Cooperativa Migros Ticino
Società e territorio La vivace realtà del Centro Giovani E20 di Cevio
ambiente e Benessere Il Centro di Senologia della Clinica Sant’Anna di Sorengo sarà presente giovedì 14 ottobre a Lugano con un presidio informativo sulla prevenzione del tumore al seno
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 11 ottobre 2021
azione 41 politica e economia Lo shock energetico colpisce tutti, dalla Cina agli Stati uniti
cultura e Spettacoli A Lugano la Collezione Olgiati omaggia lo scultore Consagra
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un aiuto per ricaricare i genitori
di Monica Müller pagina 7
Quei paradisi per soli ricchi di Peter Schiesser Dopo i «Panama Papers», ecco i «Pandora Papers», che rivelano i segreti di 14 studi legali specializzati nel creare società offshore nei paradisi fiscali più opachi del mondo (Belize, British Virgin Islands, Cipro, Dubai eccetera). Questa volta il Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (ICIJ), di cui fanno parte 150 media internazionali, ha ottenuto da una fonte anonima 12 milioni di documenti segreti. Se cinque anni fa i documenti provenienti dallo studio legale panamense Mossack Fonseca avevano fatto scalpore, questa volta si tratta di un terremoto planetario, che mostra con dovizia di particolari in che modo 300 politici, fra cui 35 capi di Stato o di governo presenti e passati, 130 miliardari e tanti altri VIP, ma anche noti delinquenti, hanno occultato centinaia di milioni di dollari per evadere imposte, acquistato proprietà, in alcuni casi riciclato denaro sporco (frutto di corruzione o altri reati criminali). Qualche nome? Re Abdallah II di Giordania, l’entourage di Vladimir Putin, l’ex direttore della Petrobras brasiliana (al centro di un continentale schema di corruzione) Roberto Costa, ma anche l’ex premier britan-
nico Tony Blair, il primo ministro ceco Andrej Babis, il presidente ucraino Volodymir Zelenski. La linea di difesa generale, fra coloro che hanno risposto alle domande dello ICIJ, è che è tutto legale, nel rispetto delle norme dei paesi in cui le società offshore sono state create e dei paesi da cui i capitali provengono. Su come questi capitali siano stati ammassati si spendono poche parole, lasciando il dubbio se siano frutto di attività criminali o legali. Ma questa supposta legalità non fa che sollevare una volta di più la questione se i paradisi fiscali e le società offshore siano ancora accettabili in un mondo finanziario che da anni si sforza di combattere il riciclaggio di denaro sporco e in una realtà politica (almeno in Occidente) in cui cresce la consapevolezza che l’evasione fiscale toglie risorse agli Stati per i loro compiti sociali. Secondo stime pubblicate da «Le Monde» le società offshore amministrano capitali stimati in 8700 miliardi di dollari. I «Panama Papers» e i «Pandora Papers» sono solo la punta dell’iceberg. In Svizzera, lo scandalo dei «Panama Papers» aveva spinto il Consiglio federale a proporre una revisione della legge sul riciclaggio di denaro, allargando la cosiddetta due diligence (l’obbligo di
conoscere il reale beneficiario dei capitali, come pure di prestare attenzione alle politically exposed persons), valida per gli istituti bancari, anche agli intermediari finanziari e agli studi notarili. Ma, nonostante l’appoggio alla revisione da parte del settore bancario, nel marzo scorso le Camere federali avevano bocciato la revisione, accampando la necessità di difendere il segreto professionale di avvocati e notai. Ora però si nota che basta un certo numero di pecore nere fra gli intermediari finanziari per tenere in piedi un colossale sistema di capitali non dichiarati, di operazioni finanziarie e immobiliari segrete. E la Svizzera, come in passato quando esisteva il segreto bancario che invitava a evadere le imposte e a riciclare denaro sporco, è di nuovo al centro dell’attenzione mondiale: il «Tages Anzeiger», che fa parte dello ICIJ, nota che in uno studio notarile caraibico 7000 delle 20mila società offshore create sono gestite da intermediari svizzeri. Esponenti del mondo bancario svizzero, come il consigliere nazionale Hans-Peter Portmann, ma anche esperti ed ex funzionari attivi nella lotta al riciclaggio, sono concordi nel ritenere che i «Pandora Papers» creano un enorme danno alla piazza finanziaria svizzera e che la legge svizzera va al più presto corretta.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 ottobre 2021 • N. 41
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attualità migros
la musica della speranza
music4hope Il 30 ottobre a Lugano un eccezionale concerto con i Gotthard per sostenere
l’attività della Greenhope Foundation
Giornata di studio
Il Movimento si riunisce a Bellinzona il 13 ottobre
Greenhope è una fondazione nata dall’impegno di due amici, i quali hanno deciso di unire le loro forze organizzando iniziative di pubblica utilità, che collegano la pratica sportiva alla lotta alla malattia tumorale. Il loro impegno va da un lato nel sostegno alle famiglie che hanno bambini malati, offrendo loro la possibilità di programmare dei momenti di svago e in cui trascorrere momenti di tranquillità e relax, per affrontare poi con rinnovate energie la loro situazione. In questo contesto Greenhope favorisce il contatto tra persone coinvolte, sollecitando anche uno scambio di esperienze positivo e utile. D’altro canto la fondazione si impegna a sostenere, in forma materiale e finanziaria, giovani atleti emergenti e settori giovanili di società sportive. In questo modo i giovani talenti possono godere di un aiuto concreto nella costruzione del propria carriera agonistica, arricchendo al contempo il proprio bagaglio di esperienze grazie all’aspetto più sociale di Greenhope.
Un’iniziativa di solidarietà che intende raccogliere fondi per le famiglie e per gli sportivi In occasione dei 10 anni dalla nascita di Greenhope i fondatori hanno deciso di organizzare una serie di eventi in cui continuare la propria raccolta di fondi e condividere con un pubblico più ampio la missione della loro fondazione. Tra i momenti clou di questo programma di festeggiamenti c’è il concerto con la band svizzera dei Gotthard, che si terrà al Palazzo dei Congressi di Lugano il 30 ottobre prossimo. Un evento fortemente voluto dal consiglio di fondazione, al quale
La nuova formazione si presenta per la prima volta in Ticino, in attesa del nuovo tour. (manuel schütz photography)
parteciperanno anche moltissime famiglie provenienti da tutta la Svizzera, le quali godranno un bel programma completo durante tutto il weekend. I biglietti saranno in numero limitato. Il concerto è sostenuto dal Percento culturale di Migros Ticino. Per i Gotthard quello di Lugano sarà il primo concerto dell’anno. Per il loro pubblico di casa sarà l’occasione per conoscere il nuovo batterista, Flavio Mezzodì, che ha preso il posto di Hena Habegger dallo scorso aprile. Il gruppo che, ricordiamo, ha venduto più di 3 milioni di dischi e ha partecipato a più di 2000 concerti, si appresta a iniziare una nuova tournée (l’ultima era stata rimandata a causa della pandemia) il prossimo 2 dicembre. Ricordiamo che il loro ultimo disco è «#13»
del 2020. In Ticino i Gotthard mancano da qualche tempo: li abbiamo sentiti le ultime volte a Moon&Stars nel 2017 e a Castle on air nel 2018. Dopo la pausa
forzata del 2020, è l’occasione per riascoltare dal vivo questo gruppo storico, che si avvicina ormai alla soglia dei 30 anni di carriera.
Biglietti in palio «Azione», in collaborazione con Greenhope, mette in palio tra i suoi lettori alcune coppie di biglietti per il concerto dei Gotthard del 30 ottobre al Palazzo dei Congressi di Lugano. Per partecipare all’estrazione basta inviare una email con oggetto «Music4hope» all’indirizzo giochi@ azione.ch entro le 24.00 di mercoledì 13 ottobre. Nel corpo del messaggio
occorre indicare, nome, cognome, indirizzo, domicilio, numero di telefono, email, di entrambe le persone partecipanti. Ricordiamo che in base alle norme vigenti, l’accesso al concerto è consentito solo presentando Certificato Covid e un documento di identità. I biglietti non potranno quindi esser trasmessi a terze persone.
tante storie appese ai fili
marionette a lugano Al via la 39esima edizione del Festival di Michel Poletti Si terrà dal 16 ottobre al 7 novembre 2021 al Teatro Foce la nuova edizione del festival creato e organizzato da Michel Poletti e sostenuto dal Percento culturale di Migros Ticino. Come per le scorse edizioni la proposta è ricca di sorprese e di scoperte che sapranno divertire i piccoli spettatori e i loro accompagnatori adulti. Il programma
Sa 16 ottobre, ore 15.00 LA TERRIBILE E SPIETATA BATTAGLIA TRA ORLANDO E RINALDO PER AMORE DELLA BELLA ANGELICA Teatroggi – Opera dei pupi siciliani. Dai 5 anni Do 17 ottobre, ore 11.00 IL TOPO DI CAMPAGNA E IL TOPO DI CITTÀ Teatro Glug. Dai 3 anni Do 17 ottobre, ore 16.00 IL CARNEVALE DEGLI ANIMALI
azione
Settimanale edito da migros ticino Fondato nel 1938 redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Federico Pieri. Dai 5 anni Me 20 ottobre, ore 15.00 I SEGRETI DEGLI GNOMI Lucia Osellieri. Dai 3 anni
Biglietti in palio «Azione» offre ai suoi lettori sette coppie di biglietti omaggio per lo spettacolo d’apertura del Festival: 16 ottobre 2021, LA TERRIBILE E SPIETATA BATTAGLIA TRA ORLANDO E RINALDO PER AMORE DELLA BELLA ANGELICA. Per partecipare all’estrazione occorre inviare una email con oggetto «Marionette» all’indirizzo giochi@ azione.ch, indicando nome, cognome, indirizzo, domicilio, numero di telefono entro le 24.00 di mercoledì 13 ottobre. Buona fortuna! Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
ottavo convegno per avaeva
Sa 23 ottobre, ore 15.00 LE PENNE DELL’ORCO Teatro delle dodici lune. Dai 5 anni Do 24 ottobre, ore 11.00 MY SHADOW AND ME (Io e la mia ombra) Drew Colby. Per tutti, dai 4 anni Do 24 ottobre, ore 16.00 IL CABARET DEI PIEDI Veronica Gonzalez. Per tutti, dai 5 anni Me 27 ottobre, ore 15.00 STORIE MANNARE Laboratorio del Mago. Dai 4 anni Do 31 ottobre, ore 11.00 IL SOGNO DI UN BURATTINO Gino Balestrino . Dai 3 anni Domenica 31 ottobre, ore 16.00 FAVOLE DI ANIMALI Teatro dell’Erba Matta. Dai 4 anni Gio 4 novembre, ore 17.00 e 19.00 IL PICCOLO PRINCIPE editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
Musicateatro & Teatrino dell’Es Dai 5 anni Sa 6 novembre, ore 15.00 I TRE PORCELLINI Koekla Dai 3 anni Domenica 7 novembre, ore 11.00 CAMMINANDO SOTTO I FILI Nadia Imperio Dai 5 anni
l Movimento AvaEva è un’associazione che promuove reti di contatto per le donne della generazione delle nonne e dà una voce ai temi che le concernono. Sostiene progetti diversificati autogestiti da gruppi di donne della generazione delle nonne. Unendosi e rafforzando le loro competenze le donne di AvaEva riflettono su un’altra vecchiaia, elaborando idee su come mantenere e migliorare la qualità di vita in età avanzata e sviluppando contributi per chi verrà dopo di loro. Il prossimo 13 ottobre AvaEva propone il suo 8° Convegno e giornata d’incontro. All’ Hotel Unione, in Via Henri Guisan 1, Bellinzona, (inizio ore 13.30) è prevista una giornata di studio in cui si affronterà il tema «Maltrattamento e abuso» legato alla presa a carico di persone anziane affette da demenza. L’accudimento di un familiare anziano, malato, con problemi di demenza può diventare un peso importante da sostenere per il caregiver. Il sovraffaticamento, la sensazione di impotenza e di non farcela possono portare purtroppo a volte a reazioni che possono eventualmente sfociare nel maltrattamento, sia esso verbale, psicologico, fisico. La pandemia ha fatto sì che ci si ritrovasse improvvisamente confinati in casa, cancellando di colpo tutti i rapporti sociali. Questo ha significato, per alcuni, l’impossibilità di allontanarsi da situazioni di disagio o maltrattamento. Inoltre, ha probabilmente reso ancor più difficoltosa la segnalazione dei casi di maltrattamento (il portale «Vecchiaia senza violenza» ha registrato nel 2020 circa 200 casi di violenza ai danni degli anziani in Svizzera). Non possiamo escludere che i numeri siano più alti di quelli delle statistiche e che una certa fetta di casi rimanga purtroppo sommersa. Auspichiamo che una maggior consapevolezza del problema a livello sociale possa incentivare la ricerca di soluzioni e soprattutto promuovere la prevenzione, facendo in modo che anche i familiari curanti possano avere un supporto per accudire al meglio i propri familiari. Relatrici del Convegno sono due esperte del settore, la Prof.ssa Carla Sargenti e la Dott.ssa Francesca Ravera: con loro sarà analizzato il fenomeno del maltrattamento approcciando il tema da due differenti punti di vista per comprenderne le varie sfaccettature. per informazioni
info@avaeva.ch ; www. avaeva.ch
Domenica 7 novembre, ore 16.00 MANGIAFUOCO, PINOCCHIO, E ... Teatro le Giravolte Dai 4 anni Informazioni
I biglietti sono acquistabili anticipatamente online tramite il sito biglietteria.ch (apertura cassa: mezz’ora prima dell’inizio degli spettacoli) Adulti: CHF 22.–, Bambini, studenti, AVS: CHF 16.– tiratura 101’177 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
AvaEva è sostenuta dal Percento culturale di Migros. abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 ottobre 2021 • N. 41
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Società e territorio protezione dell’infanzia La nuova campagna #refeel si rivolge ai genitori che hanno esaurito le energie. Intervista al pediatra Georg Staubli
Sviluppo sostenibile La Confederazione sostiene una serie di progetti innovativi e sperimentali per migliorare la qualità di vita, tre sono nella Svizzera italiana pagina 9
Il caffè delle mamme Che rapporto hanno le ragazze della Generazione Z con il femminismo? Ne parliamo con Jennifer Guerra pagina 9
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centovalli Una giornata sulla Via del Mercato tra Intragna e Camedo, alla scoperta di un’antica mulattiera d’importanza nazionale
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un polpofante per i giovani vallemaggia Scopriamo la vivace
attività del Centro Giovani E20 di Cevio accompagnati dai ragazzi e dal responsabile Joshi Pina
Stefania Hubmann Hanno scelto quale simbolo che li rappresenta il «Polpofante», un colorato elefante con numerosi tentacoli da polpo, per richiamare l’idea di libertà così come l’esigenza di ragazze e ragazzi di poter essere se stessi nella loro unicità. Il murale è stato dipinto la scorsa estate all’entrata del Centro Giovani E20, gestito a Cevio da Pro Juventute tramite l’Ufficio regionale Ticino. Dopo 25 anni di attività la struttura, che ha sede in una casa della Parrocchia, ha conosciuto un rilancio sia nella forma, sia nei contenuti, pensati e attuati assieme agli adolescenti che la frequentano. Abbiamo incontrato il coordinatore responsabile Joshi Pina un mercoledì durante l’apertura pomeridiana, così da poter discutere anche con alcuni giovani e cogliere pienamente l’atmosfera di E20. Il nome del Centro Giovani di Cevio è rimasto quello originale, legato agli eventi che avevano caratterizzato i primi anni di attività. «Per rilanciare E20 – spiega Joshi Pina che ha raccolto la sfida due anni or sono – occorreva che il medesimo potesse offrire contenuti in sintonia con le esigenze degli adolescenti di oggi. Biliardo, calcetto e ping pong sono giochi ancora utilizzati, ma devono essere affiancati da altre proposte. Per questo sul palco abbiamo realizzato un piccolo set fotografico offrendo spazio alla produzione e al montaggio di video. Abbiamo inoltre messo a disposizione il wi-fi nell’ottica di un utilizzo consapevole di smartphone e internet». L’attività del Centro giovani si inserisce, infatti, nella strategia di Pro Juventute mirata a permettere a ragazze e ragazzi di compiere un percorso di crescita. Basata sui diritti per l’infanzia, è «orientata allo sviluppo di una propria identità, alla partecipazione alla vita della comunità e alla creazione di nuove opportunità di esperienza». Così si legge nel rapporto annuale 2020 della Fondazione in relazione al Centro E20. Ecco quindi che i giovani fra gli 11 e i 17 anni della Vallemaggia possono beneficiare di un ritrovo comune animato da un adulto che li stimola realizzando con loro progetti creativi all’insegna di valori di cui essere consapevoli
e sui quali fondare la propria esistenza. Precisa il responsabile: «Frequentare il Centro significa innanzitutto osservare una serie di regole legate al rispetto di se stessi, degli altri e dell’ambiente nel quale si è accolti. Sono principi fondamentali che accompagnano i giochi, le attività pratiche, quelle ricreative e culinarie, le discussioni. Queste ultime prendono spesso spunto da una lettura proposta dal sottoscritto su argomenti riferiti all’adolescenza o all’attualità». La cena del venerdì sera è preparata in comune, ma non sempre tutto è svelato con anticipo. Per alimentare l’entusiasmo del momento, l’effetto sorpresa è una componente spesso presente. Nasce così, ad esempio, la «cena con delitto» o la realizzazione di un quadro. Durante il pomeriggio di metà settembre a tener banco è la preparazione delle serata prevista il venerdì successivo (il Centro è aperto il mercoledì pomeriggio, il venerdì sera e il sabato in occasione di eventi speciali) in cui sarà presentata alle famiglie la mostra delle tele dedicate alle emozioni dell’adolescenza realizzate durante il campo estivo. Incomprensione, angoscia, ingiustizia, rabbia, stress, pazzia, depressione e tristezza sono rappresentati con simboli forti e accompagnati da brevi commenti su quando si manifestano. Non tutte queste emozioni sono necessariamente state provate in prima persona dai partecipanti, ma questi ultimi dimostrano di aver preso coscienza della fase di vita in cui si trovano e delle diverse sfumature che la medesima può assumere. «Questo progetto – aggiunge il nostro interlocutore – coinvolge nella sua parte finale le famiglie al fine di valorizzare il lavoro che hanno svolto i giovani durante l’estate. Il Centro E20 mira infatti a diventare un punto di riferimento non solo per gli adolescenti, ma anche per i loro genitori, che possono così sapere dove vanno e cosa fanno i loro figli». Il campo diurno estivo, previsto inizialmente per una settimana, è stato prolungato su richiesta dei partecipanti, nel complesso oltre una decina. I frequentatori fissi del Centro sono una quindicina, ma contando i saltuari si arriva a una trentina. Sentiamo quindi dai diretti interessati cosa rappresenta per loro E20. Yan e Matia hanno entrambi 14 anni.
Il murale del Polpofante realizzato durante il campo estivo con il contributo di Greta Menghini, in arte MAENTISIW .
Se il primo frequenta il Centro già da un paio d’anni, la seconda ha iniziato a recarsi nella casa in via Rovana 4 quest’anno durante il campo estivo. «Non pensavo fosse così bello – racconta Matia – ma durante l’estate mi sono divertita, per cui adesso vengo regolarmente. Realizzare la decorazione dell’entrata con il “Polpofante” è stata una bella soddisazione». Yan conferma che «per divertirsi non serve l’elettronica. Mi piacciono la compagnia, i monitori e le attività che svolgiamo». Entrambi invitano chi ancora non conosce il Centro ad andare a scoprirlo. Per il responsabile un altro aspetto rilevante è riuscire a garantire continuità, considerata l’inevitabile rotazione dovuta alla crescita. Ciò avviene in particolare grazie alla stretta collaborazione con la vicina sede di Scuola Media. «Tutte le classi di prima media vengono a visitare E20 con la rispettiva o il rispettivo docente di classe. In
questo modo c’è una presa di contatto personale che permette di far conoscere come è organizzata l’attività che proponiamo». Proveniente dal settore dell’animazione radiofonica, dove aveva già collaborato con Pro Juventute nell’ambito di programmi legati alle politiche giovanili, Joshi Pina oggi svolge per la Fondazione diversi incarichi a favore degli adolescenti. Per Pro Juventute è infatti anche mentore e formatore di mentori nell’ambito del progetto che sostiene i giovani in difficoltà esistenziale attraverso un accompagnamento individualizzato. Gli sono inoltre affidati i progetti «Recupero Licenza IV media» (sede di Locarno) e «Prove di colloquio» volto a facilitare, attraverso simulazioni, la ricerca di un posto di lavoro. Pur mirando ad acquisire nuovi partecipanti, E20 intende lasciare aperta la porta anche ai più grandi in qualità di aiuto monitori per gli eventi speciali. Consolida-
ta la ripresa dell’attività in via Rovana 4, si guarda pure a possibili iniziative fuori sede, come gite di una giornata. Per finanziarle un primo passo è stato compiuto stampando e vendendo i poster del «Polpofante», opera realizzata con il contributo di Greta Menghini, in arte MAENTISIW, animatrice artistica del campo estivo 2021. Al tempo della pandemia, che ha precluso ai giovani così tante forme di svago, la Vallemaggia ha quindi visto rinascere un luogo d’incontro privilegiato per gli adolescenti affacciati alle prime esperienze fuori casa. Un luogo dove hanno la possibilità di dedicarsi a passatempi e interessi guidati dalla mano gioviale ma ferma di un coordinatore che dedica loro del tempo costruendo una relazione di fiducia. Nasce così una piccola comunità verso la quale gli adolescenti sviluppano un senso di appartenenza senza rinunciare ad essere se stessi.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 ottobre 2021 • N. 41
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Idee e acquisti per la settimana
tempo di scorte
attualità Nei supermercati Migros sono disponibili i classici ortaggi e frutti in grandi confezioni
per le vostre riserve invernali. Approfittate ora del loro prezzo particolarmente vantaggioso mela Gala
mela Golden
La Gala è tra le mele preferite da grandi e piccini. Con le sue belle sfumature arancio-rosso è una gioia per gli occhi. È una tipica varietà adatta alla conservazione a lungo termine. Ha una polpa soda, succosa e molto dolce. È ottima anche cotta, poiché mantiene la sua compattezza.
Varietà conosciuta in tutto mondo, la dorata Golden è una mela dalla buona conservabilità. La sua polpa chiara, mediamente soda, ha un sapore dolce e molto aromatico. È una classica mela da mangiare cruda come spuntino, ma si presta bene anche per ricette sia dolci che salate. mela Starking
Varietà con buccia dal bel colore rosso brillante uniforme, la Starking è una mela dalla polpa succosa e croccante, di gusto zuccherino e delicato, senza acidità. Si può gustare cruda, ma è ideale anche per la preparazione di frittelle, crostate e composte di frutta.
patata Bintje
mela Boskoop
Classica varietà a polpa farinosa, la Bintje è una patata gialla ricca di amido, che si sfalda durante la cottura. È considerata la regina tra le patate da tavola. È ideale per preparare purè, gratin, gnocchi, ma anche rösti, patatine fritte e patate arrosto in forno.
