I ragazzi che frequentano il Centro Giovani E20 di Cevio ci raccontano la loro estate
In assenza di nuovi eroi, ricordiamo Emil Zátopek, che ai Giochi di Helsinki del ’52, entrò nella storia
TEMPO LIBERO Pagina 13
In tutta la Svizzera ripartono le lezioni e la scuola si interroga sulle proprie lacune
ATTUALITÀ Pagina 19
Birmania, la guerra dimenticata
Lo Spazio Officina di Chiasso omaggia l’eccezionale tratto dell’artista Giuliano Vangi
CULTURA Pagina 31
We love you, Joe
«I love Joe ». Alla convention che ha consacrato Kamala Harris candidata ufficiale dei democratici per la corsa alla Casa Bianca (ne parla anche Paola Peduzzi a pag. 29), i cartelli più numerosi tra il pubblico recavano la scritta «Amo Joe». Adesso tutti l’applaudono commossi e lui parrebbe essersene fatta una ragione, ma nelle ultime settimane Joe Biden deve avere smantellato e ricostruito più volte, come un puzzle che non si risolve mai, la propria idea di sé stesso, prima di rassegnarsi al passaggio di testimone alla vice.
In quella stessa occasione ha dato prova di sincerità confessando di «venerare» (sic) la sua carica, «che è stato l’onore della mia vita», ma di amare di più il suo Paese. Deve averlo detto a denti stretti e non ha fatto nulla per nasconderlo: «Credo che il mio primato come presidente, la mia leadership nel mondo, la mia visione per il futuro dell’America – ha infatti aggiun-
to – meritassero tutti un secondo mandato. Ma niente può ostacolare il salvataggio della nostra democrazia, nemmeno l’ambizione personale». La standing ovation che gli è stata tributata per quelle parole non l’aveva ricevuta neppure nel 2020 al momento della nomina, avvenuta del resto in piena mestizia pandemica. L’iper celebrazione di un candidato divenuto scomodo e, per questo, invitato ad andarsene in mille modi e da mille colleghi di partito fino a pochi giorni prima, fa pensare a uno sfogo catartico dei democratici, terrorizzati dall’idea che il vecchio presidente, uscito malconcio dal duello in tv contro Trump, mentalmente un po’ confuso, e in generale malfermo sulle gambe da un pezzo, si intestardisse in una sfida che l’avrebbe visto con ogni probabilità soccombere sotto i colpi della sicumera sprezzante e – al suo confronto –«giovanile» dell’avversario repubblicano. Tutti si tolgono un peso dallo stomaco e l’anzia-
no guerriero torna a casa (a tempo debito, cioè a fine mandato) traballante ma ricoperto di allori, col dubbio di avere fatto la cosa sbagliata, ma comunque facendola. Perché è oggettivamente difficile, per una persona ambiziosa e capace, azzeccare la finestra spazio-temporale che gli permetta di dare il meglio di sé al momento giusto. «Quando avevo 30 anni – ha ricordato Biden – mi dicevano che ero troppo giovane per fare il senatore, adesso che sono troppo vecchio per fare il presidente». Si è spesso «fuori tempo» per il posto che si desidera. E, se ci si arriva, quando è il momento di andarsene per molti è una tragedia. Indipendentemente dalle idee politiche e dalla sfida contro Trump, su cui lasciamo volentieri che a decidere siano gli americani, we love you, Joe: ti amiamo Joe, perché rappresenti tutti quelli che sanno tirarsi indietro prima di diventare ridicoli. Ho visto direttori d’azienda,
CEO, capi uffici, ma anche vescovi, presidenti di comitati culturali o benefici (giganteschi o minuscoli), responsabili di gruppuscoli del tempo libero lasciare obtorto collo la funzione dopo anni e annorum di potere, depressi, o palesemente inviperiti per l’inconfessabile ragione che gli toccava rinunciare all’aura di privilegio legata al loro status di «superiori», foss’anche di piccolissimo rango.
Ci sono persone che entrano in osmosi con le proprie poltrone e si identificano col potere al punto che fuori dall’ufficio non si sentono nessuno. Figurarsi se l’Ufficio è quello Ovale di Washington. Ma, alla fine siamo tutti «padroni di un granello di polvere». Ogni posto importante, dal presidente degli Stati Uniti al responsabile dello sgabuzzino delle scope, è passeggero, e legare il cuore al nostro pezzetto di potere in terra è il modo migliore per ipotecare l’infelicità (non solo la propria).
Daniele Bellocchio e Carlo Cozzoli Pagine 20-21
Carlo Silini
Carlo Cozzoli
StraLugano, un mese alla XVIII edizione
Appuntamenti sportivi ◆ La manifestazione è pronta a dare il via il 28 e 29 settembre 2024 a una varietà di gare che offriranno un weekend di sport e divertimento per tutti
Manca un mese alla nuova edizione della gara podistica regina delle rive del lungolago di Lugano. Arrivata alla sua XVIII edizione, la StraLugano è pronta a inondare il finesettimana del 28 e 29 settembre con tantissimi podisti che si sfideranno nelle diverse gare che l’organizzazione ha messo a punto per soddisfare età, gusti e preparazione sportiva di tutti.
A dare il via alla manifestazione, sabato 28 settembre, ci sarà già una prima grande novità: la FAMIGROS RUN&WIN, una corsa non competitiva dedicata alle famiglie che permetterà di vincere magnifici premi. Sempre nel pomeriggio alle 16.45 ci sarà la 5km FunRun, la gara che si snoda per 5000 m lungo le rive del Ceresio e attraverso il Parco Ciani, dedicata a chi vuole cimentarsi in una gara su breve distanza adatta a tutti, anche ai meno allenati.
Sempre sabato, alle 18.15, si raddoppia la distanza e si parte con la 10Km CityRun, la corsa che si snoda lungo l’intero lungolago di Lugano, entrando anche in parte nella città.
Domenica 24 settembre, la prima partenza alle 9.30 è affidata alla Monte Brè Run: un tracciato di 9 Km tutto da scoprire, con un dislivello di circa 730 m che porterà sul «tetto» di Lugano.
Alle 10.00 è la gara regina a prendere il via, la 21km Half Marathon, una mezza maratona con vista mozzafiato che tocca i principali punti del lungo-
StraLugano, un’imperdibile occasione di convivialità sportiva.
Concorso
«Azione» mette in palio 20 iscrizioni per una gara a scelta all’interno della StraLugano tra le corse: 5 km, 10 km, 21 km e Monte Brè Run. Per partecipare all’estrazione inviare una e-mail a giochi@azione.ch (oggetto: «StraLugano2024») indicando i propri dati personali, la propria e-mail e la gara scelta entro domenica 1. settembre 2024. Buona fortuna!
lago da Paradiso al ponte del diavolo.
Si può scegliere se correre da soli i 21 km o suddividere la fatica con 3 amici nella versione a staffetta della 21Km HM RelayRun, ideale per rafforzare le sinergie e migliorare il gioco di squadra.
Per i più sportivi, c’è la possibilità di gareggiare per la StraCombinata, la gara che abbina la 10Km CityRun del sabato sera alla Monte Brè Run della domenica: una sfida per atleti completi e determinati che regala emozioni incredibili.
Alle 13.45 si svolgerà la popolare Run4Charity, 3 km alla portata di tutti, in un ambiente di totale solida-
rietà per sostenere le organizzazioni benefiche aderenti alla Run4Charity.
Saranno i bambini a chiudere la manifestazione dalle 15.00 nel pomeriggio di domenica 29 settembre con la KidsRun. Un breve percorso, diverso a seconda della fascia d’età per offrire a tutti i ragazzi la possibilità di mettersi alla prova.
Qualunque sia la gara scelta, per nessuno mancherà la medaglia commemorativa nel nuovo formato in legno riciclato ecosostenibile con un affascinante e colorato design e il ricco pacco gara, con cui viene omaggiato ogni partecipante con una magnifica T-shirt tecnica.
Infine ricordiamo che per raggiungere la StraLugano, come avviene da diversi anni, vale la pena utilizzare promozione del trasporto gratuito con Swiss Runners Ticket (bus di linea e treni) da qualsiasi regione della Svizzera e usufruibile anche dagli stranieri a partire dalla stazione di confine in entrata nel nostro Paese. Per tutti i partecipanti alle gare cronometrate sarà quindi possibile lasciare l’auto a casa e utilizzare i mezzi di trasporto pubblici da e per il proprio domicilio.
Info e iscrizioni www.stralugano.ch
Bellinzona Nord, primo bilancio positivo
Info Migros ◆ A due mesi dall’apertura, il supermercato comincia ad affermarsi sul territorio
Sono passati esattamente due mesi dall’apertura della nuova e innovativa filiale Migros Bellinzona Nord lo scorso 27 giugno. Per la realizzazione dell’edificio che ospita il punto vendita (oltre a spazi amministrativi), Migros Ticino ha fatto un investimento complessivo di 12 milioni di franchi – di cui il 90% delle commesse sono andati a ditte locali – oltre a prestare un occhio di riguardo al tema della sostenibilità. Bellinzona Nord, infatti, non dispone solamente di un moderno sistema capace di combinare il freddo commerciale a riscaldamento e climatizzazione (recuperando così calore dai moderni frigoriferi a gas naturale CO2) e di un impianto d’illuminazione LED a basso consumo, ma sul tetto dell’edificio e su una facciata può vantare complessivamente 1274 moduli fotovoltaici per una superficie di 2298 metri quadrati e una produzione annua di oltre 301mila kilowattora.
Abbiamo chiesto ad Alessandro Galizia, gerente di Bellinzona Nord, e alla sua vice, Dana Vidovic, di darci le loro impressioni al termine delle prime otto settimane di attività: la
soddisfazione è palese dal loro sorriso, ma ce la confermano anche a parole: «Il punto vendita è molto apprezzato durante l’intera settimana», racconta Galizia, «ma assistiamo a un picco soprattutto di domenica. Anche gli ospiti del Centro Tertianum, a pochi passi da qui, sono contenti di potere usufruire di un punto vendita tanto vicino alle loro abitazioni».
«Ai residenti del Tertianum piace fare la spesa qui, anche perché possono
scambiare qualche parola con le collaboratrici e i collaboratori del supermercato», completa Dana.
Il rapporto tra personale e clientela è stato coltivato sin dal primo giorno, e oggi se ne possono raccogliere i primi frutti: «Grazie a cortesia, supporto e gentilezza, le clienti e i clienti si sentono sempre più a casa, cominciano a riconoscerci, mentre noi riconosciamo loro», spiega Alessandro Galizia. «Inoltre, Bellinzona Nord
Una parte del team di Bellinzona Nord; in piedi, da sin. Valentino Moggio, Alessandro Galizia (gerente), Rocco Guerra, Rosario Caiazzo; in basso, da sin. Yasmine Tokmak, Blanka Rivolta, Dana Vidovic (vice gerente), Giulia Guerra.
Vedersi, conoscersi, capirsi
per la coesione
Secondo il rapporto annuale 2022 la Migros, che è il più grande datore di lavoro privato in Svizzera, impiega ca. 100’000 persone provenienti da 170 nazioni. Una ricchezza che rispecchia la diversità culturale del Paese e che il programma di promozione «ici. insieme qui.» di Impegno Migros intende sostenere ancora di più. Per vivere la diversità le persone devono avere la possibilità di incontrarsi, ad esempio alle feste di quartiere, facendo sport o al parco giochi. «ici. insieme qui.», attraverso i Mini-Grants, sostiene chi su base volontaria si adopera per una convivenza in Svizzera all’insegna delle pari opportunità.
Cosa sono i «Mini-Grants»?
Il Mini-Grant è un contributo di finanziamento pratico, semplice e veloce per piccole organizzazioni con grandi idee e pochi soldi. «ici.insieme qui.» sostiene progetti che promuovono la coesistenza di culture diverse in Svizzera, con importi tra 500 e 2500 CHF.
Quali progetti partecipano?
dispone di casse e carrelli per disabili e di ampie corsie. Posso contare su un team – siamo in quattordici – affiatato e coeso, che sicuramente è di grande supporto». Tra pochi giorni ricominceranno le scuole, e le Medie di Bellinzona si trovano a due passi dalla filiale Migros, un indubbio potenziale per il supermercato: «Sono certa che avremo modo di estendere la clientela grazie ai genitori che portano i figli a scuola e alle e ai docenti che ci lavorano», spiega Dana, «anche il piccolo bar accanto al supermercato ci porta dei nuovi clienti, così come noi li portiamo a loro».
Un aneddoto da ricordare di questi due primi mesi c’è? Dana e Alessandro non hanno dubbi e raccontano di un cliente che ha compiuto cento anni, la cui figlia ha chiesto di fargli gli auguri via microfono, accompagnati dalla musica: «Ovviamente abbiamo esaudito il desiderio molto volentieri: lui era felicissimo e, di riflesso, anche noi», concludono Dana e Alessandro, più che soddisfatti. Viste le ottime premesse, non resta dunque che aspettare il mese di settembre! /Si.Sa.
I progetti devono muoversi in una delle seguenti aree tematiche: 1) «Insieme qui nella vita quotidiana»: associazioni, incontri, gruppi, attività a due e reti di contatto che fanno incontrare persone di provenienza e culture diverse, rafforzando la coesione sociale. 2) «Insieme qui crescere in un ambiente multilingue»: offerte per aiutare i bambini fino ai 6 anni e i genitori a usare la loro lingua madre anche al di fuori delle mura domestiche, favorendo una società multiculturale.
Requisiti
Il progetto fa incontrare su un piano di parità persone di Paesi e culture diverse e si rivolge a chi ancora non ha a disposizione molte offerte; l’organizzazione non ha scopo di lucro (es. associazioni, cooperative); il progetto è regionale o locale; il team è eterogeneo; siete quasi tutte/i impegnate/i a titolo di volontariato. Il progetto va presentato almeno 3 mesi prima del suo inizio.
www.ici-insieme-qui.ch
SOCIETÀ
La Generazione Z e il sesso
L’attività sessuale è in costante diminuzione, qual è l’origine di questa rinuncia?
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«Vieni anche tu?»
La campagna della Lega contro il reumatismo invita al movimento, meglio se in compagnia
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Dalla teoria alla pratica
Teoria è un termine usato nelle scienze ma è nella quotidianità che rivela il suo ruolo strategico
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Gita alla collina di Maia
Un sentiero didattico ci porta alla scoperta della riserva forestale del Patriziato di Losone
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Un’estate da ricordare al Centro giovani di Cevio
Vallemaggia ◆ Dopo l’alluvione l’E20 è ora più che mai un punto di riferimento per i ragazzi della valle: li abbiamo incontrati
Tanta distruzione, ma pure alcuni punti fermi importanti per chi nel pieno della crescita dopo l’alluvione continua a vivere la quotidianità nella Vallemaggia. Punti fermi come il Centro Giovani E20 di Cevio, gestito dall’Ufficio regionale Ticino di Pro Juventute. La sede non è stata danneggiata e l’attività sta riprendendo con l’intento di garantire momenti ricreativi agli adolescenti, impegnati anche a fornire il proprio contributo nella ricostruzione di quanto è andato distrutto. Si stanno infatti organizzando per raccogliere fondi da destinare ad esempio alla ricostruzione della pista di ghiaccio di Prato Sornico. Toccanti e nel contempo determinate le testimonianze di due di loro, che hanno vissuto il dramma di fine giugno a distanza, essendo appena partiti per la colonia estiva organizzata da E20 in valle di Blenio. Li abbiamo incontrati assieme al responsabile del Centro giovanile Joshi Pina. È quindi iniziata nel modo più brusco e inatteso quella che in genere per gli adolescenti è un’esperienza di vita comune spensierata. Ad Aquila il gruppo di dodici ragazze e ragazzi (provenienti non solo dalla Vallemaggia) si è visto confrontato con notizie che all’inizio non permettevano nemmeno di capire la portata del disastro naturale. L’équipe, composta da una decina di monitori volontari formati CEMEA (Centri d’esercitazione ai metodi dell’educazione attiva) e guidati da Joshi Pina, ha però permesso loro da un lato di confrontarsi regolarmente con le rispettive famiglie e dall’altro di beneficiare di una situazione privilegiata, quella di una comunità che affronta insieme la delicata situazione. «Grazie alle famiglie abbiamo ricevuto notizie più precise sulle reali conseguenze del nubifragio nelle diverse località – spiega Joshi Pina aggiungendo che “ci hanno contattato anche i frequentatori del Centro E20 rimasti in valle per assicurarci che lo stesso era intatto, a dimostrazione del loro attaccamento alla struttura”».
L’attività 2024, così come la colonia, ha avuto quale filo conduttore il circo, tema che sarà ripreso nella parte di campo estivo in programma negli ultimi tre giorni di questa settimana. In particolare ci si soffermerà sui sogni dei ragazzi (della valle e non) e sulle loro capacità di immaginarsi nel futuro. Precisa al riguardo il responsabile: «Queste giornate sono state organizzate in seguito all’alluvione e concepite per riunire i giovani – una ventina fra habitué e partecipanti saltuari – instaurando un contatto con la popolazione. Le due fiere circensi organizzate durante le colonia hanno riscontrato un buon successo, per cui contiamo di offrire allo stesso modo
un nostro contributo diretto alla comunità per ritrovarsi e ricostruire insieme». L’Ufficio regionale Ticino di Pro Juventute, di cui è responsabile Ilario Lodi, dopo il nubifragio ha contattato tutti i Municipi della valle per manifestare la disponibilità del Centro E20 ad aiutare in forme diverse nelle attività di ripristino. Per i giovani la distruzione della pista di ghiaccio e della passerella Pontina sono un brutto colpo. Lo confermano Liza e Manuel, rispettivamente di 13 e 14 anni, che si sono definiti prima di tutto «scossi» per quanto accaduto. Un turbamento seguito dalla consapevolezza delle conseguenze a lungo termine sulle loro abitudini nel tempo libero. Manuel, che vive a Maggia, così definisce la situazione attuale: «A noi ragazzi mancano le zone per fare il bagno nel fiume, la Pontina (passerella) e soprattutto la pista di ghiaccio dove giocavo a hockey da sei anni». Una pista frequentata, così come il Centro E20, anche da Liza, che abita a Locarno e pratica il pattinaggio con il club di Ascona. Di origine ucraina, la ragazza rappresenta un bell’esempio di integrazione nella vita della valle. Sul Centro giovanile il commento di entrambi è significativo: «Resta solo quello». Liza si sofferma sulle attività
che vi si svolgono: «Canti, balli, passeggiate e giochi sono esempi di ciò che facciamo al Centro e nei dintorni. Ci permettono di divertirci, ma anche di conoscere meglio noi stessi. Per esempio ho capito di saper cucire bene». All’attitudine creativa di Liza si affianca la destrezza di Manuel: «Sono abile nel jonglage che ho scoperto grazie al tema del circo». Liza prosegue nel racconto, spiegando che le proposte (definite e create con i ragazzi) «sono di tipo creativo, organizzativo e riflessivo. Provando sulla nostra pelle diverse attività, capiamo cosa ci piace e ci riesce meglio».
Liza e Manuel ricordano inoltre «i momenti dedicati alle discussioni nei quali ognuno parla liberamente senza la paura di essere giudicato, come abbiamo fatto sulle “etichette” che ci vengono attribuite. Alla fine, quale gesto liberatorio, abbiamo buttato nel fuoco i foglietti sui quali le avevamo scritte». Riflettono quindi su ciò che sono in quanto individui e in quanto parte della società. L’importanza delle diverse tipologie di esperienze per un sano sviluppo dell’adolescente è dimostrato dall’intervista stessa ai due giovani, preparati, attenti, con il desiderio di partecipare e non da ultimo con chiare idee da esporre anche a nome dei loro compagni.
Sono sempre loro a voler menzionare i Royal. Chi sono? «È così che chiamiamo i monitori», rispondono i due ragazzi. «Sono gentili, emotivi, ci aiutano quando c’è bisogno, ci ascoltano e sanno unire le persone». Joshi Pina inquadra quanto raccontato dai due giovani nel ruolo dell’educazione attiva promossa da Pro Juventute, i cui metodi valorizzano, appunto, l’educazione attiva. Il Centro E20 – con sede in un edificio della Parrocchia e riattivato da Joshi Pina nel 2019 – è concepito come luogo d’incontro per favorire la socializzazione. Il responsabile assicura contatti regolari con le autorità comunali e la locale Scuola Media. Il Centro E20 si rivolge infatti ai ragazzi fra gli 11 e i 17 anni. L’alluvione di fine giugno ha dimostrato quanto la comunità allargata del Centro sia solidale, grazie anche a una chat su WhatsApp. I giovani che hanno superato il limite di età superiore restano sempre in contatto e alcuni di loro sono interessati a seguire la formazione per diventare monitori. Anche la tredicenne Liza già ambisce a questo ruolo. Per il momento tutti si concentrano però sull’evento di fine mese. Sul ruolo attuale e futuro del Centro Giovani E20 il responsabile conclude: «Non bisogna dimenticare che gli
adolescenti residenti in una valle beneficiano di opportunità di svago in numero minore rispetto ai loro coetanei che vivono in un contesto urbano. La catastrofe di quest’estate purtroppo ha spazzato via anche la maggior parte di queste opportunità. Rientrando dalla colonia i ragazzi hanno trovato una valle profondamente cambiata dal punto di vista del territorio come pure di quanto offriva loro». Come confermano gli intervistati, è stato un bene per i giovani essere in colonia al momento del disastro. Con le attività previste da giovedì a sabato prossimi il Centro Giovani E20 di Cevio chiuderà un’esperienza estiva straordinaria come lo è stata la forza della natura abbattutasi sulla Vallemaggia. Sfrutterà l’occasione per accendere lo spirito collettivo dei giovani dell’intera valle, portando la magia della colonia anche a coloro che non l’hanno vissuta e rilanciando nel contempo l’attività annuale. Quest’ultima garantisce sul lungo periodo i momenti di condivisione di cui hanno bisogno gli adolescenti per potersi sviluppare quali individui e membri di una comunità.
Informazioni www.projuventute.ch; pagina Instagram: @centrogiovanie20
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L’attività 2024 del Centro ha avuto quale filo conduttore il circo e si concluderà nei prossimi giorni con un campo estivo organizzato in seguito all’alluvione per riunire i giovani.
Stefania Hubmann
Un grande classico
Attualità ◆ Il roast beef è un piatto intramontabile che fa sempre bella figura sulla tavola in ogni stagione. Alcuni consigli per ottenere un buon risultato senza troppe complicazioni
Il roast beef è un tipico piatto della cucina anglosassone, diventato un grande classico anche alle nostre latitudini, ormai non più apprezzato solamente in occasione delle festività più importanti dell’anno. Per ottenere un buon roast beef, tenero e saporito al punto giusto, è però importante scegliere il taglio bovino ideale e seguire alcuni accorgimenti relativi alla cottura. Tra i pezzi di carne interi più adatti troviamo per esempio lo scamone, particolarmente magro e tenero, ottenuto dalla parte posteriore dell’animale; il pregiato e saporito filetto, proveniente dalla parte superiore del manzo oppure l’entrecôte che, grazie alla marezzatura ben distribuita, permette di ottenere un roast beef molto succoso e aromatico. L’entrecôte è ricavata dalla lombata, situata tra la punta dell’anca e le prime costole.
Come ottenere un ottimo roast beef
Una vera leccornia per tutti i palati, il roast beef si serve idealmente con un grado di cottura al sangue, che corrisponde a massino 55 gradi di temperatura al cuore. Se preparato alla griglia, una volta condito, il pezzo intero di carne va grigliato a fuoco medio per una decina di minuti, girandolo di tanto in tanto per evitare che si bruci in superficie. Se cucinata al forno, rosolare prima la carne brevemente in padella e proseguire la cottura nel forno a bassa temperatura fino al raggiungimento della temperatura interna desiderata. Infine, in quanto a condimenti, dovrebbe vigere la regola del meno possibile è meglio, per preservare nel migliore dei modi il sapore autentico della carne. Anche solo un po’ di olio, sale, pepe e rosmarino a piacere sono più che sufficienti.
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Entrecôte di manzo Black Angus M-Classic al pezzo, Uruguay, in conf. speciale, per 100 g Fr. 3.50 invece di 5.90 dal 29.8 al 1.9.2024
Freschezza tutta da gustare
Roast beef classico
Ingredienti per 4 persone
• 800 g d’entrecôte in un pezzo • 1 cucchiaino di fleur de sel • ½ cucchiaino di pepe macinato grosso • olio per rosolare
Preparazione
Scaldate il forno statico e un tegame a 80°C. Mescolate il fleur de sel e il pepe e usateli per condire la carne. In una padella, rosolate bene nell’olio la carne tutt’intorno a fuoco forte per ca. 7 minuti. Trasferitela nel tegame scaldato in precedenza. Cuocete in forno per ca.
120 minuti. Controllate il grado di cottura con un termometro per carne. Quando la temperatura interna è di 53°C, la carne ha raggiunto il grado di cottura rosa. Avvolgete la carne nella carta alu e fatela riposare nel forno spento per 10 minuti. Affettate la carne.
