Azione 38 del 16 settembre 2024

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edizione 38

MONDO MIGROS

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SOCIETÀ Pagina 3

Focus sulle pause di carriera, momenti di arricchimento sia per il collaboratore sia per l’azienda

Grazie alla sua conformazione il Ticino è diventato una mecca per gli amanti del bouldering

TEMPO LIBERO Pagina 13

Il 22 settembre si vota sull’iniziativa biodiversità: le argomentazioni di favorevoli e contrari

ATTUALITÀ Pagina 19

Le carte in mano ai due sfidanti

La scrittrice norvegese Ingvild Hedemann Rishøi racconta il suo romanzo La porta delle stelle

CULTURA Pagina 27

Federico Rampini Pagina 21

Elogio della dolcezza, o anche solo del garbo

Qualche giorno fa la consigliera comunale di Zurigo Sanija Ameti ha creduto – anche se solo per un attimo – che «il tiro a segno sulla Madonna con bambino» fosse un atto provocatorio d’alta valenza politica. La 32enne aveva postato su Instagram foto di se stessa mentre sparava all’immagine di una Madonna col bambino. Sommersa dalle critiche, si è opportunamente dimessa dal Comitato direttivo dei Verdi liberali del Canton Zurigo. Imparando – speriamo – che per crivellare di colpi un’immagine sacra che è anche un’opera d’arte, cioè per infliggere un torto alla sensibilità religiosa e alla bellezza nello stesso tempo, servirebbero motivazioni un po’ più serie del suo «sparo per rilassarmi». Data l’esiguità delle spiegazioni rilasciate dall’interessata, forse non sapremo mai le ragioni reali del gesto (anticlericalismo? narcisismo? effetti di una sbornia girata male? pura e monumentale idiozia?). Ma neppure ci interessano.

Un fatto simbolico però, in questa vicenda ci interpella in modo particolare: l’idea assai diffusa, a giudicare da quanto si vede sui social, che la rappresentazione di un gesto disturbante e/o violento possa suscitare se non ammirazione, almeno un certo fascino. Come se l’esibizione della forza senza controllo, della distruzione ingiustificata, della rissa, del vandalismo o della sopraffazione fosse un segno di valore, un’attestazione meritoria. Da rispetto camorristico, quasi: valgo perché me ne frego, perché non ho norme, perché con me non ti conviene scherzare. Uomini e donne «forti» perché ringhiosi, armati, sprezzanti. Gente che spara alla Madonna per noia. Magari sbagliamo, ma le persone che veicolano questa immagine di sé, più che pericolose sono bugiarde. Anelano, come tutte, alla loro quota minima di tranquillità sociale ed esistenziale, sognano carezze e coccole, ma se ne vergognano. Perché esibire sensibilità viene curio-

samente interpretato come prova di debolezza. Per essere dolci, nei tempi feroci che viviamo, bisogna essere molto sicuri di sé, non temere il dileggio e il fraintendimento a cui si va incontro ogni volta che ci si mostra empatici, aperti e disponibili. Se sei «buono» qualcuno dirà che sei «troppo» buono, ergo «buonista», ergo stupido: una o uno che si fa fregare da tutti. Anni fa un amico romando si era inventato una nuova etimologia del termine francese «douceur», dolcezza, pretendendo che contenesse la parola latina «ducere», condurre, e che quindi nella sua essenza la dolcezza fosse un atto direttivo di forza, non di abbandono, o peggio, di mollezza. Ipotesi suggestiva, ma linguisticamente infondata. L’intento era ottimo: nobilitare a posteriori la parola stessa «dolcezza», mostrarne la forza nascosta. In realtà non ce n’era bisogno. Un giovanissimo influencer italiano della cultura classica, Edoardo Prati (ha solo vent’anni),

apparendo nei mesi scorsi in una nota trasmissione televisiva italiana proponeva un’intelligente e opposta lettura della realtà. «Uno dei sintomi della felicità – diceva – è la dolcezza. La suavitas come viene definita dai latini, il garbo». E citava lo storico e scrittore dell’antica Roma Cornelio Nepote (nato circa il 100 a.C. e morto verso il 27 a.C.) che nella sua Vita di Attico (un altro importante storico romano) a un certo punto dice di lui che «studiava poesia per non rimanere digiuno della sua dolcezza. E questo è interessante perché oggi nella nostra scala di valori la dolcezza non appare mai, ma in realtà è la dolcezza che catalizza il rapporto tra le persone e senza rapporto non c’è società». Mettiamo per favore un po’ di poesia e di dolcezza nella nostra vita. E qualcuno vada a spiegarlo agli altri influencer (politici inclusi) che mostrano i muscoli, e all’occorrenza, i pistoloni sulla trafficata platea virtuale di Instagram.

Carlo Silini

Un nuovo Consiglio di cooperativa

Info Migros ◆ In occasione della seduta costituiva nuove nomine e informazioni aziendali

Molti i temi all’ordine del giorno in occasione della prima riunione del nuovo Consiglio di cooperativa –Cc (quello precedente, in carica dal 2020, si era riunito per l’ultima volta martedì 11 giugno 2024) tenutosi lo scorso 10 settembre nella sede di Migros Ticino a Sant’Antonino.

Il numero dei membri del Consiglio di cooperativa, che si occupa anche delle relazioni con la FCM, è sceso da 48 a 32

Il Cc si compone ora di 32 persone (precedentemente erano 48), per la maggioranza donne; dei 32 membri 5 sono collaboratori dell’azienda; il Cc è chiamato a occuparsi delle questioni di principio della cooperativa e delle relazioni con la Federazione delle cooperative Migros, con competenze sia proprie, sia congiunte con il Consiglio di amministrazione. Il neoletto presidente del CdA Gianni Roberto Rossi ha sottolineato come oggi la presenza nel Consiglio di cooperativa richieda un maggiore coinvolgimento attivo rispetto al passato: i membri ricoprono infatti anche il ruolo di ambasciatori, coscienti di come la situazione aziendale domandi la massima attenzione.

Ha poi preso la parola il neo presidente del Cc Daniele Poggiali (eletto all’unanimità, così come la sua vice, Cristina Coduri Mossi),

che ha espresso il proprio sostegno al cambiamento iniziato all’interno dell’azienda

Cristina Coduri Mossi è stata quindi eletta presidente della Commissione culturale, composta, oltre che da lei, da Daniela Biadici, Patrizia Capuani Rima, Sandra Casoni, Patrizia Ferrari, Sandro Glaus e Simona Guenzani. Alla Commissione culturale compete annualmente l’assegnazione di contributi finanziari una tantum a progetti di particola-

re rilievo per la Svizzera italiana in campo sia culturale sia sociale. Nel suo intervento, il direttore di Migros Ticino Mattia Keller ha illustrato l’andamento delle attività dell’azienda, che si trova a operare in un contesto difficile (dopo il conflitto ucraino, il franco forte ecc, da febbraio l’economia al dettaglio ticinese è confrontata anche con le pesanti ricadute del tax free, sceso a 70euro). La nuova società Migros Supermercati SA dovrebbe riuscire

a migliorare la situazione complessiva. Nonostante il periodo complicato, non sono mancate le ristrutturazioni delle filiali, poiché solo dei buoni investimenti possono dare lo slancio necessario per affrontare il futuro. I lavori si sono svolti secondo pianificazione; l’unico grande imprevisto è stato rappresentato dall’incendio di Radio-Besso, che ha richiesto due settimane di chiusura della filiale e il lavoro indefesso di collaboratrici e collaboratori, co-

adiuvato dal gerente Dario Cellura. Migros Ticino ha appena assunto 24 nuovi apprendisti (suddivisi in diversi settori, che vanno dalla vendita al fitness, passando per logistica e conduzione mezzi pesanti, nonché per gli impiegati di commercio), portando così a 66 il numero totale di giovani in formazione nell’azienda. Mattia Keller ha poi ricordato con soddisfazione come, grazie anche alla candidatura preparata da Francesca Sala, responsabile del segretariato generale di Migros Ticino, l’Associazione ticinese Greenhope, che sostiene i bambini affetti dal cancro (v. «Azione» 9 settembre 2024), sia stata insignita del prestigioso premio Adele Duttweiler, ricevendo un importo di 100’000 franchi. Daniele Bassetti, responsabile dipartimento marketing e sponsoring e Dario Tondi, Responsabile Sales Promotions and Sponsoring, hanno illustrato la strategia che accompagna il rebranding dell’amato marchio Nostrani del Ticino, i cui obiettivi sono una maggiore riconoscibilità e la valorizzazione di quanto viene prodotto nella regione. Ha concluso la serie di interventi Willy Zanini, responsabile dipartimento immobili, logistica e tecnica, stilando un primo bilancio della nuova filiale di Bellinzona Nord, energeticamente autosufficiente e senza barriere architettoniche, molto apprezzata dalla clientela, in modo particolare la domenica. / Si.Sa.

Prevenzione, collaborazione e conciliazione

Professioni ◆ A colloquio con Dino Bernasconi, addetto alla sorveglianza di Migros Ticino

All’interno di Migros Ticino sono presenti decine di professioni, anche molto diverse tra di loro. Oltre al personale di vendita e a quello della logistica, oltre ad autisti, cuochi, impiegati nei servizi ecc., vi è anche chi si occupa di sorveglianza. La prevenzione di furti e truffe nei negozi e la collaborazione con le forze dell’ordine sono solo alcuni degli aspetti di cui si occupa Dino Bernasconi, da una ventina d’anni al servizio di Migros Ticino. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare le particolarità della sua occupazione.

Dino Bernasconi, lei è responsabile della sorveglianza di Migros Ticino. Come si svolge il suo lavoro? Mi occupo di prevenire e segnalare i potenziali furti all’interno di Migros Ticino, sia nei supermercati, sia ad esempio all’interno delle palestre ACTIV FITNESS. Mi occupo anche della videosorveglianza, infatti abbiamo più di 1000 telecamere dislocate un po’ ovunque nel cantone e visualizzabili anche da remoto. Proprio in virtù di queste telecamere, che possono essere di supporto an-

che a fatti estranei a Migros, capita di collaborare con la polizia. Vi è poi anche il fenomeno della cosiddetta «truffa del cambio»: un cliente paga una bottiglietta da un franco con una banconota da 1.000, poi comincia a cambiare idea su come vuole il resto, finché riesce a confondere la commessa e a portarsi via un importo maggiore di quello previsto dal resto. Una specie di «gioco delle tre carte». A quel punto dobbiamo sporgere querela.

La frequenza di reati pecuniari all’interno del supermercato è stabile o ha notato un peggioramento?

C’è stato un peggioramento, soprattutto dopo il periodo del Covid. La gente mostra un disagio maggiore, in particolare i giovani.

Un lavoro di questo tipo, spesso a contatto con situazioni delicate, le risulta a volte difficile?

Francamente no, mi piace molto. Da una parte perché non vi sono mai due giornate uguali, dall’altra perché mi rendo conto di come non si finisca mai di imparare. Il mio ruolo prevede

una formazione continua, frequento regolarmente dei corsi presso la polizia cantonale (ai quali partecipano ad esempio anche agenti della sicurezza privata) al termine dei quali viene rilasciato un attestato che consente di «esercitare» la professione.

Lei si occupa solo di reati finanziari?

No, vi è un po’ di tutto. Vi sono anche casi di incidenti stradali sui parcheggi dei supermercati, e purtroppo, sebbene più raramente, anche reati legati all’integrità fisica.

Nei supermercati ci si è ormai abituati anche alle casse automatiche. Non rappresentano un rischio? È chiaro che per qualcuno possono essere una tentazione, abbiamo assistito anche a un aumento dei casi di furto. La cosa curiosa è che quando cogliamo in flagrante qualcuno, vediamo che non si tratta sempre di persone in difficoltà: chi ruba proviene da tutti i ceti sociali. E non si tratta nemmeno di cleptomani: in ventidue anni ne ho incontrati solo due.

Cosa succede quando coglie in flagrante qualcuno intento a rubare?

In alcuni casi siamo costretti a querelare la persona, oltre a sottoporla a una procedura interna. La persona può decidere se restituire la merce o se pagarla, oltre a dovere pagare un’indennità amministrativa di CHF 150.-. Le reazioni di chi viene colto in fallo possono variare, alcuni fanno gli stupiti, altri negano per poi venire contraddetti dalle immagini delle telecamere, ma la maggior parte è mortificata e si scusa. Per me però è importante che il tutto si risolva sempre con la stima reciproca.

Le casse automatiche Subito della Migros.

SOCIETÀ

Giovani e cinema

Nata nella Svizzera romanda, promuove proiezioni cinematografiche per adolescenti: l’associazione #cine è una realtà anche in Ticino

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Visita al Museo di Lottigna

Palazzo dei Landfogti, oltre alla bella collezione permanente, ospita un’esposizione temporanea dedicata al castello di Serravalle

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Chi si ferma non è perduto, anzi!

Ragazzi impegnati nella prevenzione Il progetto Peerfect Friend si basa sulla forza dell’educazione tra pari per informare i giovani sulle dipendenze da sostanze

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Prospettive ◆ Focus sulle pause di carriera che possono diventare momenti di arricchimento sia per il collaboratore sia per l’azienda; la parola all’esperta Riccarda Zezza e ad alcuni rappresentanti di imprese presenti sul territorio cantonale

Nel corso della vita si possono sperimentare momenti di assenza dal lavoro, dopo la maternità o per prendersi cura di un parente, a causa di una malattia, un lutto, ma anche per intraprendere viaggi e formazioni. Mentre i «vuoti» nel curriculum tendono a inquietare le aziende in cerca di nuove leve – come se davvero chi si ferma fosse perduto – c’è una visione diversa che cerca di farsi strada. Questi momenti di pausa lavorativa possono essere interpretati come fondamentali per lo sviluppo di competenze «soft», morbide, rilevanti anche nel mondo professionale (c’è chi le chiama «power skills»). Come il saper stare con gli altri e motivarli, sapersi spiegare, saper risolvere situazioni complesse, l’avere autoconsapevolezza, il prendere decisioni in contesti incerti, l’essere creativi ecc. «Riuscire a valorizzare queste esperienze, anche in azienda, porterebbe a evoluzioni impensate. E quante scoperte faremmo se iniziassimo a capire come le nostre competenze professionali possano essere trasportate e messe a frutto nella vita privata».

La maternità allena la capacità di improvvisare, vedere oltre, scegliere le priorità, imparare dagli errori, tollerare l’incertezza

A parlare è Riccarda Zezza, fondatrice di Lifeed – una società «che crea soluzioni digitali per lo sviluppo e la sostenibilità del capitale umano nelle aziende» – autrice di Cuore Business. Per una nuova storia d’amore tra persone e lavoro (Il Sole 24 Ore, 2023) e co-autrice di Maam, la maternità è un master che rende più forti uomini e donne (Bur Rizzoli, 2014). L’imprenditrice sarà ospite dell’evento «Slow down and boost up, congedi e pause di carriera: quale opportunità per aziende e collaboratori/trici?» promosso da Pro Familia Svizzera Italiana il 26 settembre a Manno (www.profamiliasvizzeraitaliana.ch).

Più in generale – dice Zezza –siamo esseri complessi e sfaccettati. Nessuno è solo una cosa: si può essere uomo o donna (con tutta una serie di conseguenze sul piano educativo, sociale ecc.), un lavoratore o una lavoratrice (ad esempio manager, operaio, avvocata), con un’origine definita (ed entra in gioco il background culturale), mamma o papà (con la necessità dunque di confrontarsi coi temi della conciliabilità lavoro-famiglia), magari con genitori anziani a carico (caregiver) e così via, «in una stratificazione di caratteristiche che fanno di ognuno di noi una matrioska. E qui sta l’opportunità: ad almeno uno di questi livelli ho qualcosa in comune con

chiunque altro intorno a me. E qualunque esperienza – o transizione di vita – mi induce a sviluppare competenze particolari». Ad esempio la maternità allena la capacità di improvvisare, vedere oltre, scegliere le priorità, sintonizzarsi nelle relazioni su un piano emotivo, imparare dagli errori,

Cosa fa Migros

Anche Migros è attenta alle necessità dei propri dipendenti. Concede loro tra le 5 e le 7 settimane di vacanza all’anno. È aperta al concetto di flessibilità, abbracciando possibilità quali l’home office, il part-time, la pianificazione anticipata dei turni e l’orario flessibile di lavoro. Per ragioni famigliari urgenti o avvenimenti particolari vengono accordati congedi straordinari. Per quello che riguarda il congedo maternità: è di almeno 18 settimane per la mamma, retribuito al 100%. I congedi non pagati per ragioni diverse vengono volentieri concessi, quando i ritmi e le necessità dell’azienda lo permettono.

tollerare l’incertezza, di rischiare… «L’idea alla base – sottolinea la nostra interlocutrice – è quella di una strada a due direzioni di marcia: dalla vita al lavoro, dal lavoro alla vita. Vi scorrono competenze, energie, risorse emotive. Che è un peccato non sfruttare!». Ma le aziende del Cantone se ne rendono conto? «Noi vediamo le due facce della medaglia», afferma Nora Jardini Croci Torti, avvocata e co-direttrice di Equi-Lab, un servizio di consulenza in materia di conciliabilità e di pari opportunità (www.equilab.ch). «Durante le consulenze individuali emergono molte criticità: dai problemi dopo il congedo maternità (svalorizzazione del ruolo della neomamma, perdita di certe mansioni, licenziamento ecc.) agli ostacoli al congedo paternità (nel privato non è obbligatorio), passando dalla difficoltà di ottenere orari flessibili o il tempo parziale. Per quanto riguarda i congedi che non hanno a che fare con la famiglia o con il militare: in certi contesti restano un miraggio». Ma ad Equi-Lab non arrivano solo i casi problematici, il servizio incontra anche diverse aziende virtuose ed interessate alla conciliabilità. «Lavoriamo con loro su soluzioni più favorevoli,

come congedi maternità più lunghi (18-20 settimane) o congedi parentali, rientri flessibili al lavoro e congedi non pagati di diverso tipo che diventano un diritto per tutti e tutte». «Lavorare in maniera diversa rispetto agli standard tradizionali si può», afferma dal canto suo Stefano Santinelli, manager di IKEA Svizzera. «E non deve essere un limite all’evoluzione professionale». Restando in tema «pause di carriera», ad esempio, la sua azienda offre a collaboratori e collaboratrici diverse possibilità. Partiamo dal congedo parentale retribuito, concesso a tutte le tipologie di coppie: 20 settimane alla madre e 8 settimane al padre (con possibilità di prolungare il periodo senza retribuzione). «L’esperienza è positiva: tutti i papà approfittano dell’iniziativa con piacere e coinvolgimento e per l’azienda è un investimento, sia in termini di attrattività lavorativa sia per trattenere i migliori talenti». Poi ci sono i congedi non pagati, da un mese a un anno di durata: per viaggi, formazioni, problematiche personali ecc. Oltre ai congedi, grandi imprese sperimentano modalità improntate al concetto di flessibilità, che tanto piace ai dipendenti sempre in cerca di un

equilibrio tra lavoro e vita privata. Santarelli cita il concetto di «job sharing» (due o più persone che condividono un’occupazione a tempo pieno con dei compiti interdipendenti), applicabile anche a posizioni di alta responsabilità. «La nostra organizzazione è generalmente molto favorevole alle richieste di flessibilità e offriamo molte possibilità di “personalizzazione”: opzioni di lavoro da remoto, un full time con una percentuale che varia tra l’80 e il 100%, magari organizzato su 4 giorni; una posizione a tempo pieno per un mese, il mese dopo al 50%, seguendo l’andamento del carico di lavoro; turni decisi dai dipendenti ecc. Possibilità che richiedono da una parte fiducia, dall’altra una decisa assunzione di responsabilità».

E per chi vuole rientrare al lavoro dopo una pausa più o meno lunga? Sonia Soldati Balzaretti, recruiting partner FFS, ci parla di «Back to business», un programma di reinserimento con posti di lavoro che si conciliano bene con la vita familiare e intendono valorizzare le competenze acquisite durante le pause di carriera. Favorendo anche il ritorno di molte donne che scelgono di stare a casa dopo la maternità. Scorrendo le possibilità date da «Back to business» troviamo diverse «formazioni secondarie» a tempo parziale (60%), retribuite. Ad esempio come controllore del traffico ferroviario, assistente passeggeri, specialista in pianificazione del lavoro o consulente alla clientela.

Ma queste misure che favoriscono la conciliabilità e la realizzazione personale se le possono permettere solo le grandi aziende? «Esistono molte soluzioni che non richiedono grandi investimenti finanziari», osserva dal canto suo Stefania Padoan di Padoan Swiss. «Ad esempio l’home working, il part-time e l’orario flessibile. È soprattutto importante l’ascolto e il dialogo con i collaboratori e le collaboratrici, con l’obiettivo di trovare soluzioni che portino benefici ad entrambi». Quali possono essere? L’imprenditrice mette in evidenza la riduzione dello stress, dell’assenteismo e del turnover (la continua sostituzione della manodopera), maggiore coinvolgimento e produttività dei collaboratori, aumento dell’attrattività dei talenti e non da meno la soddisfazione del cliente finale.

Informazioni

«Slow down and boost up», 26 settembre, dalle 17.30, Auditorium SUPSI, Stabile Suglio, Manno. Con la partecipazione di Riccarda Zezza, Nora Jardini Croci Torti, Stefano Santinelli, Sonia Soldati Balzaretti e Stefania

Padoan.
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Romina Borla

Biscotti ticinesi dal 1998

Attualità ◆ I genuini biscotti di Paul Forni sono un vero piacere per il palato. Da diversi anni sono disponibili anche nei supermercati di Migros Ticino

La polenta ticinese cotta

Crèfli alla panna e miele, frolle al limone, pastefrolle e biscotti alla Farina Bona: sono quattro le genuine specialità regionali sfornate per Migros Ticino dal pasticciere Paul Forni nel suo laboratorio di Castione. «Ho iniziato con questa attività nel 1998 riprendendo la produzione delle pastefrolle della Valle Bedretto, a cui, visto il successo riscontrato presso i consumatori, negli anni successivi si sono aggiunti gli altri prodotti», spiega il produttore originario proprio della splendida Valle Bedretto. «I nostri prodotti sono realizzati ancora oggi con immutata passione con l’impiego di ingredienti semplici e naturali del territorio, come per esempio il burro di montagna, le uova da allevamento rispettoso degli animali, il miele ticinese prevalentemente di castagne, la farina bona onsernonese e le farine rigorosamente integrali prodotte dal Mulino di Maroggia». Una lavorazione accu-

Attualità ◆ La polenta è un piatto tradizionale che conquista ogni palato grazie alla sua versatilità: la variante pronta dei Nostrani del Ticino è una valida e pratica alternativa sempre a portata di mano

rata e l’utilizzo di ingredienti di alta qualità rendono questi biscotti davvero unici. «La nostra è una lavorazione prettamente artigianale. Il processo di produzione dura all’incirca un giorno, tra preparazione dell’impasto e riposo dello stesso per una notte intera, formatura, cottura, raffreddamento e confezionamento. Nei nostri prodotti non vengono inoltre impiegati additivi artificiali o conservanti, né tantomeno olio di palma e grassi idrogenati». Anche l’aspetto sociale per Forni riveste un ruolo significativo: «Per alcune delle nostre specialità ci avvaliamo del prezioso contributo degli utenti della Fondazione Diamante, che si occupano dell’etichettatura e del confezionamento dei biscotti». Infine, per godere a lungo della bontà dei suoi biscotti, il nostro pasticciere consiglia di conservarli in un luogo protetto dalla luce e dal calore, idealmente in una scatola di latta. Le

Da sola al naturale o con l’aggiunta di latte, al gorgonzola o coi funghi, accompagnata da spezzatino o brasato di manzo: la polenta è una pietanza che non teme rivali in fatto di versatilità. E con l’arrivo del tempo un po’ più fresco, torna anche la voglia di gustare questi piatti corroboranti. Molto popolare anche alle nostre latitudini, alla Migros la polenta è in vendita anche nella versione già cotta, dedicata a coloro che non hanno tempo o voglia di spadellare troppo, ma non solo. È disponibile nelle varianti al naturale o taragna, quest’ultima con l’aggiunta di formaggio Canaria prodotto in Alta Leventina.

Entrambe le polente cotte sono prodotte dalla Rapelli SA di Stabio –nota e apprezzata azienda ticinese attiva principalmente nel settore dei salumi – seguendo una ricetta tradizionale. Il mais utilizzato è coltivato da alcuni agricoltori sul Piano di Magadino e viene raccolto in pannocchia. La cernita manuale e la trasformazione in farina è effettuata da Paolo Bassetti di Pianezzo, già apprezzato fornitore di Migros Ticino. La preparazione della polenta ticinese cotta è assai semplice: può essere riscaldata nel forno tradizionale o nel microonde per alcuni minuti, oppure in padella o sulla griglia finché risulta bella croccante in superficie.