La Boskoop è una varietà di mela originaria dei Paesi Bassi, dove fu scoperta nel 1856. Possiede una buccia verdegrigia con sfumature di rosso, mentre la polpa è soda, dal gusto leggermente dolce e piacevolmente asprigno. È ideale per la cottura.
patata charlotte
La Charlotte è una tipica patata resistente alla cottura che non si sfalda nemmeno dopo una cottura prolungata. Per questo è il tubero perfetto per la preparazione di insalate di patate, patate lesse con o senza buccia, patate arrostite e minestre. È ideale per accompagnare la raclette, la popolare specialità casearia svizzera.
patata laura
Varietà a buccia rossa con polpa gialla chiaro e farinosa, dalle eccellenti qualità gustative e culinarie. Sono numerose le possibilità di utilizzo delle patate Laura: patate al forno, gratin, arrosto, patate fritte, rösti e patate bollite. Si presta bene alla conservazione. cipolla gialla
La cipolla è una verdura molto antica, ricca di proprietà salutari e gastronomiche. È tra i condimenti più diffusi al mondo, una vera protagonista della cucina. Si presta per un’infinità di preparazioni, sia come soffritto, contorno o come piatto principale.
aglio rosa
L’aglio rosa possiede un aroma più marcato rispetto al classico aglio bianco. Si consuma sia crudo che cotto per condire verdure, carni, pesce, funghi e ripieni. È ricco di composti sulfurei e selenio. Oltre al suo utilizzo in cucina, è anche considerato un rimedio naturale per curare diversi disturbi. Si conserva a lungo.
Scalogno
Più delicato e meno forte della cipolla, lo scalogno può essere consumato sia cotto che crudo. Crudo è ottimo nelle vinaigrette, nelle insalate e sulle carni. Cotto è utilizzato per affinare salse, crostacei, zuppe, verdure e sughi. Si conserva a lungo tenuto in un luogo fresco e asciutto.
Consigli di conservazione Con alcuni semplici accorgimenti si possono conservare mele e patate per diversi mesi senza comprometterne troppo la qualità. Un locale o una cantina freschi, bui e aerati, sono l’ideale per stoccare questi prodotti. L’utilizzo di contenitori forati permette una buona ventilazione. Evitare di tenere la verdura vicino alla frutta, poiché quest’ultima sprigiona etilene e accelera il processo di maturazione e invecchiamento delle patate. Controllare regolarmente lo stato dei prodotti: se le patate presentano parti verdastre o germogliate, non consumarle. Le mele marce vanno buttate, in quanto farebbero marcire tutte le altre.
l’autunno in tavola
attualità La sella di capriolo è un grande classico tra le specialità di selvaggina.
Questa settimana la trovate in offerta speciale presso l’Angolo del Buongustaio delle maggiori filiali Migros
Sella di capriolo, Austria, per 100 g Fr. 4.40 dal 13 al 18.10.2021 al banco a servizio
LA RICETTA
Sella di capriolo
Flavia leuenberger Ceppi
La sella è uno dei tagli migliori del capriolo. Gustosa, aromatica e tenera, questa carne risulta inoltre particolarmente magra e facilmente digeribile. Gli animali provengono dall’Austria, dove vivono allo stato selvatico nutrendosi di ciò che offre la natura. La sella è ideale per essere preparata intera, come per esempio nell’appetitosa ricetta “Sella di capriolo alla Baden-Baden”, oppure divisa in medaglioni. La carne di capriolo si sposa a meraviglia con contorni quali spätzli, tagliatelle, cavolo rosso, pere al vino, castagne caramellate, cavoletti di Bruxelles e salsa di ribes.
azione Hit
Per 4-6 persone serve una sella di capriolo da ca. 2 kg. Togliete la membrana che ricopre i due controfiletti, separateli leggermente dall’osso e conditeli fuori e dentro con sale, pepe, timo, rosmarino e poi legateli con uno spago. Rosolate la carne brevemente su tutti i lati e infornatela nel forno preriscaldato a 200-220 °C per ca. 10 minuti. Sciogliete 50 g di burro in un pentolino con l’aggiunta di timo, rosmarino e qualche bacca di ginepro schiacciata. Estraete la sella dal forno, eliminate lo spago e irroratela con il burro aromatizzato. Rimettete tutto nel forno spento con la porta semiaperta per una decina di minuti. Staccate la carne dall’osso, affettatela e servite con i classici contorni.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 ottobre 2021 • N. 41
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Idee e acquisti per la settimana
casse «Subito»
attualità Sempre più filiali Migros dotate del sistema di casse self-service per una spesa veloce senza contanti
e con minori contatti
acquisti comodi e veloci Quale complemento alle casse tradizionali con operatrice, in molte filiali Migros del cantone la clientela ha anche la possibilità di effettuare gli acquisti avvalendosi delle casse selfservice «Subito», sia nella modalità «Self-Checkout» che «Self-Scanning». Recentemente il sistema completo è stato implementato nei supermercati Migros di Boffalora, Mendrisio e Mendrisio Sud, Solduno, Tenero, Riazzino, Radio, Molino Nuovo, Giubiasco e Caslano. Questo pratico servizio non solo contribuisce a velocizzare la spesa evitando le code alle casse, ma permette anche di pagare senza contanti (con carta di credito o debito) e ridurre sia i contatti sia la manipolazione dei prodotti. Self-checkout vs Self-Scanning
Le due varianti «Subito» sono pensate sia per la spesa più piccola, sia per quella più consistente. Il sistema «SelfCheckout» è particolarmente indicato
per l’acquisto di pochi prodotti. I clienti effettuano la propria spesa come di consueto, riponendola nell’apposito cestino. Una volta terminata, ci si reca alla cassa «Subito», si passano gli articoli allo
scanner e si paga l’importo dovuto. Con il «Self-Scanning» i clienti prelevano lo scanner manuale all’entrata del negozio, presentando la carta Cumulus. L’apparecchio permette di
scansionare tutti gli articoli selezionati, che possono poi essere già riposti direttamente nella borsa della spesa. Sul display vengono visualizzati i prodotti acquistati, il totale provvisorio e i pun-
ti Cumulus. A spesa finita, all’uscita del negozio, si riconsegna lo scanner e ci si reca alla cassa «Subito» assegnata per effettuare comodamente il pagamento. annuncio pubblicitario
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Hit 18.–
1.60
5.90
Mele, borsetta da 2,5 kg per es. mele Boskoop 1a, Svizzera
Hit Scalogni a grappolo Francia, 500 g
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Cipolle gialle Svizzera, sacco da 5 kg
Migros Ticino
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 ottobre 2021 • N. 41
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Società e territorio
«vogliamo dire ai genitori: non siete soli!»
Intervista Il pediatra Georg Staubli si occupa da anni di protezione dell’infanzia presso il Kinderspital di Zurigo,
fa parte del gruppo di esperti attivi nella campagna di sensibilizzazione #refeel con l’obiettivo di aiutare i genitori prima che la situazione sfugga loro di mano
un bambino piccolo o un ragazzino. Ad esempio, non sanno che un bebè all’inizio piange moltissimo o che un bimbo piccolo ha atteggiamenti di sfida e per un po’ di tempo dice sempre no.
Monica Müller La protezione dei bambini nel nostro Paese non è ancora sufficientemente garantita. I neonati e i bambini piccoli sono particolarmente a rischio di abusi o trascuratezza. A mettere in luce un problema che fatica ad emergere sono istituzioni e autorità che si occupano di protezione, cura e tutela dei bambini, che notano come l’abuso e la trascuratezza si verificano in famiglie di tutte le classi sociali e di tutti i contesti socio-culturali. Tuttavia, lo stress psicosociale e l’isolamento alimentano ed esacerbano situazioni di sopraffazione che possono mettere a rischio i neonati e i bambini piccoli. Informazioni e consulenze sembrano non raggiungere in tempo o in maniera sufficientemente convincente i genitori che si sentono sotto pressione. La nuova campagna di sensibilizzazione #refeel, studiata da un gruppo di esperti di protezione dell’infanzia, mira a raggiungere il maggior numero possibile di genitori di bambini piccoli. Madri e padri, così come altri membri della famiglia come zie, zii, fratelli e nonni, devono essere sensibilizzati ai bisogni fondamentali dei neonati e dei bambini piccoli con messaggi semplici e chiari, inoltre devono essere informati sugli aspetti importanti dello sviluppo del bambino e sulle sfide della genitorialità. Ne abbiamo parlato con il primario di pediatria Georg Staubli (55 anni) che dirige il pronto soccorso e il Gruppo Protezione dell’infanzia del Kinderspital di Zurigo. all’ospedale pediatrico, lei è confrontato continuamente a casi di abusi su bambini. come può succedere che i genitori perdano a tal punto il controllo?
È importante chiarire qual è il tipo di abusi cui ci riferiamo. Facciamo distinzione tra cinque forme: abuso sessuale, sindrome di Münchhausen per procura, abuso psicologico, abuso fisico, abbandono emotivo. La sindrome di Münchhausen per procura è una forma di abuso rara e molto particolare, in cui i genitori (di solito la madre, secondo la letteratura medica) fanno ammalare deliberatamente i bambini, poiché loro stessi soffrono di malattie psichiche. Nei casi di abuso sessuale, la
perché abbiamo perso queste conoscenze?
I genitori raccontano solo i momenti belli trascorsi con i loro bambini e non di quando sono costantemente arrabbiati. Nessuno osa dire: mi sarebbe piaciuto sbattere mio figlio contro il muro. Forse qualcuno lo confida durante una lunga conversazione intima, ma di regola si sente sempre dire: è tutto meraviglioso, fantastico. Sui manifesti e negli spot pubblicitari, mamme e bambini sorridono felici, mentre i papà sono spesso assenti. Ciò mette pressione, perché dentro di sé si sente che avere bambini non è solo una cosa bella. Quando arriva un figlio, non si conosce tutto quello che sopraggiungerà. E probabilmente è bene che sia così. Presto, però, bisogna imparare che ogni bambino è diverso dall’altro e ha esigenze diverse. Alcuni genitori hanno quindi bisogno di sostegno per non commettere errori che possono essere evitati. che ruolo gioca il coronavirus negli abusi sui bambini?
I manifesti della campagna di sensibilizzazione re-feel.org si rivolgono a genitori arrivati al limite delle proprie risorse.
violenza sui bambini non scaturisce da uno stress psicologico, ma avviene in modo perlopiù premeditato. In questa sede non tratterò nel dettaglio queste due forme.
come si arriva alla violenza fisica o psicologica o all’abbandono emotivo?
La maggior parte dei genitori non agisce per cattiveria. Sono sopraffatti dallo sviluppo dei figli o perché il loro comportamento non corrisponde alle aspettative. Magari sono oppressi anche dalla loro quotidianità e si trovano sotto stress. I loro bisogni si scontrano con quelli dei bambini, causando con-
flitti. In questa situazione di tensione, può capitare che i genitori insultino il proprio figlio, che ne abusino psicologicamente, che esercitino una violenza fisica. a che tipo di genitori succede?
Possono subire abusi i bambini di qualsiasi ceto sociale. Molti genitori mi raccontano di essere già arrivati al punto in cui poi si sono pentiti del loro comportamento. Ad esempio, hanno schiaffeggiato il figlio nella furia del momento. In tutte le famiglie può succedere che i genitori si sentano sopraffatti da una situazione conflittuale al punto da superare i limiti. Gli studi dimostrano che il fattore decisivo è ciò che i genitori hanno vissuto nella propria infanzia. Se sono stati puniti o educati a forza di botte è molto probabile che a loro volta picchino i figli. Gli studi attestano anche che i genitori socialmente più deboli hanno maggiori probabilità di ricorrere alla forza, mentre gli abusi di natura psichica o sessuale si verificano in tutte le fasce sociali. L’abbandono emotivo, invece, tende a verificarsi nelle famiglie benestanti. Talvolta i genitori pensano di poter far felice il loro bambino con un giocattolo o un computer nuovo, mentre lui cerca piuttosto la vicinanza emotiva. ciò che accomuna la maggior parte delle violenze è l’incapacità di gestire una determinata situazione. Di cosa c’è bisogno per evitare momenti del genere?
Il dott. Georg Staubli dirige il pronto soccorso del Kinderspital.
I genitori devono poter parlare apertamente di ciò che li opprime, senza per questo sentirsi in colpa. Ed essere in grado di ammettere: ora ho raggiunto i miei limiti. Devono anche sapere dove rivolgersi per ricevere assistenza. Per questo motivo, con il Gruppo
Protezione dell’infanzia intendiamo creare trasparenza e affrontare il fatto che è difficile crescere figli senza entrare in conflitto. In questo contesto, è quasi impossibile non superare mai i limiti. le statistiche annue degli abusi sui minori indicano che ci sono sempre più casi. a cosa lo riconduce?
In tutta la Svizzera, le cifre sono da anni in lenta crescita. Oggi i neogenitori sono meno coinvolti in strutture familiari in cui sono presenti anche i nonni. Ciò può avere influssi sia positivi che negativi: i nonni possono essere d’aiuto fornendo supporto oppure immischiarsi di continuo nelle discussioni. Oggi molti genitori non sono più consapevoli esattamente di quali difficoltà stanno affrontando, di cosa ha bisogno nel suo sviluppo un neonato,
per la protezione dei bambini La campagna di sensibilizzazione #refeel - aiuto e consigli prima che le batterie si esauriscano è stata realizzata dal Kinderspital di Zurigo e dall’Istituto Marie Meierhofer per il bambino in collaborazione con Pro Juventute, l’associazione Elternnotruf (Linea telefonica di emergenza per i genitori) e l’Associazione svizzera per la consulenza genitori bambini. La campagna è sostenuta dal Percento Culturale Migros. Sul sito internet www.re-feel.org, i genitori trovano informazioni, consigli, consulenza e i recapiti di enti che offrono aiuto.
Durante la pandemia, per molti genitori è stato possibile lavorare da casa. Questo comporta dei vantaggi per la famiglia nel suo insieme, perché si trascorre più tempo a casa e molti padri si sono assunti più compiti. Alcune famiglie sono state meglio, perché entrambi i genitori erano più coinvolti nell’educazione dei figli. Dove però già prima sussistevano aspri conflitti, questi si sono intensificati con il coronavirus. Se genitori o figli con disturbi psichici si pestano continuamente i piedi, ciò porta a un’escalation. Negli ultimi due anni, sono aumentati notevolmente i casi di depressione e tentato suicidio tra i giovani. assieme ad altri esperti, lei è impegnato nel gruppo protezione dell’infanzia. cosa si aspetta da questa iniziativa?
Lo scopo di questa iniziativa è di sensibilizzare la gente alla protezione dell’infanzia. In passato, venivano dibattuti pubblicamente soprattutto i casi più gravi di violenza sui minori: quando una mamma uccideva il suo bambino o se un neonato moriva dopo essere stato scosso con violenza. Naturalmente è importante denunciare anche questi fatti bruttissimi e fare in modo che si possano evitare, ma essi non rappresentano la maggioranza dei casi in cui i bambini vanno protetti, ma soltanto la punta dell’iceberg. Ora noi vogliamo dimostrare che i bambini sono molto esigenti in generale, che hanno bisogno di molte cure e attenzioni, e che durante il loro sviluppo le loro esigenze cambiano. L’obiettivo della nostra campagna è di intervenire tempestivamente, prima che si verifichi un abuso. che aspetto avrà la campagna?
Non mostriamo immagini di bambini picchiati e sanguinanti, altrimenti molti genitori penseranno semplicemente: questo non lo farei mai. Mostriamo invece bambini che piangono, così tutti si sentono chiamati in causa. Molti che sono arrivati al limite delle proprie risorse non sanno ancora a chi possono rivolgersi. Vogliamo avvicinare le persone nella loro quotidianità e indirizzarle verso le offerte disponibili. E segnalare ai genitori: non siete soli.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 ottobre 2021 • N. 41
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Società e territorio
per una migliore qualità di vita
Sviluppo sostenibile La Confederazione sostiene una serie
di progetti innovativi e sperimentali, di cui tre nella Svizzera italiana
la Generazione Z e il femminismo
Il caffè delle mamme Giovani femministe
contro ogni forma di oppressione e violenza Simona Ravizza
Ci vorrebbe la bacchetta magica! Per mettere in pratica, in tempi brevi, una serie di progetti innovativi di Comuni, regioni, agglomerati e Cantoni. Su iniziativa dell’Ufficio federale dello sviluppo territoriale (ARE), sono in corso 31 progetti che la Confederazione sosterrà dal 2020 al 2024 con circa 3,9 milioni di franchi. In sostanza si tratta di affrontare cinque temi prioritari: studiare la digitalizzazione per garantire il servizio universale (internet e telefonia per tutte le economie domestiche), promuovere strategie integrali di sviluppo, dare maggior valenza al paesaggio, valutare insediamenti che promuovano incontri, progettare spazi abitativi e vitali per il futuro. «Sperimentare soluzioni innovative» è il mantra alla base del programma: «Con i Progetti modello per uno sviluppo sostenibile del territorio – scrive ARE – si mira a migliorare la qualità di vita, la competitività e la solidarietà all’interno delle regioni e tra una regione e l’altra». Nella Svizzera italiana sono in corso di realizzazione tre progetti. Uno riguarda il rapporto tra anziani e territorio e valuta in particolare la situazione delle valli periferiche, Onsernone e Muggio in particolare. La forte migrazione dalle valli ai centri urbani ha conseguenze importanti per la popolazione anziana che non si sposta. I servizi calano e il tessuto sociale si impoverisce. Che fare per contrastare queste tendenze? Il secondo progetto interessa le Terre di Pedemonte e in particolare la campagna di Verscio. Come in altri luoghi, le zone residenziali riflettono spesso uno sviluppo disordinato, con strade strette occupate dal traffico motorizzato che penalizzano la convivenza tra gli abitanti e la mobilità lenta. Si può migliorare la qualità delle strade di quartiere? Il terzo ha come obiettivo l’innovazione di edifici e di territori per offrire nuove forme abitative, in particolare per gli anziani, in una società sempre più longeva. Può essere sostenibile finanziariamente adattare immobili per migliorare la qualità di vita degli anziani? I progetti sono chiamati a rispondere, principalmente, a queste domande. Ma c’è un denominatore comune a tutto il programma: il coinvolgimento dei diversi attori, la consultazione e la partecipazione della popolazione, la considerazione dei bisogni degli abitanti confrontati con le diverse situazioni. Per esempio, per quanto riguarda le valli di montagna, si fa riferimento a una ricerca condotta due anni fa nelle valli di Muggio e di Onsernone dal Consiglio svizzero degli anziani. L’indagine ha messo in luce «il bisogno e il desiderio delle persone anziane di poter continuare a vivere la propria casa e il proprio territorio il più a lungo possibile. La ricerca ha inoltre rilevato l’importanza delle relazioni sociali come condizione fondamentale per il benessere psicologico dell’anziano». Il punto di vista degli anziani di valle sta alla base degli obiettivi del progetto: realizzare un sistema di monitoraggio in grado di rilevare le abitudini di vita sulle 24 ore, con lo scopo di poter garantire interventi rapidi in caso di necessità, studiare il territorio in modo da garantire gli spostamenti senza pericoli, salvare i negozietti trasformandoli in centri con funzioni polivalenti e rendendoli punto d’incontro, adattare le piazze esistenti affinché possano diventare luogo di incontro intergenerazionale. Anche a Verscio si ascolta la popolazione per decidere come sviluppare il progetto di strade di quartiere. La pandemia ha condizionato l’attività dei promotori. Non è stato possibile nei mesi scorsi organizzare assemblee popolari e
Per la Generazione Z, ossia quella delle nate tra il ’95 e il 2010 a cui appartengono anche le adolescenti di oggi, il femminismo ha ancora motivo d’essere? La domanda si impone a Il caffè delle mamme nel perenne tentativo di capire meglio, e senza mai giudicare, che cos’hanno in testa le nuove giovani donne del futuro che sono le nostre figlie. È il motivo per cui questo mese abbiamo invitato a fare una chiacchierata con noi Jennifer Guerra, classe 1995, giornalista e scrittrice: a 26 anni, autrice del podcast AntiCorpi e dei saggi Il corpo elettrico (ed. Tlon, 2020) e Il capitale amoroso (ed. Bompiani, 2021), è una delle più brillanti voci femministe della sua generazione. Le lotte per il diritto di voto caratterizzano la prima ondata di femminismo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX. Sessualità, gravidanza e maternità sono i temi che contraddistinguono la seconda, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta. La terza (’90-2010) è all’insegna dell’individualismo. A tal proposito ne Il corpo elettrico Guerra scrive: «Siamo volute diventare come gli uomini. Siamo cadute nella trappola separatoria che vuole le donne da una parte e gli uomini dall’altra, come su due binari paralleli destinati a non incontrarsi mai. È stato un errore di calcolo. Abbiamo pensato che se avessimo cominciato a comportarci come gli uomini ci saremmo finalmente liberate. Il nostro personale è diventato un soddisfacimento egoistico di tutto ciò che abbiamo desiderato e non abbiamo mai avuto, contrariamente a quello che hanno avuto i nostri fratelli, i nostri amici o i nostri compagni. Ma questa differenza sessuale non basta a renderci più unite, più forti, più consapevoli. Anzi, serve solo a separarci. Separarci dagli uomini e separarci tra di noi». La convinzione è che noi nonne e mamme, nell’illusione di potere diventare uguali agli uomini, abbiamo fatto un casino! «I maschi di qua, le femmine – quelle speciali – di là – sottolinea Guerra –. Abbiamo sfruttato la differenza per ergerci su un piedistallo che ci eguagliasse agli uomini, pur volendo mantenere due categorie ben separate e distinte. (...) L’uguaglianza, a differenza della parità, rischia di appiattire ogni differenza e, quindi, di cancellare ogni soggettività. Ogni corpo è diverso ed è nella diversità che risiede la nostra forza. Dovrebbe esserci chiaro che non si eliminano gli stereotipi di genere che affliggono la donna imponendole quelli dell’uomo». Le considerazioni di Guerra ci portano dritte dritte dentro la quarta ondata di femminismo, e ci fanno riflettere su un approccio nuovo. Con sensibilità che, ci diciamo al Caffè, ritroviamo anche nelle nostre figlie, almeno per come le vediamo noi. L’attenzione della Generazione Z è innanzitutto sulla violenza di genere. Non è un caso che nella seconda stagione di Sex Education, la serie Netflix creata dalla 30enne inglese Laurie Nunn e con protagonista l’adolescente Otis alle prese con i problemi sessuali suoi e dei coetanei, un episodio (il setti-
Il rapporto tra anziani e territorio è stato analizzato anche in Onsernone . (tipress)
si è quindi optato per un sondaggio distribuito a tutti i fuochi della frazione. «Puntiamo molto sulla partecipazione della cittadinanza – ci dice l’architetto Enea Pazzinetti – dopo aver valutato le risposte al sondaggio organizzeremo incontri per ragionare sul concreto». Si tratta di discutere del rapporto tra pubblico e privato. La strada è uno spazio pubblico delimitato dai terreni privati. L’obiettivo è di realizzare strade di quartiere. «Il tema prioritario – continua Pazzinetti – è definire percorsi brevi che riescano a promuovere occasioni di incontro. Oggi la strada è una superficie d’asfalto, non particolarmente vivibile. Un obiettivo può essere la riduzione del traffico motorizzato, grazie ai sensi unici, sempre che ci sia l’interesse degli abitanti. Nei nostri Comuni ci sono in genere linee di arretramento sui terreni privati, per eventualmente allargare le strade. Non vedo il senso di allargare una strada, lasciamo gli spazi ai privati e cerchiamo di rendere più attraenti le strade per gli abitanti». A Verscio il progetto è stato sottoposto anche alle scuole elementari per raccogliere le voci e i desideri dei bambini. «Se dai bambini nascessero spunti di riflessione fanciulleschi, saranno benvenuti», conclude l’architetto. Si possono far soldi pur facendo del bene? Ecco un interrogativo stimolante per Marcello Martinoni, responsabile del progetto che deve pensare alle nuove forme dell’abitare innovando edifici destinati agli anziani. Gli stabili in questione appartengono alla Fondazione per il secondo pilastro (FTP), partner del progetto federale. Si tratta di una cassa pensioni non profit fondata dall’Associazione Industrie ticinesi, dalla Camera di commercio, dalla Camera del Lavoro e dall’Organizzazione cristiano sociale. «Anche la FTP – spiega l’Ufficio federale – si vede confrontata con l’invecchiamento dei locatari e del suo parco immobili e, nell’ambito della sua strategia di sviluppo immobiliare, dà la priorità a forme abitative a misura di anziani». Una cassa pensioni è tenuta a ottenere rendimenti dagli investimenti immobiliari. La sfida della FTP è di far coincidere l’interesse privato con quello pubblico. La Fondazione intende «promuovere una riflessione sul contesto territoriale in cui si inseriscono i propri edifici e sulle esigenze delle persone che vivono in questi alloggi». «Lo scopo del nostro progetto – precisa Marcello Martinoni – è di riuscire ad essere competitivi economicamente rispondendo ai bisogni sociali della popolazione che vuole invecchiare a casa sua». La FTP ha scelto quattro edifici, a Bodio, Camorino, Rancate e Minusio. I residenti vengono coinvolti grazie a un questionario
che dovrà definire i loro bisogni e le loro aspettative. «Uno degli edifici che stiamo studiando – mi dice Martinoni – si trova a Bodio. Pensiamo a una trasformazione che renda l’immobile più adatto agli anziani, senza penalizzare la necessità di ottenere un profitto adeguato. Per esempio, pensiamo di creare spazi comuni che ora non ci sono. Un appartamento jolly, non occupato, ma occupabile dai residenti in caso di necessità: per ospitare temporaneamente parenti, ospiti o una badante. Gli spazi comuni non aumentano il valore dell’immobile, ma lo rendono più attrattivo e quindi si riduce il pericolo dello sfitto». «Queste abitazioni – precisa Marcello Martinoni – devono creare senso di aggregazione. Ci sono quartieri in cui la gente vive assieme ed è felice, ma a volte il palazzo diventa un dormitorio. Bisogna riuscire a offrire luoghi che rendano più solida l’interazione fra le persone e quindi la solidarietà e il sostegno reciproco in caso di bisogno». Rinnovare gli edifici significa intervenire anche sul territorio circostante. Quindi diventa indispensabile il coinvolgimento dei Comuni. È importante valutare il contesto in cui si trova l’edificio, perché per un anziano non è secondario. Se nel quartiere ci sono tutti i servizi, il progetto ha senso. Un altro fattore è l’attenzione nei confronti dell’ambiente. Il cambiamento climatico condiziona anche le abitazioni e gli agglomerati e quindi le trasformazioni devono pensare alla sostenibilità ambientale. «Il nostro intervento non si limita all’edificio di Bodio e agli altri tre, – spiega ancora Marcello Martinoni – ma cerchiamo di mettere a punto una metodologia che la Fondazione possa usare in futuro anche per gli altri suoi immobili. Da parte della Confederazione non c’è nessun obbligo di realizzare il progetto. L’obiettivo è proporre un modello che possa essere utilizzato anche da altri, per esempio dalla Cassa pensioni dello Stato. Sarà fondamentale che la Confederazione valorizzi i progetti, perché potrebbero o dovrebbero essere riproducibili in altre regioni». Investimenti sostenibili, nuovi modelli di sviluppo per le abitazioni e per il territorio, coinvolgimento e partecipazione della popolazione, attenzione particolare alla popolazione anziana, agli scambi intergenerazionali e alla nostra società sempre più longeva. Obiettivi significativi e qualificanti per questo programma federale. Chissà se anche senza bacchetta magica i Comuni e le istituzioni coinvolti riusciranno a realizzare i progetti? L’auspicio è che non rimanga un esercizio sperimentale, una Alibiübung, un gran lavoro che finisca dimenticato nei cassetti.