Attualità ◆ I Büscion di capra sono una prelibatezza ricavata al 100% da latte caprino ticinese. Sono prodotti a Sonvico in un’azienda a conduzione familiare fondata nel 1994
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Büscion di capra 200 g Fr. 7.20 invece di 8.50
I Büscion di capra vantano un sapore distino, pronunciato e leggermente acidulo, diverso dai prodotti a base di latte vaccino. Inoltre risultano più facilmente digeribili e meno grassi. Particolarmente apprezzati durante la stagione estiva, si gustano soprattutto al naturale, per apprezzare appieno il loro caratteristico sapore unico, ma si abbinano molto bene anche a pane croccante, altri tipi di formaggio, salumi, fresche insalate e, perché no, possono essere utilizzati anche in piatti caldi per arricchire per esempio pizze, paste, frittate, verdure e per mantecare i risotti.
I Büscion di capra dei Nostrani del
Ticino sono prodotti artigianalmente dall’azienda Fattoria del Faggio di Sonvico con latte di propria produzione. Immersa nella natura, l’azienda alleva oltre 130 capre il cui latte viene utilizzato per realizzare diverse altre specialità casearie caprine. La maggior parte degli animali appartiene alla razza Saanen, specie di origini svizzere dal caratteristico manto bianco riconosciuta per l’ottima produzione di latte di alta qualità. Il latte appena munto viene immediatamente trasformato nel caseificio aziendale adiacente alla stalla, in modo da garantire il massimo in fatto di freschezza, qualità nutrizionali e sapidità.
dal 27.8 al 2.9.2024
Ecco chi ha vinto a Migros Grancia
Attualità ◆ Negli scorsi giorni sono stati premiati i vincitori del concorso organizzato in occasione della riapertura della filiale luganese rinnovata
Lo scorso 25 luglio, dopo oltre sei settimane di intensi lavori, è stata riaperta la filiale Migros di Grancia completamente rinnovata e ammodernata secondo i più attuali criteri di efficienza, estetica e sostenibilità. Per sottolineare degnamente questa importante inaugurazione, sono state organizzate quattro settimane di promozioni e attività rivolte a grandi e piccoli avventori, tra cui la presenza dello storico camion vendita Migros, il truccabimbi, una grigliata mista, omaggi e degustazioni di vari prodotti dei Nostrani del Ticino. Oltre a ciò, non poteva certamente mancare un grande concorso, che si è svolto tra il 5 e 7 agosto, e che metteva in palio tre ambitissimi premi. L’estrazione, avvenuta lo scorso 14 agosto, ha sorriso ai seguenti fortunati vincitori:
1° PREMIO
Bicicletta elettrica Diamant Beryll Esprit del valore di CHF 3700.–Antonio Minoia di Montagnola
2° PREMIO
Carta regalo Migros del valore di CHF 500.–
Elga Guerini di Roveredo
3° PREMIO
Carta regalo Migros del valore di CHF 200.–
Otmar Katzensteiner di Montagnola
30% sull’abbigliamento outdoor e sugli zaini*
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Il gerente di Migros Grancia, Stefano Aili, consegna la bici elettrica ad Antonio Minoia. (Oleg Magni)
Niente sesso, siamo giovani
Il caffè delle mamme ◆ L’attività sessuale è in costante diminuzione, specialmente tra i più giovani, mentre è aumentata l’età
del primo rapporto: in una società che si è liberata di molti tabù sembra una contraddizione
Simona Ravizza
«I papà negano, le figlie fanno l’amore. E se è vero quello che dicono i sondaggi non aspettano neppure di iscriversi alle superiori». Così iniziavo un articolo sul «Corriere della Sera» il 21 gennaio 2011. Che ansia! Tredici anni dopo, in quest’agosto scandito da letture sui temi dell’adolescenza, il sospetto a Il caffè delle mamme è che i giovani non siano più così attratti dal sesso come lo erano una volta. A chi sta per tirare un sospiro di sollievo perché, meglio ammetterlo subito, nessuno di noi è entusiasta all’idea che i propri figli abbiano rapporti sessuali in giovane età, sottoponiamo subito le parole di un padre che è anche un esperto conosciuto a chi legge la nostra rubrica, lo psicoterapeuta Alberto Pellai: «La funzione più evidente e tangibile della sessualità – la più straordinaria e potente – è di farci provare piacere. Un piacere intensissimo e inedito – scrive in Ragazzo mio. Lettera agli uomini veri di domani (ed. DeAgostini, 2023) –. Un piacere che compare ed esplode all’ingresso in pubertà e sarà disponibile ogni volta che decideremo di coinvolgerci in attività sessuali, da soli o con un’altra persona. Questo è il primo dato di cui tenere conto: la sessualità suscita sensazioni di cui non vorremmo mai fare a meno. Perché provare piacere è bello. E tutto ciò che ce lo procura automaticamente ci attrae, al pari di una calamita con il ferro». Ora, se di fronte al subbuglio ormonale dell’adolescenza i giovani sono in fuga dal sesso, vuol dire che qualcosa non va. L’obiettivo è dunque cercare di capire che cosa e soprattutto perché. Lo facciamo mettendo in fila un po’ di letture che abbiamo trovato straordinariamente interessanti e che ci fanno vedere da nuove angolature anche argomenti già trattati che ci stanno a cuore.
A convincerci innanzitutto che sia necessario affrontare la questione è Luigi Zoja, diplomato nel 1974 allo C.G. Jung Institut di Zurigo, una carriera come psicoanalista in clinica a Zurigo, poi a Milano, a New York e ora nuovamente a Milano. «L’attività sessuale è in costante diminuzione, specialmente tra i più giovani, mentre è aumentata l’età media del primo rapporto (oggi in Svizzera intorno ai 17 anni, ndr). Eppure, intorno a una questione tanto cruciale, inedita e ricca di implicazioni, non si è ancora costruito un vero dibattito – scrive ne Il declino del desiderio. Perché il mondo sta rinunciando al sesso (ed. Einaudi, Stile Libero Extra, 2022) –. Qual è l’origine di questa rinuncia? E com’è possibile che un fenomeno di tale portata avvenga in una società che, grazie alla rivoluzione sessuale, pareva essersi liberata da tabù e costrizioni?».
Adolescenti più liberi, eppure battono in ritirata! Per Zoja è un po’ co-
me se fossero degli animali lasciati liberi, ma che non escono dalla gabbia. Vi ricordate quando abbiamo parlato ne Le parole dei figli dell’amore fluido al motto «Noi non ci innamoriamo di un maschio o di una femmina, ma della persona!»? Zoja riflette: «Nei binari precostituiti che hanno retto quasi fino a ieri, la identità di genere era, come ricordavamo, piuttosto scontata. Oggi, una libertà nominale sbandierata rende contemporaneamente accettabili l’eterosessualità, l’omosessualità, la bisessualità, la transessualità, l’asessualità e altre opzioni ancora, il cui elenco è in costante aggiornamento. Se l’asino di Buridano moriva di fame perché non riusciva a decidersi tra due mucchi di fieno ugualmente appetitosi, il liceale di oggi soffre di “iper-Buridano”. Così, rinvia all’infinito il confronto con la vita erotica: non del tutto infondatamente, visto che per i giovani come lui la sessualità è un incontro non con un corpo che lo attrae, ma con astratte categorie di distinzione mentale».
Badate bene, mamme e papà: qui non c’è nessun giudizio, mai. Il pun-
to è che qualsiasi decisione è legittima purché frutto di una scelta. L’impressione, invece, è che oggi troppo spesso prevalga semplicemente la confusione.
Rinunciare ai filtri
Adolescenti più liberi, e che battono in ritirata non solo perché è più complicato sapere cosa desiderano, ma anche probabilmente per paura di presentarsi senza filtri. Di certo non contribuiscono a una sana vita sessuale dei nostri figli, al momento opportuno ovviamente, i modelli a cui si ispirano. «Prototipo possono in parte essere i coetanei. Questo in sé non sarebbe così nuovo – spiega Zoja –. La novità sta nel fatto che questi modelli influenzano l’adolescente non attraverso incontri reali, ma soprattutto telematicamente: gli appaiono sul computer e sullo smartphone. In particolare, è ovvio, lo influenzano gli “influencer”, che si atteggiano a persone accessibili, ma che il giovane sa benissimo essere ricchi, famosi, irraggiungibili: la “li-
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bertà positiva” di puntare a ogni meta si fa beffe di lui». Oggi, ce lo siamo detti più volte, il primo contatto tra due adolescenti avviene di frequente su Instagram o su TikTok, lì dove l’immagine deve essere acchiappa-like e quindi va per la maggiore l’uso di filtri per eliminare le occhiaie, rendere la pelle senza un brufolo, gli zigomi rialzati e la bocca che neanche Jessica Rabbit, e poi al ritorno nella realtà può esserci lo sberleffo finale: «È uno/a che fa catfishing!», che nel gergo dei ragazzi della Gen Z vuol dire che dal vivo uno è diverso da come appare sui social. Riflette la psicoterapeuta Stefania Andreoli nel saggio Io, te, l’amore (ed. Bur, Rizzoli, aprile 2024): «Le vetrine social diventano un buen retiro dove sentirci maggiormente a nostro agio, porre una distanza di sicurezza tra noi e gli altri, e preferiamo fare piuttosto del sexting, che è più chic (il corpo con tutti i suoi umori, difetti e flatulenze resta nel privato del nostro letto vuoto) e certamente non impegna. Non impegna la mente nell’incontro reale, quello che ci compromette agli occhi nostri e dell’altro, quello che impone
un discorso reciproco sulla profilassi, quello che non può simulare il risultato, quello nel quale devi stare lì. Devi esserci. Partecipare. Portare il tuo corpo, dentro al quale ci sei proprio tu. Da spogliati ci si vede».
Il ruolo del porno
E ancora: adolescenti più liberi, che battono in ritirata perché è più complicato sapere cosa desiderano, per paura di presentarsi senza filtri, e che hanno purtroppo come primo approccio alla sessualità i video porno. Elena Martellozzo, criminologa e ricercatrice presso la Middlesex University di Londra, una delle massime esperte del fenomeno a livello internazionale, ci aveva messo in guardia in un Caffè dell’agosto 2021: «La maggior parte dei giovani scopre il porno molto prima di incontrare il sesso, forse anche prima di aver baciato o abbracciato un partner. Così la pornografia sembra essere per molti adolescenti la porta d’entrata alla sessualità». La giornalista Lilli Gruber in Non farti fottere (ed. Rizzoli, aprile 2024) va dritta al punto: «Legioni di ragazzi e ragazze, armati di smartphone, cercano qui le risposte alle domande che tutti gli adolescenti si pongono. In una sola clip di dieci minuti, possono passare in rassegna un campionario di ginnastica sessuale che le generazioni precedenti impiegavano molto più tempo a scoprire. Uno degli studi più recenti, condotto negli Stati Uniti nel 2022, rivela che più di tre quarti dei minorenni intervistati (maschi e femmine) sono consumatori di pornografia online, e che l’età media di accesso a questo mondo è di 12 anni. Ancora più recente e vicino a noi è Lo stato dell’adolescenza 2023, condotto da tre ricercatori del Cnr. Il campione preso in esame conta più di quattromila liceali italiani, tra i quattordici e i diciassette anni. Quasi il 90 per cento dei maschi e il 40 per cento delle ragazze hanno frequentato più o meno assiduamente siti hard. Troppo porno, e troppo presto».
Ecco allora che davanti a tutto ciò e alla richiesta continua di essere performanti è difficile stupirsi se – come sottolinea ancora Andreoli in un’intervista di Roberta Scorranese sul «Corriere» in occasione della presentazione del suo saggio – «la normale reazione di un ragazzo o di una ragazza sia quella di lasciar perdere. Non possono rischiare una condanna all’inadeguatezza». E Andreoli ci consegna un pensiero su cui vale la pena riflettere: «Questa cosa che i ragazzi non fanno sesso, secondo me, è preoccupante. Perché l’esperienza erotica è formativa, importante quanto il dolore. E se loro evitano sia il sesso che il dolore, qualche domanda dovremmo farcela».
alleAccanto terme Leukerbaddi
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Andiamo insieme a fare una passeggiata?
Ogni movimento conta ◆ L’attività fisica nella vita quotidiana contribuisce a ridurre diversi rischi per la salute La Lega contro il reumatismo lancia la campagna: «Vieni anche tu?»
Maria Grazia Buletti
«Vieni con me a bere un caffè, al giardino botanico o al mercato?» Con la nuova campagna sul movimento «Vieni anche tu?», la Lega svizzera contro il reumatismo sprona le persone a non essere sedentarie: «Perché fare qualcosa insieme fa bene non solo alla mente, ma anche al corpo». D’altronde, a tutti noi è noto il motto del I secolo d.C. giunto immutato ai giorni nostri: «Orandum est ut sit mens sana in corpore sano» («Bisogna chiedere agli dèi che la mente sia sana nel corpo sano»). Una frase che affonda le sue radici nel passato, nelle Satire del poeta romano Decimo Giunio Giovenale, e che racchiude una verità assoluta: per avere una mente sana è necessario che il corpo sia sano. Oggi abbiamo ben compreso che pure il contrario ha la sua grande valenza: un corpo sano influisce positivamente anche sullo spirito e sulla mente. Ora c’è da chiedersi se ai giorni nostri sia davvero possibile mantenere tale equilibrio, dato che siamo così carichi di stress, ansie e preoccupazioni. Secondo la Lega svizzera contro il reumatismo la risposta è sì perché, per quanto sia difficile, dobbiamo capire che siamo noi i primi responsabili del nostro benessere, a prescindere da tutto quanto succede attorno a noi. E allora, ecco una campagna di sensibilizzazione che vuole sottolineare che non solo il movimento è essenziale per qualsiasi forma di reumatismo, ma come afferma la co-responsabile servizi del sodalizio Stefanie Wipf, «ogni passo ha effetti sulla salute di ciascuno ed è fondamentale per stare bene; gironzolare per un’ora al mercato settimanale, ad esempio, favorisce la mobilità. Senza dimenticare che il movimento può rallentare la progressione di malattie articolari e ridurre il dolore».
In linea pure l’Ufficio federale dello sport che raccomanda di praticare 150 minuti (due ore e mezzo) di attività fisica moderata alla settimana, distribuendola in piccole sessioni
quotidiane. «Per farlo basta semplicemente integrare il movimento nella routine quotidiana, senza bisogno di attrezzatura o abbigliamento specifici». A questo concetto fa eco dal canto suo la Lega svizzera contro il reumatismo che a sua volta ricorda che «con una passeggiata di mezz’ora, ad esempio, si ossigenano muscoli e tendini, fondamentali per proteggere le articolazioni dall’usura. In questo modo si resta agili e si conserva la propria mobilità».
Parlare di movimento, d’altra parte, può sembrare vago, e perciò la campagna «Vieni anche tu?» è d’aiuto con idee e soggetti diversi: «Di fatto, l’attività fisica nel quotidiano può assumere varie forme ed essere integrata nelle attività di tutti i giorni, sia in campagna che in città». Per questo, la Lega svizzera contro il reumatismo presenta alcuni diversi soggetti con altrettante diverse idee di mo-
vimento: «Al mercato, nel bosco, al giardino botanico, durante una passeggiata per andare a bere un caffè o alle terme». Basta inviare una cartolina a una persona amica, a una vicina o a un vicino, oppure a qualcuno dei nostri famigliari per proporre di fare insieme una delle attività.
Naturalmente, nulla vieta di proporre qualsiasi altra cosa, senza porre limiti alla fantasia. Inoltre, le cartoline della campagna non offrono solo idee sulle attività da condividere, ma spiegano pure perché è fondamentale muoversi ogni giorno e quali benefici ne può trarre il nostro corpo: «Il movimento nella vita quotidiana è importante. Può avere effetti positivi su dolori e infiammazioni e, rafforzando la muscolatura, contribuisce anche a stabilizzare le articolazioni. Rafforzando anche i tendini, il movimento protegge meglio le articolazioni e, infine, il liquido sinoviale può svolgere
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la sua azione lubrificante all’interno delle articolazioni solo grazie all’attività fisica».
Questo ribadisce il sodalizio, il quale, sempre per voce di Stefanie Wipf, sottolinea che «quando si hanno dolori si pensa che sia meglio stare a riposo. Ma questa non è la strategia migliore. Oggi sappiamo che l’immobilità alla lunga peggiora i dolori perché la massa muscolare si riduce sempre di più, le articolazioni si irrigidiscono e i tendini si accorciano. Inoltre, il movimento migliora l’irrorazione sanguigna dei muscoli e apporta loro le sostanze nutritive; ciò avviene pure per gli altri tessuti come cartilagine, ossa, legamenti, tendini e via dicendo».
Ecco svelato cosa accade precisamente nel corpo se ci manteniamo attivi durante la giornata. Dunque, nell’ambito dell’attuale tema prioritario biennale «movimento consapevo-
le», si forniscono consigli pratici per inserire con maggiore facilità il movimento tra i vari impegni della giornata: «A casa, sul lavoro, fuori casa e nel tempo libero», e si cerca di motivare le persone a condurre una vita più attiva.
Per la precisione, quattro sono i consigli della Lega svizzera contro il reumatismo: «A casa, stendere i panni, pulire le finestre, passare l’aspirapolvere o lavare il pavimento della cucina cercando di svolgere tutti i giorni piccole faccende domestiche, magari mettendo una musica che dia il giusto slancio». Lasciare in soggiorno un tappetino da yoga può essere utile per averlo a portata di mano e fare qualche esercizio, ad esempio, mentre si guarda la televisione. La suggestione di quanto si può mettere in atto sul lavoro implica l’invito ad alzarsi dalla sedia ogni ora per fare un po’ di moto, e lavorare a una scrivania con altezza regolabile, alternando la posizione seduta a quella in piedi: «Anche le riunioni si possono svolgere talvolta in piedi o, meglio, facendo una passeggiata tutti insieme».
Nel tempo libero è utile incontrarsi regolarmente in gruppo per passeggiare perché: «La pressione esercitata dal gruppo può fare miracoli per superare le proprie resistenze interne». Inoltre, si possono rastrellare foglie, tagliare l’erba, lavorare in giardino: «È un movimento quotidiano prezioso se distribuito durante la settimana e non concentrato tutto di sabato». Per promuovere «Vieni anche tu?», la Lega svizzera contro il reumatismo proporrà la settimana d’azione nazionale dal 9 al 16 settembre 2024 in parecchie città della Svizzera. Lugano ospiterà l’evento al Palazzo dei Congressi lunedì 23 settembre, dalle 14.30 alle 17.30. Sotto l’egida di «Ogni movimento conta», la giornata proporrà diversi interventi di professionisti (reumatologi, fisioterapisti e medici internisti) ai quali si potranno porre pure le domande del caso.
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Già, in teoria. Ma in pratica?
La scienza quotidiana ◆ Comunemente ciò che è teorico viene percepito come qualcosa distante dai fatti e dalla realtà, eppure la nostra esperienza pratica di ogni giorno ha spesso riferimenti teorici
Massimo Negrotti
Laura dice a Mario: «Giovanni ha detto che arriverà alle dieci, dunque dovrebbe arrivare fra un quarto d’ora». Mario risponde «Già, in teoria, ma sai come va, col traffico non si può mai sapere…». Il termine «teoria» è di uso piuttosto comune, ma se lo si mette a confronto col suo significato originario, sul piano scientifico in particolare, si constata come esso, per il senso comune, assuma connotati quasi sempre diminutivi quando non addirittura ironici. Ciò che è teorico viene assunto come un’affermazione che, non essendo provata dai fatti, rappresenta qualcosa di rischiosamente distante dalla realtà e da quella che viene definita l’esperienza pratica. In definitiva, il buon senso sembrerebbe raccomandare di stare lontani il più possibile da ciò che è solo teorico e procedere stando saggiamente con «i piedi per terra».
Ma siamo proprio sicuri che la nostra esperienza pratica quotidiana eviti accuratamente di adottare riferimenti teorici? A cosa si riferisce Mario quando dice «Già, in teoria» se non ad una congettura, una visione – «teoria» deriva dal greco «vedere» – che, sulla base di supposizioni e conoscenze pregresse, suggerisce una previsione circa l’andamento dei fatti? In fondo, tutti noi siamo teorici almeno tanto quanto siamo pratici. Lo è il venditore che, di
fronte ad un possibile cliente, ha una sua teoria per interagire con quel tipo di persona; lo è chi, volendo andare in vacanza, sceglie una località nuova ma che presenta caratteristiche che è convinto di conoscere e che apprezza; lo è, inutile dirlo, il medico che, di fronte a dati clinici oggettivi, identifica nel paziente una certa patologia in base a teorie consolidate o anche di recente introduzione, inducendolo a richiedere nuove analisi.
Teoria è un termine usato soprattutto nel mondo scientifico ma è nella vita quotidiana che rivela il suo ruolo strategico
Dopo secoli di trasformazioni, il termine attuale «teoria» ha raggiunto una notevole stabilità soprattutto nel mondo scientifico. Una teoria scientifica è un insieme coordinato e non contraddittorio di enunciati che possono consistere, nel caso migliore, in regolarità già accertate ma poste in relazione in termini nuovi e, nel caso di teorie di frontiera, in ipotesi tutte ancora da verificare. In ogni caso, ogni teoria ha il ruolo di guidare la ricerca. Infatti, se una teoria promette di risolvere un problema importante, allora, se essa non contiene contrad-
dizioni e non collide con conoscenze acquisite sperimentalmente «al di là di ogni ragionevole dubbio», è interesse della scienza, e dell’umanità, sottoporla a severi collaudi per stabilirne l’affidabilità. La celebre sentenza di Isaac Newton – hypotheses non fingo – secondo cui la descrizione dei fatti è la sola cosa che possiamo permetterci, è stata spesso abusata poi-
Le teorie scientifiche possono aspettare molto tempo per venir confermate, come quella della relatività di Albert Einstein del 1915 (pxhere.com)
ché, in realtà, nessuno scienziato rinuncerebbe alla ricerca delle cause di un fenomeno e, per trovarle, costruisce appunto ipotesi e teorie che, poi, possono dover aspettare molto tempo per venire confermate. Un aspetto centrale della teoria della relatività generale di Albert Einstein del 1915, per esempio, ottenne conferma sperimentale da Arthur Eddington so-
lo nel 1919. Nelle scienze umane, è istruttiva la teoria del suicidio di Émile Durkheim, confermata successivamente da vari studi, secondo la quale le crisi individuali portano al suicidio prevalentemente in società poco coese nelle quali il sostegno psicologico viene meno proprio per la carenza di coesione mentre laddove questa è più elevata, il sostegno è più alto e, di conseguenza, il tasso di suicidi più basso.
È comunque nella vita quotidiana che si rivela il ruolo strategico della teoria anche se non vi pensiamo mai poiché, una volta corroborata dalla prova dei fatti, ogni teoria entra tacitamente nelle nostre abitudini pratiche. In fondo, ogni volta che accendiamo la luce in casa non facciamo altro che convalidare una volta in più la legge di Ohm, nata come ipotesi e dunque teorica, e poi verificata sperimentalmente. Altrettanto, quando dobbiamo affrontare un’infezione, quando saliamo su un aereo o dobbiamo ristrutturare una casa siamo protagonisti inconsapevoli dell’ennesima verifica sperimentale di teorie immunologiche, fluidodinamiche o di scienza delle costruzioni. Ce n’è abbastanza per capire che ogni teoria, fino a che non venga smentita dai fatti, merita rispetto e attenzione perché, ogni tanto, succede che sia vera.
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La collina di Maia e le sue bolle
Territorio ◆ Lungo un sentiero didattico scopriamo il Bosco di Maia, cento ettari di riserva forestale a ridosso di Locarno
Elia Stampanoni
Cento ettari di bosco, anzi di riserva forestale, a due passi dalla città. Sembra improbabile ma è possibile, come nel caso della collina di Maia, un territorio ricco di interessanti spunti naturalistici tra Losone e Arcegno.
Già nel 1998 il Consiglio di Stato approvò l’inserimento a Piano regolatore comunale di una zona protetta, quando ancora non era in vigore l’attuale procedimento d’istituzione delle Riserve forestali. La collina di Maia, interamente di proprietà del Patriziato di Losone, è quindi tutelata da oltre 25 anni e si presenta con un bosco misto di latifoglie dominato da castagni e querce, sviluppatosi in modo naturale con l’abbandono progressivo delle attività agricole e forestali: «Fino agli anni 60 del Novecento l’utilizzo del bosco era intenso, la pressione antropica era importante e di conseguenza i boschi erano generalmente giovani, con un tasso di boscosità limitato», si legge nella descrizione.
