Azione 39 del 23 settembre 2024

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edizione 39

MONDO MIGROS

Pagine 4 / 6

SOCIETÀ Pagina 5

Nelle realtà urbane la pianificazione si adatta ai cambiamenti climatici: il progetto delle città spugna

A colloquio con Enrico Cano, grande fotografo di architettura e appassionato di natura

TEMPO LIBERO Pagina 13

Sommersi dall’ecoansia

ATTUALITÀ Pagina 21

A Berna si discute del futuro dell’esercito, soprattutto dei trenta miliardi per finanziarlo

L’autore americano Percival Everett riscrive il capolavoro di Mark Twain da una nuova prospettiva

CULTURA Pagina 33

Le inondazioni in un pianeta alieno

La lingua francese possiede un aggettivo che l’italiano non conosce: nombriliste, per il quale proponiamo la traduzione «ombelicocentrico». La parola non esiste (non ancora), ma il significato è molto chiaro: indica chi si concentra solo su sé stesso, credendosi – come cantava Jovanotti – l’«ombelico del mondo».

Scartabellando tra i dizionari abbiamo scoperto che in realtà anche in italiano c’è un termine che rinvia al medesimo concetto, ma in chiave mistica: onfaloscopia – dal greco onfalo (ombelico) e scopia (osservazione) – che indica la contemplazione del proprio ombelico come aiuto alla meditazione.

Perdonate la verbosa premessa, ma quando nei giorni scorsi ho scoperto, quasi per caso, che da inizio settembre alcuni Paesi del Sahara (Mali, Niger, Ciad) sono sommersi dalle inondazioni ho pensato che i nostri media sono «ombelicocentrici» e non sanno guardare al di là del proprio ristretto raggio d’interesse simbolico. L’America,

lontana 7 mila chilometri, è percepita vicina; l’Africa, che dista neanche 150 km dall’Europa, resta un pianeta alieno privo di interesse. Ci inquietano, giustamente, le emergenze in Emilia Romagna così come in Austria e nell’Est dell’Europa, che hanno causato morti e migliaia di sfollati. Ma scommetto che di quest’iconica notizia e della sua tragica contabilità (oltre mille i decessi, e 3 milioni di persone sfollate) pochi erano e sono al corrente. Eppure, dovremmo balzare sulle sedie: il Sahara nel nostro immaginario rappresenta il deserto per antonomasia, la quintessenza dell’arsura sterminatrice. Se c’è una prova lapalissiana del cambiamento climatico, sono i Paesi del deserto sommersi dall’acqua di queste settimane. Certo, questa è anche la stagione delle piogge, ma così abbondanti non si erano mai viste da almeno quattro decenni. I video pubblicati online dal settimanale «Jeune Afrique» raccontano storie strazianti: nel crollo di una moschea e di alcune case a Zinder, nel

nord del Niger, sono morti quattrodici bambini; 411 mila ettari di campi agricoli sono stati inondati, molti ospedali non possono assistere le vittime perché resi inagibili dall’acqua. Nello stesso Paese migliaia di case sono state sommerse dal rapido innalzamento del livello dell’acqua causato dallo scoppio della diga di Alau, sul fiume Ngadda. «Disastri a cascata, commenta la «Jeune Afrique», che stanno causando gravi perdite umane ed economiche, in particolare per l’agricoltura. Questi record, che potrebbero diventare la norma con l’accelerazione del riscaldamento globale, confermano le proiezioni fatte dal Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico nello scenario basato su un riscaldamento globale di +1,5°C». «Le forti piogge nello Stato di Borno hanno lasciato centinaia di migliaia di bambine e bambini senza riparo, acqua pulita, cibo, assistenza sanitaria e istruzione, ed esponendoli a un rischio ancora più grande di contrarre malattie come il

colera trasmesse dall’acqua o da altri vettori», ha dichiarato Save the Children. Succede vicino a casa nostra, dopo un’estate inaugurata dalla tragedia climatica della Vallemaggia e del Moesano, ma sembra invisibile ai più anche se le pazzie del maltempo accomunano Paesi ricchi e Paesi poveri, fermo restando che per questi ultimi i mezzi per uscirne sono molto più ridotti.

Non stupisce, allora, che i giovani si sentano oppressi dall’ecoansia, come scrive a pag. 7 Maria Grazia Buletti: pare che il 39% di loro sostenga di non voler fare figli per non lasciarli in balia di un mondo rovinato dall’uomo. Un’altra significativa parte della popolazione, invece, non teme le catastrofi, al contrario le nega, ritenendo gli allarmi climatici la più immensa bugia dei nostri tempi. Hanno il paraocchi nel cervello. Se non vedono le inondazioni di casa propria quando mai si accorgeranno di quelle della «lontanissima» Africa?

Maria Grazia Buletti Pagina 7

Un circolo virtuoso che fa bene al Ticino

In azienda ◆ A colloquio con Claudio Paganetti, responsabile, fra le altre cose, del servizio di reclutamento di Migros Ticino

Il Dipartimento delle Risorse Umane di Migros Ticino, di cui Rosy Croce è la responsabile dal 2002, recentemente si è visto nuovamente insignito del label Friendly Workspace (luogo di lavoro amichevole, ndr), questo a comprova di un impegno vissuto come una costante, e mai dato per scontato. Il servizio di reclutamento del personale, di responsabilità di Claudio Paganetti, è un settore strategico per il futuro dell’azienda. Dei circa 1300 collaboratori attualmente impiegati da Migros Ticino, oltre il 90% è residente in Ticino, in quella che vuole essere una consapevole scelta di interazione con il territorio. La fidelizzazione passa infatti da diversi elementi: il legame con il luogo in cui si vive (che si esprime anche su un altro piano, quello dei Nostrani del Ticino), la vicinanza al posto di lavoro e le possibilità di crescita professionale all’interno della regione in cui si vive. Claudio Paganetti, Responsabile del personale a Migros Ticino, spiega le scelte e le motivazioni che guidano l’azienda nell’ambito del reclutamento.

La chiave per ottenere un colloquio risiede nell’accuratezza con cui si prepara il proprio dossier

Migros Ticino privilegia apertamente l’assunzione di persone residenti in Ticino, come è nata questa scelta?

L’idea nacque nei primi anni 2000 con il progetto «In Ticino per il Ticino», nel tempo tramutatosi in «Nostrani del Ticino». Io mi occupo del

reclutamento dal 2009 e, insieme al mio team, sin dall’inizio abbiamo gestito le assunzioni dando priorità alla manodopera locale.

Quali effetti si intende raggiungere attraverso questa scelta?

Gli effetti di una selezione del personale che favorisca la manodopera locale sono molteplici. E ne individuo tre in particolare: si stimola l’economia locale, permettendo così al denaro di circolare sul territorio, si avvicinano le persone all’azienda – anche i nostri oltre 60 apprendisti sono tutti residenti in Ticino – e si migliora l’attrattività di Migros Ticino, che da 40 anni applica uno dei migliori Contratti Collettivi di Lavoro nazionale del settore.

Riscontrate delle difficoltà nel restare coerenti con questa scelta?

«Stringere il mercato del lavoro» per un recruiter (reclutatore, ndr) rappresenta una difficoltà importante. Permettetemi un parallelismo sportivo: è come se cercassimo i migliori giocatori della nostra squadra limitandoci al mercato svizzero. Come selezionatori, quindi, oltre a inserire nel team «la persona giusta», dobbiamo trovare profili che abbiano il potenziale di crescita in prospettiva.

Migros Ticino può fregiarsi di una grande fidelizzazione da parte del personale (che resta in media per circa 16 anni), crede sia dovuto anche a scelte di questo tipo?

La permanenza in un’azienda (retention) è un segnale estremamente positivo e si collega al punto precedente: chi ha possibilità di trovare il

giusto bilanciamento «vita privata / vita professionale» ed è trattato con rispetto, rimane volentieri presso lo stesso datore di lavoro.

Migros Ticino offre ampie possibilità di sviluppo, capillarità di sedi sul territorio ed è sempre pronta a valutare richieste specifiche da parte dei collaboratori (es. modifiche dei tassi occupazionali, cambio di funzioni, spostamenti di filiale ecc…).

La percentuale di persone disoccupate in Ticino è sopra la media nazionale, voi collaborate anche con gli URC?

Collaboriamo con il «servizio aziende» dell’Ufficio regionale di collocamento dal momento della sua nascita, circa dieci anni or sono. La comunicazione è molto produttiva e

ci consente di essere un «attore» importante anche nell’aiuto al collocamento, ad esempio organizzando dei periodi di Pratica Professionale.

In generale, quali candidati cerca la vostra azienda?

Facile rispondere. L’acronimo di Cooperativa Migros Ticino è CMTI, e corrisponde proprio a ciò che cerchiamo: C come Competenza, per svolgere al meglio il proprio lavoro, M come Motivazione, la «benzina» di tutto ciò che si fa, T come Talento, per poter progredire e migliorare nel tempo, e infine I come Identificazione, nella nostra azienda e nel territorio.

Come ci si candida a Migros Ticino?

È sufficiente inoltrare la candidatura

tramite sito internet www.migrosticino.ch (sezione Risorse Umane) oppure visitare «Migros mondo del lavoro» per trovare le posizioni disponibili

Da specialista del ramo, quali consigli può dare a chi vuole presentare una candidatura?

Prima di tutto occorre preparare un buon dossier: il modo in cui si presentano curriculum vitae, lettera di candidatura, attestati di formazione e certificati di lavoro, è la chiave per aprire la porta del colloquio. Durante l’incontro non ci sono regole precise, è importante essere sé stessi, mettendo però in evidenza i punti forti in relazione alla posizione per la quale ci si candida; questo è sempre il sistema migliore per essere selezionati.

Claudio Paganetti, responsabile servizio reclutamento a Migros Ticino.

SOCIETÀ

Salute mentale

Il riscaldamento globale e il degrado ambientale fanno crescere l’ecoansia, un disagio emotivo che condiziona la vita quotidiana

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Nasce Il caffè dei genitori

Il nostro appuntamento mensile con Il caffè delle mamme cambia nome ma rimane uno spazio di riflessione e condivisione

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Trasporti ferroviari

Il Tunnel di base del San Gottardo ha da poco riaperto, durante i mesi di chiusura la linea di montagna se l’è cavata egregiamente

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La città si fa spugna e diventa verde

Ambiente ◆ Nelle realtà urbane si cerca sempre più di adattare la pianificazione ai cambiamenti climatici

La città spugna è un concetto pianificatorio di cui anche il pubblico sente sempre più sovente parlare. Permettere alle realtà urbane di assorbire e immagazzinare localmente l’acqua piovana è la strategia di fondo per prevenire le inondazioni in caso di forti piogge, favorendo nel contempo la diffusione del verde e la qualità di vita. Piccoli e grandi progetti tendono oggi a tenere maggiormente in considerazione questo principio che associa il sottosuolo all’immagine di una spugna. Il cambiamento climatico spinge d’altronde in questa direzione. Per favorire le buone pratiche, accompagnare Città e Comuni nella progettazione adattata al clima del futuro e riunire norme concrete, l’Associazione svizzera dei professionisti della protezione delle acque (VSA), con sede a Glattbrugg nel Canton Zurigo, ha lanciato all’inizio del 2022 il progetto strategico Città spugna rivolto agli specialisti dei settori interessati. Sullo sviluppo di questa iniziativa e i relativi esempi a livello cantonale e svizzero, abbiamo interpellato la capoprogetto Silvia Oppliger e Raffaele Domeniconi, coordinatore dell’Ufficio della Svizzera italiana della VSA.

Nato come progetto triennale, Città spugna proseguirà a partire dal 2025 sotto forma di Rete città spugna al fine di permettere alle buone pratiche avviate e raccolte in questi anni di diffondersi su scala più ampia. «Una delle sfide della città spugna – spiega Silvia Oppliger – è quella di necessitare di un approccio multidisciplinare. Abbiamo quindi cercato di lavorare con i diversi professionisti coinvolti: architetti, ingegneri, architetti paesaggisti, costruttori delle strade. Le sensibilità divergono, ma la consapevolezza di dover agire per adattare la pianificazione ai cambiamenti climatici sta aumentando. Con la piattaforma informativa www.sponge-city.info, lanciata all’inizio di quest’anno e che a breve sarà disponibile anche in italiano, desideriamo aumentare la visibilità delle buone pratiche e degli standard relativi alla gestione quasi naturale dell’acqua piovana». Nella Svizzera italiana la VSA è presente dal 2012 con una sede a Bellinzona che, come il resto dell’associazione, si occupa dell’intero ciclo dell’acqua. Riguardo al progetto Città spugna, Raffaele Domeniconi spiega come anche in Ticino sia oggi necessario fare un passo indietro rispetto ai processi che hanno caratterizzato la crescente urbanizzazione con conseguente separazione della vita dell’uomo da quella della natura. «Per l’acqua – precisa il rappresentante della VSA – basti pensare alla costruzione degli argini dei fiumi o alla bonifica del Piano di Magadino.

Oggi si vuole invece fare in modo che l’acqua meteorica rimanga nell’insediamento urbano dove si cerca di smaltirla in sintonia con quanto avviene in natura. Si hanno così meno problemi a livello di deflussi nelle tubature e più possibilità di assicurare aree verdi alla città. Il problema riguarda sempre più anche le zone agricole, tanto da parlare di campagna spugna, perché i terreni sfruttati intensamente e lavorati con le macchine hanno perso la capacità di assorbire e drenare l’acqua».

L’Associazione svizzera dei professionisti della protezione delle acque promuove un approccio multidisciplinare per una migliore gestione dell’acqua piovana in città

La città spugna promuove superfici permeabili che permettono l’infiltrazione dell’acqua (il terreno assorbe l’acqua come una spugna), bacini per favorire questo processo, vasche per la ritenzione temporanea e altre per immagazzinare l’acqua piovana da poi utilizzare ad esempio per l’irrigazione. L’inverdimento degli edifici (tetti in primis) e in generale un’importante presenza della vegetazione fanno pure parte dei principi della città spugna. Favoriscono, oltre all’ombra, l’evaporazione e di conseguenza un abbassamento della temperatura. Degli spa-

zi verdi beneficiano sia la biodiversità, sia la popolazione.

La sfida principale nel realizzare questi interventi è legata al territorio già fortemente urbanizzato. Precisa Raffaele Domeniconi: «È necessario approfittare del rifacimento di grandi comparti, come lo sono al momento le ex Officine a Bellinzona e Cornaredo a Lugano, per promuovere questa visione da integrare a livello di progettazione. Da citare, inoltre, un esempio in cui la sensibilità del committente privato ha permesso di realizzare, con l’adesione del progettista e il sostegno del Comune, un complesso innovativo che si auspica possa fare da apripista per altre costruzioni o ristrutturazioni di edifici. Mi riferisco al Parco Casarico a Sorengo, dove la gestione dell’acqua meteorica e la vegetalizzazione del quartiere sono state considerate sin dalle prime tappe della progettazione. È essenziale avere sin dall’inizio una visione globale comprensiva pure dei costi di manutenzione. Quest’ultimo è un aspetto che richiede pianificazione e coordinazione degli interventi indispensabili per garantire l’effetto spugna a lungo termine». Infine, non vanno trascurate le possibili criticità, come il problema delle zanzare, ma Raffaele Domeniconi e Silvia Oppliger spiegano che questi problemi vanno affrontati e analizzati con gli esperti del caso per poi trovare le soluzioni adeguate. Il progetto della VSA è rivolto agli

specialisti in ambito pianificatorio, edificatorio e di gestione delle acque allo scopo di muovere i primi passi sul territorio. Sensibilizzare il pubblico è però un altro aspetto rilevante, perché la città spugna migliora la qualità di vita, cosa che può spingere la popolazione a sollecitare le autorità politiche cui spettano le decisioni strategiche. Iniziative puntuali ispirate al concetto verde-blu (vegetazione e acqua), come le rinaturazioni o il rifacimento della superficie di un parcheggio per renderla permeabile, sono contributi che vanno nella medesima direzione della città spugna.

La piattaforma spongy-city.info documenta oltre 30 diversi progetti realizzati nel nostro Paese attraverso i quali si mostra l’ampia gamma in cui questo principio può essere attuato. «Oltre alle buone pratiche – precisa la capoprogetto – è stata inserita una raccolta di strumenti (in continuo ampliamento) comprendente documenti sulla pianificazione territoriale e sugli incentivi finanziari. Gli strumenti riguardano la pianificazione, l’implementazione e la manutenzione dei diversi elementi della città spugna». Gli esempi di riferimento sono molteplici, in Svizzera come all’estero. Silvia Oppliger: «Le maggiori città svizzere stanno tutte affrontando la questione. Un ruolo faro lo svolge sicuramente il Canton Ginevra che ha promosso il progetto Eau en ville già molti anni fa. Anche Sion

e Zofingen sono già in una fase avanzata a seguito di eventi naturali con pesanti conseguenze sul territorio. È importante che la consapevolezza del problema evolva verso un’azione concreta soprattutto nei numerosi comuni di media grandezza. In genere si tratta infatti di realtà già urbanizzate e densamente popolate. Pensiamo in Ticino ad Agno, Sorengo, Biasca, solo per citarne alcuni. E se guardiamo all’estero? Risponde l’intervistata: «A livello mondiale spicca il caso di Singapore, ma pure quello di Filadelfia che si è attivata un ventennio fa quando la motivazione non riguardava ancora il cambiamento climatico. Dalla sua esperienza si possono trarre utili insegnamenti a livello di gestione e manutenzione. In Europa sono interessanti gli esempi delle città del Nord – da Copenhagen a Stoccolma, a Rotterdam – o ancora della regione di Lione in Francia». Se la consapevolezza sulla necessità di adattare la pianificazione territoriale al cambiamento climatico è già piuttosto diffusa, soprattutto fra i professionisti, urge ora secondo i due rappresentanti della VSA passare all’azione. Il progetto Città spugna che l’associazione ha lanciato e che continuerà a sviluppare almeno per i prossimi quattro anni vuole essere un incentivo in questa direzione.

Informazioni www.spongy-city.nfo, www.vsa.ch

I vialetti per i percorsi pedonali attraverso il quartiere Parco Casarico di Sorengo sono tutti in pavimentazione permeabile.
(Silvia Oppliger)
Stefania Hubmann

Le settimane degli sconti OBI

Attualità ◆ Fino a sabato 12 ottobre 2024 presso il centro fai da te e giardinaggio di S. Antonino ti aspettano molte imperdibili promozioni e attività

Il Centro OBI di S. Antonino quest’anno è sotto il segno dei festeggiamenti! Lo scorso mese di marzo, infatti, si sono celebrati i 25 anni di OBI Svizzera con tutta una serie di attività rivolte all’affezionata clientela, tra cui buoni acquisto speciali, una divertente asta con molti articoli in palio a prezzi stracciati, concorsi, giochi per i più piccoli… iniziative che sono culminate con l’apertura straordinaria domenicale del 17 marzo 2024 che ha avuto un’affluenza straordinaria. Ma anche l’arrivo della stagione autunnale sarà sottolineato degnamente dal negozio di bricolage sopracenerino, grazie a quattro settimane di offerte esclusive e divertenti attività rivolte a grandi e piccoli clienti. Ogni settimana ti attendono numerose sorprese assolutamente da non lasciarsi sfuggire. Non vediamo l’ora di accoglierti nel nostro centro per festeggiare con noi!

Da lunedì 23.9 a sabato 28.9.2024

Secchio OBI in omaggio con un acquisto minimo di 50.–(dal lunedì al mercoledì)

Da lunedì 30.9 a sabato 5.10.2024

Grande concorso a premi (dal lunedì al mercoledì)

Perché il simbolo della catena OBI è fin dalla sua fondazione, nel 1970, rappresentato da un castoro? Uno dei fondatori dell’azienda, Manfred Maus, alla domanda del perché di questa scelta, rispose: «Il castoro è un animaletto tanto simpatico quanto operoso. Costruisce cose tutta la sua vita». Insomma, non c’è nulla di più azzeccato della scelta del castoro come immagine di OBI.

Da lunedì 7.10.2024

L’utopistica sovranità dell’

1° premio: grill a gas del valore di 1099.–2° premio: e-scooter del valore di 879.–3° premio: trapano del valore di 279.–

Prende categoricamente le distan ze dalla delle decalcomanie come espressione artistica, e si riterrà soddisfatto solo quando il suo siva la cartellonistica stradale di tutto il mondo sarà accolto senza ostruzionismi. Il suo nome è Clet Abraham. Bretone di origine, vive a Firenze dove si trova anche il suo studio.

In Ticino non è ancora arrivato, sebbene gli piacerebbe: il cartello situato all’altezza di Ponte Brolla è opera d’ignoti

Proprio quest’anno ha fatto molto parlare di sé, in Italia, dopo aver inva so Milano con le sue opere. Da qui il dubbio che avrebbe potuto essere sta to lui a firmare anche il cartello che si trova in Vallemaggia, all’altezza di Ponte Brolla. Chi è del Locarnese, lo avrà certamente notato in questa cal da estate mentre si recava all’Orrido: contro montagna, un segnale di «stra da principale» ospita una donna dalle forme morbide che vi penzola all’interno. Forse, fin troppo sinuosa: «Il mio lavoro – spiega Clet Abraham – è molto più sintetizzato rispetto al cartello della Vallemaggia che mi ha mostrato. È una regola intellettuale

che mi sono imposto per assecondare lo stile dei cartelli adattandomi alla sintesi estrema del loro linguaggio vi sivo. Curare i dettagli in questo caso non significa aumentare i “dettagli” nell’immagine. Quel corpo femmi nile, io lo avrei schematizzato molto di più. Avrei eliminato alcune forme per poter avere un maggior impatto e permetterne una lettura più immediata anche da lontano, esattamente nello spirito dei cartelli stradali». Chi ha lavorato sul cartello locale è dunque un emulo, peraltro iso lato. La sticker art, che appartiene al la generica sottocultura urbana nota come street art, è spesso definita cker bombing, per l’uso indiscrimina to di adesivi con slogan o loghi che tempestano le città (anche in Ticino, forse in modo più moderato): molto diversa è la sticker art che pratica Clet Abraham, il quale lavora con questo materiale già dal 2010: «In generale cerco di rispettare gli altri. Ma “loro” mettono gli adesivi ovunque, men tre io prendo ispirazione dal contesto. Chi fa sticker art tendenzialmente im pone una sua réclame con immagini spesso identiche. Certo, anche io ripeto alcune opere, ma le distanzio l’una dall’altra e, se possibile, evito di installarne due uguali nella stessa città. A me interessa creare un dialogo con l’oggetto stesso, e poi con il luogo e

Trovi il tagliando direttamente presso il centro OBI

solo perché normalmente il cartello stradale è un pezzo di metallo su cui si fissa una decalcomania, per cui mi permette di rimanere in perfetta e to tale armonia con l’oggetto da me uti lizzato, ma è una conseguenza, non una scelta a priori. Per questo motivo prendo distanza dalla sticker art : e poi

Street art L’artista bretone Clet Abraham, noto per il suo «passo libero», scultura abusiva situata a Firenze, sfida la legge intervenendo Manuela Mazzi

Accendino in regalo ad ogni acquisto (dal lunedì al mercoledì)

non mi piace essere etichettato, e non credo che sia così significativo il mezzo utilizzato». Mezzo di cui lui reinterpreta il significato in modo a volte

Oltre al contesto in cui si trovano e con il quale dialogano, le opere di Clet Abraham si distinguono sia da

Il cartello situato all’altezza di Ponte Brolla, sulla strada verso Vallemaggia. (Manuela Mazzi)
Una delle opere di Clet Abraham.