Polenta Nostrana 300 g Fr. 3.25
Biscotti alla Farina Bona 100 g Fr. 4.20
Biscotti di pasta frolla 100 g Fr. 4.20
Flavia Leuenberger
Flavia Leuenberger

uno spazio ricco di possibilità

Tutti hanno bisogno di un po’ di cinema

Alan Koprivec alla giornata del cortometraggio organizzata allo Spazio L'Ove di Lugano

Sull’elettrico Volvo fa retromarcia

Motori ◆ La casa svedese puntava a un’offerta esclusivamente elettrica, ma ora la nuova XC90 è proposta ibrida

Mario Alberto Cucchi

Giovani ◆ L’associazione svizzera #cine, nata in Svizzera romanda, promuove proiezioni cinematografiche per adolescenti, ora è una realtà anche in Ticino

Il cinema, l’essere giovani, la partecipazione: questi sono gli ingredienti di una bellissima iniziativa di #cine, un’associazione svizzera di riconosciuta utilità pubblica, che promuove proiezioni cinematografiche per adolescenti, al prezzo unico di dieci franchi. #cine è nata nella Svizzera romanda alcuni anni fa ed è attiva in Ticino con un team di ragazzi tra i 14 e i 20 anni, che scelgono un film al mese destinandolo ai loro coetanei e lo presentano con una proiezione speciale, intorno alla quale viene concepito un evento originale. #cine è il cinema pensato da adolescenti per adolescenti, ma chiunque può parteciparvi: il prezzo ridotto per gli under 20 è un incentivo ad andare al cinema, ma ognuno è benvenuto sia alla proiezione sia all’attività abbinata che segue. Incontro alcuni membri del team ticinese – Martina, Mina, Fabrizia, Laura, Chloe, Selene, Hana, Nahele, Nora, Joel e Michel – e il loro coordinatore Alan Koprivec, giovane regista di Lugano. «Ogni settimana, da settembre a giugno circa, ci troviamo per una riunione», mi dicono. «Organizziamo più o meno un evento al mese, ma può capitare che una proiezione sia più impegnativa e allora c’è flessibilità», mi raccontano, reduci di una serata speciale che li ha impegnati moltissimo. Infatti, a fine giugno hanno invitato oltre una decina di giovanissimi videomaker e registi anche sperimentali presenti sul territorio per mostrare i loro lavori: una serata di cortometraggi allo Spazio L’ove che intendono replicare, con altri film, anche l’anno prossimo. «Questa è stata una nostra iniziativa: ne abbiamo parlato con il comitato centrale di #cine svizzero e loro erano entusiasti». Per il resto, in generale, #cine propone film che sono già previsti nelle sale del cantone: in particolare, da noi c’è una collaborazione con il cinema Lux e il cinema Iride, entrambi gestiti dalla società Jfc. «Guardiamo i trailers dei film in cartellone per il mese successivo e ne parliamo tra di noi», mi raccontano questi diciottenni-ventenni (vorrebbero avere più partecipanti tra i 14 e i 17 ma per ora non si sono fatti avanti in molti: «Vi preghiamo, raggiungeteci», lanciano l’appello). «A volte discutiamo ma il più delle volte ci troviamo d’accordo, anche perché oltre a scegliere il film che ci sembra più bello e interessante, pensiamo con attenzione a quale si presta meglio per essere seguito da un’attività originale». Un pilastro di #cine, infatti, è l’e-

vento che viene creato intorno alla proiezione e qui si vede tutta la creatività di cui è capace il team: l’attività va dal torneo di pingpong alla presenza del regista al buffet gastronomico, qualsiasi cosa purché rientri nel budget dell’associazione e abbia un senso abbinata al film. A Lugano ci sono state conferenze a tema, assaggi giapponesi dopo un film dello Studio Ghibli, bancarella con scelta di libri per ragazzi in collaborazione con la libreria Segnalibro (sul tema dell’Olocausto, dopo la proiezione di La zona di interesse), workshop di animazione in stop motion con un insegnante Csia, incontri con il regista, e così via. In ogni caso, l’idea è quella di non andare subito a casa dopo aver visto il film, ma di trattenersi per un momento di scambio, anche informale, nel foyer della sala cinematografica.

«Il vantaggio di essere al cinema – mi racconta un ragazzo membro del team – è proprio di combinare visione di un film con una serata con gli amici. È bello scambiare due parole dopo la proiezione, ognuno dice cosa ne pensa; oppure, anche se parli d’altro e bevi qualcosa, è comunque un’occasione per vedersi».

Il cinema è infatti un’esperienza sociale, un punto di ritrovo, un luogo dove si segue in tanti la stessa storia e, mentre si provano le emozioni che suscita il film, si possono vivere in diretta anche quelle delle altre persone. «Una sala ha un’atmosfera tutta sua, c’è il buio, si ha una migliore qualità del suono e richiede tutta la tua concentrazione: se ti perdi un pezzo, non puoi tornare indietro!», confermano anche le altre. Il mito che «i giovani non vanno più al cinema» è inesatto: meglio sarebbe dire che «la gente non va più al cinema», tenendo conto però che una fetta della popolazione continua ad andarci più che volentieri e che questa passione va coltivata sotto le ceneri, e quindi uno sconto sul prezzo del biglietto, un festival, una rassegna particolare, e anche iniziative come #cine possono aiutare moltissimo. Oltre, ovviamente, alla qualità dei film. Ecco, a proposito, per voi che cosa fa di un film un buon film? Lo chiedo ai ragazzi e alle ragazze che ho davanti. Non tutti hanno la stessa risposta: il messaggio; il ricordo che lascia; le domande che ti pone; quanto ti cambia la vita; i riferimenti culturali che diventano patrimonio comune, tanto che basta una battuta per capire di che film stiamo parlando e a che concetto ci stiamo riferendo; la sua originali-

tà; la novità che porta, la provocazione intellettuale che ha in sé e soprattutto: quando un/a regista o un gruppo di professionisti del cinema si mette in gioco per raccontare una storia in un modo che è solo suo. Cioè: è meglio un film «imperfetto» con un tratto personale riconoscibile, piuttosto che il solito film che segue alla perfezione il manuale di come creare una trama e girare le immagini. Alan sottolinea: «Lo sguardo e la comprensione dell’arte del cinema va allenata: devi guardare tanti film per capire di cinema. Qui non è un laboratorio didattico, non faccio lezioni di critica cinematografica, o non cerco di influenzare le loro scelte, ma sono qui per dare a loro la possibilità di farsi la storia del cinema, per esplorare generi diversi e per dirci che cosa è piaciuto e cosa no, con una chiacchierata durante le riunioni. Soprattutto, è importante crearsi una propria opinione, gustandosi questa meravigliosa maniera di raccontare le storie». E al di là del team programmatore, l’opportunità è data ai loro amici, ad altri coetanei, alla popolazione tutta che può partecipare alle serate – quasi sempre in settimana, quasi sempre alle 18 o alle 20 – di #cine.

La comunicazione si fa in particolare con post su Instagram, creati dai membri stessi del team: «Il gruppo è diventato forte perché quando ci sono eventi ciascuno fa qualcosa – spiega Alan – chi fa le foto, chi le grafiche per Instagram, chi si occupa dei poster serigrafati, chi fa i video, chi li posta, chi si assume l’organizzazione logistica, la comunicazione o ciò che serve per svolgere le attività dopo il film. Tutto è gestito da loro, io faccio solo coordinazione, ma i ragazzi sono praticamente autosufficienti. È una scoperta molto bella. E tutto questo potrà andare sul loro curriculum come esperienza di lavoro, perché non è facile organizzare un evento già a questa età».

Un progetto per il futuro è aggiungere alla programmazione qualche momento di «cinema svizzero ritrovato» o perlomeno di film storici, così difficili da reperire oramai. Perché il cinema, prima di tutto, è uno sguardo sul mondo che ci circonda, e ci aiuta a capirlo – e a sopportarlo – meglio, dandogli almeno una traccia di senso.

Informazioni

Oltre a seguire #cine su instagram (@htagcine.lugano), per conoscere il calendario degli eventi, si può consultare il sito www.htagcine.ch

«Volvo Cars intende diventare un leader nel mercato delle auto elettriche di fascia alta e prevede di trasformarsi in casa automobilistica con un’offerta esclusivamente elettrica entro il 2030». Queste le parole convinte dei manager della casa svedese sino a pochi mesi fa. «La casa svedese venderà solo vetture completamente elettriche ed eliminerà gradualmente dal suo portafoglio globale qualsiasi auto che abbia un motore a combustione interna, compresi i modelli ibridi». Loro ci credevano e anche noi ci abbiamo creduto. Certezze che si sono sciolte come il ghiaccio al sole lo scorso 4 settembre, giorno in cui è stata mostrata in anteprima ai giornalisti di tutto il mondo la nuova Volvo XC90. Indovinate un po’… Viene proposta con tre motorizzazioni: mild hybrid da 250 o 300 cavalli e ibrida plug-in da oltre 450 cavalli. In parole povere si tratta di auto termiche elettrificate ben diverse dalle elettriche pure. Insomma, l’ammiraglia svedese giunta alla terza generazione e venduta in circa 2 milioni di esemplari continua a viaggiare a benzina.

Come Volvo stanno facendo altri costruttori che decidono di rinunciare alla conversione totale all’elettrico, programmata per il 2030. I clienti vogliono ancora le auto termiche e allora di necessità si fa virtù. La nuova strategia della casa svedese prevede una maggiore flessibilità nell’offerta di prodotto. Secondo Volvo, questa retromarcia è dovuta a una crescita più lenta del previsto delle infrastrutture di ricarica, alla cancellazione degli incentivi agli acquisti di auto elettriche da parte dei governi e soprattutto all’imposizione dei dazi aggiuntivi sulle elettriche prodotte in Cina deciso da Europa Stati Uniti, Canada e altre nazioni. Il nuovo obiettivo della Casa Svedese è che almeno il 90% delle sue vendite globali nel 2030 sia composto da elettriche o ibride plugin (le ormai famose ricaricabili alla spina). Il restante 10% delle vendite sarà composto invece da mild-hybrid, cioè auto a combustione interna con il supporto di un piccolo motore elettrico che non è sufficiente per spingere la vettura in totale autonomia. Ecco allora che le mild-hybrid non spariranno dal listino come previsto dal precedente piano, ma anzi continueranno a essere sviluppate.

Excusatio non petita, accusatio manifesta. Un proverbio latino di origine medievale la cui traduzione letterale è «scusa non richiesta, cosa manifesta», in parole povere chi si scusa si accu-

sa… In pratica se non c’è niente di cui giustificarsi non bisogna scusarsi. Ma qui il cambio di rotta è deciso. Non si può far finta di niente e un po’ mina la credibilità dei costruttori. E allora non resta altro che prenderne atto. «Siamo convinti che il nostro futuro sia nell’elettrico. Un’auto elettrica offre un’esperienza di guida superiore e ci dà la possibilità di utilizzare tecnologie più avanzate, che migliorano l’esperienza complessiva del cliente» ha detto Jim Rowan, Amministratore delegato di Volvo. «È chiaro a tutti però che la transizione all’elettrificazione non sarà lineare, che i clienti e i mercati si stanno muovendo a diverse velocità in tema di adozione. Dobbiamo essere pragmatici e flessibili pur continuando a lavorare su temi come elettrificazione e sostenibilità». E infatti in questi giorni ha debuttato anche la EX 90 sorella della XC 90 ma alimentata solo da un propulsore elettrico e con oltre 500 chilometri di autonomia. E inoltre è in arrivo anche un camion elettrico della Casa svedese con oltre 600 chilometri di autonomia che garantisce un utilizzo quotidiano a zero emissioni.

I manager Volvo hanno spiegato ad «Azione» che senz’altro non si torna indietro. La direzione dell’elettrico intrapresa è quella giusta, ma cambieranno i tempi, saranno più lunghi. D’altra parte l’Unione europea ha spinto troppo. Da una parte multe per i costruttori che continuavano a inquinare e dall’altra non abbastanza incentivi per motivare i consumatori all’acquisto di un’auto elettrica. Noi di automobili ne abbiamo provate tante, sia elettriche sia ibride sia termiche e possiamo affermare con certezza che l’esperienza di guida di un’auto elettrica è senz’altro appagante. Oggi le autonomie crescono e i tempi di ricarica diminuiscono. Insomma, si tratta di un futuro plausibile per una mobilità totale a zero emissioni. Nel frattempo, come abbiamo scritto all’inizio, Volvo ha presentato la sua nuova XC 90. L’eccellenza della casa svedese. Un’auto importante: 4,95 m di lunghezza per 1,92 m di larghezza. Si può avere a cinque, sei o sette posti, tecnologica e lussuosa. La versione plug-in ha sino a 70 km di autonomia in modalità esclusivamente elettrica e oltre 1000 chilometri utilizzando anche il propulsore termico. I prezzi? Non per tutti. Si parte da oltre 80.000 franchi svizzeri. Un bellissimo suv che tra le sue doti ha senz’altro la silenziosità… ma quest’ultima retromarcia di Volvo è stata invece alquanto rumorosa.

La nuova Volvo XC90.

Al Museo di Lottigna, tra etnografia e archeologia

Mostre ◆ Nelle sale del museo bleniese si riscoprono la vita contadina e degli artigiani, le tradizioni del passato, e ora, in un’esposizione temporanea, anche gli ultimi reperti del Castello di Serravalle

La vocazione dei musei etnografici è quella di documentare, studiare e promuovere la conoscenza delle tradizioni popolari, della cultura rurale e di quella artigianale del passato prossimo espressi in un determinato comprensorio, per noi il Cantone Ticino. L’etnografia è una branca dell’antropologia e cerca di descrivere i comportamenti, lo stile di vita e i modi di operare dei nostri antenati nemmeno troppo lontani da noi, tant’è che entrando in un’esposizione siffatta molti sono i richiami ai nostri nonni e bisnonni e al loro patrimonio orale, scritto, iconografico e materiale. Un museo etnografico rende quindi un servizio a tutti noi perché comprendere il passato (non solo prossimo) aiuta a vivere il presente e a progettare il futuro. E il Museo storico etnografico Valle di Blenio, di cui è curatrice Valentina Cima, svolge egregiamente il suo mandato educativo. È un bene culturale che appartiene alla rete etnografica ticinese assieme ad altri dieci musei sparsi nel cantone ed è comprensivo di due sedi: il Palazzo dei Landfogti a Lottigna e la Cà da Rivöi a Olivone.

La sede principale è ubicata nello storico Palazzo dei Landfogti a Lottigna, il monumentale edificio risale al Cinquecento, periodo d’inizio della dominazione svizzero tedesca nei distretti ticinesi (baliaggi) e quindi del governo da parte dei landfogti che si sono succeduti per tre secoli, fino al 1803, anno dell’indipendenza del Cantone Ticino. La stupenda facciata, con una serie di blasoni affrescati, testimonia appunto la presenza nella Valle di Blenio dei rappresentanti di Uri, Svitto e Nidvaldo.

Il museo si sviluppa su tre livelli e una torretta sul retro e, come tutti gli enti di questo genere, fa affidamento su collezioni stabili. Nel nostro caso mette in esposizione la sua importante collezione etnografica a cui si aggiunge la mostra su Mosè Bertoni, entrambe appunto permanenti; al secondo piano invece ci sono i locali per esposizioni temporanee su aspetti storici salienti della «Valle del Sole». Al piano terra fanno bella mostra di sé una grossa caldaia di rame, la zangola rotatoria e altre verticali, spanna-

Due sedi, tante iniziative

Valentina Cima, com’è l’andamento dei visitatori del Museo storico etnografico Valle di Blenio in questi ultimi anni? E qual è la composizione dei visitatori?

La maggioranza dei nostri visitatori è ticinese e viene al museo soprattutto in occasione dei nostri eventi, mentre le scuole ci visitano durante le settimane verdi in Valle di Blenio.

La seconda categoria più rappresentata è quella degli svizzero tedeschi. L’affluenza dei visitatori varia in base alla mostra temporanea offerta, ma in generale si mantiene stabile.

Che cosa espone la sede di Olivone?

La sede di Olivone è ubicata nella storica Cà da Rivöi, tipica casa bleniese del 1658. All’interno è presente una sezione etnografica che conserva oggetti relativi al mondo rurale tradizionale e una ricca collezione di arte sacra.

toie, fasce, brente, tutti oggetti usati sulle corti alpestri bleniesi per ottenere i prodotti caseari che costituivano una sicura fonte di reddito. Alla praticoltura (fienagione, pastorizia) e alla coltivazione dei campi (segale e altri cereali) è dedicata la sala successiva, mentre l’economia rurale è ben rappresentata in un suggestivo e grande locale con parecchi attrezzi usati nella trasformazione dei cereali (mulino con macine), nella lavorazione del legno (bancone di un falegname di Torre), del ferro (forgia con mantice) e delle fibre tessili. Al primo piano si respira un’aria domestica antica perché è stata ricostruita una tipica cucina con focolare a cui si aggiungono vari utensili: pentole in pietra ollare, macinini per il caffè… e una splendida stufa multifunzionale da far invidia alle nostre sofisticate cucine. Sempre sullo stesso livello, una sala è interamente dedicata all’arte sacra, con paramenti liturgici, statue, reliquiari, ex voto e quant’altro a testimoniare la forte fede dei vallerani. Il locale attiguo invece espone soprattutto abiti femminili in uso nell’Otto-Novecento. Al secondo piano è disponi-

Oltre alla mostra permanente, a Lottigna c’è anche un’esposizione temporanea dedicata al castello di Serravalle. Quali sono le altre iniziative intraprese dal Museo?

Il Museo organizza ogni stagione una serie di eventi culturali in relazione alla mostra temporanea o ad altre tematiche d’attualità. Quest’anno abbiamo organizzato una conferenza sulla Via Francisca del Lucomagno e una sulla Fortezza di Bellinzona, un teatro per bambini e una serata di musica in collaborazione con la Federazione Bandistica Ticinese. In occasione delle Giornate del Patrimonio, l’8 settembre, abbiamo proposto una passeggiata guidata da Lottigna a Serravalle, mentre il Festival dei dialetti, iniziato il 14 settembre, si concluderà il 5 ottobre; da ultimo, ma non per importanza, il 3 novembre, è previsto il finissage della mostra su I due Castelli di Serravalle

bile per i visitatori anche il Totem RSI

Valle di Blenio con documenti video e audio a partire dagli anni Trenta del secolo scorso.

Sul retro dell’edificio c’è la torretta; al piano di calpestio è conservata l’attrezzatura per la lavorazio-

ne dell’uva (torchi, alambicchi…) e un bel tornio a pedale per la preparazione di oggetti in legno e pietra.

La sala superiore è tutta riservata a un illustre bleniese nato a Lottigna, Mosè Bertoni (1857-1929), scienziato, botanico, emigrato con la fami-

glia in Argentina e Paraguay dove realizzò una colonia agricola su basi scientifiche; la mostra ripercorre le tappe significative della sua vita avventurosa e presenta le sue numerose pubblicazioni.

La roccaforte di Serravalle, ubicata a nord di Semione, era terza per importanza nel Ticino dopo la fortezza di Bellinzona e il castello di Locarno. Posta in posizione strategica all’imbocco della valle (sèra la val, che chiude la valle), controllava persone, animali e mercanzie dirette o provenienti dal Passo del Lucomagno. Ha una lunga storia che è riassunta nell’esposizione temporanea I due castelli di Serravalle al secondo piano del Palazzo dei Landfogti, curata dall’architetto Nicola Castelletti e dall’archeologa Silvana Bezzola Rigolini, la quale ha recentemente pubblicato un’agile guida dal titolo Il castello di Serravalle (2023) reperibile al museo (si veda anche «Azione» n. 33 del 14 agosto 2023).

Dove e quando I due castelli di Serravalle Museo storico etnografico Valle di Blenio, Lottigna. Fino al 3 novembre 2024. Orari: ma-do, 14.00-17.30 (lu chiuso). www.museovallediblenio.ch

Lo storico Palazzo dei Landfogti a Lottigna, sede principale del Museo della Valle di Blenio. (T. Stiano).
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Parlare di dipendenze con un «amico perfetto»

Prevenzione ◆ Radix e Lega Polmonare hanno creato un progetto basato sulla Peer Education per informare i ragazzi sui pericoli della dipendenza da sostanze come nicotina, alcol e canapa

Giovani in cattedra e docenti fuori dall’aula. In classe, a «impartire le lezioni», si possono trovare gli adolescenti al Liceo di Bellinzona, alla Scuola Cantonale di Commercio, allo CSIA e al Centro professionale tecnico di Trevano. La materia? Prevenzione delle dipendenze, in particolare da sostanze come nicotina, alcol e canapa. È questo, in estrema sintesi, il risultato del progetto Peerfect Friend che vede unite Radix Svizzera italiana e Lega Polmonare ticinese per sensibilizzare studenti e studentesse sui rischi del consumo di sostanze nocive per la salute in un’iniziativa di educazione tra pari (da cui il termine inglese peer che accostato alle altre parti del sintagma significano «L’amico perfetto»).

Ogni anno una trentina di allievi delle sedi scolastiche ticinesi decidono di aderire al progetto Peerfect Friend

Ma la strategia funziona? Perché mai un modello simile dovrebbe conoscere un maggiore successo rispetto alle tradizionali campagne di prevenzione? Martina Romeo e Jocelyne Gianini, operatrici delle due rispettive associazioni impegnate nella promozione della salute e del benessere, rispondono con un sì convinto e documentato: «È comprovato scientificamente da diversi studi che l’educazione fra pari rappresenta il metodo più efficace per parlare di prevenzione e sensibilizzare i giovani. Soprattutto nel nostro ambito delle dipendenze e attraverso questo nostro progetto, che richiede una partecipazione attiva da parte dei suoi destinatari».

Come nasce Peerfect Friend?

Abbiamo unito due progetti che erano partiti con qualche anno di differenza l’uno rispetto all’altro. La Lega Polmonare era attiva alla Commer-

cio di Bellinzona, mentre Radix in altre scuole, tra cui al vicino liceo della capitale. Da qui è sorta l’idea di un sodalizio a far stato dalla formazione dei giovani, anche se sulla Peer Education si lavora già da oltre dieci anni. Da settembre o inizio ottobre – in altre sedi a partire invece dal secondo semestre – iniziamo la formazione dei giovani. Il «reclutamento» degli interessati nelle sedi scolastiche avviene su base volontaria e dopo un’esposizione del progetto in aula magna rivolta alle classi seconde, dove illustriamo il concetto di Educazione fra pari. Mostriamo un video sulle esperienze realizzate negli scorsi anni e invitiamo i peer che l’anno precedente hanno sperimentato il progetto a raccontare ai coetanei il loro percorso.

E la formazione quanto impegna i giovani che decidono di aderire a Peerfect Friend?

Sono previsti otto incontri di due ore l’uno tenuti da Lega Polmonare e Radix (per ognuno di essi i partecipanti ottengono dalla scuola un’ora di sgravio dal programma). Durante questi momenti di formazione forniamo ai candidati sia degli strumenti pratici in vista dell’ingresso in classe sia metodi di gruppo, quali il brainstorming per far emergere idee e punti di vista rispetto ai temi affrontati; mostriamo l’uso dei Post-it; svolgiamo lavori sul linguaggio; consegniamo schede da compilare necessarie per discutere e per esprimere il proprio pensiero sulle dipendenze. Si tratta insomma di una formazione interattiva. Facciamo sperimentare ai neo peer questi diversi strumenti formativi, in modo tale che a loro volta potranno riutilizzarli in aula per attivare una discussione e sensibilizzare le prime classi sulle tematiche delle dipendenze. Impartiamo naturalmente anche nozioni teoriche, in particolare sulla nicotina, l’alcool e la canapa, che sono le sostanze più consumate tra i giovani. Forniamo

dati, che poniamo soprattutto in relazione alle loro percezioni personali, che, data la loro età, si manifestano nella maggior parte dei casi distorte rispetto alla realtà. Così facendo lavoriamo sul loro senso critico, cercando di rafforzarlo. La formazione si conclude con esercizi di simulazione prima di entrare in classe. Ci aspettiamo dai peer che acquisiscano gli strumenti necessari per poter colloquiare con i loro coetanei fornendo delle risposte.

Quali sono i temi più importanti che i candidati alla formazione devono conoscere per affrontare il problema delle dipendenze? Il condizionamento del mondo esterno: da un canto da parte della società e dall’altro del gruppo di appartenenza dei pari. Quanto siamo condizionati e quanto questo influisce sui consumi di sostanze nocive? Un altro aspetto significativo riguarda la definizione di dipendenza, di come può sorgere e svilupparsi, e l’acquisizione di consapevolezza sui rischi e le conseguenze. Offriamo ai giovani precisi strumenti e riferimenti, quali

ad esempio sapere a chi rivolgersi per chiedere aiuto di fronte a una situazione di dipendenza. Radix e la Lega polmonare sono alcune delle reti alle quali è possibile indirizzarsi, ma c’è anche la scuola, attraverso i docenti mediatori con cui fra l’altro collaboriamo nell’allestimento del progetto Peerfect Friend, nonché altri servizi attivi sul territorio.

I peer affrontano da soli l’intervento di prevenzione nelle classi?

