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Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Dubitare troppo di noi stessi è dannoso per la salute psicofisica, la professoressa Susan Krauss Whitbourne ci spiega perché
Ambiente e Benessere L’infettivologa ed epidemiologa Luigia Elzi spiega il «gioco delle parti» fra sistema immunitario e agenti patogeni, fra coronavirus e vaccinazione
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 20 settembre 2021
Azione 38 Politica e economia La Nato serve agli Usa per controllare la facciata europea e mediterranea dell’Eurasia però...
cultura e Spettacoli Al Museo San Materno di Ascona le opere del pittore tedesco Fritz Overbeck
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Le fiabe nascono nella realtà
di Sara Rossi Guidicelli pagina 5
Roma in tempo d’elezioni di Alessandro Zanoli Luigi si era ripromesso, proprio nel periodo più scuro e spaventoso del lockdown, l’anno scorso, di tornare a Roma. Chissà perché nel momento in cui sembrava impossibile ogni prospettiva di un futuro «normale», per lui, il senso della liberazione dall’incubo veniva dall’idea che sarebbe tornato a visitare la capitale italiana. A fare da sottofondo, più o meno inconsciamente, erano certo alcune letture goethiane applicabili alla reclusione pandemica («io conto di essere nato una seconda volta, d’essere davvero risorto, il giorno in cui ho messo piede a Roma», diceva il poeta tedesco). Ma chi ci è stato lo sa. È essenzialmente una questione di luce, di convivenza tra architettura e antropologia, tra l’arguzia popolaresca e il sussiego protocollare che animano le vie e le piazze, a rendere così speciale Roma. Quasi un emblema della vitalità e della storia. L’idea del viaggio non dev’essere stata solo sua. Oggi le strade della città sono un pullulare di turisti che albergatori e operatori definiscono solo «soddisfacente». «Ci mancano i visitatori d’oltre-
oceano» lamentano alcuni, ma girando per le vie del centro viene seriamente da chiedersi dove li metterebbero. «Roma capitale» (questo lo slogan con cui si fregia oggi di fronte al mondo), ben lungi dalle descrizioni catastrofiche che si leggevano sulla stampa negli scorsi mesi, è ordinata e pulita. Nessun cumulo di spazzatura a ingombrare le strade. Nessun segno di degrado e di trascuratezza disturbano il turista nelle vie del centro. L’uso generalizzato del green pass e della misurazione della temperatura rende accessibili in apparente perfetta sicurezza i luoghi da visitare. Addirittura, da turisti elvetici, dopo aver chiesto un po’ di clemenza per aver dimenticato in albergo i documenti personali, ci sentiamo rispondere: «La legge è la legge, signore. Non possiamo fare un’eccezione per lei». L’aspetto interessante di questa visita settembrina di Luigi è che cade in concomitanza con la campagna per le elezioni amministrative, che il 3 e 4 ottobre designeranno il nuovo sindaco. Dopo un quadriennio in cui Virginia Raggi, candidata dei 5Stelle, è stata spesso al centro di forti polemiche (e anche di vicende giudiziarie), nello scenario politico romano ci si interroga su chi possa prendere il suo posto. I partiti sembrano giocare qui una partita stra-
na, guardando alla poltrona del Campidoglio come a una sorta di allenamento per le elezioni politiche italiane dell’anno prossimo. Luigi nota infatti, curiosamente, come i manifesti elettorali riportino essenzialmente l’effigie dei capi di partito e non quella degli aspiranti sindaci. Un’immagine accattivante e rassicurante di Giorgia Meloni, ad esempio, occhieggia dal retro degli autobus sostenendo Enrico Michetti, il candidato di Fratelli d’Italia, verso il quale convergono peraltro i voti di tutto il centrodestra. Su altri autobus (che sembrano essere stati scelti come principale «veicolo» di campagna elettorale) per sostenere lo stesso Michetti campeggia invece un sorridente Matteo Salvini. Gli schieramenti avversari sono decisamente meno visibili. La frammentazione delle candidature fa sì che, a parte qualche piccolo riquadro d’autobus dedicato a Carlo Calenda, il quale ha sparigliato le carte a sinistra, né quella ufficiale di Roberto Gualtieri (sostenuto da Pd e associati), né quella della stessa Raggi godano di altrettanta visibilità. I giochi sembrano già fatti, e nessuno sembra entusiasmarsi per il voto: «Nun hanno fatto gnènte quelli de prima, nun faranno gnènte manco questi», dice il taxista. Ma Roma esiste e resisterà, al di là di tutto.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 settembre 2021 • N. 38
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Società e Territorio Museo Walser Il piccolo museo di Bosco Gurin ha ricevuto il Premio Meyvaert, ne parliamo con la curatrice Cristina Lessmann-Della Pietra
I grotti di cevio Sono oltre sessanta le strutture che formano il nucleo dei grotti di Cevio: cantine e anfratti ricavati abilmente tra le pietre pagina 9
Pet therapy e tanta solidarietà Intervista a Carlo Crocco, presidente della fondazione Main dans la main che ha da poco inaugurato l’azienda sociale Ca.Stella Farm-Camino a Meride pagina 10
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Dubitare di noi stessi è dannoso
Psicologia Pensare a cosa avremmo
potuto fare e a come sarebbe potuta andare diversamente, ci destabilizza. Intervista a Susan Krauss Whitbourne, professoressa emerita di Scienze psicologiche e del cervello all’Università del Massachusetts Amherst
Stefania Prandi Dubitare di noi stessi in continuazione può essere dannoso. Roderci internamente pensando a cosa avremmo potuto fare e a come sarebbe potuta andare diversamente, ci destabilizza. La ruminazione mentale diventa pensiero controfattuale, come viene chiamato in psicologia, quando si continuano a immaginare scenari o situazioni alternative che sarebbero potute succedere, ma non sono avvenute. Uno studio recente dell’Università di Groningen, nei Paesi Bassi, ha dimostrato che le persone ossessionate dai «pensieri improduttivi» mostrano livelli più elevati di depressione e malessere. Al pensiero controfattuale Susan Krauss Whitbourne, professoressa emerita di Scienze psicologiche e del cervello all’Università del Massachusetts Amherst, ha dedicato un articolo appena pubblicato negli Stati Uniti. Professoressa Krauss Whitbourne, come funziona il pensiero controfattuale?
Nel pensiero controfattuale si immagina «il secondo tentativo», cioè si prova mentalmente a fare qualcosa di diverso da ciò che è stato fatto. Si rievoca senza sosta un evento nella propria testa, vedendolo accadere in modo differente.
esistono diversi tipi di pensiero controfattuale?
C’è il pensiero controfattuale «al ribasso», cioè il sentirsi fortunati perché la situazione avrebbe potuto essere peggiore. Se ci si è fatti male da qualche parte, ad esempio si è battuto un dito contro uno spigolo, si riflette sul fatto che, nonostante il dolore, sarebbe potuta andare molto peggio, magari ci si sarebbe potuti slogare una caviglia. Questo tipo di pensiero controfattuale di per sé non è particolarmente problematico, contrariamente a quello «verso
l’alto», che porta a credere che le cose avrebbero potuto essere migliori. Un caso purtroppo molto attuale adesso, negli Stati Uniti, riguarda le persone che dicono che avrebbero dovuto farsi il vaccino contro il Covid-19, invece di rifiutarlo, e adesso stanno morendo o vedono morire i loro cari. Perché il pensiero controfattuale è così dannoso?
Perché quello che è successo non si può cambiare. Nel «pensiero controfattuale autoreferenziale verso l’alto» si rivive un evento negativo autoaccusandosi e si ragiona su quanto le cose avrebbero potuto essere migliori se solo si avesse agito diversamente. Sarebbe invece utile imparare dal passato e dirsi che nel futuro ci si comporterà senza ripetere gli stessi errori. C’è poi un altro caso di pensiero controfattuale, nel quale non si colpevolizza se stessi ma qualcun altro, chi ha provocato il danno. Ma continuare a immaginare le stesse scene nella propria testa non è utile, causa molto dolore. Arrovellarsi ha senso soltanto se si riesce a sviluppare una strategia di adattamento. Quanto tempo può andare avanti un pensiero controfattuale?
Può durare per anni. Può anche non finire mai se non si smette di rivivere l’evento nella propria mente. Ha un impatto negativo sulla salute psicofisica perché il ruminamento mentale include l’autocolpevolizzazione e porta alla depressione. Piangere sul latte versato, per usare un modo di dire efficace, trattiene nel passato. L’unica possibilità di liberarsi è l’accettazione: smettere di accanirsi perché più a lungo coltiviamo un pensiero, più pervade la nostra coscienza, sedimentandosi. Non si può andare indietro nel tempo, conta solo la vita di adesso. ci sono persone più propense a rimuginare?
Sì, secondo alcuni studi, chi dubita di
Rimuginare troppo su ciò che è stato ha un impatto negativo sulla salute psicofisica e trattiene nel passato. (Shutterstock)
sé si focalizza sempre su quello che ha fatto e su come avrebbe potuto agire altrimenti. È una forma crudele di autocritica. Essere troppo duri con se stessi condanna al pensiero controfattuale in modo cronico. Si prova sofferenza per le proprie azioni, ci si sente sbagliati e colpevoli. Perché ci sono persone che si autocolpevolizzano più di altre?
Non è una caratteristica con cui si nasce, ma si sviluppa a causa di fattori o episodi scatenanti. Una volta innescata, in alcune persone diventa uno schema permanente. Molte volte si sviluppano attitudini disfunzionali, chiamate pensieri disadattivi, e si distorcono le interpretazioni degli eventi, in un modo che corrisponde a una propria visione interna. Quando si entra nella spirale è difficile smettere perché si è preda di un ragionamento automatico: qualsiasi evento negativo viene ricondotto a un
presunto sbaglio che si è commesso, si diventa catastrofici, ingigantendo i fatti e vedendoli peggio di quanto siano. È un’attitudine che si può apprendere in famiglia. Succede, ad esempio, quando i genitori incolpano un figlio o una figlia di qualcosa di cui non è davvero responsabile. A quel punto il senso di biasimo può interiorizzarsi. Ma è anche una forma mentis che c’entra col modo in cui la società tratta i gruppi di individui, discriminandone e penalizzandone alcuni. In questo senso, diverse ricerche ci dicono che le donne sono più propense all’autocritica e reagiscono sviluppando disturbi interiorizzati, come ansia, depressione e disturbi ossessivo-compulsivi. Gli uomini, quando hanno problemi di autostima, in genere reagiscono diversamente. cosa si può fare se si è preda del pensiero controfattuale?
Il primo passo è rendersene conto e
capire che si tratta di uno schema da interrompere il prima possibile. Dopo avere acquisito consapevolezza, bisogna dirsi che non si è destinati a essere traumatizzati dall’evento negativo per il resto della propria vita. Magari si può trasformare l’esperienza, facendola diventare una risorsa utile per gli altri, diventando un portavoce di una causa, un’attivista. Inoltre, esiste l’Acceptance and Commitment Therapy, un intervento psicologico e psicoterapeutico con strategie di accettazione e mindfulness che motivano a passare all’azione, modificando il comportamento e incrementando la flessibilità psicologica. La terapia può ridurre il proprio attaccamento al pensiero controfattuale: si trae insegnamento dall’esperienza e la si usa costruttivamente, liberandosi dalla dimensione fantasiosa e cercando di restare nel momento presente.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 settembre 2021 • N. 38
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Nelle fiabe si legge la preistoria
Incontri Nel suo ultimo libro dedicato alle fiabe l’etnolinguista Glauco Sanga ne fa risalire le origini al contatto
e agli scambi tra le società di cacciatori-raccoglitori e quelle sedentarie dedite all’agricoltura Sara Rossi Guidicelli La fiaba magica è quella con l’intreccio: viaggio, prova da superare, premio. Non ha un autore, è stata raccolta da qualcuno (per esempio i fratelli Grimm, Afanasiev, Basile, un etnologo ecc.) che l’ha ascoltata da un informatore che a sua volta l’ha sentita e tramandata. Ci si è sempre chiesti: quando e come sono nate le fiabe? Perché sono così simili nei vari continenti? Di tutti gli studiosi sull’origine delle fiabe, uno in particolare ha usato il metodo storico per scoprire questi misteri: si tratta del ricercatore russo del secolo scorso, Vladimir Propp. Egli ha dimostrato che la fiaba deriva precisamente da due riti preistorici che venivano praticati nelle società di cacciatori-raccoglitori (quindi società che esistevano in ogni continente della terra): il rito dell’iniziazione e il rito funebre, che in parte coincidono. Proviamo a raccontare ciò che succedeva a un ragazzino che viveva fra i cacciatori-raccoglitori di dieci o ventimila anni fa: sappiamo che veniva condotto in una capanna nel folto della foresta dove si inscenava una «morte finta» di lui come bambino e poi la sua «rinascita come adulto». Gli si confidavano i segreti della comunità, gli veniva attribuito un animale guida, dei poteri, delle conoscenze, gli si applicava un marchio (tatuaggio, sfregio, menomazione), lo si faceva passare attraverso la pelle di un animale per renderlo parte del mondo della foresta, perché solo così un cacciatore poteva fare bene il suo mestiere. Poi, all’uscita dalla capanna, egli poteva considerarsi adulto e cioè poteva sposarsi. Abbiamo qui quasi tutti gli elementi della fiaba. Gli altri si trovano nel rito funebre, che perdurerà più a lungo di quello dell’iniziazione.
All’origine delle fiabe ci sono i riti di iniziazione delle tribù di cacciatori che nel tempo divennero materia di narrazione Grosso modo questa è la matrice di ogni storia: il viaggio nel regno dei morti e il ritorno dai vivi con un potere. Questi stessi elementi si ripetono nelle fiabe di tutto il mondo: il distacco dai genitori, il bisogno di partire nella foresta alla ricerca di qualcosa, l’incontro con un animale che aiuta, il dono di un talismano dai poteri magici, la capanna nel bosco dentro la quale c’è una persona anziana a volte buona a volte cattiva, l’essere riconosciuti lì dentro come vivi in un regno di morti («ucci ucci sento odor di cristianucci» per esempio, perché i vivi vengono riconosciuti dai morti per il loro odore), una specie di morte (essere mangiati, rischiare la pelle, subire torture), i pericoli scampati, le prove riuscite e alla fine il ritorno più
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Illustrazione ottocentesca di Cappuccetto Rosso. (Wikipedia)
maturi di prima e con più ricchezze: un regno, una sposa, del denaro. La fiaba nasce quando il rito decade: finché c’è il rito, questo è sacro e inviolabile. Quando non è più essenziale, allora può essere preso, narrato, abbellito, attualizzato, modificato, oggi diremmo «romanzato». Come avviene questo passaggio è tema degli studi dell’etnolinguista Glauco Sanga, che segue le tracce di Propp e fa un passo avanti in un libro di recente pubblicazione: La fiaba. Morfologia, antropologia e storia, Cleup editore 2020. Propp aveva detto che quando gli uomini, cioè molti di essi, hanno cominciato a modificare la propria economia di vita, circa diecimila anni fa, passando da cacciatori-raccoglitori ad agricoltori, essi hanno smesso di praticare il rito dell’iniziazione e hanno cominciato a trovare crudele ciò che invece quelle tribù di cacciatori facevano subire ai ragazzini nella foresta. Non essendo più un rito magico e fondamentale, poteva diventare materia di narrazione cioè da materia religiosa passava a materia artistica. Ma, se nel rito il fatto di passare dentro la pelle di un animale era proficuo per il futuro cacciatore, perché si appropriava dei segreti e della forza di questo animale, nella fiaba l’essere mangiato diventa un problema da risolvere. Si ribalta quindi il bene con il male: la persona che sta nella capanna e conduce il rito piano piano nel racconto spesso diventa nemica: orco, strega o mangiatore di bambini. Glauco Sanga spiega: «Dobbiamo risalire alle prime società che diventano sedentarie; esse non ricordano più
il rito dell’iniziazione come un fatto reale e quindi lo raccontano facendolo diventare “fantastico”, arricchendolo con la fantasia, e via via di bocca in bocca producono migliaia e migliaia di versioni sempre diverse, ma che mantengono solida la struttura: fanciullo, prove da superare, crescita. Io credo però che sia successo anche qualcosa d’altro. Quando l’uomo si è dato all’agricoltura la sua espansione è stata a macchia d’olio; gli archeologi hanno dimostrato che le popolazioni di agricoltori si espandevano perché facevano scorta di cibo, aumentavano il numero di figli, ogni figlio aveva bisogno di una terra da lavorare e faceva figli per avere più braccia e perché poteva sfamarli e così via. Questo non succedeva con le popolazioni nomadi di cacciatoriraccoglitori, che si spostavano per non sfruttare mai del tutto un territorio. Dunque l’agricoltura si espande e spazza via ciò che trova, scaccia e a volte uccide le altre popolazioni che trova sulla sua strada di espansione. Ma non le uccide tutte, né tutte si convertono all’agricoltura. Restano dei “marginali” nella foresta, delle tribù che ancora fino a qualche decennio fa vivevano ai margini della società produttiva come la conosciamo noi. Sono società che ancora vivono di caccia. Si sa che esistevano dei contatti fra queste popolazioni: i contadini a volte prendevano in moglie una donna della società dei cacciatori (non come prima moglie, perché erano considerati esseri inferiori, ma magari come seconda, terza o quarta moglie); c’erano scambi di tipo economico fra i nomadi cacciatori e i sedentari agricoltori, per esempio barattavano farina
contro selvaggina, ferro contro miele. I cacciatori-raccoglitori gestivano le questioni mediche e quelle magiche, conoscevano le erbe della foresta, raccontavano le storie degli spiriti. Potevano controllare gli elementi, ne possedevano i segreti. E io penso che sono stati loro, queste persone che per molto e molto tempo ancora hanno mantenuto il rito, ad averlo raccontato come una storia, un prodotto di intrattenimento. I cacciatori lavorano qualche ora al giorno e forse nemmeno tutti i giorni, la loro grande attività era raccontare. La mia ipotesi è che loro narrassero i propri miti agli agricoltori, perché là fuori non c’era l’interdizione magica che c’era all’interno della loro società. Così sono nate le favole sugli animali e le fiabe di magia. Le donne che andavano spose fra i contadini avranno raccontato del loro mondo ai loro figli sedentari e gli “stregoni” della foresta saranno venuti al villaggio per quello che possiamo immaginare come la prima forma di “spettacolo” di intrattenimento, il racconto di qualcosa di vero, spaventoso, esotico e meraviglioso che accadeva in un regno lontano lontano». Ancora fino agli anni Cinquanta, ricorda il professor Sanga, arrivavano persone da fuori, venivano nelle campagne a raccontare storie, in cambio di un letto e di un pasto caldo. Parlavano una lingua mista, e infatti le fiabe, a differenza delle leggende o delle storie locali, non sono mai interamente in un dialetto riconoscibile, ma nella lingua del viaggio. Le fiabe come le conosciamo sono una delle migliaia di versioni che circolavano al momento della raccolta (o
una fusione di alcune tra le più belle varianti, come per esempio facevano i Fratelli Grimm per fissare su carta le fiabe che ascoltavano «dal popolo»). Le fiabe si possono studiare a strati: un periodo storico dopo l’altro, indietro nel tempo fino ad arrivare al racconto del rito dell’iniziazione che praticavano tutte le società che vivevano di caccia. Se si tolgono gli elementi contadini, medievali, quelli che variano di più da una versione all’altra, restano quelli più antichi, legati alla caccia e al bosco. Questo succede quando si comparano fiabe simili di paesi diversi. Ancora negli ultimi decenni, spiega Sanga, si è potuto studiare popolazioni senza scrittura e distaccate dalle grandi civiltà: esse rappresentavano scene di caccia in cui il capo cacciatore incontra un bufalo che lo porta nel regno dei bufali dove gli viene consegnato un sacchetto con dentro dei poteri magici e così via. Una storia così, molti, moltissimi anni fa, è stata raccontata da generazioni e generazioni di cantastorie e di nonne, girando il mondo, trasformandosi in Cappuccetto Rosso inghiottita dal lupo, Giona o Pinocchio che entrano nella balena, Pelle d’Asino che si avvolge nel pelo dell’animale, I dodici corvi, La principessa rana e un’infinità di altre. Le fiabe sono dunque sì un prodotto culturale e letterario, certamente hanno un’utilità pedagogica nello sviluppo del bambino, e sono prima di tutto belle; ma sono anche il frutto di una tradizione folclorica che testimonia del nostro passato più remoto: costituiscono il filo più preciso e antico che ci collega ai nostri avi delle caverne.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 settembre 2021 • N. 38
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Idee e acquisti per la settimana
Spazio a creatività e fantasia
Mondo giochi Divertimento assicurato con i prodotti Lego Dots da comporre secondo i gusti dei bambini
I fantastici kit di bricolage Lego Dots incoraggiano i bambini a dar libero sfogo alla propria creatività e a mettere da parte per un attimo gli strumenti tecnologici. Questi set fai da te intelligenti permettono di progettare, assemblare e decorare moltissimi utili accessori per la scuola, la scrivania, la cameretta… oppure anche costruire magnifici braccialetti da sfoggiare con amici e parenti. Con il kit Multipack dei bracciali si possono creare bellissimi braccialetti da condividere con i propri amici. Basta aprire la confezione, stendere i bracciali e applicare le decorazioni colorate a pressione. Idee e ispirazioni per realizzare dei gioiellini assolutamente originali sono riportate sulla confezione oppure nel foglietto accluso. Il kit contiene 5 bracciali flessibili in diversi colori, regolabili per adattarsi a qualsiasi polso, e 295 elementi assortiti con tante decorazioni speciali. Con un po’ di fortuna, si può trovare anche il rarissimo elemento decorato con 5 cuori. Incluso nella confezione anche un vassoioperriporreordinatamenteglielementi. Creare la propria scatolina dei segreti personalizzata è facilissimo con il Secret Box. Pensato per un montaggio rapido, questo set contiene un simpatico gatto con le zampe che possono essere usate come portafoto. Il corpo del gatto diventa un portamatite e possiede due scomparti nascosti, oltre a un dispositivo per rimuovere le tessere e tante altre tessere per stimolare la capacità di espressione personale di ogni bambino. Il muso, le orecchie e le gambe del gatto possono anche essere ridisegnati. Il Mega Pack Lego Dots è una vera immersione nel mondo dei colori arcobaleno delle tessere Dots. Si può giocare all’infinito con molti colori e tessere sagomate. Tutte le tessere sono compatibili con altri set Dots venduti separatamente. In questo modo si può cambiare il design ogni volta che si desidera. Il kit contiene oltre 1000 tessere Dots di varie forme e entusiasmanti colori. L’incredibile set Portamatite permette di assemblare e decorare i pannelli del contenitore multifunzionale a forma di
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razzo, per poi usarlo sulla scrivania di scuola o in cameretta. Sul davanti si possono mettere foto o disegni originali, mente sul retro si ripongono le matite e gli articoli di cancelleria. Nella confezione tante idee e spunti interessanti per altri motivi. Il kit è composto da un contenitore multifunzionale con tanto di display e spazio per riporre gli oggetti, oltre che da una miriade di tesserine. Infine, ecco il set Cornici Creative per chi ama le attività manuali. È composto da allegre cornici portafoto per esporre quello che si desidera. Una volta assemblate le cornici, si possono decorare a piacimento e usarle per mettere in risalto disegni, creazioni artistiche e foto. Le cornici sono collegabili tra di loro o esposte separatamente. La confezione contiene tre cornici e molti elementi decorativi per realizzare numerosi design. Buon divertimento!
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È arrivata la selvaggina
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Medaglioni di cervo con porcini e salsa alle erbe
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LA RICETTA
di specialità di cacciagione
Per portare in tavola invitanti manicaretti autunnali, non bisogna andare troppo lontano: alla Migros si trovano infatti molte varietà di selvaggina per preparare le pietanze più disparate. Qualunque siano i vostri gusti, vi aspettano specialità di carne fresca quali cervo (entrecôte, arrosto, filetto, fettine, tartare, racks, luganighetta); capriolo (fettine, sella); selvaggina già pronta sotto forma di salmì di cinghiale, cervo e capriolo; come pure salumi come i salametti (di cervo, capriolo e cinghiale) e carne secca di cervo. Non possono mancare le terrine e i paté ai sapori di stagione; e naturalmente i contorni classici quali spätzli all’uovo, castagne glassate, pere cotte e cavolo rosso. La selvaggina, in generale ha carni tenere, saporite, di profumo gradevole. Il capriolo possiede un sapore lievemente dolciastro, mentre nel cervo è meno pronunciato. È una carne che rappresenta un’ottima fonte di proteine, vitamine B, zinco, fosforo e ferro. Inoltre, è una carne più magra rispetto a quella di manzo o maiale.
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Ingredienti per 4 persone • 600 g di entrecôte di cervo, in un pezzo • 8 fette di pancetta • sale • pepe • 400 g di porcini • 1 dl di brodo di manzo • 1 cucchiaino di zucchero greggio • 1,5 dl di panna intera • 1 cucchiaino d’amido di mais • 2 cucchiai d’erbe aromatiche miste, ad es. timo, origano, salvia
Preparazione Scalda il forno a 60 °C. Taglia il pezzo di entrecôte in 8 medaglioni e avvolgi ben stretto ognuno in una fetta di pancetta. Scalda una padella antiaderente. Accomoda i medaglioni in padella con l’estremità della pancetta rivolta verso il basso per iniziare e rosolali su tutti i lati per ca. 6 minuti. Toglili dalla padella, condiscili con sale e pepe poi coprili e lasciali riposare in forno. Pulisci i porcini e tagliali a pezzi grossi. Rosolali a fuoco medio nella stessa padella della carne, nel grasso rimasto, per ca. 5 minuti. Sala, pepa, togli i funghi dalla padella, coprili e tienili in caldo. Sempre nella stessa padella porta a ebollizione il brodo con lo zucchero. Mescola bene la panna con l’amido di mais poi incorpora la miscela al brodo. Lascia sobbollire la salsa finché lega. Spezzetta finemente le erbe o tritale e incorporale alla salsa. Condisci con sale e pepe. Servi la carne con i funghi e la salsa alle erbe. Ideale con cavoletti di Bruxelles, spätzli o riso.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 settembre 2021 • N. 38
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Società e Territorio
Uno scrigno di cultura tra le montagne Museo Walser A Bosco Gurin la «casa della memoria» del popolo di lingua germanica che dal Vallese
ha colonizzato mezza Europa ha ricevuto il prestigioso Premio Meyvaert. Ce ne parla la sua curatrice Mauro Giacometti Ci vuole coraggio, amore per la montagna e un pizzico di follia per vivere tutto l’anno a 1500 metri, fuori dal mondo, immersi nella natura selvaggia e spesso ingovernabile ad allevare bestie, tagliare fieno, foraggio, coltivare granaglie, disboscare angoli di foreste – e poi ripiantare gli abeti abbattuti – per costruirsi una casa che sappia resistere al caldo dell’estate, ai temporali, al vento e soprattutto al gelo dell’inverno e alle valanghe, che da queste parti sono rare ma devastanti (un centinaio le vittime nel 1695 e nel 1749, le valanghe più violente che distrussero mezzo paese). Questa testardaggine contadina la si respira in ogni angolo di Bosco Gurin, un comune fra i più alti della Svizzera, che nel suo nucleo raccoglie secoli di vita e fatiche in alta quota. Gente laboriosa e orgogliosa i Walser, che hanno individuato questa valle, la Val Rovana, chiusa e impervia, per costruire una delle loro comunità partendo dalle montagne del Vallese per raggiungere poi mezza Europa, dal Ticino ai Grigioni, dal Liechtenstein all’Austria per non dimenticare Francia e Italia. E per avere un’idea di ciò che ha fatto e continua a fare questo popolo non si può non entrare nel Museo Walser (Walserhaus), fondato nel 1938, dopo che due anni prima era stata istituita l’omonima associazione, e ubicato in una casa del 1386, una delle più antiche abitazioni rurali perfettamente conservate dell’intero arco alpino. In ogni angolo del museo, suddiviso su
tre piani dove il legno regna sovrano, si fa un salto all’indietro proiettandosi nel presente e nel futuro di una scelta di vita alternativa, discosta, che la pandemia ha fatto drammaticamente tornare di moda. Ma proprio qui sta il valore aggiunto della Walserhaus, nella quale si intrecciano tasselli divulgativi, come quello riguardante l’idioma locale, il «Ggurijnartitsch», un tedesco con innesti di francesismi, incomprensibile a chi non è di queste parti, la vita contadina, l’architettura alpina, la storia della migrazione di questo popolo laborioso. E a spiegare la storia, gli arnesi agricoli, gli abiti e le tradizioni dei Walser, in ogni stanza e ambientazione, oltre ad opuscoli e tascabili, sono stati installati alcuni moderni touch screen, che proiettano il museo in una nuova dimensione divulgativa. Tanto più che il Museo etnico di Bosco Gurin è stato insignito del prestigioso Premio Meyvaert al concorso EMYA 2021, riconoscimento a livello mondiale per la valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale e in particolare «per la straordinaria capacità di documentare e mettere in valore il patrimonio culturale materiale e immateriale in un contesto territoriale peculiare, attraverso la sensibilizzazione, il coinvolgimento e la partecipazione attiva della comunità», si legge nella motivazione. Convenzionalmente un museo è qualcosa di statico, persino polveroso nei suoi reperti, soprattutto quelli legati alla storia e alle tradizioni, ma non è appunto il caso di Bosco Gurin, come
Dopo il premio al Museo si punta al Patrimonio Unesco Dopo il riconoscimento come uno tra i borghi più belli della Svizzera e il Premio Meyvaert al suo museo, fra qualche anno la comunità Walser di Bosco Gurin potrebbe diventare un patrimonio immateriale dell’umanità, preservato dall’UNESCO. Il villaggio della Val Rovana è infatti coinvolto in un progetto di candidatura che com-
prende tutte le popolazioni europee con le stesse radici (sul modello di quanto sta avvenendo anche per le antiche faggete della valle di Lodano). I Walser sono originari del Canton Vallese e, nelle loro secolari migrazioni, hanno fondato nuove comunità in tutta Europa, mantenendo salde tradizioni, cultura e soprattutto lingua.