In seguito all’abbandono dell’attività agricola negli anni 60 e alla rinuncia dell’utilizzo forestale dopo la creazione del parco, l’area boschiva s’è evoluta in modo «selvaggio» e incondizionato, riconquistando il territorio. In questo contesto la vegetazione s’è avvicinata alle caratteristiche riscontrabili in un bosco «naturale», senza interventi antropici, se non per azioni a scopo naturalistico o di tagli per la sicurezza, per esempio lungo gli alvei dei corsi d’acqua o i sentieri. Ed è proprio lungo uno di questi percorsi pedestri che nel 2022 è stato inaugurato un sentiero didattico, il quale permette ai visitatori d’immergersi nella riserva del bosco di Maia per scoprirlo e apprezzarlo in tutta la sua naturalezza.
Proprietà del Patriziato di Losone, già nel 1998 il Consiglio di Stato ne approvò l’inserimento a Piano regolatore comunale come zona protetta
L’accesso è possibile a Losone, da dove si deve salire, oppure a Arcegno, da dove in pochi passi si entra più dolcemente nella riserva. Seguendo i cartelli indicatori verdi, ci si può incamminare lungo il tragitto ad anello che si sviluppa in senso orario per circa sei chilometri, con possibilità per allungarlo o accorciarlo. Non mancano tratti di ripida salita e discese impervie, scalini, radici, sassi o piode che rendono la gita abbastanza impegnativa, comunque alleggerita da una serie di punti d’interesse. A dominare c’è il silenzio della natura, accompagnato dai rumori dei suoi animali, come il gracidare che si può udire in determinati periodi dell’anno nei pressi delle numerose zone umide. Le bolle, che assieme a pozze, stagni, paludi e torbiere formano il vasto complesso delle zone umide, sono in effetti degli spazi ricorrenti, dove si riscontra un’importante ricchezza di specie. La «Bolezzina longa» (al punto 3 del sentiero) è per esempio una zona umida, a volte asciutta, che si estende su una lunghezza di circa 200 metri ed è situata in un luogo completamente isolato (a vista) dagli abitati e dalle strade carrozzabili, come riportato nell’opuscolo informativo, un’utile guida per svolgere la gita e dove ritroviamo le indicazioni sui sette punti d’interesse, così come informazioni generali e una cartina del sentiero.
La «Bolla dl’Orói» è un altro ambiente pregiato situato in un affascinante avvallamento, non distante dalla «Bolla d’la Crosa», a sua volta delimitata da due dossi e caratterizzato da una torbiera, un piccolo corso d’acqua e da numerosi ontani neri e frassini. Ed è proprio in queste zone che, in determinati periodi, è molto probabile udire o anche osservare delle specie animali che qui hanno individuato un ecosistema per loro ideale. È il caso per esempio degli anfibi, tra cui anche due rare specie di tritoni, che sono stati notati nelle zone umide del Bosco di Maia.
La riserva forestale, promossa dal Patriziato di Losone, è anche ricca di altre specie, come uccelli, mammiferi e ulteriori animali, ma pure svariate specie vegetali o funghi. La gita transita pure sulla collina di Barbescio, a 461 metri di altitudine, dove si apre una bella vista sul Locarnese, con il lago, il fiume e il suo delta, la città e le montagne. In vetta le ampie rocce tondeggianti rendono il luogo particolarmente affascinante, totalmente differente a quanto incontrato in precedenza. Anche la vegetazione, che ricopre solo in parte la collina, è singolare, con alberi che possono ricordare il clima mediterraneo. Arrampicarsi fin lassù è pertanto una fatica ampiamente ricompensata, da cui ripartire con rinnovata energia per l’ultimo tratto del tragitto.
Un altro punto del percorso è sulla collina di Maia, che ha dato il nome alla riserva ed è anche la più alta. Ed è proprio questo il motivo da cui potrebbe derivare il nome Maia, riconducibile al latino major, comparativo di magnus, quindi cima maggiore, più grande, come riportato sul sito dell’associazione Amici della Scuola nel bosco di Arcegno. Un’altra ipotesi citata è che Maia derivi invece da maiale, animale che in passato veniva portato al pascolo nella zona, particolarmente ricca di querce (e quindi di ghiande).
Tra querce e castagni, un’ulteriore sosta è dedicata al rapporto tra l’essere umano e il bosco, che anche qui è stato profondo e intenso, come riportato sul pieghevole (disponibile nei punti di accesso e in diverse strutture ricettive della regione, tra cui Ufficio tecnico comunale, Azienda forestale
Losone o Organizzazione turistica
Lago Maggiore e Valli): «le tecniche di gestione e sfruttamento sono evo-
lute, ma le tracce dell’influenza antropica rimangono un segno evidente del nostro passato rurale». Analogamente al resto del Ticino, anche qui il castagno ha giocato un ruolo fondamentale per la sussistenza e l’economia. La postazione numero 1 si trova proprio in un luogo dove era gestito a ceduo, ossia coltivato per ottenere palerie e
legna da ardere, effettuando dei tagli e sfruttando la caratteristica dei ceppi di castagno d’emettere i polloni. Presso la zona umida «Pozz d’a Butt» è segnalato un masso erratico, lì abbandonato dal ghiacciaio durante la sua ritirata. Non è invece stato dimenticato il sentiero didattico, che ha bensì ripreso e rinnovato quello esi-
stente, modificandolo e inserendo diverse novità, come i codici QR (che troviamo nelle sette postazioni) che rimandano a una serie di argomenti didattici, di carattere storico, culturale o scientifico. Gli approfondimenti si trovano anche sul sito e oltre alle informazioni riportate sull’opuscolo, integrano le testimonianze di persone professionalmente legate alla tematica, come l’ingegnere forestale, il biologo, lo storico, il geologo o il geografo. I testi, come indicato sul portale curato dal Patriziato di Losone, verranno aggiornati nel corso del tempo, favorendo così l’educazione ambientale, la sensibilizzazione sui valori della natura e la comprensione dell’evoluzione naturale degli ambienti boschivi.
Oltre agli obiettivi didattici e ricreativi, il sentiero e la riserva forestale si prefiggono di salvaguardare le tipologie forestali e tutelarne la dinamica evolutiva, ma anche la funzione di collegamento ecologico, conservando il patrimonio genetico e favorendo la diversità ambientale. Non da ultimo, anche l’aspetto scientifico gioca un suo ruolo, grazie al monitoraggio dell’evoluzione naturale dell’ecosistema forestale per meglio comprendere le dinamiche di sviluppo spontaneo del bosco.
Informazioni www.boscodimaia.ch
La riserva presenta un vasto complesso
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La cavalcata dei francescani eremiti
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Alle Olimpiadi di una volta ◆ Correre per il cecoslovacco Emil Zátopek, denominato «Locomotiva umana», divenne prima una ragione di vita, poi una ragione di Stato
Manuela Mazzi
Ai Giochi Olimpici di Helsinki del 1952, Emil Zátopek entrò definitivamente nella storia vincendo ben tre ori in una sola settimana – nei 5mila metri, nei 10mila metri e nella maratona – assicurandosi così un record mai battuto. E trasformando il suo cognome, per oltre un decennio (dal 1948 al 1954), in un aggettivo sinonimo di «velocissimo». Stiamo parlando di uno dei più grandi corridori di tutti i luoghi e di tutti i tempi.
Nato in Cecoslovacchia, nella regione della Moravia, poco più di cento anni or sono (il 19 settembre 1922 a Kopřivnice), fu battezzato «La locomotiva umana».
Ancora oggi emoziona leggere la biografia romanzata che gli ha dedicato lo scrittore francese Jean Echenoz (Correre, Adelphi, 2009). L’abbiamo ripresa in mano a seguito delle ultime Olimpiadi, molto chiacchierate e sportivamente poco magiche: sarà mai più possibile rimanere incantati se non addirittura folgorati da una performance sportiva? Assisteremo più a prodezze tali da lasciarci tutti sbacaliti, come direbbe il buon Ceroni di casa? …e come riuscì nell’impresa, l’atleta Emil Zátopek, che inizialmente detestava tutto lo sport?
«In corsa dà l’idea di un pugile che combatte contro la sua ombra, sicché tutto il suo corpo sembra un meccanismo scassato, sfasciato, sofferente...»
È così: al pluricampione olimpico, nei suoi primi anni, non piaceva per niente scendere in pista. La biografia lo racconta bene.
Ad avviarlo alla corsa è prima il suo datore di lavoro e poi il nazionalsocialismo: operaio in una fabbrica di scarpe, come rifilatore di suole (conta portare a casa i soldi per la numerosa famiglia; ha sei fratelli), è costretto a correre nella gara annuale chiamata «Percorso di Zlín» in quanto studente della scuola professionale, e deve farlo bardato di maglia con la sigla della ditta. Ma lui preferisce studiare. E lo fa fin quando gli stendardi nazisti dei tedeschi occupano la città (1939), con propagande che invadono anche le scuole: «Fra le prime iniziative dell’occupante c’è quella di organizzare manifestazioni sportive» …obbligatorie. Arriva secondo alla prima vera corsa a cui è costretto a partecipare. E a quel punto, correre per Emil diventa prima una ragione di vita, poi una ragione di Stato.
«Mentre i tedeschi (ndr: siamo attorno al 1942) impongono adesso il terrore nel protettorato, deportano
e massacrano, bruciano e devastano a tutto spiano, continuare a correre permette forse di pensare ad altro». Il resto è storia: Emil diventa sempre più bravo, inventa lo sprint finale, si esercita in modo aerobico ma anche anaerobico, punta a essere sempre più veloce, in barba allo stile che tutti gli rimproverano, arrivando ad affermare che il giorno in cui per vincere una corsa si dovranno accumulare punti «estetici», allora penserà allo stile, ma fin quando vince il più veloce, a lui, il resto non interessa: «In corsa dà l’idea di un pugile che combatte contro la sua ombra, sicché tutto il suo corpo sembra un meccanismo scassato, sfasciato, sofferente, a parte l’armonia delle gambe che mordono e divorano la pista voracemente».
Arruolato, Emil Zátopek sarà usato sempre più quale gonfalone del partito comunista cecoslovacco, un’icona contro il fascismo, ma continuerà a sorridere anche quando quel guinzaglio inizierà a stringersi sempre di più. Piegato dal volere politico, calano anche le sue prestazioni. Si sposa. Torna di tanto in tanto a dar lezioni di velocità, però senza più esagerare. Non smette di sorridere, anche se da sorridere c’è ben poco, soprattutto a Praga «dove, in quegli anni, tutti hanno paura di tutti e di tutto, sempre e dappertutto. Nel superiore interesse del partito, la cosa più importante è adesso epurare, smantellare, annientare, liquidare gli elementi ostili. La stampa e la radio non parlano d’altro, la polizia e i servizi di sicurezza provvedono. Ognuno può in ogni momento finire sul banco degli imputati come traditore, spia, cospiratore, sabotatore, terrorista o provocatore, in quanto fautore, a scelta, di un’ideologia trotskista, titoista, sionista o socialdemocratica, essere considerato Kulak o nazionalista borghese. Chiunque, in qualunque momento, può ritrovarsi in prigione o in un campo, per motivi che in genere ignora». Passano gli anni e il clima non aiuta a superare gli acciacchi dell’età che iniziano a farsi sentire: «Lui che dicevano immune da ogni défaillance è tradito da un corpo che si sottrae agli sforzi, nonostante il potere dell’orgoglio e della volontà».
Orgoglio e volontà che però ogni tanto tornano a manifestarsi, ma solo in pista: «La cosa si fa del resto evidente quando va a correre in Svizzera. Aveva puntato molto su questa gara, si era preparato come non mai. […] sembra inquieto, nervoso, quasi abbattuto mentre aspetta che la battaglia abbia inizio. Cammina un po’ curvo la testa incassata fra le spalle, il berretto calcato fin sulle orecchie alla faccia dell’eleganza. A Berna, allorché la squadra cecoslovacca viene in-
vitata come d’uso a visitare la fabbrica di cioccolato, Emil si unisce educatamente agli altri (…) Sotto la pioggia, con quell’impermeabile, sembra un modesto impiegato che va al lavoro». Alcuni parlano di lui già al passato, eppure: «A Berna – pista lucida e selva di ombrelli – la sua prestazione viene giudicata stupefacente, corsa scintillante, carosello fantastico, canottiera rossa punta di lancia nella lotta contro avversari che dicevano temibili e si sono rivelati inesistenti». In Cecoslovacchia arriverà poi un momento di grazia, un assaggio di democrazia che durerà però pochissimo, fino alla fine degli anni Sessanta quando la Russia decide di invaderla per ripristinare il regime. Emil parteciperà alla Primavera di Praga, è il 1968, e gli costerà molto caro. Buttato fuori dall’esercito – dove a seguito dei risultati sportivi aveva fatto carriera – si ritrova prima operaio in un giacimento a cielo aperto di uranio, tra gas altamente radioattivi e polveri
contaminate, poi a raccogliere sacchi di spazzatura, infine a scavare buche nella terra per infilarci pali del telegrafo. Eppure, lui continua a correre, per conto suo, come un Forrest Gump cui pare di poter sentirsi vivo solo facendo quello che sa fare meglio. Non smette mai di sorridere.
Lo scrittore Jean Echenoz lo definisce «il mite», ma lo fa con durezza. L’intera biografia è asciutta, scarna di fronzoli, severa: non giudica il corridore, non lo fa direttamente, ma sottotraccia scorre lungo tutte le pagine un sottile filo di rabbia trattenuta che grida all’ingiustizia, che sembrerebbe quasi chiamare a gran voce una qualsiasi forma di ribellione, come a dire che un gigante, un eroe, un «titano della corsa», com’è lui, non può, non deve piegarsi a tanti soprusi, quasi a voler spazzar via disciplina e umiltà inneggiando alla rivoluzione. È così forte tale irritazione, che a tratti ci è sembrato che Echenoz lo volesse prendere per le spalle e scuo-
terlo, come se avesse potuto risvegliare una reazione violenta in uno mite come Emil. Il quale, probabilmente, avrebbe ringraziato e sorriso. «La curiosità lo spinge comunque a visitare lo zoo di Berna dove Emil è contento di vedere finalmente delle scimmie, specie che in Cecoslovacca non ha ancora diritto di cittadinanza. Ma le scimmie sembrano cattive, inacidite, amare, perennemente scocciate di aver mancato giusto per un pelo l’umanità. È un pensiero che le assilla, è indubbio, un chiodo fisso. Hanno una gran voglia di fartela pagare». Orgoglio, resistenza, fatiche, sofferenze, sacrifici, disciplina, caparbietà, costanza,… ci sono impasti d’uomo che possono portare a superare sempre i propri limiti, se non davvero per riscattarsi, o solo per vincere, di certo per sentirsi vivi e autodeterminanti, anche e soprattutto quando non si può avere il controllo della propria vita. Sportivi così, se ne vedono sempre di meno. Forse, per fortuna. Forse.
13 agosto 1948: competizione internazionale di atletica leggera allo Stadio Olimpico di Londra. Emil Zatopek con Erik Ahlden e Willem Slijkhuis dietro di lui. (Noske, J.D. / Anefo)
Dove nasce la tradizione dei souvenir?
Editoria ◆ Portarsi a casa ricordi di viaggio è una pratica antica, lo racconta lo scrittore americano Rolf Potts nel suo ultimo saggio
Stefania Prandi
In una favola di Gianni Rodari un uomo immaginava di portarsi via, blocco dopo blocco, l’intero Colosseo, perché lo voleva tutto per sé. Morì prima di riuscire a compiere l’impresa impossibile mentre la sua casa (come quella di un contemporaneo hoarder – ndr. accumulatore compulsivo) restò stipata di pietre. Rolf Potts, scrittore americano che ha appena pubblicato in italiano un libello sull’origine dei souvenir, intitolato Souvenir, una storia culturale (il Saggiatore), non cita, nel suo testo, la parabola di Rodari, ma racconta l’origine della mania di accumulare riproduzioni di monumenti e di altri oggetti dai viaggi. Una pratica contemporanea dalla quale è difficile sottrarsi anche a causa delle centinaia di negozi che affollano le città d’arte, offrendo di tutto: magliette, cappelli, tazze, cucchiaini, calamite e accendini. Spesso, i «ricordini» non sono nemmeno originali del luogo, ma prodotti in Paesi con manodopera a basso costo, e in alcuni casi, possono essere ordinati direttamente per posta, senza dover mettere nemmeno piede nelle città.
Potts riferisce che la mania dei souvenir ha origini antiche. Le prime tracce arrivano dall’antico Egitto e dalla Mesopotamia, quando principi e alti funzionari tornavano dai viaggi carichi di pelli di animali esotici, zanne di elefante e incenso. I tu-
risti ante litteram che giungevano ad Alessandria potevano acquistare vasi di ceramica a poco prezzo con incise le immagini di regine tolemaiche, mentre chi si recava sulle tombe di Achille e Patroclo, a Troia, comprava
miniature d’argento dei templi della zona. Nell’antichità i santuari erano la fonte più fiorente dei souvenir non soltanto nel Mediterraneo: i buddisti che visitavano Bodh Gaya, in India, sceglievano tra uno stupa (monu-
mento per la conservazione delle reliquie) in miniatura (in argilla), una stele di pietra con incisi eventi della vita del Budda oppure il modellino del tempio di Mahabodhi. Secondo Potts, si può fare risalire la tradizione dei souvenir come fenomeno di massa ai pellegrinaggi cristiani, intorno al Trecento. L’entusiasmo per i reperti sacri si manifestò sul Monte degli Ulivi, dove l’attrazione principale era la Chiesa dell’Ascensione, costruita, scrive Potts, «per commemorare la versione evangelica degli ultimi momenti di Gesù sulla Terra prima di salire al cielo». Smaniosi di possedere la terra entrata in contatto con i piedi del messia, «i pellegrini in visita si misero a trafugarne a manciate, in quantità tale che i custodi si trovavano a doverla ricolmare nel giro di poche settimane». Per certi versi, il turismo moderno occidentale sarebbe iniziato con questo antico rito, che fu anche la prima forma di viaggio non militare, non commerciale né legato a motivi personali del Medioevo. La studiosa Beverly Gordon sostiene che il bisogno di portarsi a casa qualcosa dai luoghi sacri e straordinari serve per fermare un’esperienza effimera, fuori dal comune, aggrappandosi a un oggetto tangibile.
La smania di accaparrarsi souvenir non ha risparmiato il mondo anglosassone. Alla fine del 1700, Thomas Jefferson e John Adams, che
all’epoca lavoravano come diplomatici in Francia e in Gran Bretagna, si imbarcarono in un tour dell’Inghilterra e, visitando la tomba del drammaturgo William Shakespeare, si comportarono in modo eccentrico: aiutandosi con un coltellino asportarono un pezzo ciascuno da un’antica sedia che sarebbe appartenuta all’autore dell’Amleto Sempre nello stesso periodo, i principi tedeschi lanciarono la moda delle Wunderkammern o gabinetti delle meraviglie: «Salette-museo ricolme di oggetti o manufatti curiosi che includevano minerali, pelli di animali, armi esotiche, porcellane Ming, sculture primitive, coralli o antiche pergamene». Addirittura si arrivò al paradosso di raccogliere finti esemplari di animali, come le «ali di drago» che una volta venivano incluse nelle raccolte di reliquie medioevali. Il Grand Tour, il viaggio nell’Europa continentale, intrapreso dagli aristocratici europei a partire dal 1700, e che aveva come destinazione finale, di solito, l’Italia, amplificò il fenomeno. Come descrive Potts, si collezionavano «bulbi, tulipani e ceramiche in Olanda, cristalli ed erbe sulle Alpi svizzere, saponi profumati e stoviglie preziose a Milano». E c’era chi posava per un dipinto realizzato da ritrattisti dell’epoca a Roma o a Venezia.
Un aspetto interessante: l’emergere dei musei pubblici contribuì a conferire ai souvenir un’aurea raffinata, considerando che la loro acquisizione e messa in mostra si trasformò da un rituale perlopiù privato a qualcosa di collettivo. L’idea di museo pubblico si può attribuire, infatti, a Sir Hans Sloane, medico e naturalista britannico. Alla sua morte, nel 1753, la sua intera collezione di libri, disegni, flora, fauna e oggetti curiosi – settantamila oggetti, inclusi quarantamila libri – andarono a formare il nucleo del British Museum di Londra che aprì nel 1759 e crebbe di pari passo con un’epoca di viaggi, esplorazioni e conquiste sempre più ampi. I reperti del British Museum alimentarono la fantasia dei romantici al punto che, sull’onda di uno dei componimenti meno noti di John Keats, intitolato Versi scritti guardando una ciocca dei capelli di Milton, all’inizio del 1800 in Inghilterra circolavano diversi ciuffi di Milton, frutto della profanazione della sua tomba nel 1790. La bara del poeta del Paradiso Perduto fu aperta da un gruppo di persone con l’ossessione feticista che rubò anche i denti al cadavere.
Negli anni successivi, negli Stati Uniti, i turisti in visita alla Casa Bianca asportavano brandelli delle tende della galleria e pezzi della scrivania del presidente della Camera.
Le cartoline rappresentarono l’apoteosi della brama di ricordi del secolo scorso al punto che, nel 1904, in un solo anno, gli svedesi (all’epoca appena cinque milioni), furono capaci di inviare più di quarantotto milioni di cartoline dai loro viaggi. Chiuso il libro di Potts, che elenca molte altre stranezze, viene da pensare che, forse, le calamite tutte uguali che compriamo per pochi euro nei luoghi turistici sono soltanto sfizi innocenti.
Bibliografia
Rolf Potts (Autore), Camilla Pieretti (Traduzione), Souvenir, una storia culturale, il Saggiatore, 2024
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Manuela Mazzi
La cavalcata di Satriano sulle tracce del Santo
Itinerario ◆ Per questo sentiero, nell’estate del 1226, i cavalieri di Assisi attraversarono il monte Subasio, per riportare Francesco, gravemente malato, alla sua terra, dove morirà pochi giorni dopo
Angela Nocioni, testo e foto
Un tasso caracolla sulle zampette, dondolando incerto attraversa la strada, si tuffa sotto un rovo viola di more mature. Due lepri rosse corrono sul pendio. Un cerbiatto si volta. È un cucciolo. Un salto ed è già invisibile nel verde scuro del bosco. Sembra di essere finiti nel fondo della foresta umbra di mille anni or sono. Solo cicale, qualche cinguettio. Non una luce elettrica, non un rumore. Si sente solo il fruscio di un vento lieve tra le foglie.
A ogni curva m’aspetto di veder comparire la quercia di Non ci resta che piangere, a Frittole, con Benigni e Troisi catapultati «nel 1400, quasi 1500». Scopriremo che qui siamo ancora più indietro nel tempo, qui tutto è fermo al 1200!
Ci troviamo in Umbria e, per vedere cosa c’è nel fitto del verde oltre
Armenzano d’Assisi, siamo scesi lungo il sentiero seguendo una stradina bianca e tortuosa. E abbiamo trovato un paradiso.
Domenica 1° settembre, avrà luogo la storica rievocazione degli ultimi giorni di vita di San Francesco d’Assisi
Armenzano è un paesino minuscolo di pietra, con le strade acciottolate e le case dai muri spessi, fresche anche in piena estate. Il paese è appoggiato sul lato di un sentiero quasi interamente circondato da boschi e lontano abbastanza da luoghi abitati da esser deserto anche ad agosto.
La dolce sommità del monte Subasio, solo prato senza alberi, è abbagliata dal sole fino al bosco di latifoglie che scende fitto verso l’Eremo delle carceri e verso la collina d’Assisi a ovest. Dalla parte opposta del monte, sul versante disabitato verso nord-est ci sono solo querce, solo lecci, solo bosco fitto e questa sottile strada, asfaltata fino ad Armenzano, e poi tutta bianca, che attraversa un bosco vergine, incredibilmente intatto. Il monte Subasio è parco protetto ormai da quasi mezzo secolo. Un rifugio sconosciuto e prezioso.
Arrivarci da Assisi è un viaggio nel tempo. Esci dalle mura della città attraverso porta Perlici, lasci la Rocca maggiore sulla sinistra e sali su per il versante nord del monte Subasio lungo la stradina che si inerpica subito fuori dalle mura di Assisi sulla destra. Soltanto farfalle gialle e lilla nel verde intenso dei lecci che tracollano verso i canyon a valle. Il colore del cielo, tra le cime delle querce, è di un azzurro che splende.
Per questo sentiero, nell’estate del 1226, i cavalieri di Assisi attraversa-
rono il monte fino a Bagnara, vicino Nocera Umbra, per riportare Francesco, gravemente malato, alla sua terra dove poche settimane dopo morirà. Francesco d’Assisi era andato a Nocera per curarsi con l’acqua di una sorgente il dolore agli occhi. Il fatto è raccontato nella Vita secunda di Tommaso da Celano, seguace di Francesco che ne scrisse per primo la storia: «Ecco quanto accadde una volta. Il servo di Dio, che si era molto aggravato, dal luogo di Nocera veniva ricondotto ad Assisi, da una scorta di ambasciatori che il devoto popolo assisano aveva appositamente inviato. Gli accompagnatori, col servo di Dio, giunsero in un villaggio poverello, chiamato Satriano».