No, l’intervento, della durata di un’ora, si svolge sempre in coppia o talora a tre. Per noi l’importante è che gli adulti, i professori, rimangano fuori dall’aula. Questo permette ai peer di sviluppare e rafforzare le loro competenze: attivano infatti una serie di risorse personali e sociali che fa parte della loro crescita. Parliamo di competenze trasversali che possono poi essere utilizzate nella vita quotidiana e in altre circostanze e contesti. La scuola conferisce ai ragazzi questa opportunità, si tratta anche di un atto di fiducia e questo è un aspetto importante. Si tratta di un momento, un’occasio-

ne per poter crescere, sia a vantaggio dei «peer» sia dei loro compagni. Noi operatrici e operatori di Radix e Lega polmonare rimaniamo comunque presenti in sede in caso di necessità, unitamente ai docenti. Ma in tanti anni non è mai stato necessario un nostro intervento e le esperienze sono sempre molto positive. Ogni anno sono complessivamente in media una trentina in tutte le sedi scolastiche gli allievi di seconda che decidono di aderire al progetto Peerfect Friend che li vede sperimentare almeno un paio di volte l’intervento di prevenzione nelle diverse classi. A oggi il numero di peer ha raggiunto il mezzo migliaio. Alla fine della formazione ottengono un certificato. Molti vengono motivati da coloro che li hanno preceduti nell’esperienza l’anno prima.

Ma è sufficiente un’ora didattica in classe per esaurire la tematica della prevenzione delle dipendenze da alcol e droghe?

No. Occorre sottolineare che sia come Radix sia come Lega Polmonare cerchiamo di costruire un percorso con le scuole, che sono inoltre per la maggior parte collegate alla «Rete delle scuole21» ticinese, rete svizzera che vede tra i suoi scopi la promozione della salute. Oltre all’educazione tra pari, noi stesse con le due associazioni entriamo nelle classi a parlare con i giovani e a informarli e sensibilizzarli sulle dipendenze. Cerchiamo di creare una continuità. Con le sedi scolastiche realizziamo diversi momenti, fra cui eventi rivolti anche ai docenti e ai genitori. Sempre nell’ambito dell’educazione fra pari, un progetto per certi aspetti analogo a Peerfect Friend lo svolgiamo alle Medie di Giubiasco, dove i ragazzi vengono formati per entrare due volte nella stessa classe nell’arco dell’anno scolastico e al CPT di Mendrisio, dove la formazione si svolge interamente all’interno delle ore di scuola.

Una lezione di satira e di ironia da non dimenticare

Lutti ◆ È scomparso

Giorgio Thoeni

negli scorsi giorni Renato Agostinetti, anima del Cabaret della Svizzera italiana

La scomparsa di Renato Agostinetti

è stata connotata come una sorta di lutto per il teatro ticinese. Un’interpretazione forse eccessiva se letta in senso filologico, ma più che calzante in senso stretto, soprattutto se vista in relazione a ciò che ha rappresentato per la nostra realtà.

In effetti, da questo punto di vista, mai come con la sua creatura, il Cabaret della Svizzera italiana, il pubblico ticinese aveva riempito le platee per seguire i suoi spettacoli con così tanta partecipazione e entusiasmo: dalle palestre alle sale parrocchiali, dalle scuole alle sale polivalenti agli spazi più autorevoli (teatri veri) fino ad entrare, dopo aver setacciato tutto il territorio, in tutte le case grazie alla radio e alla televisione.

Renato aveva compiuto 86 anni lo scorso mese di agosto dopo una vita esemplare, inserita nelle pieghe più profonde del tessuto sociale ticinese che aveva imparato a conoscere (e a

riconoscere) benissimo in tutte le sue manifestazioni. Non solo in virtù di una lunga esperienza come insegnante nella scuola pubblica, ma anche grazie al suo impegno civico a cui, dal 1976 fino al 2006, si è andata a sommare la trentennale stagione creativa e gloriosa con e per il Cabaret della Svizzera italiana. Se fosse vissuto ai tempi della nascita della Commedia nell’antica Grecia, Agostinetti avrebbe fatto a gara con Aristofane e Menandro per la migliore farsa satirica. E molto probabilmente avrebbe pure avuto la meglio grazie al suo straordinario talento. Ha sempre avuto un occhio attento rivolto alla nostra società, a una provincia che non riesce a crescere abbastanza e a distanziarsi da piccinerie di bottega, ad allontanarsi da estenuanti faide partitiche, quando invece potrebbe dare un bel segnale di maturità nel nome del buonsenso per provare a costruire

un futuro accettabile. In tal senso, ci piacerebbe poterci permettere di dirgli che «la tua lezione, caro Renato, ci insegnava a non prenderci troppo sul serio, lasciandoci intendere, con

il sorriso della derisione, fatta in modo intelligente, elegante, civile e rispettoso, che si possono intravvedere altre direzioni per poi scegliere la giusta via». Gli spettacoli del Cabaret si sono subito rivelati originali. I suoi testi, sempre graffianti, riuscivano a strappare risate e a coinvolgere le più sensibili istanze della nostra realtà sociale. Su queste pagine, grazie all’illuminante curiosità dell’allora caporedattrice di «Azione» Luciana Caglio, nel marzo del 1988 gli avevamo dedicato un primo articolo dopo aver visto IdenTICHitt e scrivevamo: «Pubblico stoico quello che ha riempito sabato scorso la platea del Palacongressi di Muralto per assistere al Cabaret della Svizzera italiana di Renato Agostinetti. Stoico e meritevole d’un premio supplementare, perché uscire per andare a teatro con la finale di Sanremo e con la seconda manche dello speciale olimpico alla TV ci vuole

proprio tutta!». Con il ritmo binario fra sketch e canzone, i quattro «Pipistrelli» (un omaggio evidente ai celebri «Gufi» milanesi) punzecchiavano coraggiosamente l’allora Monsignore, «ammalato di CL-lulite», ma anche il socialismo assente e i paradossi della stampa ticinese con l’aggiunta di una feroce parodia sull’esercito. Abbiamo continuato a seguire gli spettacoli del Cabaret praticamente fino all’ultimo del 2006 (Konfederatti) e ne siamo sempre usciti con la soddisfazione di aver visto un ritratto fedele della nostra realtà tradotta nello sberleffo del guitto: un personaggio storicamente utile al potere per migliorarsi. Ma, ahimè, vorremmo ancora potergli dire: «Vedi Renato, siamo sinceramente addolorati di non averti più fra noi. Avresti potuto ancora seminare un po’ di satira e ironia, una lezione che purtroppo non ci sembra che qualcuno abbia ancora imparato».

Diversi studi sostengono che l’educazione fra pari rappresenti il metodo più efficace per parlare di prevenzione e sensibilizzare i giovani. (Freepik.com)
Renato Agostinetti in un’immagine di archivio del 2006. (Tipress)

Approdi e derive

Leggerezza, una parola contesa

Non solo nelle nostre relazioni personali, anche nella sfera pubblica e istituzionale siamo sempre più spesso confrontati con comportamenti inopportuni, inadeguati, riprovevoli, spesso sul filo della legalità. Laddove è necessario, la giustizia fa la sua parte mentre la cosiddetta opinione pubblica, il buon senso comune, tra sorpresa, sconforto e indignazione, spesso si appella alla leggerezza di azioni che confliggono con il ruolo e con le relative aspettative nei confronti dei protagonisti. «È stata una leggerezza, ha agito con troppa leggerezza, queste cose capitano quando prevale la leggerezza». Non so dire se l’arrière pensée di queste valutazioni abbia un sottofondo giustificativo e tenda a voler relativizzare l’accaduto. Quello che appare chiaro è che in questo contesto la parola leggerezza esprime un significato decisamente negativo: esprime superficialità, faciloneria, negligenza,

Terre Rare

tutti atteggiamenti che confliggono con il senso di responsabilità e sono all’origine di comportamenti sbagliati, inaccettabili, finanche illegali. Se scorriamo i dizionari, accanto alla «leggerezza di una piuma» o di un «passo leggero» troviamo in bella evidenza proprio il significato, figurato, di mancanza di controllo nel comportamento, dovuta appunto a negligenza, faciloneria e frivola noncuranza. Insomma, mancanza e inadeguatezza rispetto a valori condivisi e alla correttezza dell’agire che ne discende. Mi chiedo tuttavia se leggerezza sia davvero la parola giusta per indicare le possibili ragioni di tanti, troppi comportamenti inadeguati che attraversano allegramente il tessuto relazionale, sia nella sfera privata sia in quella pubblica. Me lo chiedo soprattutto ripensando alla prima delle Lezioni americane di Italo Calvino, custodita in un’opera preziosa pubblicata postuma nel 1988

Intelligenza o meccanica?

È stato pubblicato negli scorsi giorni il programma della nuova edizione del Premio Moebius di Lugano. Il 4 e 5 ottobre prossimi nell’Auditorium dell’USI di Lugano si discuterà, con un gruppo di specialisti scelti con competenza da Alessio Petralli, di «IA e Salute, IA e Clima, IA ed Educazione, IA e Lavoro, IA e Turismo, IA ed Economia». La riflessione attorno a questa nuova tecnologia è tanto più necessaria quanto più lo strumento si sta facendo largo nella nostra quotidianità. Che lo si voglia o no, e al di là di tutte le reticenze che, come utilizzatori medi di informatica e di tecnologia si possano manifestare, le applicazioni dell’IA sono ormai innumerevoli.

In un articolo che ci è capitato di leggere negli scorsi giorni si pubblicizzava ad esempio una nuova serie di prodotti informatici che, grazie alle capacità dell’IA, potevano aiu-

tare giovani imprenditori ad aprire nuove attività economiche. Il pacchetto proposto era in grado di realizzare autonomamente il sito web dell’azienda, di creare l’interfaccia necessaria per iniziare un’attività di e-commerce, ma oltre a questo offriva il necessario strumento contabile per gestire le pratiche amministrative, per programmare la propria attività di promozione e, chissà, forse anche organizzare le pulizie degli spazi commerciali. Certamente un grande aiuto per molti giovani in procinto di portare sul mercato le proprie aspirazioni. Ma… chi conosce un po’ il settore del commercio e dell’attività imprenditoriale in proprio, sa bene quanto agli aspetti tecnologici vada affiancata necessariamente anche una capacità di relazione, di contatto umano, nelle contrattazioni e nella gestione dei rapporti con la clientela, cose che difficilmente una macchina

Le parole dei figli

Vibes

«Non vogliamo intorno gente che emani vibes negative», sono le Parole dei figli che mi sento dire l’altra sera alla proposta di invitare dei colleghi a cena. Mai sorella e fratello vanno tanto d’accordo come quando ci sono da bocciare delle mie idee! Alla domanda su cosa voglia dire vibes la risposta è ancora più irriverente: «È intuitivo – dice la 15enne Clotilde –. Tutti possiamo percepire un’atmosfera più o meno positiva da qualcuno o da qualcosa». In effetti la traduzione dall’inglese di una delle parole più utilizzate dai ragazzi della Gen Z è atmosfera, che va di pari passo con reazione emotiva. Le vibes sono le sensazioni: to have good vibes è avere sensazioni piacevoli; I don’t like the vibes sta per non mi piacciono le sensazioni, per esempio, che dà questo posto. In altre parole: una persona, una situazione, un luogo possono fare percepire delle vibra-

e dedicata appunto alla leggerezza. Calvino ripercorre secoli di poesia, con sguardo sapiente, a sua volta leggero, per cogliervi il fil rouge della leggerezza, intesa però come valore e non come difetto. In queste pagine straordinarie la parola si riveste infatti di una qualità dell’esistenza totalmente altra rispetto all’uso negativo che spesso colora i nostri discorsi quotidiani quando raccontiamo di trasgressioni e infrazioni, più o meno gravi, ai valori e alle regole condivise della convivenza. È proprio così, le parole forti della vita sono sempre in movimento, a volte artefici, a volte prigioniere di sguardi diversi nel nominare ciò che accade del mondo. Ecco che allora, in un rovesciamento di prospettiva, la leggerezza può offrirsi a noi come levità, come un vero e proprio antidoto a quella pesantezza del vivere che a tutti è dato di conoscere e di sperimentare: un antidoto, per dirla con Calvino,

all’«inerzia e opacità del mondo». La sua esplorazione, meravigliosa e meravigliata, inizia dalla figura di Perseo che sconfisse Medusa volando con sandali alati, sostenuto dai venti e dalle nuvole, gentile fino alla fine verso quell’essere mostruoso e tremendo. Attraverso le parole di Ovidio, Lucrezio, Cavalcanti, Emily Dickinson e altri ancora, siamo accompagnati ad ammirare infine la luna di Leopardi, capace di comunicare intensamente una sensazione di levità, di silenzioso e calmo incantesimo: «Leopardi, nel suo ininterrotto ragionamento sull’insostenibile peso del vivere, dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza: gli uccelli, una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell’aria, e soprattutto la luna». Secondo Calvino, Leopardi compie il miracolo di togliere ogni peso alle parole (e, aggiungo, alla vita che raccontano) fino a farle assomigliare alla luce lu-

nare, fino a proiettarne la luce, anche quella della sua assenza. Da queste pagine intense la leggerezza ci viene incontro come valore grande, come postura dell’esistenza che ciascuno di noi custodisce dentro di sé, anche quando rimanga silenziosa sullo sfondo del nostro panorama esistenziale. Quanto siamo lontani dal significato di superficialità con cui troppo spesso la identifichiamo! Questa leggerezza del vivere interpella il poeta che abita in ciascuno di noi, con grazia e delicatezza. Offre uno sguardo rinnovato sulla realtà: non è mai una fuga, ma è solo il desiderio di stare al mondo cercando di prendere le distanze da pensieri già pensati. È una leggerezza pensosa, è apertura al possibile, al non ancora visto, all’inatteso, e soprattutto è attenzione a quell’invisibile leggero che sempre si manifesta nello sguardo poetico sulla vita e che abita dentro ogni cosa.

(nonostante tutta la sua gentilezza, come dicevamo tempo fa) sembra in grado di gestire. Al di là di ciò, comunque, il punto che ci sembra importante da tenere in considerazione riguarda l’affidabilità della tecnologia in sé. A nostro modesto parere è proprio la denominazione dello strumento informatico a richiedere una revisione. Pensandoci bene ci si ostina a chiamare «intelligenza» un processo informatico che non ha alla sua base assolutamente nulla di intelligente. Anzi. Se abbiamo ben capito, l’IA funziona sulla base di associazioni casuali, probabilistiche, di concetti, senza una vera capacità di elaborazione e di valutazione del significato di quanto viene proposto in risposta all’utente. Sarebbe il caso di parlare, probabilmente, di «risposta meccanica» o meglio di «automatismo informatico», e sarebbe più appropriato defi-

nirla «produzione automatica di contenuti», cosa che con l’intelligenza non ha proprio nulla a che fare. Detto con un paradosso, l’IA, per quanto è dato di sapere, funziona grazie a un procedimento (per quanto complesso e sofisticato) di gigantesco «copia-incolla». La nostra perplessità, comunque, deriva anche da altre esperienze, per quanto minime e circoscritte. Continuando a investigare sulle capacità dialogiche dell’IA, da tempo abbiamo iniziato una serie di colloqui con ChatGPT. Per chiarire, bisogna osservare che ne utilizziamo la versione gratuita, che sicuramente è quella meno performante. In diverse occasioni abbiamo potuto comunque renderci conto che la fama di onniscienza dello strumento è abbastanza usurpata. In almeno tre occasioni, discutendo di letteratura, abbiamo colto in castagna il simpatico attrezzo, il quale,

né più né meno di uno scolaretto impreparato, ci ha ammannito delle castronerie completamente inventate. Nel primo caso ha dato per morto da anni un celebre e simpatico scrittore italiano che conosciamo molto bene e con cui siamo stati felicemente a pranzo qualche tempo fa. In un altro momento ha sciorinato una bibliografia completamente falsa e campata in aria (da rimanerci a bocca aperta, una cosa veramente incredibile) per un famoso autore ticinese del secolo scorso. A questo punto la domanda è: «Ma chi controlla la qualità del lavoro dell’IA?». Lo deve fare un umano? Allora siamo daccapo, siamo ai piedi della scala. E noi speriamo che quegli strumenti per giovani imprenditori siano stati ben progettati e comunque inviteremmo gli umani a stare ben attenti a quello che la macchina suggerisce. Il copia-incolla gioca anche brutti scherzi.

zioni: sentimenti ed emozioni che i nostri figli declinano in mille contesti. Ci sono le vibes che arrivano dalla partenza per le vacanze o dai viaggi; legate al benessere personale (sia esso fisico, emotivo o mentale) che possono essere trasmesse dall’esercizio fisico, dal mangiare cibi più sani, persino dallo stretching; diffuse da una persona incontrata per la prima volta; e non possono mancare quelle che generano ansia, tensione, imbarazzo, disagio; meglio l’atmosfera – c’è anche quella – romantica! Una giornata di felicità trascorsa con le persone che ami diventa vibe

È il 1966 quando un brano dei Beach Boys, considerati una delle band più influenti nella storia della musica, s’intitola Good Vibrations: «Adoro i vestiti colorati che indossa. E il modo in cui la luce del sole gioca sui suoi capelli. Sento il suono di una parola gentile.

Nel vento che solleva il suo profumo nell’aria sto captando buone vibrazioni». Nel 1970 lo dice John Lennon: «Emani cattive vibrazioni». E nel 1970 The Boss Bruce Springsteen in New York City Serenade canta: «Hey vibes amico!». E la lista può continuare. Ai giorni nostri la musica è un’altra. In Good Vibes il rapper MamboLosco la mette giù così: «Ehi, solo good vibes, no bad vibes. Tasche piene di soldi, io e la mia thottie. Non andiamo più al McDrive. No bad vibes, no bad vibes Sto al ristorante ma non ho fame, ordino lo stesso. Alla fine mangio solo un po’ di pane. Alla fine è trap, che ci devo fare. Alla fine è real, non posso mentire. Se non dico questo, cosa devo dire?». E in Vibes Young Signorino, altro rapper: «Mi servirebbe quasi il Ventolin per l’asma. A volte non mi fa manco respirare quest’ansia». Tant’è. Il vibe check, come riporta il Cambrid-

ge Dictionary, è un atto volto a scoprire come si sente qualcuno o come ti fa sentire, qual è l’umore in un particolare luogo o situazione: «Un controllo delle vibrazioni è un modo per misurare l’umore di qualcuno – si legge –. Soprattutto se sta emettendo vibrazioni negative» . Mi ripropongo d’ora in avanti di fare un vibe check con l’adolescente che ringhia prima di rivolgerle la parola! Del resto, sempre il Cambridge Dictionary, riporta tra i suggerimenti: è possibile iniziare la frase non dicendo ai tuoi amici «come stai?» ma andare, invece, con «vibe check?». Spirito dei tempi. Per il prestigioso quotidiano inglese «The Guardian», vibe è la parola più abusata della nostra epoca! Nell’estate 2022 Suraj Patel, avvocato 38enne, già nello staff di Obama, in quel momento in corsa per il Congresso Usa, appende un manifesto per le strade di New York

durante le primarie democratiche della città: c’è una foto di lui, camicia azzurra e cravatta, tutt’intorno dei fiori stilizzati, nessun simbolo di partito, a campeggiare è semplicemente la frase change the vibes, cambia le vibrazioni. Sui social Patel spiega così la scelta: «Penso davvero che incapsuli lo stato d’animo del pubblico in questo momento. Non abbiamo bisogno di ulteriore disfattismo. Abbiamo bisogno di guerrieri felici che siano a favore dell’abbondanza, della democrazia e delle vibrazioni». Il cruciverba del «New York Times» inserisce vibes tra le parole da indovinare: «Valutazione emotiva di ciò che ci circonda, in gergo». E c’è chi sostiene che, ci piaccia o meno, parte della contagiosità delle vibrazioni è che tutti a un certo punto sembrano capire che cosa significhino. E voi l’avete capito?

di Lina Bertola
di Simona Ravizza

TEMPO LIBERO

Bursa, dove il tempo si è fermato

In quella che fu la prima capitale dell’impero ottomano ancora oggi si respira un’aria autentica, vivace e colma di fascino

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Autunno, sapori ritrovati

Un modo diverso di declinare la ricotta grazie a un delizioso dessert dal sapore autunnale arricchito di susine

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La ruota del tempo che gira Pax Pamir e The King is Dead, due giochi da tavola che permettono di approfondire le proprie conoscenze storiche in modo ludico

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Il Ticino mecca del bouldering

Adrenalina ◆ Uno sport impegnativo e che richiede molta concentrazione, sebbene per praticarlo bastino un paio di scarpette da arrampicata, un materasso e della magnesite

Moreno Invernizzi

«La montagna più alta da scalare è quella dentro di noi». La citazione è presa a prestito da Walter Bonatti. Se per l’incipit della puntata odierna è stato scomodato il noto alpinista, esploratore, giornalista, scrittore e fotoreporter italiano celebre in tutto il mondo per le sue imprese in parete è perché uno dei soggetti principali sono appunto le montagne. Quelle vere (e quelle artificiali) della nostra regione.

Ancora una volta: dopo aver toccato il tema nel numero 38/2023 di «Azione» (allora con le imprese dell’altoatesino Jacopo Larcher), «Adrenalina» torna infatti ad accendere i riflettori sul bouldering, facendolo però stavolta in chiave prettamente… nostrana, e dunque con focus sul Ticino. L’occasione arriva dal primo importante evento dedicato a questo sport: il Verzasca Boulder+, programmato per sabato 19 ottobre. Il Ticino, del resto, a livello mondiale rappresenta una sorta di mecca per gli appassionati di questa disciplina. Praticare il bouldering appesi alle rocce della Verzasca, piuttosto che a quelle della Leventina, è un po’ come per un calciatore ritrovarsi a dare calci a un pallone a Wembley, o, per un tennista, scambiar racchettate sul verde di Wimbledon.

«Il Ticino può vantare una serie di hotspot molto attrattivi, che ogni

anno richiamano folte schiere di appassionati da tutto il mondo – conferma Luca Di Biase, che da oltre un abbondante ventennio pratica questo sport –. Tra i più iconici vi sono senza dubbio quelli di Cresciano, Chironico e della Val Verzasca, in particolare a Brione. Siti che specie in autunno e inverno attirano masse di persone da ogni parte del mondo proprio con lo scopo di mettere alla prova le proprie qualità e i propri limiti, misurandosi con i “problemi” di questi massi».

Il Ticino, grazie alla sua conformazione naturale, è diventato uno hotspot internazionale per la disciplina del bouldering

Qual è il segreto di cotanto successo del Ticino versione palestra a cielo aperto per la pratica del bouldering? «Il Ticino, vuoi per le frane di anni e anni fa, vuoi per il materiale morenico che spesso si incontra, presenta un’alta concentrazione di massi di notevoli dimensioni disseminati in aree relativamente circoscritte. In più la qualità stessa delle rocce, penso in particolare al granito di Cresciano, è ideale. Se a tutto questo aggiungiamo la presenza di numerose linee, molte delle quali disegnate da

Giuliano Cameroni, unitamente ad altri grandi appassionati della montagna, e un contesto da cartolina, allora davvero risulta difficile, se non impossibile, immaginare uno scenario migliore di quello ticinese per la pratica di questo sport». Nato come sport di nicchia, e inizialmente relegato a ruolo di «costola» dell’arrampicata vera e propria, il bouldering alle nostre attitudini ha letteralmente fatto presa a partire dagli anni Ottanta, conoscendo un vero e proprio boom nel ventennio successivo. E sono appunto gli anni in cui Luca Di Biase si è avvicinato a questo sport. «Ho cominciato con Claudio Cameroni, il padre di Giuliano nonché curatore delle guide Ticino Boulder. A quei tempi l’armamentario che ci portavamo appresso era ancora rudimentale: in parete andavamo con la calzamaglia e per attutire le eventuali cadute usavamo dei semplici materassi casalinghi. Ora, invece, è tutto un altro mondo: il bouldering è ormai diventata un’attività fine a se stessa e in parallelo pure tutta l’attrezzatura per la sua pratica ha conosciuto un notevole sviluppo, direttamente proporzionale alla popolarità di questo sport. Anche se, in fondo, gli ingredienti fondamentali per la sua pratica restano tre: un paio di scarpette da arrampicata, un mate-

rasso e della magnesite per assicurare una buona presa e nulla più». La particolarità del bouldering è quella di essere uno sport che si può praticare tanto all’aperto quanto in palestre specifiche. «Attualmente sono tre quelle presenti in Ticino: una a Giubiasco, una Taverne, e una, recentemente aperta, a Genestrerio. A medio termine il quadro indoor cantonale dovrebbe essere completato da un’ulteriore palestra nel Luganese. Tra la pratica all’aperto e quella in palestra, a ogni buon conto, c’è una differenza notevole, sono quasi due sport distinti, soprattutto da quando è stato deciso di inserirlo nel bouquet delle discipline olimpiche: se all’aperto, nella maggior parte dei casi, è più una questione di equilibrio e attrito, in una palestra artificiale è più simile a un parcour, dove tutto, o quasi, ruota attorno a movimenti molto dinamici, fuori equilibrio…».