pixabay
Fabio Dozio
mo) sia dedicato proprio alle molestie. È ispirato a un fatto realmente accaduto a Nunn: un uomo che si masturba addosso alla studentessa adolescente mentre è sul bus verso la scuola. In Aimee, un’amica di Otis la cui storia è al centro della puntata, la consapevolezza di essere stata molestata si sviluppa in modo graduale: l’impatto di quanto avvenuto inizialmente viene sottovalutato, poi piano piano matura la certezza di aver subito un trauma e di veder minata la propria serenità, la sicurezza personale e la sfera delle proprie relazioni per via di quella violenza. L’importanza di parlarne e di denunciare, con i propri tempi e modi, l’accaduto è un messaggio importante che si contrappone a una cultura maschilista che ritiene ammissibili certi comportamenti. «L’attenzione non voluta di tipo sessuale negli spazi pubblici è così comune nell’esperienza femminile che sembra quasi un rito di passaggio ed è una realtà devastante – sottolinea su Instagram Nunn –. All’inizio ha fatto un po’ di paura parlare apertamente di questo argomento, ma condividere la propria esperienza è catartico». La condanna del catcalling, ossia le molestie verbali rivolte alle ragazze incontrate per strada, è un’altra esigenza fortemente sentita dalla Generazione Z. Così come quella di considerare riprovevole il body shaming, la derisione di una persona per il suo aspetto fisico. Sono battaglie spesso portate avanti sui social, che le giovanissime utilizzano per fare rete. Ma la parola d’ordine del femminismo della Generazione Z è anche intersezionalità: come ben evidenziato da Biancamaria Furci e Alessandra Vescio nel nuovo saggio Anche questo è femminismo (Bossy, 2021), «l’incrocio tra le discriminazioni e gli effetti che queste hanno sulle persone impone al femminismo di occuparsi di tutte le emarginazioni e di lottare contro ogni forma di oppressione. Dall’importanza della giustizia climatica alle disuguaglianze sociali; dall’abilismo (la discriminazione dei disabili) al fat shaming (la derisione delle persone grasse); dall’omolesbobitransfobia alla mascolinità tossica». La convinzione è che solo uno sguardo d’insieme possa realmente cambiare la società in cui viviamo. Alle quote rosa la Generazione Z preferisce la meritocrazia, piuttosto che la celebrazione del ruolo pubblico delle donne apprezza il coinvolgimento nella battaglia dei maschi, alla contrapposizione predilige l’inclusione. E, scherza Guerra, «visto che la variante rosa del rasoio, fa schizzare il suo prezzo, tutte noi sappiamo benissimo che è meglio comprare le lamette da barba!». È un femminismo che non vuole più considerarsi superiore all’estetica: «Non basta smettere di depilarsi per aver vinto contro il patriarcato: bisogna far sì che ogni donna si senta libera di depilarsi o meno e che non si senta giudicata per la presenza né tantomeno per l’assenza di peli. Fa più una femminista che posta una foto di un’ascella non depilata o una femminista fresca di ceretta che partecipa a una marcia per la protezione dei diritti delle donne? Prendersi cura di sé non è un crimine o una colpa. Ce ne trasciniamo dietro già abbastanza». In questo quadro a Il Caffè delle mamme non resta che aggiungere un augurio alle nostre figlie: quello di non diventare giovani donne troppo aggressive nei confronti dei maschi e, forse, persino di non spaventarli troppo. Probabilmente, ci diciamo, non è una considerazione molto femminista. Perdono! Di certo, e meno male, le adolescenti di oggi non saranno più Cenerentole che avranno bisogno di essere salvate dal Principe Azzurro. Ma in ogni caso trovare il proprio Principe Azzurro (di qualsiasi sesso sia) è sempre bello!
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Società e territorio
Sulle tracce dei mercanti nelle centovalli escursioni Una giornata sulla Via del Mercato, un’antica mulattiera d’importanza nazionale
Elia Stampanoni Con la costruzione della strada cantonale tra Intragna a Camedo, terminata nel 1895, l’antica mulattiera precedentemente utilizzata dalla popolazione per i suoi spostamenti andò gradualmente in disuso, ma non è stata né dimenticata né abbandonata. Oggi il tracciato che collega le due località delle Centovalli è conosciuto come «Via del Mercato» e con questo nome prosegue poi anche in Val Vigezzo, in territorio italiano, fino a Domodossola. In totale sono una sessantina di chilometri, mentre il tratto ticinese ha una lunghezza di circa 12 chilometri ed è un susseguirsi di saliscendi che permettono di superare i vari avvallamenti, sempre sovrastando il fondovalle. Ponti, scalinate, sentieri e tratti che corrono sulle antiche piode rimandano al passato, quando questa via era utilizzata dagli abitanti delle Centovalli, anche «per recarsi allo snodo commerciale di Locarno», come riporta il sito dell’Organizzazione turistica Lago Maggiore e Valli nella descrizione dell’itinerario. Alcune attestazioni su questa via si ritrovano anche presso il Museo regionale Centovalli e Pedemonte di Intragna, con documenti, fotografie, oggetti o raccolte di testimonianze orali, ma pure tra la popolazione locale, con storie e leggende tramandate di generazione in generazione. Ambientato in parte lungo questa via c’è poi il romanzo La vedova col bambino di Daniel Maggetti, nato proprio nelle Centovalli. Alcuni dei personaggi
Tra Pila e Costa si può ammirare la vecchia ruota di un mulino nei pressi del «Ri di Mulitt». (e. stampanoni)
narrati sono frutto della fantasia dell’autore, ma altri sono realmente esistiti, come veritieri sono i luoghi descritti. Leggendo il romanzo, ambientato in pieno XIX secolo, si possono così riconoscere dei nomi, dei passaggi e alcune vicissitudini legate della Via del mercato, rivivendo gesta e fatiche di quell’epoca. Una via che impressiona, come tutte le antiche arterie di comunicazione, per la sua ingegnosità nel trovare sul territorio gli sbocchi e il materiale adatto per garantire il transito dei viaggiatori. La Via del Mercato segue, infatti, l’orografia della valle, aggirando gli ostacoli più ostici oppure superandoli con gradoni, muretti e altre costruzioni, incuneandosi nel bosco per percorrere in quota il versante sinistro della valle. Da Intragna a Camedo sono oltre
900 i metri di dislivello da superare in salita, a cui si aggiungono i circa 700 metri di discesa, a dipendenza delle varianti scelte per l’itinerario. Il percorso offre di fatto molte opportunità per allacciarsi o lasciare la Via del Mercato in una delle frazioni o nei pressi di una delle fermate della Centovallina. La gita ha il suo fascino anche per il fatto che alcuni tratti sono inseriti nell’inventario federale delle vie di comunicazione storiche della Svizzera (IVS). Si tratta del Percorso «TI 18», con i vari tracciati e segmenti che la Via del Mercato va a congiungere. Se si percorre verso monte, la gita tende essenzialmente alla salita, inframezzata comunque da erte discese. Una prima e impegnativa ascesa conduce in breve spazio da Intragna a Pila o Costa, a dipendenza della variabile scelta. Pas-
saggio consigliato e quasi obbligato è comunque al bivio nei pressi del «Ri di Mulitt» (tra Pila e Costa), con il suggestivo ponte in sasso e la vecchia ruota di un mulino. La Via del Mercato sale poi ancora e, con altre pietre a formare dei gradoni, raggiunge Costa, dove arriva pure una piccola teleferica che in poco tempo permetterebbe di raggiungere i 637 metri d’altitudine della suggestiva frazione. Dopo una leggera discesa, l’itinerario conduce a Calezzo e imbocca quindi un segmento pianeggiante, in parte lungo una via asfaltata, ma che poi torna a insinuarsi nel bosco. Sempre tra sassi, piode e lastroni, ma anche tra radici e scalinate, si sovrasta Corcapolo per raggiungere i monti di Slögna, dove la vista s’apre un attimo e permette d’ammirare il panorama. A tratti s’intravvedono i villaggi più a monte oppure l’altro versante con Corte di Sotto e Rasa. Dopo Verdasio e superato l’avvallamento del «Ri di Verdasio» s’incontra in località Piazze quella che una volta era un’osteria, dove i viandanti potevano fare una sosta durante i loro spostamenti, come ci racconta Mattia Dellagana, curatore del Museo regionale Centovalli e Pedemonte. «Per arrivare al mercato al mattino presto, quando, come si sa, si facevano gli affari migliori, la gente doveva partire molto presto da casa. Si dice che da Camedo bisognava partire già a mezzanotte, per essere all’alba a Locarno; poi al rientro era di nuovo un viaggio in gran parte da svolgere al buio». Oltre all’osteria, oggi un’abitazione privata, a scandire delle possibili soste lungo il tracciato si trovavano anche numerose
cappelle, con il loro portico per ripararsi dalle intemperie. Alcune sono state restaurate, di altre rimangono solo dei ruderi, ma in generale tutte sono ancora ben visibili: «Sono spesso situate in cima alle salite, dove la gente faceva una sosta per riposare e appoggiare per un attimo gerle o cadole che, siccome non si faceva mai un viaggio a vuoto, erano cariche sia all’andata sia al ritorno», racconta Dellagana, facendoci notare come spesso ci siano proprio dei muretti nei pressi delle cappelle, dove presumibilmente venivano posati i gravosi «bagagli». A sprazzi, e ancor di più in questo periodo autunnale quando le foglie degli alberi cadono, s’intravvede sul fondovalle il lago di Palagnedra, una delle strutture delle Officine idroelettriche della Maggia, i cui impianti si sviluppano per oltre 60 km, in gran parte in sotterranea. Acqua che scorre anche sotto la Via del Mercato, che qui, tra Piazze e Vignascia, transita proprio sopra i cunicoli che permettono di trasportare il deflusso dalla centrale di Cavergno. Grazie a un lungo e impressionante scavo nascosto nel sottosuolo, il bacino di Palagnedra raccoglie di fatto queste acque provenienti da molto lontano, oltre a quelle delle Centovalli, Maggia e Onsernone. La gita prosegue e risale verso Lionza, dove, poco distante, ci s’imbatte nel Parco dei Mulini. Quasi all’improvviso si raggiunge Borgnone con il suo campanile che svetta sopra il nucleo. Si scende infine velocemente a Camedo, a 549 metri di altitudine e a due passi dalla frontiera. Il rientro può quindi avvenire utilizzando il trenino della Centovallina. annuncio pubblicitario
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Società e territorio rubriche
approdi e derive di lina Bertola verso un’umanità postumana? Nel mio precedente intervento scrivevo di alcune visioni del progresso che sembrano perdere di vista l’essenza stessa di questa idea, un’idea che sta al cuore della cultura illuminista e degli ideali della modernità. Un’idea, insomma, che ha alimentato il progetto di un’umanità in cammino verso forme migliori di convivenza. Perdere di vista l’essenza del progresso significa accettare che la progettualità umana venga identificata solo con il potenziamento tecnologico, con il suo progetto autoreferenziale in cui il potenziamento si legittima e si valorizza da solo, come una pura finalità. Come dire: evviva lo sviluppo tecnologico in vista di un’ulteriore possibilità di sviluppo tecnologico. Questo potenziamento ci sta apparecchiando nuove forme di esistenza ibrida, in cui l’umano si trasforma in transumano: i cosiddetti cyborg, corpi «meticci», metà organismo biologico e metà artefatto tecnologico. Nel già citato libro sulle derive dell’uma-
no, Marco Revelli parla di un corpo «aperto e mutante, espressione di una tecnologia incarnata, (un soma ormai indistinguibile dalla techné)». La nostra personale esperienza della vita, i pensieri, le parole, i gesti quotidiani, appaiono tuttavia molto distanti da questo orizzonte: l’idea di un uomo cyborg, super potenziato, non sembra suscitare emozioni quanto lo sbocciare dei fiori autunnali, il colore cangiante delle foglie o la pioggia di ricci e castagne che si offre a noi in questi giorni. L’esempio, tra il naturalistico e il bucolico, non è per nulla casuale. Vuole suggerire che sullo sfondo di queste atmosfere supertecnologiche rimane vivida e ricca di senso un’altra visione dell’umano e del suo rapporto con la natura. Come ben sappiamo, nel pensiero moderno la natura è stata pensata come un oggetto da conoscere e in seguito come una risorsa da sfruttare. Il nostro mondo interiore sembra però mantenersi sempre in contatto con l’antica
percezione di una natura madre, di una madre-natura a cui sentiamo di appartenere. È come se vivessimo una duplice esperienza etica: quella della condivisione di un patrimonio comune di valori e quella originaria e personale del valore intrinseco alla vita in tutte le sue manifestazioni. L’etica condivisa, il sistema di valori con cui la nostra società legittima sé stessa, orienta anche il nostro pensiero della natura, ci invita a percepirla come altra rispetto a noi, come un mondo, per così dire, «esterno», con cui stabilire rapporti, non necessariamente competitivi e aggressivi, ma come un mondo comunque altro rispetto alla specificità di noi umani. Poi però ci sono le emozioni che attraversano il nostro vissuto, emozioni e sentimenti di cui si nutre il pensiero, anche se spesso ce ne dimentichiamo o non vogliamo riconoscerlo. Succede così che l’esperienza della natura, come realtà generativa e materna di cui ci sentiamo parte, sopravviva,
nonostante le gabbie culturali, come la voce più intima dell’etica, quella che nasce nella nostra dimora interiore, nel contatto con noi stessi. Quella voce contiene sempre una forza trasformativa e può dunque rivelarsi come punto di resistenza verso i mutamenti dell’umano prospettati dalla tecnologia. Quella voce può suggerire il bisogno di abbandonare il centro della scena, può suonare come un invito a superare quell’antropocentrismo con cui ci siamo da tempo chiamati fuori dalla natura e che provoca problemi e anche disastri, non solo per l’ecologia ma pure per la nostra esperienza della vita e dei suoi valori. Forza trasformativa dunque, anche perché questo invito a superare l’antropocentrismo è già presente in forme di conoscenza che si annunciano sullo sfondo dello spirito del tempo. Vale la pena ricordare, in questo contesto, che gli studi di etologia ci raccontano dell’intelligenza degli animali e anche della capacità, in alcune specie,
di distinguere giusto e sbagliato nella scelta dei loro comportamenti. La neurobiologia vegetale ci racconta dell’intelligenza delle piante, di un cervello diffuso nelle radici e della loro migliore capacità di adattamento rispetto a noi perché prive di movimento. Anche dal cielo arrivano segni di una comune appartenenza alla natura. Quando una stella muore frammenti di materia potrebbero essere all’origine di altri pianeti. In controtendenza rispetto al transumanesimo di cyborg prossimi venturi, abbiamo tra le mani la possibilità di rimettere in movimento il progresso come miglioramento del nostro abitare il mondo, consapevoli di una comune appartenenza al cosmo. Abbiamo la possibilità di andare oltre l’umanesimo classico con una visione più aperta: un post-umanesimo in cui accogliere tutto il vivente dentro quell’«umano» che pensavamo appartenesse solo a noi.
è il mio rifugio attuale. Poderosa, chinandosi in avanti, massaggia a meraviglia il collo e la schiena. Una panca umile e un appendiabiti spartano aiutano il viaggiatore a spogliarsi al volo e infilarsi, o meno, il costume da bagno. Terme, la cui selvaggità, è accentuata dalla presenza, in giro, della felce lingua di cervo (Phyllitis scolopendrium). Le pietre dove scroscia l’acqua che sgorga dalla roccia a venticinque gradi, sono tutte rossastre. Ferruginosa, l’acqua curativa, è anche ricca di bicarbonato di calcio. Una scala a pioli porta alla passerella dove, nel quadro, si vede una passante con l’ombrellino e adesso passa la bisse termale. Scorgo, dentro la gola, una cascata. Qui è morto misteriosamente – non si sa se cadendo da solo o ucciso da un poliziotto – Joseph-Samuel Farinet (1845-1880), falsario specialista dei venti centesimi, eroe regionale, e protagonista di un libro di Ramuz. Era marginale ma amato dal popolo: così, una targa di bronzo nella roccia, ricorda «il Robin
Hood delle Alpi» senza dimenticare di precisare che è stata posata nel 1990 dai suoi amici con la complicità della Banca cantonale del Vallese. Ridiscendo la scala a pioli, mi sono quasi dimenticato dell’altro gigante. Se nel punto di vista del dipinto di Courbet, falsando un po’ la realtà del luogo, il secondo gigante, meno evidente, è inquadrato assieme a quello ben più caratteristico, in verità bisogna andare a cercarlo. Dentro la grotta-gola, dove scorre la Salentze, scovo con gioia, la roccia antropomorfa, speculare all’altra, che mostra il secondo gigante, più timido, di Saillon. Toponimo, tra l’altro, noto agli intenditori per via dello straordinario marmo cipollino estratto da questa montagna, un po’ più in alto, e innestato, per esempio, all’Opéra Garnier di Parigi, National Gallery di Londra, cattedrale di Westminster. In compagnia dei due giganti di Saillon (530 m), mi siedo su un sasso e mangio una pera: presa prima, su una bancarella servisol di frutta, guardacaso, per venti centesimi.
a puntate su Substack in un secondo momento potrà essere pubblicato da qualsiasi editore, i diritti infatti restano in mano all’autore. Tra l’altro, scrittori di questo calibro, vengono pagati da Substack con un sostanzioso anticipo per produrre contenuti, anticipo che l’azienda californiana recupera prendendo una percentuale più alta delle loro quote di abbonamento per il loro primo anno di scrittura. Le somme esatte pagate variano tra gli scrittori, ma la procedura non è molto diversa da un anticipo tradizionale sulle royalties. Questo, unito ad alcuni degli altri servizi resi disponibili agli scrittori con abbonamenti a pagamento – come un fondo legale e il supporto finanziario per l’editing, il design e la produzione di newsletter – fanno di Substack un’azienda che opera in una zona grigia tra editore e piattaforma. Intanto da settembre Rushdie ha
iniziato a pubblicare a puntate il suo breve romanzo inedito The seventh wave, pubblicazione alla quale i lettori possono partecipare attivamente commentando o proponendo variazioni al testo. Sarà un successo per Rushdie che – come scrive Maria Teresa Carbone sul «Manifesto» – da anni non suscita nei critici e nel pubblico l’entusiasmo iniziale? Prendendo in prestito le sue stesse parole «l’avventura su Substack potrà rivelarsi meravigliosa oppure no». Se per Rushdie la partita è ancora tutta da giocare per il giornalismo di qualità Substack si è già dimostrata essere uno spazio di condivisione libero e indipendente scelto da molti giornalisti di spessore che vengono da pubblicazioni quotate come «New York Times», «Vox», «BuzzFeed» e altre. Ma di questo parleremo nella prossima puntata, vi aspetto.