Il Museo Walser (Walserhaus) di Bosco Gurin è stato fondato nel 1938. (Mauro Giacometti)
ci spiega Cristina Lessmann-Della Pietra, da una quindicina d’anni curatrice della «casa della memoria» walser. «Non si contano gli oggetti, gli abiti, le suppellettili, gli arnesi da lavoro, spesso molto antichi, ritrovati nelle cantine o nei solai che ci vengono donati. Due anni fa, in occasione dell’80° del museo, ad esempio, abbiamo rinnovato l’esposizione, installando i touch screen al posto dell’innumerevole quantità di cartelli appesi, oltre che modernizzato l’impianto di illuminazione. E in molti si sono messi a disposizione per darci una mano, gratuitamente. Stesso discorso per la festa che organizziamo ogni anno a settembre, la “Matzufamm”, che però anche quest’anno come nel 2020 abbiamo dovuto annullare. La Walserhaus propone poi regolarmente – in periodi normali – tutta una serie di attività collaterali, dalle escursioni alle conferenze, pure spesso animate a titolo volontario da persone che abitano a Bosco o che sono originarie del paese. C’è, insomma, un rapporto d’amore profondo fra la comunità e il suo museo», sottolinea la curatrice. 51 anni, «guriner» lei stessa, vive stabilmente a Bosco Gurin con la famiglia. Durante l’anno scolastico fa la maestra elementare nel fondovalle, a
Cevio, d’estate manda avanti con il marito un’azienda agricola e poi d’inverno la ritrovi sulle piste ad insegnare a sciare a bambini e ragazzi. Ma è alla Walserhaus che dedica molto del suo lavoro e del tempo libero, cercando di migliorare ancor di più l’attrazione di questo gioiellino di museo etnico incastonato tra le montagne. «Stiamo lavorando ad un progetto impegnativo e anche un po’ ambizioso, creare un albero genealogico molto curato nei dettagli delle famiglie “guriner” che s’insediarono qui 800 anni fa e che sarà esposto in una casa accanto al museo che ci fa da supporto per alcune manifestazioni. Speriamo di poterlo inaugurare entro l’estate del prossimo anno», evidenzia Cristina Lessmann-Della Pietra. Ma entro la fine di ottobre di quest’anno, quando il museo Walser chiuderà i battenti per andare in un meritato letargo fino a primavera, c’è ancora la possibilità di spingersi lassù ad ammirare il villaggio in versione autunnale e decisamente più abbordabile della peraltro frequentatissima stazione turistica invernale. Tra l’altro Bosco Gurin è stato riconosciuto nel 2020 come uno tra i borghi più belli della Svizzera e dunque vale la pena organizzare una gita fuori porta in Val Rovana
per un viaggio nel passato all’interno del villaggio o visitando le stanze e gli allestimenti originali del museo o della tipica torba, che sorge accanto, con all’interno una ricostruzione fedele di una stalla e di un magazzino walser. «La torba è un classico esempio dell’arguzia contadina dei Walser. A Bosco Gurin ce ne sono ancora una quindicina ancora perfettamente conservate. La torba è una costruzione in legno che somiglia a una palafitta. È infatti edificata su uno zoccolo di muratura che normalmente ospitava la stalla o un ripostiglio. Per evitare l’assalto dei topi e conservare il raccolto per tutta la stagione invernale, i walser studiarono e realizzarono una barriera architettonica. La parte superiore di legno della torba è isolata da un certo numero di “funghi” costituiti dal gambo di legno sormontato da una lastra di granito rozzamente arrotondato. Ed è questo fungo con la testa di pietra che impediva ai topi di raggiungere la cella granaria, preservando anche dall’umidità la segale e l’orzo che venivano custoditi all’interno», ci spiega la curatrice della Walserhaus. E dalle sue parole trapela un certo orgoglio per l’ingegno dei suoi avi che lei, con dedizione e competenza, contribuisce egregiamente a tramandare. Annuncio pubblicitario
Fare la cosa giusta
Quando la povertà mostra il suo volto Legga la storia di Modeste: caritas.ch/modeste-i
Modeste Traoré (57 anni), Mali, si adegua con successo al cambiamento climatico.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 settembre 2021 • N. 38
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Società e Territorio
Un mondo sotterraneo, buio e fresco Valmaggia Oltre sessanta strutture formano il nucleo dei grotti di Cevio, con cantine e anfratti nascosti
Elia Stampanoni Sono molti i paesi della Svizzera italiana che hanno la loro zona dei grotti. Anche la Valmaggia ne è ricca, come per esempio visto su «Azione 28» dello scorso 12 luglio in riferimento ad Avegno. Poco lontano, a Cevio, nei pressi della sede principale del Museo di Valmaggia, il nucleo dei grotti è particolarmente importante. Sono 69 le cantine e gli anfratti ricavati abilmente sotto o tra le pietre affioranti, fra i blocchi di una grande frana derivante da uno stacco di roccia avvenuto nell’antichità. Uno scoscendimento che lasciò sul terreno enormi sassi, tra i cui interstizi si sono create delle condizioni adatte soprattutto per la conservazione di alimenti. Le temperature sono fresche in estate e miti in inverno, garantite dalle cavità, le quali in Vallemaggia sono dette «fiadairö», come indicato nell’opuscolo Cevio i Grotti, edito dal Museo di Valmaggia e parte della serie Sentieri di pietra. Nei mesi caldi una corrente d’aria fresca entra dalle fessure e mantiene il grotto a una temperatura costante di 10-12 gradi. Un microclima influenzato anche dagli imponenti alberi, tra cui molti castagni, che assicurano l’ombra. Anche in condizioni di canicola perdurano temperature gradevoli: «Con massimi di temperatura esterna attorno a 30 °C, all’interno la temperatura non sale oltre i 12-13 °C (a dipendenza della cantina)», indica la pubblicazione Vivere tra le pietre, frutto di una ricerca promossa e realizzata
dal Museo di Valmaggia nel 2004. L’escursione termica sull’arco di un anno, invece, è di circa 10-15°C, sempre a seconda della cantina, contro i 35 °C e oltre dell’esterno. In inverno, sempre grazie alla presenza degli sfiatatoi naturali, l’aria delle cantine viene aspirata creando correnti ascendenti. Una situazione che, in generale, garantisce temperature sopra lo zero, anche se all’esterno possono facilmente scendere al di sotto. Si può percepire e gradire la frescura e la ventilazione soprattutto in una calda giornata estiva. I grotti di Cevio, seppure in parte abbandonati, alcuni crollati o minacciati dall’avanzata del bosco, sono collegati da un sentiero tra gradoni, radici e sassi. La via s’inerpica fino alla parte alta, per poi tornare al punto di partenza lungo un tortuoso cammino. Pure lungo il breve anello nei pressi del Museo di Valmaggia (che è proprietario di 13 dei 69 grotti) si possono ammirare dei blocchi giganteschi, di cui uno di circa 10’000 mc, il quale nasconde cantine e protegge con una parete sporgente delle costruzioni rurali, una delle quali accessibile direttamente dal Museo: «Uno straordinario esempio di simbiosi tra la roccia e la presenza dell’uomo», come lo descrive l’opuscolo. Tra le strutture, distribuite su una superficie di circa due ettari, alcune sono decadenti, altre ben conservate. «Grazie a un restauro conservativo minimo effettuato nel corso degli ultimi anni, alcuni (pochi a dire il vero) vengono sporadicamente utilizzati per la
Marianne Meyer in visita in Ticino
Migros Ticino La presidente dell’Assemblea
dei delegati FCM ospite dei cooperatori Il Consiglio di Cooperativa di Migros Ticino ha avuto il piacere di accogliere per la prima volta in Ticino Marianne Meyer, la nuova presidente dell’Assemblea dei delegati della Federazione delle Cooperative Migros, caldamente salutata dal presidente del CC Danilo Zanga. Giovedì 9 settembre, alla sala multiuso di Sant’Antonino, Marianne Meyer ha illustrato composizione, ruolo, funzionamento e meccanismi dell’Assemblea dei delegati, oltre ad aver trattato argomenti di interesse per la Migros e le Cooperative regionali. Organo supremo della Migros, l’Assemblea dei delegati della FCM è composta da 111 membri, 100 dei quali sono delegati delle 10 cooperative regionali e 10 dei Consigli d’amministrazione delle cooperative regionali, cui si aggiunge la presidente. Nelle sue canoniche sedute annuali approva (in primavera) i conti della FCM, oltre ad essere orientata e a votare su argomenti strategici.
I grotti sono collegati da un sentiero tra gradoni, radici e sassi. (E. Stampanoni)
conservazione dei prodotti locali», precisa Elio Genazzi, presidente del Museo di Valmaggia. L’opuscolo del percorso segnala anche le importanti opere di terrazzamento e di bonifica che permisero di ricavare delle piccole superfici piane su cui falciare l’erba, oltre che facilitare l’accesso ai grotti e alle cantine. In un grotto sono ancora presenti delle botti di legno in cui si conservava il vino, in altri si possono notare tracce dell’attività umana, mentre negli spazi esterni sono frequenti tavoli e panche in pietra, dove la gente trascorreva
qualche ora di riposo al fresco. Durante la visita si rimane impressionati da come l’uomo abbia saputo sfruttare ogni anfratto possibile, andando anche a incunearsi a profondità notevoli: «un mondo sotterraneo, buio e fresco, poco appariscente ma di grande importanza», riporta l’opuscolo edito dal Museo Valmaggia che, in collaborazione con il Patriziato di Cevio-Linescio e del Comune di Cevio, sta pensando a un progetto di ripristino generale dell’intera area dei Grotti. «Lo scopo – racconta Genazzi – è la salvaguardia e la valoriz-
zazione dell’area boschiva, comprendente pure una bonifica forestale, il ripristino e la pulizia dei sentieri esistenti al fine di rendere la zona più facilmente accessibile sia al turista sia alla popolazione indigena». Con questo si vorrebbe valorizzare ulteriormente il patrimonio architettonico rurale e ridare vita al comparto con anche un percorso didattico. Altri spunti d’interesse sul territorio sono suggeriti dal pieghevole Cevio e gli argini, anch’esso realizzato nell’ambito della collana Sentieri di pietra. Un’iniziativa dell’Associazione dei Comuni valmaggesi che a Cevio mette in evidenza, oltre ai grotti, altri elementi della vita rurale: per esempio le caraa, vie costruite prevalentemente con ciottoli che collegavano tra loro le diverse frazioni o il lavatoio. Ci sono poi gli argini realizzati lungo i fiumi Maggia e Rovana che furono costruiti dal 1868 per salvaguardare i villaggi, il territorio e le vie di comunicazione dagli straripamenti dei fiumi. Si tratta di manufatti notevoli, considerando che «a quei tempi non esistevano mezzi meccanici e il treno non era ancora giunto in Valle. Trasportare e accatastare enormi lastre di pietra, scavare manualmente l’alveo del fiume per poterlo deviare e gettare le fondamenta degli argini, poteva rivelarsi impresa assai ardua». Costruzioni che ancora oggi svolgono egregiamente la loro funzione e sono un ulteriore testimonianza dell’ingegno e dell’operosità della popolazione a difesa e salvaguardia del proprio territorio. Annuncio pubblicitario
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La seduta del Consiglio di Cooperativa è stata anche l’occasione di una tavola rotonda con Marianne Meyer, la presidente del consiglio d’amministrazione di Migros Ticino Monica Duca Widmer e il direttore Lorenzo Emma dedicata alla fidelizzazione dei clienti, che ha preso spunto da una raccolta di idee presso i membri del Consiglio di Cooperativa. L’esercizio era di immaginare insieme quali saranno i fattori decisivi che potranno migliorare e rafforzare in futuro la relazione con i clienti. Ringraziando per lo sforzo fatto dal Consiglio di Cooperativa, il direttore Lorenzo Emma ha messo l’accento su quanto Migros Ticino sta facendo in termini di fidelizzazione, di come la si misura, come pure sulla complessità dell’argomento, che coinvolge numerosi specialisti nel marketing della Federazione delle Cooperative Migros e nelle cooperative regionali.
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Società e Territorio
Natura, animali e solidarietà
Socialità È stata da poco inaugurata l’azienda sociale Ca.Stella Farm-Camino voluta dalla fondazione
Main dans la main. Ne abbiamo parlato con il presidente Carlo Crocco
con gli animali. Al campeggio abbiamo assunto, permettendo fra l’altro due ricongiungimenti familiari, un collaboratore afghano e uno eritreo che hanno potuto ottenere un regolare permesso di lavoro. Complessivamente impieghiamo 17 persone a tempo parziale, tra cui due operatrici di Pet Therapy.
Guido Grilli La storia è lunga. Ma potrebbe riassumersi in poche parole: solidarietà e aiuto alle persone con difficoltà. Carlo Crocco, 78 anni, presidente della Fondazione Main dans la main sorta nel 1998, è la mano generosa che ha saputo trasformare un ampio terreno immerso nella natura e realizzare nell’arco di quasi un quarto di secolo una pluralità di progetti e un’azienda sociale che in questi ultimi giorni ha conosciuto un nuovo traguardo significativo: l’inaugurazione ufficiale, dopo sei anni di lavori di ristrutturazione con il coinvolgimento degli allievi delle scuole speciali del Sottoceneri, di Ca.Stella Farm-Camino a Meride Spinirolo. Una tenuta – casa, terreno agricolo e animali per pet therapy – aperta ad associazioni, enti, fondazioni e scuole che si occupano di giovani.
Avete avviato anche un’attività agricola...
Esatto. Coltiviamo prodotti biologici. Ma in proprio, a parte minime forniture per il grotto annesso al nostro campeggio. Al momento non siamo in grado di sviluppare un’attività sufficiente per la vendita a terzi. come nasce la sua vocazione di aiuto e solidarietà verso le persone bisognose?
carlo crocco, come è nata ca.Stella Farm-camino?
Il progetto parte dieci anni fa, con l’acquisto di questo luogo incantevole, grazie all’intuizione di Mario Ferrari, che è stato il padre delle aziende sociali in Ticino. La Fondazione Main dans la main nasce però già nel 1998, quando avevo la fabbrica di orologi per cui decisi di mettere a disposizione una parte degli utili per realizzare progetti di protezione all’infanzia nel sud dell’India, nel Tamil Nadu, tuttora attivi. Nel 2008, venduta l’azienda di orologi, ho voluto creare un’azienda sociale agricola capace di soddisfare un’esigenza sociale a Meride, a Ca.Stella Farm-Camino, che anticamente era una fabbrica di olio del saurolo, un unguento per la cura delle malattie della pelle. L’iniziativa ha conosciuto diverse evoluzioni e sviluppi che nel 2016 ha visto pure l’acquisto del vicino campeggio del monte San Giorgio, questo allo scopo di rendere l’intera iniziativa più sostenibile dal profilo economico. A quel punto, per conferire al progetto un’entità giuridica autonoma abbiamo deciso di creare una Sagl, perché l’obiettivo è che l’azienda sociale nel tempo dovrà autofinanziarsi. La Sagl appartiene completamente alla Fondazione Main dans la main, che sopperisce alle esigenze finanziarie fino a quando essa potrà camminare con le proprie gambe. Qual è la funzione sociale?
Mettere a disposizione questo posto per bambini, prioritariamente con disabili-
La struttura offre pet therapy per bambini, ragazzi ma anche adulti con disabilità, disagi o altre difficoltà. (www.castellafarm.ch)
tà o disagi, offrendo loro in particolare l’attività con gli animali, segnatamente la pet therapy con gli alpaca. Crediamo moltissimo all’aiuto che gli animali possono offrire per la cura del disagio psichico. Abbiamo due terapeuti specialisti. Inoltre, disponiamo di tutta l’attività agricola e di prodotti biologici. La struttura, diretta da Nadia Bernasconi, può ospitare fino a 24 persone, bambini, ragazzi o anche adulti con disabilità o difficoltà che possono usufruire di questo magnifico luogo, un luogo per il quale è stata ben curata l’estetica architettonica, conferendogli positività. Gli ospiti possono soggiornarvi da una durata di un week end fino ad alcuni giorni o settimane. Abbiamo gli alpaca, i cavalli, pony, caprette, asini, conigli. Abbiamo inoltre deciso di sviluppare una cucina vegetariana, con la consulenza di Pietro Leemann, cuoco ticinese che vanta una stella Michelin, e grazie a lui abbiamo introdotto a Meride una sua allieva.
Prima della ristrutturazione completa di ca.Stella, tra il 2010 e il 2015 avevate già avviato attività in aiuto ai giovani in difficoltà...
Sì, in un primo periodo siamo stati un Centro educativo minorile, in collaborazione con il Cantone. Però l’esperienza dal mio punto di vista non era stata entusiasmante, perché i ragazzi avevano l’obbligo di soggiornare a Meride e per loro era piuttosto vincolante, molti scappavano. Per me invece l’obiettivo è mettere a disposizione questo bellissimo posto per coloro che veramente lo possano apprezzare. E così ora funziona, i giovani sono contenti perché si tratta di periodi limitati nel tempo. La nostra struttura è rivolta in particolare a ragazzi autistici o adulti con problemi cognitivi ai quali offriamo la pet therapy, che contempla fra l’altro le terapie assistite con gli animali; l’educazione assistita con gli animali, un intervento di tipo educativo che si propone di promuovere, attivare e sostenere le risorse e le potenzialità di crescita e progettualità individuale, di relazione e inserimento sociale delle persone in difficoltà; e l’attività assistita con gli animali, che favorisce stimoli sensoriali ed emozionali. O, ancora, passeggiate con gli alpaca.
Abbiamo appena avuto una «casa-famiglia» di una dozzina di giovani, con i loro educatori. L’occupazione dipende molto dai periodi. Naturalmente l’obiettivo sarebbe di impiegare tutti i 24 posti a disposizione. Abbiamo inoltre la possibilità di ospitarli nel campeggio, nelle «Teepee», le tradizionali tende dei pellerossa, un’esperienza molto bella per i giovani.
attenzioni di Bambino? Ed è bello che il piccolo lettore non abbia il punto di vista di Bambino – che anzi appare di dimensioni giganti in confronto ai pupazzi – ma abbia proprio quello dei pupazzi, che si sentono piccoli e vulnerabili di fronte a questo nuovo arrivo. E in effetti questo libro è molto adatto ai bambini alle prese con l’arrivo di un fratellino. «Quello nuovo», lo si scoprirà solo alla fine, sarà appunto un neonato, a cui Bambino presenterà i suoi amati pupazzi. Intenso il finale, con un trasalimento di suspense prima del disvelamento (davvero in poche semplici pagine si può dare un ritmo narratologico efficace), quando vediamo Bambino prendere tutti i pupazzi e trasportarli da un’altra parte (ci metterà in soffitta? Ci butterà nella pattumiera?), che poi si rivelerà essere la culla di «quello nuovo». I pupazzi non hanno perso proprio nulla, anzi: l’amore di Bambino è sempre lì per loro, e ora c’è anche l’amore di «quello nuovo». Il libro contiene anche un QR Code
per scaricare una canzone originale suonata e cantata da Sualzo, che racconta in musica questa tenera storia.
Quanti utenti ospitate attualmente?
come avviene la gestione dal profilo economico?
Non riceviamo nessuna sovvenzione dallo Stato, a parte l’impiego di un educatore pagato dal Cantone. Il nostro obiettivo è autofinanziarci. Ai gruppi facciamo pagare tariffe molto favorevoli. Il campeggio è una delle fonti di reddito della Fondazione. Il Cantone sussidia invece i soggiorni diurni presso di noi ai diversi Enti con i quali lavoriamo, tra cui l’Istituto Canisio, il Centro psicoeducativo, le Scuole speciali cantonali del Sottoceneri, Arco – Comunità socioterapeutica per adolescenti, la Fondazione Provvida Madre, l’Autismo Svizzera Italiana, la Supsi e altri ancora. Tutti enti che vengono regolarmente a svolgere attività
Devo dire che nella vita sono stato sempre estremamente fortunato. Ho quattro figli, dieci nipoti. Ho condotto con successo la mia azienda di orologi. All’epoca, quando i figli erano già grandicelli avevo il desiderio di avere altri bambini e di adottare in India, ma presto ho capito che era molto meglio aiutarli localmente piuttosto che portarli con me e così ho sviluppato nel Tamil Nadu la prima azienda sociale e ho creato la Fondazione Main dans la main. Quindi sono venute le altre aziende sociali in Italia e a Meride. L’attività terapeutica sta dando buoni frutti?
Abbiamo raggiunto risultati molto positivi con i ragazzi, i bambini e gli adulti. Crediamo molto ai benefici che il contatto con la natura può portare. Attualmente stiamo cercando di dirimere una controversia con la Sezione agricola per quanto attiene alla costruzione di una tettoia per gli animali. Noi non siamo un’impresa agricola, bensì terapeutica, ed è il concetto che stiamo cercando di far passare per ottenere i relativi permessi. Sono fiducioso che riusciremo a superare questi piccoli ostacoli. Il covid non rappresenta un problema?
No. Per le persone dello stesso nucleo familiare o per gli enti che già vivono in uno stesso nucleo comunitario il problema non sussiste. Per il resto adottiamo un preciso piano sanitario. Ca.Stella Farm a Meride è aperta anche al pubblico per visite. Chi vi si reca scopre uno straordinario lembo di terra, popolato di una varietà di animali e tanta solidarietà.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Silvia Vecchini-Sualzo, Quello nuovo, Il castoro. Da 3 anni Un bel titolo e una bella copertina già promettono bene, e anche il contenuto del più recente albo della coppia Silvia Vecchini (testo) e Antonio «Sualzo» Vincenti (illustrazioni), non smentisce le aspettative. Ancora una volta Vecchini e Sualzo, che sanno rivolgersi, con grazia e intelligenza, alle varie età della crescita, creano una storia capace di mettersi in sintonia con i loro lettori, siano essi adolescenti o piccolissimi. «Quello nuovo» è, dal punto di vista dei giocattoli, un nuovo arrivato in casa. La prospettiva è la loro, quella dei giocattoli, anzi dei peluches, i giocattoli di pezza di Bambino. E non sono pupazzi indistinti, sono otto, tutti ben presenti sin dalla copertina, davanti al loro Bambino, ognuno con caratteristiche ben precise: Pecorella è soffice, Polpo è coloratissimo, Elefante è forte, tanto che Bambino può pure usarlo come cuscino, Bassotto ha un rattoppo, e così via. Cavallino, che è
il più veloce, è corso a vedere «quello nuovo», e trafelato ne riporta notizia agli amici. Gelosia e preoccupazione di finire relegati in secondo piano aleggiano subito tra i pupazzi. È davvero così bello quello nuovo? Più soffice di me? Più forte di me? Più nuovo, senza neanche un piccolo rattoppo?... ognuno esprime il proprio timore, e Cavallino non smentisce. È bello immaginare i piccoli lettori alle prese con questo mistero: chi sarà «quello nuovo», che si sta prendendo le
Michael Rosen, Michela Guidi, Nandana Sen, Storie curiose per bambini che amano gli animali, Feltrinelli Kids. Da 8 anni Escono ora in un unico volume queste tre storie, a dire il vero molto diverse tra loro, accomunate però dal fatto che hanno dei personaggi animali. Centrali e assoluti, come nella frizzante storia di Mambi, La scimmietta che voleva volare, della scrittrice indiana Nandana Sen: Mambi vorrebbe tanto saper nuotare come Tonga, o volare come Coco la cornacchia, ma ben presto scoprirà che anche lei ha un talento, talmente prezioso da consentire di mettere in salvo i suoi amici! Nella bella storia di Michael Rosen, Attenti al cane!, il cane è un personaggio che convive con gli umani, ma il suo punto di vista è molto importante, tanto che questa, oltre ad essere una godibilissima storia in sé, è anche un
pratico manualetto sulla gestione di un cane. E il titolo italiano, che pure sembra più banale dell’originale Choosing Crumble, è proprio azzeccato, perché può essere letto anche come «siate attenti al vostro cane», sottolineando il valore del «prestare attenzione» a chi ci vive accanto, animali umani o non umani che siano. Mentre in Ecciù! La biblioteca ha il raffreddore, di Michela Guidi, c’è un gatto, ma la sua presenza è più defilata, perché i veri protagonisti qui, sono i libri, che appaiono tutt’altro che inanimati e fermi sui loro scaffali!
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Audita tremendi «Avendo udito la notizia del tremendo giudizio divino con cui la mano del Signore si è abbattuta sulla terra di Gerusalemme...»: così iniziava la Bolla del Papa Gregorio VIII che il 29 ottobre del 1187 chiamava la cristianità a mobilitarsi per una terza crociata – la stessa che avrebbe visto in prima fila Riccardo Cuor di Leone, Filippo II di Francia e Federico Barbarossa. La Bolla era in risposta all’arrivo a Roma della notizia della disastrosa sconfitta subita dai Crociati alla Battaglia di Hattin del 4 luglio dello stesso anno per mano di un trionfante Al-Nasir Salah al-Din Yusuf ibn Ayyub che chiameremo Saladino. Annientato in buona sostanza l’esercito degli alleati, la strada era spianata per la conquista di una Gerusalemme lasciata ampiamente sguarnita. Il Re di Gerusalemme, Guy de Lusignan, era prigioniero del Saladino assieme al fior fiore dello stato maggiore crociato in attesa che si definisse la situazione sul campo e si cominciassero a negoziare i riscatti.