Focus sulla Verzasca

Volete conoscere più da vicino questo sport, in una delle sue culle naturali più spettacolari? Se la risposta è affermativa la data da annotare in calendario, come detto in principio, è quella del 19 ottobre, quando andrà in scena l’evento Verzasca Boulder+, organiz-

zato da Stile Alpino in collaborazione con la SEV (le cui iscrizioni sono aperte fino al 19 settembre). A parlarcene è Marco Stopper: «L’idea di fondo è quella di proporre una giornata dedicata a questo sport e rivolta in particolare a chi vuole approfondirne la conoscenza. Lo potrà fare vedendo all’opera e seguendo i consigli di alcuni «maestri» di questa disciplina, di fama mondiale. La comunità di appassionati di questo sport in Ticino è assai numerosa; spesso si tratta però di persone che praticano il bouldering individualmente o a piccoli gruppi. Con Verzasca Boulder+ abbiamo voluto proporre una sorta di grande raduno, non agonistico, per tutte queste persone. La giornata si divide in due momenti principali: una prima parte, al mattino, dedicata ai lavori di gruppo per valorizzare l’area boulder, dal recupero di muri a secco, all’installazione di una fontana, passando per la realizzazione di un sentiero di accesso e la pulizia dei sentieri, e una parte pomeridiana per la pratica in parete. Contiamo di radunare 150-200 appassionati. La giornata sarà impreziosita dalla presenza di diversi big della disciplina, internazionalmente noti. Qualche nome? Nils Favre, Nina Caprez,

Matteo della Bordella, Alex Rohr, Silvan Schüpbach e Jil Schmid».
Philipp Geisenhoff mentre pratica bouldering. (Samuel Tuor)

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MACCHERONI E FORMAGGIO IN STILE HAWAIANO

ingredienti

• 80g di burro

• 70g farina

• 700ml di latte

• 100ml di succo d'ananas in lattina

• 6 anelli di ananas, tritati

• 250-300g di formaggio Cheddar Cathedral City maturo o extra maturo, grattugiato

Ricetta

• 1 cucchiaino di senape di Digione

• 1 cucchiaino di senape integrale

• 1 cucchiaino di pepe nero e sale

• 150 g di prosciutto o prosciutto cotto, tritato

• 300g Pasta Di Maccheroni Cotti

• 50 g di pangrattato (panko o normale)

1. In una padella larga, sciogliere il burro e aggiungere la farina. Cuocere per 2 minuti. Scaldare il forno a 200 gradi in forno/180 gradi ventilato

2. Sbattere il succo d'ananas messo da parte e il latte e continuare a sbattere a fuoco medio finché non inizia ad addensarsi

3. Togliere la salsa dal fuoco e incorporarvi ¾ del formaggio, la senape, sale e pepe Mescolare finché il formaggio non sarà sciolto

4. Mescolare il prosciutto tritato, l'ananas e i maccheroni cotti

5. Ricoprire con pangrattato panko e il formaggio rimanente

6. Cuocere in forno per 20 minuti o fino a quando saranno dorati e gorgoglianti!

Bursa, ammaliante girandola senza tempo

Reportage ◆ Quella che fu la prima capitale dell’impero ottomano dai suoi abitanti è definita «la città dimenticata», poiché misteriosamente ignorata da buona parte dei turisti

Se non fosse stato per Mustafà, lo spirito di Bursa mi sarebbe sfuggito di mano come un aquilone in una giornata di vento. Mustafà è un professore di storia in pensione, dalla figura sottile, gli abiti grigi e i baffi a punta, che mi ha guidato attraverso il dedalo intricato di quella che fu la prima capitale dell’impero ottomano, ma che oggi i suoi stessi abitanti definiscono «la città dimenticata». Troppo pochi sono i turisti che la visitano. Circostanza che ha però permesso a questa gemma lungo la Via della Seta di preservare la sua antica atmosfera, quella in grado di trattenere personaggi senza tempo e storie vecchie quanto la china del mondo. Mustafà si destreggia tra le vie formicolanti del bazar con la scaltrezza di un mago, attraversando scacchiere di caravanserragli tra loro incastrati come matrioske di voci in un mercanteggiare senza fine. Di stoffe pregiate, soprattutto. Come quelle di Ibrahim Hacivat, che si vanta di essere l’unico vero mercante di seta rimasto a Bursa, attività tramandata di padre in figlio fin dai tempi di Marco Polo in cui, nel caravanserraglio Koza Han, si commerciavano i bachi. Mustafà non gli crede, ma lo lascia millantare, lo conosce da anni. Così come gli perdona la leggenda che da sempre racconta, quella di una principessa cinese esiliata a Bursa che contravvenne al divieto di esportare bachi da seta dalla Cina, portandone le uova nascoste tra i capelli. «Se non fosse stato per lei, non sarei qui», si vanta Ibrahim. Bursa, gemma turca sulla Via della Seta, grazie alla sua atmosfera, riesce a trattenere antiche storie e personaggi senza tempo

L’ingresso del suo atelier è una cascata di preziosi tessuti, solenni come colonne di un antico tempio. All’interno, torri di scampoli di una luce rara e dalle mille e una tinta si elevano vertiginosi come a sorreggere il soffitto, una cupola bianca e puntellata di tondi vetri colorati, eredità di un vecchio hammam. Ibrahim ha appena ordinato il caffè turco. Preparato a getto continuo, un cezve dopo l’altro, qui a Bursa viene servito su vassoi d’argento cesellati, con un lokum e un bicchierino di sciroppo alle rose. Mustafà vuole leggermi il destino. Dopo l’ultimo sorso, capovolge la tazzina sul piattino, la ruota tre volte in senso orario con la mano sinistra e quando si è raffreddata, la rigira per leggerne il responso. Per scaramanzia non lo rivelo, ma le alternative sono sempre le stesse: una vincita improvvisa, un nuovo lavoro, addirit-

tura un marito in arrivo – l’ennesimo. L’inarrestabile Mustafà vola. Imbocca improbabili scorciatoie e vicoli apparentemente ciechi, fino alla bottega di Şinasi Çelikkol, il primo marionettista della città, sempre eclissato nel suo laboratorio a dare fiato alle due marionette litigiose dell’antico teatro delle ombre turco, Karagöz e Hacivat, caricature ancestrali di un mondo che non esiste più. Snodabili e infilate su bacchette, sono originarie di Bursa e vengono realizzate in pelle animale, trattata fino a diventare trasparente. Quando in negozio entra un visitatore, Şinasi scivola furtivamente dentro il suo teatrino, tira la tenda di carta e accende il lume. Qualche rudimentale rumore, una voce che si schiarisce ed ecco che ha inizio lo spettacolo, un altalenante coro di ombre e voci che si rincorrono, incalzano, inciampano su se stesse e capitombolano gambe all’aria, tra esagerazioni, doppi sensi e strampalati giochi verbali. Karagöz è un arguto uomo del popolo i cui espedienti sembrano avere la meglio sull’intellettuale Hacivat, fino a quando non si concludono in un tragicomico fallimento.

Una musica lamentosa e malinconica sale dal fondo di un vicolo, le note ancorate a un passato ormai lontano. Proviene dal Caffè Aşıklar, l’unico dove poter ascoltare canzoni popolari tutti i giorni, da mattino a sera. I musicisti, pensionati a tempo indeterminato, vi giungono armati di chitarra saracena e di bendir (tamburo), con il cantante che, ritto sulla sedia, con-

cede al pubblico la sua voce di dolore. E un bicchiere di salep. Il primo giro lo offre lui. Questa cremosa bevanda, anticamente considerata un medicinale, viene preparata sciogliendo nel latte una farina ricavata dai tuberi di alcune specie di orchidee. In Europa, sarebbe illegale, dato che l’orchidea è un fiore protetto; ma in Turchia, in cui non vige tale proibizione, viene consu-

mata più che abbondantemente. Soprattutto al Caffè Aşıklar.

« Ašhadu an lā ilāha illā Allāh». Il muezzin richiama. E Mustafà risponde, conducendomi alla Grande Moschea dalle venti cupole per assistere al Maghrib, la preghiera del tramonto, un ondeggiare ininterrotto di genuflessioni in una penombra contemplativa che benedice con le sue 192

iscrizioni: «Se la grafia è simmetrica, sono scritte selgiuchide – mi rivela –se libera e fantasiosa, sono ottomane». Al centro, bianchi raggi di luce attraversano a filo di piombo l’ampia cupola di vetro, trafiggendo le acque della fontana in un gioco illusorio di specchi. Nell’angolo sud-est, invece, il più buio, si prega col viso rivolto alla Ka’ba ma con il cuore accostato all’immenso tappeto di brillante seta nera e filigrana d’oro, qui esposto come un oggetto di culto, quasi miracoloso. Proviene da La Mecca. Si è fatta ormai sera. I lampioni, poco fuori dal centro storico, sono pallidi e discreti. Un mondo che dorme. Mustafà lo sveglia bussando alla porta di un edificio in pietra, tutto archi e vetrate colorate. È il «Tasavvuf Vakfi», piccola scuola di misticismo intimamente frequentata solo dagli abitanti del posto. Ad aprire, è un uomo vestito con una lunga tunica nera e un vistoso copricapo a cilindro simile a un vaso rovesciato. Un breve inchino di sussiego e ci dà il benvenuto nella sala centrale, con i muri costellati dalle immagini di tutti i maestri sufi che qui hanno insegnato. E se la balconata in legno è gremita di donne che, sedute sui tappeti, fanno a maglia per i loro nipotini sorseggiando tè alla menta, al piano inferiore, gli uomini sono tutti presi a gesticolare in interminabili discussioni che si spengono solo con l’arrivo in fila del maestro e degli allievi, le mani congiunte in adorazione. Gli astanti trattengono il fiato. C’è magia anche nell’attesa. Ecco i tamburi. Poi i flauti. E i dervisci iniziano a danzare. Con i loro svolazzanti abiti bianchi o rossi, ruotano per trenta minuti, senza esitazione. Fino allo svenimento, che però non arriva mai. Un equilibrio sottile che solo la parola «Allah» ripetuta nella testa per tutto il tempo riesce a conservare, le braccia mollemente alzate come in trance, gli occhi semichiusi in una cieca fede. Ma ruotano anche i pensieri dei fedeli, qui riuniti in una diversa preghiera; e ruotano i loro animi, sollevati in girandole di vento verso un altrove inaccessibile, come se non fossero mai esistiti.

Informazioni

Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

Una via della vecchia Bursa, di primo mattino; sotto: la fontana centrale della Grande Moschea, luogo di incontro e svago; in basso da sinistra a destra: torri di stoffe nell’atelier di Hacivat, pensionati suonatori al Caffè As¸ıklar.

Ricetta della settimana - Ricotta con susine allo zafferano

Ingredienti

Dessert

Ingredienti per 4 persone

1 grossa arancia

400 g di ricotta

20 g di zucchero a velo

4 susine

2 c di miele di fiori d’arancio

2 prese di stimmi di zafferano

30 g di schiumini al cioccolato

Preparazione

1. Grattugiate finemente la scorza dell’arancia e spremete il succo.

2. Mescolate bene la ricotta con lo zucchero a velo e la scorza d’arancia, poi mettete in frigo.

3. Dividete le susine a metà e snocciolatele.

4. Portate a ebollizione il succo d’arancia con il miele e lo zafferano. Aggiungete le susine, mettete il coperchio e lasciate sobbollire per circa 10 minuti.

5. Estraete le susine dal liquido e fate ridurre quest’ultimo in un caramello.

6. Servite la crema di ricotta con le susine e irrorate il dolce con il caramello allo zafferano.

7. Sbriciolate gli schiumini e spargeteli sul dessert. Infine, guarnite a piacimento con foglie di menta.

Preparazione: circa 20 minuti; sobbollitura: circa 10 minuti

Per porzione: circa 9 g di proteine, 14 g di grassi, 32 g di carboidrati, 290 kcal

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I segreti del grande gioco delle spie

Colpo Critico ◆ Un’esperienza capace di ridare luce a tutti gli esseri umani anonimi inghiottiti dalla ruota della storia

Andrea Fazioli

«Il gioco è così vasto che se ne vede solo un po’ per volta». Sono parole di Mahbub Ali, un commerciante di cavalli afgano e una spia che lavora per gli inglesi nell’India di fine Ottocento. Ad ascoltarlo è Kim, il ragazzino protagonista del romanzo pubblicato da Rudyard Kipling nel 1901 (Kim, Adelphi 2000).

La guerra di spie è dura, crudele e silenziosa, essa infatti non prevede battaglie campali né discorsi per i caduti

Il Grande Gioco è la guerra di spionaggio che nel XIX secolo coinvolse la Russia e la Gran Bretagna. I due imperi miravano al controllo dell’Asia centrale, in particolare dell’Afghanistan e delle zone al confine con l’India. A usare per primo l’espressione «Grande Gioco» fu Arthur Conolly, scrittore, esploratore e spia, giustiziato dall’emiro di Bukhara nel 1842. Fra l’altro, i russi intervennero per tentare di salvarlo: nella complessità del Great Game a volte i nemici correvano in soccorso gli uni degli altri.

Quando finì questa lotta strisciante? Ufficialmente all’inizio del XX secolo. Ma come scrisse lo storico Peter Hopkirk, «qualcuno potrebbe dire che il Grande Gioco, che si con-

tinua comunque a giocare, ha precorso la Guerra Fredda, nutrendosi degli stessi timori, sospetti e malintesi» (Il Grande Gioco. I servizi segreti in Asia centrale, 1990, Adelphi 2004). E oggi?

L’Afghanistan resta al centro dell’attenzione. Dopo gli inglesi e i russi, sconfitti rispettivamente nel 1842 e nel 1979, nel 2021 è toccato agli americani ritirarsi dal Paese, lasciandolo preda della ferocia talebana.

Studiare la storia dell’Asia centrale aiuta a capire il presente. Un modo piacevole per approfondirla è il gioco da tavolo Pax Pamir (Phil Eklund, Cole Wehrle, Sierra Madre 2015), che io consiglio nella seconda versione (Cole Wehrle, Wehrlegig Games 2019; in italiano Giochix 2020). I partecipanti, da uno a cinque, assumono i ruoli di capi afghani: essi devono sfruttare a loro vantaggio le dispute dei ferengi, degli stranieri inglesi e russi. Pax Pamir è innovativo, complesso ma non tortuoso: ogni regola si adatta alle altre nel mimare il Grande Gioco. Bisogna stabilire alleanze, sfruttare le strade e gli eserciti occidentali, muovere le proprie spie. Questo avviene con la costruzione di una plancia personale, formata da carte che permettono azioni particolari, ma anche con la lotta per il dominio territoriale (c’è una mappa del paese perfetta nella sua essenzialità grafica, con un sistema di controllo ingegnoso).

Giochi e passatempi

Cruciverba

Forse non tutti sanno qual è il vero nome di Gabriel Garko e dove è nato, scoprilo a soluzione ultimata leggendo le lettere evidenziate.

(Frase: 5, 8 - 6)

ORIZZONTALI

1. Stanno in coda

3. Non pregano mai

6. La madre di Ismaele

8. L’inventore del motore a gasolio (iniz.)

9. Infossatura del polmone

10. Restano sempre ancorate

11. Tredicesima lettera dell’alfabeto greco

12. Insenatura costiera

13. Un albero

17. Roghi

18. Protegge il porto

19. Anagramma di tori

21. Infiamma senza combustione

22. Un arresto del circuito elettrico

Uno degli aspetti originali di Pax Pamir è quello di avere assunto il punto di vista afghano. Fra i libri serviti di ispirazione all’autore, oltre al saggio di Hopkirk che ho citato prima, c’è Il ritorno di un re di William Darlymple (2013; Adelphi 2015). Darlymple narra in maniera appassionante la prima Guerra anglo-afghana (1839-42). Per documentarsi è stato a Kabul, dove ha potuto consultare gli archivi nazionali,

oltre a setacciare botteghe di libri e biblioteche. Nel libro cita documenti in russo, in persiano e in urdu, incrociando i fatti raccontati nei poemi epici afghani con i dati della storiografia inglese. Sulle carte di Pax Pamir si ritrovano molti personaggi delle opere di Hopkirk e Darlymple (e di altri volumi ancora che Colin Wehrle cita come bibliografia nelle regole del gioco).

A chi volesse provare un’esperien-

Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

23. Un avverbio

24. Preposizione

25. Abbreviazione ecclesiastica

26. Si usa per evitare ripetizioni

28. Esaurimento fisico

29. Pronome dimostrativo

VERTICALI

1. Mammifero ruminante

2. Resta… di preposizione

3. Diede i natali al Petrarca (sigla)

4. Famoso re di Galilea

5. Se è balzana non vale molto

7. Due vocali

10. Prefisso per peso e pressione

12. Sono in posizione verticale

13. Può esserlo l’aria

14. Lo ama Fedora

15. Piccola rana verde

16. La precedono a tavola

17. Valore di beni e servizi prodotti da un Paese (sigla)

19. Ruscelli

20. Grosso volume

22. Un ufficiale abbreviato

23. Una preposizione

25. Nota musicale

27. Dolci senza oli

za simile ma più semplice, consiglio König of Siam (Peer Sylvester, Histogame 2007), più facile da reperire nella sua versione rinnovata: The King is dead: second edition (Osprey Games 2020; in italiano Studio Supernova 2021). La prima edizione è ambientata in Siam nel 1874: il re ha avviato delle riforme che hanno portato a un conflitto fra malesi, laotiani e realisti. Le fazioni cercano di prevalere, mantenendo però almeno un’apparenza di unità per impedire un’invasione britannica. Nella versione aggiornata la lotta avviene nella Bretagna medievale tra scozzesi, gallesi e romano-britanni, tentando di evitare l’invasione francese. Il gioco è minimalista ma profondo, pur nella brevità. I partecipanti, da due a quattro, hanno a disposizione solo nove azioni in tutta la partita: ogni scelta può quindi rivelarsi decisiva. Quando mi cimento in questi giochi, soprattutto in Pax Pamir, penso ai dimenticati. La guerra di spie è dura, crudele e silenziosa: non ci sono né battaglie campali né discorsi per i caduti. Come dice un personaggio di Kim: «Noi del Gioco non godiamo di protezione. Se moriamo, moriamo. Cancellano il nostro nome dal registro. Punto e basta». Nel gesto di giocare, per un istante, riprendono vita i soldati anonimi, gli sconosciuti che la ruota del tempo e della storia ha trascinato nell’oblio.

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un

esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
Shah Shuja nel 1839 dopo la sua incoronazione a emiro dell’Afghanistan ritratto nel forte Bala Hissar a Kabul, litografia di James Rattray. (Wikipedia)

A 20 ANNI DI VARIETÀ DI CAFFÈ.

Delizio festeggia il 20º anniversario, con 2’000 regali per te. Per partecipare basta scansionare il codice QR sulla confezione Delizio con lo smartphone. Puoi partecipare più volte e aumentare così le tue possibilità. Periodo: dal 12 agosto al 31 dicembre 2024. Buona fortuna.

ATTUALITÀ

Casa Bianca: dove si gioca la vittoria

Cosa succede negli Stati Uniti dopo il dibattito televisivo tra Trump e Harris? Cosa possono fare i due sfidanti per spuntarla?

Pagina 21

Autocrazie contro democrazie

L’ultimo saggio della storica e giornalista

Anne Applebaum, Autocracy Ltd., spiega il conflitto centrale che affligge il mondo

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L’india, tra grandi ambizioni e miseria

Il sogno di fare del Subcontinente un polo di potenza su scala mondiale si scontra con problemi di non poco conto

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Bisogna fare di più per la biodiversità?

Confederazione ◆ Il 22 settembre si vota sull’iniziativa che mira ad rafforzare la protezione della natura e del paesaggio

Proteggere ulteriormente la natura, i siti caratteristici e il paesaggio attraverso disposizioni più estese ed esigenti, con importanti costi aggiuntivi: è quanto chiede l’iniziativa biodiversità, in votazione federale il 22 settembre prossimo (ci si dovrà esprimere anche sulla Riforma della cassa pensioni, vedi «Azione» del 12.8.2024). Ma sono giustificate queste richieste? Sì, per i promotori del progetto, secondo i quali occorre agire visto che la distruzione della natura ha ormai raggiunto livelli allarmanti e che le misure adottate non sono sufficienti. Per gli oppositori, tra cui il Consiglio federale e la maggioranza del Parlamento, l’iniziativa ha pretese eccessive, che limiterebbero settori importanti come l’approvvigionamento energetico e l’agricoltura. Essi ricordano che per la protezione di biotopi, paesaggi e siti caratteristici la Confederazione già spende annualmente 600 milioni di franchi. Secondo i sondaggi, pur godendo inizialmente di un lieve vantaggio, l’iniziativa ha poche possibilità di farcela, anche perché deve fare i conti con la maggioranza dei Cantoni. L’iniziativa «Per il futuro della nostra natura e del nostro paesaggio», lanciata nel marzo del 2019 e depositata nel settembre dell’anno successivo con quasi 108’000 firme valide, propone di ancorare meglio nella Costituzione federale la salvaguardia delle risorse naturali del Paese. Occorre assolutamente fare di più per la natura e il paesaggio. L’iniziativa chiede dunque più risorse finanziarie, con una spesa supplementare stimata sui 400 milioni di franchi per Confederazione e Cantoni, più superfici protette e più mezzi e strumenti in favore della biodiversità. La proposta revisione costituzionale vuole tutelare la natura, il paesaggio e il patrimonio architettonico anche al di fuori delle zone protette. Il progetto evita di fornire cifre e non dà alcuna indicazione in merito all’entità delle superfici supplementari da proteggere.

Gli oppositori sottolineano che, per preservare e promuovere la biodiversità, l’iniziativa mira a proteggere tassativamente il 30% del territorio svizzero, rendendolo «intoccabile». Questo dato corrisponde all’impegno assunto anche dalla Svizzera nel dicembre del 2022, in occasione della conferenza sulla biodiversità di Montréal, per proteggere appunto il 30% delle terre e degli oceani del pianeta, entro il 2030. Responsabile di questo dossier, il capo del Dipartimento federale dell’ambiente, dei trasporti, dell’energia e delle comunicazioni (DATEC)

Albert Rösti ha ricordato che Confederazione e Cantoni s’impegnano da tempo a favore della varietà delle specie con misure che stanno producendo i loro effetti. Secondo il mini-

stro democentrista che, in occasione di questa sua terza votazione federale, è stavolta in linea con il suo partito, l’iniziativa prevede invece nuove prescrizioni che rendono molto più difficile «la ponderazione tra gli interessi di protezione e quelli di utilizzazione».

L’iniziativa è sostenuta da Verdi, PS e Verdi liberali. Contrari UDC, il Centro, PLR e gli ambienti economici e contadini

A sostegno della biodiversità nel 2012 la Confederazione ha adottato la «Strategia Biodiversità Svizzera» e nel 2017 il relativo piano d’azione. Negli ultimi decenni, Confederazione e Cantoni – ha aggiunto Albert Rösti – hanno inoltre investito nella cura e nel risanamento di paludi e altre zone protette, nonché promosso la biodiversità anche nell’agricoltura e nelle foreste. Zone naturali, paesaggi e siti caratteristici pregiati sono stati catalogati. Basti pensare all’inventario federale dei paesaggi, siti e monumenti naturali (IFP) o all’inventario federale degli insediamenti svizzeri da proteggere d’importanza nazionale (ISOS). Circa un quarto del territorio svizzero figura in un inventario per la natura o il paesaggio, mentre l’ISOS contempla un quinto dei si-

ti caratteristici. Ma tutto ciò – come detto – non basta. Per il comitato d’iniziativa, nel quale militano organizzazioni quali Pro Natura, Patrimonio Svizzero, Fondazione svizzera per la tutela del paesaggio e BirdLife Svizzera, occorre agire urgentemente. Sostenuto dai Verdi, dal PS e dai Verdi liberali, il comitato sottolinea che «la biodiversità va male e la nostra fonte di vita è in pericolo». A suo modo di vedere, le conseguenze sono «disastrose» per la nostra salute, per l’economia e le generazioni future.

I fautori dell’iniziativa ricordano che nel nostro Paese «un terzo di tutte le specie animali e vegetali è in pericolo o già estinto e quasi la metà degli spazi vitali naturali è minacciata». Essi citano il rapporto Ambiente Svizzera del 2022 nel quale il Consiglio federale afferma, tra l’altro, che «per garantire le prestazioni fornite dalla biodiversità urge agire con determinazione». Perciò l’iniziativa vuole obbligare Confederazione e Cantoni a preservare l’ambiente in modo più sistematico, attraverso l’adozione di misure mirate, come la messa a disposizione di superfici e di risorse finanziarie necessarie alla biodiversità, nonché l’estensione della protezione della natura e del paesaggio anche al di fuori delle già citate zone protette. Il Consiglio federale ammette che le nuove aree abitative, gli impian-

ti energetici, le strade e le vie ferrate, come pure l’agricoltura, hanno un impatto sulla natura. Resta tuttavia convinto che la legislazione attuale sia sufficiente per preservare la diversità biologica in Svizzera. Le richieste dell’iniziativa vanno troppo lontano. Il Governo, sostenuto dall’UDC, dal Centro, dal PLR e dagli ambienti economici e contadini, pone l’accento sull’importanza di prendere in considerazione anche altri interessi quali il potenziamento delle energie rinnovabili, destinate a garantire una produzione sufficiente di elettricità per ridurre la dipendenza dalle fonti fossili, e la difesa dell’agricoltura.