passeggiate svizzere di oliver scharpf I giganti di Saillon Paysage fantastique aux roches anthropomorphes è il titolo con cui, nell’autunno del 1977, un quadro di Courbet, in occasione della grande mostra per il centenario della morte, viene esposto al Grand Palais di Parigi. Anni dopo ad Amiens, al Musée de Picardie, in quel quadro, un insegnante di Saillon, in Vallese, riconosce un paesaggio familiare. Sepolto, fino a quel momento, nei ricordi d’infanzia, visto che il posto, nel frattempo, per via di alcune piene del torrente, era diventato inaccessibile. Dipinto nell’autunno 1873 da Gustave Courbet (1819-1877) – «il maestro del realismo» come spesso viene chiamato l’autore del quadro-scandalo L’Origine du monde – nelle gole della Salentze, dove mi sto dirigendo. L’unica opera di fantasia di questo quadro, dunque, sembra essere, finora, il titolo affibbiatogli per la retrospettiva parigina. E l’unico indizio sicuro, per trovare il posto dipinto – attrazione turistica minore dell’ottocento tipo orrido con rocce
a forma di teste giganti e sorgente termale, della quale si era persa conoscenza per via della sparizione del sentiero – è risalire il corso della Salentze. Appena percepibile, un po’ fuori dal villaggio viticolo di Saillon abbarbicato su un promontorio dove svetta una torre duecentesca, la piega boschiva nella montagna che suggerisce, in lontananza, le gole. Così, un pomeriggio ai primi di ottobre con un sole che spacca i sassi, a metà strada tra Sion e Martigny, cammino sulla sponda sinistra di questo fiumiciattolo affluente destro del Rodano. Dappertutto, vigneti gravidi d’uva pronta per la vendemmia, si distendono sul suolo propizio, aggrappandosi finché possono alla roccia calcarea. Entro tra le querce pubescenti e dopo non molto, ecco, all’altezza del ponticello di legno, il posto del quadro. La testa del gigante, di profilo, tutta ammantata di muschio, bocca aperta, appare al primo colpo d’occhio. Una cascatella gli piove in testa e scende accanto all’orecchio. Il gigante, più
incantevole del previsto, si trova sulla sponda opposta dove approdo ora, all’entrata della gola buia che forma come una caverna. La Caverne des Géants è il titolo con cui il quadro viene appeso a Losanna, nel maggio 1874, in una esposizione organizzata dalla Societé Suisse des Beaux-Arts, assieme a due altri quadri, uno con tre trote. Per centotré anni si perde poi di vista, perdendo, per strada, anche il titolo. «La testa enigmatica di Saillon» è invece la didascalia di un’incisione apparsa nel 1869 sulle pagine di «Der Bund» dove anche lì, come nel quadro, a differenza di oggi, l’acqua usciva dalla bocca. Un mostro bonario, con qualcosa dell’orsacchiotto di peluche, mi sembra adesso il gigante che aveva spaventato il piccolo Claudy Raymond, l’insegnante che ad Amiens riscopre il luogo dell’olio su tela di Courbet. Scappato in Svizzera dopo l’accusa di aver causato la caduta della colonna Vendôme durante le sommosse comunarde. La doccia termale, che scende da una fenditura in un tronco,
la società connessa di natascha Fioretti Il potere della newsletter per scrittori e giornalisti Cosa hanno in comune gli scrittori Chuck Palahniuk, Salman Rushdie, Etgar Keret, la cantautrice Patti Smith e il giornalista del magazine «Rolling Stone» Matt Taibbi? Sono tutti su Substack, una piattaforma online a pagamento che distribuisce contenuti in forma di newsletter. Avete presente le newsletter che ogni mattina vi mandano i giornali con i fatti e gli articoli del giorno? In questo caso nella newsletter trovate interi articoli di giornale oppure i capitoli di un libro. Per essere più precisi Chuck Palahniuk, l’autore di Fight Club, ha appena siglato un accordo per il suo sedicesimo romanzo Greener Pastures. Per leggerlo su Substack basta sottoscrivere un abbonamento di sei dollari al mese oppure quaranta dollari l’anno. Patti Smith approdata su Substack lo scorso anno ha esordito con The Melting, il suo diario personale sulla pandemia. Dieci
contributi gratuiti e poi uno ogni martedì a pagamento. Non solo testi, Patti Smith posta e invia anche contenuti audio. È stato notevole scoprire il video che la cantautrice statunitense ha postato sul suo account Instagram per annunciare la sua nuova avventura (non è passato inosservato il gatto sulle sue gambe che di tanto in tanto guardava nella videocamera): «Domani alle 12.00 lancio questa nuova cosa che mi piace molto. Quello che dovete fare è digitare pattismith.substack. com». Fondata quattro anni fa in California, Substack è una piattaforma sulla quale qualsiasi azienda, scrittore o giornalista può creare una newsletter e chiedere dei soldi ai lettori per finanziarla su base mensile o annuale. Il dieci per cento delle entrate totali di ogni newsletter va alla piattaforma. Non è l’unica, esistono altre realtà come
Mailchimp ma nessuna ha il successo di Substack che piace per il suo sistema efficiente e intuitivo nel chiedere e ottenere soldi dai lettori. A darle incredibile slancio è stata la pandemia che nei primi tre mesi ha fatto lievitare le entrate del 60 per cento e al contempo ha raddoppiato gli autori e i lettori della piattaforma. Per il fondatore e CEO Chris Best è uno spazio pensato per rompere l’economia dell’attenzione promossa dai social media, un luogo dove pubblicare e diffondere contenuti più strutturati, riflessioni approfondite finanziate direttamente dai lettori. A settembre è salito a bordo anche Salman Rushdie, una mossa che molti hanno commentato come l’inizio della fine del libro stampato. In verità, ed è già stato il caso di David Mitchell e Neil Gaiman con un’esperienza simile su Twitter, il romanzo che Rushdie o Palahniuk pubblicano
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 ottobre 2021 • N. 41
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ambiente e Benessere alpabzug Flimserstein Ovvero la festa alpigiana grigionese in occasione della tradizionale transumanza
I vini di Bolgheri Tra i tanti borghi toscani che producono e ospitano visitatori amanti di Bacco, un gioiello lungo la Costa tirrenica spicca su tutti
Sculture di pietra mostruose A Bomarzo, un «Sacro Bosco» avvolto dalla boscaglia crea un mondo fiabesco e mitologico
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la Jeep si fa più estrema Si chiama Trailhawk e affiancherà la prima elettrificata della Casa americana, la Grand Cherokee 4xe
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chirurgia oncoplastica del seno ottobre rosa Una nuova filosofia
di approccio al tumore della mammella
Maria Grazia Buletti Ottobre è il mese dedicato alla prevenzione del tumore al seno. Nell’ambito di «Ottobre rosa 2021», fra le tante iniziative che accendono i riflettori sul tema dei tumori mammari, il Centro di Senologia della Clinica Sant’Anna di Sorengo sarà presente con un presidio informativo sulla prevenzione del tumore al seno giovedì 14 ottobre a Lugano, in Piazza Dante a partire dalle ore 17. Proprio la prevenzione del tumore al seno (screening mammografico, autopalpazione e via dicendo) è senza ombra di dubbio ciò che permette di individuare precocemente eventuali neoplasie che, poi, devono però essere adeguatamente prese a carico e curate. «Il primo passo nella cura del tumore alla mammella è una diagnosi corretta, accurata e precoce». A parlare è il chirurgo oncoplastico Damir De Monaco, attivo alla Clinica Sant’Anna di Sorengo dove lo incontriamo nell’ambulatorio di senologia. Nella fase di presa a carico della paziente, egli sottolinea l’importanza di comprendere «in modo preciso di quale tumore si tratta, individuandone a fondo le caratteristiche biologiche, il posizionamento all’interno del seno e le sue dimensioni». Questo permetterà agli specialisti di proporre un piano terapeutico personalizzato ed efficace, nell’ambito del quale entrano diverse figure che collaborano in modo interdisciplinare, fra le quali quella del chirurgo oncoplastico. Di fatto, la chirurgia oncoplastica rappresenta l’espressione attual-
mente più avanzata della chirurgia conservativa della mammella in caso di carcinoma mammario: «Negli ultimi quarant’anni, e grazie al professor Umberto Veronesi che ne fu pioniere, il modo di concepire il trattamento chirurgico di questo tumore è cambiato completamente: un tempo si effettuava l’asportazione in blocco del seno, mentre oggi, grazie ai progressi della chirurgia, la donna ha diritto a quello che si può definire il minimo trattamento efficace, a garanzia di una minore invasività e la preservazione della sua salute». Questo tipo di chirurgia conservativa è diventata il «trattamento di scelta» del carcinoma mammario, nella quale il chirurgo oncoplastico combina l’asportazione del tumore con il rimodellamento del seno residuo. Tutto questo permette di «ottenere il miglior risultato dal punto di vista estetico, garantendo nel contempo il miglior trattamento per il tumore». Si delinea la figura del chirurgo oncoplastico che possiamo definire come quella figura professionale che in un certo senso scaturisce dall’unione della chirurgia oncologica e di quella ricostruttiva ed estetica: è un chirurgo che si prepara a fondo per svolgere sia l’intervento di asportazione del tumore, sia quello di rimodellamento e ricostruzione del seno operato. Ne scaturisce il grande vantaggio dell’integrità corporea della paziente che rimane al centro dell’interesse medico e terapeutico: «Non curo tumori, ma pazienti che hanno un problema al seno, nel contesto di una fondamen-
migros sostiene il «pink ribbon» Il cancro al seno è uno dei tumori più comuni in tutto il mondo: una donna su otto deve confrontarsi con il cancro al seno nel corso della propria vita. La diagnosi precoce può salvare vite: più piccolo è un tumore quando viene diagnosticato, maggiori sono le possibilità di sopravvivenza. Per questo è fondamentale che il tema sia ben presente a tutti. Il nastro rosa «The Pink Ribbon» sensibilizza ed è oggi un simbolo inconfondibile nella
lotta contro il tumore al seno in tutto il mondo. Insieme a Pink Ribbon, Migros si impegna a combattere il tumore al seno e dona alla causa un importo per ogni prodotto speciale Pink Ribbon venduto (vedi a p. 38-39). Nella piattaforma di informazione di Migros sulla salute, iMpuls, potete trovare una sezione speciale dedicata al tema: https://www.migros-impuls. ch/it/medicina/malattie/cancro-alseno.
Il dottor Damir De Monaco, chirurgo oncoplastico con la dottoressa Oana Moscovici, radiologa senologa. (stefano spinelli)
tale ed empatica presa a carico della persona». Il dottor De Monaco sottolinea il fatto che il risultato estetico non influenza direttamente la «prognosi della malattia», ma fa la differenza su «quella umana, dell’anima, psichica della paziente, che ha comunque un grande influsso sul risvolto somatico». Si può facilmente comprendere quanto, per vivere bene e vivere sano, sia fondamentale riuscire a limitare e contenere ragionevolmente i danni del tumore. De Monaco spiega che il chirurgo oncoplastico impara fin dall’inizio del proprio percorso formativo «ad unire due esigenze fondamentali: prima di tutto eliminare la malattia asportando tutto il tessuto mammario coinvolto, e poi salvaguardare al massimo la qualità di vita del malato, ponendo maggiore attenzione all’aspetto estetico che aiuterà la paziente ad accettare meglio il suo nuovo aspetto». Così facendo, il percorso della persona a cui viene dia-
gnosticato un tumore al seno si delinea un po’ meno impervio. Il piano terapeutico è concordato e confermato dopo discussione collegiale nell’ambito di un gruppo interdisciplinare che comprende differenti figure come il radiologo (essenziale nella fase diagnostica e di pianificazione interventistica), l’oncologo, il radioterapeuta, lo psicologo e via dicendo, solo per citarne alcuni. Il nostro chirurgo oncoplastico ribadisce e riassume gli aspetti salienti della sua figura professionale: «Il chirurgo oncoplastico è addestrato ad affrontare qualunque opzione chirurgica in tempo reale: da un lato si pratica la chirurgia demolitiva e dall’altro quella ricostruttiva, in modo da appagare entrambe le esigenze» ed è fondamentale perché «la terapia chirurgica del tumore mammario non deve essere sinonimo di mutilazione per la donna e la cura del corpo non deve essere causa di una malattia dell’anima».
Queste sono le ragioni per le quali la chirurgia oncoplastica si è consolidata sempre più anche in funzione del fatto che il risultato estetico è diventato una preoccupazione anche del medico oltre che della donna stessa. Il dottor De Monaco però sottolinea: «Non possiamo ignorare che la chirurgia oncoplastica non può essere standardizzata ma va programmata sulla singola paziente e sul singolo caso oncologico». La sicurezza oncologica non può dunque non tenere conto del risultato estetico e della soddisfazione della paziente: due obiettivi raggiungibili e non mutuamente esclusivi, alla base dei quali rimane ben salda la buona comunicazione fra chirurgo oncoplastico e paziente: «Nel processo decisionale, nel percorso terapeutico e nel rispetto della persona, la relazione che si instaura fra medico e paziente rimane il perno fondamentale che ruota attorno all’empatia e alla reciproca fiducia».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 ottobre 2021 • N. 41
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Idee e acquisti per la settimana
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 ottobre 2021 • N. 41
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ambiente e Benessere Bargis: il risotto tipico della zona preparato nei pentoloni. (su www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica)
un’ode all’autunno
reportage Grande festa alpigiana nei Grigioni per il ritorno in valle delle mucche dopo la stagione estiva negli alpeggi
Simona Dalla Valle, testo e foto Ovunque si posi lo sguardo vi sono mucche che camminano, mucche che mangiano, mucche che muggiscono o che agitano testa e orecchie per allontanare le mosche. Il suono ininterrotto e dissonante dei campanacci, che all’inizio urta i timpani rompendo la pace del posto, a un certo punto prende a formare una melodia solenne. Una sorta di canzone della montagna, un’ode all’autunno che inizia.
Si torna a casa dopo la «villeggiatura» ad alte quote per sfruttare l’erba che cresce negli alpeggi solo nel periodo estivo L’aria è frizzante e limpida, ai millecinquecento metri di altitudine della località di Bargis. Ad attrarre una moltitudine di visitatori è la transumanza, ovvero il viaggio delle mucche che fanno ritorno in valle al termine del periodo estivo trascorso negli alpeggi. Situata nel cantone dei Grigioni a nord-est di Flims nel territorio comunale di Trin, con il nome di Bargis si fa riferimento all’alpe ma anche, colloquialmente, alla totalità dell’alta valle attraversata dall’Aua da Mulins. Il suo nome deriva da Bargia, termine in lingua retoromancia – antenata del ladino parlato nella zona – trasformato poi in Bargis dalla comunità walser di lingua tedesca a Fidaz. L’alta valle è delimitata dal ripido fianco dell’altopiano Flimserstein a sud-ovest e dalle cime di Tristelhorn, Ringelspitz e Crap Mats a nord-est. Ogni anno, nel mese di giugno, le mucche salgono le pendici della montagna lungo la Scala Mola, che segue
il fianco roccioso del Flimserstein. Il ripido sentiero alpino, intagliato nella roccia in epoca romana, fu ampliato nel 1645, come testimoniano le parole di Johann Andreas von Sprecher. Secondo lo storico, il sentiero così rimaneggiato era ancora tanto pericoloso alla fine del XVIII secolo che ogni anno alcuni animali cadevano nel baratro. Il sentiero che vediamo oggi è frutto di un ulteriore ammodernamento, che avvenne nella seconda metà dell’Ottocento a opera di manutentori italiani ingaggiati dall’amministrazione comunale di Flims. La strada è tuttora così stretta che gli animali devono percorrere in fila indiana i 500 metri di dislivello che conducono dalla locanda Bargis all’alpeggio e viceversa. Una volta arrivati in cima, la totalità delle mucche è distribuita in genere tra quattro pastori che si stabiliscono all’alpeggio durante i mesi estivi. Oltre a occuparsi della salute delle mucche e della loro mungitura, tagliano la legna, costruiscono steccati e si occupano della manutenzione di un’area di oltre 600 ettari a un’altitudine tra i 1550-2000 metri, che comprende le stalle e alcune capanne alpine. Scopo di questo periodo di «villeggiatura» è sfruttare l’erba che cresce negli alpeggi solo nel periodo estivo, mentre quella presente in valle può essere raccolta e conservata. Dopo la metà di agosto, quando la maggior parte dei lavori di manutenzione è stata completata, il numero di pastori si riduce a tre. Come ogni anno, dopo un periodo di circa novanta giorni trascorso sui pascoli rigogliosi del Flimserstein all’ombra della cima del Fil de Cassons, ha luogo la festa tradizionale che porta qui il nome di Alpabzug e che nel 2021 ha festeggiato la sua sedicesima edizione nonostante la pandemia in corso.
Bargis: arrivo delle mucche a valle.
Mucche in attesa di campanacci «della festa» e fasce in cuoio ricamate.
Quest’anno sono 170 mucche e 68 vitelli a occupare il sentiero roccioso. Sul capo di una di esse, al posto delle decorazioni tipiche, c’è una macchina fotografica grandangolare, le cui riprese sono trasmesse sui grandi schermi posizionati in valle, così che gli spettatori possano seguire il percorso in diretta. Come ogni anno, la mattina presto prima della discesa, gli animali sono puliti e decorati con fiori, e gli alpigiani si vestono a festa con costumi tradizionali. La partenza avviene in genere intorno alle nove e, se il vento è favorevole, dopo qualche tempo si iniziano già a sentire i campanacci in lontananza. Alla vista delle prime mucche sul lato esposto del percorso, è un tripudio: qualcuno accenna un brindisi tra le grida entusiaste dei bambini, mentre tutti insieme attendono il grande momento dell’arrivo a valle. Turisti e locali si riuniscono presso la Buura Z’morga e la Festwirtschaft per assistere allo spettacolo in questa giornata di settembre che segna anche la fine dell’estate. Le celebrazioni, così come le loro tempistiche, variano da zona a zona. In
alcune parti dell’arco alpino, il trasferimento degli animali si svolge senza particolari stravolgimenti. Altrove, come in Appenzello e nei Grigioni, la discesa a valle diventa un’occasione di festa e la processione è accompagnata da canti e festeggiamenti. Anche il termine usato per designare l’occasione è diverso a seconda della zona e dei dialetti che vi si parlano: «Viehscheid» (o più semplicemente «Scheid») nella regione tedesca dell’Algovia e «Almabtrieb» in quella bavarese, «Kiekemma» per gli altoatesini e per i francofoni «Désalpe», la denominazione è usata in tutta la regione alpina per descrivere il trasferimento del bestiame dai pascoli di montagna alla valle, dove trascorrono l’inverno nelle stalle dei masi. Il momento della discesa è determinato dall’arresto della crescita dell’erba sugli alpeggi insieme alle ondate di freddo, e a seconda della regione avviene tra metà settembre e metà ottobre. A intervalli regolari, una banda di suonatori di corno svizzero esegue una melodia solenne. Poco più avanti, una coppia di cantanti di jodel allieta le famiglie sedute sulle panche allestite in
fila per l’occasione. Una lunga coda si è formata di fronte ai pentoloni dove specialità locali come risotto e salsicce sono preparate al momento. Altre bancarelle vendono formaggi, dolci, miele e specialità contadine, mentre uno stand fornisce informazioni turistiche.
La discesa a valle diventa un’occasione di festa e la processione è accompagnata da canti e festeggiamenti Dopo una sosta di due ore a Bargis, durante la quale le bestie si rifocillano e vengono decorate con corone di fiori freschi e fasce di cuoio ricamate, il cammino ricomincia attraverso Fidaz con destinazione Flims o Foppa, dove le mucche fanno ritorno a «casa» nelle stalle, restituite ai loro proprietari. Fino al prossimo anno, fino alla prossima salita lungo il ripido fianco del Flimserstein.
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Idee e acquisti per la settimana
naturalmente croccante
Le croccanti barrette energetiche Be-Kind hanno due grandi punti di forza: una ricetta semplice e ingredienti naturali. Ogni singolo snack è fino al 76% composto da frutta secca, contiene molte fibre ma nessun colorante, aroma o conservante artificiale. La scelta contempla più varianti. Si può scegliere tra una barretta proteica con burro di arachidi e noccioline intere, una versione dolce-salata con noci e cioccolato fondente e una al caramello con mandorle intere e sale marino.
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Be-Kind protein Crunchy peanut Butter 50 g Fr.3.50
Be-Kind Caramel Almond & Sea Salt 40 g Fr.2.95
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ambiente e Benessere
Il profumo del vino tra livorno e la maremma
Bacco giramondo Enologicamente parlando, la Toscana è oggi la regione con il volume d’affari
con l’estero più importante di tutta la Penisola – 1a parte
Davide Comoli La storia e le sue vicende hanno avuto un grande peso in Toscana nell’affermare la coltura della vite e la produzione del vino. Qui, prima gli Etruschi e subito dopo i Romani, sono stati i popoli che hanno radicalmente influenzato la vitivinicoltura. Se gli Etruschi sono stati essenziali, i Romani sono stati determinanti, perché a loro va il merito di averla sviluppata e diffusa sull’intero territorio della regione. Oggi la Toscana può essere considerata il cuore pulsante del vino italiano, grazie a una coltivazione che ha creato uno stretto e felice connubio con il territorio e il suo ambiente, alla sinergia che ha realizzato con l’uomo e i suoi obiettivi, e alla sincronia intrecciata all’attitudine turistica che pervade tutta questa regione. La Toscana di oggi è enologicamente parlando la regione con il volume d’affari con l’estero più importante di tutta la Penisola; in particolare per la categoria di vini a Denominazione, che è circa il 95 per cento della locale produzione, su una superficie vitata di circa 58mila ettari disposti soprattutto in collina. Nella sua forma che ricorda sommariamente un triangolo, la Toscana propone un territorio che sembra fatto apposta per la viticoltura, con un alternarsi instancabile di colline e vallate, sulle quali la vite trova il suo habitat naturale: profili ondulati, spezzati a tratti da cipressi imperiosi, panorami indimenticabili, punteggiati qua e là da torri merlate. Non bisogna poi dimenticare la gastronomia che ci viene offerta in ogni borgo in cui sostiamo, lungo le diciotto strade, e anche più, del vino della regione. Il vitigno più rappresentativo della Toscana è senz’altro il Sangiovese, che nella classificazione attuale contempla cinque biotipi principali, distinguibili per la forma del grappolo e per le attitudini colturali: Sangiovese Piccolo, Sangiovese Grosso o Brunello, Prugnolo Gentile, Sangiovese Romagnolo a Cannello Lungo e Sangiovese del Grossetano chiamato anche Morellino. Non solo Sangiovese però: tra i vitigni a bacca nera sono mol-
to diffusi il Ciliegiolo, il Canaiolo Nero, l’Aleatico, mentre tra quelli a bacca bianca il Trebbiano Toscano, la Vernaccia di San Gimignano, l’Ansonica, la Malvasia Bianca e il Vermentino. Ma è negli ultimi decenni che la Toscana si è imposta a livello mondiale, soprattutto con i vini ottenuti da uve internazionali. La regione ha così dimostrato di saper produrre grandi vini, sia con uve autoctone sia ricorrendo ai vitigni stranieri, in modo particolare quelli provenienti dalle vigne di Bordeaux. Le zone viticole della Toscana le possiamo suddividere in due macroaree: le colline della Toscana Centrale, che è il cuore storico della regione con le zone del Chianti, del Brunello di Montalcino, del Nobile di Montepulciano, i cui territori sono da sempre l’emblema della viticoltura Toscana, e la Costa Tirrenica, dai colli Apuani sino a Grosseto, nel cuore della Maremma. Entrando da settentrione dalla Liguria, incontriamo la zona dei Colli di Luni, dove circa 200 ettari di vigneto disegnano le colline, creando un caleidoscopio colorato sullo sfondo delle bianche cave di marmo tra Massa e Carrara. Tra i vitigni bianchi primeggia il Vermentino, tra i rossi invece, l’onnipresente Sangiovese e un vitigno locale chiamato Barsaglina. La nostra strada prosegue verso sud, superata Viareggio e superati i massicci bastioni di Lucca, ci addentriamo lungo le colline nella D.O.C. Colline Lucchesi, per arrivare nella piccola cittadina di Montecarlo; famosa per i suoi vini fin dall’antichità, gustiamo sia un ottimo rosso prodotto da uve Sangiovese e Ciliegiolo, sia un bianco di Sauvignon e Grechetto, che bagna il nostro piccolo spuntino, dove il lardo di colonnata e la finocchiona dominano il resto degli affettati. Sfioriamo dopo Pisa la D.O.C. San Torpè, dove si produce un semplice e onesto Trebbiano. In serata arriveremo a Bibbona, dove già da Cecina, sentiamo l’influenza forte di Bolgheri, ne è la prova il rosso di Syrah e Merlot, ricco di note balsamiche, speziate dal colore intenso, che abbiamo abbinato al nostro piatto di «pollo alle prugne» (prugne secche, pan-
Scelto per voi
Un vigneto nella campagna di Bolgheri. (david lienhard)
cetta, vino bianco, carote, cipolle olio e pepe). Con la provinciale siamo giunti al bivio per Bolgheri, frazione del comune di Castagneto Carducci, fino agli anni Cinquanta conosciuta solo per i suoi cipressi «che alti e schietti van da San Guido in duplice filar», recita l’incipit di una famosa ode di Giosuè Carducci, che in questi luoghi visse la sua infanzia. Grazie alla lungimiranza del Marchese Mario Incisa della Rocchetta, che qui fece impiantare 1,5 ettari di Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc nel 1944, oggi questa zona di circa 1140 ettari, gode di una fama internazionale, in particolare per il suo vino di punta, il Sassicaia, riconosciuto quasi universalmente come il padre di una nuova famiglia di vini italiani; i cosiddetti «Supertuscan». Oltre ad avere diverse analogie con il terroir bordolese (altitudine limitata, influenza delle brezze che arrivano dal mare, terreni alluvionali-ciottolosi, con una buona presenza di ossido di ferro), il successo di questi vini in parte è dovuta alla brillante idea dell’introduzione della barrique in Italia all’inizio degli anni Cinquanta. Le colline alle spalle di Castagneto Carducci proteggono i vigneti di Bolgheri dai venti del nord in inverno, mentre in estate spirano leggeri venti rinfrescanti provenienti dal mare. Il disciplinare del
Bolgheri D.O.C., permette di utilizzare monovitigni per i rossi e i rosati: Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Merlot fino al 100 per cento, ma sono ammessi fino al 50 per cento il Sangiovese, il Syrah e piccole percentuali di Petit Verdot. Questo non consente un unico stile di vini di Bolgheri, perché nella stessa D.O.C. possiamo trovare vini con netto taglio bordolese e di altri dove è presente il Sangiovese. Scoviamo pure dei vini I.G.P. prodotti con uve Merlot o con Cabernet Franc 100 per cento (Paleo), vini che hanno raggiunto il «gotha» mondiale nel settore. A Bolgheri si produce anche in piccole quantità un bianco a base di Vermentino e Sauvignon Blanc, di un bel colore dorato, dagli intensi profumi di macchia mediterranea: lo abbiamo provato con estrema soddisfazione con un piatto di «triglie alla livornese», in un noto ristorante a San Vincenzo. Concludiamo la serata con una «mousse al cioccolato» perfettamente abbinata a un Aleatico Passito della non lontana Isola d’Elba, dall’intrigante profumo di gelatina di mora, fiori rossi e spezie dolci. A Suvereto faremo sosta per la notte, domattina visiteremo lo spettacolare progetto dell’architetto Mario Botta, la cantina di Petra, dove vengono vinificate soprattutto uve di Cabernet Sauvignon, Sangiovese e Merlot.