Se il cambiamento climatico fa crescere l’ansia

Salute ◆ Riscaldamento globale e degrado ambientale all’origine di un disagio emotivo che condiziona la vita quotidiana

«Cos’è l’ansia legata al cambiamento climatico?… pensare costantemente a come salvare il pianeta, tornare da mattina a sera a questi pensieri: io vedo che attorno a me tutto si degrada, anche negli altri Paesi… un decadimento globale… e mi sento costantemente angosciata dalla situazione. Non so se riusciremo a trovare una soluzione…». A parlare, lo scorso novembre ai microfoni della RTS, è Cathleen, una giovane di 21 anni che, come parecchie altre persone, sta facendo i conti con quell’ansia costante che la porta alla continua sensazione di sprofondare nello sconforto, fino alla disperazione, col pensiero incessante del caos climatico legato al nostro pianeta. La perdita di biodiversità e gli eventi meteorologici estremi stanno generando preoccupazioni e un notevole carico emotivo generale. Il prossimo 4 ottobre a Mendrisio un seminario clinico aperto a tutti affronterà il fenomeno dell’ecoansia che colpisce soprattutto le giovani generazioni

Non si può più parlare di «trend» del momento a favore di conversazioni da salotto poiché il problema, nato tempo fa e molto più serio di quanto si possa pensare, appartiene pure alla sfera della nostra salute mentale. Oggi emerge in tutta la sua complessità, spiega lo psichiatra e psicoterapeuta Michele Mattia, presidente dell’ASI ADOC (associazione disturbi d’ansia, depressione e ossessivo-compulsivi) che venerdì 4 ottobre propone al Teatro Sociale OSC di Mendrisio, un seminario clinico aperto al pubblico sui disturbi d’ansia correlati ai cambiamenti climatici: «Ecoansia è un termine coniato nel 2003; ciò significa che i disturbi nelle persone sono iniziati molto tempo fa, peggiorando progressivamente soprattutto fra le giovani generazioni». L’allarme è generale, come dimostrano l’OMS e lo psichiatra Philippe Co-

Alberto Manzi Orzowei illustrazioni di Nora, Rizzoli (Da 13 anni)

L’8 settembre si è celebrata, come ogni anno, la Giornata Internazionale dell’Alfabetizzazione. Istituita dall’UNESCO nel 1967, la ricorrenza ne sottolinea l’importanza, in quanto la competenza nella lettura e nella scrittura è uno strumento potente per l’emancipazione di ogni essere umano. Purtroppo il tasso di analfabetismo è ancora elevato e quando immaginiamo le zone in cui esso è presente nel mondo, le immaginiamo molto lontane da noi. Ma solo qualche decennio fa non era così e ad esempio in Italia fu proprio la televisione, «buona maestra», ad avere un ruolo importante nel contrastarlo: chi è nato prima degli anni 60 ricorderà la celebre trasmissione Non è mai troppo tardi, varata nel 1960 dalla RAI, in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione, e condotta dal mitico maestro Manzi. Con la sua grande capacità comunicativa, Alberto Manzi aiutò un gran numero di persone

nus (responsabile del Dipartimento di psichiatria generale del CHUV): «A causa dei pensieri legati ai cambiamenti climatici, nella popolazione aumentano lo stato d’animo di ansia costante e la perdita di sonno, fino all’incapacità di recarsi al lavoro, a condizionare la vita di tutti i giorni. Ma non si sta prestando sufficiente attenzione al problema». Dal canto suo, l’UNICEF cita gli studi trasversali sul dilagante aumento di malessere proprio fra i giovani («7 ragazzi su 10 sono molto preoccupati per questa situazione»). È ora di chinarsi seriamente sui sintomi che il dottor Mattia così riassume: «Si prova timore, preoccupazione, senso diffuso di insicurezza, fino a quella profonda sensazione di disagio e di paura emergenti al pensiero ricorrente di possibili calamità ecologiche e ambientali e ai relativi disastri correlati. Non v’è dubbio che il tema dell’ecoansia sia diventato di interesse e dominio pubblico, suffragato da studi scientifici a certificare che, qualora nei prossimi anni la temperatura terrestre aumentasse ancora, nel mondo avremmo 420 milioni di persone che andrebbero incontro a problematiche serie». In modo speculare sta il timore diametralmente opposto: «Coinvolge quelle persone che vanno verso la negazione del problema ed entrano nella dimensione dell’ecoparalisi: non esiste, è creato dai media, il mondo è sempre stato così e andrà avanti così. Un diniego verso la problematica di una certa area della popolazione, che non risparmia nemmeno qualche professionista della salute». Egli parla della «trasversalità dell’ecoansia»: «Pensiamo solo che alla base del cambiamento climatico c’è un aumento della concentrazione di CO2 che le piante non sono più in grado di assorbire abbastanza. Ne risulta una “continua infiammazione” dell’aria che respiriamo di cui noi non ci rendiamo conto, simile a un virus lento che agisce piano piano dentro di noi».

L’ecoansia è dunque un grattacapo di salute pubblica che va affron-

tato immediatamente: il clima influenza profondamente la società e l’economia, oltre che la salute, e le crisi globali costituiscono altresì una minaccia per il benessere psicologico: «Queste trasformazioni complesse stanno originando nuovi fenomeni di rilievo per la psicologia tanto che, recentemente, si parla sempre più (e purtroppo soprattutto nei giovani) di angoscia da cambiamento climatico, solastalgia, ecoansia, stress ambientale, lutto ecologico, stress psicologico legato al clima. L’impatto psicologico negativo sulla salute mentale, fra l’altro, si manifesta con la perdita media di 14 minuti di sonno al giorno nelle notti calde, e nella popolazione dei Paesi poveri è tre volte maggiore». Citando uno studio dell’Università di Pavia, lo psichiatra conferma dati del tutto sovrapponibili alla situazione del nostro cantone e della Svizzera: «Su una popolazione di bambini fra i 5 e gli 11 anni, si è evidenziato che il 95 per cento è preoccupato per il futuro dell’ambiente, e 1 su 3 ha riferito di

aver avuto brutti sogni legati al cambiamento climatico». Inoltre: «Da un’inchiesta pubblicata su “Lancet” (2020) emerge come, nel gruppo di persone considerato, l’80 per cento risulta moderatamente preoccupato (di cui il 59 per cento molto preoccupato) e il 39 per cento non vorrebbe avere figli a causa dell’ansia ambientale». Lecito chiedersi cosa significhi se a 20 o 30 anni questo problema inibisce il desiderio di un figlio: «Quali saranno le ripercussioni sulla società del futuro? Allora si capisce l’importanza di riuscire ad arginare l’ansia proiettiva che blocca queste giovani generazioni».

Non vi sono, per contro, dati specifici che legano la pandemia all’ecoansia: «Si può parlare di una problematica che, come altre, era sottosoglia e che la pandemia può aver contribuito ad evidenziare. Altro discorso per l’impatto concreto, ad esempio, dell’alluvione nei Grigioni e in Valle Maggia degli scorsi mesi». La consapevolezza che il nostro ambiente è «casa nostra», spe-

cifica il medico, deve condurci a superare l’individualità pervasiva degli ultimi tempi, per tornare ad averne cura in modo collettivo: «Dobbiamo essere attori della nostra evoluzione, senza cadere in una dimensione di rigidità di un cambiamento che deve restare progressivo e continuativo, rispettando i tempi di ciascuno». Curarsi dell’ambiente significa: «Chiedersi cosa rappresenta “l’ambiente-casa” per noi e per il nostro futuro, ricordando che abbiamo ereditato un habitat che dobbiamo consegnare a chi arriva dopo di noi. Riconoscerci in questa dimensione, dare un senso maggiore a quanto facciamo (se getto una bottiglia di pet nella spazzatura faccio un danno, se la metto nella differenziata sto creando un benessere): sono elementi che concorrono a creare una rete di persone interessate, dove il nostro esempio può creare un effetto domino positivo nella nostra microsocietà che saprà influenzare la collettività». Attenzione a chi, con questo, «vuole fare cassetta»: «È importante non cadere all’interno di correnti che strumentalizzano l’ansia climatica attraverso la richiesta di denaro. Si può andare spontaneamente nella natura con famiglia e amici, ad esempio, senza che qualcuno si faccia pagare per insegnarci ad abbracciare gli alberi». Nei casi che necessitano di sostegno, conclude: «La terapia cognitivo-comportamentale (TCC) interviene sul circuito dell’ansia attraverso la ristrutturazione cognitiva che permette di rimanere nel qui e ora. La psicoterapia (TCC) agisce sulle piccole cose fondamentali che ci permettono di stare meglio con noi stessi per aver fatto un atto che fa bene a noi e all’ambiente, ed ha un’azione curativa sul circuito dell’ecoansia. Questo, insieme all’Acceptance and compassion therapy (ACT), ovvero la terapia di accettazione e di impegno all’azione, verso l’ambiente stesso, crea una sorta di empatia verso di esso, che ci aiuta ad essere più consapevoli dell’impatto di ogni nostro gesto».

non scolarizzate a conseguire la licenza elementare e quindi a diventare protagoniste della propria vita, libere di esprimersi e di formarsi un’opinione. Perché questo stava a cuore ad Alberto Manzi, far sì che le persone non subissero per ignoranza, ma diventassero forze attive di cambiamento. Tuttavia egli non fu solo il garbato maestro televisivo: fu anche un militante, che spendeva le sue vacanze estive partendo volontario per il Sud America, nell’altopiano andino, impegnandosi ad alfabetizzare i campesinos, così da metterli in grado di iscriversi ai sindacati e liberarsi dai soprusi dei padroni. Parlò poco di questa esperienza, ma la raccontò in tre suoi romanzi: La luna nelle baracche (1974), appena ripubblicato da Edizioni di Storia e Letteratura con un’interessante introduzione di Roberto Farné, El loco (1979), E venne il sabato (2005). E Alberto Manzi, di cui quest’anno si celebra il centenario dalla nascita, fu anche scrittore per ragazzi. Il suo romanzo più celebre fu Orzowei, del 1954, da cui venne tratta negli anni Settanta una serie televisiva, con una celebre sigla. Orzowei («il trovato») è un ragazzo bianco, trovato e allevato in Africa da una tribù di Swazi, ma emarginato dalla comunità, che lo scaccia, una volta adolescente, nonostante abbia superato il terribile rito di iniziazione. Orzowei nella sua fuga incontrerà altre comunità, per le quali sarà sempre un diverso, bianco tra i neri, «selvaggio» tra i bianchi. E la diversità, patita intensamente, è la drammatica cifra di questo romanzo, che a leggerlo oggi colpisce per la durezza – Manzi non edulcorava nulla –e per qualche aspetto della scrittura forse un po’ segnato dal tempo. Ma

più che mai attuale è il suo messaggio: «Solo se ci comprenderemo a vicenda, solo se guarderemo al cuore, e non al colore della pelle che quel cuore ricopre, solo allora potremo vivere insieme, felici. Se no… se no sarà la fine di tutti».

Marie Madeleine Franc-Nohain Alfabeto bambino

Pulce Edizioni (Da 3 anni)

Uno dei pregi delle Edizioni Pulce è che, oltre a pubblicare libri di autori contemporanei perfettamente in grado di innalzarsi all’altezza dei bambini, e di comunicare con loro, persino con i piccolissimi, ci offrono anche perle recuperate dal passato: capolavori, sconosciuti perché mai pubblicati in libri italiani, o fuori catalogo da anni, di illustratori che fecero i primordi dell’albo illustrato. È il caso dell’illustratrice francese Marie Madeleine Franc-Nohain, nome d’arte, preso da quello del marito scrittore, di Marie-Madeleine Dauphin (18781942): il tratto delicato e preciso, i colori tenui, la sensibilità con cui rappresenta l’infanzia, soprattutto nel rapporto che essa intrattiene con la natura e con l’immaginario, conferiscono alle sue tavole un carattere di candore tuttavia mai melenso, che sa ben cogliere la meraviglia dello sguardo bambino. Questo Alphabet en images uscì in originale nel 1933: si tratta di tavole che rappresentano, una per lettera dell’alfabeto, vivide scene di vita infantile, e a tutt’oggi non hanno perso nulla del loro incanto. Alfabeto bambino è un abbecedario perfetto per chi comincia a leggere, per chi ancora non sa farlo e per chi quell’età l’ha passata da un pezzo, perché la bellezza non ha tempo.

Viale dei ciliegi
di Letizia Bolzani
L’emergenza climatica ora è anche legata alla salute mentale. (Freepik.com)

Stare bene in casa.

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Correre a suon di grandi emozioni

Eventi sportivi ◆ Fare sport in bellezza alla

Ascona-Locarno Run: aperte le iscrizioni per la nona edizione, che avrà luogo il 12 e il 13 ottobre

La magia dell’Ascona-Locarno Run risiede nel suo percorso unico. Chi vi partecipa ha modo di attraversare paesaggi mozzafiato, circondato dalla bellezza delle Alpi Svizzere e dalle acque cristalline del Lago Maggiore. Il programma prevede una sfida tagliata su misura per le esigenze individuali, non è importante essere dei corridori esperti! Ecco tutto quello che dovete sapere: 21 km Half Marathon: per i più competitivi, per chi si appresta a correre la sua prima mezza maratona, per chi si vuole cimentare con distanze maggiori, per chi si vuole mettere alla prova. 10 km Run: una gara per tutti, dai principianti agli esperti, partendo da Piazza Grande di Locarno e attraverso il lungo lago di Ascona e ritorno. 5 km Sunset Run: una corsa emozionante al tramonto

10 km Walking & Nordic Walking: aperta anche alle famiglie.

Kids Run: i più giovani avranno l’opportunità di correre e divertirsi lungo un percorso appositamente pensato per loro. I piccoli runner avranno il loro momento di gloria! Si tratta di percorsi emozionanti che hanno il loro centro nella Piazza Grande di Locarno e si snodano attorno al suggestivo Lago Maggiore durante il foliage autunnale!

Vantaggi per i partecipanti

Tariffe Ridotte: iscriviti presto per risparmiare! Le tariffe per tutte le gare (esclusa la Kids Run) aumenteranno man mano che ci si avvicina alla data dell’evento.

Swiss Runners Ticket: tutti gli iscritti alle gare possono arrivare gratuitamente a Locarno da tutta la Sviz-

Concorso

«Azione» mette in palio 5 pettorali che consentono un’iscrizione gratuita per una gara a scelta all’interno della Ascona-Locarno Run (12-13 ottobre 2024). Per partecipare all’estrazione inviare una e-mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Ascona Locarno 2024») indicando i propri dati personali e la propria e-mail entro domenica 29 settembre 2024. Buona fortuna!

zera con i mezzi di trasporto pubblici, la validità dei biglietti è estesa (andata dal 4 al 13 ottobre – ritorno dal 12 al 21 ottobre)! Maggiori informazioni su www.ascona-locarno-run.ch/info/ trasporto-gratuito/.

Sconto BancaStato: i clienti del «Pacchetto BancaStato» (dai 14 anni in su) riceveranno uno sconto aggiuntivo di CHF 10. – iscrivendosi online alle seguenti gare: 5 km Sunset Run, 10 km Run, 21 km Half Marathon, 10 km Walking & Nordic Walking. Run & Relax: Corsa e relax, un connubio perfetto! A questo proposito ricordiamo che durante la fase di iscrizione sarà possibile acquistare online un ingresso a prezzo agevolato ai Termali Salini & Spa di Locarno usufruibile dal 1° ottobre 2024 al 31 marzo 2025. Corsa e relax, un connubio perfetto!

Run & Sleep: chi invece volesse cogliere l’occasione e trascorrere un soggiorno a Locarno da solo, con la famiglia o con amici, iscrivendosi online all’Ascona-Locarno Run riceverà un codice sconto presso gli hotel convenzionati.

Titolo di Campione Ticinese Assoluto di mezza maratona: la 21 km

Half Marathon sarà valida per l’assegnazione del titolo di Campione ticinese assoluto FTAL. I partecipanti dovranno iscriversi esclusivamente con il nome della loro società di appartenenza FTAL e correre con la maglietta ufficiale.

Percorsi Certificati: il percorso della 10 km Run è omologato da Swiss Athletics; il percorso della 21 km

Half Marathon ha un’omologazione internazionale.

Charity: sempre iscrivendosi online, viene data la possibilità nella sezione «Programma Charity» di fare una donazione a un’associazione tra le seguenti: Una goccia nel mare, All4All Ticino e Lega ticinese contro il cancro.

Preparatevi dunque per una corsa indimenticabile circondati dal foliage autunnale e con il Lago Maggiore a fare da spettacolare sfondo!

Informazioni

Per ulteriori informazioni sulla manifestazione consultare il sito www.ascona-locarno-run.ch. Ascona-Locarno: il posto perfetto per la tua corsa!

Un imperdibile momento di sportiva aggregazione. (Foto Garbani)

La condivisione passa anche dal linguaggio

Il caffè dei genitori ◆ Il nostro Caffè delle mamme cambia nome ma rimane uno spazio di riflessione e racconto comune

Ottantadue appuntamenti a Il caffè delle mamme, da quel 13 novembre 2017 in cui ci dicevamo che la cosa migliore non è preparare la strada ai nostri figli, ma prepararli alla strada, e ci domandavamo: «Può passare anche dal fargli riempire una lavastoviglie a 10 anni?». Ottantadue appuntamenti che hanno preso vita davanti ai cappuccini e alle brioche consumati al bar di fianco alla scuola: i dubbi, i propositi, le letture, le aspirazioni, le frustrazioni e i dibattiti condivisi tra amiche subito dopo avere accompagnato i bambini davanti all’ingresso sono diventati spunti di riflessione per la rubrica che avete letto ogni mese e che è cresciuta insieme con i nostri figli. In questi sette anni loro hanno imparato ad andare a scuola da soli, e gli appuntamenti di noi mamme al Caffè adesso continuano soprattutto in immancabili telefonate in cui il confronto senza filtri resta l’unica regola. All’ordine del giorno: i modelli educativi; i tabù da affrontare durante la crescita; la scoperta della sessualità; il passaggio dall’avere in casa bambini che sorridono alla gestione dei neo-adolescenti che ringhiano, con la conseguente domanda: «Dove ho sbagliato?»; la famiglia tradizionale e quella allargata. Argomenti seri,

dai quali però non vogliamo mai farci sopraffare: di qui l’esigenza di un po’ di frivolezza; l’onestà nell’ammettere la nostra fatica mentale; la concessione che talvolta facciamo a noi stesse nel dirci: «Lo faccio per me e non per questo i miei figli saranno votati all’infelicità!». Un po’ di autoironia per raccontare quello che viviamo con lo sguardo di quello che siamo, ossia donne-amiche-mamme-mogli. Ottantadue appuntamenti dopo, e soddisfatte della strada fatta insieme, abbiamo deciso di fare un passo in più: da oggi la rubrica che leggete cambierà nome e diventerà Il caffè dei genitori. Lo facciamo adesso perché convinte che la realtà cambia se cambiano le parole che usiamo per raccontarla e rappresentarla. Di più: lo facciamo adesso perché siamo convinte che la realtà sta già cambiando e sono sempre di più i papà che si sentono offesi se tagliati fuori dalle chat scolastiche, non trovano un fasciatoio nei bagni degli uomini, il pediatra si rivolge solo alla mamma. Vogliamo la condivisione e la condivisione deve passare anche dal racconto comune: piuttosto che un Caffè delle mamme è meglio allora un Caffè dei genitori. È una decisione che nasce anche da una piacevole scoperta: sono sempre di

più i papà che leggono la rubrica e scrivono per sottolineare che si sentono discriminati dal suo titolo. Il primo è Paolo Foa, 39 anni, ingegnere ambientale, neo padre di Oliviero, che il 9 dicembre 2022, alle 00.08. invia un’e-mail ad «Azione»: «Ho letto con interesse il suo articolo La parità di genere spiegata ai nostri figli, sensibile all’argomento della parità/suddivisione dei compiti nella coppia e fresco papà, le lancio una provocazione: ma se la parità cominciasse da un cambiamento del nome della sua rubrica?». Ammettiamolo: per decidere di cambiare ci abbiamo messo un po’, ma da allora gli stimoli per farlo si sono moltiplicati ed eccoci qui. Insieme al Caffè: mamme e papà. Ma anche genitori single e coppie omogenitoriali. Vera Gheno, sociolinguista tra le più accreditate, 20 anni di collaborazione con l’Accademia della Crusca, mi fa riflettere su come la comunicazione attraverso un linguaggio inclusivo può influire sulla visione della famiglia: «Un papà che sta con i figli è un papà, non un mammo – sottolinea –. Un uomo che condivide con la propria partner il peso dei lavori di casa è un uomo che condivide con la propria partner il peso dei lavori di casa, non “uno che aiuta”».

