serviti. E non sognatevi, in futuro, di chiederci altro per rivitalizzare il vostro tessuto economico.


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CULTURA ●

L’assistente Da tempo impegnata nella riedizione dell’opera dello scrittore svizzero, Adelphi pubblica una nuova versione del romanzo di Robert Walser

La Cappella dei Magi Per chi quest’estate fa tappa a Firenze la Cappella dei Magi di Benozzo Gozzoli a Palazzo Medici Riccardi vale una visita

Al via la 75esima edizione del Film Festival Dal 3 al 13 agosto si stende il tappeto rosso delle grandi occasioni, ma gettando uno sguardo sul programma mancano i grandi nomi

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Suite francese 2.0

Pubblicazione ◆ È uscita una nuova, sorprendente versione del capolavoro di Irène Némirovsky

Raccontare la guerra è da sempre una sfida per la lingua letteraria, costretta se non proprio a reinventarsi ogni volta da zero, quantomeno a tornare con un occhio nuovo a considerare i suoi strumenti espressivi. Nonostante questo, alcune metafore tutto sommato banali e ispirate al campo semantico della meteorologia («bufera», «tempesta», «ciclone») tornano con una certa frequenza nella letteratura del Novecento, nel tentativo di dare voce a eventi di enorme portata come le due guerre mondiali. Si pensi naturalmente alla Bufera di Eugenio Montale, dalla quale sarebbe facile risalire a un classico del jazz come Stormy Weather – da lui molto amato – e persino ripescare un dimenticato romanzo d’anteguerra, ma già intriso di lucide avvisaglie sul terrore nazista, come The Mortal Storm, pubblicato nel 1937 dalla scrittrice britannica Phyllis Bottome e poi divenuto un film hollywoodiano con James Stewart e Margaret Sullavan (1940). A legare tutti questi prodotti, di poesia, narrativa, musica e cinema, è il denominatore comune di uno sconvolgimento atmosferico capace di travolgere la vita dei protagonisti: non tanto quindi un confronto diretto con l’orizzonte bellico, quanto l’esplicitarsi di una condizione di crisi esistenziale.

Irène Némirovsky si era fatta notare sin da giovane per la sua scrittura spregiudicata e ironica, velata di autobiografismo, anche in chiave ebraica e altoborghese Frutto di quella stessa temperie culturale è anche la prima parte di Suite francese, il capolavoro della scrittrice franco-ucraina Irène Némirovsky (nella foto) che nella versione pubblicata nel 2014 offriva in italiano un più banale Temporale di giugno, oggi opportunamente ritoccato in Tempesta dalla traduttrice Teresa Lussone. Il nuovo termine rispecchia l’intensità della visione romanzesca offerta dall’autrice, simbolicamente molto al di sopra del semplice acquazzone estivo e prossima semmai al più complesso allegorismo montaliano – anche se escluderei qualsiasi contatto tra i due. Nata a Kiev nel 1903 e deportata ad Auschwitz nel 1942, da dove non avrebbe più fatto ritorno, Irène Némirovsky si era fatta notare sin da giovane per la sua scrittura spregiudicata e ironica, velata di autobiografismo,

anche in chiave ebraica e altoborghese. Sommersa dalla tragedia novecentesca, è potuta tornare in auge come scrittrice e come persona soltanto negli ultimi anni grazie al lavoro dei discendenti – soprattutto la figlia Denise Epstein – e di un piccolo gruppo di affezionati studiosi. La fortuna di Suite francese, bestseller internazionale sin dalla prima uscita, sembrava avere chiuso per sempre la vertenza: un piccolo classico della letteratura europea finalmente riscoperto e presentato alle nuove generazioni. Che in così poco tempo si sia potuto riaprire quel medesimo cantiere editoriale, fino al punto di giustificare una riedizione del libro, è cosa sorprendente per un’autrice che dovette interrompere il progetto – alla seconda di cinque parti – poco prima di salire su un treno per Auschwitz. Un aggiornamento del diario di Anna Frank, se è lecito osare un paragone, non sarebbe nemmeno concepibile. Dove sta, allora, la differenza? La spiegano molto bene i curatori del volume nel ricostruire le vicende che hanno permesso questa insperata scoperta. La valigia che conteneva il manoscritto con la prima versione di Suite francese, amorevolmente decifrato da Denise Epstein sul finire della propria vita, conservava anche una versione dattiloscritta (parziale) di un’ulteriore riscrittura. Eccoci allora con due suites: la versione apparsa nel 2014, comprensiva delle prime due parti dell’opera (le altre non furono mai completate), e quella del 2022, che ripropone soltanto la prima parte in una versione però radicalmente nuova. Rimane il dubbio che, con un più tempestivo accompagnamento filologico nei confronti dei

