Cooperativa Migros Ticino
società e territorio È nato in Ticino l’Archivio della Diversità Cognitiva, che raccoglie documenti, opere e oggetti di persone con disabilità
ambiente e Benessere Lo studio Hydro-CH2018 sul futuro delle nostre acque presenta scenari idrologici che, seppur non apocalittici, ci costringono a riflettere
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 4 ottobre 2021
azione 40 politica e economia Le elezioni in Germania hanno decretato la fine dell’era Merkel e dei grandi partiti popolari
cultura e spettacoli I sei anni di Marguerite Hagenbach e Jean Arp al Ronco dei Fiori di Solduno
pagina 15
pagina 3
pagine 27 e 29
di Simona Sala pagina 42
M. abbondio
nelle dolci atmosfere di abbondio
pagina 41
Germania senza guida di Peter Schiesser Le elezioni in Germania hanno chiuso un’era di certezze, incarnata da Angela Merkel e da grandi partiti popolari (Spd e Cdu-Csu), e inaugurato una fase di incertezze. Mai come oggi, nel secondo dopoguerra, la locomotiva d’Europa si presenta divisa, frazionata, senza un leader che abbia il carisma della cancelliera uscente, ciò che mette i brividi pure ai paesi dell’Unione europea. Inoltre, le elezioni hanno mostrato una volta di più che la riunificazione ha lasciato una profonda cicatrice lungo l’ex confine fra le due Germanie, con gli estremisti di destra della Aktion für Deutschland e i Linke che, benché ridimensionati ad ovest, pescano voti soprattutto a est. Ha vinto, in termini di voti, il candidato dei socialdemocratici Olaf Scholz, che ha arrestato almeno momentaneamente la vorticosa caduta della SPD in atto da anni (25,7%, +5,2), e ha vinto presentandosi ai tedeschi come il più merkeliano dei pretendenti alla cancelleria, approfittando degli errori e delle debolezze di Armin Laschet (che ha fatto perdere alla Cdu-Csu quasi 9% di voti, finendo a 24,1, il peggior risultato di sempre) e di Annalena Baerbok (i Verdi
hanno guadagnato 5,8% di voti, portandosi a 14,8, ma sei mesi fa i sondaggi li davano sopra il 20%). Tuttavia la vittoria in voti e in seggi al Bundestag non garantisce che sarà Scholz a guidare, si presume attorno a dicembre, la nuova coalizione di governo, che per la legge dei numeri sarà a tre. Di certo non ci sarà una riedizione della Grosse Koalition fra Spd e Cdu-Csu, che tutti affermano di non volere, anche perché i due ex grandi partiti popolari non raggiungono insieme la maggioranza. Impossibile anche una coalizione fra Spd, Verdi e l’estrema sinistra dei Linke, per la stessa ragione. Restano le opzioni «Giamaica», dal colore nero-giallo-verde di Cdu-Csu, liberali della Fdp e Verdi, oppure la coalizione «Semaforo» (rosso, giallo, verde, con la Spd). Ma questo comporta problemi seri, oppure un’enorme disponibilità al compromesso. Gli steccati ideologici, infatti, sono ben definiti. Sulla tutela dell’ambiente e la lotta ai cambiamenti climatici Verdi e Spd hanno posizioni ben distanti dalla Fdp, che vuole innovazioni tecnologiche più che divieti e imposte. La riforma della spesa sociale vede su fronti vicini Verdi e Liberali, che vogliono aiutare maggiormente i minorenni indigenti, mentre la Cdu-Csu non vuole cambiare l’attuale sistema
di aiuti minimi denominato Hartz-IV. La volontà di Spd e Verdi di imporre un tetto all’aumento degli affitti è fortemente combattuta dalla Fdp e dalla Cdu-Csu. Per non parlare delle imposte in genere, e in particolare quella sui patrimoni, che Spd e Verdi vogliono innalzare/introdurre ma Fdp e Cdu-Csu giammai. Non è detto, quindi, che le contraddizioni non siano troppe per riuscire a mettere insieme Verdi e Liberali, i primi con la Cdu-Csu e i secondi con la Spd. O forse rinascerà una Grosse Koalition allargata a Verdi o Liberali? Per ora nessuno contempla questa possibilità. La Germania si trova dunque ad un bivio in un momento in cui non riesce a darsi una guida chiara e sicura. Dopo l’era Merkel, la necessità di riforme economiche, sociali ed ambientali è riconosciuta da tutti, ma non c’è una maggioranza per nessun grande progetto di cambiamento. La cancelliera questo lo intuiva e il suo attendismo può essere spiegato anche con la consapevolezza che le riforme venivano invocate a parole, ma di fatto ognuno voleva a qualcos’altro. Una debolezza interna che si riverbera anche nell’Unione europea, dove pure urgono riforme in molti campi: con una Germania debole e divisa sarà ancora più difficile realizzarle.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 ottobre 2021 • N. 40
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attualità Migros
a viso aperto verso il mondo del lavoro che cambia scuola club Migros ticino Una proposta formativa in ambito di Leadership
Il mondo del lavoro sta cambiando e insieme ad esso anche le relazioni in ambito lavorativo. Sembra che non esistano più certezze ed emerge una radicalizzazione del processo mentale fondato sull’affermazione: «Abbiamo sempre agito in questo modo. Perché cambiare?».
Il ruolo della persona è parte fondante di ogni organigramma e il singolo riprende quindi la sua centralità grazie alla sua capacità di rimettersi in gioco La necessità di adattamento, diventata focale e determinante per l’efficacia e la sopravvivenza di ogni struttura aziendale, sottintende la capacità di mettersi in gioco come fattore chiave nel progetto di una carriera e di un futuro lavorativo degno di una intelligenza creativa compiuta. Il ruolo della persona come parte fondante di ogni organigramma riprende dunque la sua centralità rispetto ad una sem-
plice presenza di compiacimento inserita all’interno dell’organizzazione aziendale esistente. Questa necessità va però coniugata con caratteristiche sostanziali decisamente trasversali e consolidate, che costituiscono quindi un pilastro della formazione umana e professionale. Se pensiamo ad una definizione di Leadership data come: «un’influenza interpersonale esercitata in una situazione e diretta, tramite il processo di comunicazione, al conseguimento di uno o più obiettivi specifici», comprendiamo come il ruolo della comunicazione, e quindi della persona, sia determinante ai fini del funzionamento di un sistema complesso: saper essere all’interno di una organizzazione rappresenta oggi il cardine del funzionamento della struttura stessa. In particolare, le persone all’interno di una organizzazione non vengono riconosciute leader solo per investitura, ma soprattutto grazie alla loro preparazione e a ciò che sanno realmente fare e di conseguenza, in maniera coerente ed esemplare, fanno. Questi i concetti che stanno alla base delle relazioni lavorative e che avranno sempre più importanza in un orizzonte lavorativo che deve adattar-
leadership con certificato sVF-asFc 13 novembre 2021 – 4 giugno 2022 148 ore-lezione/20 sabati
Gestione dei conflitti Tecniche di presentazione
Contenuti dei 6 moduli SVF-ASFC: Conoscenza di sé Gestione del tempo Conduzione di un team Comunicazione con il team
Serata informativa 7 ottobre 2021 ore 19.00 Scuola Club Migros Lugano 091 821 71 50 www.scuola-club.ch
I leader sono riconosciuti grazie alla loro preparazione e al loro saper fare.
si alle contingenze ed alle specificità emergenti. In questo contesto si inserisce il percorso formativo Leadership con certificato SVF-ASFC (Associazione Svizzera per la Formazione nella Conduzione) che attraverso 6 moduli si
propone di fornire ai destinatari il metodo ed il bagaglio di conoscenze necessarie per poter affrontare il cambiamento sotto solide basi e motivazioni, consolidando il supporto teorico della letteratura di tema insieme alle pratiche concrete delle attività giornaliere di
un leader. Il tutto fondando il percorso su basi di trasparenza, autovalutazione, propensione al cambiamento ed oggettività nelle misurazioni degli obiettivi. Anche su questo fronte la Scuola Club di Migros Ticino è pronta per accompagnare verso il domani.
Una sfida in salita
Generoso trail+Walking Le gare tornano i prossimi 23 e 24 ottobre
Un paesaggio mozzafiato dalla Vetta.
azione
settimanale edito da Migros ticino Fondato nel 1938 redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Una sfida originale e impegnativa per mettere alla prova le capacità atletiche degli appassionati, in una disciplina sportiva che richiede una particolare preparazione ma è sempre più amata e seguita. Generoso Trail, torna alla terza edizione il prossimo 24 ottobre sul percorso che porta da Mendrisio alla Vetta del Monte Generoso, con un tragitto di 12 km da percorrere prevalentemente su sentieri sterrati e in mezzo al bosco. Un dislivello di 1350 m, partendo dai 353 m/sm del capoluogo del Mendrisiotto fino ai 1704 della vetta della montagna che ne è simbolo. Il percorso è certamente impegnativo ma attraversa un paesaggio splendido che culmina con una visuale a 360° sulle Prealpi meridionali del Ticino. L’arrivo della gara è previsto in caso di bel tempo in vetta, o in caso di tempo avverso in prossimità del Fiore di pietra, la costruzione dell’architetto Mario Botta che è ormai diventata
emblema della montagna. La partenza è fissata alle ore 10.30 dalla Piazza del Ponte a Mendrisio, dove verranno distribuiti i pettorali già da sabato 23 (dalle 14.00 alle 16.00) e dalle 08.30 fino alle ore 10.00 di domenica 24 ottobre. La tassa di iscrizione include pettorale con nome, pacco gara con diversi gadget, bibite al rilevamento del tempo intermedio, pranzo «runner» (con bibite e pasta) al Fiore di pietra, viaggio di rientro con il trenino della Ferrovia Monte Generoso. Accompagnatori e spettatori potranno seguire gli atleti lungo il percorso della gara e scegliere il punto di osservazione migliore. Per agevolare la loro salita sono state predisposte delle tariffe speciali sulla Ferrovia del Monte Generoso. La manifestazione si terrà con qualsiasi tempo. La novità di quest’anno è la camminata non competitiva e non cronometrata Generoso Walking, che
editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
tiratura 101’177 copie
stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
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si terrà il sabato 23 ottobre, partenza ore 10.00, con il medesimo percorso ma senza cronometraggio in modo da mettere alla prova gli appassionati di hiking non agonisti: adulti, ragazzi e conduttori con i propri cani. Per ciò che riguarda le iscrizioni alla 3. edizione sono previsti solo 250 partecipanti. Al massimo 200 iscrizioni sono previste invece per Generoso Walking. Informazioni di dettaglio e piattaforma per le iscrizioni sono disponibili sui siti web www.generosotrail.ch e www.generosowalking.ch. Generoso Trail, si affianca alle gare gemelle Lema Trail, Tamaro Vertical e San Giorgio trail che completano un calendario agonistico nelle regioni più belle del nostro cantone.
Generoso Trail+Walking, 23 e 24 ottobre, Mendrisio abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 ottobre 2021 • N. 40
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società e territorio le sentinelle del territorio Sabato si terrà l’annuale assemblea dell’Alleanza patriziale ticinese: abbiamo incontrato il presidente Tiziano Zanetti
Videogiochi Con Kena: Bridge of Spirits avremo i poteri per eliminare la corruzione degli spiriti deviati e ripristinare la naturale bellezza della foresta: parola di Ember Lab
Intervista È cresciuta in Leventina e ha studiato a Basilea, Denise Tonella è la prima ticinese nominata alla guida del Museo nazionale svizzero pagina 11
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l’archivio delle persone sensibili
testimonianze Nasce in Ticino l’Archivio
della Diversità Cognitiva, che raccoglie documenti, opere e oggetti di persone con disabilità
Sara Rossi Guidicelli «Vivendo con mio figlio ho scoperto davvero il valore della diversità», racconta Graziano Terrani, giornalista, papà di una “persona più sensibile rispetto alla media” di nome Gianmaria. Sensibile nel senso di fragile, ma soprattutto in senso artistico: Gianmaria è curioso e generoso, attento e sincero, riflessivo e incapace di ipocrisia. «Le persone come mio figlio sono diversamente normali», prosegue Graziano. «È lo sguardo che si posa su di loro che le rende normali o diverse. Loro sono come sono, cioè come tutti noi esseri umani: unici e irripetibili. E per essere unici bisogna essere diversi... Mia moglie e io abbiamo sempre trattato Gianmaria come avremmo trattato ogni bambino. Abbiamo cercato di dare il giusto valore ai segnali che esprimeva, ai suoi desideri e alle sue inclinazioni. Poi facevamo anche tutte quelle attività che piacevano a noi, per esempio andavamo molto a teatro, alle mostre, ai concerti. E lui, sempre, se veniva colpito da ciò che vedeva scriveva delle lettere agli artisti, in cui mandava loro le sue riflessioni su ciò che aveva visto». Ora queste lettere, insieme con disegni, diari, fotografie scattate da Gianmaria, costituiscono un nuovo archivio, che intende raccogliere materiali prodotti da persone con sindrome di down, di asperger, affette da autismo o da altre diversità cognitive. Persone insomma che di solito non sono protagoniste di mostre, spettacoli o libri, perlomeno non come autori. Persone la cui storia spesso rimane chiusa nelle mura di una casa o di un istituto. Persone che non lasciano traccia, di solito. Con eccezioni, quali per esempio il Museo di Art Brut di Losanna, gioiello dell’arte non accademica, dell’arte inconsapevole o dell’arte consapevole ma spontanea, esterna ai circuiti di mercato, senza pretese culturali o commerciali.
«Mia moglie ha tenuto tutto quello che Gianmaria le dedicava: regali, pensieri, scatti. Non ho altri figli e a un certo punto ci siamo chiesti: che fine faranno dopo di noi queste preziose testimonianze di una vita? Abbiamo 36 diari e 17 classificatori con disegni, lettere e fogli scritti. Vale la pena tenerli? Renderli pubblici?». Sì. È la riposta che si sono dati Graziano e Gabriella (che non è la madre di Gianmaria, ma che è sempre stata presente nella sua vita, fin dalla sua più tenera infanzia). Sì, e c’è di più: si sono detti anche che non solo i lavori di Gianmaria meritavano di non finire nella spazzatura, ma nemmeno quelli di molte altre donne e uomini che hanno una visione del mondo forse diversa, forse utile al mondo. Perché se un archivio testimonia di un territorio, della storia sua e di chi lo abita, allora non dovrebbe mancare nessun tassello, nessun punto di vista, nessuna testimonianza. Graziano Terrani si è rivolto alle biblioteche; insieme a quella Cantonale di Bellinzona nel 2019 hanno organizzato una serata di lettura e commento degli scritti di Gianmaria. Un ispettore dell’Archivio Cantonale è in seguito andato a casa loro per vedere di che materiale si trattava e ha cominciato a leggerlo; ben presto è stata presa la decisione di dedicare uno spazio all’interno dell’Archivio di Stato a Bellinzona. Così è nata l’Associazione Archivio Diversità Cognitiva, che si occuperà di raccogliere, selezionare e inventariare il materiale destinato all’Archivio. «Abbiamo cominciato da Gianmaria ma ora siamo già in contatto con altre famiglie», spiega Graziano. «Ci avvaliamo dell’aiuto di una storica dell’arte che si occupa di valutare le opere, sia scritte sia figurative: non è nostra intenzione tenere in modo acritico qualsiasi cosa testimoni di uno sguardo sul mondo di persone considerate fino a oggi “disabili”. Però crediamo che se non conserviamo nulla di loro non sapremo mai nulla. Esisto-
Foglie secche trattenute nei capelli di un’amica, fotografia scattata da Gianmaria Terrani.
no studi, film, racconti e così via che li presentano, anche molto belli e importanti; tuttavia ci sembrava che mancassero le loro voci». Da oggetto a soggetto: questo il salto che propone l’Archivio della Diversità Cognitiva. E così nuovi scrittori e poeti entreranno a fare parte della memoria collettiva preservata nell’Archivio di Stato. Sarà una prima svizzera e negli spazi di Bellinzona è stata messa a disposizione una persona che se ne occuperà al 20%. Potrà servire a genitori, fratelli, zii, educatori, studenti nel campo del sociale, gente che si occupa di cura e archivisti;
potrà essere valorizzato con mostre a tema, conferenze, eventi, progetti con le scuole e le associazioni interessate. «Questo archivio», conclude Graziano Terrani, «sarà uno strumento per chiunque ha voglia di capire meglio la diversità cognitiva. Ma anche ci è utile, ne sono sicuro, per capire noi stessi, il nostro mondo come lo abbiamo costruito». Perché ascoltare voci diverse che raccontano in un altro modo quello che anche noi abbiamo sotto gli occhi, ci aiuta sempre a valutare e rivalutare, sdrammatizzare e comprendere, spostare lo sguardo, scoprire, aprire gli
occhi, chiuderli, girare lo sguardo. La diversità fa tutto questo. Questo è un biglietto rivolto a Terrani, uno dei tanti pezzi dell’archivio, firmato «Il tuo figlio Gianmaria. Ti voglio molto bene»: «Una pianta può essere tante forme di diverso tipo delle foglie verdi o gialle e marroni o secche / ma il tuo figlio si muove come una pianta in movimento le sue mani sono le foglie il suo naso può essere un tronco di un albero le gambe e i piedi sono le radici ma il suo cuore rimane sempre attivo nei suoi battiti».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 ottobre 2021 • N. 40
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Idee e acquisti per la settimana
specialità ticinesi di montagna
attualità La famiglia dei Nostrani del Ticino propone due grandi classici della cucina svizzera, ma prodotti al 100%
con latte di montagna ticinese: la fondue e la raclette
Con l’arrivo della stagione fredda ritorna la voglia di piatti più sostanziosi che riscaldino anima e corpo. Due di questi sono sicuramente quelli a base di formaggio fuso della nostra tradizione rossocrociata. Lo sapevate che il vasto assortimento di tali specialità proposto dai supermercati Migros Ticino conta anche due varianti prettamente ticinesi, prodotte entrambe dal Caseificio del Gottardo con latte della regione di Airolo? La «Fondü du Gutard» è una delicata miscela per fondue preparata con tre aromatici formaggi ticinesi a pasta semidura. Disponibile nel sacchetto da 400 g, ideale per almeno due porzioni, è facile e veloce da preparare con l’aggiunta di pochi ingredienti. È sufficiente scaldare in un caquelon del vino bianco, uno spicchio d’aglio, del pepe e della noce moscata a piacimento. Aggiungere lentamente la miscela per fondue e portare il tutto ad ebollizione rimestando regolarmente, fino ad ottenere una consistenza omogenea. Se la fondue dovesse risultare troppo liquida, aggiungere un po’ di amido di mais. Se invece è troppo densa, incorporare lentamente ancora un po’ di vino bianco. L’altra specialità nostrana da far fondere nell’apposito fornello è la «Ra-
clètt du Gutard». Dal gusto dolce e aromatico conferito dal latte dei pascoli prealpini, è un formaggio semiduro cremoso, dalla pasta liscia, elastica e dal pronunciato colore giallo paglierino. La stagionatura dura da un minimo di 3 mesi fino a 5 mesi. Durante la preparazione della pietanza il formaggio da raclette si scioglie
in modo uniforme sprigionando tutto il suo intenso sapore e caratteristico profumo. Come vuole la tradizione, si gusta accompagnato da patate lesse con la buccia e verdurine sottaceto. A piacimento, il formaggio può essere anche arricchito con pezzetti di pancetta, carne secca, peperoncino, curry, pepe di caienna, frutta e verdure.
raclètt du Gutard blocco da ca. 500 g, per 100 g Fr. 3.–
Fundü du Gutard 400 g Fr. 14.95 In vendita nelle maggiori filiali Migros
Freschezza autunnale
attualità Dolce, croccante ed energetica: l’uva da tavola è nella sua piena stagione e ne trovate un’ampia selezione
nella vostra filiale Migros di fiducia
L’uva da tavola, grazie all’elevata presenza di fruttosio nella polpa, rappresenta un’importante fonte di energia subito disponibile per affrontare la giornata con vitalità. Oltre a ciò, essa contiene anche le benefiche vitamine A, B e C, come pure preziosi sali minerali. Si ritiene che l’uva sia una delle piante coltivate più antiche: era già diffusa presso gli antichi egizi oltre 5000 anni fa. Solo il 10% dell’uva coltivata a livello mondiale viene consumata come frutta da tavola, il resto viene trasformato in vino e i suoi derivati. Anche in Svizzera la maggior parte dell’uva è impiegata per la produzione di vino, pertanto l’uva destinata al consumo fresco proviene soprattutto dalle regioni del Sud Italia, in primo luogo dalla Puglia e dalla Sicilia dove, grazie ad un clima caldo e secco, queste tipologie di vite trovano le condizioni ideali per la loro crescita. Per garantire la massima freschezza ai consumatori e dei tempi di consegna che siano i più
brevi possibili, Migros acquista perlopiù l’uva direttamente dai produttori, in questo modo si può essere certi di trovare un prodotto che abbia raggiunto il giusto grado di maturazione per il consumo. Attualmente i reparti frutta Migros propongono una decina di varietà di uva da tavola: bianca, rossa, rosata, come pure alcune tipologie senza semi e da produzione biologica. Tra le più diffuse e apprezzate dalla clientela, possiamo senz’altro citare l’Uva Italia, dagli acini grandi e compatti di colore giallo-verde e dal sapore moscato; la Lavallée, varietà con chicchi blu scuro e dall’aroma dolce e delicato; l’Uva americana, dagli acini piccoli e neri, conosciuta anche come uva fragola per via del suo sapore che ricorda la rossa bacca; la Red Globe di colore rosato con pochi semi e aroma fruttato e la Pizzutella, un’uva bianca con caratteristici acini allungati e appuntiti, polpa soda e gusto molto zuccherino.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 ottobre 2021 • N. 40
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Idee e acquisti per la settimana
Il pane rustichella
pane della settimana Provate questo pane genuino che si distingue per la sua inconfondibile croccantezza
e ottima conservabilità Il pane rustichella IP-SUISSE è prodotto esclusivamente con farina ottenuta da cereali di origine svizzera coltivati con metodi particolarmente rispettosi dell’ambiente. Grazie alla preziosa materia prima, lavorata con procedimenti all’avanguardia e ancora molta manualità da parte degli abili panettieri del panificio Jowa di S. Antonino, si ottiene un prodotto di elevata qualità dalle ottime proprietà organolettiche e nutritive, come anche di facile digestione. Inoltre, grazie alla lunga lievitazione naturale, si mantiene fresco per qualche giorno. «È un pane caratterizzato per la bassa dosatura di lievito e l’alto tenore di acqua», ci spiega Lorenzo Stornetta, responsabile della produzione presso la Jowa. «Una volta lavorata, la pasta viene lasciata lievitare per 24 ore a bassa temperatura e costantemente controllata dai nostri addetti. Questa fermentazione prolungata permette lo sviluppo di un aroma e di un sapore ben specifici». Preparato con farina chiara di frumento, ossia con un basso grado di macinazione, il rustichella conquista occhi e palato con la sua forma allungata dall’aspetto rustico, la crosta croccante ben dorata e la mollica soffice dall’alveolatura marcata. Secondo Lorenzo Stornetta è un pane «tuttofare» che può essere gustato in qualsiasi
momento della giornata, dalla colazione spalmato con burro e marmellata fatta in casa, al pranzo per accompagnare una croccante insalata fino alla cena servito sotto forma di fette tostate insieme ad una fumante zuppa. Il rustichella è ideale anche per preparare golosi panini farciti con gli ingredienti preferiti.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 ottobre 2021 • N. 40
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società e territorio
patriziati, la nobiltà che parte dal basso Incontri Da secoli sono un ceto ristretto di «sentinelle del territorio», ne parliamo con Tiziano Zanetti,
dal 2005 alla testa dell’Alleanza patriziale ticinese
Mauro Giacometti Il ceto dei nobili, l’aristocrazia. Nell’antica Roma i patrizi, cioè le famiglie più antiche che si erano insediate sulle rive del Tevere, avevano una loro dignità riconosciuta e una certa influenza nel governare insieme a re e imperatori. Storicamente in Svizzera e da lunga tradizione gli abitanti originari di città e villaggi avevano diritti sui boschi ed altri terreni e proprietà comuni che non volevano estendere ai nuovi cittadini. Con la nascita della Confederazione Elvetica fu trovata una soluzione di compromesso, sostanzialmente ancora valida e riconosciuta oggi: il comune politico accoglie tutti i residenti, mentre i beni comuni sono gestiti dagli attinenti locali di antica data: i patrizi appunto. A Berna e Basilea vi era la classe dei Bürger, dei cittadini più antichi del borgo, discendenti di antiche famiglie, che nel XVIII secolo chiusero l’albo dei cittadini, cui è riservato il governo e il
patrizi si nasce o... si diventa Il patriziato non è solo una corporazione di diritto pubblico come stabilisce la legge cantonale del 1992 (LOP), ma a livello privato, uno status prestigioso per le famiglie che hanno questo privilegio. Lo stato di patrizio, per legge, si acquisisce per filiazione, per matrimonio oppure per cooptazione dell’assemblea dei patrizi dopo almeno 10 anni di residenza nel comune di domicilio. La domanda di concessione dello stato di patrizio è presentata all’Ufficio patriziale (l’organismo di gestione) dal richiedente. Le condizioni principali: se il richiedente è cittadino ticinese attinente del comune in cui ha sede il patriziato; se il richiedente è cittadino ticinese domiciliato nel comune da almeno dieci anni; se il richiedente, già membro di altro patriziato, domanda lo svincolo dal patriziato precedente. La domanda di concessione comprende automaticamente i figli minorenni.
potere. Anche nel comune cittadino di Zurigo dove si era formata la classe dei piccoli feudatari, Rudolf Brun impose il regime delle corporazioni, così il potere politico passò ai rappresentanti dell’attività economica. A Locarno, invece, si formarono due classi fino alla Riforma protestante (XVI secolo): la comunità dei nobili e la comunità dei borghesi (patrizi) che per secoli lottarono per il potere economico. Il patriziato dunque è una sorta di nobiltà che parte dal basso, dal territorio. Da sedici anni Tiziano Zanetti è alla testa dell’ALPA, l’Alleanza patriziale ticinese che associa i circa 200 enti patriziali distribuiti nel cantone che rappresentano i 90.000 patrizi che tra non molto saranno catalogati e iscritti in un albo elettronico. Alla vigilia dell’assemblea dell’ALPA che si terrà sabato 9 ottobre ad Airolo, prima assise in presenza dopo il rinvio a causa della pandemia (info su www.alpa.ch), abbiamo incontrato colui che dal 2005 guida un piccolo esercito di guardiani della galassia cantonale. In poche parole, cos’è un cittadino patrizio oggi...
Un cittadino patrizio è un discendente delle antiche famiglie che occupavano e gestivano, a volte con grande sacrificio e lavoro, queste terre nel passato. Oggigiorno patrizio si può anche diventare seguendo quelle che sono le indicazioni presenti nella Legge organica patriziale (LOP, vedi box).
Il patriziato ticinese nel terzo millennio: ha ancora senso e perché? non è una sorta di corporazione superata dai tempi e dall’aggregazione di comuni e territori?
I patriziati hanno ancora una grande ragione d’essere; sono stati spesso definiti delle sentinelle sul territorio. In un cantone come il nostro che si presenta con molte tipologie diverse e con un territorio a volte ancora aspro, è estremamente importante poter contare su degli enti patriziali solidi, affidabili e con persone competenti che possano contribuire alla sua adeguata gestione. Nei comuni aggregati la collaborazione diventa ancora più importante in quanto il territorio è estremamente va-
La protezione della Selvasecca sul Lucomagno è sempre stata una priorità per il Patriziato generale di Olivone, Campo e Largario. (giorgio Moretti)
sto e gli enti patriziali possono risultare delle importanti risorse per contribuire alla sua gestione.
È assolutamente essenziale che i patriziati si occupino della gestione delle loro proprietà. Qualora questa gestione dovesse generare degli utili, i ricavi devono essere destinati all’assolvimento dei compiti del patriziato, all’ammortamento dei debiti oppure al finanziamento di opere di pubblica utilità. Per quanto attiene invece agli eventuali utili dati dalla gestione dei boschi, gli stessi devono essere principalmente impiegati per investimenti a favore dell’economia forestale ed alpestre. Ciò è definito in modo chiaro negli articoli presenti nella LOP.
voli progetti portati avanti dagli enti patriziali, anzitutto la ristrutturazione e la messa a norma di molti alpi, la realizzazione di impianti sportivi, l’edificazione di appartamenti a pigione moderata per persone in difficoltà, il riordino degli archivi, il ripristino di numerose selve castanili, il mantenimento di sentieri, la sistemazione di rifugi, la creazione di zone industriali sfruttando intelligentemente il terreno a disposizione, la trasformazione di stabili in zone di riposo e ristoro, il mantenimento di boschi di protezione in collaborazione con i preposti settori cantonali e… quant’altro. Tutto ciò, senza citare nomi o luoghi, lascia in me una grande soddisfazione a dimostrazione che le buone idee accompagnate dall’adeguato supporto possono portare a dei risultati eccezionali nell’interesse non solo dei patrizi ma della comunità tutta.
In questi anni vi sono stati innumere-
Negli ultimi anni si è avuto un impor-
Gestione di boschi, pascoli, sentieri, capanne e alpeggi, ma anche «business» immobiliari, turistici e aziendali: è giusto che i patriziati si lancino sempre più negli affari?