Nel 1923 un avvocato locale, Arnaldo Fortini, riuscì a trovare quale fosse il luogo dove Francesco e i Cavalieri si erano fermati per riposare. Nello stesso anno costituì la Compagnia dei Cavalieri di Satriano chiamando a farne parte personaggi del tempo, letterati vari, tra cui Gabriele D’Annunzio. Nel 1926 si svolse la prima rievocazione. Ora, a curare la Cavalcata, rimasta una festa riservata ai cavalieri, quindi con una atmosfera raccolta, è un appassionato di cavalli di Rivotorto d’Assisi, Giovanni Raspa, che spiega: «Sono nato qui e ho una conoscenza metro per metro del Subasio. Dopo la guerra furono degli abitanti di Colle del Paradiso, quattro case non lontane da qui, a riprenderne l’usanza, ma a piedi. Nel 1980 abbiamo ricominciato coi cavalli. Partiamo la mattina e rincasiamo a notte». La cavalcata quest’anno avrà luogo domenica 1° settembre.
Anche il 4 ottobre, data festeggiatissima ad Assisi perché è San Francesco, patrono d’Italia, qua sul versante povero del monte ci si ritrova per ricordare laicamente Francesco. Appoggiata al tronco di una quercia, una freccia ha intagliato nel legno la figura di un cavaliere a cavallo. Sotto una scritta gialla a matita: «Il velo della sposa». Lungo la strada un anziano signore in canottiera sta sgranocchiando una pannocchia arrostita. Alza lo sguardo solo per dire: «È una cascata, è nella grande tenuta delle Silve, ma non c’è recinzione, può andare. Bussi al proprietario al casale Balestraccio. L’ha visto l’ostello del 1200?» Ride: «Da lì discendiamo tutti noi di qua, dall’ostello».
Dopo poche curve salendo, appoggiata a un dosso con quattro asinelli sardi a spasso c’è una vecchia casa in pietra, casale Balestraccio sta scritto in un cartello all’entrata senza cancello né recinzione. Bussiamo. Dopo un po’ viene ad aprire la porta un signore in maglietta e pantaloni cachi, si chiama Marco, è il proprie-
tario della tenuta e dell’hotel Le Silve: «Abbia pazienza – dice scomparendo dietro a un muro di pietra – è entrato un istrice e si sta mangiando i croccantini del gatto». Poi torna: «Vede quell’ostello lì sulla collina? È del 1200. Lo comprò mio padre negli anni Settanta. Siamo lungo la via francescana, ci si fermavano seguaci di Francesco e i pellegrini. Poi fu acquistato con la terra intorno da privati, tenutari, che lo diedero come casale per dormire ai contadini che coltivavano le terre. Immagini venti persone ammassate in una stanza.
Una trentina d’anni fa abbiamo creato lì un resort e ancora accade che qualche emigrante, di ritorno a casa, venga a mostrare ai nipoti il posto in cui è cresciuto. Il mese scorso è arrivato un signore belga, s’è presentato alla reception e mi ha detto: “Ma qui è nata mia nonna, da bambino ho passato tutte le estati su questo prato. Posso vedere se riconosco la stanza? E mi ha mostrato subito la camera 27: qui c’era il fuoco, qui cucinavano e qui dormiva nonna”, mi ha detto felice indicando ogni angolo; io mi sono commosso».
Andiamo a cercare la cascata. Ci vogliono almeno due ore di camminata nel sentiero da Armenzano per arrivarci, ma vale la pena: «Il velo della sposa» è una incredibile doccia scrosciante sulla pietra liscia nel mezzo del bosco. C’è acqua anche ad agosto. Un salto d’acqua gelida di cinque, sei metri e una piscina naturale di roccia.
Inoltrandoci per la radura in alto, dove il bosco è meno fitto, spunta un altro casale, sempre del 1200. Fino agli anni Ottanta era abitato da una ventina di Piccoli fratelli, originari di Spello, eremiti seguaci di Francesco ma non inseriti in un ordine religioso regolare; vivevano quassù liberi, isolati dal mondo coltivando un orto e prendendo l’acqua alla sorgente. C’è ancora a terra il segno del cerchio attorno a cui pregavano.
Nel terremoto del ’97, quando andò distrutta parte del soffitto della basilica superiore d’Assisi e la scossa corse lungo il dorso del monte Subasio distruggendo quel tutto fino a Nocera, il casale costruito nel 1200 rimase incredibilmente intatto.
Informazioni
Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
Cavalieri che attraversano le strade di Assisi; in basso a destra: il velo della sposa.
Le ciotole in tessuto fantasiose e colorate
Crea con noi ◆ Si realizzano con pochi materiali e sono perfette per decorare la casa o per un regalo personalizzato
Giovanna Grimaldi Leoni
Questo tutorial vi guiderà nella creazione di una ciotola in tessuto, un progetto semplice e divertente adatto anche ai bambini. Con pochi materiali e qualche semplice passaggio potrete realizzare un oggetto unico e creativo, perfetto per decorare casa o come regalo fatto a mano. Coinvolgere i bambini in questo lavoro manuale è un ottimo modo per stimolare la loro manualità.
Procedimento
Rivestite l’esterno delle ciotole che avete deciso di utilizzare come stampo con della pellicola adesiva trasparente, facendola aderire bene.
lunghe abbastanza da coprire il raggio che va dal centro della ciotola al suo bordo, lasciando un’eccedenza di un paio di cm.
Con il pennello piatto, applicate uno strato uniforme di colla sulla pellicola. Prendete una striscia di tessuto e posizionatela partendo dal centro del fondo della ciotola, con il lato dritto del tessuto (la parte “bella”) rivolto verso la ciotola e il retro verso di voi. Continuate a posizionare le strisce di tessuto a raggiera, facendo in modo che si sovrappongano leggermente tra loro. Assicuratevi che non rimangano spazi scoperti e che il tessuto aderisca perfettamente alla superficie della ciotola.
che in questo caso applicate le strisce a raggiera, sovrapponendole leggermente e coprendo completamente il primo strato. Assicuratevi che non ci siano fessure e che la colla ricopra uniformemente tutta la superficie. Lasciate asciugare la ciotola per alcune ore, fino a quando non sarà completamente asciutta e rigida. Una volta che la ciotola è asciutta e potete maneggiarla senza il rischio di rovinarla. Utilizzate delle forbici per tagliare il bordo del tessuto a filo con la ciotola. Non preoccupatevi se il taglio non è perfettamente preciso in questa fase, in quanto potrete sistemare eventuali imperfezioni in seguito.
Con cautela, iniziate a staccare delicatamente il tessuto dalla ciotola di supporto, facendo attenzione a non danneggiare il lavoro. Una volta separati, rimuovete la pellicola adesiva dal tessuto.
Materiale
• Tessuti in cotone
• Colla vinilica
• Pennello piatto
• Pellicola trasparente
• Forbici da stoffa
• Ciotole da utilizzare come «stampo»
• Macchina da cucire (facoltativa)
(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
Selezionate i due tessuti per realizzare la vostra ciotola: uno per l’interno e uno per l’esterno. È importante che i colori e i motivi dei tessuti siano ben abbinati tra loro. Potete optare per combinazioni armoniche oppure creare un contrasto deciso.
Tagliate i tessuti scelti in strisce larghe 1cm. Le strisce devono essere
Giochi e passatempi
Cruciverba
Oggi ho chiesto a mio figlio di passarmi il giornale e lui ha detto con superiorità: «Papà non sei al passo con i tempi, sei vecchio!»
Così mi ha passato il suo tablet. Per farla breve… Trova il resto della frase leggendo, a soluzione ultimata, le lettere evidenziate.
(Frase: 2, 5, 1, 5, 1, 2, 6, 9)
ORIZZONTALI
1. La volta che non è questa
5. Fiori a pallini
10. Salati... ma non al gusto
11. Grava sul basto
12. Le iniziali di Lincoln
13. Infarto miocardico acuto
14. Nel frutteto
15. L e iniziali di una Carlucci conduttrice
16. Preposizione
17. Pronome personale
18. Ci sono anche quelle d’appalto
20. Fa binomio con quale
21. Ha molti bottoni
22. Un tempo della musica
24. Sono passibili di sequestro
25. Un condimento
26. Con te
27. Fuma in salotto
28. Due vocali
29. Ha le falangi
30. Sono senza fine
31. Un terzo di trenta
32. Q uella più alta d’Europa si chiama Pilat
33. Girare in Inghilterra
34. Un umore dell’occhio
35. Paure irrazionali
VERTICALI
1. Il gusto del tamarindo
2. Mammifero americano
3. In mezzo
4. Fanno rima con ma...
5. Otello lo era di Venezia
6. Tutt’altro che sommi
7. Le iniziali della Arcuri
8. Dedicate a Dio
Dopo aver completato il rivestimento interno, passate all’applicazione del secondo tessuto, che costituirà l’esterno della ciotola. Per non creare eccessivo spessore sul fondo, posizionate la 1° striscia a circa 1cm dal bordo del fondo della ciotola, con il lato dritto del tessuto rivolto verso di voi. An-
Ora avete una ciotola interamente in tessuto. Controllate che tutte le strisce siano ben incollate. Se trovate qualche parte sollevata o mal incollata, applicate un ulteriore strato di colla e lasciate asciugare nuovamente.
Rifinitura
Per rifinire la vostra ciotola potete utilizzare metodi differenti: Zig zag con la macchina da cucire per un aspetto più pulito e professionale.
Applicazione di uno sbieco o passamaneria lungo il bordo per aggiungere un tocco decorativo.
Con queste rifiniture la vostra ciotola in tessuto sarà pronta per essere utilizzata o esposta. Buon divertimento!
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle
9. Articolo spagnolo
11. Iniziano al tramontar del sole
14. È in capo al mondo...
15. Stato dell’Africa
17. Lemano a Ginevra
18. Il cantautore Paoli
19. Stefano in francese
20. Piccolo gruppo
21. Un rettile
23. Suppellettili del camino
24. Raggi radioattivi
26. Alloggia in cantina
27. Sacri nell’antico Egitto
29. Un numero
30. Usa le bombole
31. Riempie molte serate
32. Laureato in breve
33. In italiano e in tedesco
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla
cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del
intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
Viaggiatori d’Occidente
Come in un Fast Food: all You Can Fly!
Volare non è mai stato così sicuro. Una ricerca del Massachusetts Institute of Technology (MIT) mostra che a livello globale nel periodo 2018-2022 il tasso di mortalità è sceso a un decesso ogni 13,7 milioni di passeggeri. La sicurezza è quasi raddoppiata rispetto al periodo 2008-2017, ed è infinitamente superiore se paragonata al 1968-1977, quando si registrava un decesso ogni 350mila imbarchi.
Forse anche per questa sensazione di sicurezza, l’esperienza del volo diventa sempre più banale, tanto che si propongono formule di acquisto ispirate ai Fast Food: All You Can Fly! Per esempio la compagnia ungherese Wizz Air ha recentemente messo sul mercato un biglietto che consente voli illimitati per un anno, a partire dalla fine di settembre, al costo di soli 499 euro.
La notizia ha destato parecchio interesse, anche se non è proprio una novi-
tà. Ben sette compagnie infatti offrono qualcosa di simile (la statunitense Frontier Airlines con più convinzione attraverso il programma GoWild! ).
Inoltre ci sono illustri precedenti: per esempio, negli anni Ottanta, American Airlines propose un biglietto per volare per sempre in prima classe al costo di 250mila dollari (quasi un milione ai valori odierni). Pagando altri 150mila dollari era inoltre possibile estendere l’offerta a un accompagnatore. Nonostante l’apparenza, si rivelò presto un cattivo affare, tanto che nel 1990 il prezzo fu elevato a 600mila dollari, a un milione nel 1993; e l’anno dopo American Airlines ritirò la proposta. Banalmente, il prezzo era troppo basso, a livelli quasi ridicoli: con un centinaio di voli soltanto i passeggeri recuperavano l’investimento iniziale.
L’agente di borsa Steven Rothstein è andato ben oltre: nell’arco di 25 anni ha prenotato mille voli di prima clas-
Passeggiate svizzere
La veranda dell’hotel Fex
L’odore del fieno, una sera d’agosto, è la nota di fondo che persiste tra i vari elementi del paesaggio incorniciato da una veranda ultracentenaria di un hotel erratico alla fine della Val Fex. Come l’ultima luce in cima alle montagne, i lembi rimasti dei ghiacciai, il lariceto che si scurisce man mano. Seduto sulla veranda dell’Hotel Fex (1966 m) sorseggiando una verbena, sento poi i fischi delle marmotte sul versante opposto, la frizzantezza dell’aria, lo scorrere della Fedacla. Ma andiamo con ordine, partendo da questo pomeriggio, all’inizio di questo paesaggio illeso dal 1954. Quando, con un accordo tra il comune di Sils, Heimatschutz , Pro Natura, e Pro Helvetia, si è protetta questa valle laterale engadinese sopra Sils Maria non lasciando più costruire nessun’altra casa di vacanza, nessun posteggio, nessuno skilift né teleferica né tralicci dell’alta
tensione. Le macchine? Passano solo quelle di chi ha una casa, gli altri a piedi, bici, in carrozza con i cavalli. Uno dei sentieri per la Val Fex inizia proprio alle spalle dei cocchieri che guardando il telefonino – e non il cielo come i contadini una volta –dicono «stasera piove». La prima sorpresa sono i fiorellini nero-porpora della Sanguisorba officinalis simili a palloncini in miniatura che punteggiano i prati. La Fedacla è grigioazzuro glaciale, nuvole in movimento riempiono di meraviglia, il buonumore del camminare qui mi porta a salutare tutti con «allegra!»
In mezzoretta neanche sono davanti alla chiesuola cinquecentesca di Santa Margarita a Crasta, sulla strada, a fianco dell’hotel Sonne del 1908. Se vi capita, buttate un occhio agli affreschi absidiali del 1511 dove oltre a tutti i santi eccetera, c’è un toro alato. Riconosco lo stesso verdi-
Sport in Azione
se per New York, cinquecento per San Francisco, Los Angeles, Londra e altre centinaia per destinazioni come Tokyo, Hong Kong e Sydney. In totale ha percorso più di 30 milioni di miglia, equivalenti a 60 viaggi di andata e ritorno sulla Luna. A sua volta un altro acquirente del famoso biglietto, il consulente di marketing Jacques Vroom, ha volato oltre due milioni di miglia l’anno, con motivazioni spesso futili: seguire le trasferte della sua squadra di football, pranzare con un amico in Francia senza neppure pernottare, a volte solo per una ricerca scolastica della figlia. Entrambi hanno perso poi il biglietto per aver abusato dei loro privilegi: la prenotazione del posto a fianco per un accompagnatore fittizio, solo per averlo libero; voli prenotati senza poi presentarsi all’imbarco per accumulare punti premio e altri vantaggi come frequent flyer ; soprattutto la rivendita
a estranei di biglietti personali. E alla fine il fallimento di American Airlines (il grande rischio di chi compra questi biglietti) ha messo fine alle loro rivendicazioni legali. Con maggior moderazione e miglior fortuna ha invece continuato a volare Tom Stuker, settantenne del New Jersey, che nel 1990 acquistò un biglietto simile di United Airlines, pagandolo 290mila dollari. Stuker vola in media 225 giorni all’anno e nel 2019 ha contato 373 decolli in 365 giorni. In questo caso la compagnia aerea, non potendo sbarazzarsi di lui, lo ha trasformato in un testimonial, servito e riverito.
Anche se viene spesso presentato come un eroe dei consumatori, Stoker mi è sempre sembrato una figura triste, un moderno Sisifo la cui vita è rimasta incatenata a quell’acquisto di tanti anni fa e al timore ossessivo di non sfruttare abbastanza il privilegio
acquisito. Stoker è atterrato in cento Paesi diversi, ma forse non ne ha mai visto veramente nessuno, con la mente sempre rivolta al prossimo volo. Senza contare che chi lo invidia non si sofferma mai sulle conseguenze ambientali del suo perenne movimento senza scopo. Ad ogni modo quel tempo è finito per sempre.
Come hanno scoperto presto i molti interessati, i nuovi biglietti di Wizz Air hanno infinite limitazioni: i voli possono essere prenotati solo entro tre giorni dalla partenza, solo per l’andata, senza posto assegnato, solo con bagaglio a mano, pagando una tariffa fissa per ciascuno di dieci euro. Alla fine va bene solo per chi ha un’agenda estremamente flessibile, lavora da remoto e viaggia solo. Meglio così, dopo tutto. Quel che sembrava un colpo di genio del marketing è forse solo una pericolosa tentazione proveniente da un’altra epoca della nostra storia.
no tundra visto negli affreschi dei mesi a Palagnedra, otto sedie di legno con cuore forato sullo schienale, attorno all’abside, contribuiscono a farne un luogo di sosta e di forza. Il versante brullo della valle glaciale a U è inquadrato da una finestrella a sud-est. A sud-ovest dell’abside, fuori, ci sono le ceneri di Claudio Abbado (1933-2014): celebre direttore d’orchestra e gran camminatore nei dintorni. Una parte, il resto è stato sparso in mare, al largo di Alghero. All’ombra di un larice, vicino alla terrazza del Sonne, nascosta sotto a un tavolino in pietra per pensatori solitari, solo i cercatori di minuzie o chi si sdraia spesso sul prato come me, scovano una lastra commemorativa posta per il neuropsichiatra infantile Martin Egger (1949-2011). Autore di La cura del bambino autistico (2006) che veniva qui ogni anno in vacanza con la moglie, co-autrice di
La prudente arte divinatoria di Swiss Olympic
Abbiamo il potenziale per conquistare sette medaglie. Così aveva sentenziato Ralph Stöckli, capo della delegazione svizzera, alla vigilia della partenza per i Giochi Olimpici di Parigi. Ne abbiamo riportate a casa otto. Quindi, obiettivo superato? Mi permetto di dissentire. Sono convinto che Stöckli fosse consapevole di aver giocato al ribasso. Meglio restare cauti e gioire per tutto ciò che arriva in più, che non sparare alto e tornarsene a casa a testa bassa. Sono altrettanto certo che non sia stata la prudenza nelle previsioni ad aver condizionato le prestazioni dei nostri atleti. Va detto che, agli otto metalli, si è aggiunto un numero considerevole di medaglie di legno, compresa quella del nostro Noè Ponti sui 100 delfino. Sono dei quarti posti che bruciano, come quello del nostro nuotatore, o che incrementano motivazione e autostima, come quello, con tanto di record na-
zionale, della eptatleta Annik Kälin. Se ci riferiamo al bottino medio di cinque medaglie per edizione estiva, non possiamo che essere ampiamente soddisfatti del risultato degli svizzeri. Se invece rivolgiamo lo sguardo a quanto conquistato tre anni fa a Tokyo, siamo costretti a ricrederci. Eravamo tornati dal Giappone con tredici medaglie, tre delle quali d’oro. Il terreno di conquista è grosso modo lo stesso, nel pieno rispetto delle nostre tradizioni sportive. Nel tiro, alla mancata conferma di Nina Christen (un oro e un bronzo in Giappone) hanno compensato l’oro di Chiara Leone e il bronzo di Audrey Gogniat. Abbiamo inoltre ottenuto riconoscimenti nel canottaggio, nel triathlon, nell’equitazione, nel beach volley, e nel nuoto, con il bronzo di Mityukov, a fronte dei due riportati da Tokyo da Ponti e Desplanches. Nella bmx Free Style, il bronzo di Nikita Ducarroz, è
stato sostituito da quello di Zoé Classens nella Racing. Non serve il pallottoliere per capire che, per arrivare da otto a tredici, manca completamente il bottino del ciclismo. È vero che abbiamo dovuto far fronte alle assenze di Jolanda Neff nella mtb e di Marlen Reusser nella cronometro. Ma tutta l’edizione appena conclusa ha confermato quanto personalmente temevo da almeno un paio di anni: non siamo più la nazione faro nel fuori strada. Siamo andati a Parigi con un campione indiscusso di 38 anni, e con un campioncino di 36. Nessun dubbio sul biglietto offerto a Nino Schurter. Il nostro portabandiera, sia pure in difficoltà contro avversari più esplosivi di lui, meritava l’ultima chance. Sia per quanto ci ha regalato da Pechino 2008 a oggi, sia perché, oggettivamente, rimane pur sempre il nostro numero 1. Mantengo invece le mie riserve sul-
Invenzioni nella psicosi (2008) dove si parla anche di Glenn Gould. Partito alle 13.47, alle 14.58 – passando dal sentiero in alto nel bosco di larici al posto della strada come anni fa quando ho scoperto la veranda –sono all’hotel Fex. Spuntato qui, in località Curtins, nell’estate del 1904, ha una sua particolarità: sorto altrove, smontato, trasportato qui pezzo per pezzo, rimontato. A metà Ottocento era a St. Moritz-Bad, il concierge dell’Hotel Victoria, un certo Balthasar Arquint, se ne innamora, lo compra, e lo fa trasportare qui con i cavalli. Diciassette camere, hotel nostalgico tra rusticità da chalet e Bell’Epoque, struttura alare simmetrica coronata – al posto delle piode in ardesia locale caratteristiche della valle – da un tetto in lamiera che ricorda i rifugi di montagna. Dopo una torta di mirtilli non strepitosa ma in veranda, doccia, turbosie-
sta e poi, visto che c’è un gran sole e non piove per niente, una passeggiata senza zaino, a mente sgombra, semi-estatica, su verso l’Alp Muot Selvas. Al cospetto degli ultimi brandelli o barbagli dei ghiacciai: Tremoggia, Fex, Fedoz. E la corona sopra dei vari Piz che non so mai i nomi. Un anfiteatro montano che ritrovo in veranda, la sera, seduto a uno dei sei tavoli, in compagnia del profumo del fieno raccolto poche ore fa. Ci sarebbero anche le poltrone di vimini sparse sul prato per gli ospiti dell’albergo, però una veranda come questa provoca più raccoglimento, impone un’attesa, appostamento, studio, preghiera. I pilastri di legno verniciato inquadrano il paesaggio nell’ultima luce. Una frana nel riconoscere le montagne, percorro sicuro con lo sguardo almeno il Piz Salatschina. La pace però la cerco nel bosco di larici ora in ombra.
la selezione di Mathias Flückiger, anche se, alla prova dei fatti, con il quinto posto, è stato il migliore dei nostri. Nelle selezioni aveva proposto un rendimento inferiore a quello del ventiseienne ticinese Filippo Colombo, sacrificato sull’altare di manovre personali e politico-societarie. Si dice che Swiss Olympic abbia voluto premiare Flückiger per l’assoluzione dal noto caso di doping. E pure che non si sia voluto attribuire i due posti a disposizione a due atleti dello stesso team. Facendosi beffe del fatto che tra Nino e Mathias non corre buon sangue. Colombo, attualmente terzo nella classifica di Coppa del Mondo, la selezione l’avrebbe meritata. Non solo, su un tracciato come quello parigino sarebbe stato il più adatto dei rossocrociati nella corsa alle medaglie. Resta il fatto che, da alcuni anni, escluso lui, sia quantitativamente, sia qualitativamente, non siamo più capaci di
formare nuovi talenti. Corridori strabilianti da juniores, come Joel Roth e Alexandre Balmer stanno naufragando nel mare della mediocrità. Qualche segnale incoraggiante giunge dal settore femminile, tuttavia, dopo aver occupato i tre gradini del podio a Tokyo, da Parigi siamo rientrati solo col settimo posto di Alessandra Keller. Non credo che il valore di una nazione si misuri con i suoi risultati sportivi. Significherebbe ammettere che la piccola DDR fosse un modello di virtù. Tuttavia, in certe discipline, una relazione tra Campioni e bacino di utenza, mi pare individuabile. Non abbiamo vissuto l’effetto Federer. Ma l’incremento del numero di persone che passeggiano nei boschi in sella a una mtb, sinonimo di salute, dipende anche dai risultati di una generazione di fenomeni capitanata da Nino Schurter. Anche dall’avvento delle e-bike. Ovviamente!
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ATTUALITÀ
Statuto S, cosa accadrà?
A settembre il Consiglio federale dovrà decidere se estendere la durata dello statuto S previsto per profughe e profughi ucraini
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Il Rabbino che sognava la coesione
Il Rabbino Ovadia Yosef, considerato il re dei Sefarditi, è protagonista di un documentario che mette in luce le sue doti «pacifiste»
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Gran Bretagna, tensioni e rabbia L’omicidio di tre bambine ha scatenato disordini e violenza in una Gran Bretagna sempre più insoddisfatta e piena di diseguaglianze
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Le apprensioni della scuola svizzera
Insegnamento ◆ Ci sono troppi cantieri, si registra carenza di docenti, personale sovraccarico e qualità dell’istruzione a rischio; il dibattito sul futuro dell’istituzione scolastica s’infiamma
Luca Beti
È piena estate. In un’aula dell’Alta scuola pedagogica di Berna, uomini e donne di età diverse, con esperienze di vita e curriculum professionali differenti, hanno deciso di rimettersi in gioco. Si sono iscritti a un corso intensivo di due settimane per prepararsi al mondo che li aspetta in agosto: quello della scuola. Vogliono diventare insegnanti. Sono i cosiddetti «Quereinsteiger», ossia persone senza un diploma d’insegnamento. Tra di loro c’è anche Daniela Wüthrich: madre di quattro figli in età scolastica, sposata con un contadino di Trub, nell’Emmental. «Affronto questa nuova sfida con una certa apprensione», confida la futura maestra di una pluriclasse, dalla terza alla sesta elementare, in una piccola scuola in campagna nei pressi di Langnau. «Voglio costruire un bel rapporto con le allieve e gli allievi, crescendo e imparando insieme». In aula porterà l’esperienza di mamma, di responsabile d’economia domestica nel settore alberghiero e quasi nessuna competenza pedagogica e didattica.