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Lo psicanalista Massimo Recalcati ci insegna che una buona mamma non è una madre che vive solo per il suo bambino, annulla tutto il resto e anche il suo essere donna, per cui diventa una madre-tutta-madre il cui desiderio è incentrato solo sul bambino (destinato a essere l’oggetto che colma la sua mancanza), altrimenti il rischio è che diventi una madre-coccodrillo che si sacrifica per la vita del figlio tendendo a inglobare tra le sue fauci l’intera esistenza, come in una eterna gravidanza. È da scongiurare, però, anche il rischio della madre-narcisa, troppo occupata a perseguire il successo nel lavoro o le relazioni personali. Insomma: la donna-madre vive costantemente in un precario equilibrio tra l’essere troppo e l’essere troppo poco. L’impressione è che se i figli hanno qualche problema sia sempre una questione di mamme. Amy Chua, avvocato e scrittrice statunitense, ci fa conoscere la mamma-tigre, che obbliga tutti i giorni le figlie a esercitarsi per ore in matematica, ortografia, piano e violino, anche nei fine settimana. La madre-drago di Ma-

risa Dillon Weston è quella che non prende in considerazione la possibilità che la figlia abbia un’esistenza diversa da sé, ne fa un prolungamento fisico e psichico. La madre-frigorifero è un termine coniato a metà del secolo scorso per incolpare le madri dell’autismo dei figli, teorizzando che la causa sia la mancanza dell’amore materno.

Sui padri non ci sono tutti questi appellativi entrati nella letteratura; a memoria viene in mente solo il padre-tiranno raccontato dal tennista Andre Agassi nelle pagine autobiografiche di Open: «Da ragazzino ho odiato il tennis, vivevo nella paura di mio padre, che mi voleva campione a tutti i costi».

È davvero arrivato il momento, allora, di dire basta!!! E a sorpresa a chiedercelo sono proprio i papà. Loro che finora hanno rappresentato soprattutto la legge (per dirla ancora con Recalcati) adesso sono pronti a dire forte e chiaro: «Riguarda anche noi». Parole che possono essere magiche nell’abbattere gli stereotipi. Benvenuti a Il caffè dei genitori!

Tunnel di Base, una riapertura che soddisfa tutti

Trasporti ◆ Dopo l’incidente dell’agosto 2023 la riapertura senza ritardi si deve all’immane lavoro di tecnici e operai

Il 2 settembre ha riaperto il Tunnel di base (TdB) del San Gottardo dopo 13 mesi di chiusura dovuta al noto incidente del 10 agosto 2023 in cui un treno merci deragliò causando ingenti danni. Questa notizia mi ha fatto tirare un sospiro di sollievo, mi reco, infatti, spesso a Zurigo e il ripercorrere la linea di montagna lungo la Leventina, con un’ora di viaggio in più, mi ha riportato indietro nel passato quando sognavo il nuovo TdB in costruzione per abbreviare i tempi. Ma proprio questa linea ci ha consentito di non rimanere isolati dal resto della Svizzera.

Negli scorsi mesi la linea di montagna se l’è cavata egregiamente, la sua funzione è stata riconosciuta a livello istituzionale

Ci furono in passato pressioni per smantellarla, una volta operativo il nuovo tunnel, allo scopo di ridurre i costi di esercizio e nel 2011 presi posizione su questa testata (cfr. Azione n. 38/2011) affermando che la linea andava mantenuta, sia per non isolare la Leventina ma anzi per garantirne lo sviluppo, e sia, a conclusione del mio articolo, per far fronte a «eventuali inagibilità temporanee del tunnel di base» che purtroppo si sono verificate.

Per riaprire il TdB le FFS hanno fatto un lavoro immane: smontare i 16 carri merci deragliati portandoli fuori dal tunnel, rinnovare 7 km di binari con 20.000 traversine posate su un nuovo strato di calcestruzzo, sostituire il «portone di cambio binario» danneggiato costruendone uno nuovo in tempi record al costo di 1.75 milioni di franchi e portandolo smontato nel tunnel per poi rimontarlo. Infine, non da poco, completare tutto quel lavoro che in gergo si chiama la «tecnica ferroviaria» attuando un periodo di collaudo pre-esercizio. Il tunnel ha riaperto puntualmente alla data prevista, è dunque doverosa la gratitudine verso chi ha progettato nei dettagli i lavori e chi li ha eseguiti in condizioni estreme. Infatti, mentre a noi veniva raccomandato di non uscire di casa durante le ore della canicola, c’era una squadra di 80 persone tra tecnici e operai suddivisa in tre turni suddivisi sulle 24 ore, a lavorare a 40°C in tuta da lavoro ed elmetto, spesso usando la fiamma ossidrica, con pause di 15 minuti ogni 45 di lavoro in un container «refrigerato».

I danni ammontano a circa 150 milioni di franchi e la responsabilità ricade sul vettore SBB Cargo anche se il disastro è stato provocato da un carro trasportato di una società di logistica che ha rotto il disco di una ruota. Come si vede, basta un raro e sfortunato evento nel luogo sbagliato

per causare un danno sproporzionato. Ora si sta studiando come ridurre simili situazioni in futuro, visto che il rischio zero non esiste. Oltre a maggiori controlli, si sta pianificando l’introduzione su ogni carro del sistema DAC, acronimo di «accoppiamento automatico digitale», che segnalerebbe in tempo reale al computer di bordo eventuali anomalie come quella verificatasi, consentendo al macchinista un pronto intervento. Ma per essere efficace, il sistema deve essere applicato su tutti i carri circolan-

ti in Europa e al riguardo la UE e la UIC, l’Unione Ferroviaria Internazionale, stanno preparando direttive per renderlo obbligatorio. Dopo l’incidente, il TdB è rimasto agibile nella sola canna est non danneggiata, nella quale sono transitati in media 90 treni merci al giorno nei giorni feriali con riduzione nei weekend per dar spazio a 30 treni passeggeri. La linea di montagna ha invece assorbito 15/20 treni merci al giorno (avendo restrizioni di profilo) e il grosso dei treni IC ed EC con aumento progressivo

delle corse durante festività e periodi di punta; il tutto in aggiunta al traffico ordinario della Südostbahn (SOB) da Zurigo o Basilea per Locarno e dalle corse di TILO. Nel suo ruolo sussidiario, la linea di montagna se l’è cavata egregiamente e la sua funzione è stata apprezzata e riconosciuta a livello istituzionale e a essa sono stati promessi investimenti per una sua migliore gestione. Si chiude un anno tremendo per le FFS sul fronte del Gottardo, con una riduzione del 30% del traffico passeggeri nord-sud e per la pressione fatta dai treni merci dirottati in buona parte su di esso per la chiusura di tre mesi per lavori della linea del Sempione. Concludendo, noi utenti abbiamo dovuto sopportare i disagi di una percorrenza più lunga, ma a mio parere le FFS hanno fatto del loro meglio per ripristinare il TdB facendo fronte ad una situazione mai verificatasi prima. Ora verrà attuata la cadenza semi oraria dei treni IC/EC tra Lugano e Zurigo o Basilea, avvicinando nuovamente con un’ora di viaggio in meno il Ticino alla Svizzera interna. Ne beneficerà l’economia tutta, in primis i settori del turismo e degli affari, con viaggi di andata e ritorno possibili nella stessa giornata. Ed è probabile che la fila di auto che per lungo tempo ha intasato il tunnel stradale del San Gottardo possa ridursi a favore del treno.

In

un

periodo

in cui molti prodotti si assomigliano, coltiviamo con passione la differenza.

Il formaggio svizzero è diversità. Perché ha dentro di sé la nostra essenza.

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Squadra di operai impegnati nei lavori di ripristino della Galleria di base del San Gottardo, nel maggio 2024, nei pressi di Faido. (Keystone)

TEMPO LIBERO

Street art

L’artista bretone Clet Abraham, attraverso l’elaborazione dei cartelli stradali, sfida la legge in quella che definisce un’operazione di satira sovversiva

Tempo d’autunno e di boschi

Realizziamo insieme una pratica e simpatica borsetta a forma di cerbiatto in cui raccogliere ad esempio foglie o castagne, frutti dorati di questa stagione

Enrico Cano, tra architettura e natura

Fotografia ◆ Ha collaborato con Botta e Piano, il suo rapporto con l’edificio è improntato alla lentezza e alla meditazione

Sotto le accoglienti fronde di un maestoso cedro del parco di Villa Argentina – nei pressi di Palazzo Canavée, il nuovo edificio dell’Accademia di Mendrisio – incontriamo, non per caso, Enrico Cano, reputato fotografo d’architettura e grande appassionato di natura.

Il luogo è dunque doppiamente propizio per intessere una piacevole conversazione riguardo alle ragioni e alla passione che lo hanno portato, più di quarant’anni fa, verso la fotografia, e che tuttora lo nutrono.

Come già in altre occasioni abbiamo avuto modo di osservare, rintracciamo spesso in ambito familiare gli impulsi che daranno poi vita, in certa progenitura, a una fatale attrazione per la fotografia. Ed è quanto successo anche con Enrico. Che, giovanissimo, troviamo in piena natura già intento ad armeggiare col suo primo apparecchio fotografico, una piccola Kodak Instamatic a cartucce, accanto a suo padre, grande appassionato di fotografia e felice utilizzatore di una mitica Rolleiflex biottica: «La fotografia mi ha affascinato fin da subito. Ho ancora una foto fatta in montagna, avevo forse nove anni, con i ghiacci, il riflesso del sole. Ero orgogliosissimo di quell’immagine. Mi ricordo che mi aveva affascinato un mondo».

All’età di 17 anni, Enrico, coi primi soldi guadagnati con dei lavoretti, si compra la sua prima reflex. Il cammino è segnato, ma al momento di dover scegliere quale formazione intraprendere, pensando che vivere di fotografia non potesse essere altro che un sogno, decide di assecondare l’altra sua passione, quella per l’ambiente, la natura, e si iscrive a geologia. Studi che però, dopo un anno e un solo esame dato, abbandonerà per iscriversi, spalleggiato dal padre, allo IED di Milano –Istituto Europeo di Design –, giovane ma già reputata scuola che formava anche fotografi. E dove si diplomerà tre anni dopo. Siamo sul finire degli anni Ottanta.

Si tratta allora di darsi una specializzazione. Al pensiero di passare giornate intere chiuso in uno studio a fotografare, amando lui gli spazi aperti, si trova a dover scegliere tra la fotografia di natura e quella di architettura. La prima opzione avrebbe richiesto sforzi economici non indifferenti per avviare l’attività e cominciare a farsi conoscere. Non potendoselo permettere, propende per l’architettura, più a portata di mano. «L’idea di fare, come alcuni fotografi, tutto il mio lavoro in studio, ho capito fin da subito che non era fatto per me. E quindi, l’architettura, da quel punto di vista, mi era congeniale».

Nel ’90 apre il suo studio. I primi anni sono difficili. «Agli inizi non era facile, però ho tenuto duro, e quello che mi ha salvato, che mi ha solidifi-

cato, è stata la passione, la determinazione». Oltre ai lavori di architettura che riesce a ottenere, deve realizzare altra fotografia, still life, fotografie di design, collaborare con altri studi e colleghi. Prendere nel limite quel che arriva. Sul mercato si propone col banco ottico perché, come ci dice, l’uso di un banco ottico a quel tempo faceva la differenza tra il professionista e il dilettante, ne rappresentava la certificazione. Oggi, col digitale, molto è cambiato…

Subito dopo gli studi, va annotato, si dedica in parte pure all’insegnamento, all’Istituto tecnico superiore di Como, al Politecnico di Milano, per infine collaborare – sotto varie vesti –anche con l’Accademia di Mendrisio. Per Enrico, questi con gli studenti, sono momenti assolutamente formativi e vivificanti, a cui non vuole rinunciare anche se ovvi motivi di lavoro lo obbligano a limitarli.

Ma torniamo alla sua attività, quella più esistenziale, di fotografo.

Per trovare committenti, ai suoi inizi bussa e ribussa a tanti usci d’architetti.

La fortuna gli apre la porta dello studio di Mario Botta – archistar e nostro orgoglio locale. Enrico gli si presenta con una serie di fotografie fatte di propria sponte a una sua villa edi-

ficata a Breganzona. Ne nascerà una lunga e fruttuosa collaborazione, tuttora attiva e contraddistinta da reciproca soddisfazione. Per Enrico, Mario Botta rappresenta in qualche modo un mentore, per i vari consigli e osservazioni dispensati nel corso dei loro molteplici incontri di lavoro.

Allaccerà nel tempo altre relazioni di lavoro con noti architetti, locali e internazionali. Una tra queste, prestigiosa e continuativa come quella con Botta, la stabilisce con Renzo Piano, di cui documenta vari importanti progetti (andate a visitare il suo ricco sito www.enricocano.com, nel quale potrete riscontrare l’ampiezza del suo lavoro e le mostre da lui realizzate, aspetto quest’ultimo che non avremo purtroppo modo di esaminare in quest’articolo).

La fotografia d’architettura richiede molta metodicità, pazienza e accuratezza, qualità che non mancano a Enrico. A dipendenza della complessità del lavoro che va ad affrontare, può passare anche parecchi giorni a fotografare, girando attorno a un edificio, valutandone le caratteristiche – i volumi, l’interazione con la luce, come questo rapporto varia per quel singolo oggetto nel susseguirsi delle ore della giornata – cogliendone, così, mo-

menti irripetibili. Dando tutto di sé.

Gli piace questo rapporto con l’edificio, improntato alla lentezza e alla meditazione: gli concede il tempo per coglierne a fondo il volto, il lato giusto, per capire come riprenderlo nel modo che meglio esalti le sue peculiarità. La lentezza, per la complessa manipolazione che richiedeva, era anche ciò che caratterizzava l’uso del banco ottico. Il digitale, Enrico lo adotta definitivamente solo una decina d’anni fa, quando gli apparecchi Hasselblad, di cui fa oggi uso, hanno ormai raggiunto la capacità di fornire immagini di qualità paragonabile a quella delle lastre realizzate col banco ottico.

Rimane un po’ di nostalgia per come si lavorava in precedenza, ma questo non toglie valore alle possibilità oggi a disposizione. «È vero», confessa, «col digitale si passa purtroppo molto tempo davanti al computer. Ma il lavoro viene semplificato». Ad esempio, facilita le riprese in notturna, permette di scattare di più e più velocemente e, volendo, di introdurre nelle immagini di architettura sprazzi di vita che rendono unico lo scatto – cosa che con la pellicola si tendeva semmai ad evitare. L’approccio mentale a proposito dei cambiamenti in atto è sicuramente positivo: «Forse,

noi, come generazione [ndr, di nativi pre-digitali], abbiamo una fortuna, tra le tante. È di aver fatto un percorso. E questo è anche bello, perché in un lavoro è affascinante anche il fatto che si trasformi».

Oltre alla ricerca della Bellezza, scopo del suo lavoro Enrico lo trova nel rendere felice il committente, oltre sé stesso: «Perché devo essere felice anch’io. Sembra strano, no? Però quando fai un lavoro con passione, innanzitutto devi soddisfare la tua passione, poi devi sapere che devi soddisfare il cliente, e quando hai chiuso questa cosa… tiri un bel respiro e dici: che bello, anche questa cosa è fatta. È importante!». Anche dopo anni e anni d’esperienza, ci racconta, quella del fotografo di architettura resta un’attività che lo affascina, non lo annoia mai, è entrata a far parte integrante del suo stesso vivere. Come avviene osservando la natura – alla quale, tra l’altro, bene o male che sia, la fotografia d’architettura è particolarmente soggetta, fosse anche solo per via degli eventi atmosferici a cui per forza ci si deve adattare –, questo lavoro riesce sempre a sorprenderlo, a confrontarlo ogni volta con sfide diverse da cui, con spirito aperto e forza di volontà, uscirne rinnovati.

Como, Casa del Fascio di Giuseppe Terragni.
(Enrico Cano)
Stefano Spinelli
Pagina 17
Pagine 14-15

L’utopistica sovranità dell’arte

Street art ◆ L’artista bretone Clet Abraham, noto per il suo «passo libero», scultura abusiva situata a Firenze, sfida la legge intervenendo sui

Prende categoricamente le distanze dalla sticker art, pur avvalendosi delle decalcomanie come espressione artistica, e si riterrà soddisfatto solo quando il suo armare di satira sovversiva la cartellonistica stradale di tutto il mondo sarà accolto senza ostruzionismi. Il suo nome è Clet Abraham. Bretone di origine, vive a Firenze dove si trova anche il suo studio.

In Ticino non è ancora arrivato, sebbene gli piacerebbe: il cartello situato all’altezza di Ponte Brolla è opera d’ignoti

Proprio quest’anno ha fatto molto parlare di sé, in Italia, dopo aver invaso Milano con le sue opere. Da qui il dubbio che avrebbe potuto essere stato lui a firmare anche il cartello che si trova in Vallemaggia, all’altezza di Ponte Brolla. Chi è del Locarnese, lo avrà certamente notato in questa calda estate mentre si recava all’Orrido: contro montagna, un segnale di «strada principale» ospita una donna dalle forme morbide che vi penzola all’interno. Forse, fin troppo sinuosa: «Il mio lavoro – spiega Clet Abraham –è molto più sintetizzato rispetto al cartello della Vallemaggia che mi ha mostrato. È una regola intellettuale

che mi sono imposto per assecondare lo stile dei cartelli adattandomi alla sintesi estrema del loro linguaggio visivo. Curare i dettagli in questo caso non significa aumentare i “dettagli” nell’immagine. Quel corpo femminile, io lo avrei schematizzato molto di più. Avrei eliminato alcune forme per poter avere un maggior impatto e permetterne una lettura più immediata anche da lontano, esattamente nello spirito dei cartelli stradali». Chi ha lavorato sul cartello locale è dunque un emulo, peraltro isolato. La sticker art, che appartiene alla generica sottocultura urbana nota come street art, è spesso definita sticker bombing, per l’uso indiscriminato di adesivi con slogan o loghi che tempestano le città (anche in Ticino, forse in modo più moderato): molto diversa è la sticker art che pratica Clet Abraham, il quale lavora con questo materiale già dal 2010: «In generale cerco di rispettare gli altri. Ma “loro” mettono gli adesivi ovunque, mentre io prendo ispirazione dal contesto. Chi fa sticker art tendenzialmente impone una sua réclame con immagini spesso identiche. Certo, anche io ripeto alcune opere, ma le distanzio l’una dall’altra e, se possibile, evito di installarne due uguali nella stessa città.

A me interessa creare un dialogo con l’oggetto stesso, e poi con il luogo e

non da ultimo con la gente. Non piazzo – senza relazionarmi con il contesto – il medesimo adesivo a caso su pali, vetrine, pattumiere…» e sculture, aggiungiamo noi.

Così facendo, l’artista ingloba nella sua opera l’oggetto che usa come uno strumento: «Ho scelto lo sticker

solo perché normalmente il cartello stradale è un pezzo di metallo su cui si fissa una decalcomania, per cui mi permette di rimanere in perfetta e totale armonia con l’oggetto da me utilizzato, ma è una conseguenza, non una scelta a priori. Per questo motivo prendo distanza dalla sticker art : e poi

non mi piace essere etichettato, e non credo che sia così significativo il mezzo utilizzato». Mezzo di cui lui reinterpreta il significato in modo a volte creativo altre volte provocatorio.

Oltre al contesto in cui si trovano e con il quale dialogano, le opere di Clet Abraham si distinguono sia da

Manuela Mazzi
Il cartello situato all’altezza di Ponte Brolla, sulla strada verso Vallemaggia. (Manuela Mazzi)
Una delle opere di Clet Abraham.

a un’esigenza comunicativa precisa. È infatti una questione di codici e di semiotica, per quel che riguarda il segno (in quanto significante), dato che il contenuto si fa forza proprio dall’espressione data dalla forma: «Per creare i personaggi che inserisco nei cartelli – spiega l’artista – cioè, per dare loro una posizione identificabile e chiara – un po’ come nell’arte egiziana dei geroglifici – lavoro per adattarli al linguaggio comprensibile e codificato della cartellonistica, calcolando ogni tipo di posizione al millimetro; c’è tantissimo studio dietro, ore e ore di disegno: sono molto esigente, faccio magari mille disegni ma poi ne scelgo uno solo. Essendo molto selettivo ne pubblico forse uno al mese, circa una dozzina all’anno con qualche scultura nel mezzo».

sui cartelli stradali

un punto di vista stilistico, il segno in sé, sia dal punto di vista contenutistico: «Sì, lavoro molto sul contenuto, nel senso che mi piace sfruttare il senso stesso del cartello per poi surfare sul suo significato». E lo fa creando opere dal carattere e dalla poetica riconoscibili, la cui espressione è un impasto di più elementi – tratto e spirito, mescolati a un certo umorismo sarcastico, spesso con una sfumatura romantica – che danno vita ad agenti della polizia che abbracciano l’asta del divieto, frecce unidirezionali che trafiggono cuori, indicazioni delle strisce pedonali che ospitano le tre espressioni dell’evoluzione secondo l’artista, ovvero la scimmia, l’uomo e il robot, e via elencando: «L’arte può essere umoristica ed essere comunque importante, e lo è quando l’umorismo non è fine a sé stesso. Ad ogni modo, penso di essere uno dei pochi che lavora con il disegno a mano e non con il computer: i miei principali strumenti sono la matita e la gomma» e probabilmente anche le righe, le squadre e i goniometri a giudicare la nettezza delle linee. «Io non tocco mai tastiera e mouse; dopo aver fatto il disegno, lo passo alla grafica che lo trasferisce su computer. Secondo me, chi ha un po’ di sensibilità, riconosce il tratto fatto a mano». Tratto distinguibile, che risponde

Clet Abraham usa infatti anche altre forme espressive: «A dipendenza del contesto modifico il mezzo». Tra le opere più chiacchierate e oggetto di denunce legali va di certo menzionato L’uomo comune esposto sullo sperone del ponte alle Grazie sull’Arno: «Sì, la scultura di Firenze alla fine ha subito un processo penale, ma io sono stato assolto perché non vi era nessun appiglio legale che potesse costringermi a togliere l’opera che adesso è lì da più di due anni». Un mezzo diverso per esprimere il medesimo principio concettuale usato coinvolgendo i cartelli: «È così: la statua che cammina nel vuoto, in verità, fa un “passo libero” per rivendicare il suo diritto di libertà. Non ho mai chiesto l’autorizzazione per posare questa scultura, e non farlo è stata una scelta: se volevo rivendicare il diritto dell’uomo di fare un passo libero, non potevo chiedere il permesso, altrimenti non sarebbe più stato libero. La mancanza di autorizzazione è una necessità intrinseca dell’opera stessa».

Non è stato facile comunque vincere la causa: «Per riuscirci mi sono appoggiato alla Costituzione italiana che dice che l’arte è libera. Da qui anche la libertà di lavorare sui cartelli che mi prendo senza chiedere il permesso, perché, secondo me, il “fluido creativo” ha bisogno di questa libertà, che in alcuni luoghi la legge peraltro garantisce, almeno in Italia; e pure in Francia, dove non è inserita nella Costituzione, ma dove pure esiste una legge che garantisce la libertà di creazione artistica».