Keystone

Pietro Montorfani

discendenti, si sarebbero forse potute gestire diversamente le cose già in prima battuta, magari con un collage di più versioni in un unico volume onnicomprensivo con ampio apparato critico. Poco male, quel che più conta è essere riusciti a salvare, almeno per la prima parte dell’opera, l’ultima volontà dell’autrice. Le principali differenze tra i due testi sono riassunti da Teresa Lussone in un efficace decalogo che va da una maggiore dose di realismo a una diversa consapevolezza della struttura che sorregge il libro (con l’aggiunta di titoli ai capitoletti, a tutto beneficio dell’idea plurale di suite), senza dimenticare una più efficace gestione dell’intreccio che Irène Némirovsky

concepiva in termini quasi cinematografici: «Che si svolga come un film», auspicava in quella miniera preziosa che sono i suoi quaderni d’appunti, ripresi in parte nel volume Adelphi. Soprattutto però, e mi pare questa la conquista più importante, il nuovo testo spinge con decisione verso una scomparsa degli inserti moralizzanti («Un’idea può rovinare tutto»), nella convinzione che uno scrittore debba limitarsi a descrivere senza pensare. Si aggiungono infine quattro episodi costruiti ex novo, mentre di altri si cambia radicalmente il finale: sarà il lettore a scoprirli, se vorrà, nel confronto serrato tra le due versioni. Irène Némirovsky è oggi un’autrice molto più filologizzata, ma lungi

dall’essere uno sterile esercizio accademico, questa rinnovata attenzione alle sue carte è in realtà una forma di amore per il processo creativo cui aveva dedicato, sapendo di essere alla fine, le ultime energie di un’esistenza interrotta troppo presto dalla follia dell’uomo. Mentre nella sua Ucraina si ripropongono scene che mai avremmo pensato di dover vedere ancora, una lettura dei suoi libri, attenta e partecipe, è forse il miglior omaggio postumo che le si possa tributare. Bibliografia Irène Némirovsky, Tempesta in giugno, a cura di Teresa Lussone e Olivier Philipponnat, Adelphi, 2022.


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CULTURA

Il testimone senza sostanza Pubblicazione

Una nuova edizione adelphiana per L’assistente di Robert Walser

Daniele Bernardi

Nonostante Robert Walser (18781956) lo descrivesse semplicemente come «un estratto della vita quotidiana svizzera», L’assistente è un romanzo che, fin da subito, presenta qualcosa di ben più profondo di una pacificante cartolina. Pubblicato negli anni Sessanta da Einaudi nella versione di Ervino Pocar e con un saggio di Claudio Magris, grazie all’iniziativa di Adelphi – da tempo impegnata nell’edizione dell’opera del grande scrittore elvetico – il volume torna oggi nelle librerie nella traduzione di Cesare De Marchi. Al lettore attento l’attacco del libro evocherà immediatamente uno dei capolavori di chi, in vita, fu fra i più grandi estimatori di Walser: parliamo naturalmente di Kafka e, in particolare, de Il castello che, come è risaputo, fu direttamente ispirato dallo Jakob von Gunten (altra celebre opera walseriana) e il cui inizio sembra ricalcare perfettamente proprio le prime pagine de L’assistente. Come K. infatti Joseph Marti, protagonista della vicenda, giunge alle porte di un grande edificio per il suo nuovo impiego che lo vedrà avventurarsi in un labirinto solo apparentemente meno ossessionante di uno kafkiano. Qui capeggia l’ingegnere Tobler, bislacco inventore le cui manie di grandezza sono destinate all’inevitabile scacco nel contatto col mondo. Una volta assunto come segretario –