Quali sono i progetti realizzati dai patriziati negli ultimi 20 anni di cui lei va fiero?
Il ricambio generazionale è un problema? I giovani patrizi si fanno avanti?
tante ricambio generazionale. Nelle regioni dove vi sono state le aggregazioni vi è stato un maggiore fermento. Chi è vicino alla cosa pubblica ha trovato nella gestione delle amministrazioni patriziali spazio per poter continuare nella sua passione. cosa significa avere un uomo (Fausto Fornera) che si occupa di patriziati all’interno della sezione enti locali del Dipartimento istituzioni?
Da poco più di un anno è stato creato un nuovo settore dei patriziati all’interno della SEL (Sezione degli Enti locali) proprio a testimonianza dell’attenzione che l’autorità politica pone verso le Amministrazioni e le loro attività. Quale presidente dell’ALPA plaudo a questa soluzione in quanto migliora ulteriormente la possibilità di contatto e di supporto fornito dall’Ente pubblico verso i patriziati stessi. È determinante poter contare su una stretta collaborazione in modo da rafforzare ulteriormente quella rete di contatti che consente di migliorare sempre gli interventi sul territorio ma non solo. annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 ottobre 2021 • N. 40
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società e territorio
la missione di una guida spirituale Videogiochi Le avventure di Kena e degli adorabili Rot in una spettacolare foresta creata da Ember Lab
Davide Canavesi Basta solo uno sguardo per capire che Kena: Bridge of Spirits è stato realizzato da un team appassionato, non solo di videogiochi, ma anche di film d’animazione. Se Pixar Animation si mettesse a produrre giochi per PlayStation, saremmo pronti a scommettere che avrebbero proprio questo aspetto. Ed in effetti, Ember Lab è stato per anni uno studio d’animazione, attivo non solo nel modo del gaming ma anche in televisione e cinema. Non sono poi molte le realtà che passano da un mondo all’altro e il motivo è presto spiegato: animazione e produzioni in tempo reale sono prodotti profondamente differenti, non solo da un punto di vista tecnico ma anche narrativo, di gameplay e, in ultima analisi, di ampiezza del prodotto. In questo caso ci troviamo di fronte a un qualcosa di molto raro: una prima produzione di uno studio in una fase di profonda transizione e cambiamento. Kena: Bridge of Spirits è un gioco d’avventura ambientato in un mondo aperto in cui impersoneremo una giovane fanciulla dai grandi poteri. Kena non è solo una ragazza vivace ed energica, è anche una guida per gli spiriti perduti nel mondo dei vivi. Una missione che prende molto sul serio e della quale dovremo farci carico anche noi in quanto giocatori. Durante la partita esploreremo una grande foresta, tentando di eliminare la corruzione degli spiriti deviati per ripristinare la natu-
La giovane Kena è una guida per gli spiriti perduti nel mondo dei vivi. (ember lab)
rale bellezza di radure, ruscelli e boschetti. Al contempo raccoglieremo, o forse potremmo dire recluteremo, degli adorabili esserini chiamati Rot. Grazie all’aiuto del gruppetto di spiritelli della foresta, potremo interagire con diversi oggetti e usarli come aiutanti durante i frequenti combattimenti. La storia di Kena non è particolarmente appassionante e sconfina un po’ nel banale. Anche dopo molte ore di gioco ci siamo ritrovati a non ricordarci i nomi dei personaggi che abbiamo incontrato e non sentendo particolarmente nostra la
missione della protagonista. Tuttavia, ciò non basta a fare della produzione di Ember Lab un fallimento. Il gameplay è piuttosto divertente anche se di difficoltà altalenante. Kena può fare affidamento su attacchi veloci e pesanti in corpo a corpo oppure usare un potente arco per colpire i nemici più distanti. Può anche usare i Rot per attaccare nemici, raccogliere oggetti e distruggere barriere. Il gioco non è solo combattimenti, comunque: saremo spesso confrontati con enigmi e puzzle ambientali che richiederanno al gioca-
tore un minimo di senso logico, se non di puro e semplice spirito d’osservazione. Ad esempio, dovremo colpire dei bersagli nel giusto ordine, scoprendolo osservando con attenzione il mondo attorno a noi. Oppure, capiterà di dover cercare qualche meccanismo nascosto da attivare. Proseguendo con l’avventura potremo potenziare sia le nostre capacità che quelle dei Rot, diventando sempre più agili, scattanti e forti. Da un punto di vista prettamente ludico, insomma, Kena: Bridge of Spirits si accontenta di offrirci una miscela di elementi che storicamente funzionano molto bene, presenti in moltissimi titoli già usciti negli anni scorsi. Visivamente il gioco è spettacolare, specialmente su PlayStation 5 e PC, ma è anche disponibile su PlayStation 4. L’esplorazione della foresta e dei vari ambienti è molto soddisfacente, con scorci grandiosi, altri più intimi ma sempre deliziosi. Le animazioni sono decisamente il punto di forza del gioco e, specialmente nelle scene d’intermezzo, dimostrano tutta la capacità tecnica degli sviluppatori. In alcune scene, Kena è indistinguibile da certe produzioni animate in 3D viste al cinema. Peccato che poi il doppiaggio, solo in inglese, sia un tantino troppo anonimo con voci poco carismatiche o che stonano con l’apparenza fisica del personaggio a cui sono state assegnate. Musicalmente invece Kena soddisfa, con temi e arrangiamenti che calzano come un guanto alle ambientazioni che ci circonderanno.
Kena: Bridge of Spirits non è un gioco molto originale nella sua offerta. Gli elementi di combattimento ed esplorativi richiamano alla mente molte altre produzioni, una su tutte la serie Zelda di Nintendo. La trama è appena sufficiente a fornirci una scusa per andare a salvare la foresta. Anzi, a ben pensarci, bastava meno, visto che salvare questo o quel tizio ci è parsa pure una forzatura. A nostro modo di vedere Ember Lab, con questo suo primo gioco, ha voluto dimostrare all’industria di saperci fare. Ed in effetti, nonostante la storia poco interessante e gli elementi di gameplay poco innovativi, Kena: Bridge of Spirits è indubbiamente fornito di un suo charme. Un’avventura leggera, un gameplay rassicurante e ambientazioni ed animazioni di ottima fattura. Quello che mancava, probabilmente, era il supporto di un grande publisher e un grosso budget per sostenere le ambizioni del team. Kena: Bridge of Spirits sa quasi più di lettera di motivazione che di prodotto commerciale in questo senso. Non vogliamo però sembrare troppo duri con Kena e i suoi amici Rot. Il gioco è piacevole e sebbene non sia un capolavoro immortale vale la pena di essere giocato dai fan dei titoli d’avventura a mondo aperto. Ci ritroveremo una buona dose di divertimento e parecchie ore di esplorazione. Non è Zelda e non ha bisogno d’esserlo visto che riesce nei suoi due propositi principali: divertire e mettere Ember Lab sotto la luce dei riflettori. annuncio pubblicitario
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società e territorio
con impegno, coraggio e pazienza
Il personaggio La direttrice del Museo nazionale svizzero, Denise Tonella, immagina il futuro dell’istituzione
e ricorda il suo passato, a tratti faticoso: l’infanzia in Leventina, gli studi a Basilea, i viaggi e la carriera a Zurigo
Romina Borla È cresciuta in una famiglia di contadini a Madrano, una frazione di Airolo, a contatto con la natura e gli animali. Le visioni tradizionali dell’esistenza, diffuse un po’ in tutte le valli ticinesi, le stavano strette. Lo spirito acuto e curioso di Denise Tonella – dal primo aprile 2021 direttrice del Museo nazionale svizzero – l’ha sempre spinta ad andare oltre, per scoprire storie diverse dalla sua. Era ad esempio affascinata dalle famiglie che venivano in vacanza in Leventina. Quei «forestieri» erano una brezza fresca da respirare a pieni polmoni. Grande era infatti il suo desiderio di condividere idee e immaginare orizzonti inconsueti. Nonostante l’opposizione della famiglia paterna, che considerava lo studio sconveniente per una ragazza, si è iscritta al Liceo dove le si sono aperti mondi. «Bellinzona – ricorda – mi pareva una metropoli, piena di gente e di stimoli. Pensavo di continuare con la Scuola infermieri ma poi è cambiato qualcosa… Gli insegnanti ci incoraggiavano a leggere, andare a teatro, ascoltare l’arte e vivere la cultura. E così ho fatto, scontrandomi con la rigida mentalità famigliare. Poi a 18 anni sono partita per Basilea, emancipandomi definitivamente». Dopo una Laurea in storia e antropologia culturale – finanziata in gran parte coi soldi che guadagnava come cameriera – Tonella è partita per un lungo viaggio da Basilea al Vietnam, passando da Russia, Mongolia, Cina e Tibet. Senza dimenticare di visitare la Thailandia e l’India. Al ritorno ha compiuto diverse esperienze nel mondo del cinema, mentre svolgeva lavori saltuari per l’Università e insegnava l’italiano in una scuola di lingue. Infine, nel 2010, è approdata al Museo nazionale svizzero come collaboratrice scientifica, in seguito è diventata curatrice e direttrice di progetti espositivi. Da quest’anno, come detto, è alla guida dell’istituzione. Prima ticinese ad ottenere il prestigioso incarico. «Il Museo nazionale svizzero – ci spiega – ha la missione di raccontare la storia del nostro Paese, illustrando le diverse identità che la animano, e di offrire ai visitatori degli strumenti per capire meglio il presente attraverso il passato e prendere delle decisioni più consapevoli per il futuro. Lo fa attraverso mostre, conferenze, visite guidate, atelier per le
La direttrice intende dare più spazio al patrimonio immateriale della Svizzera. (Keystone)
scuole, progetti di ricerca e di mediazione culturale, offerta online ecc.». Le mostre sono programmate con 2-3 anni di anticipo. I progetti espositivi del 2022 sono dunque già avviati e conserveranno l’impronta del suo predecessore, Andreas Spillmann, che ha lasciato l’incarico dopo 14 anni. Dal 2023, però, il programma sarà interamente diretto da Tonella. Cosa vede nel futuro dell’istituzione che ha sede principale a Zurigo? «Le idee sono molte», afferma la direttrice. «Vorrei dare più spazio al patrimonio immateriale della Svizzera, ad esempio
alle lingue e alla questione del plurilinguismo. Indagare i legami tra idiomi e identità elvetica, nonché gli aspetti politici in gioco, capire come le lingue nazionali si relazionano alle altre diffuse sul nostro territorio: l’albanese, lo spagnolo, il portoghese ecc.». Inoltre Tonella si propone di implementare la riflessione sul funzionamento dell’istituzione che conta oltre 300 collaboratrici e collaboratori, tre sedi museali e un Centro delle collezioni, il quale si occupa di restauro e conservazione. «Questo significherà investire più energie nella trasformazione
Dai consiglieri federali ai videogiochi Il Museo nazionale svizzero è stato inaugurato nel 1898 e oggi ha diverse sedi: la sede principale al Landesmuseum di Zurigo, il Castello di Prangins, il Forum della storia svizzera a Svitto e il Centro delle collezioni di Affoltern am Albis (il quale riunisce i laboratori di conservazione e restauro, i servizi del Centro degli oggetti, le collezioni e il laboratorio fotografico). L’istituzione conserva circa 860 mila oggetti e ha il compito di ampliare costantemente le sue collezioni. I tre musei presentano la storia della Svizzera dagli inizi ad
oggi, valorizzando le identità elvetiche, nonché la varietà storica e culturale del nostro Paese. Le mostre temporanee su temi attuali offrono ulteriori impressioni. Ce n’è per tutti i gusti: «Le consigliere e i consiglieri federali dal 1848», «Uomini. Scolpiti nella pietra», «Stereomania» (stereofotografie del periodo tra il 1860 e il 1910), «Games» (con la storia dei videogiochi), «Arrivano i reali» (un viaggio tra i monarchi che hanno visitato la Svizzera) ecc. Per informazioni: www.nationalmuseum.ch.
digitale (ripensamento della banca dati in primo luogo) e nel campo della sostenibilità (analisi dei materiali utilizzati negli uffici e nelle mostre, operazioni di riciclaggio ecc.). La sostenibilità è un aspetto importante per tutte le istituzioni della Confederazione ed è integrata negli obiettivi posti dall’agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile». Tornando alla carriera di Tonella, l’ultima mostra che ha seguito in qualità di direttrice di progetto e co-curatrice, la quale ha chiuso i battenti l’estate scorsa, si intitolava «Donne. Diritti». Illustrava gli oltre 200 anni di lotta per i diritti delle donne nel nostro Paese ed era un’esposizione pensata per celebrare il cinquantesimo anniversario della conquista del suffragio femminile. Nei due anni di preparazione del progetto l’intervistata ha avuto modo di approfondire un tema spinoso e riflettere sulla mancanza di attenzione nei confronti della storia delle donne (o storia di genere). Cosa può fare una realtà come il Museo nazionale svizzero sul tema della visibilità delle donne e della parità dei diritti? «Di sicuro non basta organizzare una mostra sui diritti delle donne ogni tanto», osserva Tonella. «La prospettiva femminile è stata trascurata dalla storiografia e continua ad esserlo. Rivalutarla significa prenderla in considerazione in ogni progetto che si promuove. Bisogna
insomma sempre chiedersi qual era il ruolo delle donne in quel determinato contesto storico. Per fare un esempio: quando si affronta l’argomento dei mercenari elvetici bisogna anche raccontare delle molte imprenditrici influenti che reclutavano soldati e gestivano gli affari dei mariti all’estero». Resta il problema degli spazi, evidenzia la nostra interlocutrice. «Per la mostra permanente Storia della Svizzera avevamo 1000 metri quadrati a disposizione per raccontare 550 anni di storia. Eravamo intenzionate a dare voce anche alle esperienze femminili, ma spesso mancavano gli oggetti e le fonti che permettessero di visualizzare gli eventi da una prospettiva femminile. Abbiamo dovuto fare delle scelte…». Il lavoro da fare in questo ambito è ancora molto. Al giorno d’oggi continua ad essere complicato anche il binomio donnapotere. «Durante la mia carriera non mi sono sentita particolarmente discriminata in quanto donna», osserva Tonella. «Forse perché, in ambiente museale, la maggior parte del personale è femminile (quasi il 70% dei dipendenti del Museo nazionale è donna) e ci sono diverse direttrici di musei in Svizzera». Solo per fare qualche esempio: Nina Zimmer, Tatyana Franck, Annette Bhagwati, Chantal Prod’hom. «Non ho insomma avuto l’impressione di dover fare di più degli uomini per dimostrare di valere. Però, quando sono stata nominata direttrice, alcuni media hanno commentato con frasi quali: il movimento #MeToo è arrivato anche al Landesmuseum oppure la nomina di Tonella non è nient’altro che una quota. C’è poi chi mi considera una direttrice molto giovane, forse troppo. Ma per un uomo che a 42 anni diventa direttore di un’istituzione la questione non si pone. Come se la competenza, in una donna, potesse venire solo con l’età. Mi dispiace constatare che nel XXI secolo inoltrato resistano certi pregiudizi e stereotipi». In ogni caso Tonella va avanti per la sua strada, decisa. Sicura che il suo esempio possa ispirare tante altre a fare lo stesso, a osare, a candidarsi. Perché l’unica cosa che conta davvero è la volontà e la preparazione. «Ho imparato che nella vita bisogna lottare per ottenere un risultato», dice. «È necessario lavorare molto e, a volte, essere pazienti, sopportare situazioni difficili. Ma se una cosa non funziona adesso non significa che non funzionerà mai. L’importante è non cedere alla fatica».
Viale dei ciliegi di letizia Bolzani Marta palazzesi, Le avventure del giovane Lupin, salani. Da 11 anni. La settimana scorsa ero in una scuola media ticinese a proporre libri agli studenti (il primo incontro in presenza dopo una lunga pausa) e quando ho detto «questo romanzo parla di Lupin» i loro occhi si sono illuminati sopra la mascherina (con le mascherine, quella luce nello sguardo di un pubblico di ragazzini, così preziosa per chi conduce l’incontro, sfolgora ancora di più). Sì, perché il personaggio di Lupin a loro dice qualcosa: amplificato dall’attuale serie televisiva prodotta da Gaumont e pubblicata su Netflix, e ancor prima da altre serie, tra cui il cartone animato giapponese (con la celebre sigla Lupin, Lu-pin, l’incorreggibile...), Lupin è come un vecchio amico a cui agganciare l’interesse, e rendere più intima questa nuova lettura. Una rilettura davvero nuova, perché, ispirandosi come le altre al personaggio creato ai primi del Novecento dallo scrittore francese Maurice Leblanc, si concentra sull’adolescenza del celebre ladro gentiluomo.
Marta Palazzesi prende infatti le mosse da un orfanotrofio parigino in cui il giovane Lupin trascorre le sue tristi giornate, in un incipit che evidenzia da subito l’abilità narrativa con cui è condotto il romanzo: «Rubare è sbagliato, dicono tutti. Non se lo fai per i motivi giusti, dico io. Soprattutto se hai undici anni, vivi in uno degli orfanotrofi più squallidi della città e sei l’unico in grado di scassinare la serratura della dispensa. Era la notte di Natale del 1886». Ma quella notte, mentre Lupin ruba dalla dispensa un po’ di cibo per
i più piccini, infreddoliti e affamati, la perfida direttrice dell’orfanotrofio lo sorprenderà e lo butterà fuori, scalzo, al gelo, nella neve. «Gettarmi in strada fu il più grande regalo di Natale che avrebbe potuto farmi. Perché è così che ebbero inizio le mie avventure». E con un salto di tre anni, arrivando al 1889, hanno inizio Le avventure del giovane Lupin, in pagine ben ritmate che ci portano nei quartieri malfamati di Parigi, tra personaggi malvagi e altri dal grande cuore; nel tendone del Cirque d’Hiver, con una giovane funambola e un domatore d’elefanti; e nel cuore dell’Esposizione Universale, con la grande attrazione della Torre Eiffel. Un contesto nelle corde della Palazzesi, perfettamente a suo agio con le atmosfere dickensiane dei ragazzini di strada nelle città di fine Ottocento, come già avevamo apprezzato nel suo romanzo Nebbia (ambientato invece in Inghilterra). Da pochi giorni è in libreria il secondo volume delle avventure del giovane Lupin: Il mistero del giglio, edito come il precedente da Salani.
petr Horáček, Quando la luna sorride, Gribaudo. Da 3 anni. Tutto imperniato sulle belle illustrazioni dell’artista praghese Petr Horáček, e sull’idea, semplicissima ma efficace, che dà forma alla narrazione, questo delizioso albo è una storia della buonanotte che si candida ad essere raccontata più volte, per più serate, seduti sul lettino del bimbo che segue, magari anche con il ditino, le stelle che, pagina dopo pagina, la luna accende nel cielo. «Questa è per il cane», dice la luna, e il cane si ad-
dormenta nella sua cuccia, e c’è un cane, e una stella. «Questa è per i gatti», e i gatti sono due, e adesso anche le stelle sono due. Poi ci saranno tre mucche, e tre stelle. Fino a dieci, con dieci falene danzanti nel cielo notturno. Da uno a dieci, come nel più canonico dei libri per imparare a contare, ma qui non è tanto (o non solo) l’imparare a contare che interessa, quanto la calda e rassicurante progressione ritmica delle stelline che la luna, materna, accende nel cielo per augurare la buonanotte agli animali: «questa è per il cane, questa è per i gatti, questa è per le mucche...», una luna ancora più rasserenante se interpretata dalla voce del genitore, un «questa è» alla volta, come quando si fa la pappa, con ogni cucchiaiata che diventa «questa è per...»; o nelle rime delle cinque dita, «questo dice ho fame...» Così la luna sorride, perché ogni cosa è andata al suo posto. Non per forza a nanna: i gatti, le volpi, i pipistrelli, le falene, i topolini no. Ma il cane, le mucche, le pecore, i porcellini, le oche e... i bimbi sì!
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 ottobre 2021 • N. 40
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società e territorio Rubriche
l’altropologo di Cesare Poppi Del parlare senza dire «The medium is the message» – il mezzo di comunicazione è il messaggio. Così, letteralmente, quel guru della sociologia che fu Marshall McLuhan intitolava il primo capitolo del fondamentale Understanding Media: the Extensions of Man del 1964. Il bestseller inaugurava la stagione di studi semiologici, linguistici e antropologici che, dall’etologia alla teologia, avrebbero messo al centro della riflessione dei maîtres à penser la comunicazione condita con tutte le salse immaginabili. Così Pierre Bourdieu si interrogava nel 1982 su cosa volesse dire il parlare (Ce que parler veut dire: l’économie des échanges linguistiques) – titolo che, quando lo vide sulla scrivania dell’Altropologo l’amico Caminazz – che vuol dire «Il Grande Camino» in dialetto romagnolo perché è grande come un caminazzo – e mi chiese cosa significasse mi disse che già dal titolo
non ci capiva niente. Algirdas Greimas e Roland Barthes ce l’avevano messa tutta nei rispettivi trattati di semantica e di semiologia (Castore e Polluce – ovver gemelli – sulla distinzione fra i quali sarebbero crollati molti candidati alla laurea) per complicare la Cosa che poi, con Il nome della rosa, guadagnò un’Eco senza fine in quanto messaggio lanciato con un medium – quello del romanzo poi fattosi cinema – che legioni di semiologi di ogni persuasione e disciplina hanno cercato di assegnare a questa o quella scuola comunicativa senza addivenire ad alcunché di solido e condiviso. Dei seguaci, apologeti, luogotenenti, sergenti e caporali dei Nostri potremmo scrivere un elenco lungo come la Ritirata di Russia che tanto il risultato di una sessantina d’anni di studi e teorie semiologiche (e dintorni) è risultato, more solito, nel fatto che la cacofonia del ciò che voglia
dire parlare – e non me ne vogliano i colleghi che ancora ci provano – è più intricata che mai e Babele, a confronto, era un parlatoio delle Carmelitane Scalze. Provate ad aprire quell’incomprensibile poiché oscuro approdo della sbronza semiologica che investì come uno tsunami gli intelletti degli anni 70 ed 80 che si aggirava peraltro sottotraccia come uno squalo bianco già dal 1967 che fu Della Grammatologia di Jacques Derrida per persuadervi. Insomma, per stringere: comunichiamo sempre di più e ci capiamo sempre di meno. E non si tratta solo dei social dove chiunque può regredire a livelli di comunicazione in larga misura superati con la Scuola dell’obbligo ma oggi nuovamente affascinanti perché se ne possono dire di uno che ci ha rubato la merenda da forca e da galera senza rischiare un pugno in un occhio – o l’intervento della maestra che deve sta-
re molto attenta a dove mette le mani. Ma c’è di più. A guardare certi talk show televisivi – l’apice del connubio media-messaggio – come è capitato l’altro giorno al vostro Altropologo preferito (per disgrazia visto che la televisione a casa sua non esiste) – sembra proprio che l’imperativo corrente della comunicazione sia alzare la voce, sovrapporla a quella dell’interlocutore per poi approfittare del momento nel quale anche il Nemico deve riprendere fiato per spararci dentro un insulto, una parolaccia e – se si è veloci – tutti e due. E anche quando uno ha il privilegio del monologo le cose non vanno meglio. Prendete l’altro giorno. Mi chiama il Programma Radio Uno della Rai per chiedermi un parere altropologico sul massacro dei delfini (più di 1’400 cetacei in una volta) nelle Isole Faroe. L’occasione è ghiotta. Raro poter comunicare a radiogiornali nazionali
su un tema sul quale – peraltro – credo di avere qualcosa da contribuire. Parlo per tre minuti – forse meno perché so benissimo come gira la giostra mediatica e dico in sostanza che Delfino vuol dire Fratello nella mitologia Greca ma che forse alle Faroe non lo sanno e dei delfini hanno altre idee e dunque occorre mettersi attorno al tavolo della globalizzazione e ragionare da adulti. Che sennò non si arriva comunque da nessuna parte. Risultato: quando ho ascoltato la versione editata/tagliata del radiogiornale non ci ho capito niente. Ma devono aver capito tutto quelli che mi hanno ascoltato per poi riempirmi di mediatici insulti – fossero pro o contro poco importa – chi al cellulare chi in Facebook. Morale: aveva proprio ragione McLuhan. Il messaggio è il medium. Letteralmente: sufficit quello. Basta parlare, che non occorre dire niente.
za. Crediamo di amare i partner per i loro pregi mentre sono soprattutto i difetti che ci attraggono e avvincono. Intorno a un marito così dipendente lei ha organizzato la sua vita e strutturato delle abitudini che non sarà facile scardinare. A lungo andare le abitudini diventano un habitus, modellano il carattere, strutturano la personalità, organizzano l’esistenza. Per dieci anni una parte del suo cervello è rimasta a disposizione delle richieste di aiuto di una persona sana, giovane, intelligente e al tempo stesso incapace di badare a se stessa. Un’inesausta attività di pronto soccorso deve aver perfezionato in lei straordinarie capacità di problem solving, fatte di rapida comprensione della questione e di pratica, efficace risoluzione delle conseguenze. Sono abilità che impegnano ma che in fondo danno soddisfazione perché ci fanno sentire utili, talora indispensabili.
Credo che il suo geniale matematico, sentendosi protetto e sostenuto, non si sia mai impegnato a superare disattenzione e pigrizia: tanto c’è chi vede e provvede. D’altra parte la storia è piena di aneddoti, veri o fantasiosi che siano, di scienziati «imbranati» sino al parossismo. Il povero Einstein ne è la vittima più illustre. Ha mai sentito la storiella che per cuocere un uovo sodo immergeva nell’acqua bollente l’orologio cercando di contare i minuti sul guscio dell’uovo? Chi si è preso cura dei grandi studiosi, scienziati, letterati o artisti che siano, in genere le mogli, ha contribuito in modo indiretto allo sviluppo delle conoscenze, ma chi sarà mai disposto a riconoscere un sostegno così discreto? Se questo compito l’ha esaurita senza rimedio, lasci pure il suo amabile vampiro. I tempi sono cambiati e il femminismo ci ha convinte che tra le persone da accudire ci siamo anche
noi. È passato il tempo delle crocerossine affettive ed esaurito l’imperativo «io ti salverò!», che ha assorbito le risorse di tante donne. Rifletta un momento e cerchi di capire quali sono i suoi desideri, interessi e passioni e poi cerchi di realizzarli. Se dedicherà un po’ di tempo a se stessa sarà meno disponibile a porre rimedio alle lacune altrui. La prossima volta che suo marito la chiama perché ha dimenticato l’ombrello, invece di correre a portarglielo, gli risponda: «aspetta che spiova» e torni, senza sentirsi in colpa, alle sue occupazioni.
Certo è che la figura del centenario non rappresenta un’eccezione. Con evidenti conseguenze, anche d’ordine pratico. A Lugano, il municipio ha deciso di rinunciare al dono della poltrona: costoso e in pari tempo simbolico, in senso negativo: sottintende un sedentario forzato. Ironie a parte, accumulare dieci decenni d’esistenza appartiene a una nuova normalità, un traguardo che non
fa quasi notizia, se concerne il comune cittadino. Ma anche un personaggio in vista, come fu Guido Locarnini, lo festeggiò con un certo distacco. Ci è voluto il primato dei 122 (o 124) anni, compiuti da Jeanne Calment, cittadina di Arles, a mobilitare i media mondiali, sollecitati anche dal sospetto di frode: Madame Calment avrebbe corretto la data di nascita, anticipandola due anni. Un gesto di segno opposto per una donna che, tradizionalmente, gli anni preferisce toglierseli. Al di là di questa strana manipolazione, anche i casi di ultracentenari, a quanto pare in buona forma, si moltiplicano. Si deve parlare di una tendenza che si manifesta, qua e là, magari in zone di clima mite: ne è un esempio la Sardegna che, giustamente, sfrutta i suoi centenari a scopo turistico. Quali ne siano, esattamente, i fattori diretti non è ancora dimostrato. Tanto più che, per un confronto di dimensioni mondiali, mancano i dati statistici relativi al Terzo Mondo. Intanto, alle nostre latitudini, la longevità, dato di fatto, è diventata materia di analisi e riflessioni ad ampio raggio.