In fondo, è questo il vero messaggio che l’artista bretone sta cercando di fare arrivare dato che interviene principalmente sui divieti e di conseguenza anche sulle imposizioni, essendo l’altra faccia degli obblighi preposti: «“Un passo libero” è la rivendicazione della libertà dell’arte nella società, che ha bisogno di essere libera, e lo dice appunto anche la legge, solo che poi non viene applicata a

L’Uomo comune esposto sullo sperone del ponte alle Grazie sull’Arno, a Firenze, come si presenta oggi, con una parrucca rosa e centinaia di sticker incollati dai turisti. (Cristina Ciofini)

Abraham vs Bansky

causa dell’ossessione del controllo da parte del potere, che, come una piovra, vuole mettere le mani dappertutto. Da qui la mia battaglia che spero di vincere legalmente per potere dare poi spazio e possibilità a tutti gli artisti di esprimersi senza limiti». Una conquista che potrebbe porre fine a questa “lotta culturale” già durata 14 anni: «Ho un certo spirito e quindi se questa cosa verrà accettata, io me ne inventerò un’altra. Magari continuerò a lavorare sui cartelli ma in modo diverso. Un po’ per essere parte della società, per essere accettato davvero – sono molto sensibile al tema della partecipazione alla vita sociale e non voglio essere considerato un antisociale come la giustizia sta cercando di dimostrare – ma anche perché mi permetterebbe di passare a qualcosa d’altro, di crescere; fin che vengo di continuo bloccato non posso crescere, resto solo lì a battermi contro i muri e la stupidità burocratica, ed è un peccato per tutti».

Libertà anche nel fruire l’arte… «Nella street art, non c’è una cornice di protezione, dove un cartello indica che questo è arte, stabilendo così che il resto non lo è. Nel contesto urbano, il giudizio spetta al passante, è lui che decide se è arte o non è arte, o perlomeno è il passante a poter essere stimolato nel fare una riflessione su che cosa sia l’arte, senza dover pagare un biglietto, senza dover fare lo sforzo di andare in un museo; c’è tanta gente che non ci andrà mai in un museo, ed è questa gente che ha più bisogno di confrontarsi con la cultura».

Restando in tema di libertà, Clet Abraham non sembra volersi porre confini: «Ho lavorato dappertutto, ho girato il mondo, in America, in Palestina, in Taiwan… pure in Giappone, sebbene non fu per nulla una bella esperienza: si rifecero sulla mia compagna arrestandola, ma non voglio parlarne. Ho invece lavorato anche in Svizzera: in verità le mie opere sono state levate molto velocemente; sono stato a Basilea e sul confine con la Francia, vicino a Montreux. In Ticino non sono mai stato, ma ci verrei volentieri…». E noi lo aspettiamo, pur sapendo che di certo non mancheranno sanzioni e multe, sebbene – come in Italia anche in Svizzera –la Costituzione renda l’arte sovrana: Art. 21 «Libertà artistica – La libertà dell’arte è garantita». Il punto, ovviamente, è sempre distinguere gli interventi artistici da quelli vandalici. Nel resto dell’Europa, invece, esistono diversi artisti che lavorano sui cartelli: un collettivo di Madrid, un ragazzo svizzero di origine bretone, e altri ancora, ma Clet Abraham è forse l’artista che spicca maggiormente. «Potreste aver creato una nuova corrente artistica…?» gli chiediamo; «Lo spero».

Il confronto con Banksy è d’obbligo: «Io rendo omaggio a Bansky perché ha aperto a tutti noi delle porte e ha dato contenuto pertinente, stilisticamente riconoscibile e di portata popolare alla street art in modo semplice, efficace e a volte anche divertente; poi, che le sue opere siano diventate super costose è un altro problema». Eppure vi è una differenza sostanziale tra i due artisti: Bansky si nasconde pur non facendo davvero dell’illecito, mentre Abraham ci mette la faccia pur sfidando «la legge» in presa diretta, sebbene la sticker art sia meno invasiva rispetto a graffiti e stencil permanenti, data la facile rimozione degli adesivi stessi che permettono di mantenere forse meglio il fragile equilibrio tra arte e rispetto della legge: «Il fatto che Bansky si nasconda è molto legato alla parte commerciale; anche se inizialmente magari ci è cascato un po’ per sbaglio, in modo innocente: non penso sia stato un calcolo sin dall’inizio».

Di fatto, all’epoca dei suoi esordi, si parla dei primi anni Novanta, si veniva presi per vandali, per cui molti, se non tutti, agivano nell’anonimato… «però poi, nel suo caso – precisa l’artista bretone – è diventato un meccanismo commerciale e, secondo me, è sbagliato perché chi si nasconde in un qualche modo riconosce di fare del male, di fare un torto, di fare qualcosa di sbagliato; se tu sei nel giusto non ti nascondi e basta. Ed è per questo che io ci metto la faccia; non mi piace chi si nasconde. Il loro è solo un modo per fare quelli che stanno sempre un po’ sul filo dell’espressione visiva illegale o semi-legale, per fingersi coraggiosi: questo atteggiamento impedisce di perseguire nella battaglia vera che è quella di rivendicare la libertà di fare arte». Libertà che si è presa la società ticinese GCevents, organizzando questa estate, negli spazi del Rialto di Muralto, l’esposizione Banksy – Un-

derground / An unauthorized exhibition (chiuderà fra pochi giorni, il 29 settembre, ma vale in ogni caso la pena ricordarla per il tema legato alla libertà dell’arte da realizzare e fruire, oggetto del nostro servizio). La mostra ricrea l’ambiente suburbano della metropolitana di Londra con repliche e installazioni ideate senza il coinvolgimento diretto di Banksy. Così facendo, il percorso espositivo ideato alla luce del sole – grazie proprio alla sua natura non del tutto «legale» essendo «non autorizzata» – potrebbe inserirsi nello stesso filone della street art, al pari delle opere di Bansky. D’altro canto: «Esistono tante mostre su Banksy in tutto il mondo e molte di esse non sono autorizzate. Alcune esposizioni sono organizzate da collezionisti privati che hanno acquisito opere dell’artista, oppure si basano su riproduzioni (come nel nostro caso), senza che Banksy abbia un coinvolgimento diretto», spiegano gli organizzatori: «Il suo approccio anticonvenzionale all’arte rifiuta le logiche del mercato artistico tradizionale. Le sue opere di street art sono spesso pensate per essere accessibili al pubblico in modo gratuito (ndr: mentre per vedere le opere di Locarno occorre pagare il biglietto d’entrata). Le mostre di Banksy sono spesso “unauthorized ” perché l’artista non approva ufficialmente l’esposizione o la vendita delle sue opere al di fuori del contesto da lui scelto».

Dove e quando Banksy – Underground / An unauthorized exhibition; al Rialto di Muralto. Fino al 29 settembre 2024. Orari: me-ve: 13.00-19.00 (ultimo ingresso ore 18.00); sa, do e festivi: 10.00-20.00 (ultimo ingresso ore 19.00); lu e ma: chiuso. www.banksylocarno.ch

L’artista bretone
Clet Abraham nel suo studio di Firenze.
Il logo della mostra in corso al Rialto di Muralto.

delle gengive In Svizzera

La borsa cerbiatto per le passeggiate nel bosco

Crea con noi ◆ Una simpatica idea da realizzare con i bambini e godersi le prime giornate di autunno

Utilizzando cartone di riciclo e avanzi di feltro potete creare una borsa a forma di tenero cerbiatto, perfetta per le passeggiate nel bosco. Questa borsa sarà ideale per raccogliere materiali naturali. Si realizza insieme ai bambini e si decora utilizzando gli stessi materiali raccolti durante le vostre esplorazioni. Questo tutorial non solo offre uno spunto creativo, ma incoraggia anche a trascorrere del tempo all’aperto nelle prime giornate autunnali e l’uso sostenibile dei materiali.

Procedimento

Stampate e ritagliate il cartamodello, che trovate online su www.azione.

ch. Utilizzate il cartone per ritagliare due cerchi che serviranno come base della borsa. Ritagliate anche le sagome in feltro per le orecchie, seguendo le indicazioni del cartamodello. Su uno dei cerchi di cartone, pitturate la parte bianca del muso del cerbiatto. Se necessario, applicate più mani per avere un risultato coprente. Utilizzate un asciugacapelli per accelerare l’asciugatura tra una mano e l’altra. Incollate il feltro rosa su quello beige per realizzare le orecchie. Attaccatele sul cerchio dipinto seguendo la posizione indicata dal cartamodello, fissandole con la colla a caldo sul retro del cerchio. Disegnate gli occhi con un pennarello

Giochi e passatempi

Cruciverba

Cosa hanno in comune Aristotele, Confucio e Garibaldi?

Trova la risposta dopo aver risolto il cruciverba, leggendo le lettere evidenziate

(Frase: 5, 5, 11)

ORIZZONTALI

1. Luogo per anacoreti

5. Nome femminile

9. I poeti per i poeti

10. Tutti possono ammazzarla

11. Si contano a scopa

12. Difetto

13. Due quarti di luna

14. Colore vivo e intenso

16. Una cifra vaga

18. Inquilini dello zoo

19. Interdetto

20. Le iniziali del pittore

Guttuso

22. Pronome poetico

24. Riposa in pace

26. Le iniziali dell’attrice Rossellini

27. Frutti invernali

29. Un anno a Parigi

30. Dio greco del Sole

VERTICALI

1. Tempo, età

2. Molto insolita

3. Relativo alla morale

4. Lettera dell’alfabeto greco

5. Complesso polifonico

6. Nome femminile

7. Le iniziali della cantante Amoroso

indelebile e incollate una castagna come naso.

Fissate la striscia di feltro lungo tutta la parte del cerchio pitturata, lasciando circa 6 cm di feltro libero all’inizio e alla fine. Queste eccedenze saranno utilizzate per creare i passanti per la tracolla. Rivoltate il feltro su sé stesso alle due estremità della borsa per formare i passanti che vi permetteranno di inserire la tracolla e cuciteli a mano con punto dritto. Decorate la borsa con materiali naturali. Aggiungete due piccoli pompon rosa per dare un tocco di colore alle guance del cerbiatto. Intrecciate o create una catenella all’uncinetto con la fettuccia beige, ottenendo una lunghezza di circa 70-80 cm (misurate la lunghezza necessaria sul bambino). Lasciate almeno 15 cm di fettuccia all’inizio e alla fine per poterla inserire attraverso i passanti realizzati in precedenza. La vostra borsa è pronta. Buone passeggiate in natura alla ricerca dei tesori che il bosco offre!

Materiale

• 2 pz di cartone di riciclo spesso 20x25 cm

• Pittura a tempera o acrilico bianco, pennello piatto

• Pennarello indelebile nero

• 1 pz di feltro beige 3/4 mm da 7x60 cm

• Resti di feltro 3/4 mm beige e rosa

• Filo di cotone e ago

• Pistola colla a caldo

• Fettuccia beige

• Materiali naturali (2 rametti, una castagna, pigne, ghiande)

• Stampante per il cartamodello

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle

8. Perspicace, ingegnoso

10. Sotto gli occhi di tutti

12. Una discussione con il professore…

13. Nipote di Abramo

15. Generare, produrre

16. Pronome personale

17. Gli eventi di un racconto

21. Il Paradiso delle Alpi

23. Un anagramma di irto

25. Le iniziali di Robespierre

26. Desinenza di diminutivo maschile plurale

28. Poco oltre

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina

o

cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti

esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

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Viaggiatori d’Occidente

Nella terra del ritorno

La baia di Polis disegna un ampio arco circolare a metà della costa occidentale di Itaca, la terra di Ulisse. Ho perso il conto delle mie visite in questi ultimi dieci anni; d’altronde non è la terra del ritorno? Itaca ha una bellezza nascosta che si impara a riconoscere solo col tempo; in compenso non stanca mai e ogni anno il viaggiatore annota cosa è cambiato e cosa è rimasto uguale. Per esempio, grazie ai finanziamenti europei, trovo migliorato il piccolo porto di Piso Etos, un tempo scalcinato. Questa volta invece è chiusa l’incantevole locanda di Sofia ad Anoghi, accanto alla chiesa con il campanile veneziano e i meravigliosi affreschi dedicati alla dormizione di Maria. Risalendo dal porto, sosto lungo la strada che corre alta lungo il fianco della montagna, il Nerito, «sussurro di fronde» nel racconto dell’Odissea. Sotto di me si distende la baia di Po-

lis. La limpidezza delle acque e i riflessi del sole creano un’impressione metafisica.

Una vasta pianura si distende dall’insenatura verso l’interno dell’isola. Il nome in greco del luogo ‒ Polis, ovvero città ‒ non lascia dubbi. Qui in un tempo remoto, di fronte al porto, sorgeva una città di una certa importanza, dove si celebravano giochi e gare legati alla figura di Ulisse. Ma poco o nulla è rimasto di quel remoto passato, testimonianza evidente della vanità delle vicende umane.

Scendo verso la baia. Un modesto stabilimento balneare occupa la maggior parte dello spazio. Una capanna di legno, sporca e disordinata, pretende di essere l’ufficio di un improbabile Beach Manager. Avanzo tra gli ombrelloni camminando sui ciottoli della spiaggia.

Alcune barche dondolano pigramente nell’insenatura, ben protetta

Cammino per Milano

La prospettiva bramantesca

E così, un tardo pomeriggio di settembre inoltrato con quel sapore di fine estate dovuto forse molto alla luce e all’odore dell’aria, come l’inizio di un verso di una canzone di Jannacci, «cammino per Milano». In via Torino, tra la folla, salvandomi con lo sguardo verso squarci di azzurro nel cielo coperto di nuvole stirate dal vento. In due minuti neanche, provenendo da piazza del Duomo, sono all’altezza di Santa Maria presso San Satiro. Una chiesetta a cui si può benissimo non far caso e spesso sfugge visto che è un po’ arretrata – e per questo, a dipendenza dell’ora, più o meno nascosta dai passanti preda dello shopping – rispetto a via Torino. La prima volta, anni fa, avevo sbagliato chiesa. Ero entrato, a colpo sicuro, dentro il più appariscente Tempio di San Sebastiano qui vicino, confuso per via dell’associazione mentale balorda con il tempietto romano del Bramante.

Un barbone in erba dimora prima del cancello d’entrata. In ombra, sulla facciata, si legge in maiuscolo, Divo Satyro. Spingo la porta, quattro o cinque passi sul pavimento a rombi ed ecco davanti «il mirabile artificio» come i duchi di Milano avevano definito la prospettiva illusionistica bramantesca. Spettacolare illusione del coro e abside realizzata da Donato di Angelo di Antonio di Renzo da Farneta detto il Bramante (14441514), intorno al 1483. Prodezza rinascimentale dell’architetto nato a Fermignano, vicino a Urbino, e morto a Roma dove ci sono tre suoi capolavori: tempietto, chiostro, scale elicoidali. Per qualche passo, tra l’odore di incenso e visitatori disorientati, infilando lo sguardo sotto la prima arcata della navata destra, il gioco della finta prospettiva del soffitto a cassettoni e del coro con pilastri a candelabre ancora regge. Dopo quindi-

Sport in Azione

dai venti. Giunto sull’altro lato, dopo essermi lasciato alle spalle tutti i bagnanti, un rientro nella roccia segnala la posizione di un’antica caverna. Trattengo a stento l’emozione. La geografia dell’Odissea è controversa e assai discussa dagli specialisti, anche con toni accesi. Del resto è ingenuo cercare corrispondenze immediate; il lunghissimo intervallo di tempo trascorso (oltre tremila anni!) ha trasformato i luoghi in profondità. E, senza tornare troppo indietro, nel 1953 un devastante terremoto ha distrutto la maggior parte degli edifici e mutato l’aspetto di molte parti dell’isola, avviando una dolorosa fase di emigrazione verso Paesi lontani (Canada, Australia). Ma quest’oggi, per forza d’immaginazione, la grotta è davanti a me, nonostante la volta sia franata in mare in tempi lontani.

Questa caverna era sacra alle nin-

fe, le Naiadi, ed era frequentata già in tempi antichissimi, prima ancora di Ulisse. Secondo la leggenda aveva due entrate, una per i mortali, a Occidente, l’altra a Oriente riservata agli dei. Per lungo tempo questo fu l’ultimo luogo conosciuto, l’estremo lembo occidentale della civiltà greca, proteso «verso la notte» e l’ignoto. Da qui i navigatori spiccavano il grande balzo oltre il Tirreno, verso la futura Magna Grecia. Qui i marinai sacrificavano grassi animali alle Ninfe, per guadagnarsi il loro favore. Qui Ulisse, profondamente addormentato, viene lasciato dai Feaci, che lo hanno soccorso e aiutato a compiere il ritorno, dopo dieci anni spesi nella guerra di Troia e dieci in viaggio, tra pericoli, incontri, avventure. Qui, su consiglio di Atena, egli nasconde i doni ricevuti da Alcinoo. E qui, insieme alla dea, tesse il piano per ristabilire l’or-

dine e la giustizia, per riconquistare il palazzo, il trono e il suo ruolo di sovrano, marito, padre. Sostando sotto gli ulivi secolari, si avverte potente lo spirito del luogo. Per mancanza di alternative, lo chiamo Genius loci, prendendo a prestito un termine familiare agli antichi. I nostri antenati avvertivano facilmente queste presenze, ma noi abbiamo perso questa capacità. Entriamo nei luoghi senza preparazione e li «consumiamo» banalmente, alla stregua di ogni altra merce. Ai più semplicemente non interessano neppure.

Anche in questo tardo agosto, solo una coppia si aggira smarrita con una guida in mano. «È qui?» chiedono. «È qui», rispondo. Ma non saprei dire neppure io cosa esattamente sia rimasto. Forse le Ninfe si sono solo nascoste; forse tacciono, perché nessuno le ascolta più.

ci passi, sbirciando tra gli archi della navata, la messa in scena incomincia a scemare e la meraviglia, per l’abside costruita alla perfezione solo per il nostro sguardo un attimo fa, sboccia di colpo. La cupola vera che bagna di luce lo spazio appena prima, aiuta molto a trarre in inganno: una fuga prospettica di quasi dieci metri simulata in cento centimetri. Allo stesso tempo, lo spettatore, vorrebbe quasi tornare subito indietro per ritrovare la magia di questo illusionismo prospettico. Tra finzione e realtà esito e rimango qui imbambolato, in bilico, tra «lo spazio costruito e quello rappresentato» come osserva Arnaldo Bruschi tra le milleenovantotto pagine di Bramante architetto (1969). Uno strato di stucco a base di gesso è stato utilizzato per l’immaginaria volta a botte con i cassettoni in bassorilievo, adornati di rosoni, rosette,

Accerchiare il nemico per responsabilizzarlo

Gli abusi sui minori e sulle persone più fragili non hanno limiti e confini. Famiglia, chiesa, sport, società civile in genere. Nessun ambito è esente da macchie. Ne è consapevole il mondo della politica. È di questi giorni una proposta inoltrata al Consiglio Federale dal Consigliere Nazionale Simone Gianini, che fra l’altro chiede all’Esecutivo di attivarsi per un più capillare monitoraggio delle situazioni a rischio.

Dal canto suo, anche il mondo dello sport è consapevole delle sue derive. Ma lo è anche della complessità dell’argomento e della difficoltà nel prevenirle. In seguito ad alcuni casi clamorosissimi, finiti sulle prime pagine dei media nazionali, l’accerchiamento dei potenziali soggetti a rischio si è comunque intensificato. Il calcio ticinese ci ha provato anche col teatro, con la drammatizzazione. E ora ci prova anche Gioventù&S-

port, con l’intento di far riflettere i suoi animatori e i suoi monitori, con uno sguardo rivolto però anche ai famigliari, che sono la primissima antenna del disagio.

Artefici di questa strategia di prevenzione sono Katia Troise, regista, attrice, fondatrice del Teatro Scintille di Locarno, e Francesco Mariotta, della compagnia Sugo d’inchiostro, insegnante, musicista e attore. Entrambi erano già stati coinvolti dal Cantone per una drammatizzazione delle problematiche relative alla violenza domestica.

Con G&S cambia il committente, ma non muta la sostanza della proposta ideata dai due artisti, che sono andati in scena lo scorso weekend a Bellinzona, di fronte a un pubblico di allenatori, monitori e animatori. Sabato, con Abbracci speciali, l’attenzione si è focalizzata sugli abusi. Per ottenere reazioni positive, per apri-

re le coscienze, Katia e Francesco affidano la regia a una fantomatica e fantascientifica intelligenza artificiale incaricata di cercare e individuare, invano, l’allenatore ideale. La partita , in scena domenica, mette a nudo la problematica della violenza nello sport. Sin dagli esordi del loro lavoro artistico ed educativo, la coppia di attori propone delle costanti nella creazione degli spettacoli. Assolutamente non vogliono mettere il Mostro e la Vittima, l’uno di fronte all’altra. Preferiscono giocare sulle sfumature. Con sottile delicatezza. Non a caso la loro compagnia si chiama Zona Grigia. Tutt’al più rispolverano e portano in scena il senso dell’assurdo e la provocazione. Nella fattispecie, partendo da un assunto che circola da decenni, quello che sostiene che l’allenatore più fortunato è colui che allena una squadra di

rose. Ispirata, a quanto pare, da un affresco di Melozzo da Forlì intitolato Sisto IV nomina Bartolomeo Platina prefetto della Biblioteca vaticana (1477). Infatti la cromia originaria, le cui tracce vengono alla luce in occasione del restauro terminato nel gennaio 1987, era foglie d’oro e azzurrite come nella volta di quell’affresco. Mentre l’atmosfera della prospettiva ricorda quella rappresentata da Piero della Francesca nella straordinaria Pala Montefeltro (1472-1474). Nota anche come Pala di Brera, per la sua collocazione attuale alla Pinacoteca di Brera dopo essere stata, fino al 1811, sopra l’altare maggiore della chiesa di San Bernardino a Urbino. La conchiglia di San Giacomo, dove nel quadro è appeso il memorabile uovo sospeso sopra la testa della Madonna, ritorna anche qui, in doppia veste, con le capesante incavate nel muro dietro all’altare.