Il Summer Camp, iniziativa promossa per la seconda volta dalla PHBern, è una delle misure adottate per
sopperire alla cronica carenza di insegnanti. Attualmente, nel Canton Berna, un maestro su sei non ha un diploma d’insegnamento. In totale sono circa 3000, di cui 1500 studenti in formazione. «Non c’è una formula magica per risolvere il problema. Nessun Cantone l’ha trovata finora», dice Andrea Meuli, responsabile dei corsi estivi. «Abbiamo due problemi demografici: da una parte, la popolazione aumenta e con essa anche il numero di classi, dall’altra, gli insegnanti nati durante il boom economico stanno andando in pensione». Le soluzioni trovate dal Canton Berna e applicate anche in buona parte della Svizzera – l’assunzione di persone senza diploma, l’aumento della percentuale di impiego e del numero di allievi per classe – sono semplici cerotti. Risolvono il problema solo nel breve termine. Sul lungo periodo servono altri provvedimenti. Secondo gli scenari per il sistema di formazione dell’Ufficio federale di statistica, da qui al 2031 mancheranno 13’000 maestri a livello nazionale e sarà necessario assumere 45’000 insegnanti nella scuola elementare e 26’000 nella scuola di livello secondario I.
Alcuni esperti, tra cui la presidente dell’Associazione mantello LCH, Dagmar Rösler, e il presidente dell’Associazione svizzera delle direzioni scolastiche, Thomas Minder, sostengono che l’attrattiva del mestiere deve essere aumentata, creando prospettive di carriera e promuovendo lo sviluppo professionale. Inoltre, i maestri devono potersi concentrare sul loro compito principale: l’insegnamento.
I problemi dell’inclusività
Stando a un recente sondaggio, il personale docente è relativamente soddisfatto, assegnando alla propria professione il voto 4,2 nella Svizzera tedesca e di 3,9 in Romandia su una scala scolastica da 1 a 6. A scontentare gli insegnanti sono soprattutto due fattori: la scuola inclusiva e le crescenti incombenze amministrative. Che la scuola stia attraversando un momento di difficoltà lo ha riconosciuto anche la politica. Ad esempio, il Partito liberale radicale svizzero ha avviato un dibattito sul mondo della scuola con un documento pro-
grammatico. Nel testo formula varie proposte, tra cui la richiesta di concentrare l’insegnamento sulle competenze fondamentali: leggere, scrivere e far di conto. I dati dello studio PISA 2022 gli danno parzialmente ragione, almeno per quanto riguarda la lingua di scolarizzazione. Alla fine della scuola dell’obbligo, infatti, il 25 per cento delle allieve e degli allievi di 15 anni non raggiungeva il livello minimo in lettura. Il PLR ritiene insufficienti anche i risultati raggiunti nell’apprendimento della prima lingua straniera nella scuola elementare e ne propone l’abolizione. Simone Ganguillet, docente di francese e multilinguismo all’Alta scuola pedagogica di Berna, spiega che l’insegnamento precoce di una lingua straniera è giustificato dal fatto che i bambini piccoli hanno una maggiore facilità nell’acquisire la comprensione orale e la pronuncia. L’esperta sottolinea che l’obiettivo della scuola non è formare allievi e allieve che parlano perfettamente francese, ma piuttosto motivarli ad approfondire le competenze fondamentali e promuovere il plurilinguismo funzionale.
Anche la scuola inclusiva suscita discussioni, soprattutto nella Svizzera tedesca. Il PLR chiede un ripensamento. E non è il solo a farlo. L’idea di promuovere l’integrazione di persone con disabilità a scuola è ampiamente condivisa. A far discutere è la sua applicazione. L’associazione mantello LCH sottolinea che mancano le risorse e il personale per soddisfare questo mandato, pur ribadendo la sua opposizione alla proposta del PLR di abbandonare la scuola inclusiva.
Preoccupa anche la qualità dell’insegnamento. Molti temono che, a causa dei numerosi cantieri scolastici, del crescente carico amministrativo e dell’assunzione di persone senza diploma, i maestri non abbiano più il tempo per svolgere adeguatamente il proprio lavoro. Roland Reichenbach, professore di scienze dell’educazione all’Università di Zurigo, ha espresso questa preoccupazione in un’intervista alla «NZZ am Sonntag», ricordando che una buona scuola è fatta di «personale docente motivato, impegnato e che crede nella capacità di apprendimento delle bambine e dei bambini».
Mentre in alcune regioni
della Svizzera le scuole sono iniziate in agosto, in Ticino manca poco alla ripresa delle lezioni. E in tutto il Paese si discute sui punti deboli dell’istituzione scolastica. (Freepik)
Tra i guerriglieri birmani nascosti
Il reportage ◆ Abbiamo raggiunto clandestinamente l’epicentro della guerra civile dimenticata che travolge il Paese dal 2021 e da allora ha
«Appena arrivato a scuola i bambini mi hanno detto che c’erano degli aerei che continuavano a volare sopra l’edificio». Nay Lin Aung ha 26 anni, è un maestro di matematica della scuola Daw See Ei di Demoso, la seconda città del Karenni State, una delle regioni maggiormente colpite dalla guerra civile che sta travolgendo la Birmania dal 2021. «Sono corso fuori dall’aula e sono andato a controllare dove fossero diretti gli aeroplani; come ho guardato in cielo mi sono accorto che un jet era molto vicino e veniva proprio verso di noi».
Da quando l’esercito ha preso il controllo dello Stato, il Paese è inaccessibile per la stampa internazionale
Sono passati pochi mesi dalla drammatica mattina del 5 febbraio e il giovane insegnante birmano, per la prima volta, ha deciso di tornare nel luogo in cui speranze, convinzioni e vite si sono spente per sempre. Nay Lin Aung cammina tra le macerie dell’istituto, i suoi passi echeggiano tra le aule vuote e, nel silenzio delle stanze, il vento, tra le lamiere accartocciate, emette un urlo gelido. A destra del maestro c’è una lavagna crivellata dalle schegge, a sinistra dei banchi sventrati, per terra un astuccio carbonizzato, un flauto spezzato, delle matite e dei quaderni abbandonati. È il dipinto di una quotidianità dolce e delicata, interrotta all’improvviso. È la muta testimonianza di cos’era la vita, sino a un istante prima
che tutto finisse. «Ho radunato tutti i bambini e siamo corsi nel bunker e poi ho gridato: “Sdraiatevi e tappatevi le orecchie!”. Dopo c’è stata l’esplosione».
In Myanmar, o Birmania, da oltre tre anni è in corso un conflitto civile tra le truppe dell’esercito guidate dal generale Min Aung Hlain che hanno preso il potere il 1 febbraio 2021 con un colpo di stato che ha deposto il governo legittimamente eletto, e le forze rivoluzionarie birmane, composte da giovani di vent’anni, che hanno lasciato le città per dare vita alla resistenza armata.
Da quando l’esercito ha preso il controllo dello stato, il Paese del Sud-est asiatico è divenuto una nazione inaccessibile per la stampa internazionale e il solo modo per andare a raccontare quanto sta avvenendo nell’ex colonia britannica, è farlo clandestinamente, attraversando di notte, a bordo di piccole lance, la frontiera tra la Thailandia e la Birmania e poi intraprendendo un viaggio di diversi giorni nella giungla tropicale del Sud-est asiatico. Solo così si raggiunge l’epicentro di un conflitto lontano dai riflettori dei media internazionali, ma che in soli tre anni ha provocato più di 55mila vittime, 174 scuole sono state oggetto di bombardamenti, gli sfollati interni sono oltre 3 milioni, 15 milioni di persone versano in uno stato di insicurezza alimentare e 18 milioni di cittadini hanno bisogno di assistenza umanitaria immediata.
«Appena è avvenuto il golpe, noi giovani birmani siamo scesi in strada, con le mani alzate, rivendicando
diritti e libertà: tutto ciò che ci apparteneva prima del golpe. Alle nostre proteste pacifiche i militari hanno risposto aprendo il fuoco. È stato allora che abbiamo deciso di dare vita alla guerriglia». Maui ha 31 anni, una laurea in geologia e un passato da agronomo, il basco e la barba incolta gli incorniciano il viso, la divisa spiegazzata rivela un tatuaggio con il simbolo della pace sul braccio destro, sulla schiena invece ha incisi, con ago e inchiostro, tanti tally mark quanti i suoi soldati caduti in battaglia. Maui è infatti il leader militare di uno dei gruppi guerriglieri maggiormente attivi tra le forze rivoluzionarie birmane, il Karenni Nationalites Defense Force, e dalla sua base nel folto della giungla racconta: «Noi stiamo combattendo per un Paese in cui vi sia rispetto per le minoranze indigene, in cui la forma di governo sia quella del federalismo democratico, dove le parole d’ordine siano giustizia, pace e lavoro».
«Stiamo combattendo perché si rispettino le minoranze indigene e per avere un governo democratico»
In Birmania, nel 2015, dopo cinque decadi di regime militare, proteste, arresti e sparizioni, si sono tenute le prime libere elezioni che hanno visto la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia, e così, dal 2015 al 2021, il Paese ha attraversato un breve ma irremeabile periodo di democrazia che, seppur imperfetta, ha
Testo di Daniele Bellocchio; foto di Carlo Cozzoli
Il People’s Defence Force (PDF) è il braccio militare del Governo di Unità Nazionale del Myanmar, l’esecutivo deposto dal golpe militare del 1 febbraio 2021 e che oggi, in esilio, rappresenta il governo legittimo del Paese.
Il PDF è nato il 5 maggio del 2021 e comprende giovani provenienti da tutto il Paese che hanno deciso di unirsi alle guerriglie etniche per combattere il regime. Alcuni membri del battaglione PDF Naypydaw attraversano a dorso d’elefante il fiume Htoo Chaung nel territorio dei Karenni per dirigersi al fronte di Loikaw.
In una località segreta nella giungla c’è una prigione dove sono detenuti soldati della Giunta militare catturati nella città di Shar Twa nel febbraio 2024. I prigionieri trascorrono le giornate con una gamba immobilizzata in una gogna di legno.
Membri del Min Tar Central Committee
nella giungla
ha già provocato più di 55 mila vittime
permesso alle nuove generazioni di aprirsi al mondo, conoscere l’altrove, oltrepassare le divisioni etniche, comprendere con piena contezza il significato delle parole libertà e diritti. Sono i ragazzi della cosiddetta Generazione Z a condurre la rivoluzione birmana oggi e a combattere per riscrivere la storia del loro Paese. «Sento ancora le urla dei bambini. Appena mi distraggo da ciò che sto facendo, i miei pensieri mi riportano a quel giorno»
«La prima volta che sono andato in battaglia ero molto eccitato, poi quando ho visto i miei amici morire e ho dovuto sparare e uccidere, mi sono reso conto che la guerra è una cosa terribile. Ma non abbiamo scelta se vogliamo essere liberi». Thu Ra Aung ha 21 anni, da settimane è impegnato sul fronte di Loikaw, la capitale dello stato Karenni dove i combattimenti sono incessanti. Insieme al giovane guerrigliero, in un’abitazione abbandonata e adattata a quartier generale, ci sono decine di altri ragazzi con gli occhi determinati, i fucili automatici
in spalla e le piastrine al collo. Negli sguardi sembrano aver perso l’innocenza della loro età, ma nell’animo ancora la custodiscono: «La cosa più dolorosa della guerra è la mancanza di mia mamma. È a lei che penso sempre. Ogni giorno. Quando tutto sarà finito voglio comprarle un piccolo negozio. Pace, libertà e un negozio per mia mamma. Questo è il mio sogno».
Improvviso il sibilo delle pallottole, poi un’esplosione, tremano le case, i combattenti del KNDF si acquattano tra l’erba e i cespugli, poi si rialzano e incominciano a sparare verso le pattuglie dei soldati della giunta. L’esercito predispone l’artiglieria, i droni individuano gli obiettivi e un lanciarazzi Grad scarica una sequenza di colpi. Un giovane viene colpito da una scheggia in un occhio, un altro giace riverso con un frammento di ordigno nel collo, il corpo di Kyaw Thu invece viene adagiato in un sacco nero.
«Quando il bombardamento è cessato sono corso nell’edificio per accertarmi che non ci fossero feriti, ma mi sono imbattuto nei corpi di quattro bambini, quattro miei alunni, esanimi e barbaramente mutilati». Il maestro Nay Lin Aung trattiene a fatica le lacrime ripensando a quanto visto il 5 febbraio, e poi confessa: «Io, come tutti, da quel giorno vivo in un incubo che non mi dà tregua, sento ancora le urla dei bambini. Appena mi distraggo da ciò che sto facendo, i miei pensieri mi riportano a quel giorno. Io non volevo più venire a scuola, ero terrorizzato. Poi però ho pensato a tutto il male che hanno sofferto i miei studenti e non è giusto che si trovino privati anche dell’istruzione. Le scuole in Birmania sono chiuse dal 2019. Prima a causa del Covid, poi, dal 2021, per via del golpe. Un’intera generazione non ha più un’istruzione. Noi non possiamo fermarci: senza istruzione, non c’è vita. Senza istruzione non può esserci pace».
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Una contadina in una risaia di Loikaw a pochi chilometri dalla linea del fronte e dalle esplosioni dell’artiglieria impiegata dalle forze del governo birmano. A causa del conflitto in Myanmar oggi 18,6 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria, gli sfollati interni sono oltre 3 milioni e 15 milioni di cittadini versano in uno stato di insicurezza alimentare.
La chiesa di San Matteo nella parrocchia di Dognekhu della diocesi di Loikaw è stata data alle fiamme il 15 giugno 2022. I soldati si erano accampati nell’edificio e l’avevano bruciato insieme a diverse case prima di lasciare la zona. Nove chiese cristiane sono state colpite dall’esercito birmano nella diocesi di Loikaw da quando è scoppiato il conflitto nel maggio 2021.
Maui, 31 anni, generale della formazione KNDF (Karenni Nationalities Defence Force).
Statuto S, la palla passa al Consiglio federale
Politica migratoria ◆ A settembre il Governo elvetico sarà chiamato a esprimersi a proposito di una proroga delle condizioni speciali adottate per le rifugiate e i rifugiati ucraini
Roberto Porta
Il Consiglio federale una volta ancora alla prova dello Statuto S. Tra qualche giorno, a inizio settembre, il nostro Governo è chiamato a decidere sul futuro del sistema di protezione speciale in favore dei profughi in arrivo dall’Ucraina, come confermato dalla Segreteria di Stato per la migrazione, interpellata dalla stampa d’Oltralpe. Al momento lo statuto S ha una data di scadenza, fissata al mese di marzo del 2025, un termine deciso lo scorso novembre dallo stesso Consiglio federale che di anno in anno rinnova il permesso. A Berna i nostri sette ministri devono ora decidere se prolungare di ulteriori dodici mesi il sistema di accoglienza speciale per i cittadini ucraini, in fuga dal loro Paese dopo l’invasione russa, iniziata il 24 febbraio del 2022.
Lo statuto S scadrà nel mese di marzo del 2025 e a settembre a Berna si deciderà se prolungarlo per altri dodici mesi
I segnali finora giunti dalla capitale federale lasciano pensare che questa ulteriore proroga verrà effettivamente accordata, anche perché, e questa è la motivazione principale, la guerra in Ucraina non è vicina alla conclusione. A favore di uno statuto S valido fino alla primavera del 2026 ci sono altre due ragioni, di carattere più politico. La prima è di natura interna. Su questo argomento il Dipartimento di giustizia e polizia, titolare del dossier, ha di recente aperto una procedura di consultazione tra i cantoni del nostro Paese. Le risposte inviate a Berna non lasciano dubbi, visto che a larga maggioranza le autorità cantonali appoggiano questa ulteriore estensione, pur sottolineando alcune criticità del sistema. E qui vanno ricordate le regole principali su cui poggia questo meccanismo, che esiste da oltre vent’anni, ma che prima d’ora non era mai stato applicato concretamente. Lo statuto S venne forgiato negli anni 90 del secolo scorso, dopo gli arrivi di massa nel nostro Paese dei pro-
fughi in fuga dall’ex Jugoslavia. Questo permesso garantisce l’accoglienza in Svizzera, senza che le persone interessate debbano confrontarsi con le normali procedure d’asilo. Chi è titolare di uno statuto S ha il diritto di muoversi liberamente dentro e fuori i nostri confini nazionali, può svolgere un’attività professionale indipendente o cercare un posto di lavoro nel nostro Paese, senza periodi di attesa, e se non riesce a mantenersi autonomamente può far capo agli aiuti sociali. I Cantoni si occupano di trovare un
alloggio per queste persone e di garantire le cure mediche necessarie e l’istruzione pubblica per chi è in età scolastica.
Alla fine dello scorso mese di luglio erano circa 66mila le persone a cui è stato accordato questo statuto, il numero più alto dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. L’impalcatura messa in piedi dal nostro Paese sembra riuscire a reggere questi numeri, anche se tra i cantoni c’è chi vede dei margini di miglioramento o delle pecche del sistema. La prima fra
tutte riguarda l’accesso al mondo del lavoro. Il Consiglio federale si è posto un obiettivo, al momento decisamente velleitario: entro la fine del 2024 la percentuale di profughi ucraini attivi professionalmente dovrebbe raggiungere il 40%, ad oggi però arriva appena al 27%. Per accrescere questa quota, a detta di diversi cantoni, vanno per prima cosa migliorate le capacità linguistiche dei profughi, obbligandoli in futuro a seguire dei corsi specifici in una delle tre lingue ufficiali, lezioni al momento solo facol-
tative. Aumentare il numero di cittadini ucraini che svolgono un’attività professionale significa anche poter ridurre il sostegno finanziario pubblico stanziato in questi anni, una fattura che per la sola Confederazione si aggira al momento attorno ai due miliardi di franchi. Un’altra criticità è quella legata alla mobilità. Chi è al beneficio di uno statuto S può tornare nel proprio Paese, ma se vi soggiorna per più di due settimane nell’arco di tre mesi le autorità federali possono revocare questo permesso. Su questo punto tra i cantoni c’è chi ritiene che si debba frenare questo «turismo» tra Svizzera e Ucraina, come del resto ha chiesto nel giugno scorso anche il Consiglio degli Stati.
Oggi gli ucraini attivi professionalmente sono il 27%; entro la fine del 2024 dovrebbero idealmente raggiungere il 40%
E qui va detto che la Camera dei Cantoni vuole anche accordare lo statuto di protezione soltanto a chi arriva dalle regioni dell’Ucraina occupate dalla Russia o coinvolte direttamente nel conflitto. Ora di questo tema deve occuparsi il Consiglio nazionale. In favore di un’ulteriore proroga dello statuto S c’è comunque anche una ragione di politica estera. Già in giugno l’Unione europea ha prolungato fino al mese di marzo del 2026 il proprio sistema di protezione in favore degli oltre quattro milioni di profughi ucraini che vivono nei 26 Paesi dell’Ue. Su questo punto la Svizzera si è sempre mossa in sintonia con le autorità europee, e così dovrebbe essere anche per il futuro prossimo. Da notare che per legge lo statuto S ha una validità massima di cinque anni, al termine di questo periodo i cittadini ucraini che ancora vivranno nel nostro Paese otterranno un permesso di dimora B. Ma di questo si parlerà nel 2027, nella speranza che la guerra in Ucraina, e ora anche in territorio russo, possa terminare ben prima di quell’anno.
Sto pianificando un congedo non retribuito. Cosa devo considerare in merito alla previdenza?
La consulenza della Banca Migros ◆ Se si vogliono evitare problemi, in vista di una pausa sabbatica è bene prendere per tempo le dovute misure precauzionali
Un congedo non retribuito, noto anche come periodo sabbatico, può causare lacune nella previdenza per la vecchiaia. Più lunga è la pausa, maggiore è il potenziale impatto. È necessario prendere per tempo le dovute misure precauzionali. Ecco una panoramica dei punti principali.
AVS: dal momento che il datore di lavoro non paga uno stipendio durante il periodo sabbatico, non versa neppure i contributi alle assicurazioni sociali. Se si interrompe il lavoro solo per tre mesi, non è un problema: l’obbligo contributivo AVS è considerato adempiuto se in un anno civile si è lavorato almeno nove mesi (con un tasso di occupazione di almeno il 50%)
e si è percepito un reddito minimo di 4851 franchi lordi. Se il soggiorno non retribuito dura più di tre mesi, occorre pagare personalmente il contributo AVS rilevante, altrimenti si corre il rischio di produrre lacune contributive. Attenzione: se manca un anno di contribuzione, la rendita viene ridotta di circa il 2,3%. Per questo motivo è necessario registrarsi presso la cassa di compensazione AVS del proprio cantone di residenza come persona senza attività lucrativa e chiarire eventuali contributi mancanti. In questo modo ci si assicura di versare contributi sufficienti nell’AVS. Cassa pensioni: una lacuna previdenziale può verificarsi anche nel-
la cassa pensioni. Perché, senza stipendio, nessun contributo finisce nel fondo pensione. L’entità di tale lacuna dipende dalla durata della pausa lavorativa, dal salario e dall’età. Con l’avanzare dell’età, infatti, aumentano anche gli importi minimi da versare alla cassa pensioni. Prima del congedo sabbatico, conviene contattare la propria cassa pensioni e chiedere se si possono versare contributi di risparmio facoltativi per il periodo in questione. In caso contrario, si possono versare i contributi mancanti con un riscatto nella cassa pensioni. Pilastro 3a: se il congedo non retribuito dura meno di un anno civile,
si può continuare a versare contributi nel pilastro 3a. Se però per un intero anno civile (o più) non si percepisce un reddito soggetto all’AVS, non è possibile effettuare versamenti. I conti AVS già esistenti verranno tuttavia mantenuti.
Consiglio Dal punto di vista fiscale, è opportuno distribuire un periodo più lungo di congedo non retribuito su due anni solari a cavallo dell’anno. In questo modo si garantisce la continuità dei contributi all’AVS e nel pilastro 3a. Inoltre, per due anni si riduce la progressione dell’imposta.
Isabelle von der Weid, consulente alla clientela della Banca Migros ed esperta in previdenza.
L’ucraina Olha Shymko, fra le prime a ottenere lo statuto S, al lavoro nella cucina di un ristorante del Canton Berna. (Keystone)
Il re dei Sefarditi, l’eredità spirituale e politica del Rabbino Ovadia Yosef
Israele ◆ La straordinaria parabola del Rabbino e leader dello Shas che ebbe sempre a cuore la coesione della collettività ebraica
Sarah Parenzo
Lo scorso martedì, mentre le delegazioni israeliana e palestinese discutevano, ancora senza successo, i termini di un accordo di cessate il fuoco e restituzione degli ostaggi, i media hanno diffuso la notizia del recupero da parte dell’esercito dei corpi di altri sei ostaggi trovati senza vita in un tunnel di Gaza nel corso di un’operazione. «Se mio padre fosse ancora qui gli ostaggi sarebbero tornati a casa da un pezzo» ha commentato amareggiata la sera stessa Adina Bar-Shalom, figlia del grande Rabbino Ovadia Yosef, subito prima della proiezione presso la Biblioteca Nazionale di Gerusalemme del nuovo documentario di Ofer Pinhasov Ovadia Yosef: re dei sefarditi. Attraverso materiale di archivio e interviste ai familiari e alla cerchia ristretta, Pinhasov ripercorre la vita personale e pubblica del carismatico rabbino, decisore, guida spirituale e politica in una chiave originale che getta luce sulla sua natura saggia e conciliante.