Le pretese dell’iniziativa metterebbero inevitabilmente a disposizione del settore agricolo minori superfici. Secondo gli oppositori, la produzione agricola risulterebbe dunque menomata, con conseguenze per la sicurezza alimentare che si tradurrebbero in maggiori importazioni. Sempre secondo il consigliere federale Albert Rösti, attualmente il mondo agricolo svizzero s’impegna notevolmente sul fronte della biodiversità: il 19% degli spazi agricoli già servono a promuoverla.

Subirebbero conseguenze anche i settori della costruzione e del turismo. Al di là dei citati costi supplementari, le prescrizioni più severe dell’iniziativa limiterebbero il margi-

ne di manovra delle autorità, indebolirebbero lo sviluppo delle regioni di montagna, degli insediamenti e, di riflesso, del turismo. Metterebbero a rischio infrastrutture (strade, linee elettriche), importanti per la popolazione e le imprese.

L’iniziativa sulla biodiversità è stata respinta dalle Camere con maggioranze chiare. Nel marzo del 2022, sempre nell’intento di tutelare meglio la diversità biologica, il Consiglio federale aveva proposto un controprogetto indiretto all’iniziativa. Intendeva fissare nella legge il 17% del territorio nazionale quale zona di protezione della biodiversità, contro il 13,4% attuale. Nella sessione estiva 2023 il Consiglio degli Stati ha però respinto due volte, ossia definitivamente, il disegno di legge governativo, giudicandolo inutile. Di conseguenza i cittadini dovranno pronunciarsi solo sull’iniziativa, più severa. Stando al primo sondaggio d’inizio agosto, il progetto in votazione raccoglieva ancora una maggioranza risicata del 51%.

A inizio settembre i favorevoli si sono attestati al 42% soltanto. L’esperienza insegna che, con l’avvicinarsi della data di votazione, le iniziative sono destinate a perdere consensi. In questo caso, poi, l’elettore ha anche a che fare con un tormentone – quello ambientale – a molti indigesto, un fattore che potrebbe risultare controproducente. Pixabay

Alessandro Carli
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Casa Bianca, dove si gioca la vittoria

Stati Uniti ◆ Cosa deve fare Donald Trump per rimediare al fiasco nel dibattito contro Kamala Harris? Come può la sua avversaria consolidare il vantaggio?

Subito dopo il confronto tv di settimana scorsa tra Donald Trump e Kamala Harris, il mondo dei media per qualche ora è stato impegnato a chiedersi se l’endorsement di Taylor Swift sposterà voti a favore dei democratici; oppure a fare il conto, come in una sfida di pugilato, dei punti segnati dall’uno o dall’altra sfidante. Così è passato sotto silenzio l’aspetto più preoccupante di quel duello. Nessuno dei due candidati alla presidenza degli Stati Uniti d’America ha detto chiaramente quale sia il suo programma di Governo, tantomeno con quali mezzi abbia intenzione di finanziarlo. Il dibattito Harris-Trump è stato un gioco al massacro in cui ciascuno ha cercato di distruggere l’immagine dell’avversario ma non è stato un bello spettacolo, indegno di una democrazia civile evoluta, concreta e pragmatica.

Quel martedì 11 settembre si era capito che non era una serata felice per lui quando Trump, affrontando un tema che gli è congeniale e favorevole come l’immigrazione clandestina, insisteva sul fatto che gli stranieri illegali si sfamano dando la caccia agli animali domestici, cani e gatti. L’incapacità di controllare i flussi in ingresso è un tallone d’Achille della Harris. Una maggioranza di americani – non solo a destra – pensa che l’esecutivo Biden-Harris abbia gestito malissimo l’emergenza dei transiti illegali alla frontiera. Molti associano l’immigrazione clandestina a una pressione al ribasso sui loro salari, a un senso di insicurezza, a fenomeni di criminalità. La scomparsa di cani e gatti è un allarme stravagante, al confronto. Trump è fatto così, può acchiappare da qualche tabloid una voce o fake news nata chissà come, e sporcare con una polemica strampalata un tema serio che lo vede in vantaggio.

Nessuno dei due candidati alla presidenza degli Stati Uniti ha detto chiaramente quale sia il suo programma di Governo e come intende finanziarlo

La performance di Trump è stata mediocre, ma l’America resta divisa in due tifoserie che hanno affrontato il match già schierati da una parte o dall’altra. I trumpiani possono essere delusi o perfino furibondi, ma non cambiano parere. Harris nello studio Abc di Philadelphia è arrivata più preparata, meglio allenata, più agguerrita e concentrata. È stata in difficoltà e sulla difensiva quando si affrontavano i temi favorevoli a Trump: economia e immigrazione. Poi è passata lei all’attacco sui temi che l’hanno sempre vista in vantaggio: aborto e difesa della legalità democratica. Trump è apparso confuso quando ha dovuto difendersi sull’aborto. La sua posizione è cambiata più volte. Da quando ha verificato che la posizione antiabortista più intransigente fa perdere voti, si è spostato in una zona intermedia. L’ultima decisione della Corte Suprema rinvia la decisione agli Stati, molti dei quali hanno indetto o stanno per organizzare dei referendum, e a lui sta bene che l’ultima parola spetti al popolo. Però ha articolato questa posizione in modo poco comprensibile, forse anche per paura di scontentare la base evangelica e di esplicitare la sua distanza dal suo vi-

ce J.D. Vance (molto più vicino alla destra religiosa, proprio come lo era stato il suo primo vice, Mike Pence).

Kamala Harris è apparsa vaga e non del tutto convincente quando ha giustificato le sue tante giravolte dicendo che comunque «i miei ideali non sono cambiati». È una frase che lanciò in pasto alla base democratica durante la convention di Chicago, e il pubblico amico si accontentò. Gli elettori moderati e indecisi potrebbero nutrire il sospetto che cambierà ancora posizione, una volta insediata alla Casa Bianca. E adesso? Cosa deve fare Trump per rimediare? Che cosa può fare Kamala Harris per consolidare il vantaggio, ammesso che si dimostri sostanziale e durevole nei sondaggi post-dibattito? La stessa serata nello studio Abc di Philadelphia ha anticipato alcune risposte e suggerito le strategie per gli ultimi 53 giorni. Economia e immigrazione sono i due temi più importanti per gli elettori. E sono i terreni dove lui è considerato più credibile. Per esempio quando ricorda che l’inflazione è scoppiata sotto l’Amministrazione Biden-Harris. Che i suoi dazi contro la Cina sono stati copiati dai democratici. Che sulla blindatura del confine col Messico ora Harris promette un «trumpismo di sinistra», ma quando fu incaricata del dossier migranti lei rimediò un fiasco e critiche da tutte le parti. Trump ha un bisogno disperato di riportare l’attenzione – a cominciare dalla

sua – su questo. Deve ricordare che nel 2020 Harris prometteva il contrario: frontiere aperte, depenalizzazione del reato d’immigrazione clandestina, riduzione degli organici di polizia. Deve incollare l’avversaria ai suoi tre anni e mezzo di potere esecutivo, ricordare che le sue promesse attuali poteva già realizzarle dal 2021.

Perfino sul terreno delle politiche energetiche – cruciali in Stati-chiave come la Pennsylvania – Trump è in posizione di forza. Nel 2016 era il negazionista del cambiamento climatico che stracciava gli accordi di Parigi. Oggi è Harris a stracciare la propria promessa di vietare l’estrazione di gas e petrolio con il fracking (fratturazione idraulica): le sanzioni contro Russia e Iran, il monopolio cinese su batterie e pannelli solari, hanno costretto la sinistra ad accantonare alcuni slogan del Green New Deal, in nome della sicurezza nazionale e dell’autosufficienza energetica. Lui può permettersi anche di ricordare «zero guerre durante la mia presidenza, due conflitti sotto Biden-Harris», per quanto la politica estera sia in secondo piano. Sulla carta, insomma, Trump ha una strategia di rimonta che è ovvia: su questioni di fondo è più sintonia lui con l’opinione pubblica americana.

Ma per focalizzarsi sui suoi punti di forza, deve smettere di essere Trump. Dovrebbe guarire dal narcisismo per cui si è lanciato a testa bassa come il toro verso il drappo rosso, quando Kamala lo ha provocato sulle folle

Kamala Harris nello studio Abc di Philadelphia è arrivata più preparata, agguerrita e concentrata. (Keystone)

Fra i Libri

Antony Loewenstein, Laboratorio Palestina. Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo, Fazi, 2024. Dopo oltre 57 anni di occupazione di Gaza, Cisgiordania (West Bank) Gerusalemme Est e Alture del Golan, Israele ha sviluppato un’altissima esperienza nel controllo di una popolazione «aliena». Una sofisticata architettura di monitoraggio ha trasformato i territori palestinesi in un laboratorio per la sperimentazione non solo di armi, ma anche di tecnologie di sorveglianza poi esportate in tutto il mondo. Laboratorio Palestina mostra nel dettaglio, e per la prima volta, come Israele sia diventato un Paese leader nello sviluppo delle armi e della tecnologia dello spionaggio, a partire dal famoso spyware Pegasus, che ha hackerato i cellulari del magnate Jeff Bezos e del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, assassinato in circostanze raccapriccianti nel consolato saudita di Istanbul.

che si diradano per noia durante i suoi comizi… Vero o falso, è caduto nella trappola, ha ceduto a tutte le provocazioni. Una risalita di Trump richiede disciplina, autocontrollo, allenamento. E un pizzico di umiltà per parlare solo delle cose che interessano gli americani, tralasciando quelle che glorificano o feriscono il suo ego.

Una risalita di Trump richiede disciplina, autocontrollo, allenamento e un pizzico di umiltà per parlare solo delle cose che interessano gli americani

Per Kamala la via maestra sembra essere «more of the same», rincarare la dose. Ha dato il meglio di sé sull’aborto, non solo perché la sua posizione è più popolare ma anche perché ha calato i principi in concrete tragedie umane: come le vittime di incesto che in certi Stati sono costrette a portare a termine la gravidanza. Ha difeso la riforma sanitaria detta Obamacare (che Trump tentò di far abrogare dal Congresso), ricordando l’orrore che esisteva prima, quando una compagnia assicurativa poteva rifiutarsi di vendere una polizza a un paziente perché malato. Ha evitato programmi troppo precisi, ha promesso assistenza a tutti senza specificare come finanziarla, contando sull’indulgenza dei media, per coniugare la svolta moderata e centrista con l’appoggio dell’ala sinistra del suo partito. Si è staccata dal presidente che l’ha scelta e poi l’ha candidata: «Io non sono Biden; questa non è più la sfida fra Trump e Biden» è uno dei leitmotiv che scandivano la serata.

Dovrà continuare questa sua campagna da vicepresidente in carica che si presenta però come una novità, come un cambiamento non solo generazionale ma perfino politico, quasi un profilo da capa dell’opposizione.

A Kamala Harris basta non scivolare di nuovo nella bolla californiana, nella presunzione che le masse popolari obbediscano ciecamente agli endorsement delle celebrity, si chiamino George Clooney o Taylor Swift. Per il resto sembra avere anche lei un percorso già tracciato. Almeno lei ascolta i consiglieri e segue le istruzioni.

Le armi sviluppate nel «Laboratorio Palestina» sono vendute all’esercito del Myanmar (l’ex Birmania, che le usa per massacrare la minoranza rohingya) o all’India. Quindi, in questa indagine globale (basata su documenti declassificati, interviste e inchieste condotte in situ) il giornalista investigativo Loewenstein mostra come etnonazionalismo e suprematismo ebraico israeliani siano diventati l’arsenale bellico dei despoti e fonte d’ispirazione ideologica per Paesi come l’India. Quest’ultima ha infatti adottato la politica etnica israeliana degli insediamenti in Kashmir e si sta radicalizzando (sta diventando uno Stato indù).

L’autore è un ebreo australiano nato nel 1974 che ha vissuto a Gerusalemme Est e che è nipote di profughi scappati dalla Germania per sfuggire all’Olocausto (durante il quale parte della sua famiglia fu sterminata ad Auschwitz). Ben noto reporter, Loewenstein ha scritto per le testate più note dell’Occidente («The New York Times», «The Guardian», «The Washington Post» eccetera) e per «Al Jazeera English», pubblicando anche vari saggi.

All’inizio del libro Loewenstein tiene a sottolineare che esistono molti ebrei che sono critici verso quello che, da 76 anni, sta accadendo in Palestina (tra loro Moni Ovadia, che introduce il saggio, e Noam Chomsky, che lo elogia). Di conseguenza, dice, il Governo Israeliano non può arrogarsi il diritto di parlare per tutti gli ebrei del mondo, mentre non si possono assimilare anti-sionismo e anti-semitismo. L’autore sostiene quindi di vivere un contrasto con una buona parte degli ebrei delle generazioni precedenti, che rifiutano l’umanizzazione dei palestinesi.

Questa apertura autobiografica non deve fuorviare: il libro non riguarda le opinioni dell’autore, ma il suo desiderio di capire un conflitto che da decenni è seguitissimo dai media mondiali. La conclusione di Loewenstein è che quella di Israele (che gode di uno stato di impunità globale) in Palestina è la più lunga occupazione dell’epoca moderna. E che lo Stato ebraico ha sviluppato una gamma di strumenti e tecnologie (smart wall, riconoscimento facciale, dati biometrici, droni) per mantenere il controllo del suo «Laboratorio palestinese». Queste tecnologie sono poi esportate. Pensiamo a Pegasus, venduto tanto ai peggiori Governi del mondo (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Ruanda) come alle democrazie.

Donald Trump è apparso confuso quando doveva difendersi sull’aborto. (Keystone)
di Paolo A. Dossena

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In primo piano: Vladimir Putin e Xi Jinping. La Russia rappresenta una diretta minaccia fisica e strategica per l’Europa, la Cina è molto attiva nell’accaparrarsi dati sensibili. (Keystone)

Il Terzo Tempio

Israele ◆ Ecco il folle progetto di Ben Gvir

Sarah Parenzo

Democrazie contro dittature

Londra ◆ L’ultimo saggio della storica e giornalista Anne Applebaum, Autocracy Ltd., spiega il conflitto centrale che affligge il mondo

Nell’immaginario collettivo la caricatura di uno Stato autocratico vede al vertice un «cattivo» che controlla dall’alto la polizia e l’esercito, con questi ultimi che a loro volta mantengono l’ordine, minacciando la popolazione con la violenza. Tuttavia nel XXI secolo il quadro non è più così semplice. Lo spiega bene la giornalista e storica statunitense Anne Applebaum nel suo nuovo libro intitolato Autocracy Ltd., dove racconta come il conflitto centrale che affligge il mondo e sul quale è necessario concentrare tutti i propri sforzi sia proprio quello fra democrazie ed autocrazie. «Il volume è un ragionamento sull’esistenza di un network», ha commentato l’autrice Premio Pulitzer alla presentazione del saggio con la Foreign Press Association di Londra. «Non un’alleanza – ha detto – ma un vero e proprio network di Stati che hanno ideologie molto diverse fra loro. La Cina comunista, la Russia nazionalista, la teocrazia iraniana, il socialismo bolivariano del Venezuela, la Corea del Nord e altri Paesi, i cui leader o partiti al potere vogliono governare senza alcun tipo di controllo esterno, senza osservare le leggi e in assenza di un potere giudiziario indipendente e di organi di informazione liberi», sottolineando come suddetti Paesi collaborino opportunisticamente in ambiti finanziari o di affari, condividendo tecnologie di sorveglianza o strategie geopolitiche. Ma soprattutto per opporre resistenza al linguaggio delle liberal-democrazie, dei diritti umani e dello stato di diritto in senso ampio, visto come una minaccia al loro potere assoluto.

Vari elementi rendono le autocrazie odierne differenti dalle dittature del XX secolo. In primo luogo, gli attori principali sono persone che hanno a disposizione miliardi, tanto che la Applebaum parla di vere e proprie cleptocrazie, create con denaro sottratto alla popolazione. «Alcuni sono addirittura saliti al potere in virtù dell’accumulazione di tanta ricchezza, avvalendosi della complicità del sistema finanziario internazionale, spesso usato per celare i loro patrimoni che sovente sono tenuti nascosti ai cittadini, attraverso immobili o società facenti capo a proprietari anonimi». Uno dei punti salienti del libro riguarda anche l’atteggiamento che le autocrazie manifestano verso l’infor-

mazione e la propaganda. Mentre un tempo l’Urss, ad esempio, promuoveva prevalentemente il proprio operato, oggi lo scopo principale delle autocrazie è quello di minare le idee e il linguaggio delle democrazie e dello stato di diritto in generale. La loro collaborazione verte anche sull’impiego di tecnologie di sorveglianza: in questo campo il Paese più avanzato è la Cina che vende le proprie tecnologie ad altre realtà.

Fini tecnologie di sorveglianza

«Mi è stato detto come la polizia bielorussa stia riguardando i filmati delle proteste del 2020 dopo che Lukashenko aveva vinto illegittimamente le elezioni, usando le tecnologie di riconoscimento facciale per trovare le persone coinvolte, e ancora adesso sta effettuando arresti», ha puntualizzato la Applebaum, menzionando esempi di cooperazione attraverso la condivisione di tecnologie di sorveglianza. La minaccia autocratica assume connotazioni diverse da Paese a Paese. Mosca rappresenta una diretta minaccia fisica e strategica per l’Europa. Ha messo insieme un esercito che è addestrato per conquistare territori come fa adesso in Ucraina, ma potrebbe anche farlo nelle regioni baltiche della Polonia o persino in Germania. «Ricordo che Putin da giovane era un ufficiale del KGB a Dresda, quindi lui rammenta l’epoca in cui l’Urss arrivava fino a Berlino. Dunque può immaginare la Germania orientale fare nuovamente parte dell’impero russo…», ha affermato la giornalista, grande esperta di ex Urss, di cui aveva scritto anche in Gulag: A History, per il quale nel 2004 si era aggiudicata il Pulitzer. La Cina non costituisce una minaccia fisica per l’Europa. Tuttavia lo è per Taiwan, cui l’Occidente è connesso da un legame di amicizia, ma anche da un rapporto di natura politica ed economica. Inoltre, da un punto di vista strategico, i cinesi sono molto attivi nell’accaparrarsi dati. «Mi hanno riferito che ultimamente hanno manifestato interesse nell’acquisizione di dati relativi al Dna», ha raccontato Applebaum. Come risaputo, Pechino guarda anche alle infrastrutture chiave come i porti, che

permettono di monitorare le merci in entrata e in uscita. L’Iran è uno sponsor del terrorismo in tutto il mondo e non solo in Medio-Oriente. Quindi rappresenta un’ulteriore tipo di minaccia per le nostre democrazie, che possono essere destabilizzate da una violenza fuori legge. Seppure diverse fra loro, le autocrazie di cui sopra – come detto –sono unite da uno stesso obiettivo: minare l’ordine democratico. Applebaum vuole creare consapevolezza ed esortare a un maggiore coordinamento delle attività contro questa minaccia: la Nato non basta più. «Una delle ragioni per cui Putin ha invaso l’Ucraina è perché pensava che non vi sarebbe stata alcuna reazione; credeva di arrivare a Kiev in 3 giorni. Ma la reazione c’è stata e gli ucraini sono stati supportati; la coalizione spontanea nata da questa invasione regge già da 2 anni e mezzo», ha sottolineato la scrittrice, che vede nella collaborazione internazionale il principale strumento difensivo. L’Europa ormai ha capito che la Russia non è un partner commerciale benigno, da cui comprare gas. In parte grazie anche alla pandemia, gli Usa e il Vecchio Continente hanno compreso che non possono rischiare di dipendere dalla Cina per forniture mediche, risorse naturali o altre importazioni importanti. L’amministrazione Biden, in particolare, ha manifestato il piano di riportare negli Usa la produzione manifatturiera di alcuni beni, anche per motivi di sicurezza. Negli ultimi mesi si è registrato un calo degli investimenti stranieri in Cina, perché vengono percepiti rischi geo-politici che prima non si vedevano. Ciò non significa boicottare o essere in conflitto con Pechino. Anche se non si può impedire alle autocrazie di collaborare, è opportuno continuare ad avere rapporti diplomatici. Senza dimenticare inoltre che vi sono Paesi che hanno affinità sia con il mondo democratico sia con quello autocratico, e occorre lavorare soprattutto con loro. Si pensi a Singapore, alleato democratico, ma anche partner commerciale della Cina.

La via maestra dunque? Una coalizione di democrazie unite da interessi comuni, come ad esempio la regolamentazione dei social media oppure l’eliminazione del riciclaggio del denaro sporco.

In seguito alla duplice distruzione del Tempio a opera del babilonese Nabucodonosor e del romano Tito, che hanno dato origine a secoli di esilio e persecuzioni, i sacrifici e il culto sacerdotale ebraici sono stati sostituiti dalle preghiere in attesa della ricostruzione di un nuovo santuario che la tradizione ascrive alla fine dei tempi preceduta dall’avvento del Messia (Isaia 2,2). Sino ad allora la maggior parte dei rabbini concorda secondo la Torà nel vietare agli ebrei di far ingresso nell’intera area del Monte del Tempio, per evitare di calpestare le parti sacre oggi difficilmente perimetrabili. Tali pronunce in materia di diritto ebraico sono diventate ancora più rilevanti nel 1967 con la vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni, che ha restituito agli ebrei il controllo dell’intera area. Da allora, a fronte della presenza delle moschee di Al-Aqsa e della Cupola della Roccia edificatevi dagli islamici, il Monte del Tempio è diventato luogo conteso e politicamente molto delicato, ragion per cui la condotta dei sionisti religiosi estremisti assume il significato di umiliante provocazione nei confronti dei fedeli musulmani e del già precario status quo dei luoghi santi di Gerusalemme. Incurante di tutto ciò, e approfittando del caos generale, il fanatico e irresponsabile ministro israeliano Ben Gvir prosegue invece con le sue arroganti passeggiate sul Monte del Tempio di Gerusalemme, minacciando anche di attuare a breve il folle progetto di ripristinare i rituali del santuario con tanto di sacrifici animali. E pensare che proprio al Terzo Tempio (Einaudi) ha dedicato la sua ultima opera Abraham Yehoshua, preoccupato fino alla fine del destino del suo amato Paese. In una breve novella lo scrittore propone una soluzione fuori dagli schemi all’annosa questione dei luoghi santi, collocando il suo Terzo Tempio fuori dalle mura della città vecchia nei pressi del cimitero del Monte degli Ulivi: «Seppur modesto, questo Tempio assumerà un ruolo drammatico e rivoluzionario. Non vi si eseguirà nessun sacrificio, né vi si rinnoveranno rituali, ma gli inni e i canti faranno sì che i nostri morti risorgano a nuova vita».

Per promuovere la sua visione, Yehoshua ha scelto Esther Azoulay, una giovane donna osservante ma di origini straniere, vittima di un’ingiustizia di diritto ebraico architettata

La guerra continua

Mentre il mondo assiste indignato alla prosecuzione della guerra a Gaza e alle violenze in Cisgiordania, che continuano a mietere vittime soprattutto palestinesi, lo stato ebraico affronta al proprio interno una crisi senza precedenti. Sconvolti e furiosi per il ritrovamento di altri sei ostaggi trucidati da Hamas nei tunnel, il 1. settembre, i cittadini israeliani hanno potenziato le manifestazioni a sostegno delle famiglie, chiedendo al Governo di concludere immediatamente un accordo per il riscatto e il cessate il fuoco. Intanto gli abitanti della Galilea Settentrionale non ancora sfollati affrontano da soli un vero e proprio inferno a causa dei quotidiani attacchi da parte di Hezbollah e un allargamento del conflitto con il Libano è sempre più probabile.

con maestria per impedirle il matrimonio con l’amato David Mashiah (lett. Messia). Ad accoglierla presso il tribunale rabbinico di Tel Aviv, Esther trova il rabbino Nissim Shoshani, giudice appartenente al mondo sefardita ultraortodosso che raccoglierà con pazienza e umanità la sua testimonianza. Dopo aver ammesso, intorno al 2016, il fallimento della soluzione dei due Stati e aver ipotizzato la dolorosa necessità di uno Stato unico per israeliani e palestinesi, Yehoshua aveva compreso che, per vincere la lotta contro il fanatismo che tiene in ostaggio la società ebraica, impastando la religione con la politica, sono necessari nuovi assetti e persino «alleanze» sino a poco prima impensabili per lui, intellettuale laico, come quella con il rabbino Ovadia Yosef incarnato da Shoshani. Gli indizi sono chiari, a partire dalla fotografia di Ovadia Yosef che svetta sulla parete dell’ufficio del rabbino, sino al riferimento della specializzazione di Shoshani nelle controversie relative alle agunòt, le donne «incatenate» nei loro matrimoni perché il marito risulta disperso o rifiuta di concedere loro il divorzio. Il rabbino Ovadia Yosef è infatti considerato uno dei maggiori esperti in materia per aver «liberato» con le sue preziose sentenze oltre 900 mogli dei soldati dispersi nella Guerra del Kippur del 1973, consentendo loro di risposarsi benché non si fosse ritrovato il corpo dei mariti. Ed è stato esplicito anche nel ribadire il divieto per gli ebrei di fare accesso al Monte del Tempio.