Se ne ricavano conclusioni che vanno oltre i risaputi effetti finanziari, assicurativi, medici provocati dai cittadini della terza e quarta età. I vecchi come peso, insomma. Mentre la longevità deve indurre a un ripensamento in profondità, come sta avvenendo. Si tratta di adeguare le norme che regolano il nostro modus vivendi delimitando periodi precisi sin qui intoccabili: lo studio, l’attività professionale, il pensionamento. Secondo James Vaupel, ricercatore uscito da Harvard e dalla Kennedy School of Government, interpellato dalla NZZ, questo schema rigido non tiene conto di quel supplemento di vita che ci spetta. E che si rischia di sprecare. «C’è da rabbrividire, dichiara, pensando che un terzo dei nostri giorni vengono affidati alle illusioni del tempo libero!». Ora se Vaupel denuncia un guaio reale, «un sistema che butta un 55.enne fra i vecchi», d’altro canto non propone un’alternativa concreta e ragionevole. Continuare a lavorare sfidando l’età e i pregiudizi? Io ci sto provando: non è uno scherzo.
la stanza del dialogo di silvia vegetti Finzi Un marito vampiro Cara Silvia, ho sempre letto con piacere la sua rubrica e ora, in un momento importante della mia vita, comunico la mia decisione innanzitutto a lei, alla «Stanza del dialogo»: sto per lasciare mio marito. Non creda sia una scelta facile e improvvisata, una reazione di rabbia, la ripicca a un tradimento. No, no: mio marito è sicuramente fedele e anch’io, almeno per il momento, non ho alternative. Il fatto è che non ne posso più. Siamo sposati da undici anni e abbiamo una bambina di nove. L’esasperazione è il risultato di un’infinità di piccole seccature. Studioso di matematica, vive nella sfera dei numeri: la realtà non lo interessa, la pratica non lo riguarda. Non ha mai preso la patente, gira soltanto in bicicletta, veste come capita, non porta l’orologio, dimentica l’ombrello. Un tempo mi affascinava la sua genialità, il fatto che fosse diverso dagli altri, disinteressato,
libero e puro come un bambino. Ma dopo che ho dovuto occuparmi ogni giorno di lui e rimediare alle sue «malefatte»: la bambina dimenticata a scuola, le bollette scadute, gli appuntamenti scordati, i portafogli smarriti, mi sento logorata. È vero che ad ogni compleanno giunge con un bel mazzo di fiori, peccato che spesso sbagli la data. Adesso BASTA, non ne posso più. So che lei cercherà di dissuadermi ma non so se riuscirà a convincermi. / Emy Non ci tento neppure. Può darsi che, lasciato a se stesso, questo Cherubino scenda in terra e impari a cavarsela da solo. È quello che accade agli adolescenti: pigri e inetti finché rimangono in famiglia, capaci di organizzarsi quando vanno a vivere da soli. È lei piuttosto che mi preoccupa. Sento d’intuito che ama ancora suo marito e prevedo che, dopo averlo cacciato di casa, ben presto ne sentirà la mancan-
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di luciana Caglio Un paese di vecchi o per vecchi? Appartiene ormai al repertorio di detti celebri e multiuso, il titolo del bellissimo film diretto nel 2007 dai fratelli Ethan e Joel Coen: Non è un paese per vecchi, ricavato dall’omonimo romanzo di Cormac McCarty. Raccontava una vicenda tipicamente americana, ambientata nel Texas degli anni 30, dove il conflitto generazionale si manifestava in forme violente. Di cui i vecchi, cioè i deboli, erano le vittime predestinate. O lo sono ancora? In altre parole, quella sorta di «apartheid» che spettava agli anziani, persiste? Di certo, non alle nostre latitudini, in particolare in Svizzera, e soprattutto in Ticino, si deve parlare di paese non solo di vecchi ma per vecchi. Una situazione, diciamo pure un privilegio, che contraddistingue la maggior parte delle democrazie occidentali europee, poi il Giappone, in minor misura gli USA. Tanto da alimentare, in forme competitive, un orgoglio nazionale associato, appunto, alla longevità, fenomeno tutt’altro che naturale. È frutto, invece, di interventi umani, efficienti, sempre in fieri nell’ambito sanitario e sociale. Ciò che spiega come gli anziani nei paesi
evoluti, dove sono già molti, lo saranno ancora di più. Secondo le previsioni anagrafiche, continuano a spostarsi verso l’alto i limiti di età che, un tempo, si chiamavano venerande. Adesso sono semplicemente una prospettiva raggiungibile, addirittura un effetto collaterale del sistema democratico, come osano sostenere alcuni politici per attribuirsene il merito.
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ambiente e Benessere Musulmani in viaggio Il turismo halal è uno dei settori in più rapida crescita nel mercato mondiale
Dalle alpi al deserto La Cicindela, che ama il caldo, riesce a vivere sia nelle zone desertiche, sia vicino ai ghiacciai
Il gusto pieno della pera Una delizia ideale per scacciare il grigiore delle giornate autunnali pagina 24
pagina 19
pagina 17
petali per la menopausa La fitoterapia può aiutare a fornire rimedi utili a diminuire certi fastidiosi disturbi
pagina 25 Riserve d’acqua nei 4000 vallesani, qui al Weissmies: fino a quando? (Marco Martucci)
come il clima ci costringe a riadattarci Hydro-cH2018 Presentati gli scenari idrologici svizzeri dopo cinque anni di ricerche
Marco Martucci Alla Greina, 2300 metri di quota fra Ticino e Grigioni, le acque indugiano a scegliere la loro via: Mare del Nord o Adriatico. Magico spartiacque, la Greina segna l’importanza dell’acqua nel nostro territorio. In Svizzera nascono due grandi fiumi europei, Reno e Rodano. Le nostre Alpi alimentano Danubio e Po. Siamo un Paese ricco d’acqua, fiumi e torrenti, acque sotterranee, laghi, neve e ghiacciai. Sarà sempre così? Le nostre acque sono sottoposte a forti pressioni: prelievi, sbarramenti, immissione di sostanze inquinanti cui s’è aggiunto in questi decenni il cambiamento climatico. L’impatto dei mutamenti del clima sulle nostre acque è stato l’oggetto di una grande ricerca, il progetto Hydro-CH2018, «Basi idrologiche connesse ai cambiamenti climatici», durata oltre cinque anni e giunta a conclusione quest’anno con la presentazione dei risultati, frutto del lavoro di 15 importanti istituti di ricerca e centinaia di collaboratori. Gli scenari idrologici HydroCH2018 si basano sugli scenari climatici svizzeri CH2018 e sono uno dei temi prioritari del NCCS, National Centre for Climate Services creato nel 2015, la rete della Confederazione per i servizi climatici, che sviluppa e mette a
disposizione le basi di conoscenze per l’adattamento al cambiamento climatico e per la protezione del clima. L’Ufficio federale dell’ambiente UFAM con la sua Divisione Idrologia, su mandato del Consiglio federale, ha coordinato i lavori di ricerca del progetto HydroCH2018. Cosa cambierà con la nostra acqua nei prossimi decenni e fin verso la fine del secolo? Non rischiamo, come altre parti d’Europa e del mondo, la desertificazione. Ma il suo impatto, il cambiamento del clima, l’ha già mostrato e continuerà ad averlo anche in futuro. Nella protezione del clima, la riduzione delle emissioni avrà un effetto moderatore ma occorrerà anche in questo settore prendere misure di adattamento. Gli effetti del cambiamento climatico sulle acque sono numerosi, interconnessi e toccano in pratica ogni ambito, dall’agricoltura alla produzione di energia elettrica, dalla navigazione al turismo, alla biodiversità, all’industria e all’approvvigionamento d’acqua potabile. Gli scenari climatici CH2018 prevedono temperature in aumento, uno spostamento stagionale delle precipitazioni che potranno essere più intense. Pioverà di più in inverno ma, per l’innalzamento del limite delle nevicate, ci sarà meno neve. Le estati saranno per contro povere di precipitazioni,
asciutte e più calde. Ne abbiamo già avuto qualche assaggio in questi ultimi anni. I ghiacciai, insieme alla neve importante riserva d’acqua per l’estate, continueranno a ridursi. Le portate dei corsi d’acqua aumenteranno in inverno e diminuiranno d’estate. L’acqua di fiumi e torrenti e, in misura minore, anche quella dei laghi, diventerà più calda. Questi cambiamenti toccano svariati settori. L’agricoltura già da tempo risente della scarsità d’acqua per l’irrigazione, in particolare nelle zone a forte sfruttamento, come nell’Altopiano e soprattutto durante il periodo di crescita delle piante. La situazione non migliorerà e anche il suolo sarà più arido. La scelta di colture che richiedono meno acqua e sopportano il calore unita a un’irrigazione meno dispersiva rappresentano altrettante misure di adattamento. Nel ciclo dell’acqua è interessante considerare, oltre alle precipitazioni, le riserve d’acqua, i serbatoi idrici. Fra questi, i laghi con un volume di 130 kmc, di cui 2 kmc all’anno utilizzabili in modo sostenibile e, soprattutto, le acque sotterranee, ben 150 kmc, un’immensa quantità d’acqua non visibile, l’acqua di falda che, pur meno sensibile alla siccità rispetto alle acque superficiali, potrebbe scarseggiare a livello locale, specialmente nelle falde meno profonde. Serbatoi e la messa in rete di
acquedotti a livello regionale potranno ovviare alla penuria d’acqua potabile. Altro aspetto non trascurabile che emerge dai risultati di Hydro-CH2018 è l’aumento dei pericoli naturali. Le precipitazioni più intense e le maggiori portate dei fiumi potranno far aumentare la frequenza di piene e inondazioni, come pure di frane e colate di detriti. L’impressionante ritiro dei ghiacciai renderà sempre meno stabili i versanti ripidi delle montagne. La diminuzione del permafrost, il sottosuolo costantemente congelato, sarà una minaccia anche per le costruzioni a quote elevate. Occorrerà adattarsi a questi pericoli naturali, per esempio con misure di protezione contro piene e frane. Il turismo, con i ghiacciai in via di sparizione, perderà un’attrattiva di prim’ordine. Già ora le località turistiche invernali stanno facendo i conti con l’innalzamento del limite della neve e si stanno adattando alle nuove condizioni climatiche, modificando per esempio le offerte stagionali. Pure la navigazione risente già oggi della diminuzione della portata estiva di alcuni fiumi come il Reno. Ci si chiede anche cosa succederà con la produzione di energia elettrica, per oltre la metà assicurata dalle nostre acque. Per gli sbarramenti idroelettrici di montagna, le nostre dighe, non si prevedono gran-
di cambiamenti almeno per i prossimi decenni. Nelle centrali ad acqua fluente lungo i fiumi aumenterà la disponibilità in inverno e diminuirà in estate. Anche la biodiversità e l’ambiente risentiranno dell’aumento di temperatura delle acque. Acqua sempre più calda e il prosciugamento di tratti di corsi d’acqua metteranno in difficoltà molti organismi, come trote e temoli, pesci amanti di acque fredde. Potranno aumentare malattie e specie invasive. La biodiversità sarà sempre più in pericolo e anche il rimescolamento stagionale delle acque dei laghi potrà essere compromesso. Acque più vicine alla natura potranno essere la strategia vincente. Non siamo di fronte a scenari apocalittici, né andiamo incontro alla desertificazione o al diluvio, ma le nostre acque, tesoro inestimabile e irrinunciabile, risentono già ora degli effetti del cambiamento climatico, che si rifletterà anche sulla loro gestione. Protezione delle risorse idriche e protezione del clima vanno di pari passo. Informazioni
National Centre for Climate Services NCCS: www.nccs.admin.ch Ufficio federale dell’ambiente UFAM: www.bafu.admin.ch
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ambiente e Benessere
l’africa è in subbuglio. nessun timore, va tutto bene
sport Fra quattro anni per la prima volta nella storia, l’Africa ospiterà i Mondiali di ciclismo, che si terranno nel Ruanda
Giancarlo Dionisio Dici Ruanda e subito il pensiero corre alle feroci lotte etniche del 1994, fra la maggioranza Hutu e l’elite economicosociale di stirpe Tutsi. Fu un bagno di sangue che provocò quasi un milione di morti e che fu documentato anche dai media occidentali. Da allora poche notizie sono giunte da quel paese del centrosud. Che nella capitale Kigali i bus siano dotati di wi-fi gratuito e che il Ruanda, la cui popolazione ha un’età media molto bassa, sia all’inseguimento di un modernismo efficiente, poco si sa. Che dal Ruanda partano delle sponsorizzazioni per l’Arsenal e per il PSG, e che in questa operazione sia coinvolto nientemeno che il presidente Paul Kagame, grande supporter dei Gunners, forse lo sanno solo gli addetti ai lavori. Ed è forse proprio in virtù di questa mancanza di informazioni, che alcuni hanno storto il naso quando l’Unione Ciclistica Internazionale (UCI) – durante il recente Congresso che si è tenuto ai margini dei Mondiali nelle Fiandre – ha annunciato che la rassegna iridata del 2025 avrà luogo proprio in Ruanda. È una prima per l’Africa. Non ci si deve né stupire, né scandalizzare. La Coppa del Mondo di calcio del 2010 insegna. Ci sanno fare. Del resto, era inevitabile che presto o tardi una notizia simile giungesse. È la naturale
conseguenza di un processo di mondializzazione del ciclismo avviato negli anni Novanta dall’allora presidente dell’UCI, Hein Verbruggen. Fu in quegli anni che cominciarono a frequentare le grandi corse gli ex dilettanti dell’ex blocco sovietico. Poi giunsero gli Americani, i Canadesi, e gli Australiani. Asiatici e Africani sono stati più cauti. I primi sono stati comunque gratificati dall’attribuzione di un mondiale che si è rivelato tanto insulso, quanto fallimentare, quello del 2016 a Doha, nel Qatar. Chilometri e chilometri di dune e di sabbia. Senza pubblico, e non c’era il Covid. Qualche cammello qua e là. Un po’ di gente, non molta, nella zona del traguardo. Del resto, quando il sistema fiscale ti concede di non pagare le tasse sul reddito, ti senti in dovere di partecipare al gioco voluto dal ricchissimo Emiro. Ben diversa la situazione in Africa. Dal 1988 il Giro del Ruanda catalizza le attenzioni e le passioni di molta gente. Nelle ultime edizioni ha cominciato ad essere frequentato anche da alcune squadre di prima fascia. Dal 2005 la fondazione Qhubeka raccoglie fondi per mettere a disposizione dei bambini africani biciclette per andare a scuola, per lo svago, e per lo sport. Dal 2008 la stessa fondazione è diventata partner di una squadra che sta scalando le vette del ciclismo mondiale. Nel 2013 ha ottenuto lo statuto di Team Professional.
Il ciclista eritreo Biniyam Ghirmay al Tour de la Provence 2021. (Biniam girmay)
Tre anni più tardi è stata ammessa nel World Tour, ovvero la seria A, le cui squadre possono e devono partecipare a tutte le corse più prestigiose del calendario. Nel 2004 il tunisino Rafaâ Chtioui giunse terzo fra gli juniores ai Mondiali di Verona. Fu il primo africano a salire su un podio iridato. Si pensava potesse dare slancio a tutto il movimento continentale. Probabilmente i tempi non erano ancora maturi. Ci sono per contro situazioni che hanno dell’incredibile. Ti fanno pensare che il destino abbia la forza e il potere di disegnare il futuro
a prescindere da tutto e da tutti. Il 23 settembre, il Presidente dell’UCI, il francese David Lappartient, annuncia l’assegnazione dei Mondiali 2025 a Kigali. In verità è stato bruciato sul tempo dal presidente ruandese Kagame, che non vedeva l’ora. Il giorno seguente, l’eritreo Biniyam Ghirmay giunge secondo nella prova degli Under 23, vinta dall’italiano Filippo Baroncini. Che sia questo l’episodio della svolta? Per il massimo dirigente mondiale si è trattato soprattutto di rispettare una promessa fatta nel 2017, il giorno della sua nomina. Per
il mondo del ciclismo si tratta invece di metabolizzare attentamente la notizia. I Mondiali in Ruanda saranno l’ora zero. Fra quattro anni ne vedremo delle belle. Da un lato perché l’Africa – ne sono convinto – saprà offrire al mondo un Super Mondiale, in virtù delle sue accresciute competenze tecnologiche, ma anche grazie a un paesaggio da urlo che, nella regione dei laghi, presenta anche salite e strappi. D’altro canto, ne vedremo delle migliori negli anni a seguire. Da 20-30 anni gli Africani si sono impossessati della scena atletica mondiale, dal mezzofondo alla maratona. Sono finiti i tempi degli scandinavi e degli italiani. Un eventuale clone di Lasse Viren, Albertino Cova, o Gelindo Bordin, nove volte su dieci dovrebbe inchinarsi al cospetto del keniano, dell’etiope o dell’eritreo di turno. Questi ultimi sono atleti chiamati a fare in corsa ciò che fanno quotidianamente con innata naturalezza: correre. Magari anche scalzi. Per crescere, per diventare dei campioni, sono bastati dei buoni allenatori europei, un paio di scarpette e dei pantaloncini. Il ritardo del ciclismo africano è dovuto soprattutto alla scarsità di mezzi, in un contesto ben più complesso e costoso. Ma come detto, sullo slancio dei Mondiali del 2025, presto i conti andranno fatti anche con loro. annuncio pubblicitario
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ambiente e Benessere
lo svago salubre del turismo halal
Viaggiatori d’occidente Per meglio accogliere gli ospiti musulmani, visitatori in crescita, bastano pochi
accorgimenti: niente alcol nel minibar in camera, niente gioco d’azzardo, niente nudità
Turismo halal: sapete cosa significa? È il turismo dei musulmani, ovvero un viaggio in accordo con la Shari’ah, le regole di vita e di comportamento dettate da Dio per la condotta dei suoi fedeli. Il turismo halal è uno dei settori in più rapida crescita nel mercato mondiale: contava centoquaranta milioni di arrivi internazionali nel 2018 (dieci per cento del totale) e si prevede un raddoppio nel giro di una decina d’anni. Al mondo, del resto, ci sono quasi due miliardi di musulmani, con il più alto tasso di crescita demografica tra le diverse religioni. Certo sotto il grande mantello dell’Islam ci sono popoli molto diversi tra loro e i tradizionalisti sono solo una parte (per quanto più visibili nei media), ma quasi tutti i musulmani sono inclini a rispettare i precetti della loro religione anche in viaggio, magari con qualche adattamento (consentito dal Corano a chi si trova lontano da casa). E dunque, solo per fare qualche esempio, niente alcol nel minibar in camera, niente gioco d’azzardo, niente nudità. Più volte al giorno si prega in direzione della Mecca, dopo aver fatto le necessarie abluzioni. Il cibo dev’essere preparato secondo le prescrizioni rituali (dev’essere halal appunto) e naturalmente la carne di maiale è proibita. Finché si resta all’interno della comunità dei fedeli (Umma) non ci sono problemi a osservare strettamen-
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Claudio Visentin
te queste regole, ma tutto diventa più complicato quando il turista musulmano si spinge nei Paesi dove un’altra fede è prevalente. Ecco perché per esempio si preferisce volare con compagnie aeree di Paesi islamici. Inoltre, dopo l’undici settembre, superare i controlli di sicurezza in aeroporto può essere più lungo e difficile per chi parla arabo. È anche comune la scelta di prenotare gli alberghi attraverso siti web attenti alle esigenze spirituali dei viaggiatori (il più conosciuto è HalalBooking). Per un curioso paradosso la tradizione si mantiene viva anche grazie
alle più moderne tecnologie. Del resto, oltre il 60 per cento dei musulmani ha meno di trent’anni e, come tutti i giovani, in viaggio utilizzano quasi soltanto il loro smartphone. Infine, una volta giunti a destinazione può essere difficile trovare spazi e tempi adatti alla preghiera, o cibo veramente halal (molte certificazioni sono poco più di un’etichetta di comodo). Naturalmente è vero anche il contrario. Quando nel 2019 l’Arabia Saudita – sino ad allora riservata esclusivamente ai pellegrini islamici diretti alla Mecca – ha aperto le porte ai turisti internazionali di quarantanove
Paesi, ha subito scoperto che non era possibile imporre loro le stesse regole dei locali, quali l’abito nero per le donne, il divieto di condividere una stanza d’albergo per le coppie non sposate, l’astinenza dall’alcol eccetera. Detto questo i turisti halal da molti punti di vista non sono poi così diversi da noi. Lo svago (leisure) resta la principale motivazione del viaggio, insieme a festival, visite agli amici, benessere e via elencando. Nelle diverse città anch’essi visitano i luoghi e i monumenti più famosi. Un numero crescente, tuttavia, è interessato anche a un turismo culturale ispirato alla riscoperta dei momenti più importanti nella storia dell’Islam: la Spagna nell’alto medioevo (al-Andalus) a Siviglia, Granada e Cordova, la lunga stagione della Sicilia araba (827-1091), con le sue meraviglie architettoniche palermitane, Samarcanda islamica, i Balcani e così via. Il turismo halal riserva anche qualche sorpresa. Se è vero per esempio che la maggior parte delle donne si sposta con tutta la famiglia (una scelta ancora prevalente nel mondo musulmano), un sorprendente 28 per cento viaggia da sola o in gruppi esclusivamente femminili (Mastercard & CresentRating). E molte di loro si lamentano dei controlli, per esempio all’aeroporto, quando devono togliersi il velo ma non possono farlo in spazi riservati e con personale femminile. Spesso la discussione sulle viag-
giatrici islamiche si concentra sul loro caratteristico costume da bagno integrale, il famoso burkini. Dopo gli attentati di Nizza nel 2016 sulle spiagge francesi fu pure vietato. Ma è un altro caso di malinteso. In realtà nei Paesi islamici le donne hanno spiagge separate da quelle degli uomini e quindi i costumi da bagno, in assenza di maschi, sono spesso liberissimi. Il burkini è solo un compromesso a cui le donne musulmane ricorrono per poter frequentare le nostre spiagge o le piscine pubbliche; non a caso fu inventato nel 2004 da una stilista australiana, Aheda Zanetti. Il turismo halal ci riguarda da vicino e merita di essere approfondito per molte ragioni, dal dialogo multiculturale all’interesse economico. Infatti gli albergatori ticinesi ricordano bene le grandi famiglie musulmane di qualche anno fa, la loro curiosità verso il nostro cantone, i soggiorni prolungati, l’inclinazione quasi compulsiva allo shopping (con una spesa media oltre tre volte superiore ai tedeschi). La legge contro i minareti prima, e il divieto del burqa o velo integrale (niqab) poi, ha un poco raffreddato gli entusiasmi e non a caso molti albergatori avevano espresso perplessità verso questi provvedimenti, ma non si è aperto un solco. I primi turisti dai Paesi arabi stanno già cautamente tornando e saranno ancor più quando l’emergenza Covid sarà superata. Facciamoci trovare pronti. annuncio pubblicitario
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per viaggiare
Negli ultimi due anni, sia pure per cause di forza maggiore, abbiamo declinato in tutte le forme il viaggio dentro i nostri rassicuranti confini (staycation, direbbero gli inglesi); gli svizzeri di lingua tedesca sono scesi in massa in Ticino certo, come ai bei vecchi tempi, ma anche noi, per una volta, abbiamo viaggiato in direzione contraria, superando un certo tradizionale isolamento. Ogni tanto, infatti, il Canton Ticino ama pensarsi come un’isola, appena lambita dal rumore e dal disordine del mondo. Ma in una diversa prospettiva anche la Confederazione è spesso immaginata allo stesso modo, come un’isola al centro dell’Europa.
E proprio al tema dell’isola è dedicata la decima edizione del Festival PiazzaParola. Si parlerà dell’isola dove siamo, dell’isola che siamo, di isole immaginarie, riflesse da miraggi o colme di tesori, dove collocare paradisi e utopie, e dell’isola che non c’è, se non nei sogni dei marinai e dei poeti. A partire dal Settecento, grazie ai romanzi d’avventura, l’isola diviene un luogo privilegiato della riflessione e dell’immaginazione. Il testo di riferimento, allora come oggi, è naturalmente Robinson Crusoe di Daniel Defoe (1719). Ma tra le curiosità c’è anche Il Robinson svizzero, un romanzo avventuroso scritto da David Wyss nel 1812. In occasione dell’Anteprima del festival PiazzaParola, Alla scoperta dell’isola svizzera, il nostro collaboratore Stefano Vassere dialogherà con il nostro altrettanto collaboratore Claudio Visentin e con Marco Agosta. Quest’ultimo è il curatore del progetto editoriale «The Passenger», una serie di guide di nuova concezione che ha dedicato un bel volume anche alla Svizzera, raccontandola attraverso inchieste, reportage letterari e saggi. Perché la nostra isola è piena di misteri… / RedAzione Informazioni
L’immagine sul volantino dell’evento letterario PiazzaParola.
L’incontro avrà luogo sabato 16 ottobre, ore 11, al LAC; l’ingresso è gratuito. Per ulteriori dettagli consultare il sito www.piazzaparola.ch o scrivere a: info@piazzaparola.ch.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 ottobre 2021 • N. 40
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ambiente e Benessere
selvatici che scompaiono
Mondoanimale Il 4 ottobre invita alla riflessione sull’accelerazione dell’estinzione di alcune specie
Maria Grazia Buletti Il ventaglio di giornate dedicate agli animali a livello globale è ampio. Per citarne qualcuna fra le più originali, il 13 ottobre è dedicato alla Giornata di sensibilizzazione sull’obesità degli animali che, dicono gli ideatori, «non deve essere sottovalutata, perché l’obesità può comportare altri problemi di salute e influire sulla loro qualità di vita, così come sulle attività dei nostri beniamini a quattro zampe». Che dire, poi, del 28 ottobre dedicato alla Giornata mondiale degli amanti dei peluche a forma di animale? Viene suggerita come la «Giornata ideale per comprare un nuovo gioco».
Per il Wwf quanto avviene negli ultimi anni è favorito dall’essere umano e dalla sua azione sugli habitat naturali Chicche a parte, fra le giornate declinate ai nostri animali nei modi più improbabili, rimane importante quella di oggi, 4 ottobre, genericamente detta Giornata mondiale degli animali. Un momento che dovrebbe indurre a qualche riflessione più profonda verso quelli che sono i nostri coinquilini, domestici o selvatici, su questa terra. A questo proposito, sono sempre più allarmanti i dati riportati dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Iucn) che parla addirittura di una «sesta estinzione di massa» che «sta accelerando a un ritmo vertiginoso e così è pure per il numero di animali in via di estinzione». Dal 1964 L’Iucn organizza i dati raccolti in tutto il mondo, stilando una «lista rossa» che indica come oggi gli attuali tassi di scomparsa per le specie sono da cento a mille volte maggiori rispetto a quelli precedenti: «Il 21 per cento delle specie di uccelli, il 27 per cento delle specie di mammiferi e il
Rinoceronti di Java al Taman Safari Bogor West Java Indonesia. (Cep Budhi Darma )
36 per cento delle specie di anfibi sono minacciate dall’estinzione». Parallelamente, un recente rapporto intergovernativo sulla crisi della biodiversità ha stimato che l’estinzione minaccia fino a un milione di specie animali e vegetali, note e sconosciute. La vincitrice del premio Pulitzer Elizabeth Kolbert afferma sul «National Geografic» che «bisogna pensare a una specie come a un pezzo di puzzle». Che si tratti di una scimmia o di una formica, dice la Kolbert: «Ogni specie ci offre una risposta alla domanda “come vivere sul pianeta Terra?”». Le caratteristiche genetiche di una specie (genoma) vengono paragonate a una sorta di manuale: «Quando la specie
si estingue, quel manuale va perso». In questo senso, stiamo distruggendo la «biblioteca della vita». E purtroppo, data la frequenza delle estinzioni, ci stiamo abituando. Scoprire la varietà delle specie viventi contribuisce ad arginare questa desensibilizzazione e ci insegna quanto ogni specie che si sta perdendo sia invece essenziale. In fondo, è vero che l’estinzione di una specie può annoverarsi fra i fenomeni naturali da sempre esistenti. Secondo il Wwf (e come riportato dal «National Geographic»), purtroppo quanto avviene negli ultimi anni è stato accelerato (se non addirittura innescato) dall’essere umano, dalla sua azione
sull’ambiente e sugli habitat naturali, come ad esempio la deforestazione, l’agricoltura intensiva e l’introduzione di specie aliene vegetali o animali: «Ad oggi, più del 99 per cento delle estinzioni delle specie attuali sono attribuibili all’attività antropica: la perdita e la degradazione degli habitat naturali è la più grande minaccia per gli animali in via di estinzione, e la distruzione degli habitat è causata principalmente dalla conversione della terra per le attività dell’uomo quali agricoltura, commercio, edilizia abitativa e deforestazione». Inoltre, tra le cause riconducibili all’uomo emergono il bracconaggio e l’uso non sostenibile e il commercio illegale di alcuni animali che rappre-
sentano una grave minaccia anche per la sopravvivenza degli ecosistemi in cui queste specie naturalmente vivono. Infine, lo sfruttamento eccessivo delle risorse, i cambiamenti climatici e l’inquinamento sono indicati come le altre cause dell’estinzione degli animali direttamente o indirettamente imputabili all’uomo. Fra gli animali in via d’estinzione nel mondo quelli più minacciati sono una decina, fra le quali spicca l’Orso polare che, con i circa 22mila esemplari rimasti, sta scomparendo insieme all’ambiente in cui vive «a causa del surriscaldamento globale che sta provocando lo scioglimento del Polo Artico, habitat da cui dipendono la sua sopravvivenza e alimentazione». Restano solo una sessantina di esemplari di Rinoceronte di Giava, condannato inesorabilmente a morte dal bracconaggio indiscriminato a causa del suo corno che può valere oltre 30mila dollari al chilo sul mercato nero ed è particolarmente richiesto nella medicina tradizionale cinese. Quattro specie di tigri sono già estinte e nel territorio asiatico ne restano solo cinque sottospecie: «circa 4mila esemplari». Purtroppo, le tartarughe marine scambiano la plastica che galleggia nell’oceano per cibo e sempre secondo le stime del Wwf «ogni anno circa 150mila tartarughe marine finiscono catturate negli attrezzi da pesca nel Mediterraneo; di queste, oltre 40mila muoiono». E via elencando: la lista comprende il Gorilla di montagna, il Leopardo dell’Amur, l’Elefante e l’Orango di Sumatra, una certa percentuale di farfalle in Europa, fino all’Orso bruno delle nostre latitudini che «ha visto drasticamente ridursi l’habitat e il numero dei suoi esemplari che, ad oggi, sono appena una cinquantina raccolti all’interno del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise». La lista non annovera solamente altre specie in via di estinzione, ma porta a riflettere sul fatto che non basta più solo pensarci: ora agire responsabilmente sarebbe opportuno e urgente.