La vita del Rabbino, scomparso nel 2013, viene ora raccontata in un documentario di Ofer Pinhasov
Nato a Bagdad nel 1920, Ovadia Yosef si trasferì con la famiglia a Gerusalemme già nel 1924, dimostrando subito un’incredibile intelligenza e propensione allo studio della Torà. Nonostante le difficoltà economiche in cui versava la famiglia, proprietaria di un alimentari nel quartiere popolare di Bet Israel, a dodici anni cominciò gli studi presso l’accademia rabbinica Porat Yosef nella città vecchia, per ottenere poi il diploma di rabbino e giudice nel 1940. Pur ricoprendo negli anni cariche ufficiali di grande prestigio, come quella di vice rabbino d’Egitto, decisore dei tribunali rabbinici di Gerusalemme e Petah Tikva, rabbino capo di Tel Aviv e soprattutto di Rabbino capo sefardita di Israele dal 1972 al 1983, rav Ovadia Yosef ha sempre dedicato grande attenzione alla gente comune, tenendo sin da giovanissimo lezioni agli uomini che la sera dopo il lavoro si riunivano nelle sinagoghe di quartiere per ascoltarlo. Il suo cavallo di battaglia era l’Halachà, il complesso delle norme del diritto ebraico, nell’ambito del quale intraprese una vera e propria rivoluzione fondata sul principio di facilitare l’osservanza, invece di renderla più rigorosa del necessario come è ancora oggi in uso presso il mondo ashkenazita ultraortodosso. Con la sua opera instancabile, tradottasi anche nella pubblicazione di decine di importanti volumi, il lungimirante rabbino puntava non solo a riportare prestigio al mondo sefardita orientale, ma anche a unificare quest’ultimo sotto un unico cappello, quello dell’osservanza dello Shulchan Aruch, codice di norme redatto dallo studioso Yosef Caro. Tra le pronunce più importanti del rabbino Ovadia Yosef ci sono quelle che hanno «liberato» le mogli dei soldati dispersi nella Guerra del Kippur, consentendo loro di risposarsi benché non si fosse ritrovato il corpo dei mariti, nonché quelle per la restituzione dei territori occupati in cambio della pace e per lo scambio di prigionieri anche per riportare a casa un solo ostaggio vivo, come nel famoso caso
del soldato Ghilad Shalit, il cui riscatto costò la liberazione di un migliaio di detenuti tra cui il capo di Hamas Yahya Sinwar. Le sue posizioni «pacifiste» dopo la Guerra dei Sei Giorni, ma soprattutto al tempo degli Accordi di Oslo, vennero vissute come un tradimento soprattutto dai sionisti religiosi che manifestarono fuori dalla sua casa esasperando l’amata moglie Margalit, madre dei suoi undici figli, che morì d’infarto nel 1994, verosimilmente provata dalla situazione. L’amore incondizionato per la famiglia, la sincera dedizione al popolo di Israele, la gioia di vivere e la passione per la musica orientale lo resero molto popolare anche tra i tradizionalisti che lui ambiva avvicinare allo studio della Torà. Costretto contro la sua volontà a terminare la cadenza di Rabbino capo, accettò dunque di entrare in politica divenendo il leader spirituale dello Shas che, da partitino in lizza alle elezioni municipali di Gerusalemme all’inizio degli anni 80 sotto la guida di Aryeh Deri, divenne uno dei partiti più importanti, passando da 4 mandati a 17 nel 1999 in seguito alla condanna di Deri per corruzione e frode che gli costarono oltre tre anni di reclusione. L’incriminazione da parte dell’Alta Corte di Giustizia, infatti, venne vissuta dagli elettori come l’ennesimo atto di discriminazione nei loro confronti da parte degli ashkenaziti che, sin dalla fondazione dello stato, hanno relegato gli ebrei sefarditi e orientali a un ruolo marginale nella costruzione dell’identità nazionale. Se, tuttavia, la narrativa dominante individua nello Shas un movimento sociale di elevazione della condizione degli ebrei mizrahìm in particolare ultraortodossi, promotore di un autonomo sistema scolastico e di scuole rabbiniche, negli anni invece di conferire loro potere, il partito ha plasmato i propri elettori su imitazione della società lituana ultraortodossa, in cui gli uomini studiano solo materie religiose, mantenuti dalle mogli e dallo stato, e sono esentati dal servizio militare. Inoltre, mentre Ovadia Yosef aveva mantenuto posizioni di apertura verso la classe dirigente sionista, collaborando fianco a fianco con politici come Begin, Rabin e Peres, Deri ha scelto di cavalcare lo shift a destra entrando nella coalizione di Netanyahu e opponendosi alla leva obbligatoria con posizioni apertamente antisioniste.
A fungere da contraltare alla controversa figura di Deri nel documentario di Pinhasov è la stessa Adina Bar-Shalom, attivista per la pace, sostenitrice del movimento Sinistra di Fede e promotrice dei diritti delle donne allo studio e alla carriera, nonché fondatrice della Miclalà Charedìt di Gerusalemme, primo importante
istituto superiore a conferire lauree a uomini e donne ultraortodossi in diverse discipline. Per quanto la versione di rav Ovadia Yosef promossa dalla sua coraggiosa primogenita, e avvalorata dal sofisticato lavoro di Pinhasov, sia forse a tratti edulcorata, i messaggi politici contro il fanatismo ebraico religioso delle passeggiate sul Mon-
te del Tempio arrivano con un tempismo perfetto, per esempio ricordando al pubblico come il riscatto dei prigionieri di guerra sia un precetto ebraico di fondamentale importanza. Se Bar-Shalom, in quanto donna e dalle vedute «troppo» larghe, risulta spesso scomoda agli uomini dell’ambiente patriarcale da cui proviene, non c’è dubbio tuttavia che l’eredità del padre – che cerca instancabilmente di tener viva, condividendola generosamente con il popolo di Israele affinché resti unito – risuoni come un inno di pace e tolleranza che antepone a tutto il valore sacro della vita. Dal canto suo Deri, uno degli uomini più influenti della scena politica israeliana dopo Netanyahu, pur presentandosi nel documentario come «uno di famiglia», dal proprio padre spirituale sembra aver assorbito ben poco, come dimostra il fatto che sino a oggi si sia ben guardato dal rischiare la poltrona a favore del ritorno degli ostaggi.
Il rabbino Ovadia Yosef se n’è andato da questo mondo il 7 ottobre 2013, all’età di 93 anni, lasciando il Paese orfano di un leader che abbia a cuore il bene dell’intera collettività ebraica facendo da collante. A Israele la scelta di quale dei due eredi incoronare.
Il Rabbino Ovadia Yosef (a destra); still dal documentario di Ofer Pinhasov.
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Meno diseguaglianze e più rispetto per lo Stato
Gran Bretagna ◆ Un’enorme sfida per Keir Starmer: sebbene il Paese non sia sull’orlo di una guerra civile, come andava affermando Elon Musk durante i primi giorni dei riots, la situazione è tesa e lo scontento generalizzato
Cristina Marconi
Possono arrivare altre notizie, i titoli diventano altri, ma una tragedia come quella di Southport, con il suo dolore e le sue conseguenze, non è di quelle che si possano dimenticare. A nemmeno un mese dall’uccisione di tre bimbette, Bebe King di 6 anni, Elsie Dot Stancombe di 7 e Alice da Silva Aguiar, di 9 anni, da parte di un diciassettenne, il Regno Unito non smette di ragionare su quello che è avvenuto e sui terribili disordini che sono seguiti. Il re Carlo è andato a visitare una comunità che deve riprendersi dal trauma, dal dolore, esprimendo «simpatia e empatia», e ha ricevuto a Clarence House le famiglie delle tre piccole vittime. Ha anche ringraziato le forze dell’ordine per aver saputo spegnere l’incendio dei riots, nati dalla strumentalizzazione della rabbia da parte dell’estrema destra, con la complicità dei social media, dei politici irresponsabili e, sostengono gli esperti, anche di un consistente contributo da parte della Russia. Ma non solo: da un’infelicità nazionale che occorre affrontare su ogni piano.
Gli omicidi avvenuti il 29 giugno durante un corso per bambini a tema Taylor Swift, ha dato il via a una serie di disordini in diverse città dell’Inghilterra
Tutto è cominciato quando, la mattina del 29 giugno, un giovane ha fatto irruzione in un edificio dove si stava svolgendo un corso di yoga e danza per bambini dedicato al mondo di Taylor Swift. Il ragazzo, armato di un coltello, si è avventato sui presenti, uccidendo tre bimbe e ferendo altri 8 minori e 2 adulti, tra cui l’insegnante di yoga. Lo sconcerto è stato enorme, «sembra di essere in America», aveva dichiarato un vicino alle televisioni, ma già in serata il dolore aveva preso una piega diversa do-
po che un sito, Channel3Now, aveva rivelato un nome e un cognome falsi per l’attentatore, scrivendo che si trattava di un richiedente asilo arrivato su una piccola imbarcazione sulla Manica un anno prima. Nigel Farage, leader di Reform Uk fresco di elezione a Westminster, ha pubblicato un video in cui lasciava intendere che le autorità non stessero dicendo la verità sull’autore della strage, rinfocolando teorie del complotto che hanno portato decine di persone ad assaltare una moschea e a compiere azioni violente. Per questo in via del tutto eccezionale, e considerando che il colpevole della strage avrebbe compiuto 18 anni la settimana successiva, il giudice ha deciso di rivelare la sua identità: Axel R., figlio di immigrati ruandesi, nato a Cardiff.
Keir Starmer, il premier, ha avuto tutti gli strumenti per affrontare una situazione che per lui era un déjà vu: da procuratore capo, aveva già gestito i riots del 2011, quelli che dall’uccisione di un uomo nero da parte della polizia a Tottenham avevano portato giovani e meno giovani a saccheggiare negozi e a mettere in grave subbuglio il Paese. La ricetta allora era stata quella di far lavorare i tribunali giorno e notte in modo da assicurare condanne rapide e esemplari per i colpevoli, in grado di dissuadere gli altri dal seguire il pericoloso esempio. Da Downing Street, Starmer è riuscito a fare la stessa cosa, evitando proclami populisti come l’annuncio di misure speciali: nel giro di cinque giorni, la sua tecnocrazia giudiziaria ha permesso alla situazione di rientrare. Nel frattempo ci sono stati flash mobs di violenza inaudita nei confronti di immigrati, di alberghi utilizzati per ospitare richiedenti asilo e della polizia stessa. Sono finiti davanti ai giudici ragazzini di 12 anni, padri di famiglia, gente con precedenti penali e hooligans già noti alle forze dell’ordine. Proprio i disordini allo stadio hanno fornito un modello d’azione
per gli agenti. Starmer è stato universalmente elogiato per la maniera in cui ha risposto a una crisi arrivata a poche settimane dalla sua elezione. Mentre i seguaci di Tony Robinson, fondatore della English Defense League ultraxenofoba e volto di punta dell’estrema destra britannica, mettevano a ferro e a fuoco il Paese, cittadini normali si organizzavano per rimettere ordine nelle strade e per manifestare contro il razzismo. Gli stessi parenti delle vittime, che hanno ricevuto condoglianze da tutto il mondo e sono stati contattati in privato da Taylor Swift, hanno lanciato appelli a non strumentalizzare la tragedia e a lasciare loro lo spazio per vivere il loro lutto atroce in pace. La pace è tornata, ma questo fulmine estivo lascia molto materiale su cui riflettere: le città colpite dai riots sono povere, disperate, deluse dal risultato dell’ultima monumentale
espressione di scontento. Liverpool, Hartlepool, Manchester e non ultima Rotherham, teatro di un’orribile vicenda di abusi sessuali su ragazzine minorenni per mano di uomini pakistani, durato decenni e taciuto troppo a lungo, sono luoghi disperati e Starmer lo sa. La Brexit è un segno di disagio, questi riots, anche spenti, denotano irrequietezza, e sebbene il Paese non sia sull’orlo di una guerra civile, come aveva suggerito un Elon Musk particolarmente attivo nei giorni dei disordini, è importante che le disuguaglianze vengano affrontate. E che il rispetto per lo Stato torni a essere forte, grazie a una politica in grado di amministrare con competenza e equità la cosa pubblica. La polizia è stata al centro delle polemiche durante le prime settimane di agosto per la severità dimostrata nei confronti dell’estrema destra, superiore, secondo i critici, a quella rivolta
verso le minoranze etniche nelle manifestazioni pro-Gaza, ad esempio. Starmer vorrebbe affrontare anche il ruolo dei social media, quella benzina sul fuoco che amplifica tutto quello che non va e crea illusioni, problemi, tragedie. In Pakistan la polizia ha accusato un uomo di aver diffuso notizie false durante i disordini, a riprova di quali siano le implicazioni globali dei problemi locali. Però la retorica stessa dei politici, che per anni hanno accusato gli immigrati di ogni nefandezza e hanno usato un linguaggio disumanizzante, ha preparato il terreno per la situazione attuale. La soluzione non può essere quella di arrestare tutti, e Starmer lo sa, anche perché il sovraffollamento carcerario è un problema anche nel Regno Unito. Bisogna ricucire un Paese, nonostante la crisi economica, le conseguenze della Brexit, le comunità che si guardano di traverso.
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Poliziotti in tenuta anti-sommossa si preparano ad affrontare una manifestazione dell’estrema destra nella città di Newcastle, inizio agosto 2024. (Keystone)
GUSTO
Mangiare al risparmio
Spiedini di carne e peperoni grigliati
Ingredienti per 4 persone
2 spicchi d’aglio
5 cucchiai d’olio di colza
2 cucchiai di succo di limone
1 cucchiaino di sale
1 cucchiaino di paprica
4 bistecche di collo di maiale da ca. 160 g pepe
3 peperoni, ad es. verde, rosso, arancione, giallo Ajvar per servire
1. Schiacciate l’aglio. Mescolatelo con la metà dell’olio, il succo di limone, il sale e la paprica. Tagliate le bistecche a cubetti di 3 cm. Mescolateli con la marinata e condisci con pepe. Lasciate marinare la carne coperta in frigo per ca. 3 ore.
2. Scaldate il grill a 200 °C. Dimezzate i peperoni, liberateli dai semi e tagliateli a pezzettoni. Infilzateli su 8 spiedini. Spalmateli con il resto dell’olio. Conditeli con sale e pepe. Infilzate anche la carne su 8 spiedini. Grigliate gli spiedini da ogni lato a fuoco medio diretto per ca. 10 min. Servite con l’ajvar. Accompagnate con patate, ad es. Country Cuts, cipolle e cetriolini.
40% di sconto
Testo: Claudia Schmidt
Ricetta
Fettine lonza di maiale marinate, IP-Suisse confezione
Pollo al forno con carote
Una pietanza davvero deliziosa: ghiotto pollo al forno con carote, fette di limone e aglio. Il tutto servito con il sugo di cottura e timo fresco.
Alla ricetta
Spaghetti alla bolognese di lenticchie
Una scorta di proteine anche senza carne. Questa versione vegetariana degli spaghetti al ragù bolognese di lenticchie verdi piacerà molto agli sportivi.
Insalata di patate con lenticchie
Ingredienti per 4 persone
600 g di patate novelle piccole sale
½ cucchiaino di carvi
2 scatole di lenticchie nere da 240 g, peso sgocciolato 165 g
2 cucchiai di burro
4 cucchiai d’aceto balsamico bianco
100 g di spinaci per insalata pepe crescione per guarnire
Sciacquate le patate, lessatele con un po’ di sale e un po’ di carvi per ca. 15 minuti. Scolate le lenticchie, sciacquatele e fatele sgocciolare. Scaldate il burro in una padella ampia e rosolate le patate per ca. 5 minuti. Fate attenzione che il burro non bruci. Cuocete brevemente anche il carvi restante. Bagnate con l’aceto. Unite prima le lenticchie e saltatele brevemente, poi gli spinaci e lasciate che si affloscino un po’. Condite con sale e pepe. Servite l’insalata tiepida. Guarnite con il crescione.
Salmone su insalata di barbabietole e mele
Ben speziato e cotto in forno, il salmone servito con barbabietole e mele in insalata è un piatto ideale per essere servito a un brunch d’ispirazione nordica.
Alla ricetta
g, da 2 pezzi Fr. 1.30 invece di 1.90
di
con pelle M-Classic dalla Norvegia confezione speciale da 4 pezzi
g Fr. 12.95 invece di 22.–
Quattro consigli per risparmiare
Sfrutta le offerte
Le azioni sono buone occasioni per fare scorta, soprattutto di alimenti che consumi spesso come pasta, riso e legumi, ma anche di farina e zucchero.
Congela
I polli in offerta sono due, ma per la tua famiglia sono troppi? Cucina un pollo e congela l’altro. Così ne avrai già uno in casa per il tuo prossimo menù.
Prepara porzioni più grandi Gli avanzi sono deliziosi nonché ottimi da portare in tavola rapidamente. Prepara una porzione in più. Così il prossimo pasto sarà già pronto. Riso, pasta o patate possono essere cucinati in dosi superiori al necessario. In questo modo hai già pronta la base per un’altra pietanza, ad esempio uno sformato o il riso fritto.
Cucina da te Invece di acquistare ad esempio l’hummus già pronto, puoi prepararlo in casa. Come per l’hummus, puoi fare molti altri piatti. Prova! Così risparmi tanti soldini e in genere produci anche meno rifiuti da imballaggio.
Alla ricetta
Ricetta
Patate Patatli Svizzera
Pollo intero Optigal Svizzera
pezzi, a libero servizio, al kg Fr. 5.95 invece di 9.95
Garofalo
Filetto
salmone
Il Mercato e la Piazza
Basta che non debba pagarlo io!
Quando, più di trent’anni fa, insegnavo management pubblico, solevo uscire con gli studenti a fare un test, direttamente dalla strada, sulle opinioni degli elettori-contribuenti riguardo la spesa pubblica e il modo in cui la si doveva finanziare. Indipendentemente da dove ci trovavamo – in un villaggio del Gros de Vaud o in una cittadina sulle rive del lago Lemano –il comportamento degli elettori-contribuenti era abbastanza uguale: una larghissima maggioranza era d’accordo che il Comune nel quale abitavano aumentasse la spesa per questo o quello scopo; una altrettanto larghissima maggioranza non voleva però essere chiamata a finanziare questi aumenti. Interrogati sul cosa si dovesse fare, le risposte erano praticamente solo due: gli aumenti li paghi il Cantone, o si incrementi il debito pubblico. Insomma: tutti sono per un aumento della spesa degli enti pubblici a patto che non si-
Affari Esteri
ano chiamati a finanziarlo o a rinunciare a prestazioni di cui già godono. Questo comportamento continua ad essere di attualità. Non solo, ma nel corso delle ultime settimane, sembra addirittura aver contagiato i partiti presenti nel nostro Parlamento nazionale. Sono due le discussioni che mi inducono a pensarlo. La prima concerne naturalmente il finanziamento della tredicesima dell’AVS. I nostri politici potrebbero scegliere tra un aumento dei contributi che vengono prelevati sui salari delle persone che lavorano, un aumento del carico fiscale per certe categorie di popolazione (per esempio incrementando l’IVA), una riduzione di altre poste della spesa della Confederazione, o un aumento dell’indebitamento dell’AVS o della Confederazione, dei Cantoni e dei Comuni. Ovviamente è possibile anche trovare una formula che combini in un qualche modo queste misure. Sappiamo ora
che il Consiglio federale avrebbe deciso di proporre di finanziare la tredicesima dell’AVS aumentando i tassi di imposizione dell’IVA. L’IVA è un’imposta indiretta che, in ultima analisi, viene pagata dai consumatori. Come dire che i pensionati, acquistando beni e servizi, si finanzieranno, quasi senza accorgersene, una parte della loro tredicesima. Sembra che questa sia la soluzione che più facilmente potrebbe passare lo scoglio di una votazione popolare. Staremo a vedere! La seconda discussione concerne la spesa per la difesa. Al contrario della tredicesima per l’AVS in questo caso non esiste una decisione dell’elettorato di aumentare la spesa per il nostro esercito. Esiste comunque, a livello parlamentare una larga maggioranza di deputati che, non solo approvano, ma reputano indispensabile tale aumento. Stiamo parlando in questo caso di qualcosa come 4 miliardi di franchi in più per la difesa, da
di Angelo Rossi
spendere nei prossimi 4 anni (posto che gli strateghi del nostro esercito siano in grado di farlo). Il problema è dove andare a trovarli. In questo caso, almeno per il momento, sembra che si escluda la possibilità di finanziare l’aumento della spesa con un aumento delle imposte (dirette o indirette che siano). Le alternative in discussione sono da un lato la possibilità di effettuare risparmi sulla spesa corrente della Confederazione. Parliamo però di miliardi e sappiamo quindi che sarà difficile trovarli senza sacrificare, parzialmente o totalmente, prestazioni che sono sempre molto visibili a livello di campagne elettorali come, per esempio, quelle per la politica sociale. Anche in questo caso ci sarebbe stata la possibilità di aggiungere qualche percento all’IVA. Ma qualcosa sembra non aver funzionato nelle discussioni tra i partiti, per cui ecco che la ministra responsabile del dossier è ritornata, a
Il vero passaggio di consegne: da Hillary a Kamala
Alla convention di Chicago il Partito democratico americano ha portato unità e gioia, i dissapori e la brutalità che hanno stravolto una campagna presidenziale mesta e amara sono rimasti soltanto nei commenti aciduli di chi pensa che Kamala Harris, candidata alla Casa Bianca a novembre, sia soltanto una bolla – inopinatamente trionfalistica per di più. La famiglia dei democratici si è riunita festosa allo United Center – il palazzetto da 20mila persone dove giocano anche i Chicago Bulls: all’ingresso c’è una statua di Michael Jordan – ha ringraziato Joe Biden, il presidente che ha fatto un sofferto e straordinario passo indietro, e ha mostrato questa sua nuova faccia più giovane e più progressista che quando urla «futuro» risulta finalmente credibile. Harris si è presentata sul palco il primo giorno per salutare e per ringraziare Biden: era raggiante, con il suo ormai iconico sorriso e l’aria così spontanea e naturale che sembra aver contagiato tutto il partito, tanto
Zig-Zag
che la fretta con cui si è dovuto rifare tutto da capo dopo il ritiro di Biden è sembrata un ricordo. Poi gli altri speaker le hanno costruito la strada verso l’ultima serata, quella della nomina ufficiale del ticket candidato alle presidenziali, mentre lei ha continuato i suoi comizi in giro per il Paese. Uno dei discorsi più belli lo ha pronunciato la prima sera Hillary Clinton, sconfitta da Donald Trump nell’elezione scioccante del 2016, per anni traumatizzata da quella batosta, rancorosa anche, e ora finalmente riabilitata da una standing ovation calorosa e commossa, che ha lavato via, per quanto possibile, decenni di ostilità nei suoi confronti. Dopo otto anni, quel che accadde a Hillary Clinton è finalmente apparso nitido: una candidata annichilita dalle teorie del complotto trumpiane, dalle manipolazioni trumpiane, dalle ingerenze straniere pro trumpiane – un metodo che nel tempo si è affinato e che oggi viene usato contro Kamala Harris. Cer-
to, l’America è spaccata e il voto per Donald Trump non è soltanto l’esito di un approccio eversivo alla politica, ma la dittatura di rabbia e vendetta come strumenti di potere è un prodotto puramente trumpiano che ha tenuto l’ex presidente saldo al comando di un Partito repubblicano che ha smesso da tempo di provare a recuperare la propria vocazione moderata.
Hillary Clinton è stata la prima a subire quel metodo di cui abbiamo preso consapevolezza in seguito alla sua sconfitta (e nemmeno subito). Sul palco di Chicago, interrotta da applausi continui, lei ha detto: «Dopo il 2016, ci siamo rifiutati di rassegnarci rispetto all’America, milioni di persone hanno protestato, alcuni si sono candidati, abbiamo tenuto gli occhi fissi sul futuro. Bene, amici miei, il futuro è qui».
Hillary Clinton ha tracciato una linea tra la sua esperienza e quella di Kamala Harris, ha detto che non c’è nulla di sorprendente nel modo con cui Trump prende in giro Harris, il suo no-
me, il suo modo di ridere – «sounds familiar», ha detto Clinton: applauso – ma qualcosa è cambiato, c’è un’energia nuova, si sente ed è ovunque. La linea dritta per Clinton ha a che fare con la possibilità che gli americani possano eleggere la loro prima presidente donna; ha citato il diritto di voto per le donne, l’emancipazione, le madri – la sua e quella di Harris – e i loro consigli: se fossero qui oggi, ha detto, ci direbbero «keep going». Clinton ha anche parlato del famoso soffitto di cristallo da mandare in frantumi: ci aveva provato, aveva fallito, ma oggi tra le crepe di quel soffitto «vi vedo», ha detto, perché sono profonde. Kamala Harris non gioca molto la carta della presidente donna – cosa che invece Clinton aveva fatto, ma le elettrici non si mobilitarono per lei – perché è rischiosa e perché ha scelto un’altra strategia, fatta di riscatto della classe media, di promesse per una qualità della vita migliorata, di lotta alla diseguaglianza e di
metà agosto, ad avanzare una sua vecchia proposta: quella di creare un fondo per finanziare l’aumento di spesa previsto. Ma questa proposta era già stata bocciata dal Consiglio federale prima di partire per le vacanze estive. Così alla commissione per la sicurezza del Consiglio nazionale, nella sua seduta di metà agosto, non è restato che rifiutare il progetto. Siamo in una situazione di stallo politico, avverte più di un commentatore, dalla quale non si può uscire che facendo appello all’elettorato. Tenendo presente l’esperienza di cui riferivo all’inizio, possiamo anticipare come una votazione del genere andrà a finire. Per un aumento significativo della spesa per la difesa nazionale esiste sì un largo consenso; ma l’unica proposta di finanziamento che potrebbe raccogliere una maggioranza in votazione popolare sarà purtroppo quella di aumentare ulteriormente il debito pubblico.
diritti in un senso più ampio, per tutti. Resta un passaggio del testimone potente tra due candidate, un rapporto che si è consolidato nel tempo, dietro le quinte, in cui le invidie hanno lasciato il passo a un cambiamento generazionale – Hillary ha 76 anni, Kamala 59 – e di approccio: Harris bada a ogni dettaglio proprio come Clinton, ma la differenza sta nell’assenza di rigidità, nella capacità di far sembrare naturale anche ciò che è costruito e studiato. La lezione di Hillary Clinton sta non soltanto nella linea dritta tra candidate, ma nella disciplina e nella serietà: Kamala Harris ci aggiunge la vivacità, l’energia, e la consapevolezza che nel 2016 quasi non c’era, perché Trump sembrava un accidente della storia destinato a scomparire nelle urne: la vittoria non è scontata, assieme ai rancori, i democratici hanno lasciato a casa il trionfalismo. Hanno scelto di mostrare un partito vivo, combattivo, che guarda avanti e non indietro, e che quando ride fa molto sul serio.