arcadia pestoni
«La valle del Sementina fende i contrafforti del monte come una crepa in una muraglia», così scrive sul suo sito Giancarlo Pestoni (Azienda Pizzorin, Sementina). È qui, su questi terreni collinari, che Giancarlo e la moglie Simona allevano con cura in una piccola azienda famigliare le uve di queste vigne, dove vengono prodotti sei tipologie di vini rossi, due vini bianchi e un rosato. Oggi per voi abbiamo scelto l’Arcadia, un Merlot che, dopo la macerazione e fermentazione in vasche d’acciaio, subisce un affinamento di dodici mesi in barriques di secondo e terzo passaggio. Dal bel colore rosso rubino, l’Arcadia ci colpisce per i suoi aromi di frutta rossa e violetta, leggeri sentori fumée di liquirizia e tannini vellutati. Vino di corpo e di buona persistenza, lo raccomandiamo per i piatti della nostra cucina: noi lo abbiamo sposato in modo eccellente con un salmì di capriolo e polenta. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 25.–. annuncio pubblicitario
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ambiente e Benessere
un pane al forno che si fa da sé Si può fare il pane senza impastarlo? Sì, eccome. È un po’ noioso: alcune persone non hanno molto tempo da dedicarvi. E, comunque, per farlo occorre una casseruola, con coperchio, che possa andare in forno ad alta temperatura. Va bene una pentola di terracotta, ma l’ideale è una casseruola di ghisa smaltata. Questo pane va fatto necessariamente in due giorni, però, d’altro canto, consente di disinteressarsi abbastanza delle fasi di lievitazione e di cottura.
Fondamentale nella produzione di questo pane «senza fatica» è la quantità di tempo dedicato alla lievitazione Il primo giorno sciogliete completamente 6 g di lievito di birra (se usate farine integrali o di altri cereali tipo orzo, avena, eccetera portate a 10 g) in mezzo bicchiere d’acqua tiepida. Mettete in una terrina, possibilmente di plastica, 400 g di farina di grano tenero “0” e 600 g di farina Manitoba, 4 cucchiaini di sale e 1 cucchiaino raso di malto (altrimenti miele). Mescolate brevemente con una forchetta e aggiungete prima il mezzo bicchiere d’acqua e lievito, quindi 700 g di acqua tiepida. Mescolate ancora 2-3 minuti, giusto per amalgamare gli ingredienti. Coprite la terrina con la pellicola da cucina e lasciatela in un posto tranquillo fino al giorno dopo; la temperatura non è importante, basta che non sia né troppo alta né troppo bassa rispetto a dove avete preparato l’impasto, va benissimo il forno spento. La mattina seguente, il composto sarà lievitato e appiccicoso, e soprattutto la superficie si sarà riempita di piccole bollicine; cospargete di farina il piano di lavoro e rovesciatecelo sopra. Non impastate assolutamente, ma effettuate
con cura la seguente operazione: piegate l’impasto a portafoglio per due volte – in sostanza, con l’impasto davanti a voi, prendete il lembo destro e piegatelo verso sinistra fino all’incirca due terzi dell’impasto, ora prendete il lembo sinistro e sovrapponetelo fino al margine destro (in pratica l’impasto presenterà tre strati in altezza) – quindi fate la stessa cosa nel senso verticale, prendendo prima il lembo basso e poi il lembo alto. Cospargete di farina un panno da cucina pulito, e aiutandovi con una stecca da panettiere, rovesciateci sopra il composto, in modo che le pieghe stiano sotto, a contatto con il panno. Cospargete di farina e coprite con un altro panno asciutto, lasciando a lievitare per un paio d’ore. Dopo 1 ora, accendete il forno alla massima temperatura che avete, collocate una griglia a mezza altezza e, una volta che il forno è caldo, collocate sulla griglia la pentola di ghisa smaltata, senza coperchio, in modo che rimanga per almeno mezz’ora nel forno. Al termine delle due ore di lievitazione, prendete velocemente la pentola dal forno, rovesciateci dentro l’impasto in modo che ora le pieghe siano verso l’alto (se la pentola è sufficientemente calda, l’impasto non vi si attacca minimamente). Coprite subito con il coperchio e infornate immediatamente, in modo che la temperatura della pentola cali il meno possibile. Continuate a tenere il forno al massimo per una cinquantina di minuti, quindi sollevate un poco il coperchio per verificare la cottura del pane, che dovrebbe essere cotto e presentare un aspetto esteriore molto brunito, tipo cottura in un forno a legna. Estraete la casseruola dal forno, rovesciatela su uno dei panni precedentemente usati in modo che il pane esca (semmai scuotetela un poco, ma dovrebbe scivolare bene fuori, non essendosi attaccata alla superficie rovente della casseruola stessa), e fatelo raffreddare almeno 30 minuti, avvolto nel panno stesso. Buon appetito!
cSF (come si fa)
pixabay.com
Allan Bay
dattiluca
Gastronomia Ci vogliono due giorni di tempo, ma nessuno sforzo fisico e men che meno troppa attenzione
Vediamo come si fanno tre piatti a base dell’amata anguilla. Anguilla alle albicocche (ingredienti per 4 persone). Rosolate 1 kg di anguille pulite, spellate e tagliate a tocchi di 4 cm con 1 filo di olio e 1 spicchio d’aglio per 4’. Unite 1 bicchierino di vino bianco dolce, 4 cucchiaiate di soffritto di cipolla, 1 cucchiaio di zucchero, 2 foglie d’alloro e 4 foglie di salvia e cuocete per 12’ a
fuoco dolce, unendo poca acqua se asciugasse troppo. Eliminate aglio e alloro, unite 200 g di albicocche secche fatte rinvenire nel vino per 20’, strizzate e divise in 4 parti, 60 g di uvetta e 2 cucchiaiate di aceto di mele e cuocete per 4’, sempre a fuoco dolce e rimestando. Regolate di sale e pepe, spolverizzate con foglie di menta tritate e servite. Ragoût di anguilla con funghi e cipolline (per 4 persone). Rosolate 1 kg di anguille pulite, spellate e tagliate a tocchi di 2 cm con 1 filo di olio e 1 spicchio d’aglio per 2’. Unite un bicchierino di vino bianco, 4 cucchiaiate di soffritto di cipolla e un mazzetto guarnito e cuocete per 12’ a fuoco dolce, unendo poca acqua se asciugasse troppo. Eliminate aglio e mazzetto. Tagliate a fette 200 g di funghi freschi a piacere e
saltateli a fuoco vivo con un filo di olio e 1 spicchio di aglio finché la loro acqua sarà evaporata. Eliminate l’aglio. Mescolate 200 g di cipolline glassate e i funghi con l’anguilla, quindi cuocete per 4’, unendo un bicchierino di brodo di verdure. Regolate di sale e pepe e profumate con prezzemolo tritato. Anguilla fritta (per 4 persone). Tagliate a tocchi di 3 cm 1 kg di anguille pulite e spellate. Lessatele in un brodo vegetale per 10’, spegnete e lasciatele nel brodo per 10’. Scolatele e asciugatele bene tamponando con carta assorbente. Passate i tocchi prima nella farina, poi in uovo sbattuto e nel pangrattato. Friggeteli in abbondante olio di arachide caldissimo e sgocciolateli su carta assorbente. Spolverizzateli con sale e pepe e serviteli con salsa tartara e con patate fritte.
Ballando coi gusti Oggi, due hamburger: uno piuttosto classico e uno a base di soia, come sempre facili da fare e appaganti.
Hamburger di manzo con uovo in camicia
Soia burger
Ingredienti per 4 persone: 600 g di carne di manzo tritata o tagliata al coltello ·
Ingredienti per 4 persone: 400 g di germogli di soia · 200 g di polpa di patata lessa
2 cucchiai di capperi sott’aceto · 1 cucchiaino di prezzemolo · 40 g di polpa di patate lessa · 1 albume · 4 uova · insalata · pane ai cereali · olio d’oliva · sale e pepe.
In una ciotola mescolate la carne con il sale, la polpa della patata, i capperi sciacquati e sgocciolati, il prezzemolo e l’albume. Formate gli hamburger e createvi un incavo nel mezzo. Grigliateli sulla piastra ben calda 5 minuti per lato. Intanto preparate le uova pochè: appoggiate dentro a una ciotolina un foglio di pellicola alimentare e ungetelo. Rompetevi un uovo e chiudetelo a cartoccio. Tenendo ferma la chiusura del cartoccio con una pinza da cucina immergete l’uovo in acqua che sobbolle e cuocete per 3 minuti. Tagliate il pane ai cereali a metà e scaldatelo. Mettete sul pane una o due foglie di insalata, l’hamburger, sopra a questo l’uovo, salate e pepate e irrorate con un filo di olio.
· 1 cucchiaio di prezzemolo tritato · 1 spicchio di aglio tritato · ½ cipolla rossa tagliata a rondelle · pane ai cereali · pane grattugiato · olio di semi di arachidi · 1 cucchiaio di farina di riso · sale e pepe. Reidratare i germogli di soia in brodo vegetale bollente per 10 minuti. Scolateli, strizzateli e metteteli in una ciotola. Unite la polpa di patata, il prezzemolo, l’aglio, la cipolla e la farina di riso. Regolate di sale e pepe e mescolate. Formate gli hamburger e passateli nel pane grattugiato. Friggeteli in olio di semi poi scolateli su carta da cucina. Tagliate il pane ai cereali a metà e scaldatelo. Servite gli hamburger nel pane caldo accompagnati con insalata.
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ambiente e Benessere
Il «Bosco sacro» di Bomarzo
escursione Un parco mitologico che, nell’epoca della tecnologia esasperata, sa ancora stupirci
Franco Cattaneo
con il suo fascino fiabesco
Alessandro Zanoli Quel che lo aspetta, il visitatore lo sa già prima di entrare: le foto dei mostri le hanno viste tutti, in un modo o nell’altro. In realtà, la domanda che si pone è: «Come reagirò?». Insomma, nel varcare la soglia di questa bizzarro parco, diventato negli ultimi anni un’attrazione conosciuta e frequentatissima, si vive, chi più chi meno, un’aspettativa emotiva, non semplicemente estetica.
La visita di questo luogo può andare anche oltre il fantasy e diventare una ricerca, un percorso alla scoperta di sé La storia del parco è nota: si tratta del divertissement di un nobile laziale appartenente alla famiglia Orsini, che a metà del 1500 ha voluto concretizzare le sue fantasie giocose e architettoniche arredando con gigantesche sculture in pietra e con curiose costruzioni un ampio spazio di terreno della sua tenuta. Il tutto in un gusto favolistico e mitologico iscritto nella fantasia che plasmava la vita quotidiana della nobiltà di quell’epoca. Il «Sacro Bosco» è stato in seguito dimenticato e per secoli queste enormi immagini sono state divorate dalla boscaglia, riacquistando in tal modo forse un carattere ancora più mitologico. Poi, in anni recenti del 1900, alcuni estimatori locali hanno pensato di salvare lo strano patrimonio intravvedendone, a ragione, il potenziale turistico. Hanno restaurato i mostri e li hanno riportati alla loro fisionomia originale, trasformando però il parco in un’attrazione popolare. In effetti, visto con occhi smaliziati, più che a un bosco sacro Bomarzo potrebbe essere paragonato a un’esibizione circense pietrificata. Tra
draghi, elefanti, sirene, sfingi, Ercoli in combattimento, tartarughe, ci troviamo di fronte a monumentali stranezze che spuntano dalla vegetazione. Le visioni attraggono la nostra fantasia e, nostro malgrado, dialogano con qualcosa di profondo dentro di noi. Si ha un bel dire che il visitatore moderno ha perso il collegamento con quel retroterra mitologico, di origine letteraria, di chi era assiduo lettore di Ovidio, di Ariosto e di Boiardo. E anche se la statua del gigante che squarta il suo avversario era, forse, per i contemporanei una divertente allusione alla grottesca figura di Morgante, familiare ai visitatori di cinque secoli or sono, quelli di oggi non possono non sentire una leggera inquietudine di fronte alla cruenta scena di lotta. Sì, per visitare in modo adeguato Bomarzo varrebbe forse la pena di prepararsi prima con una serie di letture mirate e specifiche. Renderebbe più vivo e coinvolgente il percorso, riportandolo indietro nel tempo al gusto del Barocco. Ma non è davvero necessario. Bisogna ammettere che la fascinazione mitologica non va persa, perché in qualche modo queste figure gigantesche sanno suscitare echi emotivi anche nei «moderni». E per questo dobbiamo ringraziare forse la nostra frequentazione di racconti mitologici come quelli di Harry Potter o di altre invenzioni cinematografiche fantasy. Al di là di tutto, comunque, Bomarzo sembra oggi un parco dedicato al safari fotografico. I telefoni cellulari sono i veri protagonisti della visita. I loro proprietari cercano bulimicamente di stipare nella memoria digitale ogni scorcio, ogni figura suggestiva: fotografare tutto è l’ossessione che ci coinvolge. È un gioco in cui tutto sommato questo patrimonio esprime il suo lato migliore, permettendo a molte persone di inventarsi un incontro mitologico, e chissà in qualche modo di riconnettersi con qualche propria fantasia
interiore, utile e foriera di sviluppo. La pletora dei selfie testimonia la gran voglia di mescolarsi a queste statue, di vivere al loro fianco proprio come succede in certi film fantasy. Non stupisce, dunque, la lunga fila di chi si mette in attesa per farsi immortalare nella gigantesca Bocca dell’Orco. Sopra vi troneggia la scritta «Ogni pensiero vola». È l’epicentro in cui si celebra la potenza della fantasia. Queste considerazioni sono forse un po’ troppo psicologizzanti ma è indubbio che Bomarzo offra ai suoi visitatori un film vissuto da protagonisti
tra mostri e scenari di sogno. Oppure, meglio, un test di associazione in cui riscoprire quello che ci piace e quello che ci fa più paura, messi a confronto con figure dal significato archetipico così profondo da ricordare gli Arcani maggiori dei Tarocchi. Forse davvero quello che ci colpisce a Bomarzo è ciò che ci rappresenta di più e ci dice qualcosa di noi stessi. La visita diventa allora una ricerca, un percorso alla scoperta di sé. E la fitta schiera di persone che ci circonda durante il tragitto non ci dà più nemmeno troppo fastidio perché, paradossalmente, ci accomuna a loro
un desiderio condiviso di stupore e di sorpresa. A chi tutto ciò non interessa e preferisce vivere la sua passeggiata tra le statue come semplice diversivo di una calda giornata estiva, è dedicato un bellissimo spazio picnic per chiacchierare con gli amici e i familiari sotto splendide querce e lecci dall’ombra rinfrescante. Anche questi meravigliosi alberi sono a modo loro presenze mitiche. Ci accolgono sotto le loro fronde amichevolmente e ci offrono un momento di pace in questa valle tranquilla e armoniosa della campagna laziale. annuncio pubblicitario
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ambiente e Benessere
Sta per farsi strada una mitica estrema: la trailhawk
motori È in arrivo la quinta serie della mitica Jeep Grand Cherokee a sottolineare l’ottantesimo anniversario
della Casa americana Mario Alberto Cucchi
La Jeep Grand Cherokee ha voluto essere dirompente sin dal suo esordio. Era il 1992 e al Salone di Detroit, durante il suo debutto, si arrampicò su una scalinata della Cobo Hall sfondando letteralmente una vetrina d’ingresso per introdursi nel padiglione. Diventò subito il nuovo punto di riferimento della categoria. Di terra e fango ne è passata molta sotto le ruote delle Grand Cherokee vendute sino ad ora. Ma il DNA Jeep che unisce design ricercato a capacità fuoristradistiche senza compromessi è rimasto inalterato nelle generazioni che si sono susseguite. Oggi, nell’anno del suo ottantesimo anniversario, la Casa americana lancia la quinta serie. La prima in cui è presente una versione elettrificata, l’ecologica 4xe al cui fianco però non manca la Jeep Grand Cherokee più estrema: la Trailhawk. Oggi il SUV più premiato di sempre è tutto nuovo. L’architettura completamente rinnovata si combina al profilo aerodinamico della carrozzeria per garantire migliori prestazioni, più sicurezza e affidabilità, riducendo al contempo peso, livelli di rumorosità, vibrazioni e ruvidità. Esterni di design uniti a interni lussuosi carat-
terizzano questa Jeep che sfoggia il maggior numero di dotazioni tecnologiche della sua storia. Tra questi un sistema Uconnect5 con tre display digitali da 10,1 pollici e due da 12,5 pollici. Uno schermo esclusivo dedicato al passeggero anteriore per la navigazione e l’intrattenimento. Un head-up display che proietta le informazioni fondamentali sul parabrezza per non distrarsi dalla guida. Grand Cherokee è anche una
Oltre alla Trailhawk, è in arrivo anche la prima elettrica della Jeep, l’ecologica Grand Cherokee 4xe Tra le novità, la Grand Cherokee 2022 presenta il sistema di disconnessione dell’asse anteriore. La trazione integrale viene reinserita automaticamente quando il sistema ne rileva la necessità. La nuova Grand Cherokee arriva nelle concessionarie in due diverse configurazioni caratterizzate da
È questa la nuova Jeep Grand Cherokee Trailhawk 4xe.
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I nuovi modelli di: Jeep Grand Cherokee Trailhawk, Jeep Grand Cherokee Trailhawk 4xe e Jeep Grand Cherokee Summit Reserve 4xe
lunghezza differente. La versione con tre file di sedili misura 5 metri e 20 centimetri mentre quella con due file di sedili è più corta, ovvero misura 4 metri e 91 centimetri. La nuova 4xe è la prima Grand Cherokee ibrida plug-in. La 4xe combina due motori elettrici, un pacco batterie da 17 kWh a 400 volt, un motore turbo a quattro cilindri da 2,0 litri e una trasmissione automatica TorqueFlite a otto marce per garan-
tire elevate prestazioni e massima efficienza. Nel complesso il sistema eroga 375 cavalli e 637 Nm di coppia. La Grand Cherokee 4xe si pone l’obiettivo di raggiungere un’autonomia stimata di 40 km in modalità full electric e di oltre 708 km totale. La versione 4xe della Grand Cherokee sarà commercializzata in Nord America all’inizio del 2022, e a seguire nel corso dell’anno negli altri mercati globali.
vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
cruciverba Con i suoi 566 ettari, il parco della foto, è tra i più grandi d’Europa, dove si trova? Scoprilo a soluzione ultimata leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 8, 1, 6, 2, 7)
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vera e propria sala concerti dato che è equipaggiata con un nuovo avanzato sistema audio McIntosh da 19 altoparlanti progettato su misura, con 950 watt di potenza e un amplificatore a 17 canali. Ma gli appassionati del marchio americano non si fanno certo distrarre da questi gadget e si esaltano invece per i tecnicismi che le garantiscono di essere inarrestabile su qualsiasi fondo stradale. Parliamo dei sistemi di trazione 4x4 Jeep Quadra-Trac I, Quadra-Trac II e QuadraDrive II, le sospensioni pneumatiche Quadra-Lift e il sistema di controllo della trazione Selec-Terrain.