Va da sé che l’affresco dell’altare qui e quello sopra del lunettone, passano in secondo piano come tutto il resto della chiesa, messo in ombra dalla magnifica fatamorgana architettonica. Da vicino, sono degni di nota i fregi dorati della trabeazione e le decorazioni a candelabre dei pilastri ottenuti con piastrelle di terracotta sovrapposte. Però vorrei tornare allo stato iniziale di inebetimento per il meraviglioso miraggio costruito ad arte. Una mamma è seduta con la sua bambina. Altri visitatori, increduli, fanno su e giù e quasi non si danno pace per l’abside che appare e poi svanisce man mano che ci si avvicina. Tornato alla prospettiva illusionistica bramantesca, inventata per mancanza di spazio in via Falcone, mi sembra quasi che lì, in quello spazio galleggiante e inesistente, il dolore perduto si integri con il desiderio rinato.

orfani. Sarà vero? Sono convinto di no. Tuttavia, questa forzatura punta a coinvolgere anche i famigliari, chiamati a condividere, come è giusto che sia, le responsabilità educative dei loro figli. Faccio fatica a credere che nella mente di un «malato cronico» possa accendersi una luce, possa squillare un campanello che gli dica: «Ma cosa stai facendo»? Fortunatamente, la casistica dice che queste persone propense a una devianza inarrestabile sono un’infima minoranza. Consola inoltre il fatto che la stragrande maggioranza di chi agisce con dei ragazzini, delle ragazzine o con persone fragili, sia onesta e profondamente consapevole dell’importanza del proprio ruolo educativo. Rimane una fascia intermedia, quella di chi non è sufficientemente solido per far parte della categoria dei «giusti». Una pièce teatrale, a prescindere dal-

le sue qualità e dai valori che veicola, difficilmente riesce a modificare le sorti del cosmo. A meno che chi l’ha commissionata non decida di appropriarsene per proporla in occasione di una serie infinita di ulteriori momenti formativi. Si tratta di insistere. E se l’operazione fosse estesa alla scuola, ai corsi di catechismo, allo scoutismo, e a qualsiasi altro mondo in cui gli adulti dialogano con i giovani, non sarebbe una cattiva idea. Non importa chi sia il committente, non importa l’ambito in cui avvengono violenze e abusi. Conta soprattutto che qualcuno sappia accendere la luce della coscienza e delle emozioni, e lo sappia fare con convincente e coinvolgente leggerezza. Una risata accenderà mente e cuore. Ma non necessariamente ci seppellirà come sostenevano l’anarchico Bakunin e i contestatori del rovente maggio del ’68.

di Giancarlo Dionisio
di Claudio Visentin

Evviva! C’è il nuovo Elsa al moca

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ATTUALITÀ

I ricchi scappano dal Regno Unito

La Brexit prima e il Governo di Keir Starmer poi, con le sue misure egualitarie e la sua attenzione ai conti pubblici, portano alla fuga di milionari e miliardari

Quell’America pervasa dall’odio

Riflessioni sugli attacchi alla vita di Donald Trump e sulla violenza che spacca il Paese, fomentata sia dalla destra sia dalla sinistra radicali

Più risorse da investire nella Difesa

Confederazione ◆ A Berna si discute il futuro dell’esercito, dai trenta miliardi per finanziarlo alla collaborazione con la Nato

Quasi trenta miliardi per l’esercito, nei prossimi quattro anni. Il tema, e la somma a dieci cifre, hanno dato vita al dibattito più infuocato di questa sessione autunnale delle Camere federali. L’argomento è tutto in grigio e in verde ma a farla da padrone la scorsa settimana in Consiglio nazionale è stato soprattutto il rosso all’orizzonte per i conti della Confederazione. E così, in questo incipit, ci torna in mente una frase di Peter Bichsel, uno dei maggiori scrittori svizzeri contemporanei. Raccontando di una sua giornata trascorsa ad ascoltare i dibattiti dalle tribune del Parlamento, questo autore solettese scrive nel suo libro Des Schweizers Schweiz che «quasi tutti gli argomenti discussi hanno a che fare con la finanza. In gioco ci sono le cifre, sempre e soltanto le cifre. Nel nostro Paese abbiamo sette Dipartimenti delle finanze. I costi sono sempre il primo tema, e spesso anche l’unico». Considerazioni scritte quasi trent’anni fa ma tutto sommato tuttora valide. Non per nulla pure il canovaccio del dibattito sull’esercito è stato dominato proprio dal tema delle finanze, anche se va detto che tra le cifre hanno fatto capolino anche altri argomenti di natura più politica e militare. L’invasione russa dell’Ucraina ha sconvolto i piani di difesa del Conti-

nente europeo, e anche la geo-politica internazionale. La Svizzera, è stato ribadito da più parti in aula, deve pertanto essere in grado di riposizionarsi e di aggiornare le proprie capacità di difesa per garantire al meglio la propria sicurezza, anche se a sinistra si è più volte sottolineato che i rischi di un attacco militare contro il nostro Paese sono da considerare estremamente limitati. In ogni caso per l’esercito del futuro si aprono due grandi cantieri. Il primo riguarda un’estensione della collaborazione militare con la Nato. Esercitazioni in comune che in questa sessione hanno raccolto il sostegno del Consiglio degli Stati, ma che continuano a sollevare dubbi da parte di chi ritiene che questo tipo di cooperazione possa mettere in discussione la tenuta della neutralità elvetica. Il secondo cantiere ha a che fare con la necessità di investire maggiormente in favore dell’esercito e dei suoi arsenali. E su questo ultimo punto la settimana scorsa si è discusso soprattutto di cifre, in un dibattito fiume e senza esclusione di colpi. Il piano del Consiglio federale era noto dallo scorso inverno: all’esercito per i prossimi quattro anni, fino al 2028, vanno accordati 25 miliardi e 800 mila franchi. Nel giugno scorso il Consiglio degli Stati ne ha aggiunti altri quattro, por-

tando la somma totale a quasi 30 miliardi. E questo anche perché negli ultimi trent’anni, dalla fine della guerra fredda, gli investimenti militari sono diminuiti costantemente, a tal punto che oggi le capacità di difesa del nostro Paese vengono da più parti considerate insufficienti. In altri termini i cosiddetti «dividendi della pace» generati dalla caduta della Cortina di ferro hanno lasciato lacune negli arsenali del nostro esercito, non solo per quanto riguarda le armi classiche ma anche nel contrasto alle forme ibride di guerra, in particolare nell’ambito della cybersicurezza e della disinformazione.

Se nel 1990 nelle forze armate veniva investito l’1,3% del nostro Prodotto interno lordo, nel 2022 si era invece scesi allo 0,7%

Tradizionalmente vicino all’esercito, il fronte borghese ha su questo punto sottolineato che se nel 1990 nelle forze armate veniva investito l’1,3% del nostro Prodotto interno lordo, nel 2022 si era invece scesi allo 0,7% del Pil. Le discussioni in aula hanno fatto emergere due soluzioni principali per poter disporre dei finanziamenti necessari e per portare la spesa in favo-

re dell’esercito all’1% del Pil entro il 2030. Da una parte, il fronte borghese chiedeva di trovare questi quattro miliardi supplementari risparmiando in altri settori. Tagli da far scattare sostanzialmente in quattro ambiti principali: riducendo i fondi a disposizione della cooperazione internazionale, diminuendo la parte di imposta federale diretta che Berna versa ai Cantoni, e con un intervento sulle spese per il personale e su quelle dello stesso Dipartimento della difesa. A sinistra ci si è opposti con forza contro questi tagli, appoggiando invece una proposta del Centro e della ministra della Difesa Viola Amherd, che mirava alla creazione di un fondo speciale a favore della difesa del Paese, dotato di ben dieci miliardi di franchi. Si trattava di un prestito, con l’esercito chiamato a rimborsarlo entro il 2045, ma anche di una misura straordinaria, esterna ai conti della Confederazione, forgiata anche per scongiurare l’entrata in campo del freno all’indebitamento, strumento in vigore ormai da più di vent’anni per impedire alle finanze federali di dover fare i conti con pesanti squilibri strutturali. Al termine della contesa in aula ha avuto la meglio la versione capitanata da UDC e PLR, anche perché il Centro non è riuscito a compattarsi a

sostegno del fondo speciale in favore dell’esercito. Resta ora però da capire se in dicembre, quando si tratterà di discutere del budget 2025 della Confederazione, ci saranno davvero delle maggioranze in favore dei tagli. E qui la battaglia politica rischia di farsi davvero infuocata. Basti dire che i Cantoni non hanno nessuna intenzione di accettare una riduzione della parte di imposta federale che viene loro riversata dalla Confederazione. E che per quanto riguarda la cooperazione internazionale i segnali che giungono dal Parlamento sono perlomeno discordanti. Non più tardi di due settimane fa il Consiglio degli Stati si è opposto a chi chiedeva di tagliare i fondi a sostegno di questo settore. Trovare di volta in volta dei compromessi sui tagli da fare sarà dunque compito arduo, e all’orizzonte spunta, o ritorna, anche un’altra possibile soluzione, l’aumento dell’1% dell’IVA in favore dell’esercito ma anche dell’AVS. Proprio giovedì scorso il Consiglio degli Stati ha approvato una mozione che va in questa direzione, un’opzione che va ora concretizzata. E anche su questa pedana ci sarà di che tirare di fioretto. E così, a ben guardare, Peter Bichsel pare proprio avere ragione: «I costi sono sempre il primo tema, e spesso anche l’unico».

Keystone
Roberto Porta
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L’ultima speranza per il clima

Il summit ◆ Tra l’11 e il 12 novembre si svolgerà in Azerbaigian la COP 29

Ancora una volta la conferenza annuale delle parti sul cambiamento climatico si svolge in un Paese esportatore di petrolio. L’anno scorso la COP 28 si celebrò a Dubai, la metropoli degli Emirati Arabi Uniti che proprio ai loro sterminati giacimenti di oro nero devono la prosperità e il rilievo internazionale. Quest’anno il compito di ospitare la conferenza tocca a Baku. Nella capitale dell’Azerbaigian, lo Stato caucasico sul Mar Caspio uscito nel 1991 dal crollo dell’Unione Sovietica, che proprio sulle crescenti esportazioni di petrolio fonda i suoi programmi di sviluppo, i lavori si svolgeranno fra l’11 e il 22 novembre. Ma non è certamente per questo, almeno non solo per questo, che la COP 29 si muoverà ancora una volta in un contesto assai difficile.

L’aumento delle spese militari comprime i bilanci, riducendo la disponibilità dei Paesi più ricchi ad aiutare gli altri

Pesano sulle prospettive negoziali la drammatica situazione internazionale, la realtà di (almeno) due guerre di cui non si vede la fine e che potrebbero addirittura allargarsi, una politica energetica che non riesce a trovare il suo punto di equilibrio dopo gli scossoni dovuti al conflitto ucraino e alle sanzioni imposte alla Federazione russa. Pesa il vertiginoso aumento delle spese militari, che comprimendo i bilanci riduce la disponibilità dei Paesi più ricchi ad aiutare quelli meno dotati, secondo lo spirito dell’iniziativa diplomatica scaturita nel 1992 dal vertice di Rio de Janeiro. Si tratta di finanziare i costosissimi programmi destinati ad avvicinarsi il più possibile ai livelli di riduzione delle emissioni fissati nel 2015 dalla COP 21 di Parigi. In altre parole l’atmosfera che il prossimo novembre accoglierà a Baku il mondo della diplomazia ambientale corrisponderà esattamente all’atmosfera malata che si vorrebbe sanare. Eppure il Governo azero, protagoni-

sta di una politica estera equidistante che non esclude buoni rapporti con l’Occidente, non esita a ricorrere alle risorse retoriche del linguaggio diplomatico. Il presidente Ilhan Aliyev dice che la scelta dell’Azerbaigian come Paese ospite della conferenza dimostra che «la comunità internazionale apprezza ciò che stiamo facendo, in particolare, nell’area dell’energia verde». Belle parole, ma che dire dei necessari limiti all’uso dei combustibili fossili, fra i quali il petrolio gioca la parte del leone?

Sul tavolo negoziale resta una realtà di fatto che non ammette discussioni: gli indici che misurano l’avvelenamento dell’atmosfera attraverso l’emissione dei gas che producono l’effetto serra, e di conseguenza il surriscaldamento del pianeta, la degenerazione del clima, lo scioglimento dei ghiacci, l’innalzamento del livello dei mari non calano come dovrebbero. Eppure i Governi si erano impegnati a farli calare imponendo le giuste misure. Ne consegue che il fatidico punto X, oltre il quale il processo diverrebbe irreversibile, si avvicina pericolosamente. Siamo ormai sull’ultima spiaggia e i tempi sono strettissimi: bisognerebbe riprendere subito il discorso virtuoso che può ancora portare agli obiettivi fissati con l’accordo di Parigi del 2015: temperatura globale almeno un punto e mezzo inferiore ai valori che precedevano, meno di tre secoli or sono, la rivoluzione industriale.

Questo implica il passaggio graduale dall’uso dei combustibili fossili, che scaricano nell’atmosfera i loro venefici fumi, alle fonti rinnovabili di energia. Ai Paesi petroliferi, così come ai grandi produttori di carbone, il mondo chiede di fare un passo indietro. Che cosa ne pensa il presidente Aliyev, che cosa le lobby petrolifere che fin qui hanno remato contro? A quanto risulta fra gli attori della scena mondiale soltanto l’Unione europea interpreta l’emergenza climatica come un problema prioritario di sopravvivenza fra gli equilibri sconvolti del pianeta. Ma è sempre più una battaglia di retroguardia, mentre accan-

Se il ricco scappa

Londra ◆ Gli effetti delle misure di Keir Starmer

Cristina Marconi

Alla chetichella, ma se ne vanno: i miliardari e pure i milionari stanno lasciando il Regno Unito e quella Londra che per secoli ha fatto brillare gli occhi di chiunque avesse un po’ di capitale e qualche idea per farlo crescere. La Brexit prima e il Governo di Keir Starmer (nella foto) poi, con le sue misure egualitarie la sua attenzione ai conti pubblici, portano a una lenta e inesorabile fuga. Se dal 2017 al 2023 ben 16’500 milionari hanno fatto le valigie, solo nel 2024 il loro numero è destinato a raggiungere un vertiginoso 9500. E, a seconda dell’età, le destinazioni cambiano. La finanza europea si è spostata a Parigi, grazie alla sapiente regia del presidente Macron, i più anziani hanno scelto la Florida o l’Italia, la Svizzera è sempre un’opzione amatissima, negli Emirati e in Asia ci sono destinazioni ambite, Madrid e Barcellona sono dinamiche e hanno tassazioni favorevoli. E pensare che solo qualche anno fa si temeva che Londra sarebbe diventata la «Singapore sul Tamigi»: iniqua, sregolata, attraente per i grandi capitali. Sta succedendo il contrario.

to ai problemi oggettivi che ostacolano queste politiche si erge da qualche tempo un dilagante scetticismo. In un mondo lacerato da mille contrapposizioni si è fatta strada anche quella che separa chi crede nella componente antropica del degrado ambientale e climatico, e dunque chiede che si intervenga, e chi sostiene che in realtà il fenomeno discende dall’avvicendarsi di cicli naturali.

C’è chi crede nella componente antropica del degrado ambientale e chi sostiene che il fenomeno sia parte del ciclo naturale

Questa posizione negazionista implica che la componente antropica è irrisoria per dimensioni, e che sarà la natura a riportarci alla normalità. Dunque non servono i sacrifici che si vogliono imporre in materia di emissioni di gas a effetto serra. Va da sé che la grande industria petrolifera e quella che esalta il ruolo del carbone incoraggiano questo punto di vista. Intanto nel Pacifico si scruta con angoscia il mare che sale. A Kiribati, il piccolo Stato insulare che vede il livello dell’oceano crescere minacciosamente e dopo avere divorato le candide spiagge minaccia l’intero territorio nazionale che si estende su un gruppo di isole pianeggianti o poco elevate, si prendono le misure del caso. Infatti se nulla cambia un giorno bisognerà sloggiare, per questo si chiede all’Onu di inserire nel catalogo delle grandi emergenze la figura del profugo climatico. Sono circa centoventimila i cittadini di Kiribati ormai pronti a impersonare questa nuova categoria umana. Se nulla cambia… Alla conferenza che sta per celebrarsi sulle rive del Mar Caspio quella che forse è l’ultima parola. Si attende che il mondo, spostando l’attenzione dalle crisi che lo attanagliano per affrontare questo problema esistenziale ci dica se qualcosa possa e debba cambiare. Dopo, se anche l’ambiente sarà vittima delle guerre in corso, potrebbe essere davvero troppo tardi.

La finanza europea si è spostata a Parigi, grazie alla sapiente regia del presidente Emmanuel Macron

C’è anche chi ha scelto di lasciare Londra per andarsene nelle parti più nobili della campagna inglese, facendo diventare casa quello che prima era solo un rifugio per il weekend e evitando così l’aumento delle tasse sul «capital gain» previsto nella manovra d’autunno e applicato sulle seconde abitazioni. Qualcuno si trasferisce, qualcuno sta vendendo le magioni in Cornovaglia e nel Norfolk, in generale ci sono più abitazioni di pregio sul mercato rispetto all’anno scorso nell’intero Regno Unito. Insomma, sebbene amichevole e moderato, il Governo laburista ha avviato un’opera di ridistribuzione che non piace a tutti. Se da una parte ha tagliato i sussidi per il riscaldamento agli anziani, dall’altra non fa sconti neppure ai ricchissimi nel tentativo di risanare l’enorme buco nei conti pubblici, 22 miliardi di sterline, lasciato dai Tories. «Chi ha le spalle più larghe deve farsi carico del peso più grande», ha dichiarato il premier Starmer. Il problema è che chi ha le spalle più larghe si sta organizzando diversamente. Al di là del generico peggioramento delle condizioni dovuto alla Brexit e agli anni di incertezza politica che il Paese ha attraversato, sono due le misure che stanno convincendo chi dispone di più di un milione ad andare via. Chi lavora nel «private equity» (l’attività di investimento nel capitale di rischio di imprese generalmente non quotate) teme che la cancelliera Rachel Reeves decida di far pagare più tasse sulla principale forma di remunerazione dei manager, ossia il «carried interest», una quota di profitti che al momento sono tassati come plusvalenze, portando l’aliquota dal 20-28% al 40-45%. Il Governo aveva promesso che non lo avrebbe fatto, ma tutti i segnali stanno andando in quella direzione.

Un passo che invece è certo riguarda lo statuto speciale dei nondom, che risale ai tempi coloniali e che permette agli stranieri che vivono nel Regno Unito ma hanno la re-

sidenza fiscale altrove di non pagare le tasse sui profitti generati all’estero. Legale ma politicamente imbarazzante, come per la fantastiliardaria moglie dell’ex premier Rishi Sunak, Akshata Murty, che aveva dovuto annunciare l’intenzione di fare la sua parte con il fisco britannico. Già i Tories avevano deciso di mettere mano a un privilegio considerato datato e iniquo, lasciando un periodo «di grazia» di 4 anni prima di dover pagare le tasse come tutti i residenti nel Regno Unito. Il Labour ha dato un giro di vite alle proposte, cancellando lo sconto del 50% per i primi due anni e annunciando che tutti i beni all’estero verranno sottoposti alla legge britannica sulle successioni. Sia Tories che Labour puntano a un extra gettito di 2,6 miliardi di sterline, ma Oxford Economics e altri think tank hanno fatto presente come il risultato potrebbe essere ben diverso, e imprevedibile: un crollo di 900 milioni di sterline all’anno se se ne va tanta gente, oppure un guadagno da 1 miliardo e passa se le tasse dei ricchissimi continuano comunque ad arrivare all’erario di sua maestà. Le misure verranno applicate dal 6 aprile 2025. Sono circa 74mila i non-dom che, pagando 30mila sterline all’anno, si garantiscono di essere in un club pieno di vantaggi. Poi, certo, fanno beneficenza, investono, pagano 9 miliardi di tasse all’anno. Nell’insieme hanno 10,9 miliardi di sterline di beni all’estero non tassati. Ma chi lo dice che resteranno e che queste entrate extra serviranno davvero a finanziare la sanità e ad affrontare l’enorme emergenza sulla salute mentale?

«Londra ha ancora un decennio buono davanti a sé», spiega un esperto di finanza. «Ha avuto una forza tale in passato che ci vorrà un po’ prima che si spenga, ma sono state fatte troppe scelte in una sola direzione». Se l’ambizione starmeriana di creare una società dinamica ma con meno disuguaglianze preoccupa, l’instabilità politica degli anni dei conservatori, con 5 primi ministri in 13 anni, ha fatto anch’essa danni enormi: Liz Truss inseguiva un sogno iperliberista ma ha fatto crollare la sterlina. Anche il fatto di imporre l’Iva sulle scuole private, tasse che gli istituti come Eton hanno trasferito sulle famiglie, ha cambiato la prospettiva. Un rapporto di UBS Global Wealth dice che i milionari nel Regno Unito potrebbero ridursi del 17%, passando da 3’061’553 nel 2023 a 2’542’464 nel 2028. E a beneficiarne, con buona pace dei britannici, sarà Parigi, destinata a diventare la città più ricca d’Europa entro il 2030. Keystone

Come ridurre le emissioni venefiche? (Keystone)

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Il clima di odio che pervade l’America

L’analisi ◆ Il secondo attentato alla vita di Donald Trump e la violenza fomentata sia dalla

Federico Rampini

Quando Elon Musk ha osservato che nessuno finora ha attentato alla vita di Joe Biden o di Kamala Harris, in un post su X poi da lui cancellato, la sua posizione era equivoca e pericolosa: sembrava quasi invocare un «equilibrio del terrore», con attentati a danno di ambedue i candidati. Donde la clamorosa retromarcia. Però la versione cancellata del suo post su X alludeva all’accusa che in America esiste un clima di odio non solo nella destra radicale che vedemmo in azione al Campidoglio il 6 gennaio 2021; c’è anche tanto odio fomentato a sinistra contro Trump. Quel clima può arrivare a legittimarne l’eliminazione fisica. Basta navigare nel profluvio di commenti online successivi sia al primo sia al secondo attentato. Una miriade di queste reazioni appartengono alla categoria del «se l’è cercato lui», insomma tanto peggio per Trump, essendo un personaggio che usa una retorica incendiaria e talvolta simpatizza con la violenza. Ergo: gli attentati sono un giusto castigo per questo avversario politico? Allora bisogna sperare che il prossimo cecchino abbia la mira giusta? Un’altra categoria di reazioni appartiene alla famiglia del complottismo di sinistra: è la teoria secondo cui gli attentati sono sceneggiate, sono finti, se li organizza lui per aumentare la propria popolarità.

La violenza di destra è giustamente oggetto di vigilanza e repressione. Si vigila anche sui potenziali attentatori di Trump?