Cara redazione, frequento saltuariamente le dimore di almeno due giornalisti (uno ex-direttore di «Azione») e questa dimestichezza mi suggerisce di cercare nei lettori un po’ di comprensione. Avrete letto o sentito parlare dell’idea di una Associazione svizzera per la protezione del clima di proporre una moratoria per i gatti: la castrazione non basta più; vogliono impedire la crescita della popolazione felina anche con divieti di importazione e freni all’allevamento. La motivazione addotta è quella di far calare la produzione del cibo per gatti che starebbe generando, secondo gli ambientalisti, emissioni dannose per il clima. In aggiunta – ed è questo che mi preoccupa maggiormente – la moratoria attacca il forte istinto di caccia dei gatti che, sempre secondo le solite stime «a spanna», in Svizzera cause-
rebbe ogni anno la perdita di 30 milioni di uccelli e di mezzo milione di rettili e anfibi. Vabbè, ammetto che qualche lucertola ogni tanto finisce come trofeo anche nel mio soggiorno e di aver avuto un’attrazione forte verso i passeri, ma da qualche anno mi sono imposto dei limiti: mi sono specializzato in avèrle,quei piccoli passeracei che tornano da noi in maggio dai loro quartieri invernali in Africa. Perché le avèrle? La mia risposta è ferma: perché sono uno dei killer più spietati che il regno animale (uomo compreso) tollera senza fiatare. Anzi: BirdLive Svizzera è arrivata al punto di proporre l’avèrla come «uccello protetto» del 2020! A chi non mi crede indico il brano di una rivista specializzata, scelta per garantire un parere neutrale: «L’avèrla piccola si nutre principalmente di cavallette,
grilli, coleotteri, ragni, bombi, vespe e piccoli vertebrati. Quando ha abbastanza cibo, infilza una parte delle sue prede sulle spine di arbusti per avere cibo di scorta quando la disponibilità di prede sarà ridotta, per esempio durante i giorni di pioggia. In Ticino è conosciuta con i nomi dialettali di “Stregazzöla”, “Strangòzzula” o “Gazòt”». Ecco, anch’io sono una sorta di «equalizer» ambientale: combatto questo «Jack lo squartatore alato» delle siepi perché, oltre a eliminare piccoli animali, è uno dei maggiori responsabili della sparizione di insetti importanti per l’ecosistema. Ma ad animalisti e difensori dell’ambiente questi dettagli sfuggono. Quanto alle emissioni dannose per il clima, sarebbe interessante conoscere perché chi le combatte abbia scelto come vittime i gatti e non al-
tri animali domestici fortemente dipendenti dal cibo che i loro padroni acquistano. A proposito di salvaguardia dell’ecosistema, l’altro giorno, sulla scrivania di uno dei giornalisti che frequento, ho visto la fotocopia di un articolo di ForumFinanza online con questo titolo fantozziano: «Il peto e il surriscaldamento del pianeta». Penserai che io voglia citare Silvano Toppi che per Ferragosto, da naufrago ospite del blog di Aldo Sofia, ha trattato il problema dei gas emessi dai bovini. Quisquilie! L’articolo sbirciato prende in esame addirittura l’essere umano, colpevole di rilasciare da 0,5 a 1,5 litri di gas al giorno! Più ancora impressiona la conclusione dell’inchiesta: un uomo, in sostanza, inquina come una vettura diesel che ogni giorno percorre 100 km! Normale che gli ecologisti si dicano «sempre più preoccupati per
il pesante intervento esercitato dalla nostra specie sull’importante ciclo biogeochimico dell’azoto». Sarà quindi l’uomo il nuovo bersaglio degli ambientalisti senza riguardo nemmeno per i propri adepti? Mentre ci pensavo ho notato che a tener ferma la fotocopia c’era la bomboletta di un potente insetticida, usato contro le zanzare. Ecco come finire la mia arringa in difesa dei gatti: consigliare agli studiosi che si occupano della scienza del sistema Terra di lanciare una moratoria mondiale contro le zanzare. Quella sì che sarebbe una «gattata»! Cari redattori di «Azione», alla speranza che concederete spazio alle mie accorate argomentazioni sul vostro giornale unisco viva cordialità. Ah, mi presento: sono Pedro, soriano di via Corte a Pregassona, killer ormai vicino alla pensione.
di Ovidio Biffi
di Paola Peduzzi
Aromi perfetti per momenti
A Bayreuth con Wagner
In dirittura d’arrivo il grande Festival tedesco, che quest’anno ha preso il via con Tristano e Isotta del regista islandese Thorleifur Örn Arnasson
Investigazioni d’antan
A colloquio con la scrittrice, archeologa e docente Ben Pastor, che ambienta il suo nuovo libro nell’epoca dei Promessi Sposi di Manzoni
L’uomo di Vangi tra inquietudine e speranza
Mostre ◆ Fino all’8 settembre allo Spazio Officina si può riscoprire l’artista toscano, amico stretto di Mario Botta
Alessia Brughera
Giuliano Vangi ci ha lasciati pochi mesi fa, alla fine di marzo. Aveva appena compiuto novantatré anni, ottanta dei quali dedicati all’arte. Il maestro fiorentino, nato nel 1931 a Barberino di Mugello, è stato uno dei protagonisti del panorama artistico contemporaneo sin da quando, negli anni Cinquanta, forte della sua solida formazione impostata sulla grande tradizione plastica, si pone già come figura originale rispetto al contesto del tempo.
E difatti, quando, nel 1967, si tiene la sua prima mostra a La Strozzina di Palazzo Strozzi a Firenze, curata da Carlo Ludovico Ragghianti, la sua arte non allineata con la scultura figurativa di colleghi quali Marino Marino o Giacomo Manzù né con quella astratta di nomi quali Alberto Viani o Fausto Melotti si presenta agli occhi di pubblico e critica come un linguaggio carico di novità.
A renderla tale erano state la validità degli insegnamenti del mentore Bruno Innocenti negli anni di studio fiorentini, la sperimentazione stilistica durante il soggiorno in Brasile, l’eccellente conoscenza dei materiali nonché la profonda vocazione di Vangi a coniugare il lascito del passato alle esigenze della modernità. Un’inclinazione, questa, che ha fatto sì che la sua scultura affondasse le radici nel mondo antico, in particolare nella statuaria greca e in quella gotica, per poi volgere lo sguardo a Donatello e all’ultimo Michelangelo, quello della Pietà Rondanini. Solo così ha potuto acquistare una sua precisa identità, arricchendosi anche con il confronto con maestri quali Adolfo Wildt, Auguste Rodin ed Émile-Antoine Bourdelle, senza dimenticare Henry Moore e Alberto Giacometti, il primo fondamentale per Vangi per la monumentalità plastica dei suoi lavori, il secondo per la forte componente esistenziale che contraddistingue tutta la sua produzione.
La forza evocativa delle opere di Vangi risiede nella capacità del maestro fiorentino di rappresentare l’uomo tra inquietudine e speranza
In questo percorso ricco di suggestioni, Vangi riesce a definire una modalità espressiva peculiare fondata sull’essere umano, soggetto privilegiato delle sue indagini artistiche: «L’uomo con tutte le sue debolezze e le sue grandezze, le sue malinconie e le sue gioie» è al centro di una ricerca volta a sviscerarne i valori fondanti, i moti dell’animo e il destino. Tutta la scultura di Vangi mira proprio a questo, ad afferrare la forma umana per riconsegnarcela intrisa di un profondo sentimento vitale, di un impulso che sgorga dalla
consapevolezza di una condizione esistenziale desolante e che sa superarla per raggiungere una dimensione di fiducia nel futuro.
La forza evocativa delle opere di Vangi risiede nella capacità del maestro fiorentino di rappresentare l’uomo tra inquietudine e speranza attraverso un linguaggio che non solo va oltre la distinzione tra figurazione e astrazione ma che recupera il classico modus operandi del mestiere dello scultore. Non è un caso, dunque, che nel processo creativo di Vangi il disegno rivesta un ruolo fondamentale, diventando strumento imprescindibile per la realizzazione plastica. Per Vangi non c’è scultura senza disegno: un concetto che trova le sue radici nella tradizione rinascimentale, di cui l’artista sente forte l’eredità e di cui vuole farsi novello interprete, riaffermandola nella contemporaneità.
La mostra allestita presso lo Spazio Officina a Chiasso, a cura di Marco Fagioli e Nicoletta Ossanna Cavadini con progetto di allestimento di Mario Botta, si focalizza proprio sui disegni di Giuliano Vangi, presentando una selezione di lavori che va dal 1944, anno in cui l’artista incomincia a eseguire i primi schizzi accademici, fino al 2024, anno della sua scomparsa. Trattare per la prima volta in senso antologico il tema del disegno è stato importante anche per Vangi stesso, che prima di venire a mancare ha partecipato con entusiasmo all’ideazione della rassegna scegliendo scrupolosamente tutte le opere da esporre. Quanto per Vangi il disegno fosse importante lo attesta la grande quantità di elaborati grafici realizzati durante l’intero arco della sua attività di artista. Lo dimostra anche il fatto che nel suo atelier di Pesaro le pareti fossero sempre completamente ricoperte di schizzi e bozzetti, cambiati di continuo, quasi a rappresentare una sorta di racconto in presa diretta del suo lavoro. Il disegno è sempre stato per Vangi l’atto primigenio del proprio pensiero, il passaggio indispensabile tra l’idea e la sua attuazione, andando a incarnare quella delicata fase in cui l’artista indaga l’opera cercando una soluzione ai tanti quesiti formali. Per questo il disegno non è mai stato per lui un mero accessorio della scultura, bensì una ricerca espressiva che possiede una sua autonomia e che si presenta nella sua compiuta totalità. Questa convinta riaffermazione del primato del disegno di matrice umanistica conduce Vangi a sperimentare numerose tecniche, dalla china all’acquarellatura a seppia e a sanguigna, dalla matita grassa alla lumeggiatura a biacca, e a utilizzare differenti tipi di carta, da quella filigranata a quella giapponese fino alle più semplici carte da pacco e da riporto. Nel percorso espositivo chiasse-
se, dopo la splendida scultura Uomo con canottiera, del 2016, che campeggia all’entrata a ricordarci la maestria raggiunta dall’artista, troviamo i disegni degli anni Quaranta, già forieri dell’abilità artistica di Vangi e della sua capacità di rappresentare i soggetti ritratti cogliendone appieno i tratti psicologici e rendendone con accuratezza i dettagli anatomici. Il segno è ora quello più morbido della matita, ora quello più deciso della china. Nel decennio successivo il disegno di Vangi mostra un’attenzione maggiore verso temi dalle forti implicazioni emotive e con il trasferimento dell’artista in Brasile, nel periodo in cui nel Paese sudamericano si afferma l’idealismo positivista di Oscar Niemeyer, la sua produzione vira verso l’astrattismo, complice la frequentazione dell’architetto Mendes da Rocha.
Si tratta però solo di una breve parentesi, questa, poiché appena rientrato in Italia, nel 1962, Vangi ritorna alla figurazione contrapponendosi con fierezza al dilagare della corrente informale e dell’astrazione espressionista. Dai disegni di questi anni si evince la volontà dell’artista di sviscerare l’animo umano in tutte le sue
sfaccettature. Emblematici in tal senso sono i Ritratti di uomo in manicomio e Uomo nel cubo, dove il tratto a china risulta essere molto disinibito.
Un segno più insistito e un chiaroscuro più contrastato denotano i disegni realizzati negli anni Settanta e Ottanta, con Vangi interessato sempre più all’indagine della forma. Ecco poi le opere degli anni Duemila in cui emergono nuovi soggetti legati a tematiche ambientali e al delicato rapporto tra uomo e natura. Tra queste ci colpisce Studio per Katrina, un disegno dall’atmosfera apocalittica e potentemente visionaria.
La mostra non manca di presentare anche un nucleo di lavori in cui Vangi si confronta con diverse tecniche incisorie, tra cui l’acquaforte, l’acquatinta e la puntasecca, raggiungendo risultati di grande suggestione anche per le notevoli dimensioni di queste opere. Quello della grafica incisa è un capitolo importante per Vangi, testimonianza dell’attitudine alla sperimentazione che ha sempre contraddistinto l’artista e di un’ineccepibile perizia tecnica accompagnata da una ricerca creativa sorprendente.
La rassegna di Chiasso trova un prosieguo a Villa Pontiggia a Bre-
ganzona, nel cui parco sono presenti stabilmente due monumentali sculture di Vangi e dove, in occasione della mostra, nel padiglione ligneo disegnato da Mario Botta è stata collocata l’opera in acciaio Jolanda. Questa sezione è espressione del rapporto tra Vangi e il Canton Ticino, una relazione che parte dalla profonda amicizia che ha legato il maestro fiorentino all’architetto Botta, due anime affini unite tra loro da uno spirito d’impronta rinascimentale che ha saputo recuperare il carattere umanistico dell’arte. Soprattutto attraverso il disegno.
Mercoledì 4 settembre, alle ore 20.30, avrà luogo la proiezione del film Fra la terra e il cielo, Mario Botta. Chiesa a Seriate presso il Cinema Teatro di Chiasso.
Dove e quando
Giuliano Vangi: il disegno. Spazio Officina, Chiasso. Fino all’8 settembre 2024. Orari: martedì-domenica 10.00-12.00/14.00-18.00. www.centroculturalechiasso.ch La sede della mostra a Villa Pontiggia è accessibile su prenotazione: info@maxmuseo.ch
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Giuliano Vangi, Donna seduta. Collezione dell’artista, Pietrasanta.
(Foto Stefano Buonamici)
Play it again, Richard!
Opera ◆ Il Festival di Bayreuth è un ponte tra passato, presente e futuro
Sabrina Faller
Tristano e Isotta un momento dello spettacolo (Enrico Nawrath)
Con una nuova produzione di Tristan und Isolde che ha diviso in pro e contro sia il pubblico sia la critica, ha preso il via – ed è ormai in dirittura d’arrivo – l’edizione 2024 del Festival di Bayreuth, che rimane per molte ragioni un evento unico al mondo. Non ci sono state novità tecnologiche come l’anno scorso per Parsifal, da vedere con gli speciali occhiali per la realtà aumentata, ma il regista islandese Arnarsson è riuscito comunque a prendersi, come da tradizione, i doverosi «buu», sebbene non si trattasse di una regia particolarmente audace. Certo, i due protagonisti non bevono il filtro alla fine del primo atto, lo beve solo Tristan alla fine del secondo, e non è filtro d’amore ma di morte. Si nascondono nella stiva, invece di scendere dalla nave, ma queste in fondo sono piccolezze, considerando che di simili varianti è pieno oggi non solo il Regietheater ma anche – almeno saltuariamente – il teatro d’opera di ogni dove. Una delle caratteristiche di Bayreuth è quella di costruire per il proprio pubblico uno stuolo di interpreti che ne diventano i beniamini grazie alla loro fedeltà al festival dove si ripresentano in più ruoli. Fra questi Andreas Schager, tenore austriaco nei panni di Tristan, che veste anche quelli di Parsifal e che l’anno scorso abbiamo applaudito come Sigfrido. Dei tre ruoli Tristan è quello che gli riesce meno bene, ma il pubblico lo applaude comunque, e lo stesso fa con Camilla Nylund che oggi è Isolde, ma è stata anche Elisabeth in Tannhäuser. Gli applausi non mancano neppure al direttore d’orchestra russo Semyon Bichkov e alle tre direttrici che quest’anno occupano il podio di Bayreuth: l’ucraina Oksana Lyniv, prima donna a salire sul podio del festival nel 2021 a dirigere Der Fliegende Holländer, produzione di notevole successo, grazie anche alla regia dell’esperto Dmitri Tcherniakov; la magnifica Nathalie Stutzmann che dirige il bel Tannhäuser di Tobias Kratzer e si è fatta apprezzare anche dal pubblico che ha affollato il Festspielpark in luglio per i due concerti all’aperto offerti alla città con un programma non solo wagneriano.
A dirigere il contestato Ring di Valentin Schwarz c’è infine Simone Young. Il teatro di Richard Wagner nasce come teatro sperimentale, continua ad esserlo nel dopoguerra e la direttrice artistica Katharina Wagner, in carica dal 2009, riconfermata quest’anno fino al 2030, prosegue fedele a questa tradizione. Le è stato tuttavia imposto un general manager per frenare le spese di produzione, tanto più che le spese aumentano e le sovvenzioni del governo federale diminuiscono, come ha annunciato lo scorso anno la ministra tedesca della cultura Claudia Roth, che di recente si è fatta nuovamente notare per il suo «consiglio» di proporre in cartellone anche opere di altri autori, suggerendo Hänsel e Gretel di Humperdinck. Questo nell’ottica di ampliare il pubblico «giovane». L’evento dedicato ai bambini Wagner für Kinder, voluto da Katharina, che propone ogni anno l’adattamento di un’opera di Wagner per il pubblico infantile, sta avendo in effetti un crescente successo.
In questi quindici anni la pronipote di Wagner ha perseguito un processo di «denazificazione» del festival
Consideriamo per un attimo le novità portate in questi quindici anni dalla pronipote del compositore Katharina Wagner. Innanzi tutto la determinazione con cui ha perseguito il processo di «denazificazione» del festival, evidente nella mostra permanente Verstummte Stimmen che dal 2012 si può visitare nel parco del Festspielhaus e che raccoglie i nomi e le biografie di cantanti, direttori d’orchestra e musicisti allontanati dal festival in quanto ebrei dalla moglie del compositore Cosima Wagner (morta nel 1930) fino alla caduta del Terzo Reich. Oltre all’attenzione per il pubblico infantile, in sintonia con quanto accade nei teatri d’opera di tutto il mondo nella speranza di garantirsi il sospirato ricambio generazionale, oltre al ritorno dei concerti all’aperto, Katharina ha voluto dare
Caos disciplinato
Poesia ◆ La raffinata giocosità di Mercure Martini
Manuel Rossello
Un piccolo e benemerito editore-stampatore locarnese, il quale confeziona ancora i libri con la perizia e la dedizione di un tempo (quasi fosse la filiale ticinese del leggendario Tallone di Alpignano), ha da poco dato alle stampe una sorprendente raccolta poetica (CTRL + ALT + DELEUZE. 99 Snippet Quatrains), il cui autore risponde al nome di Mercure Martini. Egli, ancora giovane e benché restio all’autopromozione, è stato invitato a presentare la sua raccolta sia alle Giornate letterarie di Soletta sia a Poestate. I suoi più diretti riferimenti poetici, per quello che posso dire, vanno nella direzione della raffinata giocosità e si richiamano ad autori come Tomaso Kemeny, ma anche al guizzo ironico di Valentino Zeichen o alla musicalità di Giorgio Caproni. A tratti le quartine si riallacciano ai territori della slam poetry (a volte li sfiorano), della poesia automatica, della poesia visiva, del caviardage, del limerick o del graffitismo («E se il tuo muro fosse la tua tela?»).
In ogni caso lo statuto è incerto, la sua arte a rischio d’incomprensione: «Sono un poeta postmoderno? /o resto nel solco della tradizione?»; «Non scrivo manifesti di una nuova/avanguardia, /ma nemmeno mi ri-/conosco nella linea lombarda».
spazio a registi giovani e spericolati come Valentin Schwarz, classe 1989, che con il Ring ha anche affrontato il suo primo Wagner. Gli spettatori si sono trovati confrontati con un allestimento che necessitava dell’ascolto di un podcast per capire cosa il regista avesse in mente. Ma accanto a regie difficili se ne possono ricordare altre di successo, come quella di Barrie Kosky per Die Meistersinger von Nürnberg (2017) che ha messo d’accordo critica e pubblico pur non essendo per nulla convenzionale. Del resto, se si vuole proporre un teatro innovativo, come era nelle intenzioni del suo fondatore, occorre prendersi dei rischi e Katharina Wagner lo sta facendo con convinzione e coraggio. Il problema del calo nella vendita di biglietti non si risolve mettendo in cartellone altri autori, che in ogni caso per statuto è quasi impossibile rappresentare all’interno di un festival interamente dedicato all’opera di un solo compositore. Lontani sono i tempi in cui si doveva aspettare dieci anni per ottenere due biglietti per uno spettacolo qualsiasi. Oggi i biglietti si comprano online senza particolari problemi. Diversi i fattori che hanno determinato un cambiamento così radicale: la possibilità del video streaming e delle differite tv, la pandemia con le sue chiusure obbligate che ha cambiato le abitudini delle persone, gli allestimenti talvolta indigesti per un pubblico non sempre disposto a tutto. Quest’anno le vendite sono andate meglio ed è lecito aspettarsi una ripresa anche per i prossimi anni.
Per il 2025 è previsto infatti il ritorno di due grandi direttori d’orchestra: Daniele Gatti, che inaugura il festival con il nuovo allestimento di Die Meistersinger von Nürnberg, e Christian Thielemann che torna a dirigere Lohengrin. Per il 2026, in occasione dei 150 anni di festival, è prevista l’inaugurazione con l’opera giovanile di Wagner Rienzi, mai approdata finora sul palcoscenico di Bayreuth. E ciò potrebbe far affluire un più folto pubblico verso la Collina Verde. (www.bayreuther-festspiele.de)
razione in nuce. Non sono pochi gli esempi di micronarrazioni compiute, che nell’insieme costituiscono un canzoniere e dove l’io si mette in scena e produce una performance sfrenata che cancella i limiti tra serio e faceto. Se tutto è gioco, allora il poeta diviene un puer aeternus, giocoliere del linguaggio e sempre a rischio di cadere in balia del proprio divertimento.
In questa prospettiva è indicativo il recupero della rima nella sua funzione quasi euristica. È un crinale stretto, dal quale è facile scivolare nelle cadenze di tanta rimeria fanciullesca. Ma il gioco consiste proprio nel rivivificare moduli delegittimati dai «poeti laureati».
Le quartine sono designate con il termine snippet, che può essere tradotto come frammento ma anche come «anteprima». L’immagine calzante non è solo una metafora, è una poetica. Secondo tale principio un frammento iniziale (uno snippet appunto) si autogenera in ogni direzione stabilendo via via una solidarietà tra le sue parti. Ma come sanno i botanici, le radici rizomatiche tendono a colonizzare indefinitivamente il terreno. Bene ha fatto perciò l’autore a fermarsi a novantanove componimenti, numero emblematico della non finitezza.
Le quartine (il libro ne conta novantanove) procedono essenzialmente per endecasillabi e ottonari. Ma si tratta di un’approssimazione perché l’autore si concede frequenti violazioni prosodiche con inserzioni di settenari (anche doppi), novenari o versi ipermetri. Disinvoltura determinata da ritmo e sonorità che spesso prendono il sopravvento sul metro. È un gioco sapiente, che infrange le regole per assecondarle subito dopo. Ogni pezzo è preceduto da un criptico titolo-sommario, il quale tuttavia rientra a pieno titolo nel corpo del componimento, benché l’addensarsi di riferimenti non sia sempre intelligibile. All’estremo opposto troviamo spesso una pointe, tipica dell’andamento epigrammatico e aforistico.
Terminata la lettura, la somma delle quartine produce l’effetto di una moltitudine che include il caos, l’eros, il demoniaco e l’estatico. In ogni caso un caos disciplinato dalla competenza letteraria (l’autore è docente di italiano), da una cultura cosmopolita e da vaste letture che si percepiscono in filigrana. Ma il tocco è sempre leggero, scattante, qualcosa che ricorda il free jazz. Lo swing di Martini si spiega ricorrendo al concetto di duende, un estro che avvince ballerine di flamenco, toreri e alcuni poeti e musicisti. Un’energia fatta di leggerezza, per metà demoniaca e per metà angelica.