ma senza stipendio, poiché le condizioni economiche del cosiddetto «ufficio tecnico» versano in una situazione disastrosa – Marti diviene il testimone o, meglio ancora, colui che assiste al naufragio di quella piccola, inquietante isola che è casa Tobler. E se c’è una curiosa caratteristica che trova risonanza col nostro presente pandemico è proprio quella che qui vede la fusione fra luogo di lavoro – e quindi, conseguentemente, dinamiche di potere, alienazione, catena di montaggio o, come avrebbe detto Ezra Pound, «usura» – e abitazione: la vita della famiglia è pervasa dalla folle attività di Tobler, che insedia il suo quartier generale negli spazi domestici e i cui obiettivi sono di imporre sul mercato le proprie bizzarre invenzioni. E come si muove Joseph Marti in questo universo? Qual è il suo ruolo? Quale buco va a riempire nella cornice che contiene il ritratto di una famiglia stramba quanto sfuggente? Ebbene, Marti pare comportarsi come una sostanza amorfa, capace di aderire ai contorni senza far pesare le propria presenza. Egli è come «una giacca provvisoria» o uno di quegli strofinacci eternamente in circolo negli interni: la vita (lavorativa e non) lo sballotta di qua e di là mentre, quasi attraverso una danza o il divagare di una passeggiata (tema emblema dell’autore), il suo sguardo trasogna-

to si posa sulle cose interrogandole e cercandone subito il «rovescio», come farebbe un bambino di pochi anni. «Il mondo è meraviglioso (…), basta darsi la pena di percorrerlo a piedi», scrive puerilmente Walser in questo suo libro dove, come altri scrittori otto-novecenteschi di eguale importanza, opera «la fondamentale rivoluzione della letteratura moderna, ossia la disarticolazione della totalità» (Claudio Magris) e la creazione di uno di quei tipici, nuovi protagonisti dell’immaginario che sono stati (e sono) i Bartleby, gli Josef K., etc. Marti appartiene infatti a questa categoria di personaggi: col suo incedere divagante e senza sostanza, egli annuncia una radicale crisi dell’individuo, un punto di rottura che apre prospettive nuove, poco rassicuranti (in questo senso bisognerebbe davvero chiedersi cosa intendesse Walser per «compendio di vita svizzera») e delle quali ancora occorre tenere conto quando si mettono gli occhi sul mondo per cercare di coglierne qualcosa. Con questa nuova edizione – quindicesimo titolo walseriano in catalogo – oggi Adelphi si conferma quindi essere il principale punto di riferimento per il lettore italofono che volesse conoscere un autore fra i più decisivi della letteratura novecentesca, e L’assistente non è che una fra le tante prove dei vertici dell’arte di Walser.

Robert Walser visto da Ledwina Costantini.

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CULTURA

Jacky, il ragazzo di Schaerbeek Musica

Le due vite di Jacques Brel

Giovanni Gavazzeni

In pochi anni la fama di Brel oltrepassa i confini francofoni: Ne me quitte pas fa il giro del mondo in bocca ai crooner americani

La Cappella dei Magi a Palazzo Medici Riccardi. (Simone Lampredi)