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regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «azione» e sul sito web www.azione.ch
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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
orIZZontalI
1. Cospicuo, rilevante 7. Capo arabo 8. Le iniziali della scrittrice Merini 9. Abbreviazione per ricette mediche 10. Si associa agli altri 11. Posta alla fine... 12. Provincia a sud-ovest dell’Arabia
Sudoku Soluzione:
7
Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la
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Saudita 13. Supera i seicento metri di altezza 17. Privo di lucentezza 18. Alimentato dal rancore 19. È spumeggiante 20. Il letto dei wagons 21. Isole del Tirreno 23. Guardia forestale americana 25. 101 romani 26. Fune, cavo 27. Nutrimento per conigli vertIcalI 1. Indignate, risentite 2. Persona non all’altezza 3. Avverbio di tempo 4. Scrisse Il Corsaro Nero (Iniz.) 5. Contenitore per liquidi 6. Nobile musulmano 10. Impiegare, adoperare 12. Schiudere 13. Parcheggi per imbarcazioni 14. Operette poetiche 15. Esplode... con la glicerina 16. Poco tollerante... 17. Pecora in rumeno e anagramma di Elio 19. Pesce marino 21. La fine degli inglesi 22. Dà inizio alla gara 24. Arriva... in testa 25. Le iniziali del cantante Baglioni
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FAUNA E CURIOSITÀ – Frase risultante: BABIRUSSA E VIVE IN INDONESIA. B A M B I R U M S I T O P O A N I A V I D A N I C E S C E E T A R N E S I A
N O R M E
I S E E
V E L I N A R D O N E R A D E V O S I L E A G O
soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza
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sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 ottobre 2021 • N. 41
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politica e economia Il buio di Beirut Reportage dalla capitale libanese schiacciata da una crisi profonda e spaccata a metà
turbolenze nel pacifico Fra le righe della storia di un oceano conteso, dalle navi di Magellano al protagonismo cinese del XXI secolo
Bollywood e la mafia La vicenda di Dawood Ibrahim, boss indiano che produce film ed è amico di Al Qaeda
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telelavoro pagato meno? Alcune multinazionali americane riducono i salari a chi lavora da casa: una scelta insensata e ingiusta pagina 33
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Quella penuria di energia che ci minaccia l’analisi Lo shock energetico coinvolge tutti,
dalla Cina agli Usa passando per l’Europa. L’imperativo è ancora reperire energie fossili
Federico Rampini Vladimir Putin batte Greta Thunberg? Nell’immediato l’opinione pubblica europea ha più ragioni di essere grata al leader russo che alla giovane militante ambientalista svedese. Thunberg in una recente manifestazione ha accusato i politici di fare chiacchiere inutili sulla lotta al cambiamento climatico: «Bla bla bla». Putin ha messo sul tavolo promesse concrete. Non per ridurre le emissioni carboniche, però. Anzi, nel breve termine la Russia intende aumentare le sue esportazioni di energie fossili, che contribuiscono all’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera e ci allontanano dall’obiettivo di un’economia a «zero emissioni». Putin si offre come il salvatore dell’Europa da un’altra crisi: lo shock energetico attuale che minaccia di impoverire la popolazione europea con rincari pazzeschi delle bollette elettriche. Prima della recente uscita di Putin, il costo del gas naturale in Europa era decuplicato rispetto all’inizio dell’anno. Il gas naturale è diventato la materia prima essenziale per generare corrente nelle centrali elettriche del vecchio Continente. Il suo rincaro, per quanto i Governi possano cercare in vari modi di proteggere la piccola utenza, finisce per ripercuotersi sul costo della vita. La galoppata dell’iper-inflazione del gas ha avuto una pausa quando Putin ha evocato la possibilità che Gazprom – il monopolista di Stato per le esportazioni dalla Russia – aumenti la sua produzione e le forniture agli europei. La generosità di Putin nel venire in aiuto agli europei sembra avere una motivazione geopolitica. Siamo alle ultime tappe per l’approvazione del gasdotto Nord Stream 2, la nuova infrastruttura che aggirerà l’Ucraina e trasporterà direttamente il gas russo in Germania. Putin sembra manovrare le promesse per ottenere il via libera a quel progetto, contestato dagli Usa perché accentuerà ulteriormente la dipendenza energetica della Germania dalla Russia, con riflessi strategici pericolosi. La ministra americana dell’energia, Jennifer Granholm, ha promesso un’indagine su possibili «manipolazioni del mercato» da parte di Gazprom. «Guai se l’energia dovesse essere usata come un’arma strategica», ha detto. Anche
nell’Europa dell’est, la Polonia ha unito la sua voce a quella dell’Ucraina per denunciare «la coercizione della Russia che usa il gas come un’arma». I tedeschi, come di consueto, difendono Mosca. Ma intanto un summit speciale dell’Ue ha dovuto occuparsi di questo shock energetico, che si dirama in tutti gli angoli del pianeta. «In futuro nessun investimento sui combustibili fossili». Questo obiettivo era stato ribadito a Milano, nel summit che doveva spianare la strada a Cop26, la conferenza delle Nazioni unite sul clima che si aprirà a fine mese a Glasgow. Ma l’obiettivo è reso aleatorio da quanto sta accadendo nel mondo reale. È scoppiato un nuovo shock energetico, che penalizza la ripresa economica post-Covid e potrebbe perfino farla deragliare nello scenario più catastrofico. L’imperativo immediato è reperire energie fossili, le uniche che possono impedire nel breve termine la chiusura di fabbriche, l’interruzione di attività, il rincaro esorbitante di bollette, tariffe, costi di trasporto. In Europa qualcuno silenziosamente riaccende centrali a carbone. È in gravi difficoltà la virtuosa Inghilterra, che negli anni passati aveva puntato sulle pale eoliche nel mare del Nord, e sul gas naturale come energia-ponte (fossile ma molto meno inquinante del carbone) verso l’obiettivo di zero emissioni. L’eolico ha tradito Londra fornendo meno energia del previsto. Il gas scarseggia sui mercati internazionali e i suoi prezzi sono nella stratosfera. Quando il Governo di Londra mette un limite ai rincari delle bollette, alcune utility rischiano di fallire, schiacciate tra i prezzi alla fonte che aumentano, e l’impossibilità di rivalersi sull’utente finale. L’America potrebbe esportare più gas verso il vecchio Continente, se solo avesse costruito nuovi porti e terminali attrezzati. Governi di ogni colore e regimi politici di varia natura sono confrontati con lo stesso dilemma: scaricare sui consumatori gli effetti dello shock con bollette pesantissime; oppure razionare l’energia con tutto ciò che comporta per la ripresa dell’occupazione. In nessun luogo al mondo queste contraddizioni sono esplosive quanto in Cina. Lo shock energetico colpisce più duramente la Nazione più popolosa del pianeta, che continua anche ad avere la capacità manifatturiera più impo-
Raffineria di Houston, Texas. (Keystone)
nente. L’economia cinese, energivora, è dipendente a 360 gradi da tutte le fonti esistenti: dal carbone al solare, dal gas al nucleare, dal petrolio all’eolico. Le penurie hanno effetti drammatici in un Paese che aveva imboccato una ripresa vigorosa: si segnalano blackout a ripetizione (una piaga che un tempo era tipica dell’India non della Cina) e di conseguenza chiusure di fabbriche. Xi Jinping paga anche lo scotto della sua prepotenza: nei mesi scorsi ha messo un embargo contro le importazioni di energia dall’Australia per punire il Governo di Canberra (colpevole di aver chiesto un’indagine sulle origini del Coronavirus). Ora quel gesto arrogante si ritorce contro Pechino e pare che senza fare pubblicità alla retromarcia il Governo abbia ripristinato alcune importazioni di carbone australiano. Ma è solo uno dei tanti aspetti dello shock che colpisce la Cina. Il regime comunista ha sempre cercato di tenere a bada l’inflazione per evitare tensioni sociali. Le forniture energetiche sono
soggette a prezzi politici. Il calmiere sui prezzi è pericoloso: non trasmette ai consumatori il segnale che l’energia è scarsa e va risparmiata. La Cina è in una situazione difficile, con un piede nel futuro e uno nel passato. Accelera la sua corsa verso una leadership mondiale nelle fonti rinnovabili e vuole che l’Occidente dipenda da lei per auto elettriche e pannelli solari. Nel frattempo centinaia di milioni di cinesi lavorano perché le loro fabbriche ricevono corrente generata da carbone o gas. Le emissioni di Co2 della Cina, il 28% del totale planetario, sono il doppio di quelle americane e non accennano affatto a scendere. I leader che hanno partecipato alla conferenza di Milano hanno sottolineato i cambiamenti positivi. «Gli Usa sono tornati con noi», ha detto il vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans. Ma una volta conclusi i doveri della diplomazia internazionale, ogni leader a casa sua affronta una realtà scomoda: l’inverno è alle porte, i consumi di energia da riscaldamento aumen-
teranno, nell’immediato bisogna consumare l’energia che c’è, non quella che vorremmo ci fosse. A livello mondiale il carbone continua a fornire il 40% della corrente elettrica; in Cina addirittura il 70%. Perciò, quando Xi s’impegna a non costruire più centrali a carbone nei Paesi destinatari degli investimenti delle Nuove vie della seta (Belt and road initiative), viene il sospetto che questa conversione ambientalista sia dettata dall’imperativo di non creare nuova domanda di carbone e garantire alla Cina stessa il massimo degli approvvigionamenti. Lo shock inflazionistico ha il vantaggio di rendere più competitive le fonti rinnovabili, ma i limiti del vento e del sole sono noti e ancora non abbiamo tecnologie in grado di superarli. Il nucleare resta tabù, malgrado un inizio di autocritica in alcune correnti dell’ambientalismo. La scienza e l’economia devono trovare risposte facendo i conti con i vincoli pesanti della realtà, che non si prestano alle semplificazioni degli slogan nei cortei.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 ottobre 2021 • N. 41
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politica e economia
Dentro le miserie di Beirut
libano Testimonianze da un Paese schiacciato dalla crisi che fatica ad immaginare un futuro. Mentre nella capitale
convivono due realtà: una dove scarseggiano soldi, elettricità, cibo e l’altra fatta di ristoranti di lusso, suv e yacht
Francesca Mannocchi «Ho chiamato qualcuno per aiutarmi. E sicuramente ha più conoscenze di quante ne abbia io, così sono riuscita ad avere un po’ di carburante e quindi un po’ di elettricità. Si chiama Zakaria, senza di lui ora sarei al buio, come tutti gli altri nel mio quartiere». A parlare è Samah, sociologa delle situazioni di conflitto. È libanese, ha 44 anni. Fino a sei mesi fa viveva a Beirut con suo marito. Nella capitale libanese abitano anche i suoi fratelli e i suoi genitori. Dopo la crisi economica scoppiata nel 2019 la situazione si è fatta sempre più difficile e Samah, come altre migliaia di persone, ha deciso di lasciare il Paese. Oggi vive in Turchia. Di recente però è tornata a Beirut, non tanto e non solo per vedere i suoi genitori ma soprattutto per portare loro delle medicine, perché neanche quelle si trovano più. Zakaria, il ragazzo di cui ci ha parlato, è colui che si occupa di trovare carburante al mercato nero e portarlo nelle case in modo da far funzionare i generatori di corrente. Le tre crisi – quella elettrica, quella del denaro e quella del carburante – sono indissolubilmente legate. Zakaria fino a un anno fa lavorava in un’istituzione pubblica. Il suo stipendio, un milione di lire libanesi, valeva circa 700 dollari. Oggi ne vale 50. Sul mercato nero, in due anni, la lira libanese ha perso oltre il 90% del suo valore rispetto al dollaro Usa. La scorsa estate un dollaro ha raggiunto le oltre 20 mila lire libanesi. Tuttavia la banca centrale, Banque du Liban, mantiene un tasso introdotto nel 1997, di 1500 lire per dollaro. Ma di fatto i cambi in funzione sono cinque. Quello ufficiale appunto; un’altro per il denaro che viene depositato in dollari dallo scorso anno, considerato «fresh money» (1 dollaro per 3900 lire libanesi); e tre cambi diversi al mercato nero: uno per le medicine a 8 mila lire per dollaro, uno per il carburante a 12 mila lire e uno per gli altri beni di consumo che oggi vale 17 mila lire per dollaro. Zakaria comunque non riceve lo stipendio da tre mesi e ha cominciato a fare lavori paralleli, come autista privato per le famiglie o come fornitore di carburante. Lo cerca dai trafficanti, ne fa scorta e lo porta nelle case di chi se lo può permettere. Per tutti gli altri le ore di buio non fanno che aumentare. Samah durante le proteste di due anni fa – quella che i giovani libanesi chiamano la Rivoluzione del 17 ottobre 2019 – era in piazza. Aveva fiducia nello spirito non confessionale di quei giorni, in un Paese in cui ogni cosa, dal potere politico agli affari, dai quartieri ai lavori, è diviso su base settaria. Oggi afferma che anche i movimenti di opposizione si sono divisi. E che molti attivisti di allora definiscono i libanesi che hanno lasciato il Paese come traditori. Samah però non ci sta a farsi definire una traditrice. Lei la guerra civile che ha dilaniato il Libano per 15 anni, tra il 1975 e il 1990, se la ricorda (uno degli elementi che l’hanno innescata è stato il contrasto tra la componente cristiana e quella musulmana del Paese). Ricorda la fuga sui monti con la sua famiglia per paura dei combattimenti, ricorda i morti per strada quando sporadicamente tornava a Beirut con suo padre per vedere com’era la situazione. Ricorda la città spenta. Morta. Uccisa dagli scontri settari. Le case crivellate di colpi. Le famiglie affamate. Oggi, invece, la capitale le racconta un’altra storia. Povertà, certo, ma anche rimozione. I ristoranti della costa sono pieni, come pieni sono gli hotel di lusso. Tutti illuminati a giorno. «Per la gente qui, a pochi chilometri dai veri poveri, la crisi non è mai cominciata, anzi la crisi è
Il commerciante Sayde. (romenzi)
Il porto di Beirut. (romenzi)
un’opportunità di fare più soldi». Quello che descrive Samah è il paradigma di molte crisi economiche recenti. Beirut è attraversata da profonde disuguaglianze sociali. E la storia di questa crisi è principalmente la storia di due città diverse. Una è quella degli yacht, della Marina con i suoi ristoranti di lusso, dei hotel di Rouche a picco sul mare; l’altra è quella dei quartieri poverissimi, dei libanesi della classe media che non esiste più. Dei rifugiati che vivono in quindici in una casa di tre stanze e un bagno. Con la lira libanese crollata, le riserve di dollari si sono prosciugate e chi vende petrolio al Paese accetta pagamenti solo in dollari. Perciò, a causa dei contratti non rispettati, le petroliere sono rimaste per mesi ferme al largo del porto di Beirut senza scaricare. Per
Fatma con alcuni dei suoi figli. (romenzi)
La capitale libanese. (romenzi)
i cittadini significa non avere corrente, quindi non poter usare nessun elettrodomestico, soprattutto non potere usare il frigorifero e conservare il poco cibo che ancora si riesce a comprare. La crisi legata all’elettricità non è nuova in Libano. Il Paese ha sempre convissuto con una rete di traffici illeciti che da decenni fornisce energia privata ai condomini attraverso i generatori che funzionano a carburante. E anche il carburante è da decenni al centro di traffici illegali e interessi di mafie locali. La «mafia dei generatori» da una parte, la corrotta società statale dell’energia Electricité du Liban dall’altra. Negli ultimi due anni, da quando l’esplosione di oltre 2700 tonnellate di nitrato d’ammonio ha distrutto interi quartieri della città uccidendo centina-
ia e centinaia di persone, tutte le crisi libanesi si sono accavallate, peggiorando la situazione per tutti. E la forbice della disuguaglianza sociale è sempre più ampia. Chi prima con fatica riusciva a sostenere la spesa del generatore oggi vive al buio. I cittadini pagati in lire libanesi hanno visto gli stipendi svalutarsi in modo spaventoso. Non hanno potere d’acquisto su cibo, carne, pesce e verdure, al punto che secondo le Nazioni unite più della metà della popolazione vivrebbe al di sotto della soglia della povertà. Il sistema bancario è fallito e il debito pubblico sfiora il 180% del Pil. In quartieri popolosi di Beirut come Nabaa questa discrepanza è evidente. Sayde è seduto nella sua bottega di generi alimentari nella parte armena del quartiere, che è misto. Lì vivono rifugiati siriani, iracheni, ci vive una grande comunità armena appunto e poi, qualche via più in là, libanesi sciiti. Nella cassa del suo negozio Sayde ha 15 mila lire libanesi: circa 80 centesimi di dollaro. È così che chiuderà la giornata. La gente, dice, non ha più soldi nemmeno per comprare lo zucchero e il pane. Tutto il resto è considerato un lusso. Fino allo scorso anno gli scaffali del suo negozio erano vuoti. Prima che la situazione precipitasse del tutto, i beni primari beneficiavano ancora dei sussidi statali. Quindi la gente correva a comprare farina e zucchero. Olio e sale. Da luglio lo Stato ha interrotto i sussidi e i prezzi dei beni al consumo non sono
più sostenibili, quindi tutto resta sugli scaffali a prendere polvere, destinato ad andare a male. Sayde accende il telefono, mostra la foto delle tre figlie. Una sola di loro è ancora a Beirut. Le altre sono scappate via. «La diaspora, la diaspora», dice. Vanno ad aggiungersi ai 15 milioni di libanesi che vivono all’estero, tre volte il numero dei libanesi che vive qui. Poco più di 4 milioni. Cui si aggiungono i due milioni di rifugiati siriani e palestinesi. È per loro che la vita qui è una tragedia nella tragedia. A poche vie di distanza dalla bottega di Sayde vive la famiglia di Fatma. Sono siriani, scappati da Raqqa nel 2013. Una famiglia di dieci persone, otto bambini, Fatma e suo marito, che vivono in una stanza di 25 metri quadri e un bagno. Fatma è incinta di sette mesi. Suo marito non lavora. Le uniche a lavorare sono le due figlie maggiori, Nada e Sheahab, di tredici e dodici anni. Fanno le pulizie per il corrispettivo di 2 o 3 dollari al giorno. Quello che basta per mangiare un po’ di pane o un po’ di riso. Suo figlio Ali di due anni piange. «Ha fame», dice Fatma. Dice solo questo: «Ha fame». Ci sono dei giorni che in questa casa che non è una casa, in cui i materassi vengono stesi a terra la sera e ripiegati al mattino, in cui non c’è corrente e non ci sono soldi... Giorni in cui si mangia solo tè e qualche pezzo di pane raffermo. A pochi chilometri di distanza un’altra Beirut, coi suv e la corrente elettrica che non finisce mai.
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politica e economia
un oceano tutt’altro che pacifico
prospettive Dal viaggio di Ferdinando Magellano al protagonismo cinese del XXI secolo passando da Pearl Harbor,
Hiroshima e Nagasaki. Ripercorriamo la storia di quell’immensa distesa d’acqua disseminata di isole e incertezze Alfredo Venturi «Ci sono notizie del conte di La Pérouse?». Raccontano le cronache della Rivoluzione francese che il 21 gennaio 1793, appena salito sul palco della ghigliottina, Luigi XVI sorprese il carnefice Charles-Henri Sanson e i suoi assistenti con questa domanda, che in quelle circostanze ovviamente nessuno si aspettava. Prima di morire il re avrebbe voluto informarsi sulla squadra navale che nel 1785 aveva spedito dall’altra parte del mondo e sembrava scomparsa nel nulla. La Pérouse, che comandava la spedizione, doveva esplorare il mare sconfinato che si estende oltre l’Asia, emulando le imprese del navigatore inglese James Cook. Luigi XVI non ebbe risposta: nessuno poteva sapere che La Pérouse aveva fatto naufragio sugli scogli dell’isola di Vanikoro. Lo si seppe trent’anni dopo, quando altri europei s’imbatterono nei resti delle navi e nei racconti della gente del posto. La curiosità del re condannato apre uno spiraglio sull’accesa competizione fra le potenze per assicurarsi il controllo di quella enorme distesa oceanica disseminata di isole. Cook era stato il primo europeo a mettere piede nelle Hawaii, in Nuova Zelanda e in Australia. La Francia non ancora scossa dalla rivoluzione non intendeva stare a guardare. Ormai da oltre due secoli e mezzo quel mare sollecitava l’interesse dei geografi e l’avidità dei sovrani: da quando l’esploratore portoghese Ferdinando Magellano al comando di una flotta spagnola salpò da Siviglia, discese il Guadalquivir, superò l’Atlantico attraverso lo stretto che da allora porta il suo nome ed entrò nel grande mare sconosciuto. Era così calmo, dopo le furiose tempeste atlantiche, che Magellano lo battezzò Pacifico. Delle cinque navi partite dalla Spagna soltanto tre fecero ritorno dopo avere circumnavigato il pianeta. Mancava anche Magellano, ucciso in quelle che un giorno si chiameranno Filippine da gente che non voleva saperne di convertirsi al cristianesimo né di inchinarsi davanti a un lontano imperatore chiamato Carlo V. Quell’oceano che copre quasi un terzo della superficie terrestre non poteva non scatenare
Test nucleare condotto sull’atollo di Bikini nel 1946. (shutterstock)
la gara fra le potenze europee. Inglesi, francesi, portoghesi, spagnoli e olandesi si disputarono territori e arcipelaghi. Incuranti delle tradizioni locali imposero agli indigeni la religione cristiana nelle sue varie versioni. Con la spartizione dell’America e dell’Africa, ecco un nuovo capitolo nella storia del colonialismo. Le magiche isole celebrate dall’arte di Paul Gauguin non erano che terra di conquista.
Nell’Ottocento il Giappone si aprì agli scambi e si rese consapevole della sua posizione privilegiata Nell’Ottocento il Giappone, fino a quel momento gelosissimo delle sue tradizioni secolari e quasi completamente rinchiuso in sé stesso, si aprì agli scambi culturali e commerciali. Al tempo stesso si rese rapidamente consapevole della sua posizione privilegiata sul
margine occidentale del Pacifico. Nei primissimi anni del secolo successivo l’Impero del Sol levante, che intendeva difendere i suoi interessi in Corea e Manciuria, si scontrò con la Russia zarista ed ebbe la meglio dopo numerosi combattimenti navali culminati nella battaglia di Tsushima (1905). Questi eventi rivelarono al mondo che la tecnologia e la potenza militare non erano più esclusiva europea, né americana. Era ormai chiaro che la supremazia nel Pacifico dovevano giocarsela le due potenze che si fronteggiavano dalle coste oceaniche, a ottomila chilometri di distanza l’una dall’altra. Rientrano in questa logica l’attacco giapponese del dicembre 1941 alla base navale di Pearl Harbor nelle Hawaii e la micidiale risposta degli Stati uniti, che porterà all’annientamento dell’impero nipponico dopo i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. E così il Pacifico, nonostante la residuale presenza europea dopo la decolonizzazione di molti territori, poté essere considerato un’area di quasi esclusiva influenza americana. Pochi anni più tardi
altri funghi atomici si levarono sull’orizzonte oceanico: erano le esplosioni sperimentali a Bikini, Mururoa e altrove volute dagli Stati uniti, dalla Francia e dalla Gran Bretagna. Furono circa duecento, per la metà nell’atmosfera. Nonostante le rassicuranti dichiarazioni ufficiali, le conseguenze sulle persone e sull’ambiente furono gravissime e durature. Del resto non è questo il solo attentato alla salute del mare che abbraccia tanta parte del nostro pianeta: più di 155 milioni di chilometri quadrati. La crescente acidità delle acque dovuta all’eccesso di anidride carbonica compromette la fisiologia degli esseri viventi che popolano l’oceano. I pesci ne risentono nella vista e nell’olfatto, i crostacei e i molluschi nella capacità di produrre esoscheletri e conchiglie, per la stessa ragione i coralli tendono a scomparire. Unita alla pesca senza limiti, questa condizione ha provocato un drastico calo della fauna marina. Inoltre l’oceano è invaso da rifiuti e plastiche portati dai fiumi e dalle navi. Le correnti e il vento hanno formato isole
galleggianti, la maggiore copre a seconda delle stime da uno a svariati milioni di chilometri quadrati. Le prospettive sono inquietanti, un solo fiume cinese, lo Yangtze, versa in mare ogni anno un milione e mezzo di tonnellate di rifiuti. Nel 2011 lo tsunami che colpì il Giappone ne strappò alla terraferma cinque milioni di tonnellate. Ma c’è di peggio, l’innalzamento del livello dell’acqua dovuto al clima sempre più caldo e al conseguente scioglimento dei ghiacci è ormai tale da mettere in pericolo la sopravvivenza di alcuni fra i molti Stati insulari. Si pensi alle Salomone, che pur producendo una quantità irrisoria di gas a effetto serra ne sono fra le vittime predestinate. L’alternativa è secca: o la tendenza si inverte, cosa che al momento appare improbabile, o quell’arcipelago di un migliaio di isole prima o poi scomparirà fra le onde. Esemplare il caso di Kiribati, una piccola isola-Stato alle prese con lo stesso destino. Il suo Governo è alla ricerca di luoghi dove traslocare i 120mila abitanti quando saranno sfrattati dall’oceano. Chiede anche alla comunità internazionale che s’introduca un nuovo elemento giuridico: diritto d’asilo per cambiamento climatico. È su questo teatro travagliato e complesso che l’attualità ha acceso i suoi riflettori, dopo che il crescente protagonismo cinese nell’area, per esempio l’atteggiamento minaccioso del governo di Pechino a proposito di Taiwan, che la Cina rivendica da sempre come parte integrante del suo territorio, ha indotto gli Stati uniti, la Gran Bretagna e l’Australia a riunirsi in un «patto di sicurezza» denominato Aukus. Riproponendo le rivalità strategiche di sempre, il patto prevede che l’Australia si armi di sottomarini a propulsione nucleare. Li forniranno i cantieri americani. È dunque saltata, provocando un terremoto diplomatico, una precedente intesa con il Governo francese che doveva dotare l’Australia di sommergibili di tipo convenzionale. A mezzo millennio di distanza, Magellano difficilmente potrebbe riconoscere l’immenso mare limpido e quieto della sua avventurosa scoperta. Probabilmente si guarderebbe bene dal chiamarlo Pacifico.