La patata bollente della difesa estrema della Città Santa era dunque passata a Balian di Ibelin, re di Tiro, il più alto in rango fra i sopravvissuti. L’arrivo in città dei rinforzi guidati da Conrad di Montferrat faceva sperare a Balian di poter ancora passare al contrattacco a partire da Tiro: Gerusalemme era perduta, ma lui intendeva giocare le ultime carte per garantire a sua moglie – la regina Anna Comnena, della casa imperiale di Bisanzio, ed ai suoi quattro figli un salvacondotto per lasciare Gerusalemme con tutta la sua corte. Saladino – da quel personaggio cavalleresco che sarebbe diventato nella tradizione popolare – concesse a Balian, sotto giuramento da cavaliere, che potesse andare a prendersi la famiglia senza però levare le armi contro i musulmani e senza restare a Gerusalemme per più di una giornata. Arrivato a Gerusalemme, fu accolto da liberatore dal patriarca Heraclius e dalla regina Sibylla, moglie dell’imprigionato Guy: Balian fu acclamato salvator patriae
e prontamente sollevato dal giuramento fatto al Saladino con benedizione patriarcale. Mandò quindi una delegazione al Saladino spiegando la sua nuova risoluzione. Questi non fece una piega: vistosi rifiutata la proposta di soluzione negoziata per la resa di Gerusalemme senza spargimento di sangue rilanciò ancora e organizzò lui stesso una scorta per accompagnare la Regina Maria e corte a Tripoli. La situazione a Gerusalemme era disperata. Poco più di quattromila difensori si trovavano ad affrontare una forza d’assedio di ventimila soldati. I Cavalieri cristiani erano solo quattordici: un’altra sessantina furono nominati fra gli scudieri e la popolazione civile. La marcia di Saladino su Gerusalemme vide cadere in successione Jaffa, Cesarea ed Acre: il 20 settembre del 1187 l’armata musulmana – Siriaci ed Egiziani – sostava davanti alla Porta di Damasco ed alla Torre di Davide. Ripetuti assalti con scale torri d’assedio furono respinti
con gravi perdite per gli assedianti, tanto che il 26 settembre Saladino decise di spostare l’epicentro della sua armata sul Monte degli Ulivi, fuori dalla portata dei contrattacchi cristiani. Rimanevano a battere le mura di Gerusalemme giorno e notte le macchine d’assedio, fino a quando solo poche decine di cavalieri ed una forza sempre più esigua di armigeri restava a difendere le mura. Poi una porzione dei bastioni fu minata: dalla breccia gli assedianti cercavano di invadere la città ma venivano continuamente respinti. Ciononostante era chiaro che fosse solo una questione di tempo. Nel resoconto del cronista Guglielmo di Tiro una processione al Monte Calvario fu organizzata dal clero per impetrare salvezza da Dio. Le donne tagliavano a zero i capelli di figli in segno di penitenza, ma tutto invano: «Poiché il puzzo di adulterio, di stravaganze disgustose e dei peccati contro natura impedivano alle loro preghiere di arrivare fino a Dio». Alle
minacce cristiane di uccidere tutti i 5000 schiavi musulmani all’interno della città, per poi procedere ad ammazzare le proprie famiglie, bruciare i tesori cristiani e distruggere i luoghi sacri musulmani, Saladino oppose un paziente negoziato. I Crociati consegnarono la città ai musulmani il 2 ottobre con modalità molto meno cruente dell’assedio dei cristiani del 1099. Balian sborsò 30’000 dinari per riscattare i 7000 abitanti che non potevano pagare. Secondo il cronista curdo Baha ad-Din ibn Shaddad, i musulmani liberati furono circa 3000. Molte delle nobildonne della città furono lasciate libere di andarsene senza pagare riscatto. Fra queste la Regina Sibylla: le fu affidato un salvacondotto per visitare il marito prigioniero. Ai cristiani nativi di Gerusalemme fu permesso di rimanere mentre Saladino si proclamava Signore e Protettore dei Templi delle tre religioni del libro. «Audita tremendi», d’accordo: ma poteva andar peggio.
arroganza ma trascuri l’esistenza di sentimenti positivi come la simpatia, la solidarietà, la generosità che pure esistono e contano. Probabilmente la tua infanzia è stata segnata dall’assenza di figure disponibili all’ascolto, incapaci di tradurre in parole le emozioni che i bambini piccoli vivono in modo confuso, più fisico che mentale. Molto fragile è, nel tuo caso, la membrana che divide il mondo esterno da quello interno, il sentire e il pensare per cui, per riprendere il termine «eco» che ricorre nelle tue lettere, le emozioni rimbombano in una vallata priva di sentieri. Colgo il tuo malessere e vorrei tanto aiutarti ma non è questo il luogo adatto al lavoro di cura di cui hai bisogno. Carta e penna non bastano a guarire un’anima in pena. Ci vuole una persona disposta ad accoglierti e ad ascoltarti per tutto il tempo che ci vorrà, una persona equilibrata e competente, pronta a incoraggiarti e ad attenderti quando perdi il passo, a sostenerti quando smarrisci la strada, quando ti senti stanca e sola a
fronteggiare l’urto del mondo esterno. Le tue lettere dimostrano che sei capace di riconoscere la sofferenza, di porti delle domande, di chiedere aiuto. È il primo passo verso un riequilibrio della mente e del corpo, della relazione tra sé e gli altri. Non credere di essere imperfetta in un mondo di essere perfetti. L’ideale rischia di perseguitarci se lo attribuiamo a qualcuno. È solo una stella polare che orienta il nostro incerto navigare. Continua a leggerci e, se credi, a scriverci ma senza attende risposte che, almeno per ora, non posso darti. È con un abbraccio da parte mia e dai partecipanti alla Stanza del dialogo che ti auguriamo una vita rasserenata e un futuro possibile e desiderabile.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Le lettere a volte non bastano a guarire l’anima Cara Silvia, sono sempre molto interessanti le sue lettere e lei dà sempre degli ottimi consigli e leggo volentieri le sue lettere. Vorrei tanto sapere perché ci sono delle persone adulte che rispondono come un’eco, per esempio se dico che quella casa è rosa risponde è rosa , poi arriva una seconda persona che dice è rosa la casa, sempre così, tutti i giorni, è molto fastidioso, molto direi. Ci sono delle persone che sono daltoniche… basterebbe dire che non distinguono i colori invece di fare diventare daltoniche anche altre persone. Cara Silvia, perché c’è sempre una persona molto insistente che mi vede sempre in una città o in un paese … qualche anno fa dicevano che ci sono al minimo 7 sosia per persona anche in America, come fare in questo caso? Cara Silvia, ci sono delle persone adulte che non vedono la differenza tra una casa e un
albero. Come mai questo e perché. E invece delle volte ci sono delle persone che parlano come dei professori, dei direttori e non lo sono per niente. Delle volte è sempre così tutto il giorno con queste persone, come fare in questa situazione, ha qualche consiglio, suggerimenti. Vorrebbe aiutarmi cara Silvia. Tanti egregi saluti. / Viola Cara Viola, certo che voglio aiutarti anche se le lettere che mi mandi (riporto qui parte delle ultime tre) sono molto personali, riguardano i tuoi pensieri, le tue sensazioni e non è detto che interessino tutti. Tuttavia resto fedele alla promessa che ho formulato all’inizio di questa rubrica: la Stanza del dialogo è sempre aperta a tutti coloro che bussano alla sua porta. Nessuno escluso. Scrivere è un buon modo per prendersi cura di sé e spedire una lettera significa aver fiducia nella persona cui ci rivolgiamo. Ma nel tuo caso però è difficile rispondere in modo adeguato perché la tua
mente è popolata di presenze vaghe che ti tormentano insistentemente restando però anonime e inconsistenti. Citi esclusivamente «persone», «persone adulte» che turbano i tuoi pensieri senza che tu riesca a zittirle. Ma chi sono? Forse vivi sola, senza familiari, senza amici o almeno così ti pare. Mi sembra di capire che hai un luogo di lavoro ma che non ti senti compresa e apprezzata. Scrivi infatti. «…ci sono dei ragazzi, delle ragazze che hanno frequentato il Liceo, l’Università ecc. Pretendono che sul posto di lavoro sia così quello che c’è scritto sul libro e che quello che hanno imparato possono praticarlo sul posto di lavoro. Ma sul posto di lavoro è diverso perché in pratica non s’ insegna più la cultura, è tutto diverso». Lo dici in modo un po’ confuso ma cogli un problema vero. Spesso il titolo di studio autorizza a sentirsi superiori e a disprezzare chi non ha avuto altrettanta fortuna. La tua sensibilità ti fa cogliere, nelle relazioni, elementi di supponenza e di
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Riscrivere la storia: necessità o sfizio? A Londra, la statua in bronzo di Winston Churchill, in Parliament Square, è stata, una volta ancora, imbrattata da contestatori, che evidentemente ignoravano chi fosse quel signore, rappresentato con la bombetta e il sigaro, che contribuì a salvare l’Europa dalla minaccia hitleriana. Entrando meritatamente nella storia del XX secolo. Ora, e qui sta la presunta giustificazione degli imbrattatori, la storia di cui loro si considerano gli interpreti ha cambiato contenuti e modi d’espressione. Anche l’osannato Churchill aveva commesso errori diventando complice d’ingiustizie, insomma una leggenda da sfatare: su di lui pesa, innanzitutto, l’accusa ormai multiuso di razzismo. Perciò i monumenti, i ritratti, le scritte, che lo commemorano, ne devono recare le conseguenze. Lo statista inglese, del resto, è in buona compagnia. Nei
corridoi e nelle aule delle università americane, i busti e i dipinti, dedicati a personaggi di un passato, anche remoto, comunque da depurare, sono esposti a un’ondata iconoclasta che non guarda per il sottile. Ce n’è per tutti: a partire da Cristoforo Colombo, capostipite dei colonialisti, e da Shakespeare, illustre anticipatore del razzismo e dell’antisemitismo. È un’ombra che grava, ormai, su una serie interminabile di opere letterarie insigni e popolari, tipo La capanna dello zio Tom, Via col vento, Robinson Crusoe. Non risparmia neppure i disegni animati di Disney. E via enumerando, forme di svago, banali che non intendono trasmettere messaggi di sorta: divertono o annoiano, e basta. Se ne potrebbe concludere, sbrigativamente, che si tratta della solita americanata, che produce derive grottesche, da cui
l’Europa riesce a prendere le distanze. In realtà, il fenomeno revisionista ci concerne, inevitabilmente, e, non da ultimo in una Svizzera, considerata una sorta di caso speciale, per non dire un’isola felice, indifferente ai guai e agli stimoli altrui. Ora, proprio questo particolarismo elvetico si è prestato a interpretazioni e riflessioni di segno opposto e politicamente riconoscibile. Da un lato, un paese che della chiusura conservatrice e del tradizionalismo aveva fatto un motivo da prestigio e sicurezza. Dall’altro, invece, il culto di un’apertura europeista che sfocia addirittura nell’annientamento dei suoi confini territoriali. Cioè, la Svizzera centrale rappresenta «una comune regione alpina e non il nucleo originale di uno Stato elvetico già esistente». Insomma, quei contadini e artigiani medievali non hanno inventato nulla, si sono comportati
come gli altri contemporanei europei. È la tesi, sostenuta con coraggiosa convinzione e conoscenza di causa da Maurizio Binaghi, docente di storia al Liceo di Lugano 1 e impegnato, con un gruppo di collaboratori, in un compito persino rischioso: adeguare il manuale per le scuole medie a una nuova visione storica. Non campata in aria, ma frutto di approfondite ricerche. E così un testo da studiosi diffuso nelle scuole dell’obbligo, affronta il grande pubblico. Con possibili, anzi probabili, effetti sconcertanti sul cosiddetto cittadino medio. Insomma, una tesi, di per sé culturalmente difendibile, rischia di buttare all’aria sentimenti, abitudini, riti che appartengono all’immaginario collettivo, segnando appuntamenti simpatici nel calendario dei cittadini elvetici: il 1. d’agosto, con falò e fuochi d’artificio, la rievocazione del giuramento sul
praticello del Grütli, forse leggendario, al pari dell’eroe Guglielmo Tell con la sua balestra, che forse non è esistito, in carne e ossa ma resiste come emblema rassicurante. Al novero appartiene, non ultimo, l’inno patrio, cantato da una nazionale di calcio che, con la sua stessa composizione, la dice lunga sulla realtà vera di un paese, capace a modo suo di proporre un esempio. Ovviamente, non concerne soltanto i privilegiati del pallone, di origine kossovara, serba, turca. Tocca, invece, le centinaia di migliaia di altri immigrati a cui la Svizzera, a sua volta cambiata, garantisce l’ospitalità dignitosa di una casa accogliente. Paradossalmente, è diventata una sua specialità, un «Sonderfall», usando un termine a cui Binaghi continua ad attribuire un significato negativo. Per necessità morale o sfizio culturale?
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 settembre 2021 • N. 38
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Ambiente e Benessere Più che forti, adattivi I nudibranchi si stanno rivelando sempre più preziosi per le ricerche climatiche
Viva i viaggi interni Ancora molte le incertezze circa le mete internazionali, meglio partire in camper per esplorare zone sconosciute
Una rivoluzione costosa Per le nuove tecnologie servono elementi rari la cui estrazione impatta sull’ambiente
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Una pasta all’italiana L’amara Catalogna nobilita le orecchiette con un po’ di limone, olio d’oliva e pinoli pagina 22
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Il «gioco delle parti»
covid Dalla peste al coronavirus: sistema
immunitario e scienza per salvare l’umanità
Maria Grazia Buletti A circa un anno e mezzo dall’inizio di questa pandemia disponiamo di un vaccino molto efficace, e solo di poche terapie mirate (si parla di anticorpi monoclonali ma vedremo che sono ad appannaggio di casi assolutamente particolari). «La situazione rimane sempre tesa» ha affermato a metà settembre Virginie Masserey dell’Ufficio federale della sanità pubblica (Ufsp). Le nuove infezioni mostrano un incremento marcato tra i giovani e i bambini. Nel periodo di riferimento, i reparti di terapia intensiva degli ospedali elvetici sono sempre più sotto stress, e la taskforce della Confederazione traccia il profilo dei ricoverati: «Con meno di 44 anni, senza malattie croniche pregresse e soprattutto non vaccinati». In Ticino i numeri delle nuove infezioni e dei ricoverati sono per ora stabili, ma si sta in campana coi pazienti in terapia intensiva. L’Ufsp indica che le persone completamente vaccinate rappresentano lo 0,6 per cento dei casi positivi e il 4,3 per cento dei ricoverati in ospedale. Parliamo di virus, sistema immunitario, vaccini e farmaci, spesso senza la dovuta memoria storica. Saperne di più dovrebbe consentire di distinguere le bugie dalle verità, le giuste preoccupazioni dai timori infondati. Abbiamo chiesto alla caposervizio di malattie infettive dell’Ospedale Regionale di Bellinzona e Valli e dell’Ospedale di Locarno, l’infettivologa ed epidemiologa Luigia Elzi, di spiegare l’origine dell’eterno «gioco delle parti» fra sistema immunitario e agenti patogeni (batteri e virus). Un «passo indietro» che inizia dalla «transizione epidemiologica» e dalla consapevolezza che, un tempo, «le aspettative di vita delle persone erano nettamente più basse perché di malattie infettive si moriva già nell’infanzia». «Le malattie infettive sono sempre state il grosso cruccio dell’umanità: le epidemie, ad esempio, di peste (il cui agente patogeno è un battere) hanno dimezzato la popolazione, finché sono stati scoperti gli antibiotici. Tutti noi abbiamo avuto infezioni nella vita, oggi abbiamo gli antibiotici, ma in certe zone della Terra le malattie infettive sono ancora importanti (in Africa, ad esempio, HIV, malaria e tubercolosi mietono ancora tante vittime). Da noi, l’invecchiamento della popolazione ha fatto emergere altri tipi di malattie (de-
generative, cardiovascolari, tumorali e via dicendo)». Oggi nella parte occidentale del Mondo si muore innanzitutto per malattie cardiovascolari e tumori. «Ci siamo dimenticati delle malattie infettive perché ci siamo illusi che la medicina moderna potesse vincere tutti i germi», afferma la dottoressa Elzi che porta ad esempio la veloce evoluzione di ricerca terapeutica sull’HIV che oggi dispone di farmaci che ne hanno nettamente diminuito la mortalità. «Non dimentichiamo che l’HIV esiste ancora, e può essere mortale se non diagnosticato e curato. Molto spesso i giovani ne sottovalutano il pericolo». «Questo coronavirus ha spezzato la convinzione di essere immortali, ed è emersa la fragilità di questa promessa». Oggi dobbiamo ricordarci cos’è il virus con cui facciamo i conti: «Parliamo di un microorganismo primitivo con le caratteristiche di parassita obbligato perché si replica esclusivamente all’interno delle cellule degli organismi che infetta. Pare avere un’intelligenza particolare perché da milioni di anni sopravvive adattandosi alle situazioni e all’organismo infettato». Ogni virus non vuole essere ucciso dal nostro sistema immunitario: «Quando il sistema di difesa del nostro corpo incontra qualcosa che riconosce come estraneo (virus o batteri sono cellule estranee) innesca una cascata di reazioni che attivano la risposta immunitaria (immediata aspecifica: partono velocemente i “soldati di fanteria”, poi più lenta e specifica con “soldati specializzati”)». Il virus intrattiene con l’ospite un rapporto di amore e odio: «Esso ha bisogno dell’ospite per replicarsi e sopravvivere, l’ospite cerca di sopravvivere egli stesso: entrambi lottano per la sopravvivenza anche se non sempre il virus porta alla morte dell’ospite, come ad esempio nel semplice raffreddore». Questo «nuovo coronavirus» è molto diverso da quelli influenzali ormai noti: «Ci sono i coronavirus che provocano sintomi passeggeri delle vie respiratorie (rinite, mal di gola, febbre, tosse), e i virus dell’influenza che solo raramente provocano una polmonite. Ora, questo nuovo coronavirus è imparentato con la SARS 1». La specialista parla di una «malattia sistemica»: «Non provoca un semplice raffreddore, non soltanto una polmonite come la SARS 1, ma può creare problemi a molti organi (tra cui il sistema vascolare, cuore,
L’unica alternativa al vaccino, per ora, sono le misure di prevenzione: distanza sociale, mascherina e disinfettanti. (Pexels.com)
reni, sistema gastrointestinale, fegato, sistema nervoso), dimostrando di essere una malattia complessa. L’80 per cento delle persone infettate sviluppa una malattia moderata senza necessità di ossigeno, ma un 20 per cento sviluppa una malattia grave e necessita ossigeno, e di questi un quarto sarà in terapia intensiva». Importanti i fattori di rischio individuali: «Età e comorbidità (immunosoppressione, malattie cardiovascolari, polmonari e renali croniche, diabete) aumentano il rischio di ammalarsi gravemente». Il vaccino è l’arma migliore di cui disponiamo per ora: «In Svizzera ne abbiamo due (a mRNA, una tecnica sviluppata da un decennio, ora applicata a questi vaccini)». Nel frattempo, aumenta l’esperienza dei milioni di persone vaccinate a livello globale:
«Perciò, conosciamo già i possibili effetti collaterali dei vaccini: l’esperienza a livello mondiale è tale che li possiamo considerare sicuri, anche se sono noti alcuni rarissimi effetti collaterali come ad esempio la miocardite che, ripeto, è rarissima». Elzi conferma la situazione attuale: «La maggior parte delle persone ospedalizzate non è vaccinata, le poche vaccinate sono quelle talmente immunosoppresse che non hanno sviluppato gli anticorpi». Invita a riflettere sul fatto che «un vaccino non è una protezione del 100 per cento (non esiste in medicina!), ma è dimostrato che diminuisce notevolmente il rischio di ammalarsi gravemente e di morire per COVID 19». Ricorda che resta comunque necessario proteggersi e di riflesso proteggere gli altri: «Chi decide di non vacci-
narsi per motivi personali, si ricordi di seguire scrupolosamente le indicazioni già note (indossare la mascherina nei luoghi chiusi, disinfettare spesso le mani, eccetera)». La dottoressa ribadisce che, oggi, l’alternativa al vaccino è questa. Tra vaccino e malattia alcuni hanno dubbi su quale sia più temibile: «La malattia va presa seriamente perché può avere decorso grave e fatale, per cui la malattia è sicuramente più pericolosa del vaccino». Sulle terapie, infine, ridimensiona l’uso degli anticorpi monoclonali: «Sono riservati a pochissime persone, con alto rischio di decorso infausto, e sono efficaci solo se somministrati precocemente». La corretta informazione è ancora la via per decidere in tutta coscienza individuale e collettiva.
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Ambiente e Benessere
Sentinelle del clima
Mondo sommerso Studiando i loro habitat, ma soprattutto la loro predisposizione all’adattamento, questi
gasteropodi marini si stanno rivelando molto preziosi – (parte seconda)
Pteraeolidia ianthina; Grotta Killer, Isola Farondi, Raja Ampat, Irian Jaya, Papua occidentale, Indonesia, Oceano Pacifico. Sul sito www. azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica. (Franco Banfi)
Sabrina Belloni Dopo aver introdotto i nudibranchi quali molluschi gasteropodi marini molto particolari, nella prima parte di questo articolo, apparsa su «Azione 18» del 3 maggio 2021, oggi ne approfondiamo la conoscenza. Sono animali largamente diffusi, dalle acque tropicali e temperate sino a quelle polari. Li troviamo più spesso nelle zone costiere di ogni continente, ovvero in quelle aree più frequentemente monitorate (data la maggiore presenza umana), e laddove è più economico e tecnicamente più agevole effettuare campi di ricerca. Alcuni nudibranchi, tuttavia, sono stati trovati anche a 2500 metri di profondità. Sono talmente ubiquitari che ricercatori australiani (ad esempio Steve Smith, professore alla Southern Cross University in New South Wales) li stanno utilizzando come marker per documentare i cambiamenti climatici. Considerato che il loro ciclo vitale dura mediamente meno di un anno, essi si adattano più velocemente di altre specie alle rapide variazioni degli ecosistemi nei quali vivono. In particolare, i ricercatori hanno scoperto che le circa 60 specie monitorate sono state rilevate in aree più meridionali (nell’emisfero australe), ben oltre la consueta zona di osservazione, a conferma che sopravvive la specie che meglio si adatta ai cambiamenti, piuttosto che la più forte o la più intelligente. Lo spostamento in altri areali può essere provocato da varie cause, correlate al cambiamento climatico. La variazione della temperatura determina modifiche nella direzione e intensità delle correnti marine, nel grado di salinità, di ossigeno, nutrimenti disciolti, e delle risorse alimentari, elementi tutti che possono costringere gli animali a spostarsi in zone differenti, alla ricerca di fattori ambientali a loro più congeniali.
Il professor Steve Smith della Southern Cross University, in particolare, afferma che alcuni nudibranchi sono stati osservati oltre 2500 chilometri più a sud delle consuete zone di ricerca. Il fenomeno potrebbe essere causato dalla dispersione delle larve, dovuta a una diversa traiettoria e intensità della Corrente dell’Australia Orientale. Sì, proprio quella «autostrada del mare» immortalata nel film della Pixar, Alla ricerca di Nemo, la quale trascina con sé moltissimi animali, invertebrati, pesci e tartarughe marine, dal Mar dei Coralli alla costa sud-est dell’Australia. Esistono alcuni nudibranchi che sembrano sovvertire le leggi basilari della natura. Sappiamo che solamente i vegetali effettuano la fotosintesi clorofilliana in natura, cioè convertono la luce solare in energia (prevalentemente carboidrati e zuccheri), fissando l’anidride carbonica dispersa in atmosfera con l’acqua e pochi nutrienti dispersi nel terreno. Sappiamo anche che ogni regola ha almeno una eccezione. Ed è questo il caso di Elysia chlorotica, un bellissimo nudibranco color verde smeraldo, il quale trasferisce nel pro-
prio mantello i cloroplasti (organi preposti alla fotosintesi) delle alghe di cui si nutre. È stato dimostrato in laboratorio dal dottor Patrich Krug, biologo alla California State University di Los Angeles, che Elysia c. può digiunare per oltre nove mesi, purché si crogioli alla luce solare, ricavando l’energia necessaria al proprio metabolismo dall’attività dei cloroplasti. Le ricerche condotte sino a oggi hanno spiegato alcuni processi vitali, ma molte domande restano senza risposta. Ad esempio, come riescano i cloroplasti a sopravvivere nel corpo del nudibranco, privi delle proteine prodotte dalle alghe; perché l’ossigeno puro e i radicali liberi rilasciati durante il processo di fotosintesi non feriscano il nudibranco; come i cloroplasti vengano trasferiti intonsi nel mantello senza essere digeriti dal nudibranco. Tanti interrogativi probabilmente rimarranno tali, data la scarsità di esemplari di Elysia c. e la difficoltà di terminare le sperimentazioni. Le stranezze dei nudibranchi sono sorprendenti. Cos’altro dire di «un pene usa e getta»? L’apparato riproduttore dei nudibranchi Chromodoris re-
Tambja morosa, Parco di Tubbataha, Mare di Sulu, Palawan, Filippine. (F. Banfi)
ticulata è l’unico esempio finora conosciuto di pene che viene abbandonato e che si riforma, e non è l’unica stravaganza. Molti nudibranchi sono ermafroditi simultanei, cioè possiedono sia gonadi maschili sia femminili. Quando si accoppiano (sempre sul lato destro), entrambi i partner si penetrano contemporaneamente e vi è uno scambio di spermatozoi reciproco. Entrambi gli individui sono fecondati e fecondano allo stesso tempo. Una ricerca condotta da Ayami Sekizawa (ricercatore alla Osaka City University) e da Yasuhiro Nakashima (ricercatore della Nihon University di Tokyo), ha dimostrato che i Chromodoris reticulata, terminato l’accoppiamento, si separano e si allontanano con una parte dei rispettivi genitali ancora estroflessi dai corpi, la quale si stacca completamente alcuni minuti più tardi. Sorprendentemente questi nudibranchi possono riprodursi nuovamente il giorno successivo (sino a un totale di tre giorni): in realtà il loro pene è di maggiori dimensioni rispetto a quello visibile. Durante l’atto sessuale, infatti, ne viene estroflesso circa un centimetro, l’altra parte resta compressa all’in-
terno del corpo. Ognuno dei tre segmenti è usa e getta. Inoltre, all’interno della gonade femminile, essi possono conservare lo sperma di parecchi accoppiamenti e scegliere quello con cui fertilizzare le proprie uova. Quando i ricercatori osservarono con il microscopio gli organi abbandonati dopo l’accoppiamento, notarono che erano ricoperti di piccole spine rivolte all’indietro. All’inizio ritennero che gli uncini servissero per evitare che l’organo fosse accidentalmente espulso dal partner durante l’atto sessuale. Ma poi constatarono che questi piccoli uncini trattenevano lo sperma del precedente accoppiamento. I ricercatori giapponesi conclusero che il primo atto sessuale venga utilizzato per rimuovere lo sperma depositato nel ricettacolo seminale dai precedenti nudibranchi con cui il partner si è unito. Dopo aver rimosso lo sperma dei rivali ed essersi privati del primo pene, i nudibranchi effettuano un altro atto riproduttivo con il secondo organo, aumentando la possibilità di trasmettere i propri geni. Una competizione per garantire la propria discendenza veramente impressionante.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 settembre 2021 • N. 38
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Ambiente e Benessere
A passo di danza
Viaggiatori d’Occidente La ripartenza del turismo (con regole nuove) continuerà
anche in autunno
Ricordi di un vecchio camper giallo Bussole Inviti a
letture per viaggiare
Claudio Visentin Se volete sapere quando questa crisi sarà passata, tenete d’occhio i ballerini di flamenco. La Spagna fu il primo Paese a sperimentare il turismo di massa negli anni Cinquanta del Novecento e larga parte della sua immagine si è fondata sulla trinità turistica: paella, sangria, flamenco. Prima della pandemia il flamenco si ballava nei numerosi tablao, i locali con le caratteristiche piattaforme di legno dove risuonano i passi dei ballerini. Negli anni scorsi in Spagna si tenevano cinquantamila spettacoli di flamenco all’anno; oggi la maggior parte dei ritrovi sono tristemente chiusi e il palcoscenico è vuoto. Le ragioni sono evidenti: nel flamenco le distanze tra i ballerini e il pubblico sono ridotte al minimo e il coinvolgimento degli spettatori, la connessione che si stabilisce tra il palco e i tavoli, è proprio il segreto delle esibizioni più riuscite. Per non fare la fine dei danzatori di flamenco, minacciati dalla miseria, il turismo ha ricominciato a ballare: quel che si può, come si può, fosse pure un lento da riviera romagnola. Discussioni su questioni di principio che infuriano sui giornali e nei social – obbligo vaccinale, passaporto sanitario eccetera – hanno solo una debole eco tra gli operatori turistici; semmai interessa capire come applicare le restrizioni (e non è sempre facile).
Il turismo interno cresce a ritmi esplosivi: acquisto e affitto di camper sono aumentati del 40% in un anno Certo non è più il turismo al quale eravamo abituati, soprattutto sul versante internazionale. Per quanto non sia poi così probabile, pesa il timore di restare bloccati all’estero, magari ammalati e affidati a un sistema sanitario meno efficiente del nostro. Inoltre le restrizioni introdotte dai diversi governi creano incertezza; per esempio gli Stati Uniti sono stati tolti da poco dalla lista dei Paesi considerati sicuri dall’Unione europea. Di riflesso il turismo interno cresce a ritmi esplosivi, come raccontano tutti gli indicatori. L’acquisto e l’affitto di camper registrano un aumento del quaranta per cento su base annua e
New York ha permesso al Battery Dance Festival (diventato virtuale come tanti altri spettacoli) di filmare in tempo pandemico una manciata di artisti dal vivo, al Robert Wagner Park, anche se di prima mattina, per scoraggiare i curiosi. (Steven Pisano)
Volkswagen in particolare ha registrato un incremento di oltre il seicento per cento nella vendita del suo celebre van California, nonostante il costo elevato. Ma in questi mesi il risparmio non è in testa ai pensieri dei turisti, anche perché spesso hanno ancora a disposizione il budget non utilizzato per le vacanze del 2020. La scarsità dell’offerta fa il resto. I posti migliori a portata di mano sono già in buona parte presi per l’estate 2022 (le prenotazioni sono raddoppiate rispetto allo stesso periodo dello scorso anno). Secondo un sondaggio di Visit Britain, metà degli intervistati pensa che la situazione non cambierà nei prossimi mesi, con i viaggi all’estero impantanati in restrizioni e test costosi; e l’85 per cento non si aspetta tanto presto un ritorno alla normalità. Per questo se un tempo si prenotava all’inizio dell’anno per l’estate seguente, ora tutto è anticipato di almeno tre mesi. E in questo campo non aspettatevi buoni prezzi oppure offerte last minute (che saranno invece più che interessanti nei viaggi internazionali,
per chi saprà vincere timori spesso eccessivi). Il «New York Times» ha riassunto cosa dovremmo aspettarci se viaggeremo nei prossimi mesi. Per incoraggiare le prenotazioni, i biglietti, anche quelli economici, saranno sempre più flessibili e sarà facile cancellare o spostare senza spese il proprio viaggio. Per questo alcuni già prenotano due viaggi diversi nello stesso periodo, come forma di assicurazione contro gli imprevisti, cancellando poi quello più complicato da realizzare. La ripartenza delle compagnie aeree resta faticosa. Nei prossimi spostamenti potreste pagare meno il biglietto ed essere magari il solo passeggero nella vostra fila (mi è successo per due volte nei giorni scorsi), ma all’arrivo potreste pagare di più albergo e auto a nolo. Anzi prenotare un’auto potrebbe non essere facile a prescindere dal prezzo. Secondo un sondaggio di Skift Research oltre il 70 per cento degli intervistati progetta un viaggio in automobile, magari con bambini, la fascia d’età che non sarà vaccinata in tempo breve e
che quindi si vuole proteggere di più. I timori e le incertezze sono i grandi nemici del viaggio, un’esperienza che dopo tutto si può sempre rimandare (tuttora la strategia preferita, rispetto all’annullamento e alla richiesta di rimborso). Eppure è anche un peccato rinchiudersi in casa ora che l’autunno è alle porte. È da sempre una stagione perfetta per viaggiare, se appena si riesce a fingersi morti, per così dire, e sottrarsi ancora per un poco alla frenetica ripresa delle attività. Le possibilità non mancano. L’osservazione dei diversi colori delle foglie (leaf peeping o foliage) nell’estate indiana è solo un esempio particolarmente raffinato. Ma perché non partecipare a una vendemmia, per esempio, o alla raccolta delle olive? Inoltre il clima mite, appena percorso dai primi brividi di freddo, permette di stare all’aria aperta, ben distanti dagli altri, per esempio nei boschi a cercare castagne, tartufi, funghi. E c’è ancora tempo per visitare una città d’arte, ora che le gallerie sono meno frequentate. Settembre, andiamo.