a qualcuno piace il caldo entomologia Le tigri delle sabbie Alessandro Focarile Non occorre andare in lontani e assolati deserti, oppure su una spiaggia mediterranea. È sufficiente frequentare le rive sabbiose del Ticino, del Brenno, e della Maggia in piena estate per rilevare, forse con meraviglia, che il termometro può indicare 57 gradi, una temperatura già poco gradita per i nostri piedi. L’abbacinante riverbero accentua la sensazione di estrema calura. Questa, per contro, è ben sopportata da un insetto che, con rapidi voli e repentini atterraggi, mostra di muoversi a suo agio in un ambiente apparentemente ostile a ogni forma di vita. Se ci avviciniamo con cautela, per non allarmarlo, notiamo un bel coleottero dal vivace colorito rameico, che imita a meraviglia il colore della sabbia. Corre velocissimo, e quando una formica – oppure un altro incauto insetto – entra nel suo campo visivo, ha pochi scrupoli e le sue poderose mandibole a forma di falce dentata (vedi foto) non lasciano scampo. Le Cicindela appartengono alla famiglia dei carabidi, e sono note presso gli anglosassoni con il ben appropriato nome di «tiger beetles». Sono splendidi coleotteri diffusi in quasi tutte le regioni della Terra, con una particolare predilezione per le zone tropicali. Pos-
sono raggiungere dimensioni di 3-4 centimetri, amano il caldo secco, e le 15 specie europee sono ben poca cosa rispetto alle 1500 finora conosciute e descritte. Le Cicindela popolano gli ambienti più variati: dalle coste sabbiose agli arenili di fiumi e torrenti, le radure e i sentieri soleggiati, fino ai 3000 metri delle morene che delimitano i ghiacciai alpini. Si può ben dire che esse amano il solleone, e vivere e prosperare con i piedi ben al caldo. Le larve sono particolarmente singolari, sia per la conformazione del corpo, sia per le loro abitudini. Esse scavano profonde gallerie nei sedimenti sabbiosi, fino a 140 centimetri. Lo sviluppo di questi passaggi sotterranei è essenzialmente verticale, con alcuni diverticoli sub orizzontali: sala da pranzo, deposito dei rifiuti. Alcuni uncini, disposti lungo il corpo, consentono alla larva di mantenersi in posizione verticale nel lume della galleria, comportamento piuttosto insolito e raro negli insetti che vivono nel suolo. La parte anteriore del corpo (e cioè il capo e il pronoto) è foggiata «a tetto» che occlude l’ingresso della galleria a livello della sabbia (vedi foto). Qui, il padrone di casa, opportunamente camuffato con granelli di sabbia, attende pazientemente il passaggio
di qualche ignaro insetto. L’attesa può protrarsi a lungo, ma la larva della Cicindela è attrezzata fisiologicamente per i digiuni, in quanto un lauto pasto le è sufficiente per parecchio tempo. La Cicindela della Val Bavona è largamente diffusa in Europa nelle distese sabbiose di fiumi e torrenti. È dunque una specie continentale. Ma la particolarità del suo insediamento in una valle, che penetra profondamente nel mondo alpino, è costituita dal fatto che essa ritrova temperature particolarmente elevate anche in mezzo a montagne di 2500-3000 metri d’altitudine. La sabbia è un pessimo conduttore di calore: si riscalda rapidamente in superficie, e altrettanto rapidamente si raffredda. In Val Bavona, nel mese di agosto, al mattino e nell’arco di un’ora, la temperatura si innalza da 12°C a 45°C, per stabilizzarsi (a cavallo delle ore meridiane) tra 50°C e 55-58°C. La nostra Cicindela sopporta dunque notevoli sbalzi termici che possono essere fisiologicamente sopportati da ben pochi insetti: solo una specie di Formica, e un minuscolo coleottero anticide. Entrambi si muovono velocissimi sulla sabbia, anche con 50°C. È ben nota la vita e il comportamento degli insetti «deserticoli». Ma in quelle contrade essi esplicano un’at-
La cicindela gallica fotografata sopra la Täschhütte nelle Alpi vallesane, a un’altitudine di quasi 2800 m sul livello del mare. (Robin Holler)
tività esclusivamente notturna, mentre sulle dune mediterranee altre specie presentano due cicli di attività: al mattino di buon’ora, e nel tardo pomeriggio, evitando le ore di maggiore caldo. Sulle coste siciliane ho misurato (in giugno) temperature di oltre 70°C e, naturalmente, non vi era traccia di vita sulla sabbia. Anche il più feroce e sanguinario predatore ha, nel suo corpo, un punto debole. Il «tallone di Achille» della larva di Cicindela è costituito dalla parte interna dell’arco di curvatura delle due mandibole. Qui esiste un interspazio libero, ove una minuscola vespa parassita, e altamente specializzata nel suo comportamento, esplica la sua attività. Temeraria e audace (ma conosce il fatto suo), con mossa fulminea trafigge il
capo della larva, e deposita il suo uovo. Da questo nascerà una larva che, sempre più sviluppata e famelica, divorerà lentamente ma inesorabilmente la larva della Cicindela le cui temibili mandibole sono state impotenti all’attacco della vespina. Un mirabile esempio di due intelligenze antagoniste, e vince quella che alberga nell’insetto più piccolo. E per imbattersi in questi episodi non occorre andare lontano. È sufficiente osservare, nel luogo e al momento opportuno, con occhio attento e cervello aperto. Bibliografia
Guido Grandi, Introduzione allo studio dell’entomologia, Edizione Calderini (Bologna, 1951).
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di entrecôte di cervo, in un pezzo fettedi pancetta di porcini di brodo di manzo di zucchero greggio di panna intera d’amido di mais d’erbe aromatiche miste, ad es. timo, origano, salvia
ca. 30 minuti
Preparazione
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Scalda il forno a 60 °C. Taglia il pezzo di entrecôte in 8 medaglioni e avvolgi ben stretto ognuno in una fetta di pancetta. Scalda una padella antiaderente. Accomoda i medaglioni in padella con l’estremità della pancetta rivolta verso il basso per iniziare e rosolali su tutti i lati per ca. 6 minuti. Toglili dalla padella, condiscili con sale e pepe poi coprili e lasciali riposare in forno. Pulisci i porcini e tagliali a pezzi grossi. Rosolali a fuoco medio nella stessa padella della carne, nel grasso rimasto, per ca. 5 minuti. Condisci con sale e pepe, togli i funghi dalla padella, coprili e tienili in caldo.
400 g
500 g
Sempre nella stessa padella porta a ebollizione il brodo con lo zucchero. Mescola bene la panna con l’amido di mais poi incorpora la miscela al brodo. Lascia sobbollire la salsa finché lega. Spezzetta finemente le erbe o tritale e incorporale alla salsa. Condisci con sale e pepe. Servi la carne con i funghi e la salsa alle erbe. Ideale con cavoletti di Bruxelles, spätzli o riso. Tempo di preparazione Preparazione: ca. 30 minuti
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ambiente e Benessere
Un goccio contro il colesterolo?
la nutrizionista Al di là delle credenze popolari, bere alcol genera in ogni caso conseguenze cardiache,
soprattutto quando si supera spesso il limite
Laura Botticelli Buongiorno. Leggo sempre con interesse, e oggi prendo coraggio: l’altro giorno, discutendo con amici, è saltata fuori questa cosa dell’alcol verso i grassi. In pratica la teoria che le chiedo se sia valida o no, secondo la discussione, è la seguente: possibile che l’alcol ingerito da un corpo sano, pulito che mangia in modo salutare, eccetera, e non ha dunque «nelle vene» molto grasso (colesterolo) venga maggiormente danneggiato (perché l’alcol «irrigidisce» i vasi sanguigni), mentre a una persona che ingerisce molti grassi, per dire, un po’ di alcol farebbe persino «bene» perché pulirebbe via un po’ di questi grassi? Spero di essere riuscito a spiegarmi. / Silvio Buongiorno Silvio, sono felice che abbia trovato il coraggio di scrivermi e la ringrazio per la domanda interessante. Sebbene l’alcol venga filtrato attraverso il fegato, lo stesso luogo in cui viene prodotto il colesterolo, il suo effetto sulla salute del cuore dipende unicamente da quanto spesso e quanto lo si beve; ma mi spiego meglio. Ho già scritto alcuni articoli sul colesterolo, quindi sarò brevissima nell’introdurre il contesto; il colesterolo è una sostanza «cerosa» prodotta dal corpo, ma che si ottiene anche dal cibo. Esistono due tipi di colesterolo, colesterolo lipoproteico a bassa densità (LDL), o colesterolo «cattivo», che si accumula all’interno delle arterie e
L’alcol può causare variabilità nel modo in cui il cuore batte. (pixabay.com)
forma la placca pericolosa per la salute; e il colesterolo «buono», noto anche come lipoproteina ad alta densità (HDL). Un’altra forma di grasso nel sangue sono i trigliceridi che contribuiscono al colesterolo totale. Ugualmente, alti livelli di trigliceridi aumentano il rischio di malattie cardiache. Il nostro corpo produce colesterolo e anche la nostra dieta può influenzare questi livelli. L’alcol non contiene colesterolo, almeno nelle forme pure di vino, birra e liquori. Tuttavia, ciò che mescoli con esso (i vari cocktail), e la
quantità e la frequenza dell’assunzione, possono in ogni caso influenzare la salute del nostro cuore. Tra tutte le bevande alcoliche, il vino ha la migliore reputazione quando si tratta di salute del cuore adulto. Questo grazie a uno sterolo vegetale noto come resveratrolo che si trova nel vino rosso. Secondo molte ricerche attendibili, il resveratrolo può aiutare a ridurre l’infiammazione e prevenire la coagulazione a breve termine. Questo può contribuire ad aumentare i livelli di
colesterolo «buono». Gli effetti positivi del resveratrolo, tuttavia, non sono di lunga durata. Sono necessarie ulteriori ricerche per sostenere l’idea secondo cui questo sterolo vegetale riduca il rischio di complicanze cardiache. La birra non contiene colesterolo ma alcol e carboidrati e queste sostanze possono causare un aumento dei trigliceridi. Anche la birra ha steroli vegetali che possono legarsi al colesterolo e buttarlo fuori dal corpo ma le quantità di steroli sono così basse, anche in una birra integrale, che non influenzano il colesterolo. Allo stesso modo i superalcolici, come whisky, vodka e gin, sono privi di colesterolo. Tuttavia, alcune varianti, come la nuova tendenza dei whisky aromatizzati, possono contenere zuccheri extra, che possono influenzare i livelli di colesterolo. Lo stesso vale per altri cocktail e bevande miste, che spesso includono ingredienti ad alto contenuto di zucchero. Sia l’alcol sia lo zucchero possono aumentare i livelli di trigliceridi. Sebbene birra, liquori e vino abbiano tutti effetti diversi sui livelli di colesterolo, il cuore è più influenzato dalla quantità e dalla frequenza del bere che dalla scelta della bevanda. L’alcol può causare variabilità nel modo in cui il cuore batte – il tempo tra i battiti cardiaci. Studi in merito hanno scoperto che bere regolarmente e in abbondanza può causare episodi di tachicardia (aumento della frequenza
cardiaca a causa di problemi nei segnali elettrici che producono un battito cardiaco). Le complicazioni dovute a episodi regolari di tachicardia, variano a seconda della loro frequenza, lunghezza e gravità, ma possono causare coaguli di sangue che possono portare a un infarto o ictus. Inoltre, appena lo si beve, l’alcol può causare un aumento temporaneo della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna. L’ipertensione può causare indurimento e ispessimento delle arterie ed è un fattore di rischio per ictus e infarto. Bere per molto tempo al di sopra delle linee guida consigliate (un bicchiere al giorno per le donne e due bicchieri al giorno per gli uomini) può portare a un aumento continuo della frequenza cardiaca ipertensione, indebolimento del muscolo cardiaco e battito cardiaco irregolare. Quindi, che tu sia sano o che tu abbia delle placche di colesterolo, se esageri ad assumere alcol avrai sempre e comunque delle brutte conseguenze al cuore… o almeno lo metti in una condizione non proprio ottimale. Informazioni
Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch annuncio pubblicitario
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ambiente e Benessere Migusto la ricetta della settimana
Uno spezzatino torta alle pere d’agnello speciale piatto Dolce principale
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
Ingredienti per 4 persone: persone: 800 80 ggd’amaretti di spezzatino secchi d’agnello, · burroad peresempio la tortiera spalla · 150 · sale g di· burro, pepe · 2morbido cucchiai·d’olio 100 gdi dicolza zucchero HOLL · 1 · presa 4 spicchi di sale d’aglio · 4 uova · 2 cipolle · 220grosse g di farina · 8 pomodori · 2 cc di lievito secchi sott’olio in polvere · ½· 4cucchiaio piccole pere di farina (circa 600 · 4 dl g) di · ½brodo limone di ·manzo 3 c di gelatina · 50 g didiolive perenere o di mele snocciolate cotogne · 4 fette di prosciutto crudo · 2 cipollotti · 1 limone.
1. Scaldate Condite illaforno carnea con 180 °C. saleSbriciolate e pepe e rosolatela gli amaretti. bene Rivestite nell’olioil fondo in unadella padella. tortiera Dimezzate con carta l’aglio, da forno, tritateimburrate grossolanamente il bordo le e cospargetelo cipolle. Aggiungete di amaretti aglio, sbriciolati. cipolle e 2. pomodori Montatealla il burro carne, con spolverizzate lo zuccherocon e il sale la farina a spuma, e bagnate usando con uno il brodo. sbattitore Mettete elettrico. il coperchio Incorporate e stufate le uova a fuoco unamedio-basso dopo l’altraper e continuate circa 50 minuti. a mescolare Lasciate peril circa coper-3 minuti. chio leggermente Mescolateaperto il restoper degli permettere amarettialcon vapore la farina di fuoriuscire e il lievito dalla e incorporate padella, in la miscela modo che al composto il liquido sidiriduca. burro e uova. Versate l’impasto nella tortiera e livellatelo. 3. 2. Cuocete Tagliate le la olive torta enella i cipollotti parte bassa a rondelle del forno sottili, per ilcirca prosciutto 10 minuti. a dadini. Ricavate 4. delle Nellistarelle frattempo, dalla dimezzate scorza del le limone. pere e privatele Mescolate del tutto. torsolo. Dividete le mezze pere in 3. Spremete tre. Spremete la metà il limone del limone. e spruzzatelo Condite lo sulle spezzatino fette di con pera.il Sfornate succo di limone, la torta.sale Infilate e pepeglie distribuite spicchi di pera la gramolata nella torta sulla concarne. la parte più larga rivolta verso il basso. 5. Cuocete ancora la torta per circa 60 minuti. Sfornate e lasciate intiepidire. Poi Un piatto chetortiera può essere accompagnato concalda pastacon o semplicemente togliete la gustoso torta dalla e spennellatela ancora la gelatina. con fette di pane. 6. Lasciate raffreddare la torta su una griglia. preparazione: circa 20 brasatura: circa 50 minuti. 30 minuti; cottura in forno: circa 70 minuti; per porzione: circa 47almeno. g di proteine, 27 g di grassi, 13 g di carboidrati, raffreddamento: 1 ora 520 kcal/2150 kJ. per persona: circa 6 g di proteine, 16 g di grassi, 43 g di carboidrati, 350 kcal/1450 kJ.
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Un fiore contro le vampate
Fitoterapia Cimicifuga Racemosa è tra le piante più utili per affrontare i problemi creati dalla menopausa
Eliana Bernasconi «Ma perché la femmina della nostra specie va in menopausa?». Se lo chiede nel capitolo «I rimedi medici in menopausa», Emanuele Jannini, medico e sessuologo, autore del libro Uomini che piacciono alle donne: «È un mistero irrisolto dell’evoluzione, pare che la donna sia l’unica tra i mammiferi ad attraversare questa fase, insieme ad alcuni cetacei e agli scimpanzé in cattività…». Dal greco «men» che significa «mese» e «pausis», «fine», il termine menopausa fu coniato da un medico francese nel 1816 e si riferisce all’ultima mestruazione della donna. In un’età che indicativamente si pone nel periodo tra i 45 e i 55 anni, variabile ma non procrastinabile, l’equilibrio ormonale si altera in seguito alla ridotta produzione di estrogeni, gli ormoni sessuali dell’organismo femminile, determinanti durante l’età fertile. Gli estrogeni riducono e sospendono la loro funzione e ritmicità quando ipotalamo e ipofisi smettono gradualmente di impartire segnali alle ovaie. Possono allora manifestarsi leggeri ma fastidiosi disturbi, di natura neurovegetativa o psicoaffettiva, vampate, sudorazioni, tachicardia o disturbi del sonno, o anche irritabilità, forme ansiose o depressive, cambiamenti di umore. Sono stati catalogati 35 piccoli disturbi di questo tipo; disturbi sopportati senza molti disagi da circa un terzo delle donne. Diverse sono le modalità con cui le donne vivono questa fase della vita assolutamente naturale, erroneamen-
te definita critica da una società dove aspettative sociali e martellanti messaggi mediatici sembrano attribuire priorità e valore solo a giovinezza e bellezza. Più che mai la fitoterapia ci offre il suo aiuto per affrontare questa fase di transizione e i suoi cambiamenti. I fitoestrogeni, come indica il nome stesso, sono sostanze naturali contenute in molte piante. Grazie alla loro particolare struttura chimica sono in grado di legarsi ai recettori degli estrogeni svolgendo una funzione ormonale di rinforzo. Su queste molecole vegetali dette isoflavoni, di cui è particolarmente ricca la soia, esistono molti studi: ad esempio, si è osservato che le donne giapponesi che seguono un’alimentazione molto ricca di soia soffrono in misura molto minore di tumori al seno. L’osteoporosi è una malattia che può fare il suo ingresso nel periodo della menopausa. Interessa milioni di donne dopo i cinquant’anni e colpisce in misura minore anche gli uomini. È definita «malattia silenziosa» perché può passare inosservata, ma provoca una riduzione della struttura e della densità ossea, e un’aumentata esposizione al rischio di fratture. Con l’esperimento «Nanoparticles and Osteoporosis» dobbiamo a Samantha Cristoforetti lo studio avanguardistico di questa subdola malattia, approfondito all’interno della stazione spaziale nel 2015, dove, per sei mesi, un prelievo quotidiano di saliva ha monitorato gli indicatori delle condizioni del metabolismo osseo e muscolare dell’astronauta. Tra le piante più ricche
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di fitoestrogeni, e una delle prime da usare in menopausa, vi è la Cimicifuga Racemosa, una delle molte erbe che gli europei hanno imparato a usare dagli indigeni del Nord America. Originaria del Canada, cresce nelle regioni orientali dell’America settentrionale. La sua radice è nera e la si ritiene indicata per chi attraversa periodi di sconforto e tristezza. Con questa radice si prepara un decotto ant-iinfiammatorio, per alleviare mal di testa e disturbi del ciclo; si utilizza anche in gocce di tintura madre. Attenzione: si raccomanda sempre di evitare l’automedicazione, serve consultare uno specialista competente. Anche il Trifoglio dei prati (Trifolium pratense), noto con il nome di Trifoglio rosso rientra nella categoria
dei fitoestrogeni, e contiene isoflavoni come la soia. Come per la Cimicifuga, ne abbiamo appreso l’uso dagli indigeni del Nord America. Analisi recenti confermano la sua capacità di ridurre le vampate di calore. La medicina tradizionale cinese ha compiuto numerose ricerche anche su Angelica sinensis. o Angelica cinese: la radice essiccata di questa magica pianta – detta erba degli angeli o Ginseng femminile (che ha fama di essere pure afrodisiaca) – è ricca di fitoestrogeni e cura le irregolarità e i disturbi del ciclo mestruale; esiste anche in tintura madre. È poi impossibile non citare la salvia; si dice che bevuta quotidianamente renda immortali, e scusate se è poco. L’ antica scuola medica salernitana, che
Bibliografia
Cindy Gilbert e Roberta Maresci, Il grande libro delle erbe medicinali per le donne – La guida più completa al benessere femminile, Sonda editore, 2019, 432 pp.
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Cruciverba Per sapere come si chiama questo animale e dove vive, rispondi alle definizioni e leggi nelle caselle evidenziate. (Frase: 9, 1, 4, 2, 9)
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Un esemplare di Cimicifuga Racemosa. (Black Cohosh)
tra il X e il XIII secolo unì il sapere arabo delle erbe con quello occidentale si chiedeva: «perché un uomo dovrebbe morire se ha la salvia in giardino?». La Salvia era sacra a Zeus, gli egiziani la associavano all’immortalità, bruciata con grani di incenso libera ambienti e persone da influssi negativi, ma soprattutto è ricca di fitoestrogeni. Essendo astringente, è stata usata per attenuare ed eliminare le vampate di calore durante la perimenopausa, cioè il periodo che precede la menopausa: uno studio clinico ha dimostrato la riduzione della frequenza e dell’intensità delle stesse dopo quattro settimane. È efficace anche un infuso misto di salvia ed erba cardiaca, la pianta spontanea che cresce in molti luoghi: una tazza di acqua bollente più volte al giorno. Non usare invece mai incautamente l’olio essenziale di salvia: è pericoloso e può avere effetti tossici. La Salvia officinalis è stata immortalata nella ballata Scarborough Fair e nel titolo dell’album di Simon & Garfunkel Parsley, Sage, Rosemary and Thyme. Aggiungiamo che il famoso iperico, o erba di San Giovanni è un antidepressivo dolcissimo ed efficace, per cui è indicato quando la menopausa porta con sé pensieri di malinconia.
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regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «azione» e sul sito web www.azione.ch
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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
orIzzontalI
1. Infanti 7. Un liquore 8. Un segnale internazionale 9. In lista sono pari 10. Opere... poetiche 11. Traghettate da Caronte 12. Non sono mai sazie 13. Sette in una famosa danza 17. Pianta aromatica 18. Denominazione di alcuni tipi
di lavanda 19. Le porte mitologiche di Troia 20. La magia delle streghe 21. Tribunale Amministrativo Regionale 22. Una macchietta... 23. L’ultima della scala... 24. Minuto, gracile 25. Fora ed è forato Verticali 1. Gaiezza, verve 2. O, ovvero, latino 3. 2000 romani 4. Irte, ruvide 5. Precetti 6. Indicatore della Situazione Economica Equivalente 10. Pietra ornamentale 11. È spesso con la testa tra le nuvole... 12. Segmento superiore della gamba 13. Il «battesimo» della nave 14. Un capitolo della geologia 15. Le iniziali dell’attore DiCaprio 16. La sua tintura disinfetta 17. Permette alti salti 18. Cade finendo... in acqua 20. Preposizione articolata 22. Le iniziali della cantante Imbruglia 23. Le iniziali dell’attrice Grandi partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la
sudoku soluzione:
Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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VISITA MEDICA – «Scusi dottore, ha qualcosa contro la tosse?» Risposta risultante: «NO, CI MANCHEREBBE! TOSSISCA PURE». O N O R A R I O
N O T D E S S C I I O O I R P U D
R E A T I B R I O
E M S T T O N N O A I V E A S E A R S A R E
A N C M A I V O C E H S E B E R I S A R C A L E S
I A S C V I E N N E T A O S T T A
soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 ottobre 2021 • N. 40
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politica e economia tragedie di confine Il Messico è il ricettacolo di chi fugge dalla miseria e gli Usa continuano con le espulsioni pagina 29
Il golpe morbido e la premier Il punto sulla Tunisia, dove il presidente Saied continua ad accentrare i poteri ma a sorpresa nomina una prima ministra pagina 35
cargo sous terrain si farà Dopo gli Stati anche il Nazionale ha dato luce verde al progetto di trasporto merci sotterraneo, finanziato da imprese private
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Buona base d’intesa La nuova compensazione finanziaria nazionale mette tutti d’accordo, e il volume aumenta di 91 milioni a 5,3 miliardi
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Berlino, grande malata d’europa
Nuvole scure sul Reichstag, sede del Parlamento tedesco. (Keystone)
l’analisi I risultati del voto per il rinnovo del Bundestag mettono in evidenza le debolezze del sistema tedesco.
Si palesa la sconfitta dei partiti di massa, riemergono le divisioni culturali e socio-economiche che segnano il Paese
Lucio Caracciolo La Germania grande malata d’Europa? Chiederselo è oggi legittimo. Del fatto che sia grande, e non solo per la dimensione economica, non c’è dubbio. Almeno se ne consideriamo l’influenza nel sistema europeo, di cui dopo l’unificazione è il fattore ultimo e decisivo di mediazione. Funzione incarnata fisicamente da Angela Merkel, regina del traccheggio scientifico. In pensione, se davvero ci andrà, forse si deciderà a scrivere un manuale su come si finge di risolvere un problema rinviandolo. Il titolo c’è già: «Merkeln». Neologismo ormai accettato dai media tedeschi quale sinonimo di rinviare, traducibile nell’inglese/americano «kicking the can down the road». Quanto alla malattia, se ne vedono ormai i sintomi, tenuti sotto controllo grazie al «merkeln» della cancelliera. In sostanza, l’attuale Bundesrepublik è ancora troppo simile alla sua versione originaria. In termini geopolitici, significa restare sotto tutela americana, sia pure
in postura sempre più refrattaria, ed escludere l’uso della forza, quindi delle Forze armate. In termini geoeconomici vuol dire esibire un approccio egotistico al Continente europeo e in specie all’Eurozona, per la quale Berlino potrebbe puntare l’anno prossimo al ripristino dell’interpretazione ortodossa del patto di stabilità e crescita. La cultura ordoliberalista, declinata in austerità, significa assorbire liquidità e diffondere deflazione. Il contrario di quanto fa di norma un egemone. In termini socio-culturali, i tedeschi continuano a inclinare verso il «weiter so» (avanti così). Il fascino della Grande Svizzera resiste, anche se non così assoluto come un tempo. Nella dinamica attuale, mentre tutte le regole scritte e non scritte sono rimesse in discussione o semplicemente travolte, questi schemi antichi non funzionano. Soprattutto scricchiolano due pilastri del sistema tedesco. Quello politicopartitico e quello dell’unità nazionale (ammesso e non concesso che la Germania sia una Nazione e non una colle-
zione di tribù). Le ultime elezioni sono state il definitivo funerale del sistema partitico classico, imperniato su due grandi partiti di massa, l’uno di centrodestra (Cdu più Csu, scapigliata sorella bavarese) l’altro di centro-sinistra (Spd), con i liberali della Fdp a disposizione per formare coalizioni sufficientemente coerenti. Spd e Cdu-Csu sono ormai intorno al quarto dell’elettorato ciascuno, con la coppia cristiana in fase di totale confusione, incarnata dal ridente e ridicolo Armin Laschet, il candidato cancelliere più improbabile che il partito di Adenauer abbia mai esibito. Il rischio di una scissione nella Cdu è concreto. Dei tre «nuovi» partiti, il più rilevante è quello dei Verdi, di cui non si capisce bene che cosa farebbe al governo, viste le sue diverse anime e la tendenza a parlare di tutto fuorché di politica concreta. Non pertengono a tale categoria la retorica del clima o il dibattito sul numero dei sessi (generi) e sui rispettivi confini. Gli altri due partiti, l’Alternative für Deutschland (oltre il 10%) e la Linke
(sotto la fatidica soglia di sbarramento, 5%, ammessa al Bundestag grazie ai mandati diretti) sono per ora inabilitati a entrare in qualsiasi coalizione federale e restano fondamentalmente incardinati nell’ex Ddr. Insomma, il 15% dei voti espressi è esterno al sistema. Non una notizia confortante per la stabilità del Paese. Questo ci riporta alla faglia estovest, «Ossis contro Wessis». Una linea di divisione culturale prima che socio-economica, radicata nella storia e quindi probabilmente durevole. Accentuata dall’improvvisazione che ha segnato negli anni Novanta del Novecento la «riunificazione» tedesca, del tutto imprevista sull’una e sull’altra sponda germanica. Ne è conseguito un approccio para-coloniale da parte della Bundesrepublik, che ha ingenerato un senso di deprivazione relativa negli ex cittadini della Germania comunista. Lo si nota, ad esempio, nel successo di due partiti estremi – Linke e AfD – che hanno molto in comune a dispetto dell’opposizione ideologica con cui decorano
le rispettive facciate. Questa Germania è chiamata l’anno prossimo a scelte decisive. La più importante riguarda la politica fiscale, rivoluzionata dalla crisi del virus. Vorrà Berlino restare sulla attuale linea di espansione fiscale (e monetaria), oppure cercherà di riaccostarsi al sistema vigente fino al 2019, che i suoi critici chiamano austerità? Nel secondo caso la crisi nei rapporti con Francia e Italia, che stanno per stringere un trattato bilaterale di cooperazione – fatto inedito – è scontata. E minaccia di devastare quel che resta degli equilibri europei. Specie se i liberali saranno al Governo, forse con al Ministero delle finanze il loro leader Christian Lindner, noto «falco», non disposto a compromettersi con le «cicale» mediterranee. L’incrocio fra centralità sistemica nell’Eurozona, frammentazione interna e immaturità socio-culturale non promette bene. Al prossimo Governo il compito di avviare il riorientamento complessivo del Paese. Con i migliori auguri, che poi sono auguri per tutti noi altri europei.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 ottobre 2021 • N. 40
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politica e economia
Una Germania spaccata
l’intervista Il politologo Hajo Schumacher: «Le nuove generazioni hanno votato per i Verdi o i liberali della Fdp
invece buona parte degli elettori anziani ha premiato la Spd di Olaf Scholz». I giochi tuttavia rimangono aperti Stefano Vastano In fondo nessuno dei tre candidati ha riscosso la piena simpatia degli elettori tedeschi: né Olaf Scholz, il ministro delle Finanze della Spd, né Armin Laschet, il presidente della Cdu. E neanche la 41enne Annalena Baerbock dei Verdi. «La Germania è oggi di fatto divisa in due», inizia a dirci il politologo Hajo Schumacher. «Gli anziani votano per i partiti popolari e i più giovani per i Verdi o i liberali». Col risultato che, dopo il voto del 26 settembre scorso, per la prima volta nella Repubblica federale si profila all’orizzonte un Governo di tre partiti. «Di sicuro non sarà facile costruire il primo Governo dell’era post Merkel», sottolinea il nostro interlocutore. Il primo messaggio delle elezioni del 26 settembre è dunque che anche in Germania i tradizionali «partiti popolari» sono in crisi. Giusto?