Ma se la quartina è una misura agile che si presta allo scatto epigrammatico, al tempo stesso è una massa critica sufficiente per costruire una nar-
Se riferendosi alla poesia della Svizzera italiana non è improprio intravvedere una (prestigiosa) linea predominante che per comodità può essere etichettata come «linea Orelli-Pusterla», Mercure Martini si colloca su tutt’altro fronte, non di antagonismo ma certamente di alterità venata da una irriducibile vena parodistico-giocosa, desacralizzante, funambolica. Se c’è un indizio minimo ma significativo che distingue le due posizioni, questo è senz’altro, in Martini, l’assenza quasi totale dell’enjambement, cioè l’effetto di dissonanza ottenuto facendo collidere prosodia e sintassi. Altra differenza è il recupero della vituperata cantabilità (non più in auge almeno a partire da Montale), funzionale all’esito ludico-parodistico. Eppure la tradizione agisce sotterraneamente perché, nemmeno troppo nascosti, si possono reperire almeno due indizi di discendenza prettamente orelliana: a p. 16 martora, probabilmente l’emblema più potente – e inerme – del poeta leventinese; e poi spiracoli (p. 54), vocabolo prezioso che fa da titolo alla raccolta del 1989. Forse l’intento di Mercure Martini è parodico, ma come era solito ripetere Guglielmo Gorni nelle sue lezioni ginevrine, la parodia è uno splendido modo, seppure eccentrico, di omaggiare un modello.
Bibliografia
Mercure Martini, CTRL + ALT + DELEUZE. 99 Snippet Quatrains, Locarno, Il Verziere, 2024
Imballaggi
Foglio di alluminio
Protegge in modo affidabile dalla luce e dall’umidità. Ecco perché gli alimenti così confezionati si mantengono freschi a lungo. Inoltre l’alluminio è resistente al calore e può essere usato anche per grigliare o cuocere al forno.
Da evitare: non imballare mai gli alimenti acidi e salati, come ad esempio il limone e la feta, nel foglio di alluminio. Essi reagiscono infatti con l’alluminio e possono assorbirlo. Il servizio per i consumatori tedesco lo ritiene potenzialmente pericoloso per la salute. Inoltre il foglio di alluminio non deve essere usato nel forno a microonde, perché potrebbe prendere fuoco.
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Pellicola salvafreschezza
In linea di principio la pellicola salvafreschezza presenta gli stessi vantaggi dell’alluminio. Si tratta di un materiale elastico e trasparente, per cui il contenuto è sempre visibile. La pellicola salvafreschezza è adatta anche per congelare i cibi.
Da evitare: la plastica non è resistente al calore e quindi non va messa nel forno. Inoltre la pellicola salvafreschezza non è indicata per il formaggio. Questo alimento infatti ha un odore forte e deve respirare, ma nella pellicola salvafreschezza non può. 1
Alluminio, plastica o carta: cosa è meglio usare per cosa
Esistono svariate pellicole e tipi di carta che puoi usare in casa. Come e quali avanzi di cibo imballare e cosa evitare assolutamente
Testo: Barbara Scherer
Sacchetto con zip
I sacchetti di plastica sono pratici, perché basta riempirli con gli alimenti e chiuderli. A differenza della pellicola salvafreschezza, è possibile
conservarvi anche alimenti liquidi. I sacchetti sono comodi pure per altri usi, non solo in cucina, come ad esempio per conservare i cosmetici.
Da evitare: i sacchetti provvisti di zip non sono sempre del tutto ermetici e impermeabili. Come la pellicola salvafreschezza, non resistono al calore né sono adatti alla conservazione del formaggio.
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Carta cerata
La cera non rimane attaccata agli alimenti ed è adatta come alternativa alla pellicola salvafreschezza. Il grande vantaggio: la carta è riutilizzabile. Ci si può conservare il formaggio, perché la carta cerata è traspirante.
Da evitare: la carta cerata non è resistente al calore e non va quindi messa vicino al forno o al grill. Inoltre lascia passare gli odori. Mettendoci ad esempio le cipolle o l’aglio, l’odore può diffondersi nel frigorifero.
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Carta da forno
La carta da forno è pensata per proteggere le teglie, non per imballarvi gli avanzi. Può anche essere usata per impastare o marinare carne e verdure. In questo modo si sporca meno la superficie di lavoro della cucina facilitandone la pulizia.
Da evitare: la carta da forno è resistente al calore, ma non oltre i 220 gradi circa. Oltre questa temperatura, è meglio usare il foglio di alluminio. Anche la carta da forno non deve essere usata nel forno a microonde, perché potrebbe prendere fuoco.
Bene imballato
Come salvare Renzo e Lucia dopo I promessi sposi
Incontri ◆ L’ultimo romanzo di Ben Pastor è un thriller che riparte dal capolavoro di Alessandro Manzoni
Blanche Greco
Ogni epoca ha i suoi misteri e i suoi detective e nessuno lo sa meglio di Ben Pastor che argutamente nei suoi libri, crea gli uni e gli altri, a cominciare dal suo nome. Verbena Volpi Pastor, archeologa e per più di trent’anni docente universitaria negli Stati Uniti, risolse le difficoltà della pronuncia americana legate al suo nome tagliandolo in due e creandosi così un alter ego letterario «baffuto» e adesso famoso. Infatti dopo una serie di racconti polizieschi per importanti riviste americane del settore, è diventata una nota scrittrice di best seller e, lasciato il Vermont, vive attualmente nell’Oltrepò Pavese dedita alle sue storie gialle e ai suoi detective. L’ultimo di questi temerari investigatori ha una missione quanto mai pericolosa: salvare Renzo e Lucia i protagonisti de’ I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, di nuovo al centro delle fatalità del destino quando Bernardino Visconti, l’Innominato, viene assassinato sui monti sopra Lecco da ignoti, e loro, che si erano salvati dalle sue grinfie per miracolo divino, finiscono nel mirino della polizia. Molti sono gli intrighi dell’ultimo romanzo di Ben Pastor, La fossa dei Lupi, continuazione ideale del capolavoro Manzoniano e affresco storico affascinante e godibile che inanella storie, colpi di scena e personaggi con un linguaggio raffinato e ironico. Abbiamo incontrato Ben Pastor a Firenze in occasione della manifestazione le Piazze dei libri dove ha presentato La fossa dei Lupi e l’abbiamo intervistata.
Ha avuto qualche dubbio prima di decidere di affrontare Alessandro Manzoni e creare un thriller dal suo romanzo più famoso?
Amo le sfide e anche se ero conscia delle difficoltà di questa impresa, mi sosteneva il ricordo del piacere provato quando da ragazzina, avevo letto I promessi sposi. Inoltre in questi ultimi anni c’è chi vorrebbe togliere lo studio di questo romanzo dalle scuole italiane perché lo ritiene antiquato e difficile per i tanti ragazzi stranieri che adesso le frequentano: una vera sciocchezza. Già siamo una nazione a rischio dell’anima e dell’identità, perché non condividere con chi viene da noi questo romanzo che ci racconta, in quanto italiani? In fondo se immaginiamo i personaggi di Manzoni in abiti moderni ecco che I promessi sposi, diventa un affresco dalla portata universale e sin troppo attuale!
Allora niente è cambiato dal 1628 ad oggi?
Tutto è cambiato, ma forse non abbastanza. I «Bravi» sono una banda criminale e il «ratto» a fini abietti come lo stupro, c’è forse più di trecento anni fa. Stiamo ricostruendo una sorta di società ingiusta e prevaricatrice, cosa che nel 1600 era normale, come racconta Manzoni.
Chi dice che questo libro non parli più di noi?
Lei di solito scrive in inglese, ma stavolta ha dovuto tornare alla lingua dei suoi padri?
È stato proprio così. Manzoni – che Mary Shelley tentò per prima, di tradurre in inglese per poi concludere che «non poteva essere fatto» – scriveva con questo ampio e spiritoso ritmo di sestine che per me è stato una sorta di melodia ispiratrice, soprattutto per le conversazioni tra i personaggi. Milano all’epoca era sotto agli spagnoli e perciò tutto si svol-
geva nell’ambito di una cultura italo-spagnola che ancora adesso fa un po’ parte della mia famiglia, grazie a un passato di matrimoni misti di cui si trova traccia anche nel linguaggio famigliare. Io volevo rappresentare anche linguisticamente, in maniera filologica, quello che Manzoni aveva fatto, per dare un seguito credibile alla vita di «quei due poveretti», come li chiamava lui che era un aristocratico e poi uno scrittore.
A condurre le indagini è il giovane luogotenente di giustizia Diego Antonio de Olivares, che ci riserva più di una sorpresa in una Milano seicentesca che lei ha dovuto ricostruire?
Il capitolo ricerche è stato vasto, emozionante e faticoso. Mi ci sono voluti un paio d’anni per conoscere il diciassettesimo secolo, «el siglo de oro» per gli spagnoli e per «trovare» la Milano, seicentesca che non esisteva quasi più già agli inizi del 1900. Persino le chiese, duomo compreso erano state rimaneggiate. Perciò ho dovuto cercare le antiche mappe e le descrizioni dei luoghi dell’epoca. Mi è stato prezioso un ponderoso testo svizzero di cartine del cinque-seicento legate alla guerra dei trent’anni, alle guerre di religione in Svizzera, ma anche con la Francia, e non solo. E poi ho riletto Lope de Vega, famoso letterato spagnolo dell’epoca, e una moltitudine di piccoli libri pubblicati in Spagna sul secolo d’oro e dove ho trovato le informazioni più bizzarre: sulla moda, i tessuti, i colori, le fogge degli abiti, e poi le superstizioni, la religione nonché il sistema giuridico e poliziesco dell’epoca, dove la pazienza dell’investigatore e la tortura applicata regolarmente, supplivano alla mancanza di tecnologie e moderno sapere, come il DNA.
Il suo romanzo conquista anche per la vivacità delle descrizioni, dettagliate e realistiche, ma cosa ha scoperto nelle ricerche, che cosa l’ha stupita di più?
Ad esempio la diffusione all’epoca del «Buon Dormire», rimedio che conteneva oppio in modo massiccio e veniva usato per il «malfrancese», ossia la sifilide, ma anche per stordire le donne da conquistare contro la loro volontà. Oggi la chiameremmo «droga dello stupro». Mi ha sorpreso anche il modo d’intendere il peccato, all’epoca considerato più grave, o più leggero dalla religione a seconda della casta del peccatore. C’era chi poteva divorziare, separarsi, fare una
vita libera, e risposarsi subito dopo il funerale del coniuge, ma per il popolo era tutt’altra storia. Quanto alle donne, oltre alle «monacate per forza» esistevano «le pericolanti»: donne senza marito, né fratelli; o orfane, che finivano di forza nei «depositi», a cucire e ricamare per l’aristocrazia sperando che qualcuno sposandole, le togliesse di lì. Mentre le donne ricche potevano diventare delle studiose colte e sapienti come la mia Donna Polissena.
Un’immagine di Ben Pastor.
È il suo alter ego nel romanzo?
Vorrei essere attraente e giovane come lei! Ma in realtà è quel tipo di donna che, come dice Olivares: «Sa chi è.» Lei ci è arrivata presto, molto prima di me che ho avuto bisogno di anni e anni. Comunque ci si arriva sempre. Ognuna di noi, in fondo, «sa chi è».
Attraverso i suoi personaggi maschili lei racconta con gusto come si corteggia, si fa carriera, o si cade
in disgrazia. Sono gli uomini i suoi preferiti?
Olivares, il mio investigatore è giovane, intelligente e puro di cuore e, in quel 1628, in cui Milano sta uscendo dai lutti della peste, ci fa da guida tra galantuomini e farabutti dove c’è chi smania per feste e grandezze, e chi sogna solo un piatto di zuppa. Ma è vero, con i personaggi maschili mi diverto, sono spesso più facili da capire, hanno meno autodifese delle donne e possono essere sbucciati come frutti. Poi ci sono le donne, croce e delizia di Olivares a cominciare da Donna Sebastiana, la madre.
Diego Antonio de Olivares è il suo terzo detective, qual è il suo preferito?
Il più famoso è sicuramente Martin Bora, è stato il primo e attualmente sto scrivendo una delle sue avventure. Ma c’è anche Elio Sparziano, investigatore del IV secolo dopo Cristo, al quale sono molto affezionata. Poi viene Diego Antonio de Olivares, poliziotto, investigatore, giovane uomo attento alle regole, intelligente e moralmente onesto, insomma uno come piace a me, perciò penso che lo rivedrò presto.
Bibliografia
Ben Pastor, La fossa dei lupi Milano, Mondadori, 2024
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Raccard Nature IP-SUISSE in blocco extra o a fette, in confezioni speciali, per es. in blocco extra, per 100 g, 1.35 invece di 2.25, prodotto confezionato
di 19.40
12.95 invece di 22.–
Filetti di salmone con pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, in conf. speciale, 4 pezzi, 500 g, (100 g = 2.59)
Tutto l'assortimento di pellicole e sacchetti, Kitchen & Co. per es. pellicola salvafreschezza n° 11, il pezzo, 2.20 invece di 3.60
Settimane del risparmio?
2.15
1.50
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Ancor più risparmio
a partire da 3 pezzi 33%
Gallette al mais e gallette di riso alle mele, Lilibiggs, gallette di riso allo yogurt e gallette di riso al cioccolato, M-Classic (prodotti Alnatura e mini tondelli di riso con cioccolato al latte esclusi), per es. gallette di riso integrale M-Classic con cioccolato al latte, 100 g, –.85 invece di 1.20
2.95 invece di 5.90 Capri Sun Multivitamin, Multivitamin Zero o Monster Alarm, 10 x 200 ml, (100 ml = 0.15) conf. da 10 50%
8.50 invece di 15.35 Fruit Mix Sugus in conf. speciale, 1 kg, (100 g = 0.85) 44%
Per risparmiare sui lavaggi
Tutti i detersivi Elan (confezioni multiple e speciali escluse), per es. Spring Time, in conf. di ricarica, 2 litri, 6.50 invece di 12.95, (1 l = 3.24)
2 + 1
7.–
invece di 10.50
Shampoo Johnson's Baby in conf. multipla, 3 x 300 ml, (100 ml = 0.78), 2 + 1 gratis
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Salviettine umide per bebè Milette, FSC® in conf. multipla, per es. Sensitive, 3 x 72 pezzi, 6.50 invece di 9.75, 2 + 1 gratis
3.60
invece di 5.40
Prodotti per la doccia I am in conf. multipla, per es. Milk & Honey, 3 x 250 ml, (100 ml = 0.48), 2 + 1 gratis 2 + 1
Dal nostro forno
Fagottini di spelta alle pere Migros Bio, bastoncini alle nocciole o fagottini alle pere per es. fagottini di spelta alle pere Migros Bio, 3 pezzi, 225 g, 2.80 invece di 3.50, prodotto confezionato, (100 g = 1.24) a partire da 2 20%
Viva la stagione dei vermicelles!
Tutte le coppette ai vermicelles per es. 95 g, 2.– invece di 2.50, (100 g = 2.11) 20%
4.40 invece di 6.30
Berliner con ripieno ai lamponi in conf. speciale, 6 pezzi, 420 g, (100 g = 1.05) 30%
Michette e panini al burro precotti M-Classic, IP-SUISSE per es. panini al burro, sacchetto da 600 g, 4.95 invece di 6.20, (100 g = 0.83) 20%
Senza glutine
20x
Novità
4.50
Croissant aha! 4 pezzi, 200 g, prodotto confezionato, in vendita nelle maggiori filiali, (100 g = 2.25)
CUMULUS
a partire da 2 pezzi 30%
20%
Pomodori Migros Bio e Demeter per es. pomodorini datterini Migros Bio, Svizzera, vaschetta da 300 g, 4.20 invece di 5.30, (100 g = 1.40)
Pesto alla genovese Agnesi
185 g, 2.75 invece di 3.90, (100 g = 1.48)
Produzione tradizionale della pasta madre con 6 ore di lievitazione
20x
Novità
3.50
Pane di segale integrale con lenticchie Migros Bio
300 g, prodotto confezionato, in vendita nelle maggiori filiali, (100 g = 1.17)
Avocado Perù, il pezzo 24%
1.10
invece di 1.45
20%
Tutti i funghi champignon (prodotti bio e Demeter esclusi), per es. bianchi, Svizzera/Paesi Bassi, vaschetta da 250 g, 1.90 invece di 2.40, (100 g = 0.76)
Salmone affumicato Migros Bio d'allevamento, Norvegia, in conf. speciale, 180 g, (100 g = 6.64) 30%
invece di 17.10
1.25 invece di 1.65
Cetrioli Ticino, al pezzo 24% Trota dalla Svizzera 11.95
Trote intere M-Classic d'allevamento, Svizzera, in conf. speciale, 2 pezzi, per 100 g 30% Lavata e pronta consumoal
2.90 Insalata California 400 g, (100 g = 0.73)
2.20 invece di 2.95 Uva Americana Italia, 500 g, confezionata, (100 g = 0.44) 25%
1.95
Lattuga Iceberg Migros Bio Svizzera, al pezzo 22%
invece di 2.50
2.10
invece di 3.–
4.95
invece di 6.20
Filetti di sogliola limanda freschi pesca, Oceano Atlantico nord-orientale, per 100 g, per es. M-Classic, pesca, Oceano Atlantico nord-orientale, per 100 g, in self-service 20%
10.95
invece di 15.90
Bastoncini di merluzzo Pelican, MSC prodotto surgelato, 2 x 720 g, (100 g = 0.76) conf. da 2 31%
Migros Ticino
Gusto succoso e sapore intenso in azione
4.75
Bratwurst Migros Bio Svizzera, 2 pezzi, 280 g, in self-service, (100 g = 1.70) 20%
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8.45
Carne secca dei Grigioni Migros Bio, IGP Svizzera, in conf. speciale, 100 g 20%
invece di 10.60
3.25 invece di 4.40
Salametti a pasta grossa prodotti in Ticino, in conf. da 2 pezzi, per 100 g 26%
1.45
invece di 1.95 Fleischkäse affettato finemente IP-SUISSE in conf. speciale, per 100 g 25%
Migros Ticino
Migros Ticino
Formaggi e latticini
Grandi bontà a piccoli prezzi
1.40 invece di 1.75
dolce e aromatico per 100 g, prodotto confezionato 20%
Formaggio di montagna disponibile in diverse varietà, ca. 250 g, per es. formaggio dei Grigioni piccante bio, per 100 g, 2.30 invece di 2.90, prodotto confezionato 20%
2.10 invece di 2.50 Sbrinz AOP per 100 g, confezionato 16% 2.60 invece di 3.25 San Gottardo Prealpi per 100 g, confezionato 20% 7.20 invece di 8.50
Con latte svizzero di montagna
Büscion di capra 200 g, (100 g = 3.60) 15%
Migros Ticino
Migros Ticino
Dolci e cioccolato
Originali e buonissimi
22%
Bastoncini alle nocciole, zampe d'orso o schiumini al cioccolato, M-Classic in conf. speciale, per es. bastoncini alle nocciole, 1 kg, 6.95 invece di 9.–, (100 g = 0.70)
conf. da 9 30%
7.75 invece di 11.10
Kägi Fret
9 x 50 g o 3 x 128 g, per es. 9 x 50 g, (100 g = 1.72)
28%
Kägi des Alpes milk o dark, in conf. speciale, per es. milk, 180 g, 5.95 invece di 8.35, (100 g = 3.31)
Specialità di wafer con ripieno di crema al cioccolato
conf. da 5 27%
Toblerone Milk o White in conf. speciale o in conf. multipla, per es. Milk, 5 x 100 g, 10.30 invece di 14.25, (100 g = 2.06)
Pregiata selezione di specialità svizzere da forno
a partire da 2 pezzi –.60 di riduzione
Tutti i biscotti Créa d'Or per es. Florentin, 100 g, 2.80 invece di 3.40
Snack e aperitivi
Ecco gli snack della settimana
Per chi va di fretta
Tutto l'assortimento Thomy per es. senape dolce, 200 g, 1.80 invece di 2.30, (100 g = 0.90) 20%
variante mediterranea di insalata Anna's Best
Tutti i sughi Agnesi per es. pesto alla genovese, 185 g, 2.75 invece di 3.90, (100 g = 1.48)
Pizze dal forno a legna Anna's Best prosciutto & mascarpone o mini al prosciutto, in confezioni multiple, per es. prosciutto & mascarpone, 2 x 420 g, 9.95 invece di 13.90, (100 g = 1.18)
conf. da 2
L’ideale per il corpo e
Fazzoletti di carta o salviettine cosmetiche, Linsoft, FSC® in conf. multiple o speciali, per es. fazzoletti di carta, 56 x 10 pezzi, 4.70 invece di 7.10 33%
Fazzoletti o salviettine cosmetiche Kleenex, FSC® in conf. multiple o speciali, per es. Collection in scatola quadrata, 4 x 48 pezzi, 6.50 invece di 9.80
a partire da 2 pezzi
Tutto l'assortimento di cosmesi decorativa L’Oréal Paris (confezioni multiple escluse), per es. mascara Volume Million Lashes Panorama, nero, il pezzo, 17.50 invece di 24.95
Tutto l'assortimento I am (confezioni multiple e da viaggio escluse), per es. shampoo Intense Moisture, 250 ml, 1.40 invece di 1.95, (100 ml = 0.56) a partire da 2 pezzi 30%
Profumo fresco fino a 48 ore Fazzoletti di carta extra morbidi e resistenti allo strappo
Fazzoletti Tempo, FSC® in conf. multiple o speciali, per es. Classic, 42 x 10 pezzi, 7.80 invece di 11.75 33%
5.30)
Colorazioni per capelli Schwarzkopf Brillance 869 castano o 878 castano cenere scuro, il pezzo
Prodotti per la cura del viso e del corpo nonché saponi per le mani, I am in confezioni multiple, per es. sapone per le mani Milk & Honey in conf. di ricarica, 2 x 500 ml, 4.55 invece di 6.50, (100 ml = 0.46)
Prodotti convenienti per i più piccoli
Latte di proseguimento e Junior, Aptamil (latte Pre, latte di tipo 1 e Confort esclusi), per es. Junior 12+, 800 g, 20.– invece di 24.95, (100 g = 2.50)
aggiunta di zuccheri, per bebè dai
Tutte le bustine morbide bio Holle per es. Banana Lama Demeter, 100 g, 1.60 invece di 1.95
Cose pratiche per casalinghi e casalinghe
Efficace anche con lavaggio a freddo
Detergente o igienizzante per lavatrice, Dettol per es. igienizzante, 2 x 1,5 litri, 15.90 invece di 19.90, (1 l = 5.30) conf. da 2 20%
20% Calgon per es. gel, 3 x 750 ml, 19.95 invece di 29.85, (100 ml = 0.89) conf. da 3 33% 20.95
Tutti i detersivi per capi delicati Yvette (confezioni multiple e speciali escluse), per es. Wool & Silk in conf. di ricarica, 2 litri, 9.60 invece di 11.95, (1 l = 4.78)
Smacchiatore Vanish in conf. multiple o speciali, per es. spray pretrattante Oxi Action, 2 x 750 ml, 13.90 invece di 19.90, (100 ml = 0.93)
Carta igienica o salviettine umide, Soft in conf. multiple o speciali, per es. Comfort Recycling, 30 rotoli, 13.75 invece di 19.85 30%
Smacchiatore Vanish Oxi Action in polvere fucsia o bianco, in conf. speciale, 2.4 kg, (1 kg = 8.73)
a partire da 2 pezzi
Tutto l'assortimento di stoviglie Kitchen & Co. in porcellana e in vetro (prodotti Hit, bicchieri e bicchieri da tè esclusi), per es. tazza verde, il pezzo, 3.50 invece di 4.95
29.5 cl, disponibili in verde, rosso o grigio, il pezzo
Di tutto un po’ e a buon prezzo
Tutto l'assortimento di biancheria intima femminile Thinx for All Period Better per es. slip super assorbente, nero, il pezzo, 14.95 invece di 24.95
Tutto l'assortimento di alimenti per gatti Vital Balance per es. Sensitive al tacchino, 450 g, 3.65 invece di 4.60, (100 g = 0.81)
invece di 9.95 Minirose M-Classic, Fairtrade disponibili in diversi colori, mazzo da 20, lunghezza dello stelo 40 cm, il mazzo
Prezzi imbattibili del weekend
da questo giovedì a domenica
40%
Tutti i pannolini Pampers (confezioni multiple escluse), per es. Premium Protection, tg. 1, 24 pezzi, 5.85 invece di 9.75, (1 pz. = 0.24), offerta valida dal 29.8 all'1.9.2024 a partire da 3 pezzi
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2.40 invece di 3.50 Uva bianca Migros Bio, senza semi Italia, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.48), offerta valida dal 29.8 all'1.9.2024
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3.50 invece di 5.90
Entrecôte di manzo Black Angus M-Classic, al pezzo Uruguay, in conf. speciale, per 100 g, offerta valida dal 29.8 all'1.9.2024