«Un giorno mi arrivò una telefonata dalla polizia municipale di Busto Arsizio […] La persona al telefono mi chiese se apparteneva alla nostra famiglia un furgone Volkswagen T3 giallo, adibito a camper, immatricolato nel 1977 e targato RA102211. Risposi stupito che il furgone era stato nostro, ma lo avevamo venduto vent’anni prima. Il poliziotto disse che, invece, risultava ancora intestato a mio padre ed era abbandonato in mezzo ai campi da mesi […] Era da “smaltire”. Insistetti, dissi che lo avevamo venduto nel 1999 a un tizio che cucinava le caldarroste e le vendeva per strada. Rispose che evidentemente il venditore di castagne non aveva mai registrato il passaggio di proprietà e aggiunse che dovevo pagare un carro attrezzi perché lo recuperasse e lo portasse da uno sfasciacarrozze. Lì per lì mi irritai, dissi che non avrei pagato per una responsabilità non mia. Lui rispose che allora avrei avuto una bella multa da pagare. A quel punto ebbi l’illuminazione: “E se lo vengo a prendere?…”». Un vecchio camper ricompare del tutto a sorpresa nella vita dell’autore e inevitabilmente risveglia e porta con sé i ricordi dei viaggi familiari di gioventù. È uno spunto felice. Se il camper è uno dei protagonisti di questo nostro tempo di viaggi tormentati, nella letteratura non ha mai trovato molto spazio (a parte eccezioni come John Steinbeck, Viaggi con Charley. Alla ricerca dell’America). Il camper è sembrato forse troppo pacifico e borghese, con quella sua pretesa di trasportare la sicurezza della propria casa in giro per il mondo; semmai ha avuto più fortuna il furgone attrezzato (o van). In questo libro i ricordi legati al vecchio camper giallo sono mescolati ad altre memorie di viaggio e a più generiche considerazioni sul senso del nostro andare. Personalmente ho amato meno questa parte, ma è anche questione di gusti e aspettative. / CV Bibliografia
Matteo Cavezzali, Supercamper. Un viaggio nella saggezza del mondo, Laterza, pp. 178, € 16.–.
Metagrammi elastici
Giochi di parole Una variante di cambi di lettera che arriva dall’autore di Alice nel paese delle meraviglie
Le regole di questo gioco consentono di unire soltanto parole composte dallo stesso numero di lettere. Per estenderne le potenzialità anche a coppie di parole, composte da un numero diverso di lettere, nel tempo, è stata messa a punto una sua variante detta elastica, che permette di effettuare, oltre al cambio, anche lo scarto o l’aggiunta di una lettera per volta.
In base a questa impostazione (più elastica…), ad esempio, si può passare da: «Parole» a «Frasi», nel seguente modo: Parole – Prole – Prose – Ròse – Rósi – Rasi – Frasi. Qui di seguito riporto alcuni interessanti esempi di coppie di parole, collegabili tramite dei metagrammi elastici (nel ri-
spetto delle regole più rigorose). Provate a risolverli nel modo migliore possibile, tenendo presente che, data la natura del gioco proposto, i risultati potenzialmente ottenibili non sono unici. 1. Sarto – Abito; 2. Rosa – Spina; 3. Odio – Amore; 4. Nord – Sud; 5. Disco – Canzone; 6. Seme – Albero; 7. Dati – Contenuti; 8. Conflitto – Pace.
Soluzione
È opinione comune che la proposizione di un metagramma risulti molto più elegante (e accattivante) se, come negli esempi precedenti, i significati delle due parole da unire si mostrano in qualche modo correlati. In merito ai criteri per valutare la correttezza delle parole intermedie da trovare, invece, esistono diverse scuole di pensiero.
La posizione più rigorosa può essere così sintetizzata: – non sono ammessi nomi propri, né voci verbali coniugate in forma diversa dall’infinito e dal participio; – il passaggio a una nuova parola non è valido, se a questa possono essere attribuiti solamente dei significati, strettamente affini a quello di una parola già trovata.
5. Disco – Fisco – Fico – Fino – Fine – Cine –Cane–Canoe–Canone–Canzone. 6. Seme – Sete – Sette – Setto – Etto – Atto – Alto – Altro – Altero – Albero. 7. Dati – Doti – Dotti – Cotti – Corti – Cortei – Cortesi – Contesi – Contesti – Contenti – Contenuti. 8. Conflitto – Confitto – Convitto – Convito – Condito – Candito – Àndito– Àdito – Dito – Dato – Fato – Fate – Face – Pace.
Come ho affermato in uno dei primissimi articoli pubblicati in queste pagine, una maniera piuttosto stimolante per divertirsi con i cambi di lettera è stata ideata nel 1878 da Lewis Carroll, l’autore di Alice nel Paese delle Meraviglie, che lo denominò doublets (doppietti). Questo gioco, noto in Italia con il nome di metagramma semplice (o soltanto metagramma), consiste nel cercare di unire due determinate parole, di uguale lunghezza, mediante una catena di altre parole di senso compiuto, ottenute cambiando una sola lettera per volta. Ovviamente, il risultato ottenuto è tanto più interessante, quanto minore è il numero delle parole che sono state
utilizzate. Alcuni significativi esempi a riguardo possono essere i seguenti: Sole – Sale – Sala – Sana – Lana – Luna Gatto – Patto – Petto – Pésto – Pèste – Pesce Cento – Conto – Conte – Monte – Molte – Molle – Mille Medico – Modico – Sodico – Sadico – Sàlico – Salice – Salite – Salute Nulla – Culla – Colla – Collo – Colto – Molto – Motto – Matto – Tatto – Tutto
Alcune catene di collegamenti possibili (non necessariamente le migliori...) sono le seguenti. 1. Sarto – Arto – Alto – Alito – Abito. 2. Rosa – Posa – Sposa – Spora – Spira – Spina. 3. Odio – Sodio – Sodo – Modo – Mode – More – Amore. 4. Nord – Lord – Lorde – Lode – Sode – Sole – Sol – Sul – Sud.
Ennio Peres
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Di Terre Rare è lastricata la via verso il futuro
Ambiente e Benessere
Sostenibilità I Rare Earth Elements sono dappertutto, eppure ne sappiamo poco. Da dove arrivano
e a che cosa servono? Chi sono i maggiori produttori? E soprattutto: quanto pesa la loro estrazione in termini di ambiente e politica internazionale? Amanda Ronzoni, testo e foto Quando nell’agosto del 2019 Donald Trump confermò le voci di un suo crescente interesse all’acquisto della Groenlandia, l’ilarità mondiale fu pari solo all’incredulità e allo sdegno con cui il governo danese respinse l’apparente boutade, mentre quello locale groenlandese, più diplomatico, declinava gentilmente l’offerta, derubricandola come segnale di interesse a investire sul territorio e incrementare relazioni di buon vicinato. In realtà dietro quella che è sembrata l’ennesima pittoresca uscita dell’istrionico ormai ex presidente Usa, buttata lì con nonchalance e quasi subito lasciata annegare nel mare dei suoi numerosi e rumorosi cinguettii, si apre uno dei fronti più caldi della geopolitica mondiale, ovvero l’accesso a un gruppo di 17 elementi chimici – scandrio, ittrio e la serie dei lantanoidi – fondamentali (insieme a litio, nichel e cobalto) per lo sviluppo delle nuove tecnologie. Più che «rari» (REE da Rare Earth Elements), andrebbero chiamati «rarefatti», perché in realtà si trovano in abbondanza nella crosta terrestre, solo in maniera diffusa e non in grandi giacimenti come per altri metalli. Il più abbondante è il cerio, mentre i più rari sono, promezio a parte, tulio e lutezio. Comunemente presenti in più di un centinaio di minerali, principalmente nella monazite e nella bastnaesite, è il processo di estrazione la nota dolente: servono quantitativi d’acqua importanti e tonnellate di roccia per ottenerne pochi chilogrammi. Inoltre, poiché alcuni dei minerali che li contengono presentano anche elementi radioattivi, gli scarti di lavorazione sono contaminanti. La Chinese Society of Rare Earths (CSRE) ha calcolato che approssimativamente l’estrazione di una tonnellata di REE produce un quantitativo di circa 75 metri cubi di acque reflue acide e una tonnellata di rifiuti radioattivi, con uno scarto tra i 9600 e i 12mila metri cubi di rifiuti sotto forma di gas, a loro volta contenenti polveri concentrate, acido fluoridrico, anidride solforosa e acido solforico, con effetti potenzialmente nocivi sulla salute dei lavoratori e in generale delle popolazioni che si trovano a vivere a stretto contatto con i siti estrattivi. L’altro lato della medaglia sono le particolari proprietà termoelettriche, ottiche, fotofisiche, catalitiche e magnetiche di questi elementi, che li rendono fondamentali per la produzione di materiali impiegati nel settore dell’energia, dell’automotive e dell’elettronica avanzata. Per questi scopi, leghe e
metalli sono richiesti in estrema purezza e ciò comporta processi di selezione e separazione particolarmente selettivi ed efficienti, quindi costosi. Smartphone, pannelli fotovoltaici, veicoli elettrici, turbine eoliche. La richiesta di questi minerali è in costante crescita a livello mondiale e la situazione si sta facendo di nuovo «calda». Dichiarazioni di Goldman Sachs di inizio anno, ritengono che il settore sta per compiere un salto di qualità grazie all’impulso sempre maggiore dovuto allo sviluppo delle nuove tecnologie; il presidente Biden ha promesso 37 miliardi di dollari per superare la crisi dei semiconduttori che minaccia di fermare l’industria dell’auto; la Cina, che attualmente è il primo produttore ed esportatore di REE, dal canto suo minaccia di nuovo di restringerne l’export, mentre accelera i suoi piani per l’estrazione in Mongolia, con uno sguardo ad Africa e Groenlandia; il Giappone intanto prosegue con il deep sea mining, ovvero le trivellazioni in mare aperto; e mentre in Sudamerica, in Bolivia, Chile e Argentina si guarda agli sterminati giacimenti di litio (altro materiale la cui richiesta è salita notevolmente negli ultimi decenni), si teme l’apertura di nuove miniere di REE in
Brasile, il maggior produttore di niobio, cosa che metterebbe ulteriormente pressione su regioni e ambienti già pesantemente minacciati come la foresta amazzonica. La questione ha risvolti ambientali (e sociali) importanti, specie quando si tratta di attività che prevedono dei greenfield mining project, ovvero l’apertura di nuovi siti estrattivi. Tanto che la Groenlandia ha votato contro l’ambizioso progetto per l’apertura di una nuova miniera a Kvanefjeld, che secon-
do alcuni nasconde il secondo deposito più grande al mondo di terre rare. Attualmente la Cina non solo è il maggior produttore di terre rare, con l’85 per cento della produzione globale nel 2020, ma, vista la crescita del mercato interno, la previsione è che l’import di REE passerà da 60mila tonnellate nel 2021 a 80mila tonnellate l’anno nel 2030. L’indubbia posizione di dominanza che il dragone occupa da decenni gli ha permesso di sfruttare a suo vantaggio il bisogno di questi ele-
menti da parte di altri paesi, scatenando già nel 2010 una prima «crisi delle terre rare», bloccando l’export per fini politici e minacciando lo sviluppo dell’industria high tech giapponese e americana. Il Giappone, nel frattempo, ha intrapreso ricerche e investimenti sempre più consistenti nel deep-sea mining: grazie a un macchinario sviluppato e realizzato in casa, il JOGMEC, ha raccolto direttamente dal fondale marino, in un sito test in acque territoriali, ben 649 chili di crosta oceanica ricca di cobalto e nichel. Secondo i ricercatori l’area contiene abbastanza cobalto da soddisfare la domanda interna per i prossimi 88 anni. Purtroppo, l’impatto ambientale delle estrazioni minerarie in profondità è fortemente discutibile, in quanto va a intaccare un patrimonio di biodiversità incalcolabile ancorché ancora largamente sconosciuto. In pratica rischiamo di distruggere delle specie di cui ancora non conosciamo l’esistenza. Ma una soluzione c’è. In realtà l’impatto ambientale delle terre rare, così come la loro importanza come arma geopolitica, può essere significativamente ridotto introducendo un modello di economia circolare, ovvero affinandone in prima battuta i processi di estrazione e purificazione, in modo da ridurre gli sprechi, oppure ricorrendo al riciclo. È nel futuro dei prodotti giunti alla fine del loro ciclo di vita che possiamo intravedere una via sostenibile, recuperando le terre rare che essi contengono. I nostri cellulari usati, ad esempio, nascondono un piccolo tesoro. Non è un processo semplice, ma gli Stati, che non hanno queste risorse in casa e dipendono quindi dai grandi player come la Cina, si stanno attrezzando sempre più per sostenere progetti innovativi che sappiano recuperare e reimmettere in circolo questi materiali straordinari. Perché la rivoluzione verde sia davvero «green».
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Idee e acquisti per la settimana
I PUNTINI SULLe I DeL GUSTO
L’aceto balsamico di Modena I.P.G., con le sue note fruttate, è perfetto sia con le ricette di piatti dolci che salate. Alcuni consigli su come utilizzare le specialità di aceto della tradizionale azienda Ponti
I NOSTRI SUGGeRIMeNTI 1. La carne scura, come l’arrosto, prima della rosolatura può essere spennellata con l’aceto aroma antico rosso Ponti. Ciò conferisce lucentezza e aroma alla carne. Oppure si possono far bollire pere, pesche e altri frutti in una base di miele e aceto: un dessert delizioso. 2. Mantecare il risotto con il condimento bianco Dolce Agro, che dà risalto ai sapori. Può anche essere usato per completare la preparazione di una tartare di pesce o di verdura. 3. Durante l’aperitivo il prosciutto di Parma condito con l’aceto balsamico di Modena IPG Ponti è ancora più apprezzato. Importante è aggiungere l’aceto goccia a goccia, una regola che permette di far emergere il sapore della pietanza.
Immagini e Styling: zVg
4. La glassa all’aceto balsamico di Modena IGP Ponti è adatta per intingere cubetti di formaggi duri. E aggiunge una nota particolare a una bistecca brevemente rosolata.
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
Uno spezzatino Orecchiette con d’agnello catalognaspeciale ai pinoli Piatto Primo principale piatto Ingredienti per 4 persone: 800 1 cespo g didi spezzatino catalognad’agnello, di circa 700 ad esempio g · 350 g d’orecchiette spalla · sale ·
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
pepe · sale··24cucchiai c di pinoli d’olio · 1 limone di colza·HOLL 6 c d’olio · 4 spicchi d’oliva d’aglio · pepe dal · 2 cipolle macinapepe grosse · 840pomodori g di parsecchi migiano. sott’olio · ½ cucchiaio di farina · 4 dl di brodo di manzo · 50 g di olive nere snocciolate · 4 fette di prosciutto crudo · 2 cipollotti · 1 limone. 1. Tagliate la base della catalogna ed eliminate le foglie esterne più dure. Dimezzate 1. Condite la catalogna la carne per con il lungo, sale staccate e pepe ealcune rosolatela belle bene foglienell’olio e dimezzate in una ancora padella. una volta Dimezzate i cuoril’aglio, per il lungo. tritate grossolanamente le cipolle. Aggiungete aglio, cipolle e 2. pomodori Lessate laalla pasta, carne, le foglie spolverizzate e i cuori di con catalogna la farinaine acqua bagnate salata con per il brodo. 13-15 Mettete minuti. 3. il coperchio Tostate leggermente e stufate a ifuoco pinolimedio-basso in una padella. perSpremete circa 50 minuti. il limone. Lasciate Scolateillacoperpasta echio la catalogna leggermente e lasciate apertosgocciolare. per permettere al vapore di fuoriuscire dalla padella, in 4. modo Rimettete che il liquido in padella si riduca. e mescolate con l’olio e il succo di limone. Condite con sale 2. Tagliate e pepe.leServite olive ee iguarnite cipollotticon a rondelle i pinoli tostati. sottili, Insaporite il prosciutto con a dadini. una manciata Ricavate di parmigiano delle listarelle grattugiato. dalla scorza del limone. Mescolate tutto. 3. Spremete la metà del limone. Condite lo spezzatino con il succo di limone, sale circala30 minuti. sulla carne. ePreparazione: pepe e distribuite gramolata Per persona: circa 22 g di proteine, 23 g di grassi, 68 g di carboidrati, 570 kcal/ 2350 Un piatto kJ. gustoso che può essere accompagnato con pasta o semplicemente con fette di pane. Preparazione: circa 20 minuti; brasatura: circa 50 minuti. Per porzione: circa 47 g di proteine, 27 g di grassi, 13 g di carboidrati,
520 kcal/2150 kJ.
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Ambiente e Benessere
Dal buio alla luce, e poi?
Sport Gli atleti paraolimpici salgono sulla ribalta ogni due anni, per poi tornare a lavorare nell’oscurità
Giancarlo Dionisio Ho seguito le gesta olimpiche dei cosiddetti atleti disabili attraverso le testimonianze di alcuni blogger. Anche perché non era così scontato trovarne le tracce sui vari canali televisivi. La copertura mediatica è cresciuta, rispetto a quanto non si facesse agli albori della manifestazione, quando nel 1948 il neurochirurgo tedesco Ludwig Guttmann diede il via al progetto. Tuttavia non c’è paragone rispetto allo sport «ordinario». Riconosco che il sistema mediatico racchiude in sé anche alcuni aspetti perversi. Fra questi la costante ricerca del fenomeno diverso, capace di inchiodare i telespettatori davanti allo schermo. Qualcuno ricorderà, 40 anni or sono, la tragedia di Vermicino, con Alfredino Rampi, il bimbo di sei anni imprigionato in un pozzo artesiano, 36 metri sottoterra. I tecnici della RAI mostrarono il meglio di sé, consentendo al piccolo di comunicare con i genitori e i soccorritori in superficie. Ma la macchina mediatica seppe anche scatenare il voyeurismo del grande pubblico, con un’impressionante serie di lunghi collegamenti in diretta per seguire i numerosi, e purtroppo vani, tentativi di salvataggio del bambino. Fu una prima assoluta, in Europa. La TV in formato USA era stata sdoganata. Aveva fatto capire che la gente aveva bisogno di prestazioni degne di nota, ma anche di storie. Pure il mondo dello sport vive di storie, che vanno oltre i risultati. Ad
esempio, ai recenti Giochi Olimpici di Tokyo, in Italia è esplosa la «staffettomania». Nell’atletica, la 4x100 maschile ha acceso gli entusiasmi della gente e la curiosità dei cronisti. Commovente la storia di Filippo Tortu. Il giovane talento sardo, deludente e deluso sui 100, si riscatta, ergendosi a eroe con una miracolosa progressione che regala l’oro ai suoi nella prova a squadre. Suggestiva anche la vicenda di Marcell Jacobs, padre texano, militare di stanza a Vicenza, madre veneta, che decide di non seguire il compagno negli Stati Uniti. Marcell nasce a El Paso, ma cresce sulle sponde del Lago di Garda, con l’Italia nel cuore. E che dire di Eseosa Fostine Desalu, di origini nigeriane, italiano dal 2012? Sua mamma viene invitata a una trasmissione televisiva che celebra gli eroi azzurri della staffetta, ma lei declina l’invito: «Devo lavorare, non posso lasciare da sola la signora di cui mi occupo». Anche il mondo dello sport paraolimpico è zeppo di belle storie, di esempi, di cuori pulsanti capaci di portare acqua al desolante e arido deserto sentimentale che ci sta piano piano colonizzando. Ne cito una, ma sono mille. Monica Graziana Contrafatto era caporalmaggiore dei bersaglieri dell’esercito italiano di stanza in Afghanistan nel 2012. A Farah, nel sud-est del paese, rimase vittima di un attentato. Una bomba che intendeva colpire il contingente di pace le provocò danni all’arteria femorale, all’intestino, a una mano, e la privò della gamba destra. Dedizione, forza di volontà, determinazione,
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allenamenti costanti l’hanno sospinta alla conquista della medaglia di bronzo sui 100 metri ai Giochi Paraolimpici di Tokyo. Ne aveva già conquistata una, al valore militare, poiché in quella sventurata esplosione del 2012, il suo coraggio aveva evitato una strage di dimensioni maggiori. Qual è stato il suo primo commento dopo essere scesa dal podio olimpico? «Voglio tornare in Afghanistan per mettermi a disposizione della gente, dei bambini, dei malati di quel paese». L’Italia, dal Giappone, si è portata a casa 69 medaglie, 69 storie degne di
essere raccontate. Infatti, negli ultimi anni, i media hanno saputo cavalcare l’onda. Bebe Vio e Alex Zanardi hanno una dignità e un’esposizione da supereroi. In Svizzera, siamo più restii nel dare lustro alle imprese dei para-atleti, nonostante le 14 medaglie portate a casa, frutto della forza di carattere di campioni come Marcel Hug e Manuela Schär. Da noi la cultura dello Star System è piuttosto timida. Tuttavia, fenomeni come Heinz Frei meritano di essere raccontati. A Tokyo ha vinto l’argento nel para-ciclismo. E allora, dirà qualcu-
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba In quanti anni fu costruito il Colosseo e come lo chiamavano? Scoprilo leggendo, a cruciverba risolto, le lettere evidenziate. (Frase: 6, 4 – 10, 6)
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Marcel Hug nella finale degli 800 m. (Swiss Paralympic)
no? Allora, tutti in piedi e giù il cappello. Ha 63 anni. Da 40 porta la bandiera rossocrociata in giro per il mondo. Per lui si tratta della 38° medaglia (18a d’oro) ai Giochi paraolimpici, tra maratone in carrozzella, ciclismo e sci di fondo. Heinz è un’icona, un monumento. Anni or sono, presso la clinica riabilitativa di Nottwil, lo avevo visto impostare uno dei primi allenamenti di un giovane paraplegico. Uno spettacolo, di rara umanità ed empatia. Personaggi e atleti come lui non hanno nulla da invidiare a quelli olimpici. Vedere una sfida fra atleti con protesi, o in sedia a rotelle, non credo sia meno entusiasmante che seguirne una fra i cosiddetti normodotati. Quindi, perché non garantire ai primi una copertura mediatica simile a quella dei secondi? Questo consentirebbe loro di entrare nel cuore della gente e di staccare contratti pubblicitari in grado di garantire loro continuità di lavoro, oltre che qualche agio in più. Immagino già la risposta: una copertura più massiccia genererebbe costi difficili da sopportare. E allora perché non compiere il grande salto e fondere giochi olimpici e giochi paraolimpici in una sola grande manifestazione. Si tratterebbe di approfittare di un’unica macchina organizzativa, sfoltendo magari leggermente il programma. In un mondo in cui il concetto di «inclusione» viene sbandierato come un obiettivo imprescindibile, sarebbe un passo fondamentale verso le pari dignità.
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
ORIZZONTALI
1. Si ripete alzando i calici 4. Avverbio di luogo 7. Profeta biblico 9. Le iniziali dell’attore Nolte 10. Una sillaba dell’1 verticale 11. Fiume albanese 13. Un anagramma di tuono 14. Un nome da cane 17. Tessuto leggero 18. Figlia di Zeus e di Eris 19. Seguite dalle navi... 21. Le iniziali dell’Ariosto 22. Di questo... il palazzo dell’ONU 23. Le iniziali del cantante Antonacci 24. In seguito 25. Lo era Pietro il Grande 26. Altrimenti detto 27. Possono essere travolgenti e
appassionati Verticali 1. Si attacca alla bugia... 2. Piccola rana verde 3. Tredicesima lettera dell’alfabeto greco 5. Congiunte... ma non parenti 6. Lo esegue la fanfara 8. Ha raggiunto la maturità 12. Ruolo... a Parigi 13. Mammifero roditore americano 14. Squarcio nella carena della nave 15. Andata per Cicerone 16. Antico prefisso nobiliare 17. Antonio de Curtis 19. Ripetizioni inglesi 20. Riferimenti in navigazione 22. Una maestra... che non sa niente 23. Unità di pressione 24. Preposizione 25. Un’ala del palazzo...
Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la
Sudoku Soluzione:
Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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IL MONDO ANIMALE – Se un animale è xilofago… Resto della frase: …VUOL DIRE CHE MANGIA IL LEGNO. V A M P A
S U O R E R A H E I E R N T R O L I V E
L I E C S T A T O R G O E A L L G I N E A
D I A O R O T E I M R I R E M E V A A R O E
soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 settembre 2021 • N. 38
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Politica e economia A cosa serve la Nato Nata per difendere il blocco occidentale, probabilmente resisterà a lungo ma per inerzia
Taiwan come l’Afghanistan? «Gli Usa vi abbandoneranno come hanno fatto col popolo afgano», minaccia la propaganda cinese. E Taipei si prepara pagina 29
Votazioni federali Il 26 settembre si voterà l’iniziativa che chiede di tassare maggiormente i capitali pagina 33
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Una Germania concentrata su sé stessa? Il punto C’è incertezza sull’esito del voto
per il rinnovo del Bundestag e i protagonisti della campagna elettorale sembrano preoccuparsi soprattutto delle sfide interne
Marzio Rigonalli Il 26 settembre i tedeschi tornano alle urne per eleggere i membri del Bundestag. È un appuntamento che si rinnova ogni quattro anni ed è forse il momento più importante della democrazia tedesca, poiché si ridefiniscono i rapporti di forza tra i partiti politici. L’attesa è forte ed è caratterizzata da varie tensioni, alimentate dai comizi elettorali, dai dibattiti trasmessi dai media e dalle innumerevoli prese di posizione. E altrettanto forte è l’incertezza sul possibile risultato. Per la prima volta nella storia della Repubblica tedesca al centro della campagna elettorale non c’è un cancelliere o una cancelliera uscente, che possa difendere un suo bilancio, bensì leader politici che non vantano nessuna esperienza diretta della massima carica federale o addirittura che non possiedono nessuna esperienza vissuta nel Governo federale. Gli elettori votano dunque per i partiti politici che saranno presenti nel Parlamento e che determineranno il futuro Governo, contrariamente a quanto avviene in Francia, per esempio, dove il presidente viene eletto direttamente dal popolo. Nonostante la centralità delle forze politiche, la campagna elettorale si è concentrata soprattutto sui leader, sulle persone che guidano i partiti e ha messo in rilievo le loro forze e le loro debolezze. I leader dei tre principali partiti sono stati particolarmente seguiti e osservati: Armin Laschet dell’Unione Cdu/ Csu (Unione cristiano-democratica di Germania e Unione cristiano-sociale in Baviera), Olaf Scholz della Spd (Partito socialdemocratico tedesco) e Annalena Baerbock dei Verdi (Alleanza 90/I Verdi). Che cosa indicano i sondaggi? Il socialdemocratico Scholz esce in testa e consente al suo partito di raggiungere il 25-26% delle intenzioni di voto, Laschet si ferma intorno al 20% e la rappresentante dei Verdi, Baerbock, chiude intorno al 15%. Ancora due mesi fa le cifre erano ben diverse: Laschet dominava con il 30%, i Verdi seguivano intorno al 20%, precedendo l’Spd che si fermava al 15%. C’è dunque stato uno sconvolgimento delle tendenze, un’inversione quasi storica, perché per vedere nei sondaggi l’Spd davanti alla Cdu/ Csu bisogna risalire al 2006. I nuovi
dati sono attribuibili in gran parte al modo in cui i tre leader si sono presentati davanti agli elettori. Olaf Scholz è stato per otto anni sindaco di Amburgo e dal 2018 è il ministro delle Finanze e il vicecancelliere dell’ultimo Governo Merkel. Si batte per la continuità e si presenta volentieri come l’erede della cancelliera uscente, di cui cerca di imitare lo stile. Ha un programma più sociale del programma del centro-destra e molti vedono in lui una personalità politica situabile più al centro che a sinistra. Il suo partito non l’ha voluto come presidente e ha preferito eleggere due esponenti dell’area di sinistra, Saskia Esken e Norbert WalterBorjans, che sono favorevoli a un’alleanza di governo con tutte le forze di sinistra. Ha gestito bene le conseguenze delle inondazioni di luglio nell’ovest del Paese, sbloccando milioni di euro per gli aiuti urgenti e promettendo un piano di ricostruzione di miliardi di euro. Ha poco carisma e non è certo un buon oratore, ma appare calmo, sicuro, con una profonda conoscenza dei dossier. Molti vedono in lui una persona capace di esercitare la funzione di cancelliere. Armin Laschet ha cominciato male la sua campagna elettorale. È stato designato candidato alla cancelleria senza godere dell’appoggio unanime del suo partito. Una parte della Cdu avrebbe preferito Markus Söder, il presidente della Csu. Durante la campagna elettorale non si è mai distinto con prese di posizione coraggiose o perlomeno originali, e nei giorni delle inondazioni è incappato in una scena che ha fortemente intaccato la sua reputazione. Durante una visita del presidente Steinmeier nelle Regioni sinistrate, la telecamera l’ha sorpreso mentre ridacchiava proprio alle spalle del presidente che stava parlando. Laschet non è popolare e soltanto una minoranza degli elettori intervistati vorrebbe averlo come cancelliere. Cosciente della situazione per lui svantaggiosa, negli ultimi tempi, in particolare nei dibattiti televisivi, ha cercato di mostrarsi più incisivo e più aggressivo nei confronti del suo rivale socialdemocratico. Il voto dirà se la sua scelta è stata pagante. Annalena Baerbock è partita bene nella campagna elettorale. All’inizio era stata indicata perfino come possibile cancelliera, ma poi alcuni errori hanno ridimensionato la sua candidatura. È
Olaf Scholz (in primo piano) è in testa ai sondaggi davanti ad Armin Laschet (sullo sfondo). (AFP)
stata accusata di non aver dichiarato alcune entrate finanziarie e, soprattutto, di plagio nel suo ultimo libro, intitolato Jetzt. Wie wir unser Land erneuen. Oggi non sembra più in grado di contrastare il duello per la cancelleria tra Scholz e Laschet, ma consentirà al suo partito di ottenere un lusinghiero successo e, probabilmente, di far parte del nuovo Governo. I Verdi sono all’opposizione dal 2005 e nelle ultime elezioni del 2017 ottennero soltanto l’8,9% dei voti. Quale sarà l’esito delle urne? Ogni pronostico comporta una buona dose d’incertezza, un po’ perché l’affidabilità dei sondaggi non è mai stata alta in Germania, un po’ perché gli ultimi giorni della campagna elettorale possono an-
cora portare novità importanti. La Germania potrebbe imitare la Norvegia e dare la vittoria ai socialdemocratici, ma potrebbe anche confermare la supremazia dell’Unione Cdu/Csu, favorendo la difficile rimonta di Armin Laschet. Due cose almeno sono sin d’ora certe. La prima riguarda la composizione del nuovo Governo, che non sarà più un’alleanza fra due partiti, come è stato sin dal 1949. Date le forze presenti, tre almeno saranno i partiti che dovranno mettersi d’accordo e le alleanze immaginabili tra le varie formazioni sono almeno tre o quattro. La seconda concerne i tempi necessari per varare il nuovo Governo. Saranno sicuramente tempi lunghi, che richiederanno non giorni o
settimane, bensì mesi. Un lasso di tempo significativo, dunque, che rischia di incidere negativamente sul ruolo internazionale della Germania e sul divenire dell’Europa. Un’ultima osservazione. Visti dall’esterno i protagonisti della campagna elettorale tedesca sembrano preoccuparsi soltanto delle questioni interne e danno poco spazio alle grandi sfide internazionali, legate al clima, al futuro dell’alleanza occidentale o alla forte presenza cinese. Non è molto rassicurante. Avremo comunque maggiori informazioni in merito dopo la proclamazione dei risultati definitivi e dopo aver lasciato un po’ di tempo all’azione del futuro Governo.