Il retroterra è quello di un’America lacerata in tribù contrapposte, dove la predicazione dell’odio e della violenza «giusta» non è il monopolio di una parte sola. L’idea che Trump sia un aspirante dittatore, e quindi ogni mezzo sia lecito per eliminarlo, non appartiene solo a frange di ultrà come gli estremisti di Antifa; in realtà aleggia in modo implicito nei discorsi ovattati di una certa sinistra accademica, mediatica, hollywoodiana. Se lui è il male supremo, se una sua vittoria sarebbe l’inizio della fine della democrazia americana, chi lo uccide è un assassino o un salvatore della patria? Questo è il brodo di coltura a cui allude Musk quando osserva che gli attentati avvengono da una parte sola. Altri fattori completano il quadro di una sinistra radicale che può essere illiberale e autoritaria, tanto quanto il mostro contro cui si batte. L’ex democratico Robert Kennedy Jr denunciò la censura del proprio partito quando tentava di opporsi a Biden (all’epoca sostenuto dall’establishment nella sua ostinazione a ricandidarsi). Una volta uscito dal partito per correre come indipendente, lo stesso Kennedy denunciò la guerriglia legale dei democratici per escludere il suo nome dalle schede elettorali. Kennedy ha finito per ap-

poggiare Trump, ma non era inevitabile. Robert Junior viene da una storia di ambientalismo radicale che lo ha portato su posizioni estreme, antiscientifiche, per esempio con la campagna anti-vax; però la sua deriva a destra è stata favorita dalla sensazione di essere censurato da un establishment progressista che oggi governa il Grande Fratello americano (vedi, fra i tanti esempi, la censura woke nelle università). Un altro segnale dell’esistenza di una sinistra illiberale è la censura operata da Facebook contro le opinioni di destra, e ammessa pubblicamente da Mark Zuckerberg: se la sinistra vuole esasperare la paranoia della destra, sta facendo del suo meglio per dimostrare che la persecuzione è reale.

La verità scomoda è anche un’altra. Dall’Fbi all’intelligence, fino al Dipartimento di Giustizia, la violenza di destra è oggetto di vigilanza, prevenzione, repressione. Giusta-

mente. Dal 6 gennaio 2021 non si può sottovalutare il potenziale eversivo e criminale che cova nelle milizie filo-naziste, nei suprematisti bianchi, nei nostalgici del Ku Klux Klan. Su quel mondo la macchina poliziesca e giudiziaria esercita la sua pressione. Ma sta vigilando anche sulla galassia dei potenziali attentatori alla vita di Trump? Oppure vede pericoli da una parte sola? La storia americana insegna che l’Fbi è una polizia potente ma politicizzata: lo fu dalla sua nascita ai tempi di Edgar Hoover, lo rimane oggi. Il sospetto è che la Casa Bianca abbia dichiarato guerra alla violenza politica solo quando è di destra. Già per l’attentato di due mesi fa la capa del Secret Service ha dovuto dimettersi, perché le colpe e manchevolezze erano scandalose. Quanti altri attentati potranno accadere da qui al 5 novembre? In quanti penseranno che le forze dell’ordine li abbiano «lasciati» accadere? E quanti reagiranno

di nuovo sostenendo che Trump se li è cercati? È un gioco pericoloso. Un soggiorno in Europa mi mette a contatto con la «vostra» incredulità sull’elezione americana. Girando il Vecchio continente mi sento ripetere le stesse domande. Com’è possibile che esista ancora un margine di incertezza sul risultato del 5 novembre?

Come possono esserci dubbi su chi sia più adatto a governare, tra Harris e Trump? Il dibattito televisivo del 10 settembre, in cui lui partì per la tangente con le fake news sugli immigrati che mangiano cani e gatti, diventando lo zimbello dei meme, non dovrebbe aver risolto la questione una volta per tutte? E vada per i faziosi, gli ideologizzati, ma come possono esistere ancora degli «indecisi» a questo punto? L’incredulità europea riecheggia peraltro quella delle élite costiere americane, i laureati progressisti che leggono il «New York Times» e guardano la «Cnn», anch’essi sbalorditi e indignati che i sondaggi possano ancora dare una situazione di semi-parità, con un vantaggio ad Harris troppo esiguo per garantire la sua elezione. Per rispondere prendo a prestito gli argomenti usati da una voce «terza», abbastanza equilibrata e al di sopra delle parti. È l’opinionista del «New York Times» Ross Douthat. Riassumo qui una sua analisi intitolata proprio Cosa pensano gli indecisi. Douthat conferma l’impressione di scioltezza, disinvoltura e sicurezza che Harris ha dato nel dibattito televisivo del 10 settembre, in cui ha attirato Trump in trappola e lo ha spinto a esibire il peggio di sé. Dietro l’ottima performance di Kamala però c’era «una fuga dal bilancio reale dell’Ammi-

nistrazione di cui lei fa parte». I risultati dell’azione di Governo di Biden-Harris, Douthat li elenca come segue. Una impennata storica di migranti clandestini, avvenuta senza un serio intervento normativo né un vero dibattito. Una fiammata di inflazione, dapprima innescata dalla pandemia ma poi alimentata dai deficit pubblici dell’Esecutivo democratico. La ritirata dall’Afghanistan gestita in modo disastroso. Una guerra in Europa che rimane aperta al rischio di escalation. I democratici chiedono agli indecisi di perdonare i loro fallimenti politici e il fanatismo ideologico di una certa loro parte

La conversione dell’élite all’estremismo woke, con ripercussioni concrete sull’adozione di politiche nefaste per quel che riguarda la criminalità, le droghe, la scuola. «La campagna di Harris spera che gli elettori dimentichino o perdonino questo, mentre si presenta come un fattore di cambiamento e promette che l’America non tornerà al passato». Quello che i democratici chiedono all’elettore indeciso – con ogni probabilità un moderato di centro – non è solo di accettare qualche compromesso sui principi pur di mantenere fuori dalla Casa Bianca un populista pericoloso, instabile e disonesto. No, secondo l’opinionista del «New York Times» i democratici stanno chiedendo agli indecisi di perdonare i loro fallimenti politici e il fanatismo ideologico di una certa loro parte, sulla base della fragile promessa che Kamala non ripeterà quegli errori.

alleAccanto
Leukerbaddi
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C’è chi pensa che Trump, fomentatore di odio, meriti di diventare un bersaglio. (Keystone)
L’FBI indaga nei pressi dell’International Golf Club a West Palm Beach, in Florida, su quello che sembra essere un tentativo di omicidio a danno di Trump. (Keystone)

PERCHÉ IL PORRO BIO È COSÌ BUONO?

Per crescere bene, i porri bio hanno bisogno di un terreno fertile e trattato con cura. È vietato l’uso di fertilizzanti artificiali e pesticidi chimici di sintesi.

Chiunque passeggi per il Seeland bernese può riconoscere le differenze tra agricoltura biologica e convenzionale in un piccolo spazio. Nella regione nota come «l’orto della Svizzera», le aree coltivate in modo biologico spesso confinano con quelle coltivate in modo convenzionale. Si nota chiaramente la differenza nei porri: gambi corti e un po’ pallidi stanno accanto ad altri robusti e di un verde intenso. Il porro convenzionale deve il suo aspetto sodo soprattutto all’abbondanza di fertilizzanti artificiali. Il porro bio cresce in un ambiente diverso. Deve coprire il

suo fabbisogno di nutrienti con concimi bio organici meno produttivi e con le riserve immagazzinate nel terreno. Poiché il porro cresce più lentamente, il suo sapore è ancora più intenso.

La rotazione delle colture è fondamentale Per mantenere il terreno fertile a lungo, è necessario un piano ben studiato di cosa coltivare e quando: si tratta della rotazione delle colture, che ha anche un effetto preventivo contro malattie e parassiti. I coltivatori di ortaggi bio seguono una rotazione quinquennale delle colture in cui ortaggi come finocchi, porri, broccoli o insalata si alternano ai cereali. Ogni cinque anni sull’area cresce un prato o si effettua un sovescio. Gli scarti vegetali e il letame di mucche e manzi forniscono al terreno ulteriori sostanze nutritive. Si ottiene così un compost particolarmente prezioso che rivitalizza i microrganismi naturali del terreno e contribuisce alla formazione dell’importante strato di humus.

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PREZZO DEL GIORNO

Il Mercato e la Piazza

Quelle drastiche misure di risparmio

Dal 5 settembre scorso risparmiare è tornato ad essere un tema di attualità. Quel giorno, infatti, un gruppo di esperti incaricato dal Consiglio federale di suggerire possibilità di risparmio nel budget della Confederazione ha presentato i risultati del suo lavoro. Si tratta di 60 misure che dovrebbero permettere di ridurre, entro il 2030, la spesa della Confederazione di 5 miliardi. Fossero accettate, queste misure consentirebbero non solo di evitare futuri deficit, ma anche di recuperare un certo margine di manovra per future nuove spese. Le proposte del gruppo di esperti hanno trovato solo l’appoggio del Consiglio federale. I partiti hanno invece pubblicato prese di posizione critiche. A destra si pensa che gli esperti non siano andati abbastanza avanti, mentre a sinistra si protesta per l’eccesso di rigore nelle loro proposte. Non c’è dubbio quindi che ci sarà battaglia, se nei prossimi

Affari Esteri

Il

mesi le misure di risparmio diventassero proposte concrete. In casi come questo il se è di rigore. Non si può infatti escludere che il demandare l’onere di proporre i tagli a un gruppo di esperti possa essere anche una manovra tattica per procrastinare qualsiasi decisione. Fino all’altro ieri infatti nel Parlamento nazionale la preoccupazione maggiore era quella di trovare nuove risorse per finanziare aumenti della spesa, non di risparmiare.

L’aspetto più interessante di questo esercizio è che gli esperti hanno passato al pettine tutte le poste di spesa della Confederazione seguendo quindi il principio dello Zero-based budgeting (un metodo di budgeting in cui tutte le spese devono essere giustificate per ogni nuovo periodo) che faceva furore negli anni Ottanta quando, per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale, gli enti pubblici cominciarono a elaborare programmi di

risparmio. Osserviamo ancora che il gruppo di lavoro ha avanzato le sue proposte senza tener conto se per la loro realizzazione siano necessarie modifiche di legge o mutamenti negli articoli della Costituzione federale. Cosa più che probabile... Esse dovranno passare quindi davanti al Parlamento e, se necessario, dovranno essere sottoposte al giudizio dell’elettorato. Ora, nel rapporto degli esperti l’effetto delle misure di risparmio è calcolato per gli anni 2027 e 2030. È tuttavia probabile che entro queste date il lavoro di modifica legislativa necessario per mettere in vigore queste misure non sarà terminato. È vero che la politica è l’arte di rendere possibile quello che è necessario. Ma in una Nazione come la nostra, con diritto di referendum, è impossibile stimare quanto lunghi potranno essere i tempi di questa trasformazione. Indipendentemente da tutto, re-

sta interessante gettare uno sguardo sulle proposte del gruppo di esperti. I risparmi maggiori, ovviamente, si potrebbero conseguire nel campo delle spese per l’amministrazione frenando sia l’evoluzione dei salari, sia la crescita dell’effettivo degli impiegati. Da quando i programmi di risparmio sono diventati comuni anche negli enti pubblici, i tagli più importanti hanno sempre riguardato le spese per il personale. Questo perché, da un lato, questa posta di spesa è sempre la più importante nelle amministrazioni pubbliche e, dall’altro, per più motivi, non ha un costo politico elevato. L’altro gruppo di proposte di risparmio concerne i sussidi federali. Nel suo rapporto il gruppo di lavoro elenca riduzioni e soppressioni in quasi tutti i campi della politica federale: dalla politica climatica, ai trasporti pubblici, dalla politica dell’asilo agli aiuti per le famiglie con figli

primo commissario europeo per la Difesa e lo Spazio

Nella nuova Commissione europea delineata da Ursula von der Leyen per il suo secondo mandato, Sicurezza e Difesa sono state assegnate a politici che vengono dal nord est dell’Europa, a conferma del fatto che negli ultimi due anni e mezzo, da quando cioè Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina (febbraio 2022), il baricentro ideale della difesa europea dall’aggressione russa si è spostato da quella parte. Naturalmente senza i fondi e la volontà politica della cosiddetta «vecchia Europa» non si potrebbe fare nulla, ma parole, strategia e mestiere saranno indirizzati da chi non ha alcun dubbio su quel che la minaccia russa rappresenta per tutto l’Occidente. Per la prima volta nell’Esecutivo dell’Unione europea ci sarà un commissario per la Difesa, come aveva annunciato negli scorsi mesi von der Leyen, che ha aggiunto in questo portafoglio anche lo Spazio, la cui rilevanza – basti pensare ai satelliti che permettono le co-

municazioni in Ucraina – è diventata lampante. La presidente della Commissione ha indicato per questo ruolo Andrius Kubilius, sessantasettenne ex primo ministro della Lituania, europarlamentare dal 2019, fisico di formazione, lungo attivismo nei movimenti antisovietici. Perché proprio Kubilius? Lui che è amico degli oppositori russi, è nato nella Vilnius sovietica e parla russo, ha detto ai giornalisti: «Noi lituani possiamo portare un grande valore aggiunto, viviamo in una regione ai confini con Russia e Bielorussia, siamo vicini all’Ucraina e conosciamo bene le minacce che sta affrontando». Nel 2017, quando il mondo pensava che la guerra in Ucraina dopo l’invasione russa del 2014 (ancora non la chiamavamo così, oggi sì) fosse «congelata» e si distraeva, Kubilius presentò all’Ue un documento dal titolo «European Plan for Ukraine», in cui proponeva progetti per sostenere le istituzioni ucraine e l’avvi-

cinamento all’Ue. Oggi Kubilius dice che «il miglior investimento per la sicurezza europea è investire nella sicurezza ucraina». Il commissario non sarà ovviamente a capo di un esercito europeo: la Difesa è di competenza dei singoli Stati membri. Il suo sarà un lavoro di coordinamento dell’industria bellica europea che è risultata grandemente deficitaria in questi anni, nonostante le promesse fatte a Kiev. All’inizio dell’estate, presentando i suoi obiettivi, von der Leyen aveva detto che la difesa dell’Ue avrà bisogno di 500 miliardi di euro nei prossimi dieci anni, ma c’è già una grande discussione (e molte divisioni) su come finanziare questo budget: Kubilius è a favore dei cosiddetti Defence Bond, quindi l’utilizzo del debito comune, proprio come l’altra esponente dei Paesi baltici con un ruolo apicale nella nuova commissione, l’ex premier estone Kaja Kallas, che guiderà la diplomazia europea.

Un mondo del cucù da cambiare

Niente da fare, siamo ancora lì. Agli editoriali dei giornali arrabbiati verso una classe politica che ancora non ha capito che pagare la Posta perché aiuti i giornali tradizionali non è più la soluzione del problema ma è ormai diventato il problema. Nessuno in tutto il mondo può dire di avere la soluzione della crisi che attanaglia l’informazione, e dubito fortemente che sarà la Svizzera a trovare una via d’uscita al dilemma. Dovendo tornare a parlare di questa storia infinita, decido di seguire un consiglio sempre utile per arrivare a perlustrare meglio il futuro: tornate a leggere i classici! Dato che la crisi dell’informazione non riguarda più solo televisione ed editoria tradizionale ma comprende anche l’industria dell’editoria digitale e delle piattaforme in Rete, tralascio il classico Marshall McLuhan del sempre enigmatico, e un po’ anche

sfuggente, «il medium è il messaggio». Preferisco partire da Neil Postman, sociologo e grande teorico dei mass-media, che nel suo Divertirsi da morire preconizzava già quarant’anni fa che i media elettronici avrebbero modellato il mondo dell’informazione mettendosi al posto dell’uomo fino a sostituirlo anche nei ruoli di guida. E aggiungeva questa indicazione: «Il modo migliore per capire una cultura è quello di prestare attenzione agli strumenti di conservazione di cui essa si serve: se fino agli inizi del Novecento gli strumenti principali per tale fine erano state la parola e la stampa, oggi esse rischiano di essere sostituite dai mezzi di comunicazione di massa». Ero però (e sono tuttora) attratto anche da un altro classico: il critico ed editore americano Leon Wieseltier che una decina di anni fa – in un mirabile discorso in difesa dell’umanesi-

mo rivolto agli studenti dell’università Brandeis di Boston – ci aveva inutilmente avvisati che il fatto di vivere «felicemente, addirittura inconsciamente in una società ormai governata dai valori di utilità, velocità, efficienza e convenienza» avrebbe fatto diventare la nostra ragione una ragione strumentale, inducendoci a dimenticare «la ragione dei filosofi, con la sua antica magnitudo di ambizione intellettuale, la sua convinzione che i temi propri al pensiero umano siano i temi più vasti, e che la mente, in un modo o in un altro, possa penetrare i princìpi più autentici della vita naturale e della vita umana». Segnali chiari anche i suoi: il medium resta sì il messaggio, ma con il digitale il problema da affrontare si è ampliato. Lo stesso concetto filosofico è presente anche nella critica di Neil Postman che alla fine prediligo

negli asili nido. Il gruppo di lavoro pensa poi che dovrebbe essere possibile contenere l’evoluzione futura dei premi delle casse malati (e quindi dei contributi della Confederazione alle stesse) e delle spese per la politica sociale. Anche i contributi per la cooperazione e lo sviluppo e quelli al Fondo nazionale per la ricerca scientifica dovrebbero essere ridotti. E se, nonostante tutto, i risparmi non dovessero bastare? Tenendo conto di questa possibilità il gruppo di esperti ha formulato proposte anche per aumentare le entrate della Confederazione senza che per questo sia necessario introdurre aumenti di imposta. In questo campo la loro formula è: eliminazione dei privilegi e riduzione delle deduzioni fiscali. E per completare il catalogo delle misure gli esperti hanno pensato anche di aumentare le tasse di iscrizione alle Scuole politecniche federali.

La componente spaziale del portafoglio di Kubilius comprende la gestione dei programmi satellitari Galileo e Copernicus già esistenti e di un terzo progetto pluriennale di ricerca e sviluppo per produrre satelliti sicuri: si chiama Iris 2 e dovrebbe diventare realtà in questo mandato. Si capisce perché il lavoro che spetta all’ex premier lituano è definito «mastodontico» da molti addetti ai lavori. Riferirà direttamente alla vicepresidente esecutiva Henna Virkkunen, che ha le deleghe per Tecnologia, Sicurezza e Democrazia, un’ulteriore dimostrazione che questa Commissione ha srotolato un filo che tiene insieme la sicurezza in tutte le sue forme – militare, spaziale e tecnologica – e che è garanzia per il futuro dell’ordine democratico dell’Europa. Virkkunen è finlandese, cioè viene da un Paese che, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, è corso dentro la Nato, per ragioni geografiche – condivide con la Russia

1300 chilometri di confine – e storiche. La memoria del passato e delle sue minacce è fortissima nel nord-est europeo, fa parte di un’esperienza non così remota, ed è per questo che questa parte dell’Ue è stata fin da subito più reattiva nei confronti dell’aggressione russa – e più determinata. La struttura della nuova Commissione premia geografia, memoria e la determinazione a difendere l’Ucraina finché sarà necessario. Nel 1988, quando Kaja Kallas aveva undici anni, andò a Berlino con la sua famiglia. Suo padre la portò alla porta di Brandeburgo a guardare da vicino il muro di Berlino: «Ricordo come se fosse adesso che papà ci disse: ragazzi, respirate profondamente, questa è l’aria della libertà che arriva dall’altra parte. Se facciamo tutto quello che è nelle nostre possibilità per aiutare l’Ucraina, non ci saranno ragazzini di undici anni che possono respirare l’aria della libertà soltanto da lontano».

per trasmettere questa sua previsione: la crisi dell’informazione, perdurando, avrebbe generato un «mondo del cucù», cioè un mondo «senza senso né coerenza» che «non ci chiede nulla né, in verità, ci promette nulla». Ecco la prova che già trent’anni fa qualcuno ci avvertiva che, incontrando completo disinteresse e assenza di controlli da parte delle classi politiche, le nuove tecnologie dell’informazione avrebbero generato un costante adattamento delle masse al «crogiolarsi nell’indifferenza» sino a causare un progressivo indebolimento dei cardini dell’ordine democratico, spianando la via a populismi e nuove dittature.

Un po’ preoccupato per trarre una conclusione da queste premonizioni, di colpo (lo confesso, sullo schermo di un tablet) capto questo richiamo dello scrittore José Saramago: «Il mon-

do si sta trasformando in una caverna proprio come quella di Platone: tutti guardano le immagini e credono che sia realtà». Il mio giro dei classici raggiunge la vetta: non solo viviamo nel mondo del cucù, siamo anche davanti alla parete della caverna di Platone che, grazie a un immenso fuoco posto alle spalle di chi la abita, riflette ombre che riproducono oggetti (piccole statue di animali, persone e altro) tenuti in mano da altri uomini, nascosti dietro un muretto che divide il fuoco dagli uomini prigionieri. Duemila anni dopo, per intrattenere i nuovi prigionieri e limitare l’uso del pensiero, si sfrutta la luce degli smartphone, dei tablet e dei computer. Sicuri che elemosinare aiuti indiretti (affidati a una Posta che «studia» di distribuire i giornali solo nel pomeriggio) sia l’unica via per uscire dal mondo del cucù?

di Paola Peduzzi
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Nella miscela illy acidità, dolcezza e amarezza sono piacevolmente bilanciate

Dove è nato l’espresso

Una visita al produttore italiano di caffè illy è come un viaggio nella storia dell’espresso. Il caffè di Trieste è da poco disponibile anche per CoffeeB, il sistema a capsule senza capsule

Testo: Kian Ramezani

Trieste ha molti soprannomi, due dei quali sono «città del vento» e «città del caffè». Il vento e il caffè non sono solo onnipresenti nella città sulla costa dell’Adriatico, ma hanno anche un legame interessante: nel XVIII secolo, quando le navi mercantili ancora navigavano a vela, Trieste divenne il porto più importante dell’Impero asburgico. E già allora, uno dei beni d’importazione più importanti era il caffè. Trieste appartiene all’Italia dal 1918, le navi ora funzionano a diesel e, ad oggi, in nessun altro porto del Paese si trasborda più caffè. Una buona parte va in Via Flavia 110, un indirizzo conosciuto da ogni tassista di Trieste: la sede centrale di illycaffè, uno dei maggiori produttori di caffè in Italia e fornitore delle nuove sfere di caffè illy della Migros. Anche qui, alla periferia sud della città, il vento, o meglio la bora, mi fa scendere le lacrime sul viso. «Al massimo sarà un borino», assicura Moreno Faina salutandomi. In altre parole, una mini bora. Il direttore dell’Università del Caffè di illy (vedi riquadro) aggiunge: «Se ci fosse la

bora adesso non potremmo stare qui fuori». Comunque sia, non mi dispiace entrare dentro. Proprio alla reception si trova un mostro di acciaio cromato chiamato «Illetta 1935». È considerata la prima macchina da caffè espresso moderna e fu inventata in quell’anno dal fondatore dell’azienda Francesco Illy. «Funziona ancora», dice Faina facendo l’occhiolino. Nello stesso periodo, il pioniere dell’espresso brevettò un’altra idea che si rivelò almeno altrettanto importante: confezionò il caffè in barattoli di alluminio, estrasse l’aria, aggiunse azoto sotto pressione e sigillò i barattoli. In questo modo il caffè appena tostato non si ossidava e il suo aroma si manteneva a lungo e anche dopo aver percorso lunghe distanze.