Il bello del Rinascimento Musei

La Cappella dei Magi di Benozzo Gozzoli

Blanche Greco

In un famoso palazzo nel centro di Firenze, c’è un gioiello del Rinascimento che pochi conoscono: La Cappella dei Magi, affrescata più di cinquecento anni fa da Benozzo Gozzoli e ancora oggi di una sontuosa bellezza. Basta varcarne la soglia per avere l’impressione di essere in una rievocazione quasi cinematografica del Rinascimento Fiorentino tra decine di personaggi in movimento caratterizzati da un’accesa tavolozza di colori, immersi in una serie di minuziosi paesaggi naturali che si rincorrono e si susseguono da una parete all’altra della cappella. Invece gli affreschi del Viaggio dei Magi e del Giardino del Paradiso dipinti da Benozzo tra il 1459 e l’Epifania del 1463, nella cappella di Palazzo Medici Riccardi, sono soprattutto una preziosa fotografia della potente famiglia Medici e della società fiorentina dell’epoca. Non è un caso che il loro Palazzo, costruito dai migliori architetti alla giusta distanza dal Duomo, tra la Chiesa di San Lorenzo e il Monastero di San Marco dove si estendeva l’influenza della famiglia, fosse il primo ad avere l’autorizzazione per una cappella privata destinata a diventare per volere di Cosimo, uno scrigno di bellezza per celebrare la devozione, ma anche l’opulenza della propria dinastia di ricchi banchieri inseriti nella politica della città. E ancora oggi ci colpisce l’eleganza e l’armonia della cappella dove ogni elemento è stato studiato per ottenere un effetto d’insieme spettacolare: dal soffitto a cassettoni intagliato, dorato, dipinto nei colori rosso e blu dell’arme dei Medici all’abbagliante mosaico di marmi del pavimento dove, tra complicati intarsi di serpentino verde e di granito grigio, alternati al marmo bianco, domina il raro porfido rosso emblema del potere imperiale nell’antica Roma e qui ulte-

riore elemento di sfarzo voluto da Cosimo, la cui passione per l’Impero romano era ben nota. Ma è il talento di Benozzo Gozzoli, pittore stimato che aveva lavorato accanto al Beato Angelico, a rendere questa piccola cappella, nel cuore del Palazzo, un vero capolavoro. I Medici ogni anno per l’Epifania sfilavano da San Marco al Duomo rievocando in una folta e lussuosa processione il Viaggio dei Magi, ed ecco che Benozzo immagina quel lungo corteo che si dipana sulle pareti della cappella e converge, insieme alle visioni del Giardino del Paradiso con schiere di angeli, verso l’altare dove troneggia L’adorazione del Bambino Gesù di Filippo Lippi, dipinto di una tale dolcezza che anche i prati verdi dell’affresco intorno si riempiono di fiorellini colorati come toccati da un’improvvisa primavera. Ma il fulcro della narrazione per immagini è il viaggio dei Tre Re: Gaspare, Melchiorre, e Baldassarre e il lungo corteo che dal castello in alto tra boschi, campi, e giardini scende attraverso pascoli e colline sino ad arrivare all’altezza dei nostri occhi dove, nella piccola folla di uomini a cavallo riccamente vestiti si riconoscono i membri della famiglia Medici. C’è l’anziano Cosimo, i figli Piero e Giovanni, i bambini, Giuliano e Lorenzo, futuro Magnifico, ma vi sono anche personalità del tempo, e un folto gruppo di alleati, sodali e servitori. All’epoca era un’istantanea di volti noti, ma oggi noi riconosciamo solo quelli più citati nelle cronache del tempo e più effigiati dai pittori, tuttavia la cura con la quale Benozzo li rappresenta, sfarzosamente abbigliati con tessuti dai disegni raffinati a colori sgargianti, il corpetto adorno di perle, di piume e di gemme, montati su cavalcature dalle gualdrappe e dai finimenti

decorati d’oro e d’argento e accompagnati da valletti in eleganti livree con gli stessi colori, ci fa capire non solo il loro status sociale, ma anche i loro legami con i Medici. Il paesaggio, forse per la prima volta nella pittura occidentale, è lo scenario in cui tutto succede, punteggiato da alberi altissimi e stilizzati che siano cipressi, palme, agrumi, o conifere; popolato di uccelli e di animali, percorso da contadini, pastori, viandanti, mercanti, cavalieri e cacciatori accompagnati da ghepardi e falconieri. È un intero universo quello creato da Benozzo, pieno di storie, di particolari, di simboli, miniature e ritratti come quello di Carlo, immortalato accanto a Cosimo, figlio suo e di una schiava circassa; o come quello dello statuario arciere etiope, Bastiano, passato ai Medici dopo la morte del suo padrone, un cardinale portoghese nel 1459 in viaggio a Firenze. Oggi, la moderna illuminazione a LED permette al visitatore di abbracciare e apprezzare al primo sguardo i magnifici affreschi della Cappella dei Magi, ma non ne restituisce la maestria con cui Benozzo ne costruì le prospettive studiate, così come i colori, scelti per la loro brillantezza (dal lapislazzulo macinato al profluvio di lacche rosse, all’oro e all’argento), perché alla luce tremula delle candele i personaggi e i paesaggi si animassero e brillassero nel buio della Cappella, suscitando lo stupore e l’ammirazione degli ospiti dei Medici. Informazioni La Cappella dei Magi, Palazzo Medici Riccardi, via Cavour 3, Firenze. www.palazzomediciriccardi.it. La visita si effettua in gruppi di 5 persone per volta, su prenotazione (tel +39 055-2760 552)