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Politica e economia
Il papa: nella chiesa nessuno è fuori posto Fraternità Durante il viaggio apostolico in Ungheria e Slovacchia
Bergoglio ha ribadito la necessità di abbattere i muri
Giorgio Bernardelli Di nuovo in viaggio, ripartendo dall’Europa, il terreno più difficile. Perché se a marzo era stato facile spendere l’aggettivo storico per la visita di papa Francesco a Mosul, anche nelle impaurite città mitteleuropee per il cattolicesimo si sta giocando una sfida esistenziale. Un tempo icona della fede che aveva resistito al comunismo, oggi rischiano infatti di trasformarsi in una trincea dove i cristiani pensano solo a difendersi da un mondo che va in direzione contraria. L’esatto opposto rispetto alla «Chiesa in uscita» di cui parla Bergoglio.
Il papa dell’accoglienza ai migranti ha incontrato Viktor Orban, il premier ungherese dei muri alzati per fermarli Era per questo un appuntamento molto atteso il viaggio apostolico che da domenica 12 a mercoledì 15 settembre papa Francesco ha compiuto in Ungheria e Slovacchia. Si trattava del primo viaggio dopo l’intervento all’intestino a cui il pontefice si è sottoposto due mesi fa a Roma. E molto si era parlato nelle scorse settimane delle sue condizioni di salute, con il consueto corollario di voci su dimissioni e futuro conclave. In realtà queste giornate hanno mostrato un Francesco che (a quasi 85 anni) resta in grado di reggere bene un programma intenso di incontri, discorsi e celebrazioni. E nella sua agenda per i prossimi mesi ha già in novembre la trasferta a Glasgow per parlare alla Cop 26 sul clima e probabilmente anche un altro viaggio a Malta e Cipro poche settimane dopo. Per questo a dominare l’attenzione è stato soprattutto un altro tema: l’annunciato incontro con il premier ungherese Viktor Orban, simbolo di quel cattolicesimo identitario e sovranista lontanissimo dallo stile che Francesco fin dall’inizio del suo pontificato ha impresso alla Chiesa cattolica. Il papa dell’accoglienza ai migranti insieme al premier dei muri alzati per fermarli (e
oggi freddissimo persino di fronte agli esuli in arrivo dall’Afghanistan). Oltre che il capo di governo della contestata legge contro «la promozione dell’omosessualità» – da tempo nel mirino delle istituzioni europee – faccia a faccia con il pontefice dell’ormai celebre frase «chi sono io per giudicare?». Francesco ha fatto di tutto per depotenziare il confronto. Già nel programma del viaggio aveva scelto di dare alla tappa di Budapest un carattere strettamente ecclesiale, con un unico grande appuntamento: una messa celebrata a conclusione del Congresso eucaristico internazionale. Il faccia a faccia privato con Orban c’è stato, com’era ovvio che fosse, ed è stato anche il primo atto del viaggio descritto in maniera opposta dai protagonisti. «Tra i vari argomenti trattati – si legge nel comunicato ufficiale diffuso dal Vaticano – vi sono stati il ruolo della Chiesa nel Paese, l’impegno per la salvaguardia dell’ambiente, la difesa e la promozione della famiglia». «Gli ho chiesto di non far perire il cristianesimo in Ungheria», ha scritto invece Orban in un post sulla sua pagina Facebook. E il suo vice Zsolt Semjén gli ha fatto eco sbandierando la dichiarazione (non poi così sorprendente) secondo cui per il pontefice il matrimonio «è solo quello tra un uomo e una donna». La verità è che papa Francesco guardava altrove; e in tutti gli appuntamenti successivi del viaggio non ha mancato di marcare le distanze rispetto alle battaglie sovraniste. Nella stessa Budapest, per esempio, ha detto ai vescovi ungheresi che «la diversità fa sempre un po’ paura, ma è una grande opportunità per aprire il cuore al messaggio evangelico». Niente rigide difese della «nostra cosiddetta identità» – ha esortato – ma «apertura all’incontro con l’altro». Nell’Ungheria delle polemiche intorno a Soros, poi, ha colto l’occasione dell’incontro con la comunità ebraica per denunciare l’antisemitismo che «ancora serpeggia» in Europa. Ma è stato soprattutto nei giorni successivi in Slovacchia che Bergoglio ha preso con forza le distanze dal cattolicesimo declinato come vessillo identitario. In una terra segnata dal martirio di chi in nome della sua fede
Il pontefice incontra la comunità Rom in Slovacchia il 14 settembre 2021. (Shutterstock)
ha sofferto il carcere e la persecuzione negli anni del comunismo, papa Francesco ha detto che la croce di Gesù non può essere un «oggetto di devozione e tanto meno un simbolo politico». Niente «bandiere da innalzare» ma un punto di riferimento da contemplare come «sorgente pura di un modo nuovo di vivere». Il senso pieno di queste parole – come suo solito – l’ha mostrato soprattutto con un gesto: la visita al quartiere Luník IX della città di Košice. Palazzoni privi di gas e acqua corrente, dove vive la maggiore comunità Rom della Slovacchia. A loro papa Francesco ha detto che «nessuno nella Chiesa deve sentirsi fuori posto o messo da parte». Aggiungendo che «giudizi e pregiudizi aumentano solo le distanze. Ghettizzare le persone non risolve nulla. Quando si alimenta la chiusura prima o poi divampa la rabbia. La via per una convivenza pacifica è l’integrazione». Da queste giornate nel cuore dell’Europa, dunque, papa Francesco esce rilanciando la sua sfida della «fraternità», la parola chiave della sua ultima enciclica «Fratelli tutti» ma anche la sua esortazione al mondo alle prese con il dopo-pandemia. L’ha ripetuta anche in un contesto come quello dei Paesi del gruppo di Visegrad, dove l’euforia per la caduta della cortina di ferro e l’allargamento a est dell’Unione europea ha lasciato in fretta il campo a nuove chiusure. Proprio qui ai giovani ha rivolto l’invito a «non disconnettersi dalla vita, fantasticando nei sogni», che la cultura digitale oggi alimenta. In Ungheria e in Slovacchia le folle si sono radunate per incontrarlo e applaudirlo come sempre. Francesco resta per tutti una grande icona. Ma la domanda rimane: quanto le sue parole sono destinate a lasciare il segno realmente nell’Europa di oggi? Quanto le stesse Chiese cattoliche locali – impaurite da un contesto sempre più secolarizzato – sono decise a prendere le distanze dal modello di Orban e dalle sue polarizzazioni identitarie per provare davvero a rivolgersi a tutti, come vorrebbe il pontefice? L’impressione è che su questo punto la partita resti aperta. E non è detto che le migliaia di persone radunate per una messa siano un indicatore interessante su chi sta vincendo.
Lunga vita alla Nato ma per inerzia L’analisi Washington comincia a mettere
in dubbio l’utilità dell’Alleanza atlantica
La bandiera della Nato (a sinistra) e quella dell’Unione europea. (Shutterstock)
Lucio Caracciolo A che serve la Nato? Questa domanda, inconsueta fino a pochi anni fa, ricorre nelle cancellerie e nelle élite atlantiche. È uno degli effetti più interessanti della disfatta subìta in Afghanistan. Ma è anche un rivelatore della crisi strategica in cui versiamo, chi più chi meno, noi tutti occidentali. Conviene ripartire dalla risposta che a questa domanda dettero i fondatori del Patto atlantico. Ovvero i Paesi europei occidentali, i britannici e il Nordamerica (Usa e Canada). Allora (aprile 1949) la carta geopolitica del mondo appariva disegnata con notevole chiarezza. Da una parte i sovietici, che stavano inglobando i Paesi satelliti conquistati durante la guerra contro i tedeschi, e che sei anni più tardi avrebbero dato vita al Patto di Varsavia, organizzazione militare sotto guida moscovita. Dall’altra la sfera d’influenza americana e in parte britannica, compresi Francia e Italia. Il primo Paese formalmente vittorioso, anche se traumatizzato dal disastro del 1940, dotato di un’idea di sé non corrispondente ai dati di realtà ma tale da immaginarsi «allié, pas aligné». Il secondo Paese ultrasconfitto, ma ammesso nel patto a guida americana per evitare che scadesse a neutrale, dunque infiltrabile dai sovietici. Con in più l’invidiabile collocazione geopolitica al centro del Mediterraneo. Così fino al biennio 1989-91: crollo del Muro di Berlino, unificazione delle due Germanie (annessione della Ddr da parte della Brd), suicidio dell’Urss. Conclusa vittoriosamente la guerra fredda, in teoria la Nato avrebbe potuto celebrare il trionfo, con orgoglio e pathos, e subito dopo sciogliersi. In pratica è successo il contrario. L’Alleanza non si è affatto congedata dal mondo, anzi si è allargata e continua a farlo. Ha stabilito che la Russia resta un nemico pericoloso e quindi afferma suo primo compito proteggere dalle grinfie dell’Orso i suoi soci, a cominciare dagli ex satelliti di Mosca, che considerano la Nato vitale per la propria sopravvivenza. Al di là e al di sotto delle apparenze, la Nato è viva perché serve al suo socio fondatore e capocordata – gli Stati uniti d’America – per controllare la facciata europea e mediterranea dell’Eurasia. Senza pericolo russo – cui s’aggiunge oggi il cinese – la presenza americana in Europa sarebbe difficile da motivare. E d’altronde gli stessi europei traggono vantaggio dal partecipare di un’alleanza che abbatte i costi economici ed eleva il valore militare e strategico delle loro Forze armate.
Non scontato è quindi che oggi su entrambi i fronti, l’americano e l’europeo, si alzino voci che mettono in questione il senso dell’Alleanza. Prima Trump, che se l’è presa con noi europei perché viaggeremmo a sbafo sulla corazzata a stelle e strisce. Poi Macron ha stabilito la «morte cerebrale» della Nato. Infine nelle ultime settimane è tutto un rimbalzare di critiche sollecitate dal caso afghano ma evidentemente sedimentate da tempo. Gli europei reinventano l’utopica «difesa europea», però legata alla Nato. Doppia contraddizione: non può esserci un esercito senza Stato, a meno che non si tratti di soldati di ventura; e non può comunque esserci «difesa europea» se legata, dunque subordinata, all’Alleanza a guida americana. Molto più significativo il dibattito d’Oltreoceano. Gli americani hanno inventato la Nato e loro la scioglieranno, quando utile. Nella cultura strategica americana l’alleanza è valida finché sono gli americani a decidere. Ma se alla prova dei fatti ogni volta che devono combattere, dalla Jugoslavia all’Afghanistan, gli atlantici si mettono a litigare fra loro e procedono secondo il principio «ciascuno per sé nessuno per tutti», il dubbio sulla utilità della Nato per Washington è lecito. In parole povere, alla Casa Bianca e al Pentagono si teme che la Nato traligni in caotico strumento di influenze altrui negli affari propri. Così rovesciando il principio a stelle e strisce per cui è la missione che fa la coalizione, non il contrario. Si aggiunga lo slittamento del baricentro degli interessi americani verso l’Indo-Pacifico e l’Estremo Oriente, in funzione del contenimento della Cina, ed ecco che il valore del Patto di Washington scende nettamente. Il fatto che non appaia un’alternativa visibile, utile a nordamericani ed europei, conferma che l’allineamento semiautomatico degli interessi vitali su entrambe le sponde dell’Atlantico è paradigma trascorso. Ciononostante, è probabile che gli anni della Nato siano ancora lunghi. Per la forza coesiva che tiene insieme le istituzioni, specie le più grandi: l’inerzia. Disfare l’esistente è operazione ardua e anche sentimentalmente oneroso. Un congedo non è un abbraccio. Resta che un abbraccio non spontaneo rischia di produrre danni irreversibili. Per questo immaginare una alternativa più o meno accettabile da tutti i soci – almeno di quelli che contano – è compito che le élite strategiche europee ed atlantiche hanno messo all’ordine del giorno. Nei fori interni.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 settembre 2021 • N. 38
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Politica e economia
«Non si parli di Taiwan!»
Il punto Ogni riferimento all’indipendenza della piccola isola nel Pacifico genera reazioni furiose da parte di Pechino.
Intanto Taipei si prepara in vista di un’eventuale invasione dopo il ritiro degli Stati uniti dall’Afghanistan
Giulia Pompili La differenza può farla un nome. E il Paese che non si può nominare è Taiwan. In America, l’Amministrazione di Joe Biden vorrebbe cambiare la denominazione dell’ufficio «di rappresentanza economica e culturale di Taipei» in «ufficio di rappresentanza di Taiwan». Ma quando la scorsa settimana è iniziata a circolare questa ipotesi il tabloid in lingua inglese «Global times», organo della propaganda del Partito comunista cinese, ha scritto in un editoriale che la Cina «reagirà con imponenti misure militari» se ciò dovesse accadere. Sembra un dettaglio linguistico e una reazione spropositata, ma dietro alla differenza tra i due nomi c’è un mastodontico problema che riguarda le relazioni della Repubblica popolare cinese con il resto del mondo. E non è solo una questione politica. All’inizio di settembre il presidente del marchio di orologi svizzero Audemars Piguet, François-Henry Bennahmias, in un’intervista circolata molto online, si è riferito a Taiwan come fosse un Paese sovrano, e subito dopo il cantante e attore cinese Lu Han, testimonial internazionale degli orologi, ha annunciato di aver chiuso la sua collaborazione con il marchio svizzero per protesta. A nulla sono servite le scuse pubbliche di Audemars Piguet, che sul social network cinese Weibo ha pubblicato un messaggio in cui dice di aver «sempre aderito alla posizione di una sola Cina» e «salvaguardato fermamente la sovranità nazionale e l’integrità territoriale cinese». Ma ormai il mercato del Dragone (1,3 miliardi di consumatori) è diventato «un incubo delle pubbliche relazioni», ha scritto il giornale «Jing daily». Infatti non è la prima volta che succede: in Cina le celebrità devono aderire ai «valori patriottici» e subiscono pressioni se collaborano con brand oc-
Vista di Taipei. (Shutterstock)
cidentali che criticano o vanno contro i principi e le regole del Partito comunista. Perdere un testimonial cinese è un disastro per le aziende europee o americane, e il loro boicottaggio può durare a lungo. Nel 2019 Versace lanciò una serie di t-shirt sulle quali Hong Kong e Macao risultavano territori indipendenti dalla Cina, fu un passo falso che pagò caro. L’attore e wrestler americano John Cena diffuse qualche mese fa un videomessaggio, parlando in mandarino, per chiedere perdono ai suoi fan cinesi: disse di aver parlato «per sbaglio» di Taiwan come di un Paese indipendente durante un’intervista. Sono circa 180 i chilometri che dividono la cosiddetta Cina continentale dall’isola che un tempo veniva chiamata l’isola Formosa: l’isola bella, secondo il nome che gli diedero i portoghesi. Quello stretto del Pacifico, una lingua di Oceano che divide Taiwan dalla Cina, è considerato da molti analisti il
luogo della prossima crisi internazionale. Abitata da popolazioni indigene, alla fine degli anni 40 del secolo scorso Taiwan divenne il rifugio sicuro dei nazionalisti cinesi, che da anni combattevano contro le truppe di Mao Zedong. La sanguinosa guerra civile tra nazionalisti e comunisti aveva diviso la popolazione cinese, e anche il suo territorio. La ritirata dei cittadini fedeli al leader nazionalista Chiang Kai-shek, nel 1949, avrebbe dovuto essere solo momentanea: nei progetti del generalissimo la Repubblica di Cina avrebbe preparato sull’isola di Taiwan il contrattacco per riconquistare il territorio cinese, ormai nelle mani della Repubblica popolare di Mao. Ma col passare degli anni quella volontà egemonica passò in secondo piano. Il 1. gennaio 1979, quando gli Usa dopo anni di negoziazioni aprirono la loro ambasciata a Pechino, riconobbero di fatto la Repubblica popolare cinese abbando-
nando i rapporti diplomatici ufficiali e formali con la Repubblica di Cina (Taiwan). L’America accettò il compromesso per avere la possibilità di entrare nel mercato cinese, ma contemporaneamente si impegnò a difendere Taiwan da qualunque tipo di aggressione, specie da un eventuale attacco di Pechino. Oggi tutti i Paesi occidentali e tutte le istituzioni internazionali seguono il principio dell’«Unica Cina», che è una specie di compromesso fatto per non scontentare la seconda economia del mondo. Nei fatti, significa che di Taiwan è difficile parlare perché ogni riferimento alla sua forma di governo e alla sua indipendenza genera crisi diplomatiche e furiose reazioni da parte della Cina, che preferisce parlare di «autonomia» dell’isola, la stessa autonomia che era garantita a Macao e Hong Kong, l’ex colonia inglese che dallo scorso anno, dopo l’introduzione da parte di Pechino della legge sulla sicurezza,
è molto meno autonoma di prima. In ogni caso le questioni territoriali sono fondamentali per la politica cinese e chi sbaglia, specie all’estero, paga, quasi sempre con ritorsioni economiche. Il risultato è spesso l’autocensura. Da decenni ormai la situazione tra Taiwan e Cina è cristallizzata in questo limbo diplomatico. Ma da quando la piccola isola del Pacifico, poco più di 22 milioni di persone, ha cominciato a rivendicare la sua identità nazionale – con eccellenze nel campo della tecnologia ma anche culturali, e con un’attenzione particolare nei confronti del suo sistema democratico e dei diritti – la Cina sempre più nazionalista del leader Xi Jinping ha iniziato a guardare a Taipei come a una minaccia. Per questo da qualche anno Taiwan è al centro del dibattito internazionale. In molti guardano all’isola del Pacifico come alla scintilla della prossima grossa crisi tra Washington e Pechino, uno scontro tra il modello occidentale e quello che la Cina sta imponendo al resto del mondo. Dopo il ritiro americano dall’Afghanistan, e degli alleati che avevano partecipato alla guerra ventennale, per la propaganda di Pechino è stato facile utilizzare quelle immagini per far passare un messaggio: l’America non sarà al vostro fianco, vi abbandonerà come ha fatto con il popolo afgano. La differenza, rispetto all’Afghanistan, è che negli anni Taiwan ha costruito la sua identità profonda, anche militare: la scorsa settimana l’isola è stata coinvolta in 5 giorni di esercitazioni «antiinvasione». I militari taiwanesi hanno provato le tecniche di messa in sicurezza della popolazione in caso di attacco chimico o batteriologico, o per contrattaccare nel caso in cui le Forze armate di Pechino dovessero tentare un’invasione terrestre. Un’eventualità che non converrebbe a nessuno, nemmeno alla Cina. Ma che nessuno, da Taipei a Washington, si sente di escludere.
Biden e Xi: così lontani, così vicini
Il saggio Rampini racconta alcuni lati della Cina nascosta che l’élite occidentale ignora
e la sfida tra due superpotenze che si studiano e si copiano a vicenda Romina Borla «Questo libro è un viaggio nel grande paradosso di una sfida planetaria», scrive Federico Rampini nell’introduzione al suo nuovo saggio Fermare Pechino. Capire la Cina per salvare l’Occidente (Mondadori). La sfida tra due superpotenze – gli Stati uniti e la Cina – che «si studiano e si copiano a vicenda». Il volume inizia con una ironica botta e risposta tra Xi Jinping, presidente della Repubblica popolare, e il presidente americano Joe Biden. «Fermare Pechino?», domanda il primo. «Davvero pensate di poter fermare il corso della storia? Morirete cinesi, vi dico. E se non a voi, toccherà ai vostri figli o nipoti. (…) finirete sotto la tutela benevola e arcigna di un sovrano paterno, illuminato, inflessibile nel portarvi i benefici di una civiltà superiore. Ve lo dico dall’alto della mia statura imponente, e di 3500 anni di storia. Io l’ho ribattezzata Belt and road initiative («l’iniziativa strada e cintura»), ma lungo le Vie della seta dall’Asia orientale al Mediterraneo viaggiavano merci e idee già mille anni prima di Cristo (...)». «Fermare la Cina non mi interessa, imparare dalla Cina sì», risponde il secondo. «Non mi riferisco agli aspetti ripugnanti del tuo sistema politico, come l’autoritarismo e la censura. Però nel discorso che ho tenuto al Congresso in occasione dei miei primi cento gior-
ni ho detto all’America: perché le pale eoliche per lo sviluppo sostenibile non possono essere fabbricate a Pittsburgh, anziché a Pechino?». Per l’autore – corrispondente de «La Repubblica» da New York e, tra le altre cose, ex inviato a Parigi, Bruxelles, San Francisco e Pechino – gli aspetti che uniscono i due leader, pure così diversi, non si limitano alla sfida comune dell’emergenza climatica e alla necessità di trovare risposte globali alle pandemie del futuro. Entrambi governano Nazioni segnate da grosse diseguaglianze – «quelle americane si sono allargate dagli anni Ottanta in poi, e questo rimanda all’ideologia neoliberista che si affermò ai tempi di Ronald Reagan» – e si devono confrontare con lo strapotere dei giganti della tecnologia (Big tech), cresciuto a dismisura durante l’era del Coronavirus. «La Cina si è accorta che uno dei suoi colossi digitali, il gruppo Alibaba-Ant-Alipay, gestisce grazie a una app su smartphone pagamenti, prestiti e investimenti superiori al Pil del Paese». Così Pechino reagisce, osserva Rampini, imponendo nuovi limiti e regole ai miliardari del digitale. Biden ha lo stesso problema – vedi Amazon, Apple, Google, Facebook, Microsoft e Netflix – ma per lui, presidente democratico, «è meno facile piegare questi poteri forti, visto che l’establishment digitale lo ha aiutato a vincere le elezio-
ni». Il giornalista sottolinea in seguito come il presidente americano invidia almeno due cose a Xi: la lunga durata dei suoi mandati, che permette azioni più decise ed incisive, e la coesione nazionale del Dragone. Niente a che vedere con un Paese profondamente lacerato qual è l’America di oggi. Fermare Pechino approfondisce diversi altri aspetti, a partire dal primo incontro ufficiale tra Biden e il Governo di Xi, il 18 marzo 2021 ad Anchorage, in Alaska: «è stato subito scontro». Svela inoltre alcuni lati della «Cina nascosta e inquietante, che l’élite occidentale ha deciso di non vedere»: il razzismo quotidiano dei cinesi Han, il ceppo maggioritario e dominante («la visione Han centrica»); lo jun xùn, rito collettivo simile ad un addestramento militare, obbligatorio per le matricole in tutti gli atenei della Repubblica popolare. Il quale può a prima vista sembrare il semplice specchio dell’autoritarismo cinese, terribile e caricaturale, ma più sottilmente è un modo per veicolare senso di appartenenza, patriottismo e nazionalismo. «Valori che un tempo si coltivavano anche in Occidente – dice Rampini – e che in molte parti del mondo sono ancora considerati positivi». Che dire poi della durezza della selezione meritocratica di Pechino, a partire dall’istruzione scolastica? L’autore del saggio spazia tra le
domande sul fragile destino dell’unica «democrazia cinese», Taiwan, che «concentra nelle sue aziende e sul suo territorio una proporzione dominante della produzione mondiale di semiconduttori (…) di importanza strategica per tutte le altre industrie tecnologiche inclusi gli armamenti». Senza dimenticare i segreti che Wuhan, il primo focolaio mondiale di Covid-19, nasconderà per sempre e quelli che animano i racconti cinesi di fantascienza che spesso offrono una visione angosciante del futuro e – aggirando la censura – parlano della Cina di oggi. Rampini naturalmente volge spesso lo sguardo oltre Oceano, tracciando sottili paragoni e analizzando il presente a partire dal passato. Verso la fine del volume si concentra sull’ambizioso programma di riforme di Joe Biden, il Nuovo new deal (il maxi-piano per la modernizzazione delle infrastrutture e le energie rinnovabili, oltre a quello di aiuto alle famiglie americane). «Se tutti i progetti di Biden dovessero superare il vaglio del Congresso, il volume di spesa pubblica aggiuntiva raggiungerebbe 6000 miliardi di dollari. (…) uno sforzo finanziario che non ha precedenti dalla Seconda guerra mondiale». L’autore lo definisce anche «il nuovo grande esperimento americano, che tenta di invertire il corso della storia prima che sia troppo tardi». E non è finita qui: si parla anche
di anti-razzismo portato alle estreme conseguenze che implica «un mea culpa permanente di tutti i bianchi, un’espiazione collettiva delle colpe che risalgono allo schiavismo»; della Seconda guerra fredda tra Washington e Pechino la quale conosce importanti sviluppi nel 2020-2021 (leggi pandemia e uscita di scena di Trump); della crisi della democrazia americana che segna il suo apice il 6 gennaio scorso, durante l’assalto al Campidoglio. Chi tra le due superpotenze uscirà vincitrice dal confronto? Il futuro si gioca in Asia, suggerisce Rampini. «La tragica parentesi Covid ha provocato un’accelerazione nell’ascesa di Pechino. Mentre l’Occidente si fermava, stremato, l’economia della Tigre ha ripreso a correre». Ma la speranza in Occidente rimane, insieme all’opportunità di fissare delle linee rosse che la smisurata ambizione cinese non deve oltrepassare.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 settembre 2021 • N. 38
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Un piacere unico Sbrinz DOP è sinonimo di una produzione assolutamente naturale in armonia con la natura, gli animali e le persone
Niente va veloce nella Svizzera Centrale. I casari dello Sbrinz sanno che la forza sta nella calma e, nel caso dello Sbrinz, nel gusto. Questo formaggio extra-duro proveniente dal cuore della Svizzera è prodotto artigianalmente dal 16° secolo secondo metodi tradizionali in caldaie di rame. E questo in perfetta sintonia con la natura: oltre al latte crudo, colture di caglio e sale, lo Sbrinz non contiene altri ingredienti o additivi. La vera qualità non ha bisogno di trucchi. Alla base solo il miglior latte Secondo il disciplinare di produzione, la distanza tra le fattorie produttrici del latte e i 25 caseifici deve essere di massimo 30 chilometri. Nella maggior parte dei casi le mucche pascolano a vista nei pressi dei caseifici. Il loro latte viene trasformato nel caratteristico formaggio svizzero entro 24 ore dalla mungitura. Per la produzione dello Sbrinz DOP può essere utilizzato solo latte crudo di alta qualità e senza insilati. La preparazione artigianale del formaggio Sbrinz richiede non solo grandi conoscenze specialistiche, ma
anche parecchia sensibilità e precisione. Molto viene fatto ancora come centinaia di anni fa. Rustico ma delicato – proprio come la sua regione di origine. Tranne due eccezioni, lo Sbrinz è prodotto e stagionato esclusivamente nella Svizzera centrale. Il genuino formaggio extra-duro nasce attorno al monte Pilatus e lavorato in modo artigianale e con amore in caseifici di montagna e di valle.
Il fattore tempo è decisivo Lo Sbrinz DOP ha bisogno di molto tempo per maturare. La stagionatura perfetta per il consumo è idealmente di 22
Il casaro d’alpe Thomas Scheuber nel suo caseificio (sopra) e bocconcini di Sbrinz DOP per ristorarsi durante un’escursione sulle alpi della Svizzera centrale.
mesi. Più a lungo stagiona, più aromatico e speziato sarà il suo gusto. Il cuore dell’affinamento dello Sbrinz è il sito di Lucerna – la cantina di St. Karli (San Carlino). È qui che l’oro delle alpi riposa e matura per garantire un’autentica esperienza di gusto. Lo Sbrinz porta il marchio DOP. Questo marchio di qualità, che si ottiene attraverso costanti controlli durante tutto il processo produttivo, garantisce ai consumatori un prodotto di alta qualità al 100% naturale, privo di qualsiasi additivo. Carattere pieno Lo Sbrinz DOP è un formaggio straordinario, sia per l’aperitivo che per le insalate – a trucioli, in bocconcini o a pezzetti. Si abbina alla perfezione con la pasta o la carne e dona ai ripieni di verdura un aroma deciso. È ottimo anche per la pasticceria salata e per gratinare. In cottura lo Sbrinz DOP è molto apprezzato per il suo gusto versatile, ideale per la cucina italiana. Lasciatevi convincere anche voi dal suo sapore incomparabile – assolutamente «Made in Switzerland».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 settembre 2021 • N. 38
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Politica e economia
Il «capitale» deve contribuire di più? Votazioni federali Il prossimo 26 settembre saremo chiamati a esprimerci su un’iniziativa popolare
che mira a tassare maggiormente i redditi da capitale Marzio Minoli «Togliere ai ricchi per dare ai poveri». Questo era il motto, o perlomeno così dice la leggenda, di Robin Hood, durante il regno di Riccardo Cuor di Leone, nell’Inghilterra del Basso Medioevo. L’iniziativa sulla quale saremo chiamati a votare, di primo acchito, sembrerebbe ricalcare questa filosofia. Ma non siamo più nel Medioevo e le cose, nel frattempo, si sono complicate, soprattutto dal punto di vista fiscale. Tassare i redditi, ovvero i salari, i profitti da capitale e le rendite fondiarie, non è una pratica tanto antica. Per convenzione si prende come data d’inizio di questa pratica il 1799, nell’Inghilterra del Primo Ministro William Pete il Giovane, il quale introdusse la «income tax». In precedenza, le tasse venivano prelevate sul patrimonio, quella che oggi chiamiamo fiscalmente sostanza. Le imposte sui redditi erano secondarie. Oggi è l’inverso. Il reddito è la voce primaria. E la Svizzera fu tra i primi paesi ad introdurre questa pratica, e più precisamente nel 1840, con Basilea Città come pioniere, presto seguito da altri cantoni. L’ultimo cantone fu Glarona, nel 1970.