Durata di conservazione brevettata

Ancora oggi illy confeziona il suo caffè con questo metodo, dal barattolo da 250 g per uso domestico alla latta da 3 kg per la gastronomia. Questa può essere collega-

ATTUALITÀ

Caffè

ta direttamente al macinacaffè, facilitando il lavoro di migliaia e migliaia di baristi in tutto il mondo, compresi quelli al bar della sede centrale, dove il direttore mi invita a gustare il primo caffè della giornata. C’è un vivace andirivieni di collaboratrici e collaboratori, alcuni in tuta rossa, altri in eleganti completi. In seguito, si uniscono a noi i rappresentanti delle piantagioni di caffè, provenienti questo lunedì mattina dall’Etiopia e dal Costa Rica. Anche loro si considerano parte della famiglia illy, come sottolineano. «Classico o intenso?», chiede la barista. Seguo l’esempio di Faina e opto per la prima variante. Il caffè Classico è all’altezza delle aspettative: una crema color nocciola, aroma con note di cioccolato e caramello. «La miscela è composta da nove diversi tipi di chicchi di Arabica provenienti da oltre 20 Paesi», spiega Faina. «Rifiutiamo circa il 30% delle consegne perché non soddisfano i nostri standard di qualità». Le possibili cause possono essere la decolorazione, le crepe nella buccia del chicco o la sovrafermentazione.

Una sola miscela per tutti i prodotti Questo rigoroso processo di selezione si traduce nel cosiddetto «illy blend», o miscela illy, ovvero nove tipi di chicchi miscelati in un rapporto ben definito. E questo, a sua volta, costituisce la base per tutte le varietà di espresso dell’azienda. Il fatto che il Classico e l’Intenso abbiano un sapore così diverso è dovuto esclusivamente alla torrefazione: «Tostiamo i nostri chicchi a 200-220 gradi per circa 20 minuti; all’interno di questo intervallo possiamo creare profili di aroma completamente diversi», dice Faina mentre ci mostra la fabbrica con i suoi enormi impianti di torrefazione. Per la prima volta dall’inizio della visita, nell’aria si sente una squisita fragranza di tostatura. All’esterno non si sentiva niente e questo, a quanto pare, non dipende solo dalla bora (scusate, dal borino!): «I requisiti ufficiali per il filtraggio dell’aria di scarico sono così rigidi che non esce praticamente nulla», spiega.

«Rifiutiamo il 30% delle consegne perché non soddisfano i nostri standard di qualità».

Moreno Faina

Direttore Università del Caffè di illy

del caffè

Università del Caffè di illy

Con l’Università del Caffè, fondata nel 1999, illy intende promuovere la cultura del caffè. I programmi di formazione coprono l’intera catena del valore e sono rivolti a coltivatori di caffè, baristi e consumatori. Ci sono 27 sedi in tutto il mondo.

La miscela illy c’è anche per CoffeeB

Anche il caffè CoffeeB illy è disponibile in entrambe le versioni. E dove c’è scritto Classico e Intenso sull’etichetta, all’interno c’è proprio il caffè Classico o quello Intenso: «Contengono la stessa identica miscela illy dell’espresso che abbiamo bevuto prima al bar», conferma il direttore. Torniamo lì prima del mio rientro in Svizzera e questa volta prendo la variante più forte: l’Intenso. Decine di tazzine da espresso fluttuano sopra le nostre teste, ordinatamente allineate a spirale. Forse un’allusione al DNA di illy? Comincio a riflettere, qualcosa ancora non quadra: i nove tipi di chicchi miscelati nella giusta proporzione costituiscono quindi il blend illy. Sembra complicato. L’azienda triestina lavora migliaia di tonnellate di caffè ogni anno: per fare un espresso ne servono sette grammi. Com’è possibile che alla fine abbiano tutti lo stesso sapore? La domanda non è nuova al direttore Faina, che risponde prontamente: «Lavoriamo solo chicchi della stessa dimensione». Come per ogni prodotto naturale, le dimensioni dei chicchi possono variare notevolmente. Da un lato, quelli con le stesse dimensioni sono più facili da lavorare, in quanto raggiungono il grado di tostatura desiderato nello stesso momento. Ma si distribuiscono anche in modo uniforme, indipendentemente dal contenitore. Così, alla fine, ogni confezione, ogni barattolo e ogni sfera di caffè illy contiene la miscela giusta.

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«Non posso iniziare la giornata senza un espresso»

4 domande a Cristina Scocchia, CEO di illycaffè, sulla collaborazione tra CoffeeB e la Migros.

1 CoffeeB e illy: cosa le è passato per la testa quando ha sentito l’idea per la prima volta? Ho subito pensato: è un’accoppiata perfetta. Innovazione, tecnologia e qualità sono molto importanti per noi, così come lo sono per CoffeeB. Lo stesso vale per la sostenibilità, dalla coltivazione dei chicchi di caffè al prodotto finale.

2 Qual è stata la sfida più grande nel percorso verso la sfera di caffè illy? Per noi CoffeeB è una grande opportunità per convincere nuovi clienti della qualità di illy. Tuttavia, volevamo permettere loro di testare a fondo il prodotto prima di lanciarlo. Data la tabella di marcia, non è stato facile. Ma insieme ce l’abbiamo fatta. Se si perseguono gli stessi obiettivi, tutto è più facile.

3 Ha provato il caffè CoffeeB illy?

Sì, certo. Siamo riusciti ad accordare perfettamente il profilo aromatico di illy al formato CoffeeB. Ho vissuto in Svizzera per molti anni e sono orgogliosa di poter offrire a chi vive lì l’opportunità di assaporare tutto il gusto di illy.

4 Come prende il caffè?

Non posso iniziare la giornata senza un espresso o, a volte, anche due. Nero, senza zucchero e senza latte. Nel corso della giornata bevo volentieri anche un cappuccino. Sono una vera amante del caffè.

Cultura
CoffeeB illy è in vendita alla Migros
CoffeeB
Macchina
Cristina Scocchia, CEO di illycaffè, condivide la grande passione per il caffè.
Moreno Faina, direttore dell’Università del Caffè di illy, assapora il suo primo espresso nella sede centrale a Trieste.
I popolari barattoli da 500 g escono dalla linea di produzione dello stabilimento illy di Trieste.

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CULTURA

Grande rispolvero per il Museo Rietberg

La curatrice Michaela Oberhofer, antropologa dell’arte e curatrice della sezione africana del museo, illustra le novità del Museo

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Un album e una passione comune

Elettra Chiaruttini racconta come è nato Bossa with my father, album tutto ticinese nato in famiglia sulle onde della saudade

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La Stele di Rosetta È uscito in edizione francese, per la Bibliotheca Alexandrina, un nuovo volume sulla celeberrima pietra che ha illuminato l’antico

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Il riscatto e la libertà di Jim il fuggiasco

Pubblicazioni ◆ Lo scrittore americano Percival Everett rielabora il capolavoro di Mark Twain da una nuova prospettiva

James di Percival Everett (classe 1956, scrittore e illustre professore di letteratura alla University of Southern California) è una storia legata a un’altra storia o, meglio ancora, è una storia che è già stata raccontata 140 anni fa da un altro autore, Mark Twain, ne Le avventure di Huckleberry Finn. A prima vista potrebbe dunque apparire ridondante e inutile, se non fosse per il fatto che Everett la racconta da un altro punto di vista. E si sa che, in letteratura, il punto di vista fa sempre la differenza.

Nell’originale di Twain, è Huck a raccontare l’avventura vissuta con Jim, mentre naviga lungo il Mississippi in fuga dal padre alcolizzato e da una vita rispettabile che gli va stretta. Nella versione di Everett è invece Jim, schiavo afroamericano in fuga per salvare se stesso e la sua famiglia, a fare da narratore. In questo modo Everett usa una storia «vecchia» per raccontarne una nuova. Pur inserendo numerose variazioni nella trama, Everett mantiene infatti i capisaldi del libro di Twain, fra cui gli elementi satirici e di critica sociale, ma allo stesso tempo focalizza la sua attenzione su Jim in quanto schiavo, facendo luce sulle ingiustizie vissute dagli afroamericani in quel periodo.

«I bianchi credono a un sacco di robe di cui non sono mica tanto sicuro. Sono la gente più stupidiziosa al mondo»

Everett svolge questa operazione di rifocalizzazione attraverso alcuni interessanti meccanismi, primo fra tutti l’uso mirato del linguaggio: in James, Jim parla sì il tipico vernacolare nero, ma lo fa solo quando si trova in presenza dei bianchi, per mostrarsi inferiore e sottomesso e conformarsi allo stereotipo. Gli afroamericani fra di loro comunicano infatti in inglese standard, la lingua della ragione e dell’istruzione. Jim sa leggere, per prudenza tiene però nascosta questa sua capacità per buona parte della narrazione perfino a Huck, negando le frasi corrette che di tanto in tanto gli sfuggono. Nella traduzione italiana questo effetto di straniamento è presente, ma purtroppo in modo meno marcato rispetto all’originale. Non esistendo una versione italiana del dialetto degli afroamericani, il traduttore usa un italiano informale arricchito di qualche lacuna grammaticale, come nelle seguenti frasi: «Perché me sono schiavo» oppure «I bianchi credono a un sacco di robe di cui non sono mica tanto sicuro. Sono la gente più stupidiziosa al mondo». Everett usa il linguaggio come

maschera e al contempo come segno distintivo di appartenenza: gli afroamericani sanno parlare il vernacolare, i bianchi no. Spesso e volentieri anche l’inglese dei bianchi è però infarcito di errori grossolani, gli stessi attribuiti ai neri: alla fine i due gruppi sociali sono meno diversi di quel che appare a prima vista. Una tesi rinforzata nella parte del libro dedicata all’incontro con i menestrelli bianchi, che cantano canzoni da afromericani truccati da afroamericani per intrattenere un pubblico di bianchi. Con le loro imitazioni della cultura nera, i bianchi, anche se non lo vogliono ammettere, in realtà ammirano molteplici caratteristiche degli afroamericani.

L’inserimento dei menestrelli nella narrazione permette inoltre a Everett di portare a un livello superiore lo stravolgimento dei cliché già rivelati attraverso il linguaggio. Vediamo

dunque Jim che, una volta comprato dai menestrelli, diventa un nero che finge di essere un bianco che finge di essere un nero. Questo ingarbugliato incastro di identità accavallate punta a svelare l’ingranaggio perverso che sta alla base della discriminazione razziale: se un nero può fingere di essere un bianco travestito da nero, se chiunque può trasformarsi in chiunque altro, allora le differenze razziali in realtà non esistono. Ciò è esplicato ancora meglio quando Jim scopre che uno dei menestrelli bianchi è in realtà un nero dalla pelle talmente chiara da apparire bianco. Qui Everett si chiede quanto scura la pelle debba essere perché venga considerata «nera», andando a creare un’interessante dicotomia tra l’essere e l’apparire e mostrandoci come in una società schiavista sia più importante apparire che essere. Un messaggio tutt’ora valido. Un altro tema affrontato in James è quello degli «schiavi che amano essere schiavi», esemplificati in due personaggi che si identificano così tanto nel loro ruolo, da arrivare ad amare la loro condizione disumana. E così succede che il battello a vapore su cui a un certo punto Jim e Huck navigano scoppi proprio a causa dell’incauta venerazione mostrata da uno schiavo addetto alle caldaie verso un padrone mai visto.

Pregiudizi, ignoranza, disumanizzazione degli schiavi sono tematiche che Everett inserisce con leggerezza nella sua opera, ottenendo

una narrazione piacevole e scorrevole. E poiché Everett si prende grandi libertà a livello della trama, James si legge non come un semplice complemento di Le avventure di Huckleberry Finn, ma come un’opera indipendente che fa venire voglia di andare a (ri)scoprire Twain (nella foto grande i protagonisti del film tedesco Die Abenteuer des Huck Finn, 2012).

Riletto a distanza di anni, Le avventure di Huckleberry Finn mantiene il suo carattere fresco e brillante, con uno sguardo divertito sul mondo e un perdersi e un divagare di situazione in situazione che in Everett manca.

Se Twain procede lento come il Mississippi fatto di mille isole, banchi di sabbia e rive frastagliate, Everett fila via dritto incanalato verso l’obiettivo.

È come se Everett non avesse tempo da perdere e volesse fare un elenco delle maggiori atrocità che la cultura schiavista ha creato lasciando importanti strascichi nella moderna cultura statunitense, ancora permeata da disuguaglianza, violenza e razzismo. Sono pertanto numerosissime le pubblicazioni dedicate allo schiavismo e alla segregazione. Chi fosse interessato ad approfondire potrebbe iniziare da due romanzi classici come Ragazzo negro di Richard Wright del 1947 (che spiega cosa voglia dire nascere e crescere «neri») o La macchia umana di Philip Roth del 2000 (che parla di «neri» all’apparenza «bianchi»), continuando con due opere più recenti come L’aiuto di Kathryn

Stockett (che dipinge la condizione delle colf nere negli anni Sessanta) o La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead del 2016 (che parla delle fughe degli schiavi verso la libertà).

L’atteggiamento di Twain è ambiguo: se da un lato umanizza Jim, dall’altro lo coinvolge in situazioni stereotipate

E Twain, cosa pensava degli schiavi? Per capirlo basta osservare il «suo» Jim, personaggio a tutto tondo, superstizioso e ingenuo, sì, ma anche abile, eloquente, arguto e premuroso; se Huck in un paio di scene è dubbioso e sente che dovrebbe «restituirlo alla sua proprietaria, non lo fa mai perché gli vuole bene e lo considera un essere umano, non una merce. L’atteggiamento di Twain rimane però ambiguo: se da un lato umanizza Jim, dall’altro lo coinvolge in situazioni stereotipate. A differenza di quanto ignorato della cancel culture, bisogna tuttavia considerare l’epoca e i luoghi in cui Twain visse; e comunque quasi un secolo e mezzo dopo (nella foto la copertina della prima edizione del 10 dicembre del 1884), il cammino verso l’abbattimento delle discriminazioni rimane lungo e tortuoso.

Bibliografia Percival Everett, James, La nave di Teseo, Milano, 2024.

Elda Pianezzi

Il Museo Rietberg si rinnova e volta pagina

Zurigo ◆ La curatrice Michaela Oberhofer, antropologa dell’arte e curatrice della sezione africana del museo, illustra le novità

Marco Horat

Dopo tre mesi di chiusura per il rinnovo del sistema di illuminazione, il Rietberg Museum di Zurigo ha riaperto le sale permanenti il 23 luglio. La pausa ha avviato il rinnovo delle sue collezioni di arte africana, asiatica e delle Americhe: 32mila oggetti etnografici tra i quali 1600 miniature indo-pakistane (ora esposte in parte in una mostra temporanea), le millenarie ceramiche cinesi e i bronzi himalayani e più di 49mila fotografie. Con la possibilità di visionare il tutto online, nonché di consultare gli innumerevoli documenti degli archivi, così che questo patrimonio sia a disposizione di tutti gli interessati e ovunque.

«Accanto a oggetti etnografici delle nostre collezioni, presentiamo opere di artisti africani contemporanei»

Ma la novità per il grande pubblico è un’altra: la Direttrice Annette Bhagwati e i suoi collaboratori hanno messo mano alla struttura degli allestimenti museografici dell’esposizione stabile. Un cambio di prospettiva in linea con i tempi, che ha portato al rinnovo delle quattro grandi sale dedicate all’Africa, prima tappa di un percorso che toccherà in seguito il resto delle collezioni.

Abbiamo visitato la parte rinnovata con Michaela Oberhofer, antropologa dell’arte e curatrice della sezione africana del museo, che ha operato in collaborazione con autorità, studiosi, accademici e artisti africani.

«La principale novità – spiega –è che accanto a una scelta di oggetti etnografici tratti dalle nostre collezioni, presentiamo opere di artisti africani contemporanei. Facciamo dialogare tra loro queste due realtà per documentare i legami degli artisti con il passato del loro Paese di origine e per farci riflettere sui nostri comportamenti nei confronti delle culture altre e sul colonialismo. Si vuole cioè presentare non solo il punto di vista del colonizzatore occidentale (etnografo, commerciante d’arte, collezionista o museologo), ma anche quello del colonizzato, o dei suoi discendenti attuali».

Entriamo nella prima sala allestita in collaborazione con la giovane artista congolese Michèle Magema; sulle

pareti sono tracciate delle linee tortuose; non sono lì a caso, ruotano attorno a un personaggio che in fondo è il perno di tutta l’esposizione.

«Le linee ricordano il percorso africano che Hans Himmelheber (1908-2003) ha fatto negli anni 19381939 tra Congo, Liberia e Costa d’Avorio, riportando migliaia di oggetti tradizionali, fotografie, disegni, resoconti e testimonianze, poi donati dalla famiglia al nostro museo. Quello che questo antropologo tedesco ha fatto di eccezionale è stato di interessarsi più ai creatori delle opere che vedeva e acquistava che non alle opere stesse, convinto che di veri artisti si trattasse». Non dunque un’arte anonima, artigianale o tribale, ma vere e proprie opere d’arte con tanto di autore riconoscibile. Al contrario di quanto facevano allora gli amanti dell’arte africana, dagli artisti ai collezionisti, più che altro interessati alla bellezza dei manufatti. Le maschere sono una componente essenziale di tutta l’esposizione, da interpretare come un elemento fondamentale in tutto il contesto di vita di un popolo: credenze, cerimonie, danze, sta-

tus. Spiccano in particolare i ritratti che Hans Himmelheber si fece fare da quattro scultori per mettere a fuoco i diversi stili di ciascuno, dal figurativo all’astratto.

«Maschere nelle quali ben si riconoscono alcune caratteristiche fisiche del soggetto: il naso pronunciato, la forma della bocca, la fronte ben marcata. Questo per dimostrare l’unicità della creazione di ogni singolo artista».

Nei suoi viaggi Himmelheber ha raccolto migliaia di reperti che ha poi venduto a molti musei tedeschi, francesi e anche svizzeri, per finanziare le sue spedizioni e i suoi studi, sfociati in molte pubblicazioni.

L’artista Michèle Magema ha lavorato su questo eccezionale archivio, soprattutto sulle migliaia di fotografie.

«Ha scelto 81 fotografie che l’hanno colpita e a quelle si è ispirata per creare altrettanti disegni colorati. Ha reinterpretato le vecchie immagini in bianco e nero sovrapponendovi la sua anima moderna e le sue inquietudini. Una foto ritrae ad esempio un anziano su una canoa: l’artista si chie-

de “ma chi era”? magari quell’uomo anonimo è stato un mio antenato. Un modo per legare il passato col presente, insomma. In una vetrina accanto, invece, Michèle ha raccolto tessuti creati da mani di vere artiste, destinati a essere portati dagli uomini durante cerimonie tribali; oppure oggetti riservati alle donne, come una coppa per bere vino di palma. Questo per ribadire la presenza femminile nel mondo della creatività africana del passato che non si limitava alla gioielleria; ma che era stata trascurata da collezionisti occidentali quali il barone von der Heydt, Hans Coray, Paul Guillaume, di fatto concentrati sul mondo al maschile».

Concetto ribadito in un altro momento della mostra, quando in una vetrina vediamo alcune composizioni realizzate da donne, impiegando migliaia di perline dai mille colori e dalle forme ricercate, dono di un collezionista privato che ne ha raccolto ben 400! Sono creazioni esibite durante le cerimonie, con il compito di trasmettere valori simbolici e di status sociale.

Sammy Baloji, artista congole-

se noto internazionalmente, prende invece spunto da una fotografia di un museo belga per proporci alcune sue riflessioni. L’immagine ritrae un gruppo di coloni comodamente seduti in un soggiorno mentre chiacchierano e bevono; sulle pareti trofei di animali morti e un grande corno in ottone che serviva per dare inizio alle battute di caccia grossa.

Un ribaltamento di valori e un allargamento di orizzonti ricorrono in tutte le installazioni e le vetrine delle sale africane

«Sammy ha ricreato un corno del tutto simile, sul quale però ha tracciato le scarificazioni (deformazioni cutanee a scopi decorativi e protettivi, ndr) che abbellivano i corpi della sua gente negli anni 30. In un’installazione articolata in più parti vuole tracciare un parallelo suggestivo tra la caccia agli animali e la caccia agli oggetti della tradizione congolese che facevano i bianchi. Il risultato è stato che nei musei hanno esposto cose senza vita, mute e fuori contesto, semplici curiosità; così come appendevano ai muri di casa le teste delle loro prede. Bisogna ora ridare agli oggetti la loro spiritualità, quella che li ha fatti vivere per generazioni e ha dato loro un senso compiuto» conclude la curatrice Michaela Oberhofer.

Un ribaltamento di valori e un allargamento di orizzonti dunque che ricorrono in tutte le installazioni e le vetrine delle sale africane del nuovo Rietberg delle quali ho dato solo pochi esempi; come lo è anche il tema del sincretismo, evidenziato particolarmente in ambito religioso, che ha portato alla creazione di oggetti che contengono tratti della tradizione africana, mescolati con quelli dell’Islam e del Cristianesimo (vedi Costa d’Avorio ed Etiopia): maschere portate durante le danze che accompagnavano la fine del Ramadan o dipinti e sculture che sottolineavano ricorrenze del calendario cristiano. Un messaggio di tolleranza più che attuale.