Seppure ideologicamente agli antipodi nel corso della vita, Abraham Yehoshua e il rabbino Ovadia Yosef affondano entrambi le radici nel mondo ebraico sefardita orientale della città di Gerusalemme, dove il calore si mescolava alla tolleranza e all’umanità, morbida eredità dell’esperienza diasporica nei Paesi arabi, profondamente diversa da quella ashkenazita europea. Inoltre, all’inizio della sua carriera di decisore Ovadia Yosef ha prestato servizio nello stesso tribunale rabbinico dove giudicava il rabbino Hananya Gabriel, nonno paterno di Yehoshua. Ecco che il lascito dello scrittore israeliano, incrocia l’eredità spirituale del rabbino, ingaggiando insieme una battaglia in nome della vita contro le forze che minacciano il popolo di Israele, anche e soprattutto dal suo interno, «perché i nostri morti sono fin troppi». Chissà se il mondo sefardita orientale e le donne osservanti dei precetti, come Esther Azoulay, due universi sino ad ora silenziati e considerati marginali dalla narrativa sionista dominante, non dimostreranno il potenziale necessario per traghettare Israele fuori dalla crisi?

Il rabbino Ovadia Yosef. (Keystone)

Perché la pelle attorno agli occhi è sensibile?

È più sottile della pelle di altre parti del corpo. Presenta meno strati di grasso e meno collagene, che mantiene la pelle tesa e allo stesso tempo elastica. Ciò la rende più soggetta ai danni e all’invecchiamento. Inoltre, a causa della mimica facciale, sviluppa più rapidamente rughe e linee sottili. È quindi importante curarla bene.

Quale crema utilizzare?

Scegli una crema appositamente studiata per il contorno occhi. Ingredienti come l’acido ialuronico, i peptidi e le ceramidi aiutano a idratare e rafforzare la pelle. Utilizza una crema con almeno SPF 15, meglio se SPF 30, per proteggere la pelle sensibile del contorno occhi dai danni dei raggi UV.

Come applicare la crema?

Applica la crema per il contorno occhi con l’anulare, che esercita una pressione minore. Tampona delicatamente la crema sulla pelle invece di strofinarla: eviterai così irritazioni e stimolerai la circolazione.

Le fette di cetriolo sugli occhi aiutano davvero?

Sì, utilizza impacchi freddi o fette di cetriolo raffreddate per attenuare le borse e le occhiaie. L’effetto refrigerante restringe i vasi sanguigni e riduce il gonfiore. Inoltre, un delicato massaggio agli occhi aiuta a favorire la circolazione sanguigna e a ridurre le borse.

SALUTE

Cura della pelle

Ecco come prendersi cura correttamente del contorno occhi

La pelle attorno agli occhi è particolarmente sensibile. Ecco come prendersene cura affinché rimanga bella e splendente a lungo

Che cosa si dovrebbe evitare?

Evita di strofinarti gli occhi. Lo sfregamento può infatti irritare la pelle sensibile e provocare linee sottili e rughe. Non tenere il trucco sugli occhi di notte. Rimuovi accuratamente il make-up ogni sera con uno struccante occhi delicato.

Cosa fare contro le occhiaie?

Per ridurre le occhiaie scure e le borse dovresti dormire a sufficienza, possibilmente da sette a nove ore a notte. Bevi anche molta acqua per idratare il corpo e la pelle dall’interno. Questo può contribuire a far apparire la pelle del contorno occhi più tonica e sana. Punta a circa 1,5-2 litri di acqua al giorno.

Testo: Silvia Schütz
Cura degli occhi alla Migros

L’India, tra progetti ambiziosi e abissi di miseria

L’analisi ◆ Il sogno di fare del Subcontinente un polo di potenza su scala mondiale si scontra con problemi di non poco conto

C’è un grande Paese che non è ancora un Grande della Terra ma che è certo di diventarlo. E che già si muove sulla scena internazionale con questa certezza. Si tratta dell’India. Meglio, Bharat: suo antico nome di origine sanscrita che Delhi spende sulla scena internazionale per segnalare notevoli ambizioni di potenza, ricollegandosi a più o meno effettive radici imperiali. Per chi ne fosse curioso, è consigliabile una puntata al Parlamento di Delhi, dove spicca un murale che rappresenta Bharat come una sorta di India indivisa, allargata a Pakistan, spicchi di Afghanistan e Cina, più Sri Lanka, Nepal, Bhutan, Myanmar e Bangladesh. Obiettivo di lungo periodo o semplice logo propagandistico? Le due ipotesi possono coesistere nel Paese oggi dominato dalla figura di un leader carismatico, Narendra Modi, che ha appena inaugurato il suo terzo, non necessariamente ultimo, quinquennio da primo ministro.

L’India è la quinta economia al mondo in termini di Prodotto interno lordo ed è forse destinata a piazzarsi terza entro un decennio

Come quasi tutti i Paesi con ambizioni speciali, anche l’India/Bharat poggia la sua narrazione sulla riscrittura della storia. Al di là dei riferimenti al passato remoto, conta soprattutto la cesura con l’India dei padri fondatori – Gandhi e Nehru. Da cui deriva la dinastia che ha retto il timone indiano nei primi decenni di indipendenza, sotto forma di egemonia del partito del Congresso. Dotato di una classe dirigente politicamente laica, non allineata, priva di ambizioni grandiose. Il contrario di questo Bharat: forte impronta indù, incarnata da Modi che prima di essere un capo politico è un leader religioso, garante dell’idea di trasformare genoma e strategia della più popolosa Nazione al mondo, con oltre un miliardo e 400 milioni di abitanti. Per farne uno Stato indù, relegando in posizioni sempre più secondarie le minoranze, in primo luogo la musulmana (200 milioni). E di fare di tale Stato un protagonista del mondo multipolare che secondo Modi è il destino di questo secolo. Progetti grandiosi che cozzano con alcuni dati economici e sociali. L’India è la quinta economia al mondo in termini di Pil, destinata forse a piazzarsi terza entro un decennio. Ha punte di eccellenza tecnologica note e riconosciute ovunque, e una diaspora diffusa, soprattutto nel Golfo (9 milioni) e negli Usa (5 milioni, Kamala

Harris compresa). Allo stesso tempo, il reddito medio pro capite è di 2500 dollari. Indicatore da Terzo Mondo. I quattro quinti dell’economia afferiscono al settore informale. Le punte di ricchezza estrema (l’1% degli indiani controlla il 40% del Pil) incrociano cime abissali di miseria. E riflessi strazianti sulla qualità della vita. Per dirla con Modi: «Più che di templi, abbiamo bisogno di cessi». La strategia di Bharat è illustrata dal brillante ministro degli Esteri Subrahmanyam Jaishankar, rockstar sulla scena diplomatico-mediatica internazionale. In parole povere, si tratta di fare del Subcontinente indiano un polo di potenza su scala mondiale, centrato su Delhi. In prospettiva affiancabile a Pechino, Washington, Mosca. Rinnegando il non allineamento – che all’atto pratico si risolveva ai tempi della guerra fredda in una linea filosovietica – Jaishankar propugna un attivismo basato sulla centralità dei propri interessi. Nessun alleato, tanti possibili allineamenti a seconda dei dossier e delle circostanze. Esempio: con la Russia in campo militare (le armi indiane sono quasi tutte moscovite) e su questioni strategiche in buona parte d’Eurasia, guerra di Ucraina compresa; con l’America nel contenimento della Cina, avversario assoluto, e conseguente proiezione di potenza nell’Oceano Indiano e nell’area dell’Indo-Pacifico; e sempre massimo di agilità opportunistica con chiunque.

Nel mondo in transizione dall’egemonia a stelle e strisce verso il caos più o meno controllato, l’India/Bharat sente di poter elevare in parallelo il

suo status geopolitico e il suo grado di benessere socio-economico. È realistico? Forse. Qualche bemolle. In primo luogo, difficile costruirsi una sfera di influenza se alle frontiere hai solo avversari e problemi. Dall’arcinemico Pakistan alla Cina, i vicini tengono in costante apprensione Delhi. I contenziosi frontalieri con pakistani e

cinesi sono sempre gli stessi, dal Kashmir alle porzioni di Himalaya che dividono l’India dalla Cina. Il recente colpo di Stato in Bangladesh (ex Pakistan orientale) rende anche quel vicino inaffidabile se non ostile. L’unico partner regionale amico – quasi una colonia – è il piccolo Bhutan. Secondo, le faglie domestiche. La

più evidente è quella linguistica. 22 lingue «principali», 38 che pretendono status analogo, oltre a un migliaio e mezzo di dialetti sono una barriera storica che non può essere superata adottando l’inglese come koiné In quanto idioma dei colonizzatori, ma soprattutto perché fruibile solo a livello delle classi alte o medio-alte. Lo hinglish è abbastanza peculiare nell’anglofonia, poco comprensibile al di fuori del Subcontinente. Inoltre, le barriere religiose, che con Modi e il suo Bjp si alzano a scapito di musulmani, cristiani, sikh e ulteriori minoranze, con forti dislivelli fra i singoli Stati federati. Infine, la difficoltà di gestire da Delhi l’arcipelago dei 28 Stati e 8 territori.

Terzo, la tendenza autoritaria, con acute punte repressive, dell’attuale Governo di marca indù, che mette in questione stabilità e legittimazione delle istituzioni. Quarto, lo scaltro opportunismo geopolitico ha i suoi limiti. La tesi di Jaishankar, per cui la bussola sono gli interessi dell’India e tutto si regola di conseguenza si presta a troppe interpretazioni. Se Bharat fosse già grande potenza, avrebbe senso. Adesso il rischio di finire fra due sedie per eccesso di furbizia è notevole. Certezza finale: di Bharat sentiremo parlare nei prossimi anni molto più di quanto accaduto dal 15 agosto 1947, giorno della sua indipendenza, a oggi.

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Il premier indiano
Narendra Modi. (Keystone)
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CULTURA

Il più tipico degli einaudiani

Un ricordo di Ernesto Franco, classe 1956, ligure, anima della casa editrice Einaudi, scomparso la scorsa settimana

Pagina 29

Le visioni di Olga Fröbe-Kapteyn

Il Museo Casa Rusca di Locarno rende omaggio all’artista visionaria dai molti talenti e fondatrice del circolo Eranos

Pagina 31

When We See US

Con una collettiva di 120 artisti e 150 opere esposte, il Kunstmuseum di Basilea omaggia l’arte contemporanea africana

Pagina 33

La porta delle stelle e un pub di nome Stargate

Incontri ◆ A colloquio a Oslo con la scrittrice norvegese Ingvild Hedemann Rishøi che racconta il suo romanzo uscito per Iperborea

Pubblicato in Norvegia con il titolo Stargate, il nome di un pub frequentato da emarginati e alcolisti che si trova all’uscita della metropolitana di Grønland, il quartiere multietnico di Oslo, La porta delle stelle (Iperborea, 2024) racconta la storia di un padre vedovo, disoccupato e spesso in preda alle bevande alcoliche, che vive con le figlie adolescenti nel quartiere di Tøyen. Ha un rapporto speciale con loro, che apostrofa con una lingua favolosa, ma in certi periodi le forti bevute al pub non gli permettono di lavorare e la famiglia è spesso ridotta alla fame.

Durante il periodo che precede il Natale, Ronja, la figlia di dieci anni alla quale Ingvild Rishøi dà la voce narrante, riesce a trovargli un lavoro come venditore di alberi grazie al bidello della scuola, ma quando lui mollerà il colpo lei e la sorella Melissa si metteranno a venderli al suo posto nell’intento di pagare le bollette e sbarcare il lunario. Ma anche nella speranza di poter avere anche loro un albero da addobbare e passare le vacanze in una baita tra i boschi. Lo sguardo di Ronja è insieme tragico e sognante, e la bravura di Ingvild Rishøi è quella di creare un romanzo universale e senza tempo, ormai considerato un classico contemporaneo. Ho incontrato la scrittrice norvegese (nella foto) nella sua casa che si trova nel quartiere di Tonsehagen, a un’ora di distanza dal centro della capitale norvegese.

Come è nata questa storia?

Prima di iniziare questo romanzo ho passato un periodo di otto anni nel quale non ho pubblicato nulla. Stavo scrivendo un libro molto autobiografico, un testo vissuto in prima persona su cosa vuol dire vivere vicino a chi abusa di alcol, ma non ero soddisfatta del mio lavoro, così una volta terminato ho deciso di non darlo alle stampe. Era un libro pieno di disperazione. Quando invece ho iniziato a lavorare a La porta delle stelle dalle ceneri del mio precedente romanzo, l’ho trasformato in qualcosa di molto diverso e ha prevalso l’aspetto dell’immaginazione, della finzione.

Ma come comincia la scrittura?

È stata una voce che è arrivata nella mia testa, non mi fraintenda, so che sono io che sto scrivendo, non perdi la percezione di te mentre lo fai, ma è stato un modo per tornare alla fanciullezza, a quei momenti in cui giochi a interpretare due personaggi diversi. In questo modo ho creato un mondo parallelo, di finzione. Quando questa voce arriva, scrivo, ma in forma disordinata, libera. Da qui scaturisce il materiale grezzo che poi userò riscrivendo, riordinando, controllando tutti i pezzi che poi as-

semblo scartando le parti che non mi servono. I miei libri nascono così.

È vero che quando ha finito di scrivere distende tutti i fogli sul pavimento?

Normalmente si fa sullo schermo di un computer, mentre io quando sto scrivendo ho un bisogno concreto di avere un rapporto visuale con le pagine, di vederle tutte insieme, le metto fisicamente sopra questo pavimento, prima però mi assicuro che le finestre siano ben chiuse in modo tale che il vento non le faccia volare. Si tratta di un lavoro, non dell’ispirazione celeste!

Ha scritto che le piace il buio, la neve e il freddo, preferisce ambientazioni invernali per i suoi libri, e mentre scriveva, per ispirarsi, ascoltava di continuo i canti natalizi.

Sì, nonostante fosse maggio, che è il mese più bello in Norvegia, chiudevo le finestre, oscuravo tutto, accendevo delle candele e mentre scrivevo ascoltavo queste canzoni per entrare nell’atmosfera natalizia. Ma senza aver scritto quel romanzo che poi non è stato pubblicato non sarei stata capace di poter scrivere questo, perché sono un’artigiana della letteratura, non riesco a scrivere sen-

za mantenere una distanza, voglio manipolare i sentimenti dei lettori, non i miei.

Il titolo norvegese Stargate nasce da un pub di Gronland che conosco dove una pinta di birra è la più economica di tutta la Norvegia. Come mai questo titolo?

La copertina del libro originale norvegese rappresenta un albero di Natale con sopra una stella. Ho associato questo posto che esiste davvero e ha proprio questo nome, Stargate e i protagonisti della storia abitano a Tøyen, che non è molto distante da lì. Per me è stato come un regalo che la realtà mi ha fatto.

Il suo libro è stato paragonato a La piccola fiammiferaia di Andersen, sta dentro una costellazione letteraria di racconti di Natale, quelli di Dickens, di Stevenson. Quando scriveva era cosciente di lavorare dentro quella tradizione innovandola in senso contemporaneo? È la storia di una ragazza che lavora vendendo alberi di Natale, una cosa che ho fatto veramente durante il periodo della pandemia. Ero disoccupata e per tutto il mese di dicembre ho venduto alberi e ghirlande, mi piacciono molto i lavori fisici. Quindi una storia così doveva per forza di

cose diventare una novella natalizia. Ma mentre scrivevo ho capito necessariamente che dovevo anche relazionarmi con una tradizione, che per me inizia con la Bibbia, ma soprattutto con i libri della scrittrice svedese Astrid Lindgren, la leggendaria autrice di Pippi calzelunghe, dentro un filone di letteratura natalizia.

Nel libro si mescolano due elementi decisivi, il duro realismo sociale e la magia del Natale, la realtà più spietata e il sogno. Le protagoniste del libro sono due sorelle, Melissa di sedici anni e Ronja di dieci, l’io narrante, che prendono in mano il proprio destino. Perché ha deciso di scegliere questo punto di vista? Sono racconti che hanno dentro di sé qualcosa di magico, una corda che non avevo mai usato nella mia letteratura e che volevo esplorare. Possiamo definirlo realismo magico. La vita è fatta di realtà, spesso durissima, ma noi abbiamo bisogno di sogni, di fantasie, e questo mondo fantastico possiamo crearlo anche attraverso l’alcol, bevendo, creando una realtà parallela. Il personaggio del padre nel libro ha tutti e due gli aspetti, quello della sofferenza ma anche del sogno. Melissa e Ronja hanno imparato a comportarsi così, a vedere così il mondo, incoraggiate dal padre, è lui che

regala alle figlie questo dono di poter cambiare con l’immaginazione la realtà, di poter vivere in un sogno. Racconta una condizione umana dolorosa, socialmente quella di una periferia emarginata e impoverita, qualcosa che uno non si aspetterebbe a Oslo, in Norvegia, uno dei Paesi con il welfare migliore del mondo.

La realtà norvegese è molto diversa da quella che la gente può immaginare, le differenze tra le classi sociali, tra ricchi e poveri, sono in forte aumento, e questo incide soprattutto sulla vita dei bambini di famiglie giovani molto numerose. Il quartiere di Tøyen, dove è ambientato il mio romanzo, ha il numero più alto di bambini poveri di tutta la Norvegia. Ma nel libro la condizione di povertà è creata dal fatto che il padre è alcolizzato, incapace anche di servirsi delle protezioni sociali che potrebbero salvarlo. Anche se queste due ragazzine potevano essere figlie di persone ricche con gli stessi problemi di droga, alcol e affettività, è qualcosa che purtroppo accade in tutte le fasce sociali.

Bibliografia

Ingvild Hedemann Rishøi, La porta delle stelle Iperborea, Milano, 2024.

Testo e foto di Angelo Ferracuti

Tutto sparso in giro

La prima impressione si ha già all’ingresso. Scarpe, vestiti o un guardaroba completo lasciati in giro saltano subito agli occhi. «Anche i cavi di ricarica che giacciono in giro possono dare un’idea di disordine», afferma l’esperta di galateo Katrin Künzle.

Che odore sgradevole!

L’odore del tuo appartamento può essere un fattore decisivo per far sì che gli ospiti si sentano a proprio agio a casa tua. «Se all’ingresso si viene accolti da un odore di muffa o di animali, questo può smorzare l’umore», dice Katrin Künzle. Un aroma fresco o il profumo di un pasto delizioso, invece, influiscono positivamente sulla visita.

Briciole, macchie e peli di animali

In soggiorno, invece, la prima cosa che i tuoi ospiti noteranno sono le macchie sulla superficie del tavolo, le coperte non piegate o i cuscini stropicciati. Lo stesso vale per i peli di animali o le briciole sul divano. «Se ci sono calzini sporchi in giro, di solito non ci sentiamo a nostro agio come ospiti», afferma l’esperta di galateo.

WC sporco

Prima o poi i tuoi ospiti avranno bisogno di usare la toilette. Le condizioni del bagno sono fondamentali: se trovano un WC sporco, un lavandino poco pulito o un asciugamano usato già più volte, si fa sicuramente una pessima impressione. L’igiene è quindi un must, perché «un bagno non pulito può scatenare sentimenti di disgusto», sostiene Katrin Künzle. Sono indispensabili anche carta igienica e sapone in quantità sufficiente.

Stoviglie sporche

Se hai una cucina a vista, dovresti tenerla in ordine. Le stoviglie sporche o gli avanzi di cibo secchi si notano subito. Come nel caso del bagno, una cucina sporca disgusterà rapidamente i tuoi ospiti.

CONSIGLI

Galateo per gli ospiti

Qual è la prima cosa che notano i tuoi ospiti

La prima impressione conta: cosa cattura immediatamente l’attenzione di chi viene a trovarti e come assicurarti che gli ospiti si sentano a proprio agio

Cosa non deve mai fare un ospite

Gli ospiti non dovrebbero mai aprire di propria iniziativa le porte chiuse, fare un giro della casa o addirittura mettere i piedi sul tavolo. Un buon ospite si offre anche di aiutare. Se però la padrona o il padrone di casa desidera fare a meno di questo aiuto, non bisognerebbe imporsi. I bravi ospiti si tolgono anche le scarpe quando viene loro chiesto, non si lamentano del cibo e non danno consigli in merito.

Cosa puoi fare?

Se hai poco tempo per riordinare il tuo appartamento prima dell’arrivo degli ospiti, limitati alle aree in cui soggiorneranno le persone. Chiudi quindi tutte le altre porte. Libera l’ingresso dagli oggetti lasciati in giro e ritira cappotti e giacche che non ti servono. «Mentre arieggi la stanza puoi sprimacciare i cuscini, piegare le coperte e pulire il tavolo: in questo modo darai al soggiorno un aspetto ordinato», suggerisce l’esperta di galateo. Se hai un animale domestico, assicurati che non ci siano peli o sporcizia sul divano. Se gli ospiti devono togliersi le scarpe in casa tua, dovresti assolutamente passare l’aspirapolvere o inumidire il pavimento.

Immagini: Getty Images
Da non fare: l’ingresso con abiti e scarpe in giro.

Il più tipico degli einaudiani

In ricordo ◆ Ritratto di Ernesto Franco, anima della casa editrice Einaudi

Ernesto Franco (nella foto) era il più tipico degli einaudiani, pur non essendo cresciuto dentro Einaudi. Nato nel 1956 a Genova, dunque ligure come Italo Calvino, l’einaudiano per eccellenza. Franco amava Calvino e scriveva romanzi e racconti calviniani: diceva di essere debitore soprattutto delle Cosmicomiche. Come gli einaudiani storici – Pavese, Natalia Ginzburg, lo stesso Calvino –ha pubblicato i propri libri per la casa editrice in cui lavorava. Non per comodità o per furbizia ma per una irresistibile identificazione. «L’editore – diceva – prova a fare i conti con la fantasia degli altri», senza escludere di poter fare i conti con la propria. La fantasia di Ernesto era tutta rivolta al mare, che gli ha ispirato diversi libri, da Isolario, del 1994, all’ultimo, Storie fantastiche di isole vere, uscito pochi mesi fa (nella foto un dettaglio di copertina): un altro «isolario», in cui un narratore, il Pilota, che ha navigato ovunque per mete vicine e lontane, racconta al suo compagno di viaggio, incontrato nel porto di Genova, storie vere e inventate di terre e di oceani, di pirati, di fughe, di labirinti, in definitiva dei segreti che le isole (Creta, Isola di Pasqua, Tortuga, Alcatraz…) nascondono in sé. Come scrittore ottenne il Premio Viareggio nel 1999 con Vite senza fine. «Vado pazzo per l’intelligenza degli altri», diceva Franco. È la migliore premessa per il lavoro editoriale. Un funzionario di casa editrice deve essere capace soprattutto di esercitare la curiosità e l’ammirazione per l’intelligenza altrui. Con questa idea, insieme umile e consapevole, Ernesto Franco ha costruito la sua lunga carriera, fino alla morte, sopraggiunta il 10 settembre scorso per una malattia implacabile. Laureato in Lettere nell’Università della sua città, scelse l’editoria su consiglio di Antonio Tabucchi, che gli suggerì di starsene lontano dalla carriera universitaria. Prima esperienza «artigianale» presso la Marietti, la storica casa editrice di impronta religiosa che nei primi anni 90 si era trasferita da Casale Monferrato proprio a Genova con un catalogo aperto all’ebraismo e all’islamismo, al pensiero contemporaneo (Bloch, Gadamer), alla letteratura contemporanea (tra l’altro ospitò l’esordio dei fratelli Pressburger). Dopo un passaggio alla Garzanti, presente il bizzoso padrone Livio, Ernesto Franco arrivò in Einaudi nel 1991, sotto la direzione di Piero Gelli e grazie all’amico Vittorio Bo, allora giovane e brillante amministratore

molto stimato da Giulio Einaudi. Il «principe» Giulio, che aveva fondato la casa editrice nel 1933, non ne era più il padrone ma rimaneva ben attivo e presente in via Biancamano accanto a Roberto Cerati, deus ex machina del commerciale. Nel 1994 lo Struzzo (simbolo della casa editrice torinese) sarebbe passato nelle mani della Mondadori di Berlusconi tra ovvie polemiche e conseguenti defezioni di autori (lasciarono Carlo Ginzburg e Corrado Stajano): niente di più lontano di Berlusconi dalla storia dell’Einaudi. Dopo tante crisi economiche, la casa editrice avrebbe dovuto cercare di rinnovarsi pur rimanendo nel solco di una tradizione prestigiosa da non oscurare, quella dell’impegno progressista e della modernizzazione culturale la più ampia possibile.