Jaques Brel, il Belga come lo chiameranno nella Francia che lo consacrerà fra i suoi migliori poeti-cantanti-compositori di tutti i tempi dopo una dura gavetta nei cabaret parigini, fu studente mediocre, salvo, ovviamente, in francese. Jacky, il ragazzo di Schaerbeek, pubblica presto rime, non vuole troppo lavorare nella ditta di famiglia: da buon belga che ha come unico viaggio una fila di giorni preferisce le fughe in bici per le Ardenne e i voli con la fantasia sulla scorta dei romanzi di Jack London e Conrad. Tra i primi a notare «quel grande lupo magro dagli occhi brucianti», oltre all’impresario Jacques Canetti e al collega George Brassens, c’è Juliette Greco, alla quale si presenta di cattivo umore, «sguardo di carbone». La cant’attrice prende subito la canzone Le Diable (ça va), una ballata dove c’è già tutta la poetica satirica e scanzonata di Brel, nella quale il diavolo torna a casa sua compiaciuto che gli uomini si divertano come matti ai pericolosi giochi della guerra, riferendo di un mondo dove niente si vende e tutto si compra, perfino l’onore e la salute. In pochi anni la fama di Brel oltrepassa i confini francofoni: Ne me quitte pas fa il giro del mondo in bocca ai crooner americani. Non è solo il cantore degli amori infelici (Quand on n’a que l’amour), ma creatore di atmosfere che parlano di quelli che nel dopoguerra sono rimasti emarginati dal mondo borghese e bigotto: disperati, irregolari, perdenti mattinieri, ubriaconi, prostitute, marinai, vagabondi. Mentre Brel pattina sui suoi versi con una dizione immacolata, gli sono accanto collaboratori non meno straordinari per vitalizzare marce, valzer, tanghi, ballate: l’arrangiatore François Rauber, il pianista Gérard Jouannet, la fisarmonica di Jean Corti, come si può ascoltare nella recente pubblicazione di Universal ( Jaques Brel – L’album de sa vie), sintesi di una vita in 5 cd e 100 canzoni. In Italia i cantautori ne sono quasi tutti influenzati, non solo chi traduce le sue canzoni come Gino Paoli, Herbert Pagani, Bruno Lauzi, Patty Pravo, Ornella Vanoni. Senza

il suo modo di pensare alla canzone popolare come mezzo alto di comunicazione poetico-musicale non sarebbero immaginabili Tenco, Gaber, Endrigo, De André, Guccini, Vecchioni. Jacques Brel è capace di toccare argomenti impegnati (antimilitarismo, religione, superstizioni, morte) come sentimenti delicati (La tendresse, Isabelle, Le bonbons 67) e i suoi eterni amori perduti (Le prochain amour fa comunque sempre bene) con lo stesso tocco umano-poetico. Anche una delle più sensibili cantanti francesi del suo tempo, Barbara, lo adora. Finiranno uniti in uno spettacolo meraviglioso di un altro belga errante, il gran coreografo-filosofo Maurice Béjart che accosta all’Angelo Nero Barbara, il ballerino Gil Roman nel suo esemplare Brel et Barbara. Jacques Brel però non vuole finire come un cantante che ripete invecchiando i suoi successi per un pubblico senescente come accade ai big di Las Vegas: «non vuole finire la corsa / la notte dei cento anni / vecchio tonitruante / sollevato da qualche donna / sputando l’ultimo dente» (Mourir, 1977).