Sì, l’era in cui partiti come la Cdu o la Spd raccoglievano oltre il 40 per cento dei voti è finita in Germania. E non sono solo i partiti popolari a trovarsi in crisi, ma anche l’armonia fra la Cdu di Armin Laschet e la bavarese Csu di Markus Söder. Insomma, alla domanda «quale segretario di partito inviteresti a cena?», la maggior parte dei tedeschi oggi risponderebbe: Robert Habeck, il copresidente dei Verdi. Forse perché Habeck non era il candidato dei Verdi alla cancelleria…
Anche se i Verdi avessero schierato Habeck e i democratico-cristiani Söder non è detto che la campagna elettorale sarebbe stata senza scandali. Forse Söder avrebbe raccolto il 30 per cento dei consensi, ma la quantità di fango che ora il leader della Csu sta gettando contro Laschet rende questi presidenti dei partiti tradizionali sempre meno attraenti ai tedeschi più giovani.
I giovani, fra i 18 e i 30 anni, hanno votato infatti per i Verdi o i liberali della Fdp.
E la spiegazione è semplice: Angela Merkel ha lasciato nell’ottobre del 2018
la presidenza della Cdu e da allora nella Cdu non fanno che distruggersi a vicenda per il predominio del partito. Prima le dimissioni della presidente Annegret Kramp-Karrenbauer, poi la rivalità fra Friedrich Merz e Laschet. Specie per i più giovani, questa guerra tra «macho» della Cdu e della Csu è inaccettabile.
e mostrarsi sereno al tavolo delle trattative con Verdi e liberali. Ma non è così scontato che Robert Habeck e il presidente dell’Fdp Christian Lindner dicano sì a Scholz. perché mai dovrebbero rifiutare un Governo con il cancelliere olaf scholz?
Semplicemente perché sia Habeck che Lindner potrebbero ottenere di più in un Esecutivo con Laschet, un cancelliere più debole di Scholz e quindi più aperto ai due partner minori. A differenza di Scholz, l’eroe della Spd, se non riuscisse a stringere una «coalizione Giamaica», Laschet sarebbe politicamente finito.
più chiaro l’accordo pattuito, lo scorso aprile, fra i due presidenti dei Verdi.
Esatto, Habeck ha accettato che fosse la più giovane Baerbock la candidata dei Verdi. Ma l’accordo era che se non avesse raccolto più del 17 per cento, le trattative per il Governo sarebbe stato lui, Habeck, a condurle. Un modo molto pragmatico di condurre la politica.
Dopo scholz quindi il prossimo ministro delle Finanze sarà christian lindner?
per 16 lunghi anni Merkel ha «moderato» i toni della politica tedesca. possibile che nel suo partito non abbiano compreso la lezione?
Dopo le elezioni del 2017, trattando allora con la cancelliera Merkel, Lindner gettò la spugna. Come Laschet quindi anche lui ora non può fallire. Gli investimenti in tecnologie green e nel digitale sono la piattaforma in comune fra Verdi e la Fdp. Se Habeck oggi reclamasse per i Verdi il Ministero delle finanze, un nuovo Dicastero per il clima e la poltrona del presidente della Repubblica, sia la Cdu che i liberali accetterebbero senza problemi queste pretese degli ambientalisti.
Merkel non è stata solo una moderatrice della politica tedesca e sulla scena europea ma anche una Kanzlerin che sapeva ascoltare le ragioni altrui. Non appena annunciate le sue dimissioni i soliti «macho», gonfi di testosterone, hanno ripreso i loro giochini autoreferenziali e massacranti. Col risultato che il 26 settembre scorso la Cdu e la Csu hanno incassato il peggiore risultato della loro storia.
la gestione delle Finanze non sarebbe una conditio sine qua non per i liberali?
Dopo queste pessime prestazioni possiamo escludere che la cdu e la spd ristringano ora un’altra grande coalizione?
Anche dopo il voto del 2017 si era escluso all’inizio un’altra coalizione fra Cdu e Spd. L’ennesima «grosse Koalition» fra i due partiti maggiori è ora una clava con cui sia Laschet che Scholz possono minacciare i Verdi e la Fdp nelle trattative per una «coalizione semaforo» guidata dalla Spd, o per la variante «Giamaica» con Laschet come cancelliere.
per i tedeschi una quarta edizione della «grosse Koalition» non sarebbe troppo?
Oggi i due partiti popolari sono al di sotto del 30 per cento, ma al contempo la Germania è un Paese a crescita quasi zero dal punto di vista demografico.
Non è scontato che i Verdi e i liberali dicano sì a Olaf Scholz. (shutterstock)
Per i più anziani la questione decisiva è quella della pensione e una «grosse Koalition» il male minore.
eppure i giornali già celebrano un nuovo Governo a tre partiti come una normalizzazione della politica tedesca.
Certo, sia la «costellazione Giamaica» che un Governo di Scholz con la Fdp e i Verdi sarebbero una spinta normalizzatrice per la politica tedesca. Ma, ripeto, di fatto oggi la Germania è divisa in due: i giovani che votano Verdi
o Fdp e gli anziani che hanno scoperto nel ministro delle Finanze Olaf Scholz il fascino della stabilità. E per questo hanno premiato la Spd con circa il 26 per cento dei voti. all’inizio della campagna elettorale infatti la spd stagnava sul 19 per cento. come ha fatto scholz a recuperare 7 punti ?
Promettendo un salario minimo di 12 euro e un livello stabile delle pensioni. Ora Scholz può giocarsi la carta del politico che ha vinto le elezioni
Se nel programma di una «alleanza Giamaica» si stipula una certa disciplina di bilancio e nessun incremento delle tasse, Lindner potrebbe concedere le Finanze ai Verdi e reclamare per sé un Superministero dell’economia e del digitale. Ai Verdi spetterebbe comunque una fetta di potere maggiore dei liberali, sia in una coalizione con Scholz che con Laschet. la Germania non è ancora matura per un cancelliere Verde?
La crisi del clima è certo il tema dei più giovani. Ma la stabilità finanziaria e delle pensioni, unita al problema dei costi della transizione ecologica, sono temi più pressanti per tutti i più anziani che, nell’era post Merkel, si sono affidati ad Olaf Scholz.
Quei disperati in attesa al confine con gli states Il punto Il Messico è divenuto il ricettacolo di chi fugge da cataclismi e carestia, sognando un futuro migliore.
Mentre una norma creata durante l’Amministrazione Trump permette l’espulsione immediata dei migranti sgraditi Angela Nocioni Ci sono tanti imbuti fatti di persone sotto la frontiera meridionale degli Stati uniti. Lì si ammassano, uno sull’altro, gli aspiranti migranti in attesa di capire come riuscire ad entrare negli Stati uniti. Uno di questi imbuti è Tapachula, in Chiapas, Messico meridionale. Tapachula è una città di circa 300 mila abitanti lontana dal confine statunitense e vicina al confine con il Guatemala. È diventata uno dei più grandi ricettacoli di persone stipate in poco spazio, senza soldi e senza altro da fare che attendere di ripartire verso nord. A Tapachula solitamente si vedono file di gente stanca davanti agli sportelli dei negozietti con servizio di terminale per l’invio di denaro. Chi ha una famiglia in grado di sostenere un minimo i costi del viaggio, lo trovi in coda lì. Gli altri girano tutto il giorno per la città nell’attesa di tornare a dormire accatastati dove possono. Erano almeno quarantamila a inizio settembre. Ora sono molti di più perché la città si è riempita
di haitiani, dopo la chiusura della frontiera sud del Texas. Ventimila persone, secondo stime del Dipartimento di Stato statunitense, quasi tutte haitiane, sono riuscite a metà settembre ad arrivare in Texas attraversando il Rio grande nei punti in cui il fondale è meno profondo. Dopo le espulsioni di massa, feroci, con la polizia a cavallo, botte da orbi e, poi, dopo le caute parole di presa di distanza dell’Amministrazione Biden, sono cominciati i voli di rimpatrio ad Haiti. Si tratta con tutta evidenza del rimpatrio immediato di profughi, molte donne e bambini, perché è impossibile negare lo status di profugo a chi sta scappando in questo momento da Haiti devastata da vari cataclismi naturali e politici. È possibile cacciare dagli Usa delle persone non considerabili «migranti economici» ma chiaramente profughi in fuga dalla carestia che segue delle catastrofi? Possibile, basta non dare loro il tempo di dichiararsi tali. Negli Stati uniti lo stanno facendo utilizzando il «Titolo 42», una norma creata durante l’Amministrazione Trump con la scusa
della pandemia di Covid. Il «Titolo 42» permette per ragioni di salute pubblica l’espulsione immediata, «a caldo», quindi senza garantire agli espulsi il tempo necessario a vagliare il loro diritto eventuale ad essere considerati profughi. Donald Trump l’ha applicato per la prima volta nel marzo 2020, l’Amministrazione Biden l’ha confermato l’agosto scorso. Secondo l’Ufficio della dogana statunitense, nel solo mese di agosto sono state arrestate negli Stati uniti con l’accusa di essere migranti illegali 209 mila persone, il 2 per cento in meno rispetto al mese precedente. Le espulsioni degli haitiani arrivano un mese dopo che il Dipartimento di Stato americano ha emanato un avviso di non viaggiare ad Haiti «a causa di rapimenti, criminalità, disordini civili e Covid 19». L’inviato speciale degli Stati uniti per Haiti, l’ambasciatore Daniel Foote, ha lasciato l’incarico. Nella sua lettera di dimissioni l’ambasciatore spiega di non voler essere associato «con le decisioni disumane e controproducenti» dei rimpatri ad Haiti, «Paese dove i funzionari americani sono confinati in
compound a causa del pericolo creato dalle gang armate». Sotto il ponte che collega il Messico agli Usa gli haitiani rimasti sono poche migliaia, insieme a nicaraguensi, venezuelani e qualche cubano. Molti sono stati portati a Laredo (Texas), dove s’è creato l’ennesimo campo. Altri sono andati a Ciudad Acuña, nello Stato messicano di Coahuila de Zaragoza, e sono ora fermi in un dormitorio senza acqua e senza letti. In questo momento tra gli haitiani arrivati a un passo dalla meta, chi può, chi ce la fa, invece di lasciarsi deportare, scappa. Fugge in Messico, verso sud, cercando un posto in cui fermarsi per poi tentare di nuovo il viaggio verso nord. Quest’ultimo episodio della tragedia migratoria verso gli Stati uniti, episodio diventato notizia per una serie di contingenze mediatiche ma identico come violenza del sopruso a migliaia di altri che avvengono tutti i giorni, ha reso visibile il braccio di ferro che, da tempo, il presidente messicano Lopez Obrador mette in scena per far la parte di quello che esige rispetto dagli Usa, mentre in
realtà quello che chiede sono soldi. Anche stavolta Obrador ha detto che Joe Biden «deve trovare soluzioni che vadano oltre le maniere coercitive». Che «bisogna creare programmi sociali nei luoghi di origine e offrire visti di lavoro negli Stati uniti». Obrador ha iniziato con Trump e sta continuando tale e quale con Biden, a far fare al Messico la parte del «ripostiglio» dei migranti, detenuti a cielo aperto fuori dai confini statunitensi. S’è offerto per una politica di contenimento e, soprattutto, di esternalizzazione del problema complesso della gestione dell’emergenza migratoria. La soluzione per gli Usa è brillante. In cambio di fiumi di dollari riescono ad affrontare la pressione migratoria senza dover rispettare le leggi statunitensi in materia di diritto d’asilo e senza doversi preoccupare della repressione perché tutte le violazioni dei diritti umani avvengono fuori dal loro territorio. Finché una carovana non buca il confine e s’accampa al di là del fiume. E allora arriva prima la polizia a cavallo e poi, con calma, giungono anche le scuse della Casa bianca.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 ottobre 2021 • N. 40
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bella?», domanda Luca. «Lo spazio di certo non manca sul Caddy, nonostante le borse della spesa», risponde papà, «ma un tratto così breve potete farlo a piedi». Pascal preferisce usare il tempo per smaltire gli imballaggi vuoti e fare gli acquisti per il fine settimana. In questo modo può mettere alla prova il Caddy con le pratiche porte scorrevoli e i numerosi sistemi di sicurezza e assistenza. Arrivato al centro commerciale Wynecenter, per prima cosa Pascal testa la telecamera di retromarcia e il Rear Traffic Alert e ne rimane entusiasta. Una volta a casa, scarica le borse della spesa dal bagagliaio con una capacità massima di 3300 litri e prepara il pranzo.
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Tornati da scuola, Valentina e Luca giocano a calcio davanti a casa. Luca è un grande appassionato di calcio e usa il portellone aperto del Caddy come porta. Non appena il padre se ne accorge, invita i bambini a fare attenzione e sorride divertito. Dopotutto sa che il pratico tuttofare per fortuna è molto robusto ed è pronto anche per queste sfide. Dopo pranzo si va al campo da calcio per l’allenamento e Pascal è talmente colpito dagli assistenti intelligenti di Volkswagen da spiegarli anche ai suoi figli. «Quando inserisco la retromarcia, il Caddy mi avvisa se sta arrivando un’auto», dice orgoglioso. Luca, amante della tecnologia, è impressionato e vuole saperne di più sui display e schermate.
«Posso disporli come più mi piace usando il volante multifunzionale. E su questo schermo grande posso regolare il climatizzatore e le funzioni multimediali», rivela il papà. La figlia Valentina risponde un po’ civettuola: «Mi sembra facile proprio come sul tablet!» Dopo l’allenamento mamma Carla aspetta a casa il trio. Ha finito prima di lavorare e ha già preparato tutto per la gita insieme in campagna. Già dopo pochissimi chilometri al volante afferma soddisfatta: «Il Caddy è molto silenzioso e piacevole da guidare, anche la visibilità è ottima». Purtroppo, il luogo prescelto è occupato. «Pazienza, con il sistema di navigazione possiamo cercare un altro posticino carino», dice Pascal con tono tranquilliz-
zante. In un attimo trovano infatti una bella alternativa. E nel tragitto verso la seconda destinazione Luca scova persino una presa USB nella console centrale per caricare il suo tablet. «Wow!», esclama entusiasta. Dopo uno spuntino sfizioso i Keller fanno ancora qualche partita a Kubb e riprendono la strada di casa dopo una bella giornata ricca di emozioni. Papà Pascal si volta verso i sedili posteriori: «Che bello bambini, grazie al grande tetto panoramico potete persino guardare le nuvole». Magari un’altra volta, perché Valentina e Luca stanno per addormentarsi e sognare altre indimenticabili avventure a bordo di un VW Caddy.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 ottobre 2021 • N. 40
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politica e economia
l’astuta mossa di saied
l’analisi Il presidente tunisino, che da due mesi tiene il Paese in scacco, nomina a sorpresa una prima ministra
con il compito di formare il nuovo Governo. Un’operazione di facciata a difesa del suo colpo di Stato morbido?
Francesca Mannocchi È la storia di un Paese spezzato, quella che sta raccontando Tunisi da oltre due mesi, da quando il 25 luglio scorso il presidente Kais Saied ha licenziato il primo ministro Hichem Mechichi e congelato il Parlamento. Un Paese spezzato e una piazza divisa. Da una parte gli oppositori del presidente, che sventolano le copie della Costituzione del 2014, gridando «Saied non toccherà le nostre conquiste, non gli lasceremo riscrivere la Costituzione!». Dall’altra una fetta di popolazione che esprime il proprio consenso a Saied gridando: «Basta corruzione, abbiamo bisogno di risposte, abbiamo bisogno di lavoro!». Due manifestazioni distanti e opposte solo apparentemente che disegnano le anime di una Nazione di fronte a problemi strutturali che invece di risolversi vanno via via aggravandosi: la paralisi politica, la stagnazione economica, la corruzione. Tutti elementi a cui si è unita la pandemia da Coronavirus che ha moltiplicato il numero di disoccupati ed esacerbato gli animi. Due mesi fa la gente è scesa in piazza chiedendo al presidente una risposta forte e Saied l’ha data, concentrando su di sé pieni poteri e licenziando il Parlamento. Il 25 luglio il presidente ha motivato le sue decisioni affermando che la crisi in cui versava il Paese fosse così disastrosa da necessitare una svolta drastica, così ha esautorato il Governo – sia ministri che funzionari – e ordinato mandati di arresto e restrizioni ai viaggi all’estero e agli spostamenti interni per parlamentari, giudici, avvocati, uomini d’affari accusati di corruzione.
Cosa succederà alla giovane democrazia, spesso citata come l’unica storia di successo tra le Primavere arabe? Allora Saied affermava che le sue decisioni non erano contrarie alla Costituzione e che aveva agito secondo un’interpretazione dell’articolo 80, una clausola di emergenza che, in situazioni di crisi estrema, prevede misure eccezionali le quali però dovrebbero essere approvate dalla Corte costituzionale allo scadere del trentesimo giorno dalla loro applicazione. Di giorni, invece, ne sono passati molti di più e intanto le misure di Saied anziché ammorbidirsi si sono inasprite, aprendo tuttavia la strada a colpi di scena. Ma andiamo con ordine: due settimane fa Kais Saied ha comunicato al Paese che avrebbe governato per decreto assumendo su di sé l’autorità esclusiva e che la sospensione del Parlamento, dell’immunità giudiziaria dei legislatori e il congelamento della loro retribuzione sarebbero andati avanti fino a data da definire, di fatto rafforzando ulteriormente il potere quasi esclusivo che si era preso due mesi fa. Come reazione i cittadini sono scesi di nuovo in piazza. Alcune
Il presidente incontra la neo premier Najla Bouden Romdhane. (shutterstock)
migliaia di persone hanno partecipato a un raduno di fronte all’iconico Teatro nazionale, storicamente sede di tutte le principali manifestazioni di Tunisi. Si trattava ancora di una piazza spezzata. Da un lato c’era chi chiedeva il rispetto della Costituzione e il ripristino delle attività del Parlamento, con slogan di questo tenore: «La gente vuole la fine del colpo di stato». Dall’altro chi supportava le decisioni di Saied, giudicate l’unico modo possibile per uscire dall’impasse economica che vive la Tunisia. Saied nei giorni successivi è stato criticato per quello che a tutti gli effetti è un colpo di stato morbido e ha capito che rischiava di perdere il largo consenso di cui gode tra la popolazione. Mercoledì 29 settembre ha sorpreso tutti nominando una prima ministra, la prima donna a ricoprire la prestigiosa carica nella storia del Paese. Si tratta di Najla Bouden Romdhane, di formazione ingegnere, personalità poco nota che ha lavorato in passato per la Banca
mondiale. Toccherà a lei dunque guidare il Paese fuori dalla stagnazione. È una mossa astuta, quella di Saied, che ha nominato Najla Bouden Romdhane e le ha chiesto di formare rapidamente un nuovo Governo. Astuta perché è una donna e perché ha lavorato per la Banca mondiale. Saied, forse, pensa che questi due elementi possano mettere in ombra la centralizzazione dei poteri che ha disposto negli ultimi mesi. Ora il grande interrogativo è cosa succederà alla giovane democrazia, spesso citata come l’unica storia di successo nella serie di rivolte che hanno innescato le cosiddette Primavere arabe, e come si muoveranno gli antagonisti di Saied? Chi si oppone al presidente sostiene che le sue decisioni di fatto stiano sovvertendo l’ordine costituzionale, segnando passi verso la deriva autoritaria. Chi lo critica parla di golpe fin da luglio. Il primo oppositore è il più grande partito politico del Paese, il partito islamico moderato Ennahda, che già in estate aveva
chi è najla Bouden romdhane Ingegnere di formazione, la neo premier ha alle spalle una lunga esperienza accademica e nella ricerca. Classe 1958, ha lavorato con la Banca mondiale per un progetto sull’occupazione dei giovani tunisini. Dal 2006 al 2016 è stata la principale consigliera di diversi ministri dell’Istruzione superiore e della ricerca scientifica. Najla Bouden Romdhane è la prima donna premier nel mondo arabo. Questo è il messaggio che i media nazionali hanno sottolineato subito dopo la sua nomina, evocando il peso
delle donne tunisine nella regione. «Sono onorata di essere la prima donna a occupare la posizione di primo ministro in Tunisia», ha scritto sul suo profilo Twitter aperto poco dopo la nomina. «Lavorerò per un formare un Governo coerente che affronti le difficoltà economiche del Paese, combatta la corruzione e risponda alle richieste dei tunisini». La prima ministra non è però un’esperta di economia e sono in molti a pensare che sarà una pedina nelle mani di Saied.
condannato le mosse di Saied invitando le persone a «un’instancabile lotta pacifica» e definendo le decisioni del presidente «un flagrante colpo di Stato contro la legittimità democratica». Ennahda non si aspettava probabilmente il supporto che i tunisini hanno manifestato a Saied, così, di fronte alle bandiere del loro partito bruciate e agli assalti alle sedi in varie province e distretti, i leader del partito islamico hanno deciso di condannare le decisioni di Saied mantenendo però un profilo basso. Atteggiamento che ha provocato un dissidio interno. Sono oltre un centinaio i membri del partito che di recente hanno annunciato le loro dimissioni, accusando il capo di Ennahda, Rachid Gannouchi, di non aver saputo trovare una risposta credibile per formare un fronte unito da opporre a Saied per affrontare la crisi del Paese e dare risposte ai cittadini. Gli analisti tunisini affermano che la mossa di governare per decreto mini all’origine le conquiste post rivoluzionarie, cioè rischi di disintegrare i principali successi del post-2011 contro ogni forma di regime autoritario. Adnen Mansar, presidente del Centro di studi strategici sul Maghreb (Cesma) ha affermato a tale proposito che «gli ultimi decreti contraddicono completamente la Costituzione del 2014 che istituiva un sistema parlamentare; i decreti sono piuttosto in linea con la Costituzione del 1959 cioè la stessa che è stata ribaltata dalla rivolta di 10 anni fa. Questa mossa mette una spina sui principi di un sistema democratico». Gli fa eco Osama al Khalifa, un alto funzionario del Cuore della Tunisia, il secondo partito in Parlamento, che ha accusato Saied di aver condotto un «golpe premeditato». Dello stesso avviso il principale sindacato tunisino che conta un milione di membri, l’Ugtt, che, con la
voce di un suo alto funzionario, Anour Ben Kadour, ha dichiarato: «La Tunisia si sta dirigendo verso un Governo individuale assoluto». Il 2015, anno in cui il Quartetto per il dialogo nazionale tunisino ha vinto il premio Nobel per la pace, sembra lontanissimo. Ahmed Driss, professore di diritto costituzionale nonché presidente del Centro di studi mediterranei e internazionali (Cemi), recentemente intervistato da «Jeune Afrique» ha detto: «Il presidente ha deciso di impadronirsi di tutti i poteri e lo fa al di fuori della Costituzione, di cui ha conservato solo una piccolissima parte (...). Ma è ovvio che non sarà più la stessa in termini di struttura e di equilibrio dei poteri, è un capovolgimento verso un regime presidenzialista e non presidenziale, peggio di quello vissuto sotto Ben Ali». Tutto questo in un Paese in cui il 30 per cento dei giovani non lavora e per molti, troppi, che vivono nelle zone periferiche, gli effetti della rivoluzione non si sono mai visti. È a loro, evidentemente, che Saied ha saputo parlare per essere supportato nelle sue decisioni giudicate impopolari, sì, ma necessarie. Si era presentato così, d’altronde, alle elezioni del 2019, il professor Saied, al grido di «La gente vuole». Vuole lavoro, possibilità, giustizia. E non vuole la corruzione. «La sovranità appartiene al popolo», aveva dichiarato al tempo della sua campagna elettorale, «tutto deve partire dal popolo». E così ha vinto, salvo centralizzare il potere solo due anni dopo. I prossimi mesi saranno decisivi per capire se la Tunisia saprà emanciparsi dalla deriva autoritaria o se la rivoluzione avrà fatto il giro completo, come in Egitto, ripristinando una dittatura, magari morbida, ma decisamente lontana dal percorso democratico che tutti si aspettavano dal Paese della Rivolta dei ciclamini. annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 ottobre 2021 • N. 40
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politica e economia
progetti avveniristici da sogno
trasporti&visioni Il metrò per le merci potrebbe diventare realtà tra dieci anni con l’inaugurazione del primo
troncone tra Zurigo e Egerkingen. Il progetto di scalare le Alpi con le navi di Pietro Caminada, un ingegnere italo-svizzero, è rimasto invece un sogno
Luca Beti Presi come si è dalla pandemia, ci si dimentica a volte di alzare il proprio periscopio e di guardare oltre i dati dei contagi, la percentuale dei vaccinati e le varianti. Può succedere così che ci sfugga qualche notizia interessante, magari anche incoraggiante come quella sul progetto avveniristico «Cargo sous terrain», il metrò per le merci. Nella sessione estiva delle Camere federali, il Consiglio degli Stati ha approvato all’unanimità una nuova legge che crea le basi legali per la realizzazione di una rete di gallerie per il trasporto delle merci nell’Altopiano svizzero. Il Consiglio nazionale l’ha discussa nella sessione autunnale, approvando le basi giuridiche con 137 voti a favore e 37 contrari. La legge dovrebbe entrare in vigore nel 2022.
Le Camere federali hanno posto le basi legali per la realizzazione di Cargo sous terrain, finanziato dai privati Più che di un progetto futuristico, si può quasi parlare di una realtà vicina. Secondo i piani della società promotrice, la Cargo sous terrain SA, i lavori di costruzione inizieranno tra cinque anni. L’inaugurazione del primo troncone di 67 chilometri tra Egerkingen/Niederbipp, crocevia logistico nel Canton Soletta, e la regione di Zurigo, è prevista nel 2031. I costi di realizzazione sono stimati a 3,5 miliardi di franchi. L’idea è di creare una specie di posta pneumatica sotterranea per trasportare generi alimentari, vestiti o apparecchi elettrici dai grandi centri di distribuzione nella regione di Olten al cuore economico della Svizzera, a Zurigo. Veicoli su ruote autonomi ed elettrici, che viaggiano 24 ore su 24, sette giorni su sette, a circa 30 chilometri all’ora su tre corsie, sposteranno bancali da A a B. Per il trasporto rapido sarà allestita una funivia appesa al soffitto che trasporterà pacchi e lettere a circa 60 km/h. Nei punti di trasbordo, i cosiddetti hub, i bancali o i contenitori di piccole dimensioni saranno riportati in superficie tramite montacarichi e poi distribuiti nei centri urbani mediante un capillare sistema di trasporto che farà capo a veicoli silenziosi e a basso impatto ambientale.