Secondo gli iniziativisti, il 99% della popolazione beneficerebbe di sgravi fiscali e solo l’1%, ossia i più abbienti, verrebbe tassato più di ora L’iniziativa in questione è denominata «Sgravare i salari, tassare equamente il capitale». Ma per comodità viene chiamata iniziativa «99%» dal fatto che, secondo chi propone la modifica, il 99% della popolazione beneficerebbe di uno sgravio fiscale, tassando maggiormente il rimanente 1%, che dovrebbe corrispondere ai più abbienti. In pratica si chiede di tassare i redditi da capitale in misura maggiore di quanto si faccia oggi e questo a beneficio dei redditi da lavoro, lo stipendio in poche parole, perché si potreb-
bero abbassare le aliquote su questi ultimi. Per redditi da capitale si intendono i redditi derivanti da interessi, locazione, dividendi o utili conseguiti dalla vendita di titoli o terreni. Ma anche una parte del reddito conseguito da indipendenti può essere considerata reddito da capitale. Oggi tutti questi tipi di reddito sono imposti integralmente, con diversi distinguo ad esempio per i dividendi. Se si possiede almeno il 10% dell’azienda i dividendi non vengono tassati nella loro totalità. Come mai? Semplice. I dividendi derivano dall’utile, il quale è già tassato in seno alla società. Una doppia imposizione che si vuole mitigare. Naturalmente, vista la natura della Svizzera, la materia fiscale è prevalentemente di competenza cantonale e comunale, con le diverse realtà che spesso divergono, e non di poco. Il tema in votazione, infatti, riguarda la tassazione a livello federale. Per gli iniziativisti l’attuale sistema non è sufficiente. In concreto si chiede che sopra una determinata soglia si deve conteggiare il reddito da capitale una volta e mezza l’effettivo valore. Un esempio: se si consegue un reddito da capitale di 150’000 franchi, ad esempio per degli affitti, i primi 100’000 franchi vengono tassati integralmente, ma per i seguenti 50’000 si deve aumentare questa cifra del 50%, portandola a 75’000. Insomma, come se si fossero incassati 25’000 franchi in più. La soglia di 100’000 franchi è puramente esemplificativa. Se dovesse essere accettata l’iniziativa, sarebbe il Parlamento a stabilire sopra quale importo si applicherebbe il metodo «una volta e mezza». Questi i dati oggettivi. Come è la situazione attuale, e come la si vorrebbe modificare. Vediamo adesso quali sono le motivazioni di questa richiesta portate avanti dal comitato d’iniziativa e quali sono gli argomenti contrari ad una simile modifica. La prima motivazione a favore è quella secondo la quale chi vive di rendita diventa sempre più ricco in quanto il divario con i salariati aumenta. Salariati, sempre secondo gli iniziativisti, che vedono erodere il loro potere
Un manifesto dei contrari all’iniziativa «99%», ricoperto di bollini favorevoli all’iniziativa. (Keystone)
d’acquisto, visto il crescente aumento di affitti e premi di cassa malati. Altro punto il fatto che questi redditi da capitale non necessariamente confluiscono nell’economia, ma per una gran parte finiscono nella speculazione finanziaria. Se una quota di questi redditi finisse nelle tasche dei salariati, ne beneficerebbe tutta l’economia, visto che questi soldi verrebbero spesi. Si dice inoltre che «i ricchi» siano privilegiati, in quanto i redditi vengono tassati in misura minore rispetto ai salari. Pagano solo sul 70% del reddito da capitale, mentre i salariati sul 100%. Ultimo punto citato con l’iniziativa si vuole imporre in «maniera più equa» i grandi azionisti e si sgraverebbe il 99% della popolazione. Le maggiori entrate sarebbero utilizzate, ad esempio, riducendo i premi di cassa malati per chi è in difficoltà, o aumentando i contribuiti alle strutture per l’accudimento dei bambini.
Queste le motivazioni degli iniziativisti. Il Consiglio Federale e il Parlamento invece invitano a respingere l’iniziativa. Vediamo dunque il perché. In Svizzera il reddito viene già distribuito in modo equo, nel raffronto internazionale. Questa iniziativa metterebbe in pericolo l’attrattiva della piazza finanziaria elvetica e indebolirebbe l’incentivo al risparmio. Il capitale è importante per i posti di lavoro e chi prospera non deve essere ostacolato con più imposte. Questa iniziativa genera ingiustizie, in quanto chiede più tasse per il reddito da capitale rispetto a quello da lavoro. Ma il capitale non si crea da solo, deriva da prestazioni. Il reddito di queste prestazioni viene poi risparmiato, creando il capitale. Sempre secondo il Consiglio Federale e il Parlamento, vi è una mi-
naccia per i posti di lavoro. Si riduce l’incentivo a creare il capitale e senza capitale non si creano aziende, soprattutto start-up. Non si fanno investimenti nelle aziende, e come conseguenza non si creano posti di lavoro. Altro punto è l’indebolimento della piazza finanziaria svizzera. La fiscalità è un elemento importante nella scelta del luogo dove vivere e in Svizzera il capitale è già tassato in modo piuttosto importante, sempre nel raffronto internazionale. Così come i dividendi, se non vi è la già citata partecipazione di almeno il 10% nell’azienda. Ultimo punto il fatto che l’iniziativa è troppo vaga. Non si capisce quale sarà la soglia dalla quale applicare il metodo «una volta e mezza» e non è detto che si raggiungano i risultati sperati in termini di ridistribuzione. Queste le argomentazioni pro e contro. Come sempre al popolo l’ultima parola. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 settembre 2021 • N. 38
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Politica e economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La bolla c’è ma non è detto che debba scoppiare Al grotto, l’altro giorno, ho dovuto sorbirmi per quasi 20 minuti il discorso di un noto immobiliarista che voleva informare i miei compagni di tavola e il sottoscritto che, contro le aspettative di chi volentieri dipinge il diavolo sulle pareti, gli era riuscito di vendere e affittare quasi tutti i 300 e più appartamenti da lui realizzati recentemente nella capitale. Secondo lui, dunque, non è vero che l’immobiliare è in crisi! Vendere e affittare abitazioni dipenderebbe, oggi come sempre, dal rapporto qualità/prezzo dell’offerta e dalle capacità del venditore. Con buona pace della Banca nazionale che continua ad avvertire che l’immobiliare si trova ormai in una bolla e che le banche, per non parlare delle casse pensioni, dovrebbero fare molta attenzione a chi concedono prestiti ipotecari e a che condizioni. La
situazione del mercato immobiliare è, almeno in Ticino, nonostante le perorazioni degli addetti ai lavori di questo tipo, veramente preoccupante. Il numero delle abitazioni vuote è triplicato nel giro di 6 anni e , nel giugno del 2021, ha superato le 7000 unità, passando così oltre al limite del 2% del parco di abitazioni che gli specialisti del settore sostengono essere la quota di abitazioni vuote che può servire per far funzionare bene il mercato. Come è risaputo questa evoluzione è strettamente determinata dall’andamento negativo della domanda. La domanda di abitazioni in Ticino è costituita da un lato dall’aumento dell’effettivo delle economie domestiche e, dall’altro, dalla richiesta di residenze secondarie da parte di turisti domiciliati fuori Cantone. Ora, dal 2014 al 2018 (ultimo anno per il quale
si dispone di indicazioni statistiche) la variazione annuale delle economie domestiche è diminuita, in Ticino, da quasi 4000 a meno di 1000. Per quel che riguarda poi le residenze secondarie bisogna ricordare che la domanda è stata influenzata negativamente e in diversi modi dalla limitazione delle possibilità di costruzione che ha fatto seguito all’approvazione, nel 2012, dell’«iniziativa contro la costruzione sfrenata di abitazioni secondarie». Nonostante la flessione della domanda, però, l’offerta di abitazioni ha continuato a crescere, spronata soprattutto dalla possibilità di ottenere finanziamenti a buon mercato. Così l’investimento nella costruzione di abitazioni ha continuato ad aumentare da noi fino al 2015 e si è poi ridotto, ma in una misura percentuale molto inferiore a quella in cui è diminuita la domanda.
La conseguenza di questa evoluzione è che il numero delle abitazioni vuote continua ad aumentare. Le fasi di una bolla immobiliare sono conosciute. Dapprima vi è l’arresto delle vendite e delle locazioni, con il conseguente aumento del numero delle abitazioni vuote. Questa situazione può durare anche diversi anni, in particolare quando, come è il caso attualmente, i costi del denaro investito nella costruzione sono bassissimi. Per poter ristabilire l’equilibrio sul mercato delle abitazioni in una situazione del genere è necessario che i prezzi diminuiscano. Normalmente questo non succede subito. Nella seconda fase della bolla infatti le abitazioni vuote aumentano e contemporaneamente aumentano i prezzi. Questa evoluzione è quella che conduce alla terza fase della bolla, ossia allo scoppio della stessa, che è
normalmente caratterizzato da un rapido aumento dei tassi di interesse e da una altrettanto rapida riduzione dei prezzi (dell’ordine del 15-20%). Queste due tendenze conducono, per finire, al fallimento di molte aziende del settore. Ora nel nostro caso è possibile che la bolla immobiliare non scoppi per due ragioni. In primo luogo, come si è già ricordato, perché il costo del denaro continua ad essere basso e, in secondo luogo, perché i prezzi si sono assestati. Per esempio l’affitto mensile in Ticino, relativo all’insieme del parco di abitazioni affittato, non è praticamente aumentato, nel corso degli ultimi anni. Quello delle abitazioni «nuove», ossia costruite dopo il 2001, è addirittura diminuito, dal 2011 al 2017, del 12%. Insomma invece di scoppiare la nostra bolla immobiliare pare stia sgonfiandosi adagio, adagio.
Marine Le Pen, che ha una grande esperienza, lo sa benissimo e infatti il suo esordio elettorale l’ha costruito proprio per contenere le altre forze che potrebbero rosicchiarle consenso, non tanto o non solo i Républicains (che non hanno ancora scelto il loro candidato e che si muovono in modo molto sparso), quanto piuttosto gli agitatori della destra estrema, cioè i diretti concorrenti. Il più temuto, anche perché è molto conosciuto e popolare, è Eric Zemmour, scrittore e commentatore onnipresente sulla scena mediatica francese. Le Pen ha utilizzato, cercando quindi di fare suo, lo slogan di Zemmour che dà il titolo al sito che lo scrittore ha lanciato all’inizio di settembre e che fa da piattaforma per la sua eventuale candidatura alle presidenziali (che tutti danno per certa, non è ufficiale però): «Croisée des chemins». Siamo a un incrocio culturale e politico decisivo, «tra scivolare verso l’abisso o arrivare all’apice», ha detto Le Pen con il suo tipico tono drammatico-teatrale. Siamo all’incrocio tra una «Francia diluita» e una «Francia sovrana». Dove va
la leader del Rassemblement national si sa, ma sulla sua strada non vuole ostacoli, soltanto facilitatori, in particolare se hanno il peso di Zemmour. Ma il termine di cui Le Pen vuole appropriarsi senza concorrenza alcuna è «libertà». Nel discorso a Fréjus l’ha citata ottantacinque volte, l’ha gridata e ripetuta in modo martellante, prendendo le distanze da un altro agitatore, molto più leggero politicamente ma molto più fastidioso personalmente: il suo ex braccio destro Florian Philippot. Philippot ha lasciato il Rassemblement, fa una sua battaglia solitaria molto seguita più negli ambienti sovranisti europei che in Francia, troppo estrema persino per Le Pen che ha messo in guardia il suo pubblico da posizioni «troppo radicali». Se Philippot è contro la dittatura dei vaccini e dei pass sanitari, la leader del Rn è per la libertà vaccinale e contro il pass. Piccole sfumature, ma per evitare cannibalismi occorre sottolinearle. L’obiettivo finale della campagna sulla «libertà» è naturalmente Macron, custode del liberalismo francese e in
parte europeo. Era difficile immaginare quanti giri immensi potesse fare questo termine passando sulle bocche della destra. La libertà per Le Pen è «il valore francese, il cuore del suo Dna, il filo rosso che permette di unire temi diversi e vasti». Le libertà, secondo questa interpretazione, non sono né pubbliche né fondamentali, ma sono francesi. «Sarò la presidente delle libertà francesi – ha detto – e credetemi, questo cambierà tutto». La libertà è decidere per se stessi, contro i progetti sovranazionali (l’Unione europea), potendo decidere chi entra in Francia, privatizzando l’informazione audiovisiva pubblica (contro il mainstream che rappresenta soltanto «una corrente ideologica»), corteggiando il popolo dei gilet gialli con una declinazione della «libertà di circolazione» in termini di zero pedaggi e zero restrizioni dettate da questioni ambientaliste. E non è un caso che «Le libertà francesi» fosse il titolo della rivista del dopoguerra ispirata all’Azione francese, il movimento monarchico, nazionalista ed euroscettico d’inizio Novecento.
(esercenti, imprenditori) protestavano e lo spazzino-governo ha accettato di ritardare o ha rallentato troppo l’opera di ripulitura. Altra conferma da non dimenticare: dalle ninfee che tornano a minacciare la vita dello stagno, anche le nostre autorità, federali e cantonali hanno un’ulteriore dimostrazione che l’aritmetica dell’epidemia è sì semplicissima, ma anche controintuitiva perché, come dice Ricolfi, «ti insegna che dovresti fare il contrario di quel che il senso comune ti indurrebbe a fare». Questo spiega sia l’errore iniziale nel concedere allentamenti in contemporanea con rifiuti, ritardi o tentennamenti nelle vaccinazioni, sia il successivo ritorno a disposizioni e obblighi che consentano perlomeno di prevenire nuove emergenze. Guardando oltre lo stagno di casa nostra si scopre che, in contemporanea alla nostra estensione del certificato Covid, la Danimarca ha tolto tutte le restrizioni. E guarda caso, il ritorno alla normalità nello Stato
scandinavo è stato raggiunto, come evidenziano i media, grazie all’alta adesione alla campagna vaccinale: oltre l’80% della popolazione danese sopra i 12 anni, infatti, ha già ricevuto le due dosi di vaccino. Altra notizia da Roma: a inizio settembre si è svolta la «Ministeriale Salute» del G20, un appuntamento politico di importanza strategica nella lotta alla pandemia. Come spesso capita in questo genere di riunioni non sono emerse grandi decisioni, anche perché a fine ottobre i ministri della Salute torneranno a riunirsi con i colleghi delle finanze per dare basi concrete a iniziative e progetti. Al termine delle due giornate romane, partendo dall’assunto che l’emergenza sanitaria non sarà esaurita finché non ne saremo fuori tutti, i ministri G20 hanno convenuto di potenziare l’accesso più largo possibile ai vaccini da parte della popolazione mondiale a partire dai meccanismi di collaborazione esistenti, in aggiunta a donazioni di dosi e di strumentazioni
per cure e diagnostica a paesi in via di sviluppo o poveri. Oltre a questo risultato – l’unico evidenziato nei commenti dei media – nelle relazioni finali affiorano due preoccupazioni. La prima riguarda l’impegno di tutti i responsabili politici del G20 a voler porre fine a decenni di investimenti inadeguati e spesso irrisori in modo da poter contare in tempi brevi su sistemi sanitari solidi ed efficienti. L’altra invece sollecita sforzi per la formazione dei professionisti della salute, a tutti i livelli, in modo da garantire coperture in situazioni di emergenza. Insomma, anche sullo stagno mondiale il duello fra l’aritmetica delle epidemie e l’aritmetica della ripulitura continua, lo «stop and go» continua ad essere ricorrente e ogni governo-spazzino ritrova la legge fondamentale delle epidemie citata da Ricolfi: «Se devi fare qualcosa, più tardi lo farai più costerà caro a tutti». È il prezzo che la democrazie pagano quando si scontrano capacità di decisione e consenso.
Affari esteri di Paola Peduzzi La libertà secondo Marine Le Pen Marine Le Pen ha lanciato la sua campagna elettorale in vista delle Presidenziali della primavera prossima davanti a 900 attivisti del Front national, al teatro romano di Fréjus, nella regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra. L’incontro era all’aperto, il green pass non era necessario. «Questa è la libertà», sospiravano i partecipanti intervistati dai giornalisti, aspettando l’arrivo della loro beniamina, vestita di bianco e pastello, alle spalle il colore blu che rilancia il Rassemblement national, il partito di Le Pen.
La presidente del Rassemblement national. (Shutterstock)
La competizione francese, che è formalmente all’inizio ma che in realtà continua imperterrita dalle scorse elezioni del 2017, sembra un déjà vu: la destra sovranista di Le Pen contro il centro liberale di Emmanuel Macron, il presidente. Ma questa è una lettura superficiale della politica francese di oggi, o almeno, lo è in questo momento in cui ci sono molti leader che stanno cercando di posizionarsi ai blocchi di partenza. Anche la volta scorsa la situazione era simile, anzi, di questi tempi cinque anni fa Macron era sotto il dieci per cento dei consensi e la sua pareva un’ambizione destinata a schiantarsi contro la politica tradizionale francese. Poi le stelle si allinearono e a schiantarsi furono le ambizioni degli altri, in particolare dei guardiani della tradizione, i gollisti a destra e i socialisti a sinistra (che ora scelgono Anne Hidalgo, sindaca di Parigi, come loro candidata presidenziale). Adesso i poli sono definiti, sono appunto Le Pen e Macron, ma attorno ci sono molte altre figure che aspettano il palcoscenico e la loro occasione. E per lo più stanno a destra.
Zig-Zag di Ovidio Biffi Un certificato per tagliare ninfee Ancora una volta gli allentamenti estivi nei controlli della pandemia presentano il conto: crescita dei contagi e obbligo del certificato di vaccinazione. Torna a vincere l’aritmetica delle epidemie, quella descritta nel suo libro (La notte delle ninfee, edito da La nave di Teseo) da Luca Ricolfi: «C’è uno stagno, e dentro lo stagno c’è una ninfea. Come si sa il numero delle ninfee raddoppia ogni notte. Lo stagno ne può contenere fino a un migliaio, prima di saturarsi e far soffocare tutto ciò che contiene». Chi controlla le acque si era accorto dopo una settimana che erano 128. Ma era venerdì e ha pensato di poter ripulire lo stagno al lunedì. Così ne trova 512, decisamente troppe per iniziare il lavoro e il giorno dopo, il martedì, le ninfee sono 1024, lo stagno è saturo e per ripulirlo non basta più una settimana, ma ci vogliono due o tre mesi. È questo l’apologo che Ricolfi ha voluto proporre per stigmatizzare i risultati di malgoverno e reticenze intitolate alla libertà.
Così, dopo un anno c’è la conferma che nella lotta contro il Covid-19 incidono negativamente anche i rinvii stagionali. Il «più liberi» invocato prima delle vacanze ha spesso fatto scordare il «più attenti», favorendo la sconsideratezza di interi gruppi della popolazione, dai giovani insofferenti agli egotisti che non vogliono farsi vaccinare, sino ai gruppi etnici che rispettano diritti tribali più che i doveri democratici. E ancora una volta, eccoci preoccupati davanti alla certezza che l’autunno sarà più o meno uguale a quello dello scorso anno, che quanto doveva essere fatto (dalle vaccinazioni al potenziamento dei posti letto per le cure intense e alla formazione del personale) non è stato completato o è risultato insufficiente e se le ninfee aumentano è soltanto perché lo stagno non è stato ripulito. Per dirla ancora con Ricolfi: non siamo riusciti ad applicare l’aritmetica della ripulitura. Ha prevalso il timore per i costi delle chiusure e per le limitazioni delle libertà: i pescatori dello stagno
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 settembre 2021 • N. 38
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cultura e Spettacoli A Ginevra si esagera! È andato finalmente in scena il tanto atteso e irriverentissimo Festival La Bâtie
Wyss-Dunant, genio e saggezza Alla scoperta di Edouard Wyss-Dunant, medico svizzero che, fra le altre cose, fece dell’alpinismo un’arte pagina 41
Montale e il mito di clizia Alcune riflessioni sul Premio Nobel Eugenio Montale nel quarantesimo dalla scomparsa pagina 43
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Le comunità di spiriti A colloquio con lo scrittore, saggista e giornalista italiano Mario Desiati
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Tra gli aspri e malinconici paesaggi di Worpswede Mostre Il Museo Castello San Materno
di Ascona ospita una mostra dell’artista tedesco Fritz Overbeck Alessia Brughera Era il 1889 quando tre artisti tedeschi insofferenti ai dettami della pittura accademica decisero di stabilirsi a Worpswede, un piccolo villaggio distante pochi chilometri da Brema, animati dal desiderio di vivere e dipingere a stretto contatto con la natura. Fritz Mackensen, Hans am Ende e Otto Modersohn, questi i loro nomi, aspiravano a formare un gruppo sul modello di quello che qualche decennio prima Théodore Rousseau aveva creato in Francia attraverso la scuola di Barbizon, con il medesimo scopo di lavorare en plein air alla ricerca di un’espressione pittorica più libera e genuina. Rifugiarsi in quella remota landa palustre nel nord della Germania, denominata Teufelsmoor, il «pantano del Diavolo», abitata da poveri agricoltori che campavano estraendo torba, significava rifiutare la mentalità borghese in favore di un avvicinamento a una popolazione semplice e autentica, non ancora corrotta dalla civiltà. «Aggrappiamoci saldi al nostro pezzetto di terra come sanguisughe», scriveva Mackensen, «più tardi cresceremo come alberi». Cinque anni dopo, nel 1894, al terzetto iniziale si unirono anche Heinrich Vogeler, Carl Vinnen e Fritz Overbeck. Quest’ultimo, riempito di entusiasmo dai racconti degli amici riguardo alla bellezza del posto e alle nuove modalità di dipingere all’aperto, dopo un primo soggiorno di studio a Worpswede vi si stabilisce in maniera definitiva, letteralmente rapito da quel territorio aspro e ancora poco conosciuto. E per spiegare a chi non riusciva a comprendere come si potesse scegliere di vivere in un luogo così desolato e inospitale, si prese persino la briga di redigere un breve scritto raccontando delle nostalgiche brughiere solcate da scintillanti corsi d’acqua e dell’aria umida che avvolgeva lividi tramonti. Overbeck, nato a Brema nel 1869, si trovò subito in sintonia con gli obiettivi della colonia di artisti di Worpswede, ansioso come gli altri di far parte di una nuova realtà rurale e al contempo di rivendicare l’indipendenza della propria pittura da quella ormai obsoleta dei circoli ufficiali. Non è un caso che, come lui, quasi tutti i membri del grup-
po fossero ex allievi di uno degli atenei più rinomati per la pittura di paesaggio, l’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf, da loro frequentata per acquisire quelle solide basi tecniche poi utilizzate per oltrepassare i confini degli orientamenti artistici tradizionali impartiti dalle istituzioni stesse. A Fritz Overbeck il Museo Castello San Materno di Ascona dedica una rassegna in cui sono esposti dipinti, grafiche e disegni grazie ai quali è possibile conoscere il cammino di ricerca dell’artista e cogliere gli elementi di rinnovamento della sua pittura nell’ambito del genere paesaggistico, a partire proprio dalla fondamentale esperienza di Worpswede. Sebbene Overbeck sia morto giovane, nel 1909 a soli quarant’anni, è piuttosto consistente il corpus di opere che ha lasciato, tra tele, studi a olio, acqueforti, acquerelli e schizzi. La mostra di Ascona, concepita in collaborazione con l’Overbeck-Museum di Brema, raduna alcune delle testimonianze più riuscite della sua produzione. La selezione dei lavori evidenzia quanto per l’artista il paesaggio sia il soggetto privilegiato e costantemente approfondito, rappresentato con un linguaggio che, pur diversificandosi nelle varie tappe del percorso del pittore, rimane sempre espressione di una concezione panica della natura. Durante i prolifici anni nella comunità del villaggio, trascorsi a dipingere e a promuovere la propria arte insieme agli altri esponenti della neonata Associazione degli artisti di Worpswede (del 1895 è la prima rassegna del gruppo, a Brema, seguita poi dalla partecipazione alla Mostra annuale di opere d’arte di tutte le nazioni presso il Glaspalast di Monaco), Overbeck realizza vedute che immortalano i canali della brughiera, i viali di betulle accanto ai campi di grano, le modeste case dei contadini, le torbiere (suggestivo l’olio su tela intitolato Tra i muri della torbiera, del 1902) e i cieli carichi di nuvole che sovrastano il piccolo paese della Bassa Sassonia. Sono lavori fortemente emotivi, talora caratterizzati da tonalità scure, in cui si coglie un intenso sentimento di vicinanza a questi spazi incontaminati lontani dalla frenesia e dal progresso.