Film e parole contro l’indifferenza
la rassegna Dal 13 al 17 ottobre si terrà a Lugano l’ottava edizione del Film festival diritti umani negli spazi
dei cinema Corso e Iride. Un’occasione per riflettere sulle tragedie che si trascinano nel mondo Romina Borla In mezzo al trambusto quotidiano, alle mille faccende da sbrigare, capita di accendere distrattamente la radio: melodie conosciute mescolate ai notiziari. Elenchi delle tragedie che si trascinano nel mondo. Violenze, guerre e altre catastrofi. Drammi che non capiamo
fino in fondo e che tendiamo a rimuovere per ributtarci nel flusso della vita che conosciamo, comoda e agitata. Ma quest’indifferenza non è sempre data dall’egoismo, spesso deriva dalla paura e dal bisogno di proteggerci. Per aiutarci a contrastarla ritorna il Film festival diritti umani Lugano (Ffdul), giunto alla sua ottava edizione. Si terrà dal
Il regista rumeno Alexander Nanau. (shutterstock)
13 al 17 ottobre negli spazi dei cinema Corso e Iride, i quali ospiteranno 29 proiezioni, tra cui 7 prime svizzere e 5 cortometraggi. Alcune di loro saranno fruibili sulla piattaforma www.festivaldirittiumani.stream. E quest’anno, dopo la pausa del 2020, torneranno anche le proposte per le scuole: 6 pellicole e altrettanti incontri per discutere. Momenti di riflessione e condivisione che seguiranno tutte le proiezioni del festival, arricchiti dalla partecipazione di ospiti da tutto il mondo (compresa la nostra collaboratrice Francesca Marino che parlerà del Tibet). Al regista rumeno Alexander Nanau – presente al Ffdul con Collective, nominato agli Oscar 2021 – sarà assegnato il premio «Diritti umani per l’autore». Il suo documentario racconta uno dei peggiori casi di malasanità e corruzione europea, rivelato da un’inchiesta giornalistica, partendo dall’incendio in un nightclub di Bucarest (chiamato appunto Collective). Tra le figure di spicco di cui si discuterà a Lugano anche Oleg Sentsov, regista ucraino ingiustamente accusato
di terrorismo dal Governo russo e per questo incarcerato 5 anni. Anni in cui realizza in condizioni drammatiche Numbers: la vita di 10 personaggi, 10 numeri, bloccati in una quotidianità regolata da regole severe stabilite dal Grande zero e fatte rispettare da giudici armati. Nel programma anche Salomé Jashi con Taming the garden, le vicende dell’ex primo ministro della Georgia con l’hobby di collezionare alberi secolari trasportandoli nel suo giardino privato e sradicandoli altrove, snaturando enormi aree naturali. Mentre il siriano Feras Fayyad, già sulla passerella degli Academy awards con Last men in Aleppo, al Ffdul porterà The Cave sull’operato della pediatra Amani Ballour, responsabile di un ospedale sotterraneo alle porte di Damasco, in cui si tenta di aiutare le vittime della guerra, in primis i bambini. Il documentario di produzione svizzera Sous la peau, di Robin Harsch, narra invece la transizione di tre adolescenti transessuali. E non è finita qui. Si racconterà della ribellione delle donne egiziane, di Srebrenica, dei movimenti
di protesta in Cile antecedenti lo storico voto, nell’ottobre 2020, per una nuova Costituzione, del dramma afgano e della pericolosa rotta del Mediterraneo ecc. Inoltre quest’anno il festival presenta una novità. Inaugura una formula che vuole mantenere nelle edizioni future. Si tratta di un focus tematico che sarà esplorato nei suoi diversi aspetti grazie a una scelta di film a cui seguiranno degli approfondimenti. Si parte con il «Focus su diritti e tecnologia» curato dalla giornalista Chiara Fanetti e dedicato a misurare il nuovo «campo di battaglia» delle tecnologie, tra algoritmi e intelligenze artificiali. «Non è questo il momento di assopirci», afferma il presidente del Ffdul Roberto Pomari. «Mai come in quest’epoca dobbiamo restare vigili e attenti, pronti a denunciare quanto sta accedendo da noi e nel mondo attraverso i film, le riflessioni e i dibattiti. Senza un’umanità protesa verso un obiettivo comune, è difficile raggiungere dei traguardi». Per informazioni e programma: www.festivaldirittiumani.ch.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 ottobre 2021 • N. 41
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politica e economia Finanziare e produrre film è diventata una fetta importante dell’attività della famiglia di Ibrahim. (shutterstock)
Sangue in carcere e traffici di droga
ecuador Dietro al massacro di Guayaquil
c’è la guerra per controllare le rotte
Angela Nocioni
la Bollywood mafiosa Il punto La vicenda del boss Dawood Ibrahim mette in luce i legami
tra criminalità organizzata, industria cinematografica indiana e jihad
Francesca Marino Nei «Pandora Papers», ricerca internazionale sui segreti finanziari di governanti e affini, si legge, tra le altre cose, che la moglie del generale in pensione (ed ex-braccio destro dell’allora presidente pakistano Musharraf) Shafaat Ullah Shah ha acquistato nel 2017 un appartamento da 1,2 milioni di dollari a Londra. L’immobile era stato venduto alla signora da Akbar Asif, figlio del famoso regista indiano K. Asif. Storie di ordinaria corruzione? Non proprio e non solo. Perché la sorella di Akbar, Heena Kausar, è la vedova di Iqbal Mirchi: uno degli esponenti di maggior spicco della D-Company. Che non è soltanto un’organizzazione criminale di stampo mafioso, ma fa parte a tutti gli effetti della lista ufficiale dei gruppi terroristi stilata da Washington e convalidata da una risoluzione delle Nazioni unite. La D-Company è capeggiata da Dawood Ibrahim, boss da anni in cima alla lista dei ricercati di India e Cia. E Ibrahim è noto ai più soprattutto per i suoi legami con Bollywood, l’industria cinematografica indiana. Anche la sua storia sembra, in effetti, presa di peso da un film. Fino agli anni Ottanta, riciclare denaro ricavato dal contrabbando d’oro investendo nella produzione di film era più o meno la norma per i mafiosi residenti a Dubai, in Malesia o negli Emirati. Durante quegli anni anche un giovane e ancora sconosciuto piccolo malvivente di nome Dawood Ibrahim abbandona l’India per sfuggire alla polizia e si rifugia nei Paesi del Golfo dove intraprende una redditizia e fortunata carriera entrando nel business del contrabbando d’oro. Passando dall’essere un delinquente di mezza tacca a ricoprire l’ambito ruolo di «don», con tanto di famiglia alle sue dipendenze, e diventando l’amante ufficiale di Mandakini, attrice allora famosa per aver interpretato la dea Ganga in un celebre film. Finanziare e produrre film diventa così una fetta importante dell’attività della famiglia di Ibrahim. Che entra non soltanto nella produzione delle pellicole, ma gestisce le royalties della vendita sui mercati esteri e decide perfino la scelta degli attori e la distribuzione dei ruoli.
Il 12 agosto 1997, però, Gulshan Kumar, un produttore musicale, viene assassinato. Il mandante dell’omicidio si chiama Abu Salem ed è il braccio destro di Dawood Ibrahim. Che era a questo punto della storia già stato accusato, oltre che dell’omicidio di Kumar, di essere il mandante dei sanguinosi attentati terroristici del 1993 a Bombay (poi Mumbai). Oltre a Salem, nello stesso caso viene coinvolto per favoreggiamento anche Sanjay Dutt, stella di prima grandezza del firmamento bollywoodiano e figlio di un politico del partito del Congresso.
Il boss, ora in Pakistan, sarebbe coinvolto nell’organizzazione logistica degli attacchi a Mumbai del 2008 L’omicidio di Kumar scoperchia un vero e proprio vaso di Pandora e segna il principio di una stagione sanguinosa di guerra tra gli assistenti di Ibrahim e di estorsioni, ricatti, omicidi ai danni di attori e produttori. Nel frattempo Dawood Ibrahim, residente ormai a Karachi, in Pakistan, è entrato nel business del traffico di droga, nel settore immobiliare, nelle scommesse su incontri di cricket truccati e nel settore del credito parallelo. Articoli apparsi all’epoca sostengono che Ibrahim finanziasse annualmente le attività dell’Isi, l’intelligence di Islamabad, e che avesse addirittura prestato denaro al Governo per acquistare sottobanco tecnologia nucleare dalla Cina e dalla Corea del Nord. A Karachi Ibrahim continua a finanziare le attività terroristiche della Lashkar-e-Toiba ed è entrato in affari con un’organizzazione allora poco nota chiamata Al Qaeda e gestita da Osama bin Laden, altro ricco uomo d’affari con interessi nel mondo della malavita e con l’idea fissa della supremazia islamica. Provvisto di una serie di passaporti falsi, si dice, dallo stesso Governo pakistano, Ibrahim vive indisturbato nonostante le ripetute richieste di estradizione. Dopo il crollo delle Torri gemelle, gli Stati uniti hanno inserito
Ibrahim nella lista dei terroristi ricercati a livello internazionale. Nel 2008 e nel 2009 il boss è stato messo dalla rivista «Forbes» al quarto posto nell’elenco degli uomini più ricercati del pianeta e al cinquantesimo nella lista degli uomini più potenti del mondo. Secondo la stampa locale il boss vive «come un re» nella sua residenza pakistana, circa seimila metri quadri completi di piscine, campi da tennis, sala giochi, palestra e via dicendo. Ibrahim, secondo la scheda a suo nome rilasciata dall’Interpol, è alto un metro e 77, bruno e grassoccio, indossa abiti firmati e sfoggia un orologio di lusso da mezzo milione di rupie. Nonostante gli anni, pare che abbia conservato intatta la sua passione per stelline e prostitute d’alto bordo, che fanno a gara per essere oggetto della leggendaria munificenza del boss. Nel 2005 una delle sue figlie ha sposato, con un matrimonio da favola che sembrava uscito da una pagina de Il Padrino, il figlio di Javed Miandad, una leggenda del cricket pakistano. Secondo l’intelligence indiana, il boss sarebbe anche coinvolto nell’organizzazione logistica degli attacchi a Mumbai del 26 novembre 2008. E anche nelle investigazioni sulla strage, oltre al nome di Dawood, è spuntato, come contatto a Mumbai dell’agente doppiogiochista David Headley, un nome legato al mondo del cinema, quello di Rahul Bhatt, figlio del regista e produttore Mahesh. Così come, lo scorso anno, l’ombra di Ibrahim è stata evocata nel caso del suicidio dell’attore Sushant Singh Rajput. Si dice che l’attore avesse confidato a suo padre e sua sorella di essere stato minacciato dalla DCompany. E in effetti, secondo voci che girano ormai da tempo nell’ambiente, le estorsioni e le minacce di morte costituiscono ancora la norma e negli ultimi tempi sarebbero riprese a pieno regime, anche ai danni di noti personaggi della televisione. Della grande saga di Bollywood&Bhai (l’industria del cinema e i «fratelli» di mafia), che negli anni ha coinvolto in un modo o nell’altro tutti i più grandi nomi del cinema indiano, da Salman Khan a Aishwarya Rai a Hritik Roshaan, a quanto pare non è ancora stata girata l’ultima scena.
C’è la guerra scatenata per il controllo della nuova rotta della cocaina verso l’Europa nel massacro di detenuti di Guayaquil, lungo la costa dell’Ecuador. Il Golfo di Guayaquil e il suo grande porto sono l’Eldorado da conquistare per chi vuole controllare il traffico di droga. Passa dalle alture di Quito e lungo le strade nascoste della costa la nuova autostrada usata dai narcos colombiani e messicani, alleatisi con giovani cartelli ecuadoriani per far arrivare i carichi nei porti sudamericani da cui partono poi i container per il vecchio Continente. Oltre 110 morti, alcuni di loro decapitati, altri con le mani tagliate, e un centinaio di feriti sono state le vittime accertate dello scontro tra bande rivali cominciato nel carcere di Guayaquil l’ultimo martedì di settembre, il peggiore massacro della storia carceraria del piccolo Paese andino dove, dall’inizio dell’anno, due altre rivolte di detenuti hanno già fatto altri cento morti. Se ne è avuta notizia fuori dalle mura della prigione all’alba, con l’esplosione contemporanea di centinaia di armi da fuoco in vari padiglioni. Dopo l’intervento della polizia – sulle cui modalità mai nulla si saprà – gli agenti carcerari hanno affermato di aver trovato segni di granate esplose e cadaveri crivellati di colpi ogni dove. L’intelligence militare locale sa molto della guerra in corso, ma dice di non riuscire a fermarla. Il colonnello Mario Pazmiño, l’ex capo dei servizi segreti militari dell’Ecuador, ha dichiarato alla Bbc: «Quello delle carceri qui in Ecuador è un terreno conteso tra varie bande. Lì si scontrano ferocemente per misurare le forze e stabilire chi comanda fuori. La banda più grande è quella dei Choneros, legata al cartello messicano di Sinaloa. Ci sono i Tiguerones, i Lobos e i Lagartos che sono controllati dal cartello di Jalisco, nuova generazione. Questa volta è successo che due bande hanno tentato di prendere il controllo del quinto padiglione del carcere, territorio di un’altra gang che ha reagito. Infatti solo lì sono stati contati 60 morti. Dopo è arrivata la rappresaglia». Più di un terzo della cocaina prodotta in Colombia – produzione crescente perché l’export tira il mercato – sta attualmente transitando attraverso l’Ecuador, secondo stime del portale Insight crime. Solo nel 2020 i dati della polizia nazionale ecuadoriana raccontano di 128,4 tonnellate di coca sequestrate in operazioni antidroga, alle quali vanno sommate quelle intercettate e finite chissà dove nonché quelle che hanno continuato il loro viaggio indisturbate. «La metà della coca che
esce dalla Colombia passa attualmente dal porto di Guayaquil», osserva l’ex capo dei servizi Pazmiño. Ovviamente la quantità di soldi generata dal traffico rende permeabilissime le mura di recinzione delle carceri locali in cui la corruzione del sistema di controllo è nota e apparentemente impossibile da combattere. Altro elemento che rende difficilmente controllabili le bande e i loro affari è che i narcos ecuadoriani non operano di solito in grandi cartelli con struttura piramidale, ma sono piccole gang frammentate che si rompono e si riassemblano come cellule impazzite. Difficile disegnarne la geografia, tanto più mantenere la mappa criminale aggiornata. Sta succedendo con loro localmente quello che successe in America latina venti anni fa, quando la ‘Ndrangheta si sostituì quasi completamente alla mafia siciliana come referente dei produttori di coca colombiani. La ‘Ndrangheta rubò quote enormi di mercato perché sapeva muoversi come si muovono i broker. I cartelli ecuadoriani stanno facendo lo stesso, imparando dai calabresi e lavorando per loro e con loro. La guerra nella selva e lungo la costa, carceri comprese, serve ad aggiudicarsi fette di mercato nel narcotraffico. A far arrivare nel Mediterraneo i carichi ci pensa poi la ’Ndrangheta. Efficiente, discreta, difficile da infiltrare, molto brava nel riciclaggio. La mafia siciliana resiste ovviamente, e fa i suoi affari, ma non è più la regina del mercato come ai tempi di Pizza connection, quando Cosa nostra imperava incontrastata e il grande business stava nel viaggio in direzione inversa: dai laboratori chimici che raffinavano eroina in Sicilia fino alle grandi piazze americane. La ’Ndrangheta si è infilata nelle pieghe del giro vorticoso d’affari e si è fatta spazio, in silenzio. Ha intuito negli anni Ottanta che il futuro era la cocaina, non l’eroina. E s’è piazzata, inabissandosi. Dispone di molti mezzi, ha gente ovunque dove si produce coca, dalla Colombia all’Ecuador. Stringe alleanze con i nuovi cartelli, si muove come un pesce nell’acqua tra i narcos locali che la trovano affidabile perché chiusa, impenetrabile, arcaica. I colombiani e i messicani valutano la puntualità dei pagamenti, il professionismo nel trasporto. I carichi arrivano dove devono arrivare, quando devono arrivare. Non si perdono, non ritardano. Per questo cambiare rotte in continuazione è necessario. Valutare dove fare passare i carichi e conquistare il controllo di nuovi porti è una mossa fondamentale. Da lì la guerra per controllare le rotte.
Militari e agenti carcerari cercano di mantenere l’ordine a Guayaquil. (aFp)
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Idee e acquisti per la settimana
Consiglio Per una nota esotica nella fondue al formaggio, invece del solito pane semi-bianco, utilizzate bocconcini tostati di pane alle castagne. Gli aromi di tostatura e la leggera dolcezza si sposano a meraviglia con il formaggio.
Ot timo con… Una mousse di barbabietole, un delicato antipasto in pink. La mousse è preparata con barbabietole fresche cotte, formaggio fresco e panna. Spalmare semplicemente la mousse sul pane e decorare con germogli e mandorle affumicate tritate. Questa e altre ricette di mousse su migusto.ch
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ima t t e s ll a e d e n pa
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pane alle castagne
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politica e economia
telelavoro e riduzione di salario: perché?
mondo del lavoro La proposta di pagare meno gli smart worker non tiene – anche da un punto di vista
macroeconomico
Quota salari su pIl (1950 - 2019) 4 80.00 70.00 60.00 50.00 %
40.00
germania
30.00
italia stati uniti d'america
20.00
svizzera
10.00 0.00
micamente parlando sdrucciolevole. Ridurre i salari dei lavoratori equivarrebbe – a parità di prezzi di vendita del bene o servizio prodotto – ad aumentare i ricavi a discapito della remunerazione lavorativa ed a vantaggio dei profitti aziendali. Del resto, non è un caso che i Paesi, in cui la classe lavorativa è particolarmente benestante, esibiscano un’elevata quota di salari su PIL (cfr. figura) che è invece da tempo diffusamente in calo. In altre parole, si acuirebbe la disparità salariale, abbassando il tenore di vita dei soggetti economici più deboli e fungendo da pericoloso effetto segnale per altre realtà lavorative. Laddove invece i prezzi di vendita del bene o servizio venissero
vada sì bene per giocare a qualche videogame o fare binge watching di serie televisive, ma non possa avere altre finalità quali lavorare con efficienza. La proposta di cui sopra poggia sul teorema delle minori spese, che il collaboratore andrebbe ad affrontare, e tralascia opportunisticamente quelle perlomeno uguali (se non maggiori): spazi abitativi adeguati, dotazione informatica (PC, linea veloce, stampante/scanner, antivirus etc.). E perché non considerare i consumi maggiori di elettricità, riscaldamento ecc., di cui invece vengono sgravati i locali aziendali? Fonti
a ge io-5 nn 0 a ge io-5 nn 7 a ge io-6 nn 4 a ge io-7 nn 1 a ge io-7 nn 8 a ge io-8 nn 5 a ge io-9 nn 2 a ge io-9 nn 9 a ge io-0 nn 6 ai o13
Fra gli insegnamenti della pandemia da SARS-CoV-2 vi è quello, per cui, laddove non si intercetti il vento di cambiamento, quest’ultimo si imporrà comunque e spariglierà le carte in tavola. Per anni, in ambito lavorativo, è innegabile che vi sia stata reticenza nei confronti dello smart working, che non è però innovazione recente in quanto già diffusamente teorizzata fra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70 quale strumento lavorativo complementare: ricordavo già nel numero 27 di «Azione» come in tempi pre-pandemia fosse consueta la domanda al telelavoratore avvistato dal vicino di casa in giorni feriali «Oggi non lavora?». Tale riluttanza trova svariate ragioni: timori di perdita del controllo da parte del datore di lavoro e/o responsabile ma anche delle associazioni di categoria; poca dimestichezza con l’utilizzo degli strumenti tecnologici, ma inadeguata organizzazione quale impossibilità di accedere a software e documenti da remoto. Però, se non si cambia per tempo, è il cambiamento a cambiarti. Nolenti o volenti, con lo scoppio della pandemia centinaia di milioni di lavoratori nel mondo – nella 32esima settimana del 2021 72,2 milioni di lavoratori negli USA dichiaravano di avere telelavorato negli ultimi sette giorni1 – sono passati dalla mattina alla sera a lavoro perlomeno ibrido o del tutto da remoto, palesando aziende e lavoratori refrattari ad un tassello del
futuro lavorativo già da tempi pre-pandemia. Certamente, si può discutere su pregi e difetti dello smart working (laddove adottabile) senza però dimenticare che può funzionare solo in presenza di: 1) senso di responsabilità da parte del collaboratore e fiducia del datore di lavoro; 2) capacità di fronteggiare flessibilità di tempi e modi; 3) spirito d’iniziativa anche in autonomia. Che tale approccio lavorativo vada anche nella direzione – spesso auspicata, sebbene meno praticata – di maggiore digitalizzazione (là dove effettivamente serva e non a solo scopo d’intrattenimento) e sostenibilità ambientale a fronte di riduzione di consumo di suolo, emissioni di CO2 ed efficienza lavorativa è un dato di fatto. Altrettanto vero è che il telelavoro abbia evitato un tracollo peggiore del PIL nel 2020 (-3,2%) e stia contribuendo alle proiezioni sostenute di ripresa globale (+6,0%)2. Lascia, pertanto, perlomeno smarriti leggere come multinazionali americane (peraltro, dell’ambito tecnologico) abbiano recentemente proposto di tagliare fino al 25% i salari dei lavoratori da remoto3. Ciò in forza di minori costi per il prenditore di lavoro, potendo abitare in zone più periferiche (meno costose). Premesso che al datore di lavoro non dovrebbe interessare un aspetto pertinente alla libertà di scelta di ciascun collaboratore – viene da domandarsi, infatti, se conti effettivamente il risultato lavorativo o tutto il «corollario» –, la proposta pare macroecono-
ge nn
Edoardo Beretta
tagliati proporzionalmente ai minori costi di produzione si assisterebbe ad una misura deflazionistica (se sufficientemente adottata), che non può essere certo nell’ottica di policymaker che mirano sia ad evitare «fiammate» inflazionistiche, ma soprattutto spirali deflazionistiche. Inutile aggiungere che tale misura – oltre ad essere in pieno contrasto con il principio, per cui siano merito e performance a contare – andrebbe anche a svantaggio di soggetti economici che vogliano conciliare meglio la work-life balance e della modernizzazione dell’attività economica in generale. Se ne evince l’impressione che la connessione domestica ad Internet
1. http://www2.census.gov/programssurveys/demo/tables/hhp/2021/ wk32/transport1_se_week32.xlsx. 2. https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2021/07/27/ world-economic-outlook-updatejuly-2021. 3. https://www.forbes.com/sites/ heidilynnekurter/2021/08/26/ google-plans-to-cut-remoteworkers-salaries-by-25-heres-theimpact/?sh=74f6cff94fb2. 4. Elaborazione propria sulla base di: https://fred.stlouisfed.org/ series/LABSHPDEA156NRUG, https://fred.stlouisfed.org/series/LABSHPITA156NRUG, https://fred.stlouisfed.org/series/LABSHPUSA156NRUG e https://fred.stlouisfed.org/series/ LABSHPCHA156NRUG. annuncio pubblicitario
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politica e economia
l’oro senza una direzione chiara la consulenza della Banca migros
Thomas Pentsy
Il prezzo dell’oro rimane in un canale laterale ristretto
Fonte: Bloomberg
Thomas Pentsy è analista di mercato presso la Banca Migros
Da luglio il prezzo dell’oro oscilla all’interno di un canale laterale ristretto. Sebbene nei mesi estivi i tassi reali statunitensi abbiano temporaneamente raggiunto nuovi minimi storici, il metallo giallo ha riscosso uno scarso successo tra gli investitori. Ciò si riflette, tra l’altro, nei flussi di capitale degli ETF globali sull’oro. Secondo l’organizzazione di settore World Gold Council, ad agosto gli ETF sull’oro hanno registrato deflussi netti di 22,4 tonnellate di oro, pari a 1,3 miliardi di dollari, con i deflussi in Nord America che hanno superato gli afflussi nei fondi europei e asiatici. La prospettiva che la Federal Reserve riduca i suoi acquisti di obbligazioni e inizi a condurre una normale politica monetaria prima della fine dell’anno sta rendendo gli investitori riluttanti a esporsi maggiormente all’oro. Questa riluttanza si spiega probabilmente in parte anche con il fatto che nell’anno precedente gli ETF sull’oro hanno registrato afflussi consistenti. Infine, ma non meno importante, il dollaro più forte sta pesando sul prezzo dell’oro. Partiamo dal presupposto che nei prossimi mesi l’oro tenderà a muoversi lateralmente. Un argomento a favore del metallo giallo è che l’inflazione statunitense potrebbe rivelarsi più persistente di quanto finora previsto. In vista dell’imminente tapering da
parte della banca centrale statunitense, potrebbero verificarsi temporaneamente periodi di maggiore volatilità sui mercati finanziari. A nostro avviso, tuttavia, non ci sono segnali di una ripresa significativa e duratura della domanda degli investitori, soprattutto perché le prospettive di crescita dell’e-
conomia mondiale rimangono intatte. Nel suo scenario di base la Banca Migros si aspetta che i tassi d’interesse reali statunitensi aumentino leggermente e che il dollaro rimanga stabile, il che probabilmente peserà sul prezzo dell’oro. Al ribasso, tuttavia, il prezzo dell’oncia continua a poggiare
su solide basi. La politica ancora molto espansiva delle banche centrali a livello globale e i tassi d’interesse reali tuttora negativi favoriscono l’attrattiva del metallo giallo. Su un orizzonte di dodici mesi, prevediamo che nella regione il prezzo dell’oncia troy d’oro si aggiri intorno ai 1800 dollari.