Dove e quando Museum Rietberg, Gablerstrasse 15, Zurigo. Orari: ma, gi, ve, sa, do 10.00-17.00; me 10.00-20.00. www.rietberg.ch

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L’installazione del fotografo documentarista Omoregie Osakpolor dal titolo Eingang zur Igun Street, un omaggio alla storia presente, passata e futura del Benin. (© Museum Rietberg)

La tua tavola ha voglia d’autunno

Ciotola

Un disco affettivo sulle onde della saudade

Musica ◆ Elettra Chiaruttini racconta come è nato l’album tutto ticinese Bossa with my father

Un disco tutto ticinese di bossa nova non lo si vedeva uscire sul mercato forse dai tempi di Anita Traversi… Scherzi a parte, l’album Bossa with my father di Elettra Chiaruttini, uscito nelle scorse settimane, è davvero una graditissima sorpresa. Il disco, come spiega il titolo stesso, frutto di un «lavoro di famiglia» tra Maurizio (che da anni conosciamo come ottimo batterista, ma che qui appare nei panni di chitarrista) ed Elettra, appunto, cantante dalla vocalità carica di saudade

«In realtà, con mio padre abbiamo iniziato prestissimo ad esplorare il repertorio brasiliano. Anzi probabilmente ascoltavo senza saperlo la bossa nova già prima di nascere, perché lui l’ha sempre suonata e apprezzata». Fin da bambina, quindi, Elettra è «stata esposta», per così dire, a un repertorio di classici che fanno parte della più conosciuta tradizione, quella di Carlos Jobim, di Joao Gilberto, di Vinicius de Moraes.

«Sì, potremmo dire che è stato una sorta di imprinting famigliare. Dai dodici anni, poi, ho iniziato io stessa a cantare accompagnata da lui, e a imparare le canzoni. La cosa curiosa è che non sapevo certo il portoghese ma cercavo di imitare la pronuncia dei cantanti ascoltati sui dischi, e mi rendevo conto proprio di come quella esperienza vocale fosse un elemento fondamentale della musica. E poi è importante dire che si trattava di uno spazio tutto nostro, un momento di condivisione tra noi».

La passione comune, nata quasi per gioco, ha portato Elettra e Maurizio nel corso degli anni ad acquisire una buona padronanza di un repertorio che è certo molto particolare, e richiede una precisa preparazione tecnica. E laddove il papà si occupa con rigore di costruire la struttura ritmico-armonica dei brani, la figlia invece si impegna nell’esecuzione vocale con maggiore libertà espressiva, guidata, come spiega lei stessa, da un sentimento, da uno stato d’animo di fondo.

Quella di Elettra è una voce ben presente molto personale condotta con finezza e gusto

«Per cantare questa musica bisogna entrare in un mood molto particolare, malinconico, fare forse l’esperienza della saudade, quella indefinibile emozione così profondamente legata al fascino della bossa nova». Tradurre il termine saudade in italiano è molto difficile («sentimento di nostalgico rimpianto, di malinconia, di gusto romantico della solitudine, accompagnato da un intenso desiderio di qualcosa di assente in quanto perduto o non ancora raggiunto», dice la Treccani), ma è interessante scoprire come l’importanza dello stato d’animo dell’esecutore sia analoga a quella provata dai cantanti nel blues, oppure al duende che ispira gli esecutori della musica gitana.

«Un’altra cosa curiosa» continua Elettra, «è che per me la cultura popolare brasiliana è qualcosa di relativamente lontano. La conosco solo attraverso le parole delle canzoni, che ho compreso interamente solo dopo un po’ di tempo. Però sono riuscita, mi dicono, ad avvicinarmi molto alla sensibilità originale. Diversi ascoltatori brasiliani si sono complimentati con me per la genuinità della mia esecuzione».

Elettra Chiaruttini, è comunque

una musicista formata: è diplomata in pianoforte, e insegna musica nelle Scuole medie, ma immergendosi nella dimensione musicale della bossa in modo istintivo, riesce a toccare delle corde particolarmente profonde di quella tradizione, cosa che di per sé è davvero ammirevole.

«Sì, l’interpretazione vocale è da parte mia spontanea, anche se nasce dall’ascolto approfondito dei grandi maestri, soprattutto di Joao Gilberto. E per acquisire una maggiore padronanza e capacità tecnica mi sono appena iscritta alla Scuola Civica di Jazz di Milano».

E tornando al suo disco, l’ascolto conferma quanto la performance di Elettra sia del tutto apprezzabile e convincente: la sua è una voce ben presente molto personale condotta con finezza e gusto. «Riascoltandomi, all’inizio, devo dire la verità, mi hanno colpito principalmente le piccole imperfezioni nell’esecuzione. Ma se in un primo momento questa brutta sensazione mi aveva spaventato, i molti riscontri positivi che ho ricevuto mi hanno incoraggiato e mi hanno indotta a relativizzarle. Fondamentalmente sono una persona meticolosa e molto precisa (come mio padre), ma il canto è comunque una forma artistica che si presta all’espressione di uno stato d’animo soggetto a variazioni date dall’emotività». E, da un altro punto di vista, in questa prima prova discografica si trattava di realizzare per lei qualcosa di particolare, al di là delle aspettative puramente tecniche: «Si tratta di un disco veramente affettivo, per me. Un modo per fissare il rapporto molto forte che mi lega a mio padre. È un pezzo della storia della nostra famiglia che volevo scrivere e che in fondo stavo preparando da tempo. La scelta dei brani è stata fatta principalmente da lui, che attraverso molti anni di studio ha approfondito la conoscenza dei vari pezzi. Alcuni sono standard molto conosciuti, come Samba de uma nota Sò, Desafinado, e altri. Poi ci sono pezzi meno celebri, ma molto amati da noi, che li abbiamo suonati per anni».

Per quello che riguarda le esibizioni dal vivo, il disco sarà presenta-

Elettra e il padre ritratti sulla copertina dell’album.

to prossimamente in varie occasioni, utilizzando anche formazioni diverse dal duo «padre-figlia». «Mi piace allargare l’esperienza dal vivo ad al-

tri musicisti, perché aprono i brani a nuove possibilità espressive. Da qualche anno ci capita di suonare questi pezzi in concerto con il trombonista

Danilo Moccia (è con lui che abbiamo cominciato a capire cosa significhi fare musica in modo professionale), con il sassofonista Olmo Antezana, che porta nella musica le sue radici sudamericane, e con i percussionisti brasiliani Marquinho Baboo Bacchereti e Gilson Silveira».

Per quel che riguarda i progetti futuri della musicista, la sua curiosità sembra si stia incamminando verso nuove direzioni di ricerca

Per quel che riguarda i progetti futuri di Elettra Chiaruttini, la sua curiosità musicale sembra si stia incamminando verso nuove direzioni di ricerca: «Sto affrontando un repertorio di brani classici della tradizione sudamericana e spagnola seguendo le tracce di interpreti come la messicana Natalia Lafourcade, l’uruguaiano Jorge Drexler o gli spagnoli Rita Payes, Muerdo e Guillem Roma». L’«anima latina» di Elettra «Bossa» Chiaruttini si avvierà dunque su nuove strade, non soltanto brasiliane, ma per quel che riguarda noi, ora possiamo godere dello splendido lavoro realizzato a quattro mani con il padre Maurizio. Un disco davvero eccellente, che certo anche Anita Traversi apprezzerebbe…

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Luchino Visconti attraverso le sue lettere

Epistolario ◆ Il regista visto da vicino grazie ad un primo volume con i suoi scritti a cura di Caterina d’Amico e Alessandra Favino Giovanni Gavazzeni

«Ciò mi conferma nella già radicata convinzione che ogni briciolo di libertà di cui si riesce a godere nel nostro paese non lo si deve ai governanti, e tanto meno ai governanti della sua mentalità (che francamente ci si chiede come mai si trovino ad occupare posti di così grande responsabilità), ma alla vigilanza, alla resistenza, alla lotta dell’opposizione e dell’opinione pubblica».

Chi scrive queste dure e coraggiose parole al Ministro italiano del Turismo e Spettacolo, Alberto Folchi (sottosegretario alla presidenza nel governo democristiano-missino Tambroni, quello che propose la famosa legge elettorale «truffa», oggi tornata di moda), è il regista Luchino Visconti (nella foto), pesantemente criticato dall’esponente democristiano per il film Rocco e i suoi fratelli (1960) che raccontava una diversa storia di vita contemporanea, l’altra faccia del boom economico che travolge una famiglia di immigrati della Bassa-Italia a Milano.

Il film di Visconti vinse un consolatorio Premio speciale della giuria del Festival di Venezia ma ebbe un enorme successo di pubblico («il più grande incasso italiano degli ultimi tempi dopo la Dolce vita»), nonostante le mutilazioni di molte scene imposte dalla censura e le critiche feroci – alla «prima» al Cinema Odeon di Milano, c’era chi apostrofava il regista dandogli del traditore della sua classe sociale. Siamo nel 1961, e non sono pochi quelli che non digeriscono che il conte Visconti sia iscritto al Partito comunista dal ’46. Ma Visconti nel frattempo realizza film come Ossessione, La terra

trema, Senso e Bellissima che gli danno fama mondiale, conteso dalle piazze teatralmente più aristocratiche del mondo. Alla Scala contribuisce come Pigmalione a creare il «mito Callas» con cinque allestimenti leggendari (Vestale, Sonnambula, Traviata, Anna Bolena e Ifigenia); a Parigi la sua Locandiera di Goldoni fa epoca, tanto che attori e drammaturghi fanno la fila per recitare con lui; Londra lo reclama – vi debutterà allestendo al Covent Garden il Don Carlo di Verdi.

Questa lettera è una delle ultime fra le settecento che formano il primo volume dell’Epistolario di Visconti (1920-61), a cura di Caterina d’Amico e Alessandra Favino, pubblicato in seno all’Edizione Nazionale delle opere di Visconti dalla Cineteca di Bologna. Sintetizza l’inflessibile determinazione di Visconti nel difendere il proprio lavoro e quello dei suoi collaboratori, soprattutto davanti alla conclamata ignoranza di politici e organizzatori che s’arrogavano giudizi spesso frutto di malafede o d’ignoranza. Visconti era capace di scelte clamorose, come rifiutare l’inaugurazione della Scala sovvenzionata dallo stato per protesta contro atteggiamenti politici governativi che non condivideva. Di più, lui milanese melomane chiuse per un lungo periodo con la Scala non avendo dimenticato che il Sovrintendente Antonio Ghiringhelli aveva stolidamente criticato il grande costumista Piero Tosi in Sonnambula (in verità chiuse l’anno seguente dopo la leggendaria Anna Bolena e Ifigenia in Tauride), critica alla quale aveva replicato apostrofando pesantemente il «boss» davanti a tutti

i lavoratori del teatro. La pausa con la Scala significò fortuna per il nascente Festival di Spoleto, dove Visconti trionferà con Macbeth e il Duca d’Alba, dimostrando la sua magia, cioè che era capace di far recitare sconosciuti e divi in un tutt’uno di altissimo livello. Visconti era un rabdomante e una calamita della genialità altrui, perché era il «talento» quello che faceva la differenza, soprattutto nella prosa, con le

compagnie tradizionali dove il repertorio era poco adagiato sui gusti del pubblico piccolo-borghese. Il regista difendeva tutti i suoi collaboratori fino alla morte (dopo avergli chiesto quasi l’impossibile), assistenti dal futuro radioso come Franco Zeffirelli, Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, scenografi e costumisti come Danilo Donati, Marcel Escoffier, Lila de Nobili, Filippo Sanjust, Mario Gar-

La pietra che ha illuminato l’antico

Storia ◆ È uscito in edizione francese, per la Bibliotheca Alexandrina, un volume sulla stele di Rosetta

Marco Alloni

La storia della famosa stele di Rosetta, il blocco di pietra che consentì all’egittologo Jean-François Champollion di dare una decifrazione in lingue europee della scrittura geroglifica, è in realtà una storia divisa in tre storie. La prima è la storia della sua incisione in epoca faraonica; la seconda la storia del suo rinvenimento da parte delle truppe di Napoleone, durante l’occupazione dell’Egitto alla fine del Settecento, e la terza è la storia della sua decriptazione per opera di Champollion. A queste tre storie, che qui cercheremo di sintetizzare nel modo più conciso, si potrebbe aggiungere la quarta: quella della pubblicazione del volume omonimo La stele di Rosetta, dapprima nel 2023, in arabo e in inglese, e oggi finalmente anche in francese.

buglia. Seguiva e interveniva in tutte le fasi, rispettato e ammirato da autori del calibro di Arthur Miller, Jean Cocteau, Tennesse Williams, Camus, Testori – lasciando i panni sporchi e le violenze verbali all’interno del complesso «mondo» di collaboratori che gli gravitava attorno.

Molto spesso Visconti metteva in un progetto in cui credeva soldi di tasca propria, come per la Compagnia formata con Lilla Brignone e Paolo Stoppa: l’ideale esclusivamente artistico veniva dalla profonda «fiducia nel valore del teatro e nella sua importanza per la società»; teatro come «necessità pubblica e coscienza di vita popolare, oltreché fonte di vita per tutta la vasta categoria di lavoratori».

Per l’aristocratico, comunista e omosessuale Visconti il lavoro fu il riscatto da mille condizionamenti. Qualche volta ottenne riconoscimenti più preziosi di premi e targhe, come la lettera dei 685 operai licenziati delle officine meccaniche italiane di Reggio Emilia, che lo ringraziavano per aver dato un’immagine vera del lavoro nella Terra trema: la sua versione dei Malavoglia di Verga, metafora del Dopoguerra dove «la terra trema davanti all’ingordigia e alla boria, all’ipocrisia dei pochi», dove si comprende «che il banditismo e la prostituzione sono una conseguenza del disagio sociale.»

Bibliografia

Epistolario di Visconti (1920-61), a cura di Caterina d’Amico e Alessandra Favino, Edizione Nazionale delle opere di Visconti dalla Cineteca di Bologna, 2024.

Avvalendosi di ampie conoscenze del copto, derivazione dell’antico egizio ma in alfabeto greco, Champollion ebbe così la sua fondamentale intuizione: i tre testi riportati sulla stele di Rosetta, rispettivamente in geroglifico, in demotico e in greco, erano in realtà un unico testo tradotto in tre differenti lingue. Riconosciute le connessioni semantiche tra i tre diversi idiomi, fu dunque possibile allo studioso dare una precisa decifrazione del testo geroglifico e giungere all’elaborazione di un suo alfabeto.

Da quel momento la storia dell’egittologia assunse una curvatura senza precedenti: non solo si poté «leggere» l’antico patrimonio culturale e monumentale della più remota civiltà africana attraverso reperti e ritrovamenti archeologici, ma finalmente fu anche possibile approfondirne la conoscenza tramite l’esegesi testuale. Da Nermer ai Tolomei il mondo dinastico non fu più un «mucchio di ossa e pietre» ma un’infinita costellazione di papiri e incisioni da decifrare. Merito del solerte Champollion, naturalmente, che da una pietra di granodiorite del tutto ordinaria dal profilo artistico o documentale – la stele di Rosetta non è che un testo ce-

Spartiacque tra un tempo dell’ignoranza e un tempo del sapere, la stele di Rosetta è in effetti la chiave di volta, almeno a partire dal 1822 – quando Champollion indirizzò a Bon-Joseph Dacier, segretario dell’Académie des inscriptions et belles lettres di Parigi, una lettera in cui esponeva la sua elaborazione dell’alfabeto geroglifico – per comprendere il mondo dinastico egizio. A quell’epoca due grafie erano in uso: il geroglifico (impiegato in ambito ufficiale-monumentale e conosciuto solo dai sacerdoti) e il demotico (derivato dalla grafia ieratica e utilizzato in molti documenti pubblici). Con la chiusura di tutti i templi non cristiani decretata dall’imperatore romano Teodosio I nel 391, la caduta nell’oblio della lingua geroglifica fu però inesorabile; e solo il demotico e il greco antico sopravvissero.

lebrativo del 196 a.C. in onore del faraone Tolomeo V Epifane – riuscì a trarre gli elementi per la ricostruzione di un intero universo sociale, politico e culturale. Ma prima ancora, in un certo senso, merito di Napoleone, che nella sua leggendaria «Campagna d’Egitto» del 1798, volta a dischiudere un varco verso le Indie, ebbe cura di farsi accompagnare da 175 scienziati o savants, il cui lavoro documentario rappresenta a tutt’oggi uno dei maggiori contributi alla conoscenza del mondo post-dinastico egiziano; e la cui risultanza scritta e illustrata fu la celeberrima Déscription de l’Ėgypte, nella quale non un solo dettaglio di quanto venne osservato nel corso della spedizione fu trascurato.

Durante tale campagna, un semplice soldato ravvisò a Rosetta, l’allora Rashid, il 15 luglio del 1799, uno strano blocco di pietra e lo segnalò al capitano Pierre-François Bouchard. Costui ne intuì l’importanza e lo fece portare ad Alessandria affinché venisse analizzato. Poi sopraggiunse il 1801, anno fatidico della resa dei Francesi agli Inglesi, e dopo numerose e inutili trattative il prezioso reperto dovette passare in mano britannica, dalle cui dita non sfuggì mai più: dal lontano 1802 è custodito nelle sale del British Museum (nella foto).

Pure la stele di Rosetta resta una delle primizie di cui l’Egitto contemporaneo continua a farsi vanto. Per molti anni i suoi storici hanno conti-

nuato a indagarne la storia e a perfezionare il racconto del rinvenimento e della successiva decifrazione. In particolare con un testo, La stele di Rosetta, pubblicato dapprima nel 2023 in arabo e inglese e ora riproposto finalmente in francese, dalle edizioni della Bibliotheca Alexandrina, con il titolo di La pierre de Rosette. Un’opera non solo per specialisti e addetti ai lavori, ma anche per il pubblico degli amanti occasionali dell’Egitto, che grazie alla doppia firma di Ahmed Mansour (direttore del Dipartimento degli Scritti e dei Manoscritti d’Egitto) e Azza Ezzat (direttrice della ricerca scientifica presso la Bibliotheca Alexandrina) possono ora godere di un dettagliatissimo itinerario lungo la storia di tale cruciale reperto della storia egizia. Di fatto, grazie a Champollion, grazie alla «sua» stele, noi oggi possiamo comprendere quasi tutto ciò che fu della civiltà egizia. E malgrado le ricerche archeologiche continuino a produrre, sul terrain, risultati di importanza epocale, la decifrazione dei geroglifici resta il capitolo più decisivo della storia del Paese. Senza Champollion e la stele di Rosetta, e in un certo senso senza Napoleone, il mondo egizio rimarrebbe preda del mistero, mentre grazie al suo decifratore sembra oggi finalmente un universo fraterno, tra le cui vestigia l’antico parla e si fa conoscere come è sempre condizione perché si trasformi da rovina a memoria viva.

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Tutte le farine Migros Bio (prodotti Alnatura, Demeter e Regina esclusi), per es. farina bianca, 1 kg, 2.40 invece di 3.–, (100 g = 0.24)

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Tutti i tipi di confetture e di miele, Migros Bio per es. confettura extra di fragole, 350 g, 3.20 invece di 3.95, (100 g = 0.90)

Con preinfusione per più gusto

99.90

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Macchina per caffè in capsule Delizio Viva Elegante Frosted Silver disponibile in argento, il pezzo 50%

109.90

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Disponibile in blu, il pezzo 21%

Macchina per caffè in capsule De'Longhi Nespresso Pixie EN127

Dolci e cioccolato

Voglia di dolce compagnia?

a partire da 2 pezzi 20%

Tutto l'assortimento Frey (confezioni multiple escluse), per es. tavolette di cioccolato al latte finissimo, 100 g, 1.80 invece di 2.20

a partire da 2 pezzi –.60 di riduzione

Tutti i biscotti Tradition per es. Petit Gâteau al limone, 150 g, 3.60 invece di 4.20, (100 g = 2.40)

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6.95 invece di 10.80

Con erbe delle Alpi svizzere

conf. da 3 32%

Ricola

Original o melissa, senza zucchero, 3 x 125 g, per es. Original, 9.25 invece di 13.80, (100 g = 2.47)

Petit Beurre M-Classic con cioccolato al latte o cioccolato fondente, 4 x 150 g, (100 g = 1.16)

da 3 30%

Cialde finissime Classico, Noir o Black & White, M-Classic per es. Black & White, 3 x 200 g, 8.80 invece di 12.60, (100 g = 1.47)

conf.
Caramelle
conf.

Da pratico a profumato

Prezzi interessanti per rimboccarsi le maniche

24.95

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Detersivo per bucato in gel Persil Universal, Color o Sensitive. in conf. speciale, 3,6 litri, (1 l = 6.93) 50%

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Detersivo per capi delicati Yvette per es. Wool & Silk, 2 x 2 litri, (1 l = 4.75)

Carta igienica o salviettine umide, Soft in conf. multiple o speciali, per es. Deluxe Ultra, FSC®, 24 rotoli, 17.50 invece di 25.–30%

Detersivo per stoviglie Handy Original, Lemon od Orange, per es. Original, 3 x 750 ml, 4.55 invece di 5.40, (100 ml = 0.20)

Carta da forno, alluminio o pellicola salvafreschezza Kitchen & Co. per es. rotolo di carta forno N° 33, 3 x 15 m, 5.– invece di 7.50

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Bicchieri Halloween Kitchen & Co. 29 cl, il pezzo

Sacchetti multiuso o carta da forno, Kitchen & Co. per es. sacc. multiuso N°13, 2 x 100 pezzi, 2.85 invece di 3.60

Qualcosa per tutti in famiglia

Tutto l'assortimento di biancheria intima da donna e da uomo, Sloggi per es. slip da donna maxi nero, il pezzo, 11.35 invece di 18.95

Per tenere al calduccio le gambette

Collant per bebè disponibile in diversi colori, tg. 50/56–86/92

Tutto l'assortimento di alimenti per gatti Vital Balance per es. Sensitive al tacchino, 450 g, 3.70 invece di 4.60, (100 g = 0.82) a partire da 2 pezzi

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Rose romantiche Fairtrade disponibili in diversi colori, mazzo da 10, lunghezza dello stelo 60 cm, il mazzo, (1 pz. = 1.60)

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Composizione autunnale Arany disponibile in diversi colori, in vaso, Ø 18 cm, il vaso

Da piantare adesso per un bel giardino fiorito in primavera

Tutto l'assortimento di bulbi da fiore autunnali per es. mix di tulipani porpora, il pezzo, 7.– invece di 9.95 a partire da 3 pezzi 30%

Prezzi imbattibili del weekend

3.35

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