Ernesto Franco sceglie di puntare sulla letteratura straniera e il catalogo si arricchisce, nel corso degli anni, di una costellazione formidabile di autori, compresi molti Nobel

Una prima iniziativa in questa direzione era stata, già qualche anno prima, la collana dei Tascabili, in cui, affiancati da classici come Proust e Balzac, uscirono le scandalose Formiche di Gino e Michele, che aprivano la strada alla cultura pop poi intrapresa con decisione da un’altra collana einaudiana eterodossa: «Stile libero». Siamo nel 1996, anni di svolta. Nello scandalo generale, l’Einaudi accoglie i cantautori, i comici, i romanzi di genere, il noir, il giallo, i giovani pulp. Ernesto Franco arriva in questo clima in cui convivono i venerati maestri, con il giovanilismo e il mainstream televisivo. Nel 1998 diventa direttore editoriale sotto l’ala mondadoriana e con la benedizione del fondatore; dal

«Non si sa niente»

Poesia ◆ L’arte di convivere con l’idea della morte

Guido Monti

2011 sarà direttore generale. In quell’equilibrio delicatissimo, Ernesto è stato un abile regista molto deciso a cambiare le cose e a sperimentare: abolirà, coraggiosamente, le famose riunioni del mercoledì con i consulenti. Sceglie di puntare sulla letteratura straniera e il catalogo si arricchisce, nel corso degli anni, di una costellazione formidabile di autori, compresi molti Nobel: con Yehoshua, McEwan e Ishiguro, la casa torinese potrà vantare via via Saramago, Grass, Pamuk, Coetzee, Munro, Modiano, Vargas Llosa, oltre a DeLillo, Javier Marias e Philip Roth. L’Einaudi diventa il secondo marchio editoriale italiano anche grazie ai sei premi Strega vinti negli ultimi quindici anni: la narrativa italiana è un altro cavallo di battaglia vincente. A fianco della qualità dell’amico Daniele Del Giudice, si impone la letteratura di genere, i gialli da classifica soprattutto. Senza abbandonare la saggistica di studio, e senza dimenticare un altro filone tradizionale einaudiano, i libri d’intervento, inteso in chiave non strettamente politica. Ecco due nuove collane: «Einaudi Contemporanea» (con Gadamer, Enzensberger, Perniola, Asor Rosa, Vittorio Foa…) e poi le «Vele», che nel 2003 si aprono con un dialogo tra il cardinal Martini e il costituzionalista Zagrebelsky.

Su questo stesso versante, forse memore dell’esperienza presso la Marietti, Franco aveva avviato una nuova edizione della Bibbia. La passione per la letteratura di lingua spagnola non lo ha mai abbandonato e negli anni ha tradotto e curato opere di Jorge Luis Borges, Juan Rulfo, Julio Cortázar, Alvaro Mutis (lo scrittore di mare che gli era più affine), Adolfo Bioy Casares, Ernesto Sábato, Mario Vargas Llosa, Octavio Paz. Certamente dall’amore del romanzo sudamericano e di quel felice connubio tra realismo e visionarietà nasce un altro progetto innovativo, che affida alla direzione di Franco Moretti. Si tratta dei cinque volumi de «Il romanzo», una grande opera costruita nel 2001 con il proposito di indagare l’universo del romanzo e reinterpretarlo alla luce della contemporaneità per snodi, nuclei, connessioni inconsuete. Understatement, apertura a 360 gradi, capacità di fare gruppo e di lavorare il più possibile in armonia. Una concezione del lavoro opposta a quella del leggendario fondatore, secondo il quale le idee più interessanti nascevano dal conflitto.

L’ultimo libro di Claudio Damiani Prima di nascere, si apre con una riflessione aperta, senza sconti e priva di retorica, rivolta al lettore, sul senso riposto dell’esistenza, sui suoi tanti modi di manifestarsi ma anche sull’idea di appartenenza a una comunità, sempre però in cammino verso qualcosa di non pienamente captabile. E la condizione finale di ognuno, la morte, ci suggerisce il poeta, è forse tornare a far parte di un più ampio spazio-tempo, anche forse di quel passato che si allunga nei millenni addietro. Subito però, quasi a fare da contraltare a questo momento di speculazione alta, ecco una serie di poesie sulla guerra, che sembrano quasi vanificare la profondità di questa riflessione, verso una dimensione accorciata, senza orizzonte, di ogni esistenza. La precarietà della vita insomma, minacciata anzitutto dalle perduranti guerre globali, si fa ancor più evidente, con la complessità sempre più pervasiva della tecnica che avanza e aumenta il senso della dispersione umana, intesa come sua montante marginalità per paradosso, rispetto a tutto ciò che ci gira attorno: «…/ perché sappiamo tanto, abbiamo tanta scienza / ma di noi non sappiamo niente, / e con la scienza, con la tecnologia / ancor più stride la nostra mortalità / e precarietà, …/…». Il corpo di tutti noi, le sue domande, sembrano polverizzarsi sempre più. Il tempo della tecnica avanzata quindi, così importante per le vite attuali, non chiarisce il mistero e il destino di ognuno, anzi lo scurisce. Dove il dominio dell’uomo si spingerà, quanto muterà l’ordine naturale millenario? Ecco allora, arrivare l’arte a rendere nitido l’oltre frontiera; vi sono difatti tra le pagine, ritratti di una cosmogonia così profonda, che rasentano un fantastico veridico. E difatti andando avanti nel libro, si amplia sempre più il rapporto tra tempo e natura, vista questa come suo corrugamento ma anche trasformazione. Il poeta torna in essa come vivificato, pensandola come un elisir che restituisce, a chi vi penetra, lo sguardo arioso delle lunghe stagioni. Sembra ancora, a legger bene tra le righe, che Femio e Domodoco, aedi omerici citati, spuntino dietro il verderame dei boschi, le ombreggiature. La natura si fa quinta fondamentale del discorso, ritornante a più riprese, sul mito classico. E Damiani si avvicina a essa, sempre da prospettive diverse; e in questa speculazione febbrile, il pensiero corre sulla vita futura, non di un futuro anteriore ma remoto e completamente nuovo, così come sull’esiste-

re di prima della nostra vita: «Quando ero piccolo avevo le vertigini / a pensare dove ero stato prima / di nascere, mi vedevo come sospeso / nel non essere, un infinito abisso, / ora invece so che ho vissuto / tutto il tempo per tutto il tempo che è stato /…».

In questo viaggio-cammino, il linguaggio da monologante diviene dialogico, pieno di prospettiva e suggestione, con un tu altro ma sempre vicinissimo. Domande poste in forma piana, vanno a braccetto con risposte dubbiose, sul tempo, la sua percezione. Su questa riflessione sempre serrata su natura e tempo, ecco innestarsi quella sul girone famigliare, gli affetti, la loro futura mancanza. Parlano nel libro talune aporie: fugacità dell’esistenza individuale sì, ma dentro la grandezza inscalfibile dell’universo, di cui siamo partecipi. E per Damiani questo fatto-verità, nascita per la morte, è sacro, occorre non rifuggirlo ma contemplarlo (nella foto il dipinto di Gustav Klimt Vita e morte, 1910).

Tutta la speculazione del poeta, sembra nutrirsi di quel culmine classico di riflessione poetico-filosofica; ecco difatti soccorrere le immagini della classicità, in questo caso rappresentata dall’Eneide di Virgilio, quando nel libro quarto, si fa innanzi ad Enea, il padre Anchise, quasi a dilatare in un tempo ritrovato, il rapporto tra vivi e morti: «Non siete più, è vero, / ma questo non vuol dire che non ci siete, / devo sapere trovarvi, / intanto farmi vedere io a voi, /…». Damiani sembra suggerirci: siamo comunque dentro una grande incomprensibilità, accettarla è la vera grandezza.

Riprendendo il pensiero del filosofo Severino, pare al poeta che i sistemi del grande pensiero millenario vacillino e occorra andare alla ricerca di una nuova parola, che non sia mera equazione, legge, ma che venga dalla natura e dalla sua presenza metastorica. Una parola definitiva e comprensiva di tutte le altre, intuibile da ogni cultura e sensibilità. Nel tempo che viviamo, questa l’ultima grande intuizione di Claudio Damiani, l’eternità, se sappiamo sentirla, è contenuta in ogni attimo; cosa importa quindi vivere poco più o poco meno. E il libro sembra salutarci, quasi accomiatarsi sibillino: «… Abbiamo frammenti troppo piccoli, non vediamo l’immagine, non la montiamo nelle mente, … C’è solo data una realtà di fatto, momentanea. Ma non si sanno le cause, e i fini. Non si sa niente …».

Bibliografia

Claudio Damiani, Prima di nascere, Fazi Editore, Roma, 2023.

Paolo Di Stefano

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Le visioni interiori di Olga Fröbe-Kapteyn

Mostre ◆ Il Museo Casa Rusca di Locarno rende omaggio all’artista visionaria dai molteplici talenti e fondatrice del circolo Eranos

Donna colta, intraprendente, visionaria e dai molteplici interessi e talenti, Olga Fröbe-Kapteyn è stata una delle figure più stimolanti del panorama culturale della regione del Locarnese dello scorso secolo, già reso particolarmente ricettivo a modalità di vita e di pensiero avanguardistiche grazie alla significativa esperienza di Monte Verità.

Solo negli ultimi anni Olga Fröbe-Kapteyn è stata riscoperta come artistaricercatrice ante litteram

Nata a Londra nel 1881 da genitori olandesi, Fröbe-Kapteyn cresce in una famiglia benestante e moderna: la madre era una femminista impegnata nei movimenti di rinnovamento sociale, il padre un ingegnere con una grande passione per la fotografia. Dopo il trasferimento a Zurigo frequenta la Kunstgewerbeschule proseguendo poi la sua formazione in storia dell’arte presso l’Università della città. Cavallerizza, ciclista, sciatrice e alpinista (è stata tra le prime donne ad affrontare l’ascesa al Monte Bianco), si sposa nel 1909 con Iwan Fröbe, flautista e direttore d’orchestra austriaco di origini slovene, e due anni dopo si stabilisce nella vivace Berlino. Con lo scoppio del primo conflitto mondiale fa ritorno a Zurigo dove, nel 1915, dà alla luce due gemelle, una delle quali, affetta da un grave ritardo mentale, verrà uccisa dall’eugenetica nazista. Il marito, che era anche pilota dell’esercito austroungarico, muore nello stesso anno durante un’esercitazione aerea.

Dopo questo periodo difficile di sfide e dolori, Fröbe-Kapteyn inizia a frequentare il Sanatorio del Monte Verità e, affascinata dalla bellezza del Ticino, nel 1920 decide di trasferirsi qui stabilmente, andando a vivere con la figlia Bettina presso Casa Gabriella, a Moscia. Nella quiete di questi luoghi, Fröbe-Kapteyn pratica la meditazione, studia la psicologia e le filosofie orientali, dipinge. Sempre più presa da questi interessi, fonda il famoso circolo Eranos, così chiamato per rievocare lo spirito dei simposi platonici in cui si condividevano proposte e intuizioni. Gli incontri organizzati dalla «grande madre» di Eranos, questo era l’appellativo dato a Fröbe-Kapteyn, erano difatti improntati sul libero confronto delle ricerche sulla spiritualità umana, promuovendo il dialogo tra orientamenti umanistici e scientifici e tra le diverse culture.

Ciò che li rendeva significativi era proprio l’attitudine ad affrontare ogni tematica secondo una prospettiva interdisciplinare, ai tempi cosa del tutto inusuale se non addirittura guardata con sospetto dal mondo accademico. Il punto di vista olistico di Fröbe-Kapteyn anticipava così molte teorie che si sarebbero sviluppate decenni più avanti, rendendola un’antesignana delle idee legate all’evoluzione delle categorie dell’arte e del pensiero nel XX e XXI secolo.

Esoterismo, simbologia, teosofia, misticismo, alchimia, religione, astrologia e antichi misteri venivano sondati con metodo e scrupolosità, allo scopo di trovare una loro validità di fronte alla ragione: «Chiunque parli a Eranos esamina la ricchezza delle proprie visioni interiori e cerca di domarle dando loro forma scientifica», diceva Fröbe-Kapteyn ai suoi oratori. Non a caso Carl Gustav Jung, tra i più intransigenti quando si parlava di

approcci poco rigorosi, era anche tra i più assidui frequentatori dei convegni, dove poteva trattare argomenti complessi come il concetto di inconscio collettivo.

Parallelamente alle attività di Eranos, Fröbe-Kapteyn ha condotto un’intensa indagine pittorica, sfociata in numerose opere che hanno esplorato riflessioni spirituali e scientifiche, e un’ampia e minuziosa analisi di simboli e archetipi che l’hanno portata a collezionare una mole incredibile di immagini storico-culturali di tutto il mondo. A dispetto della sua intensa attività di pittrice e di studiosa nonché della sua pionieristica visione del sapere, Fröbe-Kapteyn è stata un personaggio sottovalutato per molto tempo, all’epoca ritenuto una sorta di outsider.

Solo negli ultimi anni è stata riscoperta come artista-ricercatrice ante litteram, complici le tendenze più attuali a considerare nuove forme di conoscenza orientate proprio verso una concezione globale. Forme di conoscenza che ammettono l’importanza di coinvolgere molteplici linguaggi e che, soprattutto in ambito artistico, riescono a cogliere con maggiore chiarezza il valore del legame tra creazione e spiritualità; una connessione, questa, che è stata fondamentale anche per lo sviluppo della corrente astratta nell’arte occidentale. In tale ottica non stupisce allora che Fröbe-Kapteyn sia stata una delle artiste incluse nella mostra Women in Abstraction, allestita nel 2021 al Centre Pompidou di Parigi e al Guggenheim di Bilbao, celebrata insieme ad altre colleghe per il suo contributo alla storia dell’astrazione. Nonostante questi primi riconoscimenti, Fröbe-Kapteyn non era ancora stata oggetto di una retrospettiva che presentasse la sua attività in maniera esaustiva. Ci ha pensato il Museo Casa Rusca di Locarno, sede più che appropriata per approfondire questa figura così rilevante per il patrimonio culturale del territorio. L’esposizione, curata da Raphael Gygax, si focalizza su quasi vent’anni di produzione artistica di Fröbe-Kapteyn, annoverando anche numerosi inediti, ed è stata l’occasione per pubblicare la prima monografia a lei dedicata, un bel volume edito da Casagrande che ripercorre le varie fasi del suo prolifico lavoro.

La mostra documenta anche la fascinazione della Fröbe-Kapteyn per le immagini e l’iconologia attraverso l’esposizione di alcuni estratti dal suo Archivio di Eranos per la ricerca sul simbolismo

Tra le opere esposte a Locarno c’è una selezione di Tavole di meditazione, realizzate tra il 1926 e il 1934, raffinati disegni geometrici dal linguaggio icastico che rispecchiano l’interesse di Fröbe-Kapteyn per la simbologia e il misticismo. Considerate dalla stessa artista come supporto alla contemplazione e come strumento di apprendimento visivo, queste tavole ci appaiono molto rigorose e sapientemente dipinte con l’utilizzo di pigmenti come il nero e l’oro (quest’ultimo spesso usato per lo sfondo, a richiamare le applicazioni medievali in foglia dorata) così come del blu simile al lapislazzuli e del rosso. Fröbe-Kapteyn vi rappresenta croci, calici, raggi, spade, scale, portali, tutti simboli stilizzati, appartenenti a culture religiose diver-

se e vicini alle tradizioni esoteriche e alla teosofia, capaci di dare origine a figure astratte che si fanno espressione di pura spiritualità e metafora della ricerca individuale e collettiva di un sé superiore.

Ecco poi le Visioni, disegnate da Fröbe-Kapteyn tra il 1934 e il 1938, in cui incominciano a comparire nuovi motivi scaturiti dall’approfondimento

Olga FröbeKapteyn, The Breath of Creation. (© Fondazione Eranos, Ascona)

della psicologia analitica e dal suo rapporto intellettuale con Jung. Si tratta di opere dallo stile più figurativo e dai colori più delicati che sviluppano soggetti quali la trasformazione del corpo umano in vegetale, animale o essere divino, l’unione degli opposti e il viaggio cosmico.

La mostra non manca poi di documentare la fascinazione della Fröb-

e-Kapteyn per le immagini e l’iconologia attraverso l’esposizione di alcuni estratti dal suo Archivio di Eranos per la ricerca sul simbolismo. Un lavoro, questo, avviato nel 1934 che ha impegnato l’artista per molti anni e che ha portato alla creazione di un registro fotografico tematico di migliaia di elementi, donato poi al Warburg Institute di Londra. Sempre sulla scia della stretta relazione con Jung, l’idea di Fröbe-Kapteyn di avviare l’ambizioso progetto di un archivio dedicato ai fenomeni dell’inconscio rispecchiava il suo obiettivo di «fornire la base per una nuova storia dell’arte scritta dal punto di vista della rappresentazione archetipica», precorrendo così i tempi anche in merito allo studio delle immagini, del loro significato culturale e del loro potere di plasmare la nostra concezione del mondo.

Dove e quando

Olga Fröbe-Kapteyn: artista-ricercatrice. Museo Casa Rusca, Locarno. Fino al 12 gennaio 2025. Orari: ma-do 10.00-16.30. www.museocasarusca.ch

Nello stesso periodo della rassegna dedicata a Olga FröbeKapteyn il Museo Casa Rusca ospita tre mostre monografiche degli artisti contemporanei Lucy Stein, Loredana Sperini e Florian Germann.

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Polvere

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Dove si accumula la polvere?

«Una quantità particolarmente elevata si accumula inosservata in luoghi che non vediamo immediatamente o che sono di difficile accesso», afferma Sibylle Wegmann, esperta di economia domestica e insegnante presso il settore Bäuerinnen & Gesundheit a Strickhof, il centro di competenza di Zurigo per l’economia agraria, alimentare e domestica. La polvere si trova nelle zone superiori, per esempio sugli armadi e sui mobiletti del bagno, sulle cornici delle finestre e dei quadri, ma anche nelle fessure e nelle aperture, come nei radiatori, nelle prese di corrente o nei battiscopa. La polvere si posa anche su tessili come tende, tappeti e paralumi.

2

Come si può rimuovere?

Secondo l’esperta di economia domestica, i piumini cattura polvere asciutti non sono una buona soluzione: «Non fanno altro che disperdere la polvere nell’aria e farla depositare altrove». Anche la scopa non è una buona idea: fa solo turbinare verso l’alto la polvere che poi si sparge per tutta la casa. È meglio usare un piumino antistatico o un panno leggermente umido: «L’umidità cattura la polvere», dice la Wegmann.

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La polvere è un problema?

Dove si accumula principalmente

la polvere e come pulire queste aree

Quali sono le aree che spesso vengono dimenticate quando si spolvera e come si può rimuovere al meglio la polvere

In linea di massima, la polvere non è dannosa per la salute, a patto che nessuno in casa soffra di allergia alla polvere. Può però diventare un problema in un sistema di ventilazione: «Una quantità eccessiva può far sì che il sistema di ventilazione smetta di funzionare correttamente», afferma la Wegmann. I filtri di ventilazione dovrebbero quindi essere aspirati o sostituiti regolarmente. 5

4

Come si forma la polvere?

La polvere di casa è composta da sostanze come fibre, capelli, polline, batteri o fuliggine. Le fibre si staccano continuamente dai vestiti e dai mobili. Inoltre, noi esseri umani perdiamo scaglie di pelle e, quando entriamo in casa, portiamo con noi minusco-

le particelle di sporcizia. «Quando arieggiamo le stanze, a seconda del periodo dell’anno e dell’ubicazione dell’appartamento, possono entrare in casa anche particelle di polvere come pollini, polveri sottili o altre particelle di abrasione provenienti dal traffico stradale», spiega la Wegmann.

Posso evitare la polvere?

La polvere può quindi essere evitata. Una regolare pulizia con l’aspirapolvere e l’aerazione della stanza possono essere d’aiuto. È anche una buona idea mettere meno soprammobili o oggetti simili, che tendono a raccogliere molta polvere. «Negli appartamenti con moquette, la maggior parte della polvere si accumula nel tappeto. Si ha quindi il vantaggio di avere meno polvere nell’aria; si consiglia di passare regolarmente l’aspirapolvere», spiega l’esperta di economia domestica.

Testo: Barbara Scherer

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Riflettori accesi sull’arte africana

Mostre ◆ Il Kunstmuseum di Basilea espone una collettiva di 120 artisti e 150 opere

Negli ultimi decenni le opere degli artisti di colore hanno iniziato a essere conosciute sia dentro che fuori dai confini del continente africano, e a essere oggetto di maggiore attenzione anche nel panorama artistico internazionale. Tuttavia, nonostante il crescente interesse e l’apprezzamento, l’arte contemporanea africana continua a essere meno nota e accessibile al grande pubblico rispetto all’arte occidentale e anche asiatica, non da ultimo considerata la ridotta possibilità di circolare degli artisti, anche nel loro continente.

Stabilito che l’arte contemporanea definita africana sia un tema trasversale, ovvero la somma di stili e produzioni nazionali del continente, più l’intera produzione degli artisti africani della diaspora, è dunque evidente come non si possa ancora parlare di una sufficiente presenza nei musei. Il Kunstmuseum di Basilea colma ora questa lacuna con When We See Us – Un secolo di pittura figurativa panafricana, un vero e proprio circuito panafricano allestito negli ariosi locali del «Gegenwart», l’edificio in riva al Reno.

«Noi siamo così come ci vediamo noi, e non come gli altri ci hanno sinora sempre rappresentato e giudicato»

Sui quattro piani del museo la mostra raduna oltre 150 opere – per lo più autoritratti e ritratti inediti – di 120 artisti. Si tratta di dipinti figurativi con un loro eloquente messaggio: «Noi siamo così come ci vediamo noi, e non come gli altri ci hanno sinora sempre rappresentato e giudicato». La mostra muove infatti dal punto di vista degli artisti stessi, ovvero da come loro si rappresentano, ritraggono il loro quotidiano e la loro vita (The Birthday Party è il titolo dell’opera di Esiri Erheriene-Essi, nella foto) e da come hanno vissuto la loro arte. Il titolo della mostra si ispira all’omonima miniserie Netflix (2019) della regista afroamericana Ava Vernay, nella quale si tematizza appunto come i giovani di colore vengano giudicati dai bianchi sempre e soltanto quali potenziali delinquenti, e per conseguenza immediatamente percepiti come una minaccia. Ecco che nel titolo il They (loro) diventa We (noi) proprio a significare il mutamento di prospettiva. Incessante è il confronto con sé stessi e con gli altri, con la propria origine, la propria terra e le proprie tradizioni, con la migrazione e con i com-

plessi meccanismi geopolitici spesso fonte di equivoci e incomprensioni. Un legittimo desiderio individuale e collettivo di elaborare un passato segnato da soprusi, discriminazioni, violenza e sottomissione, onde privilegiare il presente, sempre all’insegna della speranza di un futuro migliore. Una propria visione che a prescindere da ogni localismo e da appartenenze a diversificate narrazioni particolari, ha permesso agli artisti di ottenere una loro forte identità che è più che legittimo difendere.

La mostra è ripresa dallo Zeitz Museum of Contemporary Art Africa di Città del Capo – il più grande museo di arte contemporanea africana –e adattata per il Kunstmuseum con la collaborazione di Anita Haldemann, Maja Wismer e Daniel Kurjakovic, e anche grazie all’aiuto del Centro per Studi africani dell’Università di Basilea. Secondo Koyo Kouoh, direttrice del museo sudafricano e curatrice responsabile, e del suo team, l’intento dell’esposizione è soprattutto quello di mostrare entusiasmo e gioia (la Black Joy) di questi artisti, e lo si è fatto chinandosi soprattutto su opere che consentano di prescindere sia da traumi, violenza, fame e miseria, sia da conflitti armati, colonialismo e post colonialismo. Aspetti ed etichette che non possono e non devono essere la sola chiave di lettura dell’Arte africana, e da cui gli artisti contemporanei desiderano giustamente emanciparsi. Anche l’Africa folcloristica, quella dei safari, delle piume e di qualsiasi altro stereotipo sono dunque completamente assenti dalla mostra, per far posto ad aspetti più personali e intimistici. I lavori sono raggruppati in sei diversi settori e non seguono un filo cronologico né geografico: «Il Quotidiano», «Gioia e allegria», «Riposo», «Trionfo e emancipazione» «Sensualità», «Spiritualità».

Ci piace ricordare in particolare le opere presenti nel settore «Spiritualità», eloquente testimonianza di una spiritualità profondamente vissuta: per esempio lo straordinario The Dumb Oracle (2019) di Michael Armitage. Accompagnano l’interessante rassegna di Basilea, concerti, serate di letteratura, workshop, visite guidate, un bel catalogo e un’esaustiva audioguida.