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politica e economia rubriche
Il mercato e la piazza di angelo rossi Finanze cantonali, tendenza negativa Il Consiglio di Stato ticinese ha pubblicato, con buona tempestività, il preventivo del 2022 e il piano finanziario per il periodo 2022-2025. Ambedue sono l’espressione di questo periodo di vacche magre. Il preventivo per l’anno prossimo anticipa un disavanzo di esercizio di 135 milioni di franchi con, unico dato positivo, un piccolo montante di 72 milioni di franchi per l’autofinanziamento. Il montante dell’autofinanziamento è piccolo perché basta a pagare unicamente un po’ più di un quarto degli investimenti progettati per l’anno che viene. Questo significa che per finanziare il resto degli investimenti il Cantone dovrà indebitarsi. Il debito pubblico supererà così nel prossimo esercizio i 2500 milioni di franchi. Per fortuna che, per il momento, la Banca nazionale svizzera continua ad applicare tassi di interesse negativi, ragione per cui chi si indebita guadagna. Ma questa politica eccezionale non andrà avanti ancora
per molti anni. Con l’inflazione che rialza la testa sono molti i commentatori dei fatti economici che stanno anticipandone la prossima fine. Con tutto ciò, ma tenendo conto che non siamo ancora usciti dalla pandemia, il preventivo del Cantone per il prossimo anno non deve eccessivamente preoccupare. Non è la prima volta, nel corso degli ultimi anni, che i responsabili delle finanze cantonale ci propongono preventivi con un disavanzo superiore ai 100 milioni; i risultati dei rispettivi consuntivi sono sempre stati migliori. Per gli amministratori delle finanze pubbliche è una buona regola quella di stendere il preventivo con molta prudenza sottostimando talvolta i possibili ricavi. Di qui la sorpresa di risultati finanziari nei consuntivi che sono migliori di quelli preventivati. Il 2020, ovviamente, costituisce un’eccezione in seguito al manifestarsi della pandemia, un evento che nessuno aveva potuto prevedere, soprattutto nelle
sue conseguenze finanziarie, in fase di preparazione del preventivo. Diversa è la situazione per il 2021. Il preventivo di quest’anno è stato stilato in uno dei momenti più bui della pandemia, alla fine dell’estate del 2020 e prevedeva un disavanzo di 230.7 milioni. Stando ai dati pubblicati sul pre-consuntivo 2021, pubblicati a fine agosto, il disavanzo effettivo si ridurrà di almeno un’ottantina di milioni. Queste informazioni ci inducono a non preoccuparci eccessivamente per il preventivo del 2022. A dar da pensare sono invece le stime del piano finanziario 20222025 perché mostrano un disavanzo che tende ad aumentare nel tempo. Nel 2025 si avvicinerebbe ai 200 milioni di franchi. Le ragioni di questo peggioramento sono quelle di sempre: da un lato la spesa del Cantone continua a crescere e, dall’altro, i ricavi ristagnano o per lo meno crescono più lentamente della spesa. Anche se lasciamo da parte eventuali ultime ripercussioni
negative della pandemia, diverse tendenze in atto confermano che i disavanzi stimati dal Consiglio di Stato per i prossimi anni non sono campati in aria. Sulla capacità di ripresa dell’economia ticinese dopo la pandemia si può avere più di un dubbio. Il fatto poi che oggi l’occupazione in Ticino cresca solo per l’aumento dell’effettivo dei frontalieri non ha ripercussioni estremamente positive sull’evoluzione del gettito fiscale. Ma a preoccupare maggiormente, per i prossimi 3-4 anni, è il possibile rincaro e la possibile lievitazione dei tassi di interesse. Nonostante gli aumenti dei prezzi in atto, anche nei paesi confinanti, per il momento la nostra Banca nazionale reputa che, per i prossimi due anni, il tasso di inflazione in Svizzera continuerà ad essere inferiore all’1%. Con un tasso di questo genere è ovvio che la nostra Banca centrale continuerà a mantenere i suoi tassi di interesse negativi. Ma in materia di rincaro le cose
potrebbero cambiare rapidamente. Le previsioni sul rincaro della Banca nazionale sono dunque da prendere «cum grano salis». È quanto, pensiamo, abbia fatto il nostro ministro delle finanze nel preparare le stime dei costi e dei ricavi del PF. Come abbiamo già rilevato, le stesse prevedono un disavanzo in aumento per un numero di anni superiore a quello che i principi di gestione finanziaria dello Stato possono consentire. Sarà quindi necessario intervenire con misure che consentano o di ridurre la spesa o di aumentare i ricavi del Cantone. Dalle prime prese di posizione attorno a questo dilemma sembra soprattutto che, in fatto di austerità finanziaria, Consiglio di Stato e Gran Consiglio non si trovino sulla medesima lunghezza d’onda. Si annuncia un dibattito parlamentare sulle misure di risanamento finanziario ricco di spunti a cominciare dalle discussioni in atto nella commissione della gestione.
una campagna elettorale coerente con sé stesso. Infatti è Salvini a pagare il prezzo più alto delle urne, e non soltanto per il caso Morisi – il capo della sua macchina di propaganda, accusato di aver organizzato un droga party con escort romeni – che ne ha appannato la ruggente immagine social, quanto per le oscillazioni dalla linea pragmatica di Giorgetti, il ministro delle Attività produttive, e di Zaia, il presidente della Regione Veneto. La destra italiana rischia di perdere i ballottaggi tra qualche settimana, però può ancora vincere le prossime politiche. Deve però scegliere se il modello è la destra radicale e sovranista di Marine Le Pen o il centrodestra liberale ed europeo, che è stato ieri di Angela Merkel e sarà domani di Isabel Diaz Ayuso, la donna che governa la Comunità di Madrid. Se il futuro è nel partito popolare europeo di Ursula von der Leyen o è nella deriva illiberale della Polonia di Jaroslaw Kaczynsky
e dell’Ungheria di Viktor Orban, che dal Ppe è stato costretto ad andarsene. Non è solo questione di consenso, è questione di programmi e di tenuta. Altrimenti – come disse Giorgetti prima ancora che nascesse il Governo Draghi – la destra sovranista e populista può vincere le elezioni ma poi dura sei mesi. C’è poi un’altra questione da chiarire. Se il Parlamento non cambierà la legge elettorale – e tutto lascia credere che sia difficile – un terzo dei seggi sarà assegnato con i collegi uninominali. Questo implica l’esistenza di una coalizione, di un leader che la guidi e sia candidato a Palazzo Chigi. La formula secondo cui le vere primarie saranno le elezioni, e il leader sarà il capo del partito che avrà più voti, è debole. Perché esaspera la competizione tra Meloni e Salvini. E perché espone a complicazioni inattese: che succede se i due partiti sono separati da una manciata di voti? E se uno ha più voti popolari e l’altro – magari per-
ché più bravo al tavolo delle trattative per le liste, che non saranno semplici neppure tra Pd e 5 Stelle – ha più seggi? Un leader credibile, magari scelto meglio di quanto si è fatto con i candidati sindaci, aiuterebbe il progetto. E rafforzerebbe l’idea che le elezioni sono il momento in cui i cittadini decidono da chi vogliono essere governati e non il fischio d’inizio di una partita che poi si gioca nel Palazzo. Quanto a Milano, la città è ripartita, con la settimana del mobile e la settimana della moda (oppure fashion week come si chiama adesso). Ma Sala non può esultare troppo. La metropoli ha aree di degrado, a cominciare da quelle della cosiddetta movida. I prezzi folli degli immobili tengono i milanesi lontani dal centro, riservato ormai a sceicchi e investimenti delle multinazionali. Ora finisce lo smart working e i locali tornano a riempirsi ma i prezzi sono schizzati alle stelle. Il lavoro al sindaco non manca.
soffocare sistematicamente le richieste delle piccole comunità. Questa rete associativa, incoraggiata e in parte co-finanziata dalle autorità federali, favoriva insomma la composizione pacifica dei conflitti, incanalando sul nascere lo scontento che determinate scelte suscitavano in una parte della popolazione (distribuzione dei posti di lavoro, ubicazione di tribunali e altri uffici ecc. ). Una funzione coesiva che finì per assumere un significato salvifico: «il federalismo per la sua stessa natura non conosce problemi di minoranze». Non era del tutto vero, ovviamente, e tuttavia la politica mai avrebbe osato voltarle le spalle. Ora questo civismo confederale langue. La società in cui viviamo – «la società delle singolarità», come la chiama il sociologo tedesco Andreas Reckwitz – non sembra più porre al centro delle sue preoccupazioni le richieste delle minoranze etnicolinguistiche, ma il percorso esisten-
ziale dei singoli individui, le domande di riconoscimento dei gruppi prima obbligati alla semi-clandestinità per ragioni religiose o sessuali, una parificazione effettiva e non formale tra uomo e donna, in ambito lavorativo come nel disbrigo delle faccende domestiche. Tutto legittimo in un regime democratico, in cui l’ultima parola spetta al popolo. Non vorremmo però che questo nuovo corso nel campo dei diritti finisse per oscurare o addirittura ignorare le altrettante legittime attese e rivendicazioni delle minoranze storiche, da decenni, se non da secoli, impegnate a promuovere il proprio patrimonio linguistico-culturale in tutte le sedi in cui soffia – o dovrebbe soffiare – lo spirito della concordia confederale. Non una contrapposizione tra diritti (gli uni individuali, gli altri collettivi), non un’alternativa secca, ma un’integrazione per far avanzare entrambi sul terreno della civiltà giuridica.
In&outlet di aldo Cazzullo la destra italiana al bivio Per la prima volta da quando si eleggono direttamente i sindaci, il centrosinistra ha vinto al primo turno a Milano. Merito di Beppe Sala, sindaco uscente e rientrante, e anche demerito di un rivale – il pediatra Luca Bernardo – non all’altezza. L’orientamento politico dell’Italia, però, non è quello che si è visto nel voto amministrativo. Milano non è la Lombardia, Torino non è il Piemonte, e neppure Bologna è uguale a certe zone dell’Emilia e della Romagna che non sono più «rosse» come un tempo. D’altronde in tutto l’Occidente le grandi città votano più a sinistra del resto del Paese. Le elezioni politiche, che ormai non sono molto lontane, potrebbero andare diversamente. Anche perché l’affluenza alle urne sarà più alta. Ciò premesso, per queste Amministrative la destra italiana ha fatto forse la peggior campagna elettorale di tutti i tempi. E non solo per la scelta di candidati non all’altezza, per la palese
rivalità tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni, per l’altrettanto palese insofferenza di Silvio Berlusconi verso gli aspiranti eredi. Sia la Lega sia Fratelli d’Italia hanno criticato il green pass e strizzato l’occhio alla parte dell’opinione pubblica scettica, se non ostile ai vaccini. Una parte che esiste e va ascoltata, ma è nettamente minoritaria. La grande maggioranza degli italiani – soprattutto al Nord – con più o meno entusiasmo si è vaccinata, volente o nolente ha scaricato il green pass e considera gli ammiccamenti a chi non intende vaccinarsi come una mancanza di rispetto nei propri confronti. Ovviamente non si è votato solo sui vaccini. Ma i sovranisti italiani non hanno compreso che il vento è cambiato, che la pandemia ha segnato un «ritorno all’ordine», che Trump ha perso e Marine Le Pen perderà, che le istituzioni europee si sono rafforzate e in Italia è arrivato Draghi. Salvini ha scelto di appoggiarlo ma non ha fatto
cantoni e spigoli di orazio martinetti minoranze storiche e nuove minoranze L’approvazione dell’articolo «Matrimonio per tutti» (modifica del Codice civile) s’inscrive in una tendenza ormai largamente condivisa, perlomeno nelle società occidentali, vale a dire quella mirante a riconoscere anche alle coppie omosessuali diritti fino a ieri denegati. Sul piano giuridico siamo dunque di fronte a un progresso, già presente nella coscienza di ampie fasce della popolazione prima che nei paragrafi di legge, e che possiamo far risalire al lungo e ramificato cammino che prese avvio in età moderna con la pubblicazione dei Delitti e delle pene dell’illuminista lombardo Cesare Beccaria (1764). È quell’opera capitale il punto di partenza dei successivi sviluppi in campo penale, civile, politico e sociale; un itinerario, come sappiamo, non lineare, costellato di interruzioni e battute d’arresto, ma mai abbandonato, nemmeno nei periodi più bui della storia. Questo cammino ha condotto l’umanità nell’«età dei diritti», per ci-
tare il titolo di un fortunato volumetto di Norberto Bobbio. Il che non relega in secondo piano i «doveri», come qualcuno paventa, ma permette ad entrambi, diritti e doveri, di compiere un salto di qualità, per misurarsi con le questioni che l’evoluzione della società pone, specie in campo ambientale e biomedico. Di qui la nascita dei diritti detti di terza o quarta generazione, destinati a rispondere ai dilemmi etici derivanti dagli sviluppi delle tecniche riproduttive, dall’emergenza climatica o dalle angoscianti implicazioni della «buona morte». La cittadinanza, come le ultime votazioni hanno confermato, appare sensibile nei confronti di queste esigenze legate al destino dell’individuo, alle sue aspirazioni e progetti di vita. Ricordiamo tutti che fino a qualche anno fa il clima era ben diverso, poco propenso a lasciar filtrare nel discorso pubblico argomenti come le questioni di genere e le preferenze sessuali. Anzi,
quando si parlava di «minoranze» il pensiero correva non ai gruppi discriminati e dileggiati, ma alle «stirpi» linguisticamente minoritarie: i romandi, i ticinesi e i grigionesi italofoni, i romanci. Erano queste le minoranze storiche che a scadenze regolari battagliavano per veder riconosciute le loro istanze nell’amministrazione bernese e nelle aziende controllate dalla Confederazione. A dirimere le vertenze intervenivano poi, a livello pre-parlamentare, le associazioni civiche come la Nuova Società Elvetica, il Forum Helveticum, Rencontres Suisses, Coscienza Svizzera, Helvetia latina. Da questi sodalizi passava gran parte delle lamentele e delle sollecitazioni che salivano dal basso, dai circoli locali, e che non sempre i partiti riuscivano ad intercettare. Erano anche i luoghi in cui la tradizione federalistica del paese trovava l’espressione migliore, evitando che la democrazia, con il suo principio di maggioranza, finisse per
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Idee e acquisti per la settimana
maSSImo ImpeGno contro Il cancro al Seno
In bicicletta, a piedi o con i roller: scegli la tua tappa preferita tra le oltre 100 del percorso Pink Ribbon, quindi inserisci online i chilometri completati. Ogni partecipante contribuisce ad attirare l’attenzione sul tema del cancro al seno
Foto: GettyImages
Pink Ribbon Svizzera si è posta l’obiettivo di sensibilizzare la popolazione sul tema del cancro al seno. Il nastro rosa – da cui deriva «Pink Ribbon» - serve da simbolo internazionale per attirare l’attenzione sulla malattia. Tutti i percorsi del nastro rosa vogliono motivare la popolazione a fare regolarmente esercizio fisico. Non importa quale sport si sceglie e quanti chilometri si percorrono: con «Pink Ribbon» tutti possono partecipare e testimoniare la propria solidarietà. L’intero percorso, di 4500 chilometri, offre oltre 100 possibili tappe, che possono essere percorse a piedi, in bicicletta o con i roller. In questo modo ognuno può contribuire ad attirare l’attenzione sul tema del cancro al seno e nel contempo fare qualcosa a livello di prevenzione della salute. I chilometri percorsi vengono pubblicati e sommati sul sito schleifenroute.ch (in tedesco).
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solidarietÀ migros all’acquisto di questi prodotti una parte del ricavato verrà donata all’organizzazione pink ribbon.
alcuni percorsi apprezzati Da Bellinzona a Locarno Con i suoi 22 chilometri il percorso ciclabile che parte dalla capitale e raggiunge la città sul Verbano è in gran parte pianeggiante e quindi ideale anche per le famiglie. Riservati tempo a sufficienza per questa gita: lungo il percorso ci sono molte cose da vedere! Sul Monte Generoso L’itinerario circolare inizia presso la stazione intermedia Bellavista e sale fino a raggiungere la vetta a 1704 metri, attraversando l’incantevole paesaggio montano di un parco naturale. Diverse le possibili varianti di percorso, che comprendono la possibilità di una tappa ristoratrice al Fiore di pietra. Aeroporto di Zurigo L’anello di 31,5 chilometri per i roller che si sviluppa attorno all’aeroporto è perfetto sia per le famiglie, i pattinatori tranquilli e quelli che preferiscono la velocità: le piste sono sufficientemente larghe per offrire spazio a tutti.
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cultura e Spettacoli nel cuore di emilie pine Appunti per me stessa, un testo di e per le donne (ma non solo) che sta scuotendo il mondo pagina 43
la verità dietro alla maschera A colloquio con Giorgio Falco, autore insieme a Sabrina Ragucci, di un libro sull’incendio alla Fenice di Venezia
Grandi Killers Nel nuovo lavoro dei The Killers, intimismo americano, sentimenti profondi e rimpianti
la casa del cinema di la A Los Angeles è stato inaugurato l’Academy Museum of Motion Pictures
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l’arte come dialogo mostre A Lugano un omaggio
allo scultore italiano Pietro Consagra
Alessia Brughera Artista della cosiddetta «generazione di mezzo», composta da quelle figure attive dal secondo dopoguerra che hanno contribuito a definire le linee estetiche del Novecento, Pietro Consagra nel suo lungo percorso di ricerca ha affrontato tematiche e modalità artistiche in stretto rapporto con un impegno civile e ideologico. Scultore, ma non si dimentichi anche il suo notevole lavoro di scrittore e di critico, è stato tra le personalità di maggior rilievo all’interno del dibattito e del rinnovamento plastico iniziato negli anni Sessanta. Nato nel 1920 a Mazara del Vallo, in provincia di Trapani, dopo un’infanzia e una prima giovinezza trascorse nella terra d’origine, Consagra si trasferisce a Roma nel 1944 per sentirsi nel «cuore pulsante della creatività». Qui conosce Renato Guttuso, siciliano come lui, Giulio Turcato, Mario Mafai, Piero Dorazio e molti altri, con cui si confronta per capire da dove ripartire affinché l’arte possa essere connessa all’esistenza dell’uomo e alla società. Con il viaggio a Parigi nel 1946, organizzato dalla Gioventù Comunista, Consagra ha l’opportunità di incontrare Anton Pevsner, Henri Laurens, Fernand Léger e Alberto Giacometti, di visitare gli atelier di Constantin Brâncuşi e di Julio González nonché di vedere i gessi di Picasso. Di ritorno dalla Ville Lumière lo scultore ha ben chiara in mente la strada da intraprendere, quella dell’astrattismo. Nel 1947 fonda il gruppo Forma 1, affermando il valore estetico della purezza formale quale unico fine dell’opera d’arte. Convinto che l’astrazione sia il solo linguaggio in grado di innescare un vero rinnovamento artistico, Consagra inizia a elaborare la sua personale cifra stilistica con l’obiettivo che lui stesso condensa in queste parole: «Esprimere il ritmo drammatico della vita di oggi con elementi plastici che dovrebbero essere la sintesi formale delle azioni dell’uomo a contatto con gli ingranaggi di questa società». Spronato da un’esigenza di ordine morale, Consagra forgia le sue opere muovendosi in direzione di una cultura ispirata al socialismo. L’attività dell’artista siciliano, fin dagli esordi, si è infatti sempre concentrata su un’idea di inclusione e di appartenenza. Per questo uno dei tratti caratteristici dei suoi lavori è la visione frontale, una sorta di sfida alle
convenzioni della scultura a tutto tondo e all’assolutismo della statuaria classica in favore di un dialogo immediato e di un confronto paritario tra oggetto e osservatore. Questa lotta contro la tridimensionalità coincide con la creazione di un nuovo spazio in cui l’opera non è più un’entità indipendente che catalizza l’interesse dello sguardo (e quindi emblema secondo Consagra del potere e della gerarchia di relazioni) ma diventa parte