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Jaques Brel era nato nella Fiandre Occidentali, a Schaerbeek nel cuore della regione di Bruxelles capitale, in quel paese piatto cantato in agrodolce memoria: per confine il Mare del Nord, dune vaghe per fermare le onde, cattedrali per uniche montagne e un cielo così grigio che bisogna perdonarlo. Confesserà che la tenerezza fluviale del poeta-cantante-attore vodese Gilles, che preferiva i laghi e i fiumi al mare, lo aveva spinto a scrivere del suo amato-odiato Pays plat. Sentirà di essere belga, ma non avrà simpatia per i «fiamminganti», nazisti nelle guerre e cattolici negli intermezzi, oscillanti senza fine tra il fucile e il messale: i vostri sguardi sono lontani / il vostro humor è esangue (Le F., 1977).

Il richiamo del mare e del cielo blu diverranno prepotenti nella seconda vita che comincia a 42 anni, quando lascia di sasso i suoi ammiratori alla fine di un concerto all’Olympia: saluta la vita folle del cantante di successo con un semplice ringraziamento per quindici anni d’amore. Partirà con il suo veliero Askoy II verso quelle «isole Marchesi che parlano della morte / come tu parli d’un frutto, che guardano il mare / come tu guardi un pozzo, dove per mancanza di brezza / il tempo s’immobilizza» (Les Marquises). Là nessuno lo conosce: può perfino cantare a squarciagola fino a che le suorine del convento vicino cessano le loro giaculatorie. Morirà a soli 49 anni in quella Parigi di cui ha declinato tutti i nomi e le avventure (Les Prénomes de Paris). Le sue spoglie riposano sull’isola di Hiva Oa, vicino a quelle di Paul Gauguin, dove Brel aveva chiesto che la sua casa fosse cancellata per morire (avrebbe detto «prendere il treno per il buon dio») «sotto un mantello / così anonimo / così incognito da sembrare un sinonimo di sé stesso: il cuore è un viaggiatore, il futuro azzardo»…


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 2 agosto 2022

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CULTURA

Il 75esimo e il tappeto rosso che non c’è Cinema/1

Tra pochi giorni, dal 3 a l 13 agosto, a Locarno si riaccendono le luci del Film Festival

Nicola Mazzi

Hilary Swank. L’impressione di un’edizione normale è confermata anche dal nome della giuria principale e dal suo presidente: quel Michel Merkt (produttore), già premiato a Locarno nel 2017 e sicuramente tra i più bravi al mondo nel suo settore, ma poco conosciuto.

Anche nel luogo deputato ad accogliere le star, la Piazza con il tappeto rosso, sembra non esserci il glamour tipico da grande occasione E la Piazza Grande? Ci saranno tre produzioni americane (La ragazza della palude, Paradise Highway e Bullet Train), ma manca il filmone (tipo C’era una volta... a Hollywood di Tarantino) che ti fa stare anche in piedi pur di vederlo (oddio: ci fosse Brad Pitt a lanciare Bullet Train…). Dall’Italia (molti spettatori che non sono cinefili vanno al Festival se non devono sforzarsi di leggere i sottotitoli) arriveranno solo Delta con Lo Cascio e Borghi che può avere un certo appeal e Piano Piano di Nicola Prosatore. Anche nel luogo deputato ad accogliere le star, la Piazza con il tappeto rosso, sembra non esserci il glamour tipico da grande occasione. Glamour inteso non come una passerella fine a sé stessa, ma funzionale all’evento e per almeno due ragioni. Anzitutto perché è una calamita per pubblico, giornalisti

Keystone

75 anni sono una data importante, un traguardo da festeggiare. 75 sono anche le edizioni del Locarno Film Festival e infatti diverse novità insieme a una serie di eventi e iniziative sono stati annunciati e sono in corso. Penso all’apprezzata iniziativa del cinema itinerante nel locarnese durante i mesi di giugno e luglio ma anche alla pubblicazione dei due volumi Locarno on / Locarno off: storia e storie del Film Festival che attraverso lo sguardo di Lorenzo Buccella offre una retrospettiva sulla manifestazione e Sguardi oltre il cinema, una raccolta di 40 autori che si interrogano sul ruolo del Festival. Se però diamo uno sguardo al programma mancano i nomi delle grandi occasioni. Partiamo dalle star premiate: Kelly Reichardt, Laurie Anderson, Aaron Taylor-Johnson, Gitanjali Rao, Jeson Blum e Daisy Edgar-Jones non sono tra le personalità cinematografiche più note al grande pubblico. Fanno eccezione Costa-Gavras e Matt Dillon che però negli ultimi anni non si è fatto mancare un festival in tutta la Penisola italiana dove da tempo risiede. Ci saranno anche Sophie Marceau e Juliette Binoche, ma l’impressione generale è che questa sia un’edizione come le altre: molto tecnica, per addetti ai lavori e poco orientata al grande pubblico. A Locarno, anche nelle recenti edizioni e senza scomodare Marlene Dietrich o Pier Paolo Pasolini, abbiamo ammirato personaggi del calibro di Harrison Ford, Alejandro Jodorowsky e