In seguito, il complesso sistema di galleria verrà ampliato a tappe e collegherà sull’asse est-ovest Ginevra e San Gallo, integrando le città di Basilea, Lucerna e Thun. Il dedalo sotterraneo di circa 500 km dovrebbe essere ultimato nel 2045. I costi del progetto si aggirano sui 30-35 miliardi di franchi, quasi 15 miliardi in più dell’importo speso per la realizzazione dell’AlpTransit. A differenza della nuova ferrovia transalpina, il metrò per le merci non sarà sostenuto dalla Confederazione, bensì da una cordata di importanti attori privati, tra i quali La Posta, FFS Cargo, Swisscom, Migros, Coop, die Mobiliar, Vaudoise, Credit Suisse, la Banca cantonale di Zurigo. Il gruppo ha già sbloccato un prefinanziamento complessivo di 100 milioni di franchi per la fase di progettazione fino all’inizio dei lavori di costruzione nel 2026. L’azienda cinese Dagong Global, che deteneva il 17 per cento delle azioni, è invece uscita di scena. La sua partecipazione al progetto ha fatto storcere il naso a più di un politico a Berna e per smorzare sul nascere il prevedibile vento di fronda nei confronti dell’iniziativa, la Cargo sous terrain SA ha preferito rinunciare ai capitali provenienti da Pechino. Al momento, il metrò per le merci sembra godere di un ampio sostegno finanziario da parte dell’economia privata elvetica. Sarà un elemento decisivo per la sua realizzazione. In passato, quante idee geniali sulla carta hanno infatti fallito nel momento in cui dovevano essere trasformate in realtà? Sono innumerevoli. Tra queste mi piace ricordare quella di Pietro Caminada. L’ingegnere italo-svizzero di origini grigionesi voleva creare una «via d’acqua transalpina», un sistema di gallerie per superare le Alpi con navi da carico. Un’intuizione geniale che, almeno in teoria, sembrava funzionare. Caminada intendeva scalare le montagne con le navi, sovvertendo le leggi della fisica. Ma chi era questo utopista che ricorda, in parte, la storia di Fitzcarraldo che a cavallo fra ’800 e ’900 trasportò una nave oltre una montagna nella foresta amazzonica? Della vita di Pietro Caminada non si sa molto. Nato nel 1862 a Milano, figlio di Gion Antoni Caminada di Vrin, villaggio nella val Lumnezia nei Grigioni, e figlio di Maria, una milanese. Subito dopo la morte del padre, emigra con il fratello in Argentina. Nel 1892, i due visitano Rio
Il primo tratto, di 60 km, collegherà Zurigo a Egerkingen; i lavori cominceranno nel 2026. (Keystone)
de Janeiro. Pietro viene ammaliato dalla metropoli e decide di rimanervi. Nei quindici anni trascorsi in Brasile partecipa a vari progetti, per esempio disegna i primi piani urbanistici della futura capitale Brasilia oppure fa transitare un tram sull’acquedotto in disuso «Arcos de Lapa», diventato poi uno dei simboli di Rio de Janeiro. Nel 1907 rientra con la famiglia in Italia e a Roma apre uno studio di architettura. L’idea di una «via d’acqua transalpina» se la porta in valigia dal Sudamerica e la presenta lo stesso anno nella pubblicazione «Canaux de montagne – nouveau système de transport naturel par voie d’eau». All’inizio del XX secolo oltre che sullo sviluppo della rete ferroviaria, in Europa si punta molto sulle vie d’acqua per raggiungere i porti più importanti. E proprio dal porto di Genova doveva partire il sistema di canali di Caminada. Superati gli Appennini al Passo dei Giovi con una galleria di 3 chilometri, si proseguiva lungo la Pianura padana fino al lago di Como. A Chiavenna, per le chiatte di 50 metri di lunghezza e 500 tonnellate di peso iniziava la vera e propria salita lungo la Val San Giacomo fino al Passo dello Spluga, superato con un tunnel di 15 chilometri che partiva da Isola e raggiungeva la Gola della Roffla, nella valle del Reno po-
steriore. Attraverso la val Schons e la Viamala, il canale raggiungeva Thusis e infine il lago Bodamico e Basilea. La lunghezza della via d’acqua era di 591 chilometri, di cui 230 su laghi e fiumi navigabili. Il canale vero e proprio misurava quindi 361 chilometri: 30 percorsi in gallerie doppie, 43 nel sistema tubolare e il resto a cielo aperto. Le «chiuse tubolari» sono l’elemento centrale del progetto. Invece delle chiuse convenzionali, Caminada prevede due tubi paralleli e comunicanti: quando una sezione si riempie d’acqua, la nave al suo interno viene spinta in avanti e verso l’alto, mentre nell’altra chiusa tubolare la nave scende con l’acqua. Insomma, un ascensore azionato dalla forza di gravità in una sorta di «perpetum mobile». Alla sua invenzione, l’ingegnere dà il nome di «autoidroferica», una creazione linguistica per spiegare un sistema di trasporto autonomo e funzionante senza impiego di energia. In quegli anni, nulla era impossibile: la ferrovia conquistava il mondo, i transatlantici collegavano i continenti e il canale di Suez univa gli oceani. Nessuno metteva quindi in dubbio la fattibilità del progetto. Pietro Caminada è una personalità carismatica che sa catturare l’attenzione di vari personaggi in vista e possibili finanziatori. Tra di loro c’è
anche il senatore Giuseppe Colombo. In un articolo pubblicato in prima pagina sul «Corriere della Sera», l’ex ministro delle finanze ed ex direttore del Politecnico di Milano scrive di una soluzione che apre «orizzonti nuovi e inaspettati alla navigazione transalpina». Cinque giorni più tardi, all’inizio di gennaio del 1908, il re Vittorio Emanuele III invita Caminada a un’udienza privata al Quirinale. «Quando io sarò dimenticato da tempo la gente parlerà ancora di lei», gli dice il monarca. E invece non andrà proprio così. Nonostante l’entusiasmo generale, anche il «New York Times» dedica un articolo a Caminada, «a man of genius», il progetto rimane un sogno. In quegli anni, l’Italia è in difficoltà economiche e sociali. Nel 1915, il Paese entra in guerra. Della «via d’acqua transalpina» non parla più nessuno. Pietro Caminada non la dimentica e nel 1923 intende svolgere un primo sopralluogo nella zona dello Spluga. Anche questo rimane però un progetto irrealizzato. Caminada muore qualche mese prima a Roma all’età di sessant’anni. Bibliografia
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 ottobre 2021 • N. 40
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politica e economia
compensazione finanziaria nazionale: una buona base d’intesa politica federale Sono finite le diatribe tra paganti e beneficiari. Il volume di spesa è aumentato di 91milioni
e raggiunge ora i 5,3 miliardi di franchi
Ignazio Bonoli In occasione della prima revisione della nuova perequazione finanziaria intercantonale, ora chiamata Compensazione finanziaria nazionale (CFN), le opinioni dei Cantoni erano ancora molto divergenti. In particolare si combattevano i rappresentanti dei Cantoni beneficiari della compensazione, con una maggioranza al Consiglio degli Stati, e i rappresentanti dei Cantoni paganti, con una maggioranza in Consiglio Nazionale. Per finire, la Conferenza dei governi cantonali ha trovato un compromesso, riducendo i risparmi previsti dalla Confederazione e dai Cantoni paganti. Per favorire una soluzione concordata la Confederazione aveva aumentato anche la partecipazione dei Cantoni al gettito dell’imposta federale diretta. Anche il cambiamento dei metodi di calcolo della compensazione aveva suscitato qualche perplessità. Per esempio un Cantone sostanzialmente benestante come Berna si vedeva assegnato un contributo di 211,6 milioni, mentre i Cantoni più piccoli si vedevano in qualche caso ridurre i contributi. Nel frattempo, le acque si sono calmate e a metà giugno di quest’anno il Consiglio federale ha potuto pre-
sentare le cifre della compensazione finanziaria per il 2022 che contemplano un aumento del volume delle cifre di 91 milioni di franchi, raggiungendo un totale di 5,3 miliardi. Il dettaglio viene sottoposto ai Cantoni, ma da qualche anno non solleva più tante discussioni. Pertanto, anche a causa dei parametri usati per calcolare la perequazione, si notano ogni volta spostamenti di una certa importanza. L’anno prossimo, per la prima volta, il maggiore beneficiario per abitante è il Vallese, che riceverà 2297 franchi per abitante, seguito dal Giura con 2193 franchi per abitante. Il già citato Canton Berna dovrà invece accontentarsi di 904 franchi, restando comunque fra quelli che percepiscono le cifre maggiori. Più di Berna ricevono anche i Grigioni (1306), Neuchâtel (1412), Glarona (1597), Friburgo (1’705), Uri (1722). Tra i 647 franchi per abitante e gli 872 franchi si trova una fascia di Cantoni che va dai due Appenzello a Turgovia. Contributi nettamente inferiori ricevono invece il Ticino (146), Vaud (144) e un’altra fascia di Cantoni, con in coda Basilea-Campagna, che riceve solo 509 milioni. La musica cambia invece sostanzialmente per i Cantoni chiamati a pagare il loro contributo. In testa tro-
Il Ticino è Cantone beneficiario, ma riceve solo 146 franchi per abitante. (TiPress)
viamo sempre Zugo, con 2594 franchi per abitante, seguito da Svitto (1268), da Nidvaldo (906), Basilea-Città (356), Zurigo (327) e Ginevra (303). Si tratta di sei Cantoni che versano contributi a 20 altri Cantoni, comunque con una forte partecipazione della Confederazione. La nuova legge è stata fortemente voluta nel 2020 dai governi cantonali e parte dal principio che ogni Cantone deve raggiungere almeno la media della forza economica di 86,5 punti
percentuali. Tanto i contributi da pagare, quanto quelli da ricevere, sono calcolati sulla base della forza economica di ogni Cantone. Così, ad esempio, Zugo può contare su un substrato fiscale che è di 2,6 volte superiore alla media di tutti i Cantoni. Il medesimo fattore è di 1,8 per Svitto e di 1,2 per Zurigo. In ogni caso le differenze tra i Cantoni più ricchi e quelli più poveri sono impressionanti. Anche qui i redditi sono a Zugo tre volte supe-
riori a quelli del Vallese, del Giura, di Glarona o Uri. Per quanto concerne le sostanze, Nidvaldo è nettamente in testa. Le sostanze tassate ai cittadini del Semicantone sono otto volte superiori a quelle dei Cantoni con i valori più bassi. Per quanto concerne gli utili delle aziende, sempre nel Canton Zugo sono undici volte superiori, calcolati per abitante, a quelle del Vallese. Il calcolo che sta alla base dell’ammontare della compensazione – in entrata o in uscita – non si basa però soltanto sui dati fiscali. Esso tiene conto anche di altre componenti, come la situazione geografica (montagna o pianura), l’altitudine, le zone con pericoli di scoscendimenti o anche una scarsa concentrazione urbana. Entrano poi in linea di conto gli oneri sociali, la percentuale di «poveri», l’età media, la presenza di stranieri, o una funzione particolare di centro. Il calcolo tiene poi conto della grandezza del Cantone per abitante. Questi parametri avevano influito positivamente sul Canton Berna, che ha una zona montagnosa molto estesa, un gettito fiscale ridotto, ma ospita parecchi uffici della Confederazione. Nel frattempo, Berna ha migliorato la sua forza economica e il contributo che riceve è ancora alto, ma si è ridotto di qualche punto. annuncio pubblicitario
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politica e economia Rubriche
Il Mercato e la piazza di angelo Rossi politica commerciale: fra buoni risultati e incognite Nei gloriosi 30 anni di crescita economica, che hanno seguito la seconda guerra mondiale, il commercio internazionale della Svizzera si è sviluppato rapidamente e quasi in modo spontaneo. Erano le economie dei paesi dell’Europa occidentale a far ricorso alla produzione industriale della Svizzera in un’epoca nella quale si arrabattavano per ricostruire il tessuto produttivo che era andato distrutto durante il conflitto mondiale. Poi l’Europa ha pensato di integrarsi economicamente e per la politica commerciale della Svizzera sono cominciati i grattacapi. Gli stessi si sono trasformati in emicranie nel 1992 con il no dell’elettorato allo spazio economico europeo. Da allora i responsabili della nostra politica commerciale internazionale hanno iniziato a domandarsi che cosa fare per dare alle nostre aziende esportatrici nuove opportunità di mercato, non legate per l’appunto all’Europa. Il legame commerciale con il vecchio continente ha continuato
però a restare importante. Nel 2020 l’economia del nostro paese ha esportato beni per 299.4 miliardi di franchi. Nei paesi europei è stato esportato il 48% del totale ossia un montante pari a 143.7 miliardi. Di questi più della metà nelle economie dell’Ue. Il secondo mercato di esportazione per importanza è stato quello degli Stati Uniti con 68.8 miliardi, ossia il 23% del totale. Nei paesi asiatici si sono poi esportati beni per 71.8 miliardi, ossia per una percentuale pari al 24% del totale delle esportazioni. Le economie di questi tre continenti assorbono dunque il 95% del totale delle esportazioni elvetiche. Un anno non fa certamente tendenza, in particolare quando, come è stato il caso del 2020, le esportazioni sono state frenate dalla pandemia. Tuttavia constatiamo che quasi la metà delle esportazioni svizzere continuano ad essere destinate a paesi europei, in particolare a quelli facenti parte dell’Ue. E questo nonostante la nostra politica commerciale cerchi,
da quasi 20 anni, di globalizzare le destinazioni delle esportazioni. L’intenzione dichiarata del nostro governo è di ridurre la quota dei paesi dell’Ue nel totale delle esportazioni, di continuare ad aumentare le esportazioni verso l’America del Nord, e di aumentare la quota delle economie emergenti, in particolare di quelle asiatiche. Tuttavia non è facile ridurre la dipendenza dall’Europa. Comunque dal 2004 al 2020 la quota delle economie europee nelle nostre esportazioni è diminuita dal 76.1 al 48%. La quota dei mercati extra-europei nelle esportazioni del nostro paese è quindi cresciuta dal 23.9 al 52%. In particolare è aumentata la quota degli Stati Uniti dal 10.1 al 23% del totale. La metà circa dell’espansione delle nostre esportazioni fuori Europa si è fatta quindi negli Stati Uniti. Un po’ meno della metà nell’insieme dei paesi asiatici, in particolare in Giappone, Cina e India. Varrà la pena di notare che queste modifiche sono relative. In
termini assoluti il flusso di beni esportati in Europa continua a crescere. Ma aumenta in misure inferiore a quello dei flussi di beni verso l’America del Nord e verso l’Asia. Osserviamo poi che, nonostante i progressi fatti, il futuro della diversificazione dei mercati di esportazione non è per nulla assicurato. Per poter esportare in altri paesi occorre poter concludere accordi commerciali con gli stessi. Ora, se passiamo in rassegna la situazione in materia di accordi commerciali internazionali ci accorgiamo che le cose non vanno come dovrebbero né a livello multilaterale, né a livello bilaterale. Un po’ dappertutto i nostri diplomatici incontrano difficoltà a far avanzare i loro progetti. L’accordo quadro con l’Ue è stato abbandonato e, per il momento, nessuno sa con che cosa potrà venir sostituito. Con i paesi asiatici la situazione in materia di accordi commerciali non è molto migliore. Le negoziazioni però, in questo caso, sono condotte dall’Associazione di libero
scambio, alla quale la Svizzera continua ad aderire. Il Giappone è l’unico paese con il quale un accordo è stato concluso. Con l’India le negoziazioni sono avviate da anni ma stentano ad arrivare alla fine. C’è poi il caso della Cina (e di Hong Kong partner commerciale altrettanto importante per la Svizzera) che, con il degradarsi dei rapporti della Cina con gli Stati Uniti, minaccia di diventare complicato. Secondo certi specialisti del commercio internazionale, in futuro queste tensioni potrebbero obbligare la Svizzera a una scelta di campo e alla rinuncia ad uno o l’altro dei mercati più importanti per le esportazioni del nostro Paese. Da ultimo ricorderemo che le sorti dell’accordo della Svizzera con gli Stati Uniti, che sono attualmente il nostro maggior partner commerciale extra-europoeo, sono, secondo altri specialisti, nelle mani di Joe Biden. Speriamo che se ne sia accorto! Sia come sia, nei prossimi anni ai nostri negoziatori il lavoro non verrà a mancare.
nucleari già negoziato con la Francia. Parigi l’aveva definito «un colpo alle spalle». Il Governo di Macron aveva fatto sapere di non essere stato informato dell’esistenza di un patto di difesa nel Pacifico da parte non soltanto dell’Australia, che comunque era impegnata in un altro progetto con la Francia, ma nemmeno da parte degli Usa e aveva ritirato i propri ambasciatori nei due Paesi. Il fatto che Parigi non abbia citato il Regno unito e non abbia fatto rappresaglia diplomatica nei confronti di Londra non deve far pensare che ci sia maggiore tolleranza verso i vicini oltre Manica, tutt’altro. Per Macron si è trattato di un atto di disprezzo verso il Governo di Boris Johnson. Come a dire: voi non contate niente, non ci scomodiamo nemmeno a prendercela con voi. Le relazioni tra Parigi e Londra sono gelide. C’entra la Brexit e c’entra anche il caos della questione AstraZeneca della primavera scorsa. Ma anche le relazioni transatlantiche sono piuttosto
meste. C’è stato un incontro la settimana scorsa a Pittsburgh per inaugurare il Trade and tech council (Ttc) e gli obiettivi erano ridimensionati rispetto alle attese del passato. Già riuscire ad incontrarsi, in questo momento, costituisce un successo. Ma per il resto sono più importanti le cose che non sono successe: gli Usa non si sono impegnati a rivedere i dazi su ferro e alluminio, né ci sono stati sforzi per restaurare il potere dell’Organizzazione mondiale del commercio che era stato ridotto da Donald Trump. Dal canto suo, l’Ue non ha voluto riprendere l’accordo sul trasferimento di dati che era stato bocciato dalla Corte di giustizia europea perché le condizioni di privacy americane non sono considerate sufficienti. E, su precisa iniziativa della Francia che ha tentato di boicottare questo incontro in molti modi, nulla è stato deciso sul settore dei semiconduttori che, come si sa, è centrale nelle relazioni tra Occidente e Cina. Secondo Parigi,
qualsiasi accordo con gli americani minerebbe la possibilità degli europei di avviare e consolidare la produzione sul Continente di semiconduttori, che è un obiettivo dell’autonomia strategica dell’Ue. Bruxelles sta pianificando un ampio programma di sussidi per la produzione di microchip e anche la Germania ha annunciato di voler dare contributi al settore nel suo territorio. Il gelo si sente insomma e, anche se adesso è esasperato dalla rabbia francese, non è nuovo e probabilmente non sarà di breve periodo. Il prossimo incontro del Ttc è previsto nel 2022 in Francia (Paese che presiederà l’Ue il primo semestre dell’anno prossimo, anno in cui si svolgeranno le elezioni per l’Eliseo). Si vuole scegliere una zona simbolo come sede del vertice, per far vedere che l’Europa si sta modificando: un’ex zona industriale trasformata in hub digitale sarebbe il massimo per Parigi, per mostrare agli americani che il Continente può farcela anche senza di loro.
a Bellinzona, non puntano a scavalcare le esistenti associazioni di quartiere, ma piuttosto a un coinvolgimento maggiore della popolazione – mediante una piattaforma informatica gestita da un gruppo «ad hoc» – in modo da creare nuove relazioni tra l’amministrazione e i suoi cittadini. Per effetto delle aggregazioni, nelle nostre città i progetti peculiari di un quartiere oggi vengono elaborati dalle associazioni di quartiere e sollecitano soprattutto interventi per nuovi manufatti, lavori urgenti e prestazioni o migliorie in servizi già esistenti. Adottando il bilancio partecipativo le parti si invertirebbero, nel senso che l’esecutivo stanzierebbe inizialmente dei fondi e spetterebbe poi alla popolazione del quartiere stabilire le priorità degli interventi. Un esempio per evidenziare la differenza fra le due procedure: oggi le associazioni di quartiere segnalano di voler sistemare una piazza, un nuovo parco giochi, la creazione di un fontana ecc. e nei preventivi legislativo ed esecutivo stanziano i crediti necessari
per eseguire i lavori. Con il bilancio partecipativo invece i gruppi di lavoro, nei limiti di budget prefissati dall’esecutivo, chiederanno agli abitanti, o a precisi segmenti della popolazione del quartiere, di presentare idee e suggestioni e in seguito di votare quali dovranno essere studiate dalle associazioni di quartiere e presentate al legislativo comunale per l’iter successivo. Esempi già realizzati, quindi ancora più chiari: nel 2019 a Boston, il municipio ha stanziato un milione di dollari per progetti destinati alla gioventù. Ebbene le idee iniziali non sono state chieste ai membri del legislativo o delle associazioni di quartiere, bensì a tutti i giovani dai 12 ai 25 anni invitati a scegliere su una piattaforma digitale come spendere i soldi per progetti dedicati a loro. L’esempio è stato subito copiato dalla città di Newcastle, nel Regno Unito, che ha ampliato concetti e allargato cordoni della borsa (quasi 3 milioni di franchi) per idee e programmi suggeriti da tutti gli studenti delle scuole comunali e della contea.
Ho scelto questi due esempi per evidenziare meglio come anche alle nostre latitudini il bilancio partecipativo risulti valido, oltre che per sollecitare nuovi parchi giochi in un quartiere, anche per rimettere in moto o riparare qualche ingranaggio del nostro ordinamento democratico. A mio avviso, così come in altri paesi risulta strumento valido per ravvivare il sentimento di appartenenza alla comunità, da noi esso potrebbe favorire la messa punto, se non una totale revisione, di certi meccanismi gestionari di fondi pubblici che partiti e lobby preferiscono mantenere immutati e ingessati. Penso in particolare ai conflitti con i giovani, alle loro legittime rivendicazioni che le altre generazioni faticano a capire e ad accettare, e alla necessità (urgenza, anzi) di avviare nuove soluzioni per evitare che le tensioni aumentino. E questo mi basta per arrivare a dire che, anche se in apparenza risulta un doppione, il concetto del bilancio partecipativo potrebbe favorire aperture utili per bilanciare i legami intergenerazionali.
affari esteri di Paola Peduzzi tristi relazioni transatlantiche La Francia ha firmato di recente un grosso accordo militare con la Grecia del valore di 2-3 miliardi di euro che include l’acquisto da parte di Atene di almeno tre navi da guerra. «È un segnale di fiducia nella qualità della produzione francese», ha detto Emmanuel Macron annunciando l’accordo all’Eliseo insieme al premier greco, Kyriakos Mitsotakis, che ha commentato: «I nostri Paesi hanno fatto un primo passo nella direzione di un’autonomia strategica dell’Europa». Il patto tra Francia e Grecia prevede anche il sostegno militare reciproco «con ogni strumento a disposizione, compresa se necessaria la violenza armata», in caso di invasione dei rispettivi Paesi. Questa clausola è particolarmente importante per i termini utilizzati e per il legame militare e armato che introduce nella relazione di due Nazioni che fanno parte dell’Alleanza atlantica. Macron ha detto di volersi «impegnare per proteggere la Grecia in caso di intru-
sione, attacco o aggressione: questa è la mia idea di amicizia e di indipendenza europea e di unità territoriale europea, che per noi è un valore». Poiché le dispute greche riguardano per lo più la Turchia, il messaggio francese è stato letto con preoccupazione e intransigenza da Ankara. Ma anche i diplomatici dell’Ue sono in parte scettici. Uno di loro ha parlato in forma anonima e ha dichiarato: «È bizzarro dire che questo patto contribuisce alla sovranità europea. Si tratta di un patto di difesa da Diciannovesimo secolo tra poteri europei, ha molto più a che fare con un interesse nazionale circoscritto che non con gli interessi dell’Unione». L’accordo arriva dopo l’ira francese per la nascita di Aukus, l’alleanza tra Australia, Usa e Regno unito, e per l’acquisto di sottomarini con tecnologia militare in chiave anti-cinese. Il 20 settembre il Governo di Canberra aveva annunciato di aver stracciato il contratto d’acquisto di una decina di sottomarini non
zig-zag di ovidio Biffi Un bilancio per bilanciare Prima bocciatura per una mozione presentata dalla sinistra la scorsa primavera a Bellinzona città (azione sostanzialmente simile a quella avviata anche a Lugano) per perorare l’avvio del bilancio partecipativo, uno «strumento di democrazia diretta attraverso il quale una quota stabilita della spesa comunale viene destinata al finanziamento di progetti di valenza pubblica locale che sono stati proposti, discussi e approvati dalla cittadinanza». Avviato per la prima volta in Argentina nel 1989 a Porto Alegre, praticato ora anche un po’ in tutto il mondo, il bilancio partecipativo in Europa ha iniziato a svilupparsi nelle grandi agglomerazioni del Regno Unito e in Germania, trovando però applicazioni anche altrove (Parigi, Bologna e Bruxelles), sino ad arrivare tre anni fa anche in Svizzera, a Losanna e a Friburgo per la precisione. Secondo i promotori ticinesi, pur senza «rimettere in alcun modo in discussione la centralità del sistema e senza scalfire la primaria importanza dell’autorità comunale e dell’azione pub-
blica», anche in una democrazia diretta come la nostra il bilancio partecipativo potrebbe diventare uno strumento per coinvolgere maggiormente la popolazione nella definizione degli indirizzi politici. Ma nella capitale, dove la sinistra forse sperava di poter staccare una attenzione maggiore, il Municipio ora ha alzato la paletta... rossa, ricordando che le associazioni di quartiere praticamente assolvono già allo stesso compito, avendo a disposizione una quota di bilancio «per organizzare attività sul territorio di riferimento» ed essendo consultate «ogni qualvolta vi sono questioni e decisioni che riguardano il quartiere». Alla luce di questa motivazione difficilmente la mozione potrà trovare miglior accoglienza in altre sedi. Mozione da buttare? Progetto destinato a fallire? Qualcuno obietterà: alla fin fine si tratta di una scelta fra zuppa e pan bagnato. Ma la semplificazione sarebbe fuorviante. Provo a spiegare perché. I due documenti che la sinistra ha presentato prima a Lugano e poi, quasi in fotocopia,
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cultura e spettacoli abbondio goes British Il doppio lavoro di un giovane anglista sulle poesie del ticinese Valerio Abbondio pagina 42
Una biennale per ragionare Nell’era delle fake news e dei ritocchi, urge una riflessione sulla fotografia: la Biennale dell’immagine ha raccolto la sfida
nell’anno di Dante Fra le molte pubblicazioni che celebrano il poeta, anche quelle di Serianni e Pasquini
Il cinema a zurigo Alla vigilia della 18esima edizione lo ZFF non mostra ancora un’identità definita
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Jean e Marguerite Arp in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria di Locarno, 1965. (Foto alberto Flammer, archivio Fondazione Marguerite arp, locarno)
Il sodalizio Marguerite-Jean
Mostre Alla Fondazione Marguerite Arp di Solduno una full immersion in un ambiente d’artista Ada Cattaneo La casa atelier di Ronco dei Fiori a Solduno ospitò Jean Arp solo per sei anni: egli trascorse qui l’ultimo periodo della sua vita a partire dal 1960, insieme a sua moglie Marguerite Hagenbach. Si tratta tuttavia di un momento estremamente fecondo per l’artista di Strasburgo, esponente fra i maggiori delle avanguardie storiche del primo Novecento, la cui opera non perse alcun vigore neppure nella fase conclusiva della sua ricerca. Le strade di Marguerite, erede di una famiglia dell’alta borghesia basilese, e di Jean si erano già incrociate quando la sua prima compagna, Sophie Taeuber, era ancora in vita: i tre stringono una profonda e duratura amicizia. Sarà poi proprio Marguerite ad accompagnare Jean negli anni più difficili, dopo la scomparsa di Sophie, facendosi carico di tutte le questioni pratiche e operando sempre per creare un ambiente favorevole al suo lavoro creativo.
A seguito della recente ristrutturazione della casa atelier, la Fondazione Arp ha scelto per la mostra di quest’anno di riflettere proprio sugli anni di permanenza dell’artista a Solduno. Emerge dai documenti presentati l’importanza in quest’epoca della figura di Marguerite che opera alla stregua di una vera e propria manager. Così la definisce Simona Martinoli, curatrice dell’esposizione. Tiene i rapporti con musei e gallerie, si occupa dei prestiti delle opere e pianifica addirittura l’organizzazione della casa in modo che Arp possa trovare qui un luogo propizio al suo fare artistico. Lo dimostra il suo studio dalle ampie vetrate, affacciato sul giardino, che è un continuo alternarsi di grigi e di verdi, di pietra e di vegetazione. Va ricordato che Marguerite Hagenbach aveva una consuetudine e una sensibilità per gli artisti testimoniata dalla sua attività collezionistica, intrapresa ben prima dell’incontro con Arp. La mostra inizia proprio con un’opera – Constellation Ronco dei Fiori – che è un sincero omaggio a questo luogo, rea-
lizzato con l’inusuale tecnica dell’olio su carta, che risplende sulla superficie del dipinto. Arp lo realizza nel 1961, quando ha già sviluppato una sentita affezione per questo luogo: lo testimoniano le lettere inviate agli amici. La struttura dell’esposizione si sviluppa poi attorno a tre nuclei, fra i quali emerge quello delle «Poupées» («bambole»). Alcune di queste sono collages realizzati a partire da sagome ritagliate nella carta – fogli dipinti, copertine di libri, cartoncini colorati,… – che Arp conservava in scatole bene ordinate e selezionava al bisogno come punto di partenza di altre opere. A Solduno ne sono state ritrovate oltre 250 pronte per essere utilizzate. Le «poupées» cartacee qui sono accostate ad altre, in alluminio oppure in bronzo. Ne è perfino presentata una rara versione in vetro di Murano: una silhouette nelle tonalità del viola e del rosa che, seppure esposta in un angolo riparato, cattura subito lo sguardo del visitatore. Si tratta di uno dei pochissimi esemplari realizzati da Arp in collaborazione con
Egidio Costantini, fondatore della Fucina degli angeli, quella vetreria di Murano che collaborò con artisti quali Picasso, Chagall e Fontana, attirando l’interesse di Peggy Guggenheim, che avrebbe dedicato un’intera mostra proprio a questa manifattura. Sono poi le foto documentarie a suscitare grande interesse, scelte fra ricordi di famiglia scattati qui al Ronco dei Fiori e immagini più ufficiali, come quella che testimonia il giorno del 1965 in cui fu conferita la cittadinanza onoraria di Locarno ai due coniugi per il lascito della loro collezione alla città. Raccontano di un uomo mite, attorniato da amici, accanto a una sempre sorridente Marguerite. Un altro legame fortissimo con il territorio è rappresentato dalle grandi sculture in marmo di Peccia, i cui blocchi venivano scelti in cava dall’artista stesso per poi essere scolpiti nell’atelier di Remo Rossi ai Saleggi di Locarno. Da segnalare è lo scatto di Henri Cartier-Bresson che ritrae Marguerite, ormai vedova, qua-
si sfuocata, appena dietro alla scultura Ruota foresta. Si tratta di una di quelle opere dove una porzione della superficie in granito è stato lasciato grezzo: una novità nella produzione di Arp connessa esclusivamente agli anni locarnesi. Così come la serie delle Figure di scacchi per giganti della foresta, anche in questo caso sviluppata nel corso degli anni Sessanta. (Il titolo, come molti fra quelli scelti da Arp, è parte integrante dell’opera; qui testimonia la componente giocosa, fiabesca del suo lavoro). Tutta la mostra concorre a rafforzare l’idea di un autore caratterizzato da una coerenza artistica inconsueta, che non rischia in nessun momento di scadere nella ripetizione, tanto meno sul finire dei suoi anni. Dove e quando
Jean e Marguerite Arp al Ronco dei fiori, Locarno-Solduno, Fondazione Marguerite Arp, Orari: do 14.0018.00. Fino al 31 ottobre 2021. fondazionearp.ch
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cultura e spettacoli
nei versi di Valerio abbondio
poesia L’originale iniziativa di un giovane anglista ticinese, che ha tradotto e illustrato i versi dell’intellettuale
ticinese (di cui proporremo un estratto anche nei prossimi numeri)
altro aspetto: sono le poesie di un uomo maturo. Grazie ad alcune ricerche ho scoperto che gli Abbondio erano due: c’era anche il fratello Fiorenzo, scultore, che realizzò l’Helvetia posta sopra il Mövenpick di Chiasso. Credo che i due fratelli fossero molto legati, perché Fiorenzo si occupò a lungo di Valerio quando questi si ammalò gravemente.