Dove e quando

When We See Us, Kunstmuseum Basel, St. Alban-Graben 8, fino al 24 novembre 2024.

Orari: ma-do 11.00-18.00. www.kunstmuseumbasel.ch

In fin della fiera

Chat GPT e le telenovelas

Chat GPT, nelle sue varie versioni, è in grado di tradurre le battute di un film in 32 lingue diverse e di collocarle in sincrono sui movimenti labiali degli interpreti. Non solo: campionando le voci degli attori dell’originale può riprodurle fedelmente nel film tradotto. È un de profundis per adattatori e doppiatori. Quelli italiani sono considerati fra i migliori del mondo. Una quarantina di anni fa ho praticato per un po’ di tempo il mestiere di adattatore, come secondo lavoro, per fare fronte a spese impreviste. Un imprenditore torinese, proprietario di una emittente televisiva locale, era stato in Brasile e aveva acquistato i diritti per l’Italia di un certo numero di cosiddette «telenovelas». Si trattava ora di doppiarle in italiano. Chiuso in una saletta, trascorrevo parte delle ore notturne a far scorrere avanti e indietro il nastro del video su una moviola e, munito del testo della traduzione italiana delle battute, le aggiustavo per

Pop Cult

farle andare in sincrono. I primi piani abbondavano e su quelli bisognava lavorare di fino. In Brasile gli episodi erano andati in onda quasi in diretta, realizzati con un paio di settimane di anticipo e sovente le battute si riferivano a eventi recenti accaduti ovviamente in Brasile. La serrata discussione fra due protagonisti li vedeva seduti a un tavolino nel dehors di un grande bar, collocato nelle immediate vicinanze di un autodromo.

In Brasile erano più avanti di noi: registravano in tempo reale il gradimento non solo della puntata appena trasmessa, ma anche dei singoli interpreti e su quei dati modellavano i successivi copioni. Per dare voce al protagonista era stato scritturato il miglior doppiatore sulla piazza di Torino che aveva chiesto il favore, per evitare crisi in famiglia, di trovare un ruolo anche per sua moglie, brava attrice, ma negata al doppiaggio. Per contenere il danno le era stato affidato il ruolo di una ser-

Specchietti per le allodole

Uno degli effetti più palesi (e, ahimè, lamentati) legati alla capillare diffusione dei social network – nonché alla loro presenza sempre più pervasiva nelle nostre vite – sembra essere la progressiva perdita di contatto con la realtà a favore di un’immagine idealizzata e ingannevole del mondo, spesso plasmata ad arte da personaggi che, innalzatisi al rango di vere e proprie «leggende viventi», cercano di accumulare più followers possibili. Non solo: a volte, la dorata illusione propinata dall’ influencer di turno può anche servire a celare dinamiche ambigue, se non addirittura pericolose; come dimostrato dal recente scandalo che ha coinvolto l’ex modella Kat Torres, uno dei più seguiti fenomeni del web, condannata a otto anni per traffico di esseri umani – nello specifico, di alcune sue followers, le quali, attirate dalla diva con la prospetti-

Xenia

va di un’allettante offerta di impiego come assistenti personali, sarebbero state da lei sequestrate e ridotte a schiave al suo servizio.

Di fatto, passare dall’idolatria per un role model digitale alla condizione di sua vittima è forse più facile di quel che si pensi: il potere di suggestione che i nuovi miti virtuali esercitano sui loro «seguaci» è innegabile, soprattutto se, come nel caso della Torres, si mettono in campo armi suggestive come il concetto di empowerment femminile. Dotata di innegabile bellezza e fascino, Kat si è infatti presentata al suo pubblico come una self-made woman che, nonostante un’infanzia difficile nelle favelas brasiliane, aveva conquistato il sogno americano nella sua accezione più pura, raggiungendo il successo come fotomodella e documentando la propria parabola ascendente trami-

vetta che all’inizio aveva pochissime battute. Ma con le sue faccette, il birignao e leziosaggini varie aveva catturato il gradimento degli spettatori. Di conseguenza il suo ruolo di puntata in puntata si era allargato, obbligandoci a prevedere anelli separati per la signora e interminabili sedute. Per evitare rischi di censura, gli eventi narrati erano tutti collocati in ambiti famigliari. Una serie era incentrata sui casi di due fratelli che avevano destini opposti. Il primo aveva potuto studiare in scuole prestigiose, laurearsi e iniziare una brillante carriera d’avvocato. L’altro fratello, per scarse attitudini allo studio e per sopraggiunte difficoltà economiche della famiglia, aveva finito per fare il camionista e perciò aveva modi e linguaggio che mettevano in imbarazzo i suoceri dell’avvocato e sua moglie, una snob, che lo definiva «grossu». Problema: come rendere in italiano questa «grossezza»?

Per le parolacce non era ancora arrivato lo sdoganamento. Rifugiarsi in un dialetto regionale? C’era il rischio di offendere gli spettatori di quella regione. Alla fine abbiamo optato per un frullato dei vari gerghi in uso nelle varie regioni italiane. A un certo punto il mio datore di lavoro mi convoca nel suo ufficio: perché non ne produciamo una noi? Cosa ci vuole? Tu scrivi il soggetto poi lo facciamo sviluppare dai nostri ragazzi. Come si fa a dire no grazie? La mia precoce scuola di scrittura creativa era stato il negozio di parrucchiera di mia madre, ad Asti. Parcheggiato per interi pomeriggi in un angolo, seduto su una seggiolina, a studiare i manuali fondamentali: «Novella», «Confidenze», «Grand Hotel». E soprattutto ad ascoltare i discorsi delle clienti. C’erano due caschi e quando le due clienti affiancate e con la testa infilata dentro si confidavano segreti credendo di sussurrare, in realtà parla-

vano a voce alta. E io non mi perdevo una parola. Torniamo al mio soggetto: siamo in una città di provincia. Il protagonista è un giovane per bene, Tommaso, figlio unico di una coppia di artigiani. Telefona Felice Solaro, titolare di una grande azienda vinicola che lo invita a prendere il tè. C’è anche la moglie di Solaro. Felice: parliamo di nostra figlia Imelde. Siete stati compagni di liceo per cinque anni. Ti confidiamo un segreto: Imelde è affetta da una malattia del sangue, i medici le danno due anni di vita e noi vogliamo che lei in questo tempo sia felice. Sposala, falla felice, è figlia unica, ti nomino direttore generale della nostra azienda. Perché no? Lui ha una storia segreta con una supplente più vecchia di lui. La convincerà ad aspettare. Ma, trascorsi due anni, Imelde è più viva di prima, i medici si erano sbagliati. Cosa succede adesso? Il seguito alle prossime 24 puntate

te una seguitissima pagina Instagram improntata alla celebrazione di una vita patinata e all’insegna del lusso. Una popolarità che lo spirito imprenditoriale della Torres ha reso travolgente con il lancio della sua attività di «guida spirituale» sul web: come figura a cavallo tra life coach e guru dal sapore new age, le cui consulenze private raggiungevano cifre ragguardevoli, Kat ha presto accumulato un seguito di oltre un milione di aficionados, quasi interamente composto da donne desiderose di reinventare le proprie vite grazie agli insegnamenti di chi, ai loro occhi, rappresentava una sorta di messia digitale.

Tuttavia, dietro le quinte le cose erano alquanto diverse, dato che, al loro arrivo presso la casa statunitense della Torres, le ragazze da lei irretite con la proposta di un impiego trovavano un’abitazione sporca e caotica,

Lo spirito indomabile di Angelica Balabanoff

Del giovane Mussolini, Angelica Balabanoff diventa anche la libera compagna. Tuttavia dovette negarlo sempre – perfino in tribunale, quando, anni dopo, la propaganda fascista cercò di liquidare la dura ostilità di Balabanoff per il Duce come la vendetta di una donna frustrata. Alle donne sole, o il cui fascino non è fisico ma intellettuale, si infligge ogni derisione. Comunque è lei che con la sua sapienza politica e la fedeltà alle idee plasma l’oscuro militante di Forlì. «Se non l’avessi incontrata in Svizzera» – riconobbe Mussolini – «sarei rimasto un piccolo attivista di partito, un rivoluzionario della domenica». È una colpa che Angelica non potrà mai perdonarsi. Ormai politica di caratura europea, viaggia incessantemente, per raccordare i socialisti italiani, austriaci e tedeschi: ma quando nel 1909 i riformisti del PSI vincono le elezioni con un avanzato programma sociale, rientra in Italia. Tuttavia è marxista e rifiuta di collaborare col governo borghese. Dopo la guerra di Libia, nel 1912, la sua fazione rivoluzionaria diventa maggioritaria ed entra, con Benito Mussolini, nella direzione nazionale del partito. Quando gli propongono di dirigere «L’Avanti!», lui accetta, ma a condizione che anche Balabanoff metta la sua firma. Angelica acconsente, per disciplina di partito. Lavorano insieme fino a notte in una stanza di via san Damiano: le loro scrivanie si fronteggiano. Lei gli revisiona gli editoriali (considera debole la sua cultura rivoluzionaria), ma in realtà è lui che si serve del prestigio della russa per attuare il suo disegno di emarginare i riformisti e aprire il partito ai sindacalisti rivoluzionari e agli anarchici. L’alleanza presto si scioglie: non solo per divergenze politiche. Mussolini

viene invitato nei salotti di Milano: il «selvaggio» direttore de «L’Avanti!» affascina. Più di tutti, la giovane e ambiziosa Margherita Sarfatti, colta esponente della borghesia ebraica veneziana. Mussolini comincia a frequentarla. Le due donne si detestano. Nella biografia Dux, Sarfatti definì Angelica «piccola e deforme», «dal misero faccino grigio», «squilibrata e fanatica» e, «zitella». Tuttavia rese omaggio alla sua intelligenza e al potere magnetico della sua oratoria. Balabanoff lasciò il giornale, e la Prima guerra mondiale la divise per sempre da Mussolini: lei rimase pacifista e internazionalista. Nel 1917 aderì al Partito Operaio Socialdemocratico Russo Bolscevico, e riuscì a rientrare in patria per contribuire alla costruzione dello stato rivoluzionario. Nel 1919-20 fu scelta come segretaria della Terza Internazionale.

assai lontana dall’immagine promossa sui social network. Sfacciatamente sfruttate da una datrice di lavoro dittatoriale e instabile, almeno due delle sventurate sarebbero state da lei costrette alla prostituzione, scomparendo a tutti gli effetti dalla circolazione per essere infine rintracciate soltanto quando la Torres è stata contattata dalle autorità. Oggi in prigione in Brasile, la sedicente «influencer» coltiva tuttora un’alta opinione di sé, al punto da non poter nemmeno concepire alcuna sorta di colpa personale – mentre le fan, ormai disilluse, cercano di scendere a patti con la dura realtà.

L’insegnamento che si può trarre da una storia tanto sordida appare, purtroppo, assai rilevante in un’epoca come la nostra, in cui la reputazione personale si basa in gran parte sull’apparenza e in cui chiunque può

costruirsi un’immagine su misura al fine di incantare le masse; e il rischio si fa ancora più forte nel caso in cui entri in gioco il cosiddetto «transfert» psicologico, inevitabilmente destinato a prodursi tra le persone bisognose di supporto emotivo e la figura di riferimento a cui decidono di affidarsi – in un meccanismo in questo caso non troppo dissimile da quello che si produce all’interno delle sette. Forse, l’unico antidoto a un simile rischio risiederebbe nella volontà di sviluppare un forte senso critico nei riguardi di tutto quanto viene mostrato e, soprattutto, esaltato e mitizzato sui social network, così come dei personaggi che tramite essi ricercano notorietà e ricchezza – soprattutto perché il caso di Kat Torres dimostra come il reato di plagio, troppo spesso sottovalutato anche dalla legge, sia, in realtà, sempre dietro l’angolo.

Ma la Repubblica dei Soviet di Lenin e Trotzkij non somigliava allo stato proletario che Balabanoff sognava. Lenin aveva grande rispetto per lei, ricambiato: ma non riuscì a trattenerla. Angelica aveva accettato la violenza e il terrore rosso, indispensabili al successo della rivoluzione. Anche suo fratello, in Ucraina, era stato assassinato, né lei usò il suo potere per aiutare i parenti, ridotti alla fame. Ma la brutale repressione della rivolta di Kronstadt (1921) e la distruzione del partito socialista italiano per volontà dei bolscevichi spensero le ultime illusioni: chiese di lasciare la Russia. Lenin glielo concesse. L’attendeva il più duro esilio. L’amata Italia, dove il fascista Mussolini era ormai al potere, le era interdetta. Approdò in Francia – in miseria: dal 1917 non percepiva più il vitalizio, e non aveva un lavoro. Nemmeno il denaro per mangiare o affittare una stanza.

Continuò l’attività fra gli esuli, sempre più sconsolati, e per giunta infiltrati da spie fasciste. Nel 1935 emigrò in America. Scrisse un pamphlet contro il Duce, profetizzando – invano, come Cassandra – la distruzione dell’Europa.

In Italia è rientrata dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il socialismo americano, democratico e pragmatico, l’aveva vaccinata contro il comunismo. Scommise su un giovane politico, Giuseppe Saragat. Lo seguì nel nuovo partito, ma poi si sentì tradita anche dal suo ultimo pupillo. Era ormai una sopravvissuta. Nessun editore importante volle ristampare le sue Memorie di una rivoluzionaria. Il suo biografo, Amedeo La Mattina, racconta che la sua ultima parola fu «mamuška»: mammina. Non una richiesta di perdono. Ma un ritorno alla lingua perduta: a casa… (Seconda puntata – fine)

di Bruno Gambarotta
di Benedicta Froelich
di Melania Mazzucco

Settimana Migros Approfittane e gusta

Gli

invece di 1.50

Lattuga cappuccio rossa, rucola, bietola, spinaci 2.95

Migros Ticino
Extra kiwi Gold Nuova Zelanda, al pezzo
Insalata sorpresa 160 g, (100 g = 1.84)
Fagiolini Svizzera, sacchetto da 500 g, (100

Madeleine Petit Bonheur con burro svizzero o gocce di cioccolato, per es. con burro svizzero, 220 g, 2.40 invece di 2.95, prodotto confezionato, (100 g = 1.07)

Migros Ticino

1.75

2.95

5.60

Migros

Pesce e frutti di mare

Un’ottima pesca

Migros Ticino
Chinese

9.95

Orata reale M-Classic, ASC d'allevamento, Grecia, in conf. speciale, 720 g, (100 g = 1.38) 42%

invece di 17.25

Per l'aperitivo: salare e friggere in olio d'oliva

6.90

invece di 9.90

Gamberetti interi M-Classic, cotti, ASC 350 g, in self-service, (100 g = 1.97) 30%

Filetti di tonno freschi (pinne gialle) p. es. M-Classic, pesca, Oceano Pacifico occidentale , per 100 g, 4.55 invece di 5.70, in self-service 20%

31%

13.95 invece di 20.30

Filetto dorsale di merluzzo M-Classic, MSC pesca, Atlantico nordorientale, in confezione speciale, 360 g, (100 g = 3.88)

Tutti i sushi refrigerati e tutte le specialità giapponesi refrigerate (senza articoli fatti in casa), per es. wrap di sushi al salmone affumicato, 240 g, 6.– invece di 7.50, in self-service, (100 g = 2.50) 20%

20%

Pesce fresco Anna's Best in vaschetta per la cottura al forno per es. filetto di salmone al limone e coriandolo, ASC, d'allevamento, Norvegia, 400 g, 13.55 invece di 16.95, in self-service, (100 g = 3.39)

conf. da 2

20%

Snack o menu, Anna's Best Dim Sum Sea Treasure, Vegetable Spring Rolls o Chicken Satay, per es. dim sum, 2 x 250 g, 11.– invece di 13.80, (100 g = 2.20)

Migros Ticino

1.50

2.40

Asiago pressato DOP per 100 g, prodotto confezionato 15%

1.70 invece di 2.–

conf. da 6 –.30 di riduzione

Yogurt Saison e M-Classic disponibili in diverse varietà, per es. strudel di mele/prugne e cannella/castagne, Saison, 6 x 200 g, 4.50 invece di 4.80, (100 g = 0.38)

20x CUMULUS Novità

2.80 Philadelphia Milka 175 g, in vendita nelle maggiori filiali, (100 g = 1.60)

Snack al latte refrigerati Kinder

Fetta al Latte, Pinguì, Choco fresh e Maxi King (articoli singoli esclusi), per es. fetta al latte, 5 pezzi, 140 g, 1.40 invece di 1.70, (100 g = 1.00) 15%

conf. da 3 20%

Caffè Latte Emmi macchiato, cappuccino o double zero, per es. macchiato, 3 x 230 ml, 5.– invece di 6.30, (100 ml = 0.72)

cioccolato al latte delle Alpi Senza zuccheri aggiuntilattosioné

1.45 Oh! High Protein Mousse, aha!

senza zuccheri aggiunti, né lattosio, 100 g

2.55

senza zuccheri aggiunti, né lattosio, 225 g, in vendita nelle maggiori filiali, (100 g = 1.13) 20x

Oh! High Protein Müesli Crunchy Vanilla, aha!

Migros Ticino

Prodotti freschi e pronti

Non devi per forza cucinare sempre tu

Fiori o gnocchi, Anna's Best, refrigerati

fiori al limone e formaggio fresco o gnocchi alla caprese, in confezioni multiple, per es. fiori, 4 x 250 g, 11.75 invece di 19.80, (100 g = 1.18)

Formato piccolo, pratico fuori casa

20x CUMULUS

Novità

–.95

Salsa per insalata Balsamico Frifrench 60 ml, in vendita nelle maggiori filiali, (100 ml = 1.58)

20x CUMULUS Novità

5.70

(100 g = 2.48)

5.70

4.95

Best

g, (100 g = 2.83)

Ricchi condimenti

Le miscele di spezie Just Spices vengono create da esperti di alimentazione e chef. Tutte le ricette contengono solo ingredienti naturali, niente additivi. Queste miscele sono perfette sia per chi in cucina è agli esordi sia per chi ha già una bella esperienza, perché aggiungono il giusto tocco di sapore a qualsiasi piatto. E grazie al bel design dei contenitori, sono anche perfette come regalo.

Praticità e bontà, di qui e d’altrove

pronto con patate svizzere

30%

Tutte le salse Salsa all'Italiana per es. al basilico, 250 g, –.95 invece di 1.35, (100 ml = 0.38)

a partire da 2 pezzi 20%

Tutto l'assortimento di purea di patate Mifloc, M-Classic per es. 4 x 95 g, 4.– invece di 5.–, (100 g = 1.05)

Tutto l’assortimento Knorr per es. brodo di verdure, dadi, 109 g, 3.20 invece di 4.–, (100 g = 2.94) 20%

a partire da 2 pezzi 20%

Mini pizze Piccolinis Buitoni prodotto surgelato, prosciutto, mozzarella e 3 formaggi, 9 pezzi, 270 g, 4.– invece di 4.95, (100 g = 1.47)

a partire da 2 pezzi 30%

Presto fatto e senza macchina

Nescafé Gold de Luxe o Finesse in vasetto da 200 g e 100 g, per es. Gold de Luxe, 200 g, 9.80 invece di 13.95, (100 g = 4.88)

Nocciolata bio 650 g, (100 g = 1.35) 36%

8.80 invece di 13.90

a partire da 2 pezzi 20%

Tutte le miscele per dolci, i dessert in polvere e i Cup Lovers, Homemade per es. brownies Homemade, 490 g, 5.– invece di 6.20, (100 g = 1.01)

a partire da 2 pezzi

30%

Coca-Cola e Fanta in confezioni multiple, 6 x 500 ml, 6 x 330 ml, 6 x 1,5 l o 4 x 900 ml, per es. Coca-Cola Classic, 6 x 1,5 litri, 9.90 invece di 14.10, (100 ml = 0.11)

La nostra marca propria conveniente ma sfiziosa

Bibite per aperitivo della marca Apéritiv disponibili in diverse varietà, per es. acqua tonica, 6 x 500 ml, 5.25 invece di 7.50, (100 ml = 0.18)

Birra Feldschlösschen senza alcol Lager e limone, 24 x 500 ml, per es. Lager, 31.95 invece di 48.–, (100 ml = 2.66)

invece di 6.50

9.55 invece di 17.95

d'arancia M-Classic 10 x 1 litro, (100 ml = 0.10)

6 x 1,5 litri, (100 ml = 0.04)

4.40 invece di 6.60

Smoothie e succhi, Innocent disponibili in diverse varietà, per es. succo d'arancia, 900 ml, 3.95 invece di 4.95, (100 ml = 0.44)

minerale San Pellegrino 6 x 1,25 litri, (100 ml = 0.06)

pezzi
conf. da 24

All’insegna della croccantezza

Biscotto con ripieno cremoso alla Nutella

4.80

Biscuits 304 g, (100 g = 1.58)

Coaties o Crunchy Clouds, Frey disponibili in diverse varietà e confezioni speciali, per es. Coaties Original, 1 kg, 11.– invece di 13.90, (100 g = 1.10) 20%

da 2 25%

Connaisseurs, Mini Pralinés o Bâtons Kirsch, Lindt disponibili in diverse varietà, per es. Connaisseurs, 2 x 230 g, 29.90 invece di 39.90, (100 g = 6.50)

Tutti i biscotti in rotolo M-Classic e Migros Bio per es. biscotti Rädli M-Classic, 210 g, 1.45 invece di 1.95, (100 g = 0.69) –.50 di riduzione

8.55 invece di 11.90

Ice Cream o Mars Ice Cream prodotto surgelato, in conf. speciale, per es. Snickers, 12 pezzi, 603,6 ml, (100 ml = 1.42) 28%

Tutte le noci e le miscele di noci, Sun Queen Apéro e Party, salate e tostate per es. noci di macadamia Sun Queen, 125 g, 3.50 invece di 4.40, (100 g = 2.80) 20%

Tutte le tortine e gli strudel, M-Classic prodotto surgelato, per es. tortine al formaggio, 4 pezzi, 280 g, 2.25 invece di 3.20, (100 g = 0.80)

Per la bellezza e il benessere

LO SAPEVI?

L'ampia gamma di prodotti Sanactiv previene e contrasta i disturbi più frequenti come raffreddamenti, mal di stomaco o secchezza oculare. Questi prodotti, a base di materie prime pregiate e rigorosamente controllati, aiutano ad affrontare in forma e in salute l'autunno.

Prodotti per la pulizia del viso Nivea per es. salviettine struccanti per la pelle secca e sensibile, 2 x 25 pezzi, 6.– invece di 8.60, (1 pz. = 0.12)

Per diversiduetipi di pelle

Novità

4.90

Salviettine detergenti per il viso I am per pelli normali o secche, per es. per pelli secche, 2 x 25 pezzi, (1 pz. = 0.08)

Tutto l'assortimento per l'igiene intima e l'incontinenza femminili (confezioni multiple e sacchetti igienici esclusi), per es. Secure Ultra Normal FSC®, 20 pezzi, 4.65 invece di 6.20, (10 pezzi = 2.33)

In offerta anche prodotti per l'incontinenza maschile

Pastiglie al muschio islandese Sanactiv con vitamina C, 36 pezzi, (1 pz. = 0.12)

I am per es. Intense Moisture, 3 x 250 ml, 4.– invece di 5.85, (100 ml = 0.53)

Tutto l'assortimento di prodotti per la cura del viso e dei capelli (esclusi M-Classic, M-Budget, Kérastase, Redken, Olaplex, Kevin Murphy, confezioni da viaggio, confezioni multiple, spazzole e accessori), per es. crema da notte Zoé Gold, 50 ml, 14.– invece di 19.95, (10 ml = 2.79)

Prodotti per la cura dei capelli pH Balance, Belherbal, Elseve, Gliss Kur o Syoss in confezioni multiple, per es. shampoo per capelli grassi Belherbal, 3 x 250 ml, 9.– invece di 12.90, (100 ml = 1.20)

Tutto l'assortimento per divertirsi in acqua Tinti per es. Bagno benessere frizzante Knister, il pezzo, 2.80 invece di 3.95

Per chi ama pulizia

i pannolini Pampers (confezioni multiple escluse), per es. Premium Protection, tg. 1, 24 pezzi, 6.55 invece di 9.75, (1 pz. = 0.27)

Tutto l'assortimento di alimenti per gatti Mio per es. menu paté con vitello e agnello, 4 x 85 g, 1.85 invece di 2.70, (100 g = 0.54)

Prezzi imbattibili del weekend

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Pomodorini ciliegia a grappolo

Svizzera/Italia/ Paesi Bassi, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.69), offerta valida dal 19.9 al 22.9.2024

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Salmone affumicato Scotland d'allevamento, Scozia, in conf. speciale, 260 g, (100 g = 3.83), offerta valida dal 19.9 al 22.9.2024

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Tutto l'abbigliamento per bebè e bambini e tutte le scarpe per bambini incl. calzetteria, biancheria da giorno e da notte (escl. articoli SportX e Hit), per es. felpa verde per bebè, il pezzo, 12.55 invece di 17.95, offerta valida dal 19.9 al 22.9.2024

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