e fotografi. Un aspetto che ha compreso molto bene il Festival di Zurigo che lo scorso anno ha invitato Sharon Stone, in passato Johnny Depp e Hugh Grant. In secondo luogo, perché è un elemento importante da mettere sul piatto quando si chiede il contributo statale (comunale, cantonale e federale) per il Festival. A proposito, il budget di Locarno quest’anno è di 17 milioni di franchi. Cannes nel 2019, l’anno precedente la

pandemia, era attorno ai 20 milioni e Berlino 25 milioni. Per dire che non siamo molto lontani da queste realtà, a livello finanziario, ma lo siamo sotto altri punti di vista (invitati, mercato, iniziative parallele). In aggiunta, 28 franchi per una proiezione in Piazza Grande o 37 per due film (sulle sedie che conosciamo bene) forse è troppo. Anche considerata l’esperienza unica e spettacolare che si vive insieme ad altre migliaia di persone.

C’è poi la questione delle prenotazioni online. La pandemia ha accelerato l’introduzione di sistemi digitali per prenotare i film. Piattaforme che sia a Locarno sia negli altri festival internazionali hanno avuto diversi problemi. Speriamo che dal 3 al 13 agosto, sul Verbano, tutto funzioni. Dove e quando Locarno Film Festival, dal 3 al 13 agosto. www.locarnofestival.ch

La pluralità del fantastico targata NIFFF Cinema/2

Un’edizione ricca di anteprime e novità come Scream Queer, sezione dedicata alla queerness sul grande schermo

Muriel Del Don

Come ogni anno a Neuchâtel l’inizio di luglio è segnato da un avvenimento al contempo esaltante e raccapricciante, festaiolo e deliziosamente oscuro. Parliamo del NIFFF, il Neuchâtel Fantastic Film Festival, arrivato quest’anno alla sua 21esima edizione (30 giugno-8 luglio). Una manifestazione che non smette di stuzzicare la fantasia degli amanti del cinema di genere (ma non solo, è bene ricordarlo) attraverso una programmazione eclettica e qualitativamente ineccepibile che dimostra quanto questa cinematografia sia innovativa e in costante mutazione. Il fantastico è affrontato a Neuchâtel in tutta la sua splendente diversità: dai thriller eleganti che giocano sottilmente con i nervi del pubblico agli splatter dove l’emoglobina domina sovrana passando per i film di fantascienza dai toni apocalittici a quelli che interpretano l’orrore come uno stato psicologico paralizzante. Che si tratti di fan scatenati come i fratelli gemelli Zoran e Ludovic Boukherma cresciuti con i romanzi di Stephen King, che proprio a Neuchâtel hanno presentato in prima mondiale il loro terzo lungometraggio L’année du requin, o semplici curiosi alla ricerca di emozioni forti, il NIFFF non lascia indifferenti. A questo proposito il suo (nuovo) carismatico direttore generale e artistico Pierre-Yves Walder afferma «al NIFFF si possono scoprire allo stesso tempo film d’azione, pellicole commerciali e film d’autore ed è quello che apprezzo in modo particolare. Se da un lato ci preoccupiamo di lanciare