Fritz Overbeck, Fusti di betulla lungo il canale di torbiera, 1895/96 ca., olio su cartone, 45 x 36,4 cm. (Fondazione per la cultura Kurt e Barbara Alten, Museo Castello San Materno, Ascona)
Le opere in stretta sintonia con il mondo naturale consentono a Overbeck e ai suoi compagni di colpire in maniera positiva la critica e il pubblico cittadini, portando alla nascita dell’apprezzata pittura paesaggistica di Worpswede. Quella piana sperduta nel nord della Germania, assurta d’un tratto a crogiolo di anime elette dedite all’arte, incomincia così a calamitare nuovi adepti, ammaliati da un modo di dipingere, e di vivere, più vero. Tra questi si possono citare le pittrici Paula Becker, che diventerà moglie di Otto Modersohn (e che sarà pioniera dell’espressionismo tedesco), e Hermine Rothe, che nel 1897 sposerà lo stesso Overbeck. A causa di attriti personali e di opinioni artistiche inconciliabili tra i membri del gruppo, nel 1899 l’Associazione si scioglie. Oltretutto Worpswede incomincia a perdere il fascino di luogo appartato che aveva in principio, diventando una località frequentata da molti
artisti attirati soprattutto dalle iniziative organizzate da Heinrich Vogeler nel suo celebre Barkenhoff, il cottage circondato da betulle che aveva acquistato nel 1895. Svanita la magia solitaria del villaggio tedesco, per Overbeck è ormai tempo di guardare oltre. Nella rassegna asconese sono presenti alcuni lavori eseguiti durante i soggiorni sul Mar Baltico che il pittore intraprende nei primi anni del Novecento. Si tratta di opere dalla pennellata risoluta e distesa e dai colori luminosi, in cui l’artista ritrae gli splendidi scenari balneari dell’isola di Sylt in uno stile di stampo impressionista. Overbeck lascia definitivamente Worpswede con la famiglia nel 1905 per stabilirsi a Bröcken, nei pressi di Brema-Vegesack, dove non manca di realizzare piacevoli dipinti che hanno per soggetto il giardino di casa e i panorami circostanti. E quando poi la mo-
glie soggiorna a Davos per alcuni mesi per curarsi dalla tubercolosi polmonare, nei suoi quadri compare il paesaggio montano, come testimonia in mostra un olio su cartone del 1908, in cui viene catturato un delicato scorcio del villaggio svizzero con la neve illuminata dai raggi del crepuscolo: una delle ultime, suggestive, opere dell’artista, che morirà l’anno seguente, piena espressione della sua percezione del mondo come fusione tra elemento naturale ed essere umano. Dove e quando
Fritz Overbeck – Nell’incanto di Worpswede. Museo Castello San Materno, Ascona. Fondazione per la cultura Kurt e Barbara Alten. Fino al 17 ottobre 2021. Orari: gio-sa 10.0012.00/14.00-17.00; do e festivi 14.0016.00; lu-me chiuso. www.museoascona.ch
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cultura e Spettacoli
La Bâtie, i mostri sono tornati Festival Anche quest’anno lo straordinario festival romando si è trasformato
in una piattaforma di riflessione e ribellione agli stereotipi Muriel e Giorgia Del Don Le creature sfavillanti e fieramente mostruose del Bois de la Bâtie sono finalmente uscite da un letargo forzato che le ha costrette per un anno al semi confinamento. Uno scombussolamento necessario che non ha però intaccato la loro natura profonda: chiassosa, inclusiva e intrinsecamente controcorrente. Rinvigorite anziché annientate, le creature fantastiche invitate a partecipare all’edizione 2021 del festival La Bâtie ci ricordano che nelle viscere del famoso bosco sulle alture di Ginevra si nasconde un cuore che batte e pulsa al ritmo delle arti della scena. Come sottolineato dal suo carismatico direttore artistico Claude Ratzé «la scena non vi sarà mai sembrata così vicina al vostro teatro intimo e ai suoi scombussolamenti. Grazie al suo potere non percepirete più “l’altro” come uno sconosciuto». Un’affermazione potente che ci ricorda quanto la scena, attraverso il teatro ma anche la danza, le arti performative o la musica, possa scatenare nel pubblico emozioni spesso represse, per paura, pudore o mancanza di educazione emotiva. In un moto di riscoperta della magia del quotidiano attraverso l’arte, la programmazione 2021 di La Bâtie spinge il pubblico ad assaporare i piaceri (dimenticati) dello stare insieme, della convivialità e della diversità. A catturare tutte le falene che hanno scelto il festival ginevrino come rifugio nel quale esprimere con gioia la propria sfavillante e multisfaccettata identità ci ha pensato il cabaret du Poudrier, luogo effimero e notturno annidato tra le mura della Maison communale di Plainpalais. Imperdibili sono state la Zurich by Night, capitanata dal dirompente Marc Streit e dalle sue dive Silver Tears, Edwin Ramirez e Valerie Reding o ancora, sempre in una vena techno queer, la Berlin Night con le sempre dirompenti Olympia Bukkakis (& Cheryl), accompagnata da Poppy Cox e ReveRso. Una delle prime creature che ha avuto il privilegio di accaparrarsi la scena è stata Cherish Menzo, ballerina e coreografa olandese che ha illuminato il Théâtre du Loup grazie alla sua
maestosa Jezebel, anti eroina dei tempi moderni che degli stereotipi fa un sol boccone. La Jezebel di Menzo esce da un contesto biblico che l’ha a lungo imprigionata reincarnandosi nel corpo iper-sessuato delle hip hop honey, bambole di carne che hanno abitato molti (troppi) video clip degli anni 90 e 2000. Attraverso lo stravolgimento dei codici propri all’universo dell’hip hop che utilizza spesso (troppo spesso) queste donne oggetto come accessori di una mascolinità totalitaria e frustrata, Menzo ci confronta con i paradossi della nostra società. Con Jezebel la coreografa affronta di petto temi scottanti quali il razzismo e il sessismo decostruendone le regole attraverso la scena. Nella stessa vena critica e militante, Mamela Nyamza interpella il pubblico ginevrino grazie al suo potente e decisamente destabilizzante Black Privilege. Avvolta da una luce che sembra bruciarne la pelle, eretta su di una scala dorata, la ballerina, coreografa e attivista sudafricana sfida lo sguardo di una società che considera la differenza come una tara. «Black privilege doesn’t exist» afferma Mamela ricordandoci che Beyoncé e compagne rappresentano l’eccezione e non certo la regola. Impossibile infatti parlare di economia, politica o libertà nera in un mondo dominato da un passato coloniale che inghiotte tutto con inquietante ingordigia. Con Black Privilege Nyamza mette in scena il suo corpo, il solo e vero privilegio nero, attraverso l’evocazione della sua biografia personale di madre nera lesbica e africana. Ingiustizia, machismo e razzismo sono incarnati attraverso la sua presenza scenica in una sorta di mercato degli schiavi nel quale la vittima si ribella contro i suoi carnefici. Un’opera artisticamente radicale che trasforma gli stereotipi in coltelli affilati. Ad accompagnare queste due feroci guerriere ritroviamo la performer, regista, autrice e insegnante argentina Marina Otero che con il suo Fuck Me ha letteralmente fatto impazzire il pubblico romando. Fuck Me può essere considerato come una docufiction dal sapore almodovariano nella quale documenti filmici, racconti in prima persona e coreografie iper energiche versione homo-
Simona Sala
Cherish Menzo in scena a Ginevra. (La Bâtie)
erotic si incontrano e scontrano come schegge impazzite. Creata durante una lunga convalescenza, l’ultima fatica di Otero mette in scena, attraverso il corpo di sei ballerini, la sua vita e le difficoltà legate a un’operazione chirurgica che l’hanno privata a lungo della scena. Appoggiandosi su un’estetica 90s rivendicata, Otero parla di sé senza tabù, con una libertà e un’autoironia rari. Fuck Me mette in scena con coraggio un universo intimo che ribolle malgrado l’immobilità apparente di un corpo che non risponde più ai comandi. Il corpo in quanto arma rivoluzionaria contro l’oppressione è anche al centro della coreografia: any attempt will end in crushed bodies and shattered bones del giovane prodigio della danza belga Jan Martens/GRIP, creata in collaborazione con il collettivo tedesco Dance On Ensemble. Con la sua ultima fatica, Jan Martens vuole celebrare il corpo danzante, ribelle e indomito. Riferendosi ad una frase pronunciata dal presidente cinese Xi Jinping durante una manifestazione a Hong King nell’ottobre del 2019, any attempt si impone come un atto militante che riunisce su scena ben diciassette interpreti.e.x dai 16 ai 69 anni. Il ritmo che si impossessa dei corpi di questo gruppo eterogeneo è basato sulla dicotomia movimento/
immobilità, sorta di mantra con il quale combattere una violenza verbale diventata tristemente banale (non solo ad Hong Kong). Posseduti e impetuosi sono anche i corpi dei sei interpreti di The Ecstatic di Jeremy Nedd e Impalo Mapantsua, omaggio alla patsula, danza nata negli anni 60 in opposizione all’apartheid, e al praise break, lode danzata e cantata fino alla trance nelle chiese pentecostali degli Stati Uniti. The Ecstatic è un collage coreografato tra presente e futuro, colonialismo e religione, lotta e speranza. Ad accompagnare Nedd e Mapantsua nella loro lotta per imporre la cultura in quanto strumento rivoluzionario ci ha pensato Marcos Marau (La Veronal) con il suo maestoso Sonoma, risposta surrealista alla crisi e ai dubbi emessi l’anno scorso dalle autorità politiche spagnole a proposito dell’utilità della cultura. Miscela di tradizione e modernità, danza, pittura e letteratura, Sonoma è un grido solenne che custodisce nelle sue viscere il mistero dell’arte con la A maiuscola. La Bâtie 2021 ci ha permesso ancora una volta di trascendere il nostro quotidiano diventando, nel tempo di uno spettacolo, gli eroi.eroine.x del nostro non sempre facile ma eccitante presente.
In scena Intrecci, trasfigurazioni, e le ragioni del gioco nel Sogno di Shakespeare Giorgio Thoeni
Dal Sogno di una notte di mezza estate andato in scena al LAC.
rativi che si incastrano, si sovrappongono, si sublimano. Come le nozze di Teseo con Ippolita, quelle di Oberon e Titania. Nei loro panni gli eleganti e autorevoli Anahì Traversi e Igor Horvat. Poi le coppie di giovani innamorati Ermia e Demetrio con Elena e Lisandro, risucchiati dalla spirale di sentimenti incrociati. E ancora la compagnia di
Festival Tra pochi
giorni la prima edizione di un nuovo appuntamento
A teatro con magie e incantesimi Una platea giovanile, festosa e partecipe ha accolto il Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare messo in scena da Andrea Chiodi nell’adattamento di Angela Demattè. Lo spettacolo ha recentemente concluso la rassegna estiva organizzata dal LAC siglando al contempo la riapertura della sua stagione teatrale e il ritorno in sala. Un classico affidato a un regista in grado di affrontare un testo fra i più famosi trasformandolo in un’opera aperta a una fruizione empatica, coinvolgente. E popolare, come poteva essere per il pubblico di un tempo dove la parola e l’azione sostituivano un arredo scenografico quasi inesistente. Il Sogno, tra le commedie del Bardo più famose, appassiona per il suo intreccio fra fantasia e realtà, dove magia e incantesimi travolgono i personaggi mescolandovi visione, mito, favola, poesia, trasfigurazioni e gioco, in un racconto dove le azioni si avvicendano su più piani d’ascolto con un ritmo senza soluzione di continuità. Percorsi nar-
Grigioni crocevia del mondo
guitti con un inesauribile Bottom, comici chiamati a intrattenere le nozze di corte con una Lamentevole istoria di Piramo e Tisbe, scrigno di irresistibili trovate comiche. Teatro nel teatro, immancabile ricorrenza. Su tutto la figura di Puck alla corte di Oberon, re delle fate e artefice di incantesimi. Non un elfo né un folletto e neppure l’ombra
diabolica delle sue misteriose origini, Puck è la balia dei giovani amanti persi nel bosco dei misteri, parco giochi di adolescenti viziati. Sfuggendo alla tentazione di restituire il racconto alla favola, Chiodi costruisce, trasforma in protagonista la parola, e modella lo spazio col giusto equilibrio per una dimensione ludica, allusiva. Proprio come la potrebbe immaginare lo sguardo innocente e malizioso di un bambino, lasciando che il turbine della giostra trascini i personaggi in un magico contesto di leggerezza, scivolando dolcemente nell’ironia e nell’intelligente umorismo. Non è un caso che nel suo Sogno il pubblico si appassiona, mormora e parteggia per le disavventure dei personaggi, ride. Si applaude pure a scena aperta. E gli attori sono tutti molto bravi. Oltre ai già citati, va sottolineata la prova dei giovani diplomati alla scuola del Piccolo di Milano chiamati a ricoprire spesso doppi ruoli. Una dozzina di cui almeno vogliamo citare i nomi di Alfonso De Vreese (Bottom) e di Beatrice Verzotti (Puck).
Il plurilinguismo è senza dubbio una delle componenti che contraddistinguono il nostro Paese, e il fatto che la convivenza di ben quattro idiomi nazionali non solo funzioni, ma sia in grado di offrire una produzione letteraria diversificata e attenta al territorio, è sicuramente un atout che confluisce, assieme ad altri elementi, alla riuscita di una nazione come la nostra, definita «Willensnation» (nazione volontaria, è una delle traduzioni proposte per questo concetto). Come ben si sa, infatti, a lingue diverse corrispondono immancabilmente attitudini e modi di vivere diversi, elementi che non necessariamente concorrono a una convivenza funzionante, e tantomeno armoniosa. D’altronde in Svizzera le cose non sono sempre state come oggi. Solo un paio di decenni or sono, quando a scrittori elvetici si chiedeva quali scambi vi fossero con chi proveniva da una differente area cultural/linguistica, la risposta era sempre la stessa: nonostante il Gruppo di Olten, nonostante Soletta, ognuno si occupava del proprio orticello, preferendo coltivare i rapporti con chi parlava la stessa lingua (dunque gli svizzero tedeschi con i tedeschi, i romandi con i francesi e i ticinesi con gli italiani). Non è un caso, se nel corso di un’intervista, Adolf Muschg ci confidò che in fondo ci si può anche scaldare seduti «schiena contro schiena», senza guardarsi negli occhi. Le cose sono senza dubbio cambiate negli ultimi anni: l’attenzione delle case editrici è aumentata esponenzialmente, e i festival, spuntati sul territorio come funghi, hanno contribuito a facilitare e a spronare scambi e incontri. Con questa vocazione è nato anche Lettere dalla Svizzera alla Valposchiavo, festival che, come si legge nella dichiarazione d’intenti, è «interamente dedicato alla produzione letteraria Svizzera nelle quattro lingue nazionali». La scelta di Poschiavo, come casa di queste letterature non è dunque casuale, e a questo punto non poteva essere più idonea: la località grigionese infatti da sempre si contraddistingue per il plurilinguismo, essendo crocevia di genti, di partenze e di ritorni. In programma le quattro lingue nazionali, ma anche la lingua di chi in Svizzera ci è arrivato da migrante, abdicando così forzatamente alla propria, o di chi, come Pedro Lenz (che inaugurerà la kermesse), ha fatto del dialetto bernese il proprio tratto distintivo. Dove e quando
Lettere dalla Svizzera alla Valposchiavo, Poschiavo, 1-3 ottobre 2021, lettereallavalposchiavo.ch In collaborazione con
Pedro Lenz inaugurerà la prima edizione del Festival. (Wikipedia)
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cultura e Spettacoli
L’eccellenza di Wyss-Dunant
Fotografia e scultura, doppi binari
Personaggi Da Ginevra all’Himalaya: il riflessivo coraggio di Edouard Wyss-Dunant,
l’uomo dietro la storica spedizione svizzera all’Everest del 1952
Mostre Nature
silenziose al Torchio di Balerna
Benedicta Froelich Grazie alla sua conformazione geografica, nel corso dei decenni la Svizzera si è, come naturale, sempre distinta quale una delle nazioni protagoniste sulla scena alpinistica internazionale, dando i natali a numerosi scalatori di talento. Tra questi, uno in particolare si è fatto notare per la commistione pressoché unica tra lo spirito scientifico del medico di professione e la passione assoluta per l’arte dell’alpinismo di alto livello: si tratta di Edouard Wyss-Dunant, le cui imprese e temperamento hanno lasciato una traccia indelebile in tale ambito, non solo a livello svizzero. In verità, i primi passi di WyssDunant si svolsero seguendo la vena scientifica paterna: nato nell’odierna Alsazia il 17 aprile 1897, frutto dell’unione tra un chimico svizzero-tedesco e una vallesana, Edouard studiò medicina dapprima a Ginevra e poi a Zurigo, dove si sarebbe specializzato in radiologia, esercitando come praticante a Berna. E fu proprio nel periodo bernese che egli iniziò a dedicarsi all’alpinismo, iscrivendosi al locale club alpino (l’Akademischer Alpenklub Bern), e arrivando a scalare le maggiori vette dell’Oberland Bernese – su tutte, il celeberrimo Eiger (affrontato dalla cresta Mittellegi). Nello stesso periodo completò una doppia traversata del Cervino e del Dent d’Heréns (in seguito avrebbe fatto ritorno al Cervino anche in solitaria), e, in coppia con Marcel Kurz, perfino del Monte Bianco, il picco più alto dell’intera catena alpina – per poi concentrarsi anche sulle cime africane e messicane, nonché sulla Groenlandia. Un’impresa in particolare avrebbe lasciato il segno: la spedizione che, nel 1949, lo condusse, insieme a diversi colleghi ginevrini, a esplorare vari picchi della regione himalaiana del Kanchenjunga. In effetti, la vera, grande occasione della vita di Wyss-Dunant sarebbe giunta dopo il ritorno a Ginevra, città in cui aprì il suo studio medico e convolò a nozze con Lucrèce, destinata a rimanergli accanto per tutta la vita: le molte esperienze vissute nei luoghi più disparati, dal circolo artico ai deserti – e da egli stesso narrate in una serie di volumi, oggi veri e propri capisaldi della letteratura di viaggio – fecero sì che, alla non più giovanissima età di 55 anni, venisse scelto come leader della prima spedizione svizzera all’Everest: un’impresa che, nel 1952, faceva seguito ai precedenti tentativi elvetici di esplorazione dell’Himalaya del ’39, ’47,
Edouard Wyss-Dunant (a destra) insieme a Georges Grosjean, 1963. (Keystone)
e, come detto, ’49, tutti compiuti con il supporto della SFAR (Fondazione svizzera per le ricerche alpine). Ciò che distingueva l’impresa del ’52 era il fatto che stavolta il fulcro di tutto sarebbe stato proprio la famigerata cima dell’Everest, la cui esplorazione era già costata la vita ai membri di diverse spedizioni internazionali (su tutte, il tentativo britannico del 1924, conclusosi con la misteriosa scomparsa del celebre George Mallory e del suo compagno Sandy Irvine). Tuttavia, nel caso della spedizione svizzera del ’52 l’ascesa della montagna più alta del mondo non era stata davvero presa in considerazione: i reali obiettivi erano piuttosto l’esplorazione del punto d’accesso alla cima dall’elusivo South Col e del ghiacciaio Khumbu, collocato proprio a cavallo tra l’Everest e il vicino picco del Lhotse. Nonostante questo, due membri del gruppo di Wyss-Dunant – Raymond Lambert e lo sherpa Tenzing Norgay – sarebbero arrivati molto vicini (appena 300 metri!) a conquistare la cima dal versante nepalese, raggiungendo gli 8595 metri d’altitudine sulla cresta sud-est. Davvero intrigante, se si pensa che appena l’anno successivo, quando venne lanciata una nuova spedizione
britannica, il primo uomo a toccare finalmente la cima dell’Everest fu proprio il veterano Tenzing Norgay, in coppia con il neozelandese Edmund Hillary. Per molti versi, la spedizione svizzera avrebbe fatto la storia proprio grazie alla leadership di Wyss-Dunant, il quale si guadagnò il rispetto di tutti per via della sua calma e circospetta sicurezza nel dirigere le operazioni; e poiché tutti e nove i membri del gruppo provenivano dalla città di Ginevra, principalmente dall’esclusivo club alpinistico «L’androsace», tale familiarità permise loro di essere particolarmente affiatati e uniti. Influenzato dalla propria esperienza come medico, Wyss-Dunant fu inoltre il primo a coniare l’oggi celeberrimo termine «Todeszone» («zona della morte») come definizione universale del livello di altitudine – circa 8000 metri – al quale la mancanza di ossigeno rendeva quasi impossibile, per un essere umano, la prosecuzione della scalata dell’Everest. Ma i risultati della spedizione sarebbero stati notevoli anche da altri punti di vista: oltre ad aver raggiunto un’altitudine record sulla cresta sud-ovest, gli alpinisti avevano aperto una nuova, fondamentale via d’accesso all’Everest,
il tutto in condizioni metereologiche molto difficili. E naturalmente, gran parte del merito per tale successo andò a Wyss-Dunant e alla sua riflessiva, calma autorità: una combinazione di saggezza e gentilezza, che, unita alla sua perfetta conoscenza dei meccanismi fisiologici dell’organismo umano, ne faceva un capospedizione ideale. Oltre alla presidenza del Club Alpino Svizzero (e, tra il 1964 e 1968, della UIAA, «Union Internationale des Associations d’Alpinisme»), il successo dell’impresa del ’52 assicurò l’immortalità a Edouard – il quale alla sua morte, avvenuta il 30 aprile 1983, si lasciò alle spalle, oltre alla gratitudine di tutti coloro avessero mai avuto a che fare con lui, anche un prezioso resoconto scientifico sui rischi rappresentati dall’ipossia alle altitudini himalaiane (1954). Eppure, al di là dell’innegabile grandezza alpinistica, Wyss-Dunant viene oggi da molti ricordato soprattutto per la sua ammirevole modestia e onestà, nonché per la mancanza assoluta di divismo: proprio le stesse caratteristiche che lo avrebbero reso un leader magistrale, capace di fare della storica spedizione elvetica di quasi 70 anni fa un invidiabile esempio di eccellenza assoluta.
Non sono poi forme d’arte tanto lontane: se la fotografia immortala la realtà filtrandola con gli occhi di chi scatta, la scultura la racconta plasmandola con le mani di chi la crea. Entrambe le forme d’arte (e questo è solamente uno dei punti in comune tra i due protagonisti della mostra al Torchio di Balerna) richiedono, per essere gustate e soprattutto penetrate, silenzio, riflessione e concentrazione. Nature silenziose è il titolo della mostra attualmente in corso al Torchio di Balerna e che presenta i lavori di due artisti attivi sul nostro territorio, la scultrice Simona Bellini e il fotografo Luca Ferrario. Ad accomunare le opere di entrambi vi è forse soprattutto il concetto di «attenzione», rivolto non solo a sé stessi e alle proprie esigenze, ma anche a ciò che ci circonda e va individuato in un mondo sempre più frenetico e denso di novità. E se quella proposta dalle fotografie di Luca Ferrario è un’attenzione sfaccettata e intrigante, concentrata sull’alterità e sulle sfumature anche minime del nostro vivere grazie ai giochi di pieni e vuoti, di ombre e luci, quella delle sculture di Simona Bellini rivela l’amore per i piccoli gesti della quotidianità (che si trasformano in microscopici mantra) e per un ritorno necessario alla natura e alla terra, e questo grazie a tecniche rodate e a un occhio perennemente concentrato e impegnato nella ricerca del bello. Dove e quando
Nature silenziose, Simona Bellini, ceramista e Luca Ferrario, fotografo, Balerna, Sala del Torchio. Orari: tutti i giorni 14.00-18.00. Fino al 26 settembre 2021.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 settembre 2021 • N. 38
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cultura e Spettacoli
Montale quarant’anni dopo Letteratura La persistenza del mito di Clizia al centro del suo universo poetico Pietro Montorfani Capita che amici appassionati di poesia, dotati di vasta cultura letteraria, mi chiedano se Eugenio Montale sia stato veramente «così importante come dicono». Pesa certo la fama del nome, il Premio Nobel ottenuto nel 1975 e più in generale, per dirla in termini tennistici, la schiacciante vittoria ottenuta con il passare del tempo sull’eterno rivale Giuseppe Ungaretti. C’è poco da fare, Montale è piantato in mezzo al Novecento come un obelisco egizio in una piazza di Roma: lo si può scansare, guardare da lontano, persino voltargli le spalle, ma lui rimane lì, ritto e sicuro di sé, come il primo giorno. La sua ombra, se non la sua luce, è qualcosa con cui non abbiamo ancora finito di fare i conti. Per fortuna, aggiungerei io. A quarant’anni esatti dalla scomparsa, avvenuta a Milano nel settembre del 1981 (era nato a Genova il 12 ottobre 1896), non sono mancate le iniziative volte a tenerne viva la memoria − esercizio forse non così necessario dato che la produzione editoriale non si è mai veramente interrotta, almeno da quella lontana edizione critica che ne aveva fatto un monumento ancora in vita. Da alcuni anni, per rispondere a bisogni
che giungono anche dal mondo della scuola, Mondadori ha messo in cantiere una collana di testi commentati, affidati a pochi ma validi montalisti sotto l’occhio vigile di Guido Mazzoni. Ultime puntate della serie sono le prose narrative della Farfalla di Dinard curate da Niccolò Scaffai, che aggiorna e completa un suo precedente lavoro del 2008, e il Quaderno di traduzioni commentato da Enrico Testa, nel quale nel 1975 si raccolsero, come è noto, le principali versioni di Montale alle prese con versi di Shakespeare, Guillén, Eliot, Joyce, Blake, Dickinson, Hopkins, Melville, Milosz, Yeats e chi più ne ha più ne metta. Sarei curioso di conoscere il parere di un lettore vergine di cose montaliane, diciamo un marziano che non avesse mai preso in mano gli Ossi di seppia, al suo primo impatto con questi due titoli. C’è da credere che «anche senza» (così come esiste, almeno teoricamente, un Dante «senza» Commedia) il marziano di cui sopra conferirebbe all’autore un posto preminente nella produzione letteraria del XX secolo, non solo italiano. Resta il fatto che il Montale più noto, tra noi umani, è purtroppo quasi soltanto il primo, quello delle poesie del «male di vivere», il cantore del paesaggio mediterraneo dotato di grande
orecchio ma segnato anche da un acuto cinismo, tipico di un giovane «precocemente invecchiato alla scuola della chiaroveggenza», come ebbe a scrivere Vittorio Sereni in un illuminante risvolto del 1961. La verità è che Montale andrebbe letto a rovescio, o meglio dal centro, dallo snodo che congiunge le Occasioni del 1939 e la Bufera del 1956 (insomma la plaquette Finisterre pubblicata a Lugano nel giugno del 1943), per poi allontanarsi da lì nelle due direzioni − opposte ma conciliabili − degli Ossi del 1925 e dei Diari degli ultimi anni, così simili nella loro Weltanschauung. È la galassia a spirale di Asimov, dove gli estremi si toccano. Altrimenti detto, Montale è come un fico: va aperto nel mezzo, perché soltanto da quell’apertura se ne può estrarre il succo più dolce e maturo. Emblema della mirabile intuizione poetica della sua età di mezzo è il mito di Clizia, cioè la trasformazione della figura storica di Irma Brandeis (un’ebrea americana studiosa di Dante, conosciuta a Firenze quando era direttore del Gabinetto Vieusseux) in un angelo salvifico pronto a sacrificarsi per il bene di tutti, sullo sfondo devastato della seconda guerra mondiale e degli anni che la precedono e la seguono. È questa co-
Eugenio Montale in un’immagine scattata a Milano negli anni ’60. (Keystone)
struzione mitologica, tra le più memorabili dell’intero Novecento letterario (gli altri nomi da fare sarebbero quelli di T.S. Eliot e, più avanti nel tempo, dell’australiano Les Murray), a giustificare a posteriori tutta quell’insistenza autobiografica, quasi al limite dell’egocentrismo, e il contesto borghese a tratti persino asfittico (per chi proprio non lo sopporta). Negli ultimi anni abbiamo assistito a scavi sempre più profondi sul fronte del «secondo mestiere» (in realtà il «primo», cioè l’attività giornalistica) e sono emersi carteggi inediti, ricchi di informazioni preziose, non da ultimo quello con la stessa Irma-Clizia. Non mi pare però che sia cambiata, ma non avrebbe potuto essere altrimenti, l’interpretazione di fondo del cuore di quel mito poetico. Nel passaggio tra le Occasioni e la Bufera, nei densissimi versi delle Silvae e delle Conclusioni provvisorie, confluisce infatti un’intera tradizione culturale, quella dell’immaginario biblico e delle lettere paoline, riletti da Montale alla luce della propria esperienza personale, in un’epoca di enormi cambiamenti. Ad autorizzarci a una simile lettura, che insegue le accensioni di speranza invece dei momenti di maggiore desolazione, è un intervento di Gianfranco Contini che nel presentare Montale ai lettori di lingua francese non temeva di ammettere, nel 1946, che «il est impossible de faire de la poésie, fût-elle la plus désolée, sans une parcelle, un lueur d’espérance. [...] la poésie est une affirmation d’être, une valeur positive. [...] Ce n’est pas l’absence de salut qui peut définir un poète en tant que tel, ce sont ses instants de salut». La persistenza del mito di Clizia continua, assediata dal disincanto, anche negli ultimi anni di vita del poeta, e si incarna in un testo commovente pubblicato postumo in Altri versi: «Mi pare impossibile, / mia divina, mio tutto, / che di te resti meno / del fuoco rosso verdognolo / di una lucciola fuori stagione. / La verità è che nemmeno / l’incorporeo / può eguagliare il tuo cielo / e solo i refusi del cosmo / spropositando dicono qualcosa / che ti riguardi».
Il terribile tedesco
Pubblicazioni Una serie di testi attorno alla lingua tedesca
prodotti da Mark Twain alla fine dell’Ottocento in una nuova edizione curata da Dino Baldi Stefano Vassere «La lingua tedesca è formata da una dozzina di frammenti di parole gettati a caso dentro un cilindro ottagonale. Lo capovolgi, e vengono fuori queste frattaglie di Ver, Be, Ge, Er, lein, schen, gung, heits, keits e un migliaio di altri prefissi, affissi e suffissi lampeggianti e fiammeggianti. Li vedrai una sola volta, poi li perderai di vista per sempre». Il rapporto di Mark Twain con il tedesco e con le lingue in generale è noto e la narrazione a proposito di questa frequentazione è giustamente quasi del tutto occupata da innumerevoli citazioni sparse qua e là nell’Internet tratte da un testo del 1880, The Awful German Language, appendice a un resoconto di un viaggio che lo scrittore fece in quegli anni in Germania, in Svizzera, in Francia e in Italia. Ora, di La terribile lingua tedesca e di cinque altri testi dedicati al tedesco rende finalmente giustizia editoriale una raccolta «definitiva» curata da Dino Baldi, a inaugurare una elegante nuova collana dell’editore Quodlibet di Macerata. In effetti Twain fu sempre molto incuriosito da fatti linguistici e ste-
se contributi su italiano, portoghese e francese, oltre che sul nostro tedesco, «un congegno perfetto e perfettamente insensato inventato da un pazzo con il mal di denti». Ma anche il codice di un popolo sinceramente amato; codice certo complicato da imparare ma praticato da una realtà sociale che l’autore amò e frequentò per lunghi periodi. «Gott sei Dir gnädig, O meine Wonne» fu l’iscrizione che egli incise sulla lapide tombale della moglie Olivia, «Che Dio abbia misericordia di te, tesoro mio». Sono, questo testo e i suoi compagni della raccolta, di grande spasso; un gruppo di modalità diverse di tornare sul tema (la cui origine è tracciata con perizia dal curatore in capo a ogni brano e con note a piè di pagina): un saggio narrativo; un’opera teatrale dove i personaggi parlano con le frasi fatte imparate sulle grammatiche; un racconto dove una coppia di anziani cerca di far fronte ai danni di un forte temporale, ai tuoni e ai fulmini, sulla base di un manuale in tedesco; due discorsi in sede pubblica tenuti in un tedesco fintamente approssimativo e interferito dall’inglese; una nota sulla parola tedesca più lunga.
Nella numerosa serie, Twain dichiara in tutto sette ossessioni principali, che compongono una rassegna sistematica nel cuore del volume: il caso dativo, «una stravaganza ornamentale»; il verbo alla fine delle frasi; l’inadeguatezza del lessico delle imprecazioni, in tedesco troppo molli; l’organizzazione dei generi («In Germania una ragazza non ha sesso, mentre una rapa ce l’ha»); le interminabili parole composte; ipertrofici depositi di verbi in fondo alla frase del tipo haben sind gewesen gehabt geworden sein; parentesi e sottoparentesi, con «la colossale parentesi reale che racchiude tutte le altre parentesi». Sette criticità supreme e una soluzione: tenere solo due parole, Zug e Schlag con i loro derivati, e rimuovere tutto il resto del vocabolario. Questo libro colpisce per un paio di evidenze. Dapprima, per l’attualità della reazione generata nel lettore, di quei tempi e di oggi: la testualità di Mark Twain è efficacissima a distanza di più di un secolo e fa tantissimo divertire. Poi, per il pensiero che va subito alla modernità del dibattito sulle lingue migliori e su quelle peggiori. Del tema
si occupa, ancora, la linguistica più à la page e non da ultimo La razza e la lingua, il bel libro di Andrea Moro di un paio di anni fa che dimostra che, in sé, una lingua non è né migliore né meglio attrezzata di altre in nessun ambito e che forse la sola tradizione linguistica fa qualche differenza. «Mi ricordo che una volta tradussi una frase in questo modo: “La tigre infuriata spezzò la catena e divorò la misera abetaia” (Tannenwald). Non mi convinceva molto, finché non appurai che Tannenwald era, in questo caso, il nome di un uomo». Bibliografia
Mark Twain, La terribile lingua tedesca, Macerata, Quodlibet, 2021.