Simona Sala L’ALTARE Salgo l’erto sentiero, onde sorvoli sui poggi d’oro e la montagna fulva il mio sguardo che anela più lontano: fin dove, tra un ceruleo mareggiare di vette sempre più sottili e terse, si erge color di perla una montagna, e par che splenda ai limiti del mondo verso l’immensità, come un altare
che tipo di poesia è quella di Valerio abbondio?
È una poesia intimista, egli aveva una vena molto religiosa. Aveva frequentato il Papio ed era stato instradato sulla via del seminario, ma poi aveva capito che non faceva per lui, dunque si era dedicato agli studi universitari in letteratura francese. Abbondio è un figlio del suo tempo, e a me per certi versi ricorda Montale, ma anche Yeats. Nelle sue poesie trovo temi come la verità e la bellezza. Era una persona molto sensibile e riflessiva, attento alla natura e al nostro paesaggio. Dietro a tutta la bellezza decantata, oltre all’aspetto religioso, si intravvede però anche il tema della morte, forse perché a quarant’anni Abbondio cominciava a pensarci. In inglese c’è un detto secondo cui la morte è il visitatore che non puoi rifiutare, e a me certe atmosfere lo ricordano.
THE ALTAR I climb the steep path, to overlook golden terraces and the fawn mountain leads my longing gaze further: until, among a cerulean sea of mountain peaks becoming thinner and clearer, there stands a pearly mountain, that seems to shimmer at the world’s limit towards the immensity, like an altar. (da Campanule, Valerio Abbondio, 1936) Da qualche anno i riflettori si erano spenti sulla figura «timida e arrossente» (le parole sono di Francesco Chiesa, dai Colloqui con Piero Bianconi) di Valerio Abbondio, nato nel 1891 ad Ascona e per molto tempo figura di riferimento per l’insegnamento della lingua francese nel nostro Cantone. Ora qualcuno, un discendente dal cognome omonimo, non solo ha dato nuovo afflato a una serie di poesie dell’autore ticinese rileggendole, ma si è cimentato anche nell’opera di tradurle e di illustrarle, rendendone così quasi palpabili le atmosfere e le tematiche. Abbiamo incontrato Marco Abbondio, giovane anglista e insegnante, che è l’autore di un’operazione letteraria in fieri che intende riportare all’interesse degli amanti del genere l’opera dell’intellettuale asconese. prima di tutto, chi è Marco abbondio?
Sono un docente di inglese con una grande passione per tutto ciò che è British... me la porto dentro da quando ero piccolo. Quando mi sono trovato a decidere cosa studiare, per me è stato scontato scegliere anglistica.
come mantiene il suo legame con la
come realizza questo ponte tra poesia e disegno?
Il disegno in qualche modo diventa il riassunto di un istante o di un’atmosfera della poesia. Mi piace poi arricchire i disegni con dettagli di mia invenzione.
Marco Abbondio ha associato questa illustrazione alla poesia L’altare/ The Altar, di Valerio Abbondio. (Marco abbondio) Gran Bretagna?
Seguo da vicino tutto quello che capita in Gran Bretagna, poiché sento una grande affinità con la cultura inglese. Gli aspetti che mi affascinano sono molti, dalla cura per la casa alla monarchia, passando per lo sport, la storia e la vita quotidiana, ma sopra ogni cosa vi è il proverbiale humour.
nella vita però c’è un’altra passione che la accompagna da sempre, ed è quella per il disegno.
Anche questa è una passione che mi porto appresso, soprattutto per
È la prima volta che realizza un’operazione di questo tipo?
le illustrazioni di Escher. All’inizio praticavo il disegno quasi per necessità perché quando studiavo in Inghilterra alloggiavo in una stanzetta piuttosto spoglia, e così ho cominciato a disegnare e ad appendere i miei ritratti alle pareti. All’università di Zurigo, durante le famose lectures del professore Hughes, ogni volta che si cominciava ad analizzare una poesia o un testo, a me venivano come dei flash fatti di immagini. A quel punto ho cominciato a mischiare le due cose, da una parte prendendo appunti, dall’altra dise-
gnando. Una volta allestirono perfino una piccola mostra dei miei disegni all’Englisches Seminar. Vuole parlarci del nuovo progetto in cui è impegnato?
In casa mi hanno sempre raccontato di un lontano zio di nome Valerio Abbondio, un insegnante e poeta purtroppo caduto nel dimenticatoio. Un giorno una docente di latino mi mostrò un libro di Abbondio curato da Curonici. All’epoca avevo 16 anni e le poesie non mi dissero molto, ma ora, che ho circa l’età in cui Abbondio le scrisse, le vedo sotto un
L’ho già fatta con altri autori come Keats, Shakespeare o con il Paradiso Perduto di Milton, che è una meravigliosa fonte di ispirazione. a un certo punto però ha deciso di intervenire anche sui testi, traducendone alcuni in inglese…
Trovo che la traduzione sia un esercizio bellissimo per capire e affrontare la poesia. Sono consapevole che in questo senso non c’è una domanda di mercato, ma a me l’idea piaceva. Ho avuto un prezioso aiuto da un professore conosciuto all’università, volevo infatti che il risultato finale in inglese fosse bello tanto quanto quello originale. Per ora ho lavorato su dieci poesie, ma mi piacerebbe sicuramente andare avanti. annuncio pubblicitario
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cultura e spettacoli
la fotografia tra vero e falso Biennale dell’immagine La fotografia non è più solo occasione per vedere, ma spinge
sempre più a riflessioni sul nostro vivere
smart tV I grandi
Lillo & Greg su Radio2
Giovanni Medolago Fake, visual distortion: seppur declinato nel sempre più imperante inglese, il titolo della XII Edizione della Biennale dell’Immagine di Chiasso richiama un tema «caro» alla fotografia sin dalla sua nascita, poco meno di due secoli or sono, quando crebbe una nuova etica della visione. Vero o falso? Le immagini riprodotte a partire dalla camera obscura leonardesca e poi via via, nel corso del tempo, con gli apparecchi sempre più sofisticati messi a disposizione dall’evoluzione tecnica, riflettono o meno la realtà? Interrogativo parafilosofico reso di recente ancor più complesso dall’avvento del digitale, grazie al quale ciascuno di noi – purché munito di smartphone – è in grado di nuotare nel mare magnum della manipolazione, sfociando infine nell’invenzione fantastica (gli amati/ odiati meme quando va bene, le conturbanti fake photos quando butta male!) e dunque lontana mille miglia da quella realtà che Daguerre, Fox Talbot e Niépce pensavano di aver catturato per sempre e telle quelle. Grazie a quel Photoshop che un grande fotografo come Berengo Gardin vorrebbe addirittura «abolito per legge», pasticciamo con le nostre foto casalinghe fino a farle diventare surreali, epperò continuiamo a fidarci spensieratamente di quelle ci offrono i media. Nella fessura tra questi due atteggiamenti rischiano di passare le truffe più insidiose, quelle fake news/photos/stories contro le quali bisogna combattere armandosi di un forte senso critico. Non è dunque un caso che gli organizzatori della rassegna chiassese abbiano chiamato Joan Fontcuberta quale padrino della loro cornucopia di proposte. Catalano, classe 1955, diverse attività nel mondo della fotografia: critico, storico, curatore di mostre, docente a Harvard; il buon Joan ci ha giocato eccome con la manipolazione. Ha realizzato dei d’après di Picasso e di Tàpies – poi unanimamente lodati quali «inediti» dai giornali di Malaga e
Marco Züblin
Joan Fontcuberta, Crisis of History XB. (©Joan Fontcuberta)
di Barcellona; ha creato il fotografo fantasma Ximo Berenguer, attribuendogli immagini che «il prematuramente scomparso artista iberico (1947-1978)» non ha mai realizzato per il semplice fatto che non è mai esistito; ha pure giocato con il fenomeno Vivian Maier, inventandosi una complicità con John Maloof, quello che a un’asta si aggiudicò il baule dimenticato in un magazzino con le centinaia di negativi e rullini ancora da sviluppare della babysitter/ fotografa per caso. Curatore della mostra allo Spazio Officina, Fontcuberta ha divertito il pubblico raccontando delle sue burle in un incontro condotto al Cinema Teatro da Michele Smargias-
si, giornalista di «Repubblica» e titolare del blog «Fotocrazia». Mentre risulta particolarmente strana l’assenza dalla kermesse chiassese di un’importante istituzione come il m.a.x. museo (entrerà in scena solo il 9 ottobre con una mostra che – almeno sulla carta – ha poco a che vedere con la fotografia), ecco il ritorno di Maurizio Montagna alla Galleria Cons Arc. Corruzioni, oggetti quasi è il titolo di un suo interessante quanto curioso lavoro, nato da una serie compulsiva di scatti che ha messo in crisi l’apparecchio fotografico digitale, non più in grado di gestire ogni clic e che Montagna («La realtà fotografica va
ben oltre il tema del visibile») si è ritrovato miracolosamente sotto gli occhi. Da segnalare anche la rassegna cinematografica «Cinema-falsità»: Talvolta il falso può rivelarsi più creativo del vero, è un’invenzione utile per poter guardare il mondo con occhi nuovi, provare a capirlo meglio, o almeno per contrastarne l’assurdità, scrive Francesco Rizzi, curatore del ciclo. Dove e quando
Bi12 Biennale dell’immagine, Chiasso, fino al 14 novembre 2021. Per il programma dettagliato www.biennaleimmagine.ch
sguardi incrociati sull’antico egitto pubblicazioni Il nuovo catalogo sulle collezioni di egittologia del Museo di Etnografia
di Neuchâtel Marco Horat
Ad occuparsene è stata naturalmente un’egittologa, Isadora Rogger, conservatrice aggiunta al MEN, che si è avvalsa di diverse collaborazioni. L’intento è di mettere a disposizione degli specialisti, ma anche degli appassionati, un’opera che tenga conto degli studi più recenti; una pubblicazione avviata anni fa dall’allora direttore Marc-Olivier Gonseth, che continua la tradizione legata ai tesori del museo neocastellano in una nuova veste, curata per la parte grafica dal ticinese Oliver Schneebeli e pubblicata dalla Buona Stampa di Lugano. Un catalogo ragionato che è un vero e pro-
per una satira intelligente e longeva
prio studio a largo raggio di 500 pagine sulla collezione egizia, composta da reperti riuniti essenzialmente durante lo scorso secolo; ma che aveva preso avvio con l’acquisizione da parte della città di Neuchâtel di una mummia già nel 1838, di un sarcofago donato dal Chedivè d’Egitto alla fine dell’800 e di qualche precedente donazione. «La figura di riferimento – dice Isadora Rogger – è Gustave Jéquier, uno dei pionieri dell’egittologia in Svizzera, scomparso nel 1946. La maggior parte dei nostri reperti proviene infatti dai suoi scavi a Saqqara negli anni 20 e da quelli di altri suoi colleghi, sotto l’egida del Servizio delle Antichità e in accordo con le autorità locali. A questo nucleo si sono aggiunte donazioni da parte di privati, viaggiatori e collezionisti». Creare una collezione non significa semplicemente accatastare begli oggetti da esporre in vetrina accompagnati da un’etichetta quando si hanno informazioni sulla loro provenienza; si devono seguire dei criteri scientifici: «Jéquier voleva una collezione di qualità che tenesse conto dei molti materiali impiegati e che rappresentasse la cronologia del mondo egizio, dal Periodo predinastico a quello Tolemaico. Poiché gli oggetti erano riuniti nel Museo di etnografia (fondato nel 1904), si doveva anche tener conto del rapporto di questa con l’archeologia; lo
sguardo incrociato tra le due discipline crea dunque un legame tra passato e presente». Negli anni alla guida del MEN si sono succeduti diversi direttori fino all’attuale co-direttore Grégoire Mayor, passando per alcune personalità di caratura internazionale come Jean Gabus e Jacques Hainard. Con il mutare delle sensibilità e lo sviluppo della museografia moderna si è anche rimesso in gioco il modo di presentare al pubblico gli oggetti delle collezioni, compresa quella egizia: non tanto allestendo una mostra permanente di stampo classico, quanto facendo ruotare reperti scelti all’interno di esposizioni temporanee, rendendoli quindi funzionali a una data tematica e accompagnandoli da una scenografia di rottura, che non ne valorizzava solo l’aspetto estetico. Alcuni esempi: L’impermanence des choses, C’est pas la mort!, L’art c’est l’art... Le riflessioni sulla museografia e sul rapporto tra culture diverse presuppongono anche implicazioni politiche legate al colonialismo internazionale e all’appropriazione di tesori artistici da parte delle nazioni dominanti. Un tema del quale si discute oggi e che tocca anche il nostro Paese: «Non le nostre collezioni egizie però, che come detto hanno una storia molto trasparente, essendo frutto di missioni archeologiche ufficiali,
seguite da vicino dalle autorità secondo le regole del tempo. La maggior parte di quanto usciva dal terreno rimaneva di proprietà dell’Egitto; solo oggetti meno preziosi ma comunque storicamente significativi venivano lasciati agli archeologi delle missioni straniere». E questo fin dai tempi della fondazione del Museo del Cairo da parte di Auguste Mariette nel 1863. Naturalmente si aprirebbe un discorso sugli scavi clandestini, sul commercio delle antichità e sui relativi diritti di proprietà degli oggetti esposti oggi nei musei, ma qui interessa la collezione egizia del MEN. Conclude Isadora Rogger: «Il catalogo è importante perché permette di avere uno sguardo a tutto tondo sull’intera collezione, toccando i diversi aspetti legati all’acquisizione, allo studio, al restauro, alla presentazione degli oggetti, dal momento che la grandissima parte della raccolta non è purtroppo fruibile dal pubblico per ragioni di spazio. Quello che faremo comunque è continuare con la rotazione e il prestito ad altri musei delle nostre antichità egizie, poiché meritano di essere conosciute». E allora perché non pensare un domani a visite virtuali nelle collezioni conservate nei magazzini del MEN? Sarebbe un modo per valorizzarle in mancanza del contatto diretto, come ci ha insegnato la pandemia.
Non c’è nulla di meglio di una bella risata alle lacrime, anche per il motivo più stupido o incomprensibile ad altri. Rido facilmente, anche troppo, mi dicono a casa, forse perché mi piace farmi del bene, anche a minimo mercato. Ma sono sicuro di stimolare qualche risata meno ecumenica, più intelligente, se invito caldamente (anzi: obbligo) gli amanti del riso e del sorriso all’ascolto di Lillo & Greg 610 (Rai Radio2, sa-do, 10.35-12.00; decine di sketch storici sono su YouTube, con il rischio di binge hearing). La vagamente criptica menzione «610» sta per «sei-uno-zero», che è un po’ la cifra ideologicamente autoironica di una trasmissione che trionfa – sempre uguale a sé stessa eppure sempre nuova – dal 2003 e che è un vero oggetto di culto. La chiave vincente di 610 è quella dell’assurdo e del demenziale, ma sempre con un registro di facciata serio che rende il tutto ancora più irresistibile; merito della conduzione/ideazione affidata alla coppia Lillo e Greg, affiancati prima da Alex Braga e ora da Carolina di Domenico. Bella e curata colonna sonora vintage. Fondamentale è l’interazione tra i due conduttori, con Lillo nella parte di iroso e irriso bersaglio e Greg in quella del carnefice dall’aplomb albionico, ma soprattutto l’inesauribile creazione di situazioni e di personaggi fuori dalla logica e dalla razionalità, che si muovono sempre in una sorta di luogo della realtà irreale: si va dalle ricette impraticabili di Rebecca Banti della Rocca (la sempre straordinaria Virginia Raffaele), agli escapologi suicidi e ai collaudatori fallimentari, a puntualmente esiziali sport estremi, ai tuttologi dell’ovvio, alle riletture in calabrese dei classici rock, all’avvocato che nessuno vorrebbe avere, alle enciclopedie dello scibile umano e pseudo-biografie in versione anti-Lillo, alla divulgazione insensata dei classici della letteratura, alle pubblicità truffaldine per pacchetti di telefonia, alla rubrica su persone scomparse («che l’hai visto»), all’astrologo strampalato, alle indecifrabili barzellette settoriali, alla gastronomica «radio del dolore», all’archeospazzatura, al poeta incomprensibile, e via così per oltre… cinquanta rubriche e un centinaio di personaggi. Tutte e tutti accomunati da quel gusto surreale di costruire, con puntigliosa seriosità, una realtà parallela e invariabilmente comica. Mai l’aggettivo «imperdibile» è stato meglio speso per una trasmissione di questo tipo; nell’ambito del comico, qui c’è autentica genialità, ripetuta decine di volte l’anno, e per anni. Non occorre dunque infilarsi nella palude della satira politica per offrire un programma leggero ma intelligente, godibile senza eccezione né limiti. Servono le idee, e le persone; e la voglia di andarsi a cercare le une e le altre.
Lillo & Greg, personaggi cult. (Wikipedia)
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cultura e spettacoli
le immagini di Dante
Dante/1 Un recente saggio indaga e formula nuove ipotesi sulle fonti
iconografiche della Commedia
Emanuela Burgazzoli Se la Commedia è stata fonte ispiratrice per artisti nel corso dei secoli, ci si può chiedere quali sono invece gli orizzonti figurativi e iconografici che hanno nutrito l’autore della Commedia. Risposte convincenti e documentate le troviamo ora nel saggio di Laura Pasquini che deriva il titolo da un verso del Paradiso e formula nuove ipotesi sulla biblioteca interiore di Dante, «un mondo intero fatto di alcuni libri fondamentali e di numerosissime figure», fra queste quelle appartenenti alla grande bellezza del territorio italiano, dall’arte classica a quella più innovativa del suo tempo, «che stava andando alla riconquista del vero» con il realismo di Giotto. Così facendo emergono anche tracce plausibili della presenza di Dante in luoghi più «incerti», come Torcello, Venezia e Roma. Le immagini portatrici di messaggi religiosi e politici erano parte della quotidianità dell’uomo medievale, immerso in un universo di figure, segni e simboli, che avevano principalmente la funzione di istruire gli analfabeti, attivare la memoria e suscitare emozioni, come spiegavano già Gregorio Magno e Tommaso d’Aquino. Si era insomma abituati «a ragionare per immagini», a decifrare i significati delle rappresentazioni e Dante attinge a questo patrimonio visivo per rafforzare le sue descrizioni, rielaborando e plasmando le opere d’arte che aveva ammirato in alcuni luoghi; fra questi figura quasi certamente la basilica di Santa Maria Assunta a Torcello, dove si trova un grandioso mosaico dell’XI secolo che raffigura il Giudizio universale, con una discesa di Cristo agli inferi e «l’attestazione rara e precoce» del tema iconografico del limbo dei bambini non battezzati, che Dante colloca nel primo cerchio dell’Inferno. Alla stessa fonte visiva si fa risalire la pesatura delle anime dei defunti, che si disputano diavoli e angeli (iconografia antica di ascendenza egizia), ma anche la divisione dei dannati in scomparti (sette come i peccati capitali) potrebbe aver stimolato l’immaginazione del poeta, con dettagli che trovano riscontro nelle sue terzine. Appassionante anche l’indagine sulle radici figurative del Lucifero dantesco, fra ascendenze pagane e tradizione cristiana nota all’arte medievale che rappresenta il demonio con un volto triforme, in antitesi alla Trinità. Gli indizi in questo caso portano a Tuscania, al Satana scolpito sulla facciata di San Pietro, ma anche al demonio «villoso e
le parole di Dante Dante/2 L’opinione comune della facilità
di leggere Dante al giorno d’oggi e il ragionamento sulle parole del linguista italiano Luca Serianni Stefano Vassere
Santa Maria Assunta di Torcello: una possibile fonte di ispirazione per Dante. (Wikipedia)
corpulento» nell’affresco di palazzo arcivescovile di Treviso. Di certo rilevante è la raffigurazione nell’inferno musivo realizzato da Coppo di Marcovaldo nel battistero di Firenze, opera che funge da comune denominatore fra l’inferno dantesco e quello raffigurato da Giotto nella Cappella degli Scrovegni; sono molteplici infatti le assonanze fra poeta e pittore, non soltanto per il Lucifero «possente e gigantesco», ma anche per le iconografie dei dannati, come per avari e usurai raffigurati con un sacchetto di monete appeso al collo: tutte immagini costruite per rendere visibile il peccato e innescare nello spettatore l’immedesimazione salvifica. In particolare nella cantica del Purgatorio (canto XI) Dante dimostra di essere stato testimone attento della rivoluzione naturalistica che si compie fra Duecento e Trecento nell’arte figurativa occidentale, cominciata nelle cattedrali gotiche francesi e tedesche, ma anche dal ciclo di affreschi di Giotto ad Assisi; un realismo che si concentra sulla fisicità dei corpi e l’espressività dei volti e frutto di un nuovo modo di intendere la spiritualità. Nella cantica del Paradiso si tratta per Dante di «dare forma plausibile a un’idea, a un dogma, a una preghiera»; la sfida dunque è raggiungere un equilibrio fra concretezza ed espressività, astrazione e peso simbolico. Ancora una volta Dante attinge ai mosaici paleocristiani fra Roma e Ravenna: i riscontri testuali
indicano stretti legami fra le processioni paradisiache dantesche e quelle realizzate in Sant’Apollinare Nuovo e in alcune chiese romane. Ma l’interesse di Dante per le opere musive si estende agli aspetti tecnici e materiali: dimostra infatti una profonda conoscenza delle modalità di assemblaggio di quelle tessere contenenti lamine dorate in grado di produrre la massima luminosità. Versi come quelli che si trovano nel canto IV, in cui Dante rievoca il martirio di San Lorenzo, dimostrano infine l’importanza del ruolo che rivestono le arti figurative nella Commedia per visualizzare il dogma; del resto alcuni concetti sono comprensibili se sono percepiti dapprima dai sensi, secondo la dottrina tomistica. La preferenza del poeta per questo martire, arso vivo nel 258, sembra essere stata favorita da alcune immagini del santo a Ravenna, come il mausoleo di Galla Placidia. Nell’astrazione dell’arte bizantina Dante trova inoltre ispirazione per le simmetrie delle gerarchie angeliche, la visione della Vergine e la luminosità dei cieli. Poeta ben consapevole che – come scriveva Gregorio Magno - «non si fa del male, nel voler mostrare l’invisibile per mezzo del visibile».
«Mancano all’appello sostantivi che indicano sentimenti come fiducia (già duecentesco), simpatia e antipatia (più tardi); o aggettivi come bravo e acido (entrambi trecenteschi) o identico (XVII secolo)». L’interrogativo più urgente dell’anno dantesco sta già nella prima riga della prima pagina di questo Parola di Dante di Luca Serianni: «Sono troppi i libri su Dante apparsi in questo 2021?». Nell’anno del settecentesimo dalla morte è fuori di dubbio che questo sia un libro in più in una serie nutrita di libri; però, lette le centocinquanta pagine, l’ultimo saggio del linguista romano può di sicuro essere classificato nella squadra dei tanti e non in quella dei troppi. Anche perché ci parla di un problema non da nulla, che interessa gli Italiani e la propria lingua. Si narra un po’ ovunque della sorprendente facilità con la quale il lettore italiano contemporaneo legga la Commedia, con tutti quei secoli di mezzo e soprattutto rispetto a francesi, tedeschi e inglesi. I quali, messi a confronto con testi coevi della loro tradizione non ci capirebbero, ahiloro!, quasi nulla: qualche combattimento tra cavalieri e poco più. Sarebbe difficile, in parole povere, asserire che l’italiano del Trecento e quello che parliamo oggi siano due lingue differenti, cosa che pure è sostenuta da più di uno studioso. È per contro agevole osservare (senza necessariamente essere degli specialisti) quanto poco siano cambiati il modo di scrivere e una percentuale importante delle parole, come hanno dimostrato invece molti linguisti. La faccenda è meritevole di approfondimento, perché le cose sono date per tanto certe e di fatto non lo sono. Lo nota giustamente Patrizia Valduga in un articolo decisamente linguistico (per chi lo sa, la maggiore poetessa italiana
Bibliografia
Laura Pasquini, Pigliare occhi, per aver la mente. Dante, la Commedia e le arti figurative, Carocci Editore, 2020
non sorprende per questa briosa verve su questioni di lingua) sul «Fatto Quotidiano» dello scorso 26 settembre, «la Commedia non la si capiva già più nel Quattro e Cinquecento, figurarsi oggi». Giusto. E sacrosanto risulta dunque l’approccio di Luca Serianni. A cominciare dalla fortuna del lessico trecentesco e dalle parole stracitate e perentorie di Tullio De Mauro, autentico Literaturpapst del campo e indiscutibile padre di numerose direzioni della linguistica italiana. Dice De Mauro (è bene ricordarlo) che al momento della redazione della Divina Commedia «il vocabolario fondamentale dell’italiano (di oggi) è già costituito al 60% e alla fine del Trecento il vocabolario fondamentale è configurato e completo al 90%». Ora, il libro di Serianni ha il pregio di affondare poderosa mano nella materia: prima di tutto consacrando capitoli allo stile e proponendo uno studio del destino nei secoli delle parole della Commedia, e poi non disdegnando incursioni nella filologia, nella metrica e nello studio della messa in versi. Vale a dire che per capire Dante oggi servono le parole, a due condizioni: a patto cioè di distinguere tra parole e parole e di prendere in considerazione aspetti diversi del sistema linguistico e comunicativo. L’analisi del lessico in Italia ha costruito, grazie a De Mauro, Serianni, Giuseppe Patota, Giuseppe Antonelli e tutta una serie di osservatori attenti e documentati, una bella tradizione di autorevolezza e benvenuta leggibilità, e questo libro non fa ovviamente eccezione. A partire dalle parole dell’italiano contemporaneo che già c’erano in Dante e separando quelle che ancora oggi hanno lo stesso significato da quelle che nel frattempo ne hanno assunto un altro, da quelle che non c’erano nella Commedia per vari motivi (i termini dell’abbigliamento, quelli che indicano le piante commestibili, parole tipo medico, ambasciatore, aglio, cipolla ecc.), dalle espressioni poi usate male o a sproposito, da quelle che in tutti questi anni hanno preso significati specifici. Come la parola «stampa», che Dante usa nel senso di «impronta» un secolo prima dell’invenzione della stampa. E come molte e molte ulteriori parole; giunte fino a noi, d’accordo, ma in che stato e dopo quali «travagli» lessicali è ancora tutto da vedere. Bibliografia
Una continua fonte di ricerche, anche a livello linguistico.
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Idee e acquisti per la settimana
Tempo di selvaggina
panino con fettina di selvaggina piccolo pasto per 4 persone • 40 g di prugne secche snocciolate • 100 g di cavolo rosso pronto all’uso • 2 fettine di capriolo di 120 g ciascuna • sale • pepe • 2 cucchiai d’olio d’oliva • 1 pomodoro • 1 baguette, ad es. Twister dal forno di pietra • 4 cucchiai di maionese • 50 g di rucola preparazione 1. Scalda il forno a 180 °C. Trita grossolanamente le prugne e scaldale con il cavolo rosso in una pentola. Condisci le fettine di capriolo con sale e pepe e rosolale nell’olio da entrambi i lati per ca. 6 minuti. Coprile e lasciale riposare brevemente. 2. Taglia il pomodoro a fette. Dividi il pane a metà per il lungo. Tosta brevemente le due metà in forno poi spalmale con la maionese. Farcisci una metà con la rucola, le fette di pomodoro e il cavolo rosso. Taglia le fettine a pezzetti e distribuiscili sul pane. Copri con l’altra metà del pane. A piacere dividi in pezzi e servi.