le prime dei film, dall’altra ci teniamo a seguire da vicino la carriera di registi e registe in programma (e scoperti) al Festival». Anche quest’anno le pepite non sono mancate mostrando quanto il cinema di genere sia vettore di innovazione dal punto di vista tematico ma anche e soprattutto estetico. Uscito allo scoperto (un vero e proprio coming out cinematografico) e diventato fenomeno di culto, questo genere cinematografico si è imposto sulla scena internazionale attraverso festival deliziosamente sovversivi quali il SXSW di Austin, il Sitges – Festival internazionale del cinema fantastico della Catalogna o ancora il BIFFF di Bruxelles, senza dimenticare il mitico NIFFF. Non più relegato negli anfratti oscuri del cinema Z e underground, l’horror (nel senso lato del termine) si è imposto in quanto genere a tutto tondo, non solo guilty pleasure per amanti di sensazioni forti e spesso proibite (pensiamo ai controversi rape and revenge o agli agghiaccianti cannibal movies) ma vero e proprio contenitore di opere artistiche che brillano di luce propria. Malgrado un’ascesa per certi versi destabilizzante, il cinema di genere non ha però perso nulla della sua carica sovversiva e del suo potere catartico. A questo proposito interessantissima è la nuova sezione del NIFFF intitolata Scream Queer (un nome una garanzia), retrospettiva che riflette sull’evoluzione della rappresentazione della queerness nella storia del cinema. A questo proposito Pierre-Yves Walder spiega:

«volevo tematizzare degli elementi sociali presenti nel cinema fantastico perché penso che questo genere non sia solo un eccezionale laboratorio a livello formale e tecnologico ma anche tematico. Volevo capire come la rappresentazione della comunità LGBTIQ+ è evoluta negli anni». Tra le opere più brillanti dell’edizione 2022 possiamo citare Falcon Lake di Charlotte Le Bon, selezionato in avant première alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes 2022, un primo lungometraggio potente e misterioso che segue le peripezie di due adolescenti fuori dal comune alle prese con le esperienze dolci amare tipiche della loro età, il già citato L’année du requin dei fratelli Boukherma che mette in scena un’improbabile caccia

allo squalo (capitanata da un’incredibile Marina Foïs) nelle apparentemente tranquille acque del sud-est francese e il claustrofobico Family Dinner dell’austriaco Peter Hengl, un racconto raccapricciante nel quale una nutrizionista folle si abbandona a riti cannibali condivisi con gli (apparentemente) ignari membri della sua famiglia. Impossibile non citare anche il grande vincitore di quest’anno (Narciso d’oro nella Competizione internazionale), il francese Nos cérémonies del giovane regista Simon Rieth, presentato durante la Semaine de la Critique di Cannes 2022, un omaggio alla gioventù interpretato da due magnifici attori non professionisti (fratelli nel film e nella vita). Nos cérémonies è un viaggio cinematografico ai limiti del Un bella partecipazione del pubblico ha segnato la 21esima edizione dal 30 giugno all’8 luglio a Neuchâtel. (Claire Zombas)

mondo, tra realismo e fantasia, che mette in scena due fratelli alle prese con un segreto impossibile da svelare, una pepita luminosa che promette un brillante avvenire al suo giovane regista. Sorprendente e agghiacciante (nel senso positivo del termine) anche Blaze dell’artista australiana Del Kathryn Barton (vincitrice del prestigioso Archibald Prize) in cui la cui protagonista, una ragazzina, è testimone di un crimine abominevole. A causa del trauma subito la sua mente si rinchiude in un mondo immaginario capitanato da un dragone, al contempo nume tutelare e guerriero senza paura. Blaze è una favola sconvolgente che riflette sul concetto di trauma e rinascita. Nella stessa vena introspettiva e psicologica ritroviamo anche Hypochondriac, primo lungometraggio di Addison Heimann, un trip sconcertante nella mente di un personaggio che soffre di malattie mentali. Proiettato in prima mondiale all’ultimo Festival SXSW di Austin, Hypochondriac offre una riflessione sul concetto di follia, sull’ossessione nei confronti di una normalità assurda e impossibile da raggiungere che non libera ma imprigiona. Il NIFFF è riuscito anche quest’anno a tenere alto il nome del cinema fantastico regalando al suo pubblico di fedeli un momento catartico di comunione nel quale poter tremare di terrore, gridare il proprio sgomento o semplicemente lasciarsi cullare tra le braccia di opere cinematografiche ai limiti del reale. Ci voleva proprio!


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