Serie poliziesche, ma intime Smart TV Un altro
modo di indagare
Marco Züblin È da anni che i telefilm, o meglio le serie televisive, tentano di uscire dal limbo (o dall’inferno) della televisione-spazzatura per trovare una loro dignità, anzi una valida e specifica cifra estetica. Merito anche del fatto che, nei casi migliori, esse hanno assunto una valenza del tutto cinematografica, e non solo per la dilatazione della loro durata a quella di un film, ma proprio per l’attenzione che esse portano sia alla qualità del racconto sia agli aspetti tecnico-estetici della narrazione. È un discorso che vale per un numero sempre maggiore di prodotti, ma comunque all’interno di un genere che continua a offrire purtroppo, anche sulle emittenti principali (servizio pubblico, evito di citare esempi), scampoli di televisione dell’orrido e del banale. Tutto questo per segnalare, e per consigliare, la frequentazione di due serie britanniche di livello (e di successo), accomunate dal fatto di presentare episodi lunghi (ca. 100 minuti) e di giocare con misura ed eleganza sul meccanismo che introduce una storia che travalica e attraversa i singoli episodi, facendo di ogni serie, e di tutte le stagioni, una sorta di domesticamente coinvolgente suite narrativa. Mi riferisco a Il giovane commissario Morse (ITV; dal 2013, 30 episodi, su Paramount Network dal 2019) e Vera (ITV; dal 2011, 40 episodi, su Giallo dal 2016). In entrambi i casi, si tratta di detective stories atipiche, basate su personaggi letterari (da Ann Cleeves per Vera; da Colin Dexter per Morse), e che si caratterizzano per una grande e piacevole complessità a livello di racconto e di riferimenti, con un intrecciarsi di sotto-storie e di rimandi efficaci al contesto storico e sociale in cui la storia principale si svolge. Nel caso di Vera, siamo nel nord dell’Inghilterra di oggi, tra brughiere ventose e in un contesto operaio con pesanti annunci di crisi e di smobilitazione; per Morse, nella preswinging Oxford degli anni Sessanta e Settanta, riproposta in ogni suo aspetto con cura e precisione maniacali. Al di là dell’intreccio poliziesco principale, molto ben organizzato e con una dinamica mai banale, vi è una grande attenzione ai personaggi, i cui caratteri sono assai stratificati, e la cui dinamica fa emergere vicende personali spesso paradigmatiche della situazione storico-sociale in cui il fatto si svolge. Inutile aggiungere che, a partire dai protagonisti (Brenda Blethyn, una scarruffata, irascibile ma umanissima Vera; Shaun Evans, enigmatico e implacabile Morse) fino all’ultimo dei comprimari, tutti gli attori sono sempre efficaci e recitano con grande misura e adesione al clima e al «sapore» della storia narrata. Questi prodotti hanno il vantaggio di proporre, all’interno di un genere ormai canonico come il poliziesco, uno sguardo diverso, un po’ più intimo e riflessivo, un ritmo narrativo e una complessità di intreccio che riporta a una fruizione diversa, magari «antica», comunque rigenerante dopo tanto ritmo da videogioco senza un domani né un senso vero.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 settembre 2021 • N. 38
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cultura e Spettacoli
Nella stanza degli spiriti
Incontro A colloquio con lo scrittore italiano Mario Desiati, autore del fortunato Spatriati
La poesia dramma di ogni giorno editoria I nuovi versi
di Anna Ruchat in La forza prigioniera
Laura Marzi «La letteratura è una comunità di spiriti che compongono il nostro sguardo, la nostra vita e quella parte interiore che non possiamo toccare, ma solo sentire»: abbiamo incontrato Mario Desiati, autore di uno dei romanzi italiani più significativi, letti e amati del 2021: Spatriati (Einaudi 2021). Spatriato è un termine pugliese che significa strano, balordo, incapace di rispettare le regole sociali: è la condizione esistenziale di Claudia e Francesco, protagonisti di questo romanzo. I due si conoscono da ragazzini, a causa di una vicenda familiare che li accomuna, e attraversano insieme, a partire da approcci diversi, la giovinezza dei quarantenni di oggi, fatta di esperienze all’estero, precarietà lavorativa e affettiva, di una ricerca di libertà, che non trova quiete né fine. Il tuo romanzo è la storia di un legame: claudia e Francesco, i due protagonisti, si affiancano da quando sono ragazzini, ma questo non li salva da una condizione esistenziale di solitudine invincibile. È destino di tutti gli spatriati essere in fondo irrimediabilmente soli?
Destino è una parola che maneggio con molta cura. Può essere la forza che determina le varie esistenze di tutti noi, può essere una vocazione, un’entità celeste che modifica il corso esistenziale. Per alcuni è addirittura sinonimo di futuro. Lo spatriato che ho provato a raccontare è una persona che si stacca dalle sue radici consapevolmente, che spatria con la propria identità. Ovviamente intendevo una patria senza un territorio geografico preciso, ma un modo di pensare, di essere nel quieto vivere, del «chi si contenta gode», che molti assecondano nonostante la loro identità nutra altre aspirazioni. Spatriare è anche una reazione alla pressione sociale. Penso che chi valica una frontiera ha sempre l’aspettativa segreta di dare un’impronta a quello che si ritiene essere il destino. Alla fine, il destino è diverso in ognuno di noi e quella solitudine è l’ombra che tutti vivono nella loro vita, spatriati e no.
I due protagonisti possono essere interpretati anche come la scissione di un’unica persona, la rappresentazione delle componenti maschili e femminili, che convivono sempre in ognuna e ognuno. A tal proposito il
Mario Desiati, (Locorotondo, 1977) è scrittore, poeta e giornalista. (Keystone) filosofo emanuele coccia («Azione« Il desiderio contro la paura, 16 agosto 2021) scrive: «non c’è nessuna identità di genere: nel genere, in ogni genere, si è almeno in due, e lo si è sempre nel modo di un esperimento, di un tentativo temporaneo». cosa ne pensa?
Quando entro in libreria e leggo che ci sono scaffali dedicati alla letteratura femminile mi sento davvero uno spatriato totale. Non riesco ad adeguarmi all’idea che ci sia un libro per le donne e un libro per gli uomini, credo che i libri siano per tutti, anche quelli che vengono definiti romanzi rosa. Ho scritto di Claudia e Francesco con l’utopia di raccontare l’animo di personaggi, che ridefiniscono la propria «patria», anche attraverso il genere, ma il genere inteso come incombenze sociali, per cui le donne e gli uomini hanno una serie di compiti predefiniti, e che invece nelle società più evolute sono rimesse in discussione. Claudia e Francesco, come milioni di altre persone in tutto il mondo, fanno proprio questo. Nel linguaggio specialistico sarebbero considerati due genderfluid, anche se rifuggono nel corso della loro vita qualunque definizione. «eravamo usciti dalle nostre famiglie riportando ferite profonde,
ma le nostre famiglie non erano uscite da noi»: qual è il rapporto tra l’essere spatriati e la libertà e quali forme di libertà dalla famiglia crede possibili?
Credo nella solidarietà tra le persone, nella possibilità di vivere insieme per superare le difficoltà, oppure per assicurare una comunità solidale ai propri figli. Credo che si possano scegliere diversi tipi di modelli, dalla coppia tradizionale a quella aperta, fino alla condivisione comunitaria, come nel caso delle Wohngemeinschaft (case condivise, ndr): l’importante è che la scelta sia funzionale all’individuazione e allo sviluppo della propria identità e della propria vocazione. Di solito si intende la famiglia tradizionale in relazione al concetto di radici, ma le radici sono per gli alberi e non per gli esseri umani scriveva Amin Maalouf, perché le radici oltre a nutrire, trattengono.
Il romanzo si conclude con il capitolo Note dallo scrittoio o stanza degli spiriti, dedicato alle scrittrici e agli scrittori citati nel testo e che, come spiriti appunto, l’hanno accompagnata nella redazione del romanzo, tanto che si potrebbe concludere che per lei l’unica possibilità di appartenenza è la letteratura.
che tipo di patria è la letteratura?
Negli anni 90 era molto discusso il Codice dell’Anima di James Hillman (Adelphi, 1997), in cui si ritrova il concetto di superstizione parentale, per la quale confondiamo la biogenetica con la nostra spiritualità. Liberarsi da questa superstizione significa comprendere che gli antenati non devono essere per forza i nonni dei nostri genitori, ma possono essere altre entità: in alcune culture sono le pietre oppure gli alberi. Perché esistono posti nel mondo nel quale avvertiamo presenze che altri non avvertono? E io mi chiedo anche, perché certi libri ci parlano più di altri? A volte quei libri restano dentro di noi, come spiriti appunto, diventano quasi parte del nostro codice genetico. Possiamo dimenticare i nomi dei protagonisti e addirittura degli autori, ma permane quella specie di ispirazione che ci hanno trasmesso durante la lettura. La letteratura più che una patria è una comunità di spiriti, che compongono il nostro sguardo, la nostra vita e quella parte interiore che non possiamo toccare, ma solo sentire.
È così bella la poesia che nasce dalla quotidianità: chi è capace di registrarla e di fissarla in versi pare in grado di realizzare un miracolo. Ha questa dote anche l’ultimo libro di versi La forza prigioniera (Passigli Poesia, 2021) della scrittrice Anna Ruchat, e richiama alla mente, di primo acchito, il modo di osservare la realtà, profondissimo intenso e allo stesso tempo distante, che aveva Emily Dickinson. L’esempio è fin troppo facile: come sappiamo, Ruchat ha ben altre frequentazioni e modelli, eppure il paragone non stona. I suoi nuovi versi sanno offrirci ancora una volta frammenti di normalità della vita (le bambine che prendono il latte della colazione, le venature del marmo di una tomba, la sponda del lago) e li mette in opera lungo una catena di pensieri, associazioni, ricordi che si aprono sulle grandi domande della vita. Sono minuscoli drammi dell’esistenza offerti però con un’eleganza e un distacco che conferiscono loro grande profondità. La voce poetica di Anna Ruchat è come sempre una terapia per l’enfasi, una ricerca dell’essenziale detto con le parole della vita di noi tutti. «Sono così i ricordi / Arrivano all’improvviso, / come l’airone quando si alza / con uno sbattere d’ali dal fiume». /AZ
Bibliografia
Mario Desiati, Spatriati, Torino, Einaudi, 2021, pp. 277.
Anne e la ragazza (o il suo fantasma)
Narrativa Il fortunato romanzo di Laura Freudenthaler si inserisce nella migliore tradizione letteraria austriaca Stefano Vastano La concentrazione, il controllo dei polsi, la posizione del busto verso il piano. Anne sa bene quanto il pianoforte sia difficile, e duro. Per questo nella scuola di musica in cui insegna ha stabilito con gli allievi dei segnali per fargli capire al volo quando sbagliano, correndo o indugiando sui tasti. «Gli allievi di Anne sanno benissimo che quando la mano destra di Anne si poggia sulla loro coscia e Anne dice basta devono sospendere immediatamente. Tu dove sei? chiede Anne». All’inizio del romanzo di Laura Freudenthaler, Anne è una brava insegnante, di quelle innamorate del loro strumento, e della musica classica. La vita di Anne è tutta strutturata intorno alla musica, e a suo marito Thomas, con cui vive in un bell’appartamento probabilmente al centro di Vienna. Thomas invece lavora come un pazzo per organizzare i suoi festival. A casa lui non c’è mai, o solo per rinchiudersi
nel suo studio, dove riposa sullo scomodo divano. Non sul letto coniugale. Ma i veri protagonisti di Anne e i fantasmi, appena pubblicato da Voland, nella splendida traduzione di Paola Del Zoppo, non sono Anne e Thomas, né i loro progetti. Sì, lei si è presa finalmente l’anno sabbatico per scrivere un manuale per il piano. E per riprendere a casa a suonare cercando di ripulirsi la mente, e le mani, dagli errori che gli studenti ripetono in continuazione. No, il vero protagonista nella vita di Anne e Thomas è «la ragazza», come la chiama Freudenthaler: una giovane che lui frequenta da un po’ e con cui passa sempre più spesso le serate, a volte anche i week-end. E Anne, la francese Anne è sola, sempre più sola. Passa le sue giornate rifugiandosi la mattina nei bar, o vagando sino a sbucciarsi i piedi per quartieri sconosciuti della città. L’appartamento dove il loro amore è cresciuto con la massa delle loro abitudini (Thomas è quello che guadagna di più; Anne quella che
mette in ordine, persino le ricevute del distratto compagno) si sta sfasciando, come i loro colloqui e incontri ormai rari, quasi sempre sulla soglia delle rispettive stanze. «Venti, dice Thomas. Vent’anni. Ne avevi trenta, aggiunge lui. Sì, dice Anne, anche tu. Vent’anni, dice Thomas, attraversare ogni giorno la stessa porta, uscire sempre sulla stessa strada. Da venti anni usiamo lo stesso bagno». I capitoli del testo sono brevi, ma Freudenthaler vi descrive con spietata precisione l’agonia di un rapporto. I bei ricordi – il primo incontro, al cinema; la fotografia che Anne scattò di spalle al fresco volto di Thomas – affogano in un mare di menzogne, soprattutto di cupi fantasmi. In tedesco il romanzo s’intitola Geistergeschichte: storie di fantasmi, appunto. È il secondo romanzo con cui la scrittrice di Salisburgo ha spuntato, nel 2019, il Premio dell’Unione europea per la letteratura. Premio più che meritato, vista la scrittura così raffinata con cui l’autrice ci trasporta den-
Laura Freudenthaler è nata a Salisburgo nel 1984. (Wikipedia)
tro le spirali e nevrosi di un fallimento. Nelle allucinazioni di una coppia in dissolvenza. Anne, che non riesce più a suonare, neanche ad aprire il coperchio del suo adorato pianoforte, muta nella «donna senza nome». Così
la chiama «la ragazza» che conquista sempre più spazio nella vita dell’ex insegnante di musica (un omaggio a La pianista di Elfriede Jelinek). A metà romanzo la ragazza compare ovunque: Anne la vede in bagno, nel salotto, per strada. Di notte e di giorno. E arriva persino a ricostruire, con lucida acribia, i locali in cui lei e Thomas trascorrono le serate (tramite le ricevute che lui, come al solito, lascia nelle giacche). Ma nella mente di Anne quanto è allucinazione, depressione o amara realtà? Un enigma che Freudenthaler lascia in sospeso a noi lettori che seguiamo abbacinati questo piccolo capolavoro, in cui il piano dell’introspezione e quello dei fantasmi sono intrecciati. Come nella migliore tradizione d’altronde della grande letteratura austriaca. Bibliografia
Laura Freudenthaler, Anne e i fantasmi, Roma, Voland, 2021.
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cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Oggi non ci sono più valori Vedova da molti anni, i figli sposati, da quando la banca le regalava ogni anno un’agenda la signora Cristina la usava non per segnarvi i rari appuntamenti (dentista, pedicure, parrucchiere) ma gli altrettanto rari avvenimenti che interrompevano la monotonia della sua vita. A fine anno, prima di metterla via, la sfogliava un’ultima volta. Fu così che si accorse che l’anno appena finito era stato scandito dai funerali. Basta! Non ci vado più! Si disse. Neanche a farlo apposta, due giorni dopo le arrivò la notizia che Olga, la sua più cara e antica amica, era rimasta vedova. Aiutata dal fatto che Olga abitava a Trieste, Cristina scrisse all’amica di un tempo una lettera accorata, spiegandole che siccome era ancora convalescente da una brutta influenza, non usciva di casa. Faceva le sue condoglianze e si augurava che Olga, espletate le tristi incombenze delle esequie del povero marito, potesse venire a trovarla a Torino, sua ospite. Un torinese capisce
benissimo quando un invito è fatto pro forma in ossequio alle convenienze. Olga, torinese ma da troppo tempo a Trieste, aveva però perso la capacità di cogliere le sfumature e perciò, sistemato il marito, si presenta a casa di Olga. Sorprendiamo le due amiche mentre prendono il tè nel tinello. Il petto di Olga è gonfio di emozione a stento trattenuta nella rievocazione delle ultime ore del marito: «Oreste non ha sofferto, è morto nel sonno. Ma poco prima di addormentarsi per l’ultima volta, ha alzato con uno sforzo la testa dal cuscino, mi ha cercato con lo sguardo e mi ha detto, testuali parole, “Dì a Cristina che”. Punto. Si è interrotto. Io ho insistito: dì a Cristina che cosa? E lui: “Niente, non dirle niente”. È crollato con la testa sul cuscino, si è addormentato e nel sonno è morto. Ora io sono qui a chiederti che cosa mio marito aveva intenzione di dirti. E non mi dire per favore che non ne hai la più pallida idea. Ricordati che sono le sue
ultime parole». La provvidenziale incursione del più grande fra i suoi nipoti, il diciottenne Christian, toglie per qualche minuto dall’imbarazzo la signora Cristina: «Nonna, prestami cinquanta euro, devo andare in discoteca». «Non li ho cinquanta euro. Te ne posso dare trenta». «Vada per trenta». Christian afferra le due banconote che la nonna gli porge e corre via senza ringraziare. «Ah, i giovani d’oggi», commenta Olga, «noi non eravamo così». «Adesso vanno in vacanza insieme, maschi e femmine, quando ancora non sono neanche fidanzati», le fa eco Cristina. «Concubini, altro che fidanzati!». Terminata l’onda lunga generata dal passaggio di Christian, Olga torna all’attacco: «Stavamo dicendo delle ultime parole pronunciate dal mio povero Oreste...» «Appunto. Le sue ultime parole erano per dire che non c’era più niente da dire...» «Cristina, per favore, non giochiamo con le parole» «Be’, quello che chiami il “tuo” Oreste,
prima di essere stato tuo è stato mio». «In che senso, scusa». «Di sensi ce n’è uno solo, mi pare». «Vorresti dire che...» «Succede a tutti, succede tutti i giorni, è successo anche a me». «A me non è mai successo». «Ma va? E il vigile urbano, come vogliamo catalogarlo?» «Quell’episodio non conta, è successo perché era venuto a portarci i certificati elettorali. Era un modo per ringraziarlo, io e il povero Oreste siamo sempre stati dei sinceri democratici». «Per ringraziarlo potevi dargli una mancia». «Brava! Così avrei commesso un reato. Tentativo di corruzione di un pubblico ufficiale». «Adesso capisco i tuoi fuochi d’artificio quando scioglievano il parlamento». «Se è per questo ero contenta anche quando c’era da eleggere il sindaco». «Ecco perché hai fondato la sezione di Trieste del partito radicale, proponevi ogni giorno un nuovo referendum ed eri sempre la prima quando si trattava di raccogliere le firme!» «Ti ricordo che, nonostante
i miei solleciti, tu non hai mai messo la tua firma». «Per me era una questione di coscienza». Olga si commuove: «Sono stati anni fantastici, di intensa vita democratica. C’era una votazione all’anno. Per te è stato diverso. Oreste era il fidanzato della tua migliore amica». «Se proprio vuoi saperlo, io venivo da un brutto momento. Oreste era un uomo sensibile. Aveva intuito che io avevo bisogno di conforto, mi ero appena lasciata con il marito di mia sorella». «Ah, pure lui!» «Pure lui! Pure lui! La famiglia è la famiglia». «Chissà cosa avrà voluto dire Oreste...». Entra nel tinello Federica, l’altra nipote di Cristina. Si avventa sul frigo, s’impossessa del succo di frutta e afferra dal tavolo due tartine. «Questi giovani non li capisco...» sospira Cristina con l’aria di voler scusare la nipote. «Noi eravamo diversi», commenta Olga. «Il fatto è che oggi non ci sono più valori. E senza valori tu mi insegni che non si va da nessuna parte».
cui, vent’anni prima, si era posizionata nel successo. Quel successo che ora le pareva un antefatto senza importanza. Avrebbe voluto raccontare al vecchio tutta l’inconsistenza di quei primi passi luminosi (19 anni, bella, una memoria prodigiosa), avrebbe voluto condividere l’illusione, la delusione. E infine quella certezza scomoda e indiscutibile: siamo al mondo per essere infelici. Avrebbe voluto consegnare a Von Arnim, ma forse a chiunque, tutta la sua disperazione. Invece era riuscita soltanto a esibire il quadro clinico di Tom, sfoggiando tutto quello che aveva imparato in undici anni di transfert e controtransfert, sul divano di M. Non gli aveva confessato di essere stata tutto quel tempo in analisi, nel tentativo di imparare ad adattarsi alla vita. M. era stato, in effetti, il primo «vecchio» della sua vita. E lei aveva fatto di tutto per sedurlo. Come da manuale.
Non ci era riuscita, perché erano altre le regole del gioco. Ma forse presentarsi a casa del vecchio che le aveva pagato una cena, regalato del danaro, consegnato un invito mondano e raddrizzato l’ego a forza di complimenti era stato un succedaneo di quel romanzo d’amore mancato. Se no che cos’altro? Certo aveva parlato troppo e ora taceva, spossata, come una nuotatrice appoggiata al bordo della vasca, gli occhi socchiusi, i muscoli ancora pulsanti. Von Arnim le sfiorò una spalla. Ascoltarla era stato facile, la cosa giusta da fare, e anche offrirle un bicchiere di vino. Era stato facile nascondere lo stupore (per quanto, alla sua età, si configurasse come un regalo inestimabile) nel vederla inquadrata nel vuoto della porta, con la stessa tuta sporca che indossava a mezzogiorno, uno sguardo smarrito e una crosta di sangue rappreso sotto il naso. Dunque aveva litigato con il marito. La cosa non gli dispiaceva, naturalmente.
Era uscita senza prendere niente, borsa chiavi portafoglio. Non aveva intenzione di rimettere piede in quella casa finché c’era lui. O almeno così aveva dichiarato, con quella passione per le decisioni che rendeva la giovinezza nello stesso tempo stagnante e movimentata. «Posso offrirti ospitalità, se vuoi. La casa è grande», disse e poiché non aveva detto nient’altro la sua voce gli sembrò fredda. Per correggere quella sensazione Von Arnim sorrise e aggiunse: «Dormivamo in due camere separate, io e mia moglie, ciascuna con il suo bagno e un salottino, per così dire, privato. I matrimoni longevi hanno bisogno di spazio e di tempo, di non vedersi appena svegli, di non guardarsi prima di andare a dormire». Betta si lasciò accompagnare lungo un corridoio largo, fino ad una doppia porta imbottita . Von Arnim la aprì, accese una luce, le cedette il passo.
tipo di segnali. «Ora non ci restano che gli occhi, e in questo modo è difficile esprimere i soliti giudizi affrettati che tanto ci piace dare, anche se sono sbagliati», ha rivelato al «Washington Post» Leslie Zebrowitz, docente di psicologia e ricercatrice in materia di percezione facciale presso la Brandeis University negli Stati Uniti. «Ci sentiamo più a nostro agio quando siamo in grado di giudicare le apparenze di qualcuno». Se i vaccini non riusciranno a sconfiggere il Covid correremo il rischio, un forte rischio, che per molto tempo ancora le mascherine diventino le nostre protesi. Dovremo imparare a giudicare a prima vista gli altri dalle mascherine che indossano: dalla profilassi alla moda il passo è breve. Dalle prosaiche e democratiche mascherine chirurgiche, una specie di divisa da rivoluzione cinese, a quelle da fine del mondo, col filtro al carbonio ma di colori diversi, a quelle più raffinate anche nella fattura. E se alcune coprono un’area ancora
più estesa del volto, ma sono ineleganti simili quasi a un paio di mutande facciali, altre sono invece già ingentilite da particolari vezzosi, come ad esempio le cinghie colorate, regolabili alle forme del volto. C’è un artista austriaco, Markus Schinwald, che si diverte nei suoi dipinti a manipolare tele e incisioni antiche applicando su di esse protesi ed elementi che trasformino l’esperienza interna in condizioni esterne e visibili. Protesi facciali, maschere e bendaggi applicati alle figure sollecitano curiosità e inquietudine, come se celassero un mistero. Le mascherine, infine, mettono in crisi una scienza che negli ultimi anni sembrava in ripresa: la fisiognomica. Leonardo Da Vinci ha disegnato molti studi di teste deformi, espressioni facciali portate al parossismo, fisionomie grottesche. Non erano caricature, ma il tentativo di ricercare le relazioni fra i «moti dell’animo» e le loro manifestazioni sui tratti somatici. Johann
Kaspar Lavater è principalmente conosciuto per i suoi celebri scritti sulla fisiognomica. Nel suo libro più famoso, esibiva una cospicua collezione di profili, ricavati con una serie di tecniche pittoriche che, a loro volta, consentivano la realizzazione pratica e veloce di silhouette umane. E Cesare Lombroso, pur con molti dubbi sulle sue teorie, è considerato il fondatore della polizia scientifica. Insomma, senza Lombroso non ci sarebbero state serie televisive affascinanti dove emerge la figura del profiler, agente specializzato nell’analisi psicologica delle menti criminali. Per intenderci, lo stesso tipo di specializzazione che aveva portato l’agente Clarice Starling a confrontarsi con il terribile Hannibal Lecter ne Il Silenzio degli Innocenti. Per tutti questi studiosi il volto è sempre stato considerato lo specchio dell’anima: tra le inclinazioni o le passioni più segrete e la nostra faccia esisterebbe un legame originario e irriducibile. E ora, con le mascherine?
Quaderno a quadretti di Lidia Ravera Le nuove povertà/23 Aveva detto a Von Arnim: «Certe volte sentirmi brutta e infelice mi mette al riparo dal giudizio, non so se mi spiego. Mi dà coraggio. Tipo: la certezza di non poter cadere più in basso, di non aver niente da perdere. Se fossi venuta da te tutta impennacchiata nel mio vestito più sexy, se avessi i capelli puliti e gli occhi truccati, adesso non sarei qui a parlare così, liberamente e con leggerezza e senza mascherarmi dietro qualche sentimento grazioso come la disperazione degli adolescenti». Aveva detto «Mi sento meglio», senza nascondere né esagerare il tremito che le scomponeva il gesto di portare alla bocca, ora il bicchiere, ora la sigaretta. Aveva detto: «Il momento peggiore è stato quando ho suonato il citofono. Senza sapere qual era il bottone da premere. Ci sono soltanto numeri nei palazzi di lusso, vero? Bisogna essere ricchi per accettare di essere un numero». Aveva riso, gettando la testa all’indietro, mostrando il palato, in una scompostezza nuova.
«Li ho suonati tutti, i citofoni. E qualcuno mi ha aperto. C’è sempre qualcuno che apre una porta quando hai il coraggio di bussare a tutti». Aveva parlato senza darsi tempo per selezionare quello che andava dicendo, così parole minimali, di uso comune, erano finite nello stesso flusso ubriaco delle parole importanti, come «disturbo narcisistico di personalità», «sé grandioso», «mistificazione delle relazioni» (aveva cercato di spiegare perché aveva deciso di lasciare Tom) e «dazione di senso». Le premeva che il vecchio capisse la portata reale della sua disgrazia. Eppure non voleva nominarla. Non voleva dirgli «siamo poveri», è la povertà che mi riempie di vergogna e di paura, è la povertà la colpa di Tom, e non ho intenzione di continuare a perdonargliela. Non era riuscita a essere sincera nemmeno dal fondo di quella nuova sensazione, non riusciva ad accomodarsi nella disfatta con la grazia distratta con
A video spento di Aldo Grasso Mascherine, quale identità? In una delle ultime interviste, il filosofo Giulio Giorello ragionava sull’uso delle mascherine sanitarie e la nostra identità: «Siamo tutti mascherine. Ne facciamo uso, ce le portiamo appresso, le personalizziamo. Le usiamo come barriera contro il male oscuro e invisibile del Coronavirus. E come protezione verso gli altri. Le indossiamo quando pensiamo di essere in pericolo, le togliamo quando ci rilassiamo. C’è un uso pubblico: quando siamo in mezzo agli altri. E un altro privato: quando siamo in famiglia o in ambiti ristretti. Le mascherine sono diventate parte di noi, sono un pezzo della nostra identità. Ma, appunto, quale identità? Con le mascherine siamo noi, ma lo siamo anche senza. Qual è dunque l’identità vera: quella dove nascondiamo il viso o quella dove trasmettiamo – col pianto, col sorriso, digrignando i denti, schiudendo le labbra – le nostre emozioni, il nostro linguaggio non verbale?». Quale identità? Mentre si stanno perfezionando sempre di più le tecnologie
per il riconoscimento facciale, è importante riflettere su alcuni problemi dell’identità: la nostra persona una volta era particolarmente caratterizzata dal volto e dalle sue espressioni. E la mascherina invece queste espressioni le cela. Dunque parliamo di una perdita, di un nascondiglio, di una paura? Per ragioni di convivenza (succede anche nel mondo animale), è necessario capire che intenzioni ha un individuo quando lo incontriamo e il volto è il suo passaporto immediato. Non essere in grado di compiere con facilità questa pratica di riconoscimento renderà le persone automaticamente più prudenti e sospettose. L’utilizzo delle mascherine influisce sull’espressione e l’interazione umana, in un periodo in cui ci guardiamo a vicenda con inquietudine, in cerca di segnali di solidarietà, di ottimismo e persino di pericolo. Ci piace leggere i volti, è necessario leggerli per giudicare le espressioni dei nostri interlocutori, ma le mascherine nascondono questo
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