Con l’autunno arriva la stagione della selvaggina. Specialità quali cervo, capriolo e cinghiale sono spesso serviti in tavola. La cacciagione si presta bene per le cotture lunghe, ma alcuni tagli si preparano in modo facile e veloce anche in padella e sono per esempio ideali per farcire un panino
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Ai banchi macelleria con servizio Gli esperti macellai sono a vostra disposizione per consigli e richieste speciali. Essi possono anche preparare i tagli secondo i vostri desideri e suggerirvi il miglior modo per cucinarli. Conoscenze sull a selvaggina Cinghiale La carne di cinghiale ha un colore rosso scuro, è aromatica e succosa. Il collo è particolarmente indicato per arrosti e brasati, mentre disossato può essere preparato come bistecche alla griglia o brevemente arrostito. Capriolo La carne di capriolo ha un colore rosso intenso, è molto tenera e ha un sapore più discreto rispetto all’altra selvaggina. La sella e la coscia possono essere cucinati interi. Le fettine sono invece ideali per le cotture veloci in padella. Rosolare brevemente da entrambi i lati e il gioco è fatto. Cervo La carne di cervo si caratterizza per il colore dal rosso scuro al marrone, la struttura a fibre lunghe e la consistenza simile a quella della carne di manzo. La lombata è la parte più nobile del cervo: la carne è tenera e molto saporita. Se si arrostisce in un unico pezzo, si dovrebbe lasciare il sottile strato di grasso. Nel filetto invece andrebbe rimosso e cotto nel forno o nella padella.
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cultura e spettacoli
zurigo, sulla buona strada?
cinema Nella città sulla Limmat è andato in scena lo ZFF, festival ricco di film e di star, ma che ancora non riesce
a distinguersi con un’identità precisa
Nicola Mazzi Anche questa volta lo Zurigo Film Festival (giunto alla 17esima edizione) ha offerto al pubblico diversi spunti interessanti, sia per quel che riguarda la programmazione, sia per la presenza di star sul tappeto verde (sì, proprio verde, a Zurigo hanno voluto distinguersi dal resto del mondo…). Partiamo dai personaggi che hanno arricchito il festival diretto da Christian Jungen. A iniziare da Sharon Stone, la vera protagonista della prima parte della manifestazione. L’attrice americana ha infatti ricevuto il Golden Icon Award per la sua carriera. E nella conversazione con la stampa ha dichiarato: «I fallimenti fanno parte della vita. Senza fallire, non puoi avere successo». Ma la protagonista di Casinò in un discorso più generale ha anche ricordato il suo impegno contro il razzismo, l’aids e la lotta in favore delle donne. Dagli Usa è arrivato sulla Limmat anche Paul Schrader (lo sceneggiatore di Taxi Driver e Toro Scatenato) a presentare il suo ultimo film, che era in concorso a Venezia: Il collezionista di carte. E Todd Haynes (uno dei registi più importanti del cinema indipendente americano) che ha portato a Zurigo il suo documentario The Velvet Undergound, sulla storica band capitanata da Lou Reed. Un altro grande protagonista del-
lo ZFF è giunto dall’Italia: Paolo Sorrentino, anche lui reduce da Venezia dove il suo bel film autobiografico È stata la mano di Dio ha vinto il Leone d’argento. Il regista napoletano ha discusso con il pubblico e ha risposto ad alcune domande della stampa presente. In particolare, ha detto ai giornalisti che era in uno stato adatto e nell’età giusta per poter scrivere un film molto personale e intimo come questo. Sempre il regista de La Grande Bellezza ha rivelato, a proposito della morte dei genitori, uno dei momenti più toccanti dell’ultimo film: «erano 35 anni che ne parlavo da solo e mi confrontavo con i miei dolori: alla fine mi sono convinto che forse condividerli poteva aiutarmi a superarli. Ma ora che l’ho fatto non so se sia davvero cambiato qualcosa. Credo che bisognerà aspettare un po’ di tempo per avere una risposta. Ecco, forse qualcosa di buono sta avvenendo: inizio a essere annoiato dai miei dolori visto che ne parlo tutti i giorni e questa è una buona cosa». I film presentati a Zurigo sono, soprattutto per i titoli più noti, delle prime nazionali che arrivano però da altri festival come Cannes e Venezia (Spencer, The French Dispatch, Tre Piani, ecc). Detto questo occorre comunque dare atto agli organizzatori di essere riusciti ad accaparrarsi la prima mondiale (in contemporanea con Londra) dell’ultimo e atteso Ja-
Sharon Stone ha ricevuto il Golden Icon Award, premio alla carriera. (Keystone)
mes Bond: No Time To Die. Ed è stata la prima volta che un film di 007 ha fatto parte della scaletta di un festival. Tra i film meno conosciuti presentati a Zurigo, segnalo un paio di buone produzioni: il danese From the Wild Sea e il collettivo elvetico Les Nouvelles Èves. Due film che hanno nelle gesta quotidiane un nesso che li accomuna. Il primo si concentra sui volontari che si occupano della salute degli animali selvatici nel Nord dell’Europa. Il loro lavoro quotidiano
è scandagliato nei minimi particolari dalla macchina da presa e così possiamo osservare con attenzione i cuccioli di foca feriti che vengono nutriti con cibo liquido e riscaldati con lampade a infrarossi, oppure i cigni sporchi d’olio che vengono sottoposti ad accurati bagni di sapone. Il regista Robin Petré mette a nudo la relazione ambivalente tra gli uomini e gli ecosistemi minacciati e ci consegna questo documento crudo e realistico. Il secondo è un viaggio in Sviz-
zera attraverso sei storie di donne, di diversa età, filmate da altrettante autrici. Una produzione semplice, ma efficace perché mostra le problematiche quotidiane che devono affrontare in una società che non è ancora adeguata ai loro bisogni. Dalla complessa gestione del binomio lavoro-famiglia di una professoressa universitaria vodese, alle difficoltà economiche di una neopensionata ticinese, passando per una giovane studentessa alla ricerca di una propria identità sessuale. Luoghi differenti (la città svizzero-tedesca, il paesino in una valle del Ticino o la realtà urbana romanda), ma accomunati dagli stessi problemi ancora irrisolti. Come il recente Locarno Film Festival, anche lo ZFF ha dovuto fare i conti con un calo di spettatori. Le sale – vuoi per le norme anti-covid, vuoi per un certo timore degli spettatori – non si sono mai riempite del tutto. Una minore affluenza che si è notata anche tra gli addetti ai lavori, meno presenti che in altre edizioni del festival. Una rassegna pur sempre interessante, che però deve capire dove vuole andare per continuare ad avere successo. L’impressione è che stia ancora cercando una propria strada tra i vari concorsi, le serate di gala, i film che arrivano dagli altri festival e le star. Ormai l’adolescenza è finita e l’anno prossimo, con la 18esima edizione, ZFF raggiungerà la maggiore età. annuncio pubblicitario
riflessioni, magia e grandi classici In scena Dal Festival Internazionale
del Teatro a una danza per la terra
Azione 5.10 – 18. 10. 2021
Giorgio Thoeni La 30esima edizione del Festival Internazionale del Teatro ha aperto a Lugano i suoi battenti sul palco del LAC con Fedra, classico rivisitato ora anche da Leonardo Lidi in un gioco delle parti dove la drammaturgia e la riscrittura segnano punti a favore di una riuscita commistione di generi. Da Fedra col suo doppio (Maria Pilar Pèrez Aspa e Francesca Porrini) in un dialogo in panchina in stile boulevardier che, in assenza del marito Teseo, svela passione e desiderio per il figliastro Ippolito (Alessandro Bandini) in un intreccio di carnalità repressa dove affiora la misoginia di lui e una foia che coinvolge anche la sorellastra Strofe (Marta Malvestiti). Una tragedia che rimane nell’ombra fino all’urlo di Fedra che dopo aver fatto l’amore con Ippolito si suicida accusandolo di stupro. E gli ingredienti ci sono tutti. Ma il gioco si spinge oltre fino a imprigionare quei personaggi incestuosi in una gabbia e isolandoli dalla platea con la saracinesca frangifuoco. Si prepara il colpo da maestro per il lungo e superbo monologo conclusivo di Teseo (Christian La Rosa). Torna dagli inferi, bussa invano al palazzo, si interroga, ricostruisce il dramma, scopre il disastro. Un folle epilogo immerso nei versi della classicità, il confronto con Ippolito, l’ingresso di Artemide e del messaggero: un concerto di personaggi per sola voce. È il preludio alla na-
scita del mito dall’eco ancestrale della colpa e del potere degli dei. Nelle vene della terra fra danza e poesia
Quando la parola conquista il corpo per trasformarsi in danza assistiamo a una sorta d’incantesimo che conquista lo sguardo e libera la fantasia. È l’alchimia creativa di Tiziana Arnaboldi con la sua compagnia in un dialogo con le arti dove regna la poesia. L’artista ha messo in scena sul palco del San Materno i canti di Alberto Nessi letti dall’autore e coreografati per sei danzatori. Ognuno di essi ha scelto di accompagnare i movimenti adottando la lingua dei segni sui versi di Nessi dando allo spettacolo Nelle vene della terra un valore aggiunto, unico e particolare. Un giardino danzato, un inno alla semplicità resa fra montarucoli di terra sistemati sulla scena da cui aprirsi un varco. Una danza fra le parole del poeta: Sono con te, cammino col tuo passo (…) batte il mio cuore col tuo passo di danza (…) cammino tra lo stupore (…) cammino nelle vene della terra (…) cammino con la meraviglia (…): frammenti di un percorso che diventa tessitura di corpi, passi scivolati fra cerchi di terriccio dove incontriamo le nostre ombre di ieri (…). Accompagnati dai suoni e dalle musiche di Mauro Casappa i danzatori Nuria Prazak, Camilla Stanga, Justine Tourillon, Lisa Magnan, Maxime Freixas e Francesco Colaleo per il meritato successo della nuova produzione.
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cultura e spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno gambarotta Il signor Giovanni e lo smartphone Vivere in una famiglia di accaniti lettori di libri gialli presenta molti vantaggi. Il signor Giovanni se ne rende conto e se ne compiace. La passione per il genere giallo si riverbera anche sulle notizie di cronaca nera, lette avidamente e commentate a tavola. Non c’è pericolo che nei pranzi e nelle cene con le tre figlie, la moglie e una zia della moglie, i commensali siano a corto di argomenti. Giovanni per lo più tace poiché nei giorni in cui un caso interessante è alla ribalta della cronaca è impossibile mettere le mani sul giornale. Si limita ad ascoltare le discussioni, rimestando col cucchiaio nella squisita zuppa di trippa e fagioli: «Ma non capisci che non può essere stato l’amante a ucciderla? Che bisogna aveva di squarciarle il ventre e sparpagliare gli intestini in giro per la casa?» «Va bene, ammettiamo per un momento che l’assassino non sia l’amante. Chi è stato, il marito forse? Dimentichi che quando è andato a fare un prelievo per un’analisi è svenuto alla
vista del sangue, abbiamo la testimonianza dell’infermiera». Il signor Giovanni allontana il piatto di trippa e inizia a mangiare il secondo: würstel con purea. «Sarà anche svenuto il tuo marito tanto sensibile al sangue, ma due anni fa, quando ha scoperto che il socio lo derubava, con un colpo di scure gli ha tagliato di netto tre dita della mano sinistra; due gliele hanno riattaccate, ma la terza no, non l’hanno più trovata, l’aveva già mangiata il gatto». Viene il giorno della rivincita. Il signor Giovanni torna a casa con qualcosa che lo sottrarrà al ruolo di semplice spettatore e per una volta lo metterà al centro della ribalta. Si siede a tavola e come un prestigiatore dal suo cilindro tira fuori di tasca un ultimo modello di smartphone, quello che ti fa sapere che tempo fa a Pechino, ti fa l’oroscopo, ti misura la pressione e il colesterolo, dice sempre dove ti trovi nel caso ti fossi smarrito. Usarlo solo per telefonare è da analfabeti di ritorno. Poiché il signor Giovanni, vecchio libe-
rale geloso della sua privacy, si è sempre opposto al pressante invito di dotarsi di un cellulare, il gesto è salutato con vive espressioni di giubilo: «Evviva! Ti sei deciso finalmente! Era ora!» «Che cosa credete? Che l’abbia comprato? Questo aggeggio non è mio». «L’hai rubato!», esclama la moglie che ha sempre avuto un’alta considerazione per il marito. «Ma no! L’ho trovato per terra, qualcuno senza accorgersene l’ha lasciato cadere e io l’ho raccolto prima che un’auto lo schiacciasse». «Sei pazzo!», gridano in coro le cinque donne e istintivamente allontanano le sedie dal tavolo dov’è posato l’innocente ordigno. «Mica voglio tenerlo! Se voi che siete esperte di questi cosi mi aiutate, riusciamo a sapere chi è il suo padrone e a restituirglielo». «Ma ci sei o ci fai? Non sai che oramai la polizia risolve i casi e trova i colpevoli degli ultimi delitti grazie alle tracce che trova sui cellulari?» «Non sono un delinquente! Non ho niente da nascondere, voglio solo fare il mio dovere di cittadino
onesto e rispettoso delle leggi». «Oramai la frittata è fatta. L’importante adesso è non toccarlo, non farci niente, al massino cancellare le tue impronte. Perché tu non ha provato a farlo funzionare, vero che non hai provato?», gli domanda la più apprensiva delle figlie. «Giura che non lo hai fatto funzionare», lo implora. Il signor Giovanni è sulla difensiva: «Be’, non so se l’ho fatto funzionare. Ho solo schiacciato qualche tasto qua e là per vedere se saltava fuori il nome del suo possessore». «È finita», gemono in coro le cinque lettrici di gialli. «Nessuno perde volontariamente il cellulare, i criminali l’hanno lasciato lì apposta per depistare le indagini. Da un’altra parte della città stanno realizzando il colpo del secolo e intanto la polizia cerca il cellulare seguendo i segnali che manda per segnalare la sua posizione. È un depistaggio da manuale del crimine. Fra pochi minuti verrà qui la squadra anti crimine, ti preleveranno per portarti in camera di sicurezza. Ti spareranno la
luce negli occhi e ti chiederanno i nomi dei tuoi complici e dove hai messo il malloppo. E tu confesserai». «Io dirò la pura e semplice verità, dirò che l’ho trovato in corso Sebastopoli, davanti allo sportello del Bancomat. Qualcuno ha fatto un prelievo e senza accorgersene ha lasciato cadere questo arnese». Le cinque donne sono costrette a cambiare la trama: «Eccola la spiegazione. Doveva squillare per dare il segnale ai complici che l’uomo che usciva dalla banca era quello da prendere in ostaggio. Adesso quei poveretti sono lì che aspettano, hanno fame e sete ma non possono muoversi». «Se la prenderanno con te che gli hai portato via lo strumento di lavoro! Ti chiederanno i danni, ti peleranno vivo!». Se la scorsa notte, alle tre, avete notato un tale davanti alla filiale di una banca che con fare guardingo, posava per terra uno smartphone, niente paura, era il signor Giovanni, controllato a vista da cinque donne acquattate nell’auto parcheggiata poco lontano.
forse avrebbe idee più interessanti, però non lo chiamano, peccato, sarebbe una voce nuova e magari più acuta; poi c’è il filosofo, chissà cosa vuol dire, anche questa è una parte, cioè un personaggio, come nel mondo dei burattini, che c’è l’avaro, l’amoroso, la bella servetta, Arlecchino, Sganapino; Pulcinella che ha sempre fame, il dottor Balanzone, che dovrebbe essere dotto, una specie di tecnico se lo invitassero in televisione, solo che svelerebbe che è solo un burattino, il copione non è scritto, ma ognuno ha una caratteristica, in modo da rappresentare democraticamente la varietà umana, ma sono sempre gli stessi, una trentina, e ricompaiono in ogni spettacolo, il tecnico, il litigioso, la femminista scrittrice, lo scrittore anche lui femminista; e poi l’omosessuale iracondo e ciccione, con la parrucca perché sotto è calvo e sembrerebbe un vecchio preside, non vuole si veda, e allora si mette in maschera, poveretto, a che bassezze scende l’umanità! Ma
questi sono buffoni, come ce ne sono al circo equestre; solo che i clown sono artisti, è un lavoro difficile, si dichiarano tali, non sono opinionisti; come quell’altro, di fronte al quale perdo la forza di vivere, che fa l’uomo dei boschi venuto a dire la sua opinione, porta un gilet senza maniche, che nei boschi è poco adatto, ci sono i rovi, c’è la sterpaglia, il nome non me lo ricordo, e in testa ha un fazzoletto come i pirati, si decida! vuole fare il montanaro o il pirata? perché anche gli amuleti che porta e le collane sono da pirata. Beh! non importa, è assoldato come buffone generico, che però dice la sua opinione, a sentirlo mi deprimo, cazzate, cazzate. Ma mi deprimo di più se c’è un comico. Che compito hanno coloro chiamati comici? Di imitare i loro colleghi televisivi; sembra che la comicità sia questo, imitare; e gli imitati sono i trenta opinionisti, tutto in famiglia, ogni sera, per tutto l’anno, e non essendoci più il fuoco del caminetto, il cittadino
inerme, che ha avuto l’idea sbagliata di comprarsi il televisore, esposto con troppa frequenza a questo spettacolo, io dico che prima o poi si spara, o come minimo ha l’impulso a spararsi, capendo che è inutile sparare al televisore. Per questo credo sia giusta la legge che vieta la libera detenzione di armi, anzi la rafforzerei, chiunque per effetto della televisione dimostri stati di ira e di squilibrio mentale, chiunque imprechi guardando la TV e dia in escandescenze contro lo schermo e le figure che si muovono dentro, costui è in pericolo, gli si tolga il porto d’armi se ce l’ha, gli si tolga il fucile da caccia, anche fosse arrugginito troverebbe modo di spararsi, non perché ha visto un politico avverso, ma perché l’esposizione prolungata alla TV genera una tipica sindrome, per cui l’uomo comune, in mancanza di un canale di sfogo, si sfoga su sé stesso sparandosi. Qualcuno va in bagno e si annega o tenta di annegarsi sotto la doccia. In tal caso la legge è impotente.
Mai che dica «bambini», anzi quasi mai, perché c’è qualche eccezione. Come quando da ministro spiegava su Twitter a proposito dei migranti: «Il nostro obiettivo per il futuro è che queste persone, innanzitutto donne e bambini, non partano e non muoiano più». Oppure, di recente, nell’auspicare «corridoi umanitari dall’Afghanistan solo per donne e bambini». Bimbi i nostri figli, bambini quelli degli altri? Forse la distinzione etnico-stilistica non è sempre così netta, ma ci andiamo vicini. Fatto sta che mandare al macello certi modi di esprimersi non sarebbe male. Come ha fatto il Movimento grillino. Che con il nuovo leader, l’avvocato ed ex premier Giuseppe Conte (4+), recupera lo stile della Prima Repubblica: quello degli eufemismi, delle «convergenze parallele» e della «manodopera disponibile» per parlare di disoccupati. L’ossessione del professor Conte, nei talk show, è la qualifica. Tutti dottori: «Vorrei rispondere al
dottor Giannini…», «Vede, dottor Floris…», «Mi rivolgo a lei, dottoressa D’Amico…», eccetera. La quale Ilaria D’Amico (5+) in un delizioso siparietto televisivo si è difesa: «Mi chiami signora D’Amico, non ho mai preso la laurea…». È la nuova-vecchia comunicazione pentastellata del dopo-vaffa. C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole anzi d’antico, direbbe il dottor professor Giovanni Pascoli (6++). Vi ricordate? «Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza…». No, a pencolare non è il (quasi) dottor Salvini, e neanche il presidente professor dottor Conte. È l’aquilone cantato dal poeta, quello che piaceva tanto ai nostri bimbi e piacerebbe molto ai bambini afghani se quel gioco, diventato simbolo dei diritti negati, non fosse proibito dai talebani, come racconta Khaled Hosseini (dottore anche lui?) in un famoso romanzo (Il cacciatore di aquiloni, 5+). Il (quasi) dottor Salvini ama mandare non aquiloni ma affettuosi «bacioni» ai suoi avversari politici (e
agli immigrati) proprio mentre da anni la cosiddetta Bestia, il sistema di comunicazione social della Lega, invia insulti velenosi a chiunque capiti sotto tiro. Il metodo tritacarne è stato inventato e gestito brillantemente (1-) dal suo spin doctor (eccolo là!), il dottor Luca Morisi, che adesso è coinvolto in uno scandalo legato alla droga. La stessa droga contro cui la Bestia del dottor Morisi ha condotto una campagna spesso pretestuosa e indiscriminata per anni, compresa la scenetta con il (quasi) dottor Salvini che, in campagna elettorale, a Bologna va a citofonare sotto casa di un sospetto spacciatore tunisino: «Scusi, mi dicono che lei è uno spacciatore… Posso salire?». Neanche il dottor Dante Alighieri (10) avrebbe immaginato contrappasso più efficace: occhio per occhio, dente per dente, droga per droga, l’intenzione di salire («posso salire?») con il risultato di precipitare. Tutti i bimbi mandano bacioni. E i bambini aquiloni.
Un mondo storto di ermanno Cavazzoni Il pericolo della tV Uno guarda la televisione e dopo un po’ desidera spararsi. Un tempo c’era il focolare, coi nonni, i figli piccoli, ci si raccontava qualcosa; se uno era solo, seduto accanto al fuoco, pensava; era bellissima anche la malinconia. Oggi c’è il termosifone o il riscaldamento a pavimento. E c’è la televisione, uno la guarda, un’idiozia dietro l’altra, e desidera spararsi. Cioè, prima vorrebbe sparare alla televisione, quando compare il conduttore, l’uno o l’altro è lo stesso, o la conduttrice, tutta gonfia e artificiale, è legittimo esserlo, certo! ma è da qui che inizia lo scoramento, non perché è artificiale, ma perché è sempre la stessa, indistinguibile dalle altre della stessa categoria, e pone le questioni del giorno come fossero dei grandi eventi, e invece sono cazzate, sempre le stesse, girate in un verso o in un altro, che cosa ha detto il tale del tal altro, che cosa il tal altro del tale, e il tale che cosa ha risposto, cazzate, sempre cazzate inutili, e se per caso, ma raramente, si
tratta di eventi importanti, il chiacchiericcio li fa diventare cazzate ripetute ogni giorno con piccole modificazioni, su cui fanno sentire le loro opinioni gli opinionisti, anche loro sempre gli stessi, che ruotano, da un programma all’altro, a volte è il conduttore di un programma che fa l’opinionista in un altro, o viceversa, l’importante è che reciti la sua parte, c’è l’iroso, c’è lo scrittore specializzato in banalità civiche, c’è il patriottardo che ha un solo argomento e non si scosta da quello, c’è il conservatore che dice di parlare solo con il buonsenso, c’è il tecnico, che parla da tecnico e ci sarebbe da credergli, se un altro tecnico non parlasse diverso, non si contraddicessero, svelando che sono opinionisti anche loro e solo tecnici nella parte per cui sono pagati; poi c’è quello che non sa niente ma è stato a letto con la tal dei tali o ha partecipato a un gioco a quiz o a un gioco da spiaggia, però dice la sua opinione, che vale come un soldo bucato, un merlo parlante
Voti d’aria di Paolo Di stefano Bimbi, bestie e bambini Prudenza sulla salute dei bimbi. È l’invito che ci arriva da Matteo Salvini. Il quale, prima dell’apertura delle scuole, ha dichiarato: «Il nostro obiettivo è che tutti i bimbi e tutti gli insegnanti entrino in classe». In giugno, alludendo ai vaccini, ha diffidato dal «mandare al macello (sic!) migliaia di ragazzi e di bimbi…». Al Meeting ciellino di Rimini (4-) si è augurato: «che non si arrivi a mettere mascherine obbligatorie ai bimbi di sei anni». Più in là ha ripetuto: «Sull’obbligo vaccinale ai bimbi non sarò mai d’accordo», insistendo che «quando si parla di bimbi e di ragazzi bisogna stare molto molto molto attenti». Tre volte molto. Cautela condivisibile, anche se sostenere che vaccinare i bimbi di dodici anni significa «mandarli al macello» è alquanto fuori misura (1). L’uso da parte di Salvini della variante affettuosa-affettiva «bimbo» al posto del più banale «bambino» è ostentatamente desueto, trattandosi di un termine che ormai è difficile trovare
persino nelle traduzioni più aggiornate delle fiabe dei fratelli Grimm. È però in linea con l’afflato familiare del leader leghista e con il continuo richiamo ai suoi figli, e più in generale alla sfera degli affetti e dei sentimenti domestici. Ma dimostra anche ciò che vanno sostenendo da sempre i linguisti: i sinonimi in realtà non esistono, poiché ogni parola ha connotazioni sue proprie. Tanto più se ricondotte al contesto: e il contesto linguistico salviniano è per lo più tutt’altro che delicato («mandare al macello...»). Del resto, va precisato che Salvini, grazie al suo leggendario spin doctor, ha una coerenza stilistica (2) e già quando si è trattato di urlare allo scandalo di Bibbiano (sulla rete illecita di adozioni minorili nel paese amministrato dalla sinistra) ha sempre preferito parlare dei «diecimila bimbi sottratti alle famiglie». Così, sul disegno di legge Zan contro l’omotransfobia avverte che «l’educazione di un bimbo non spetta allo Stato».
Settimana Migros
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CONSIGLIO DEGLI ESPERTI Al bancone della carne si possono ricevere consigli professionali sulla preparazione, anche per la selvaggina. Per esempio la cottura ideale di un'entrecôte di cervo prevede che la carne resti rosa. La temperatura al cuore deve essere di circa 58°C. Un termometro per carne aiuta a determinare con precisione la temperatura. Hai dei dubbi sulla quantità? Anche in questo caso i nostri macellai possono aiutarti.
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Selvaggina fresca in vendita al banco
Svizzera, per 100 g, in self-service
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Filetto di salmone bio con pelle d’allevamento, Norvegia, 300 g, in self-service
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Migros Ticino
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Formaggi e latticini
Una delizia fondente
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La crème de la crème
CONSIGLIO DEGLI ESPERTI La mezza panna per salse si lega bene grazie agli addensanti e stabilizzanti. Pertanto l'utilizzo di farina o amido è superfluo. È particolarmente adatta per i piatti a base di vino bianco, ricchi di acidi.
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Fol Epi a fette Classic e Légère, in confezioni speciali, per es. Classic, 462 g, 6.95 invece di 9.05
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Migros Ticino
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2.80
Ticinese rustico, IP-SUISSE 400 g, confezionato
300 g
Offerte valide solo dal 5.10 all’11.10.2021, fino a esaurimento dello stock
Dolce e salato
Per i piccoli momenti gustosi della giornata
Hit 4.40
LO SAPEVI? V-Love lancia nel commercio al dettaglio svizzero la prima millefoglie vegana prodotta dalla Jowa, un'impresa della Migros. Affinché il dessert sia cremoso come quello originale, le fasi di realizzazione restano invariate. La ricetta prevede ingredienti di origine vegetale, proprio all'insegna del motto «La tradizione incontra l'innovazione».
Tiramisù in tranci 275 g, confezionato
Se nza conse rv an né aromi art ific ti iali o coloranti
20x PUNTI
a partire da 2 pezzi
50%
Novità
5.30
Cake di spelta e mele bio
Pizza twister e twister lampone/cioccolato
260 g, confezionato
per es. pizza twister, 70 g, il pezzo, –.90 invece di 1.80
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Novità
2.95 Migros Ticino
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Millefoglie plant-based V-Love 2 pezzi, 157 g, confezionata
20% Tutte le miscele per dolci Homemade, tutti i Cup Lovers e tutti i dessert in polvere (prodotti Alnatura esclusi), per es. brownies Homemade, 490 g, 4.90 invece di 6.10
conf. da 2
21% 3.–
a partire da 2 pezzi
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Hit 4.70
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Tutti i gelati Crème d'or in vaschette da 750 ml e 1000 ml surgelati, per es. vanille Bourbon, 1000 ml, 8.– invece di 9.95
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Hit 9.50
conf. da 10
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al latte o assortite, 200 g + 50 g gratis, per es. al latte, 250 g
Knoppers in conf. speciale, 15 x 25 g
Tutte le tavolette di cioccolato Lindt per es. al latte finissimo, 100 g, 1.95 invece di 2.40
Hit 9.95
Giandor o Noxana, per es. Giandor, 10 x 100 g, 11.70 invece di 19.50
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Tavolette di cioccolato Frey
Cioccolatini Swiss Premium Minis assortiti Lindt da 500 g e da 1 kg, per es. 500 g, 11.– invece di 18.95
Mixed Minis in conf. speciale, 56 pezzi, 1,13 kg
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Novità
Salatini da aperitivo Party
Salatini da aperitivo Gran Pavesi
Barretta di noci Farmer
cracker alla pizza o cracker salati, in confezioni speciali, per es. cracker alla pizza, 450 g, 5.75 invece di 7.20
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nocciola e mandorla o fico e mandorla, 6 x 30 g, per es. nocciola e mandorla, 4.90
Migros Ticino
Offerte valide solo dal 5.10 all’11.10.2021, fino a esaurimento dello stock
Scorta
Per le scorte gustose
Con ripie no di pomodori e mozzare lla conf. da 2
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Gnocchi alla caprese o fiori al limone e formaggio fresco Anna's Best
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Tutte le minestre Bon Chef
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Un c lassic o d a se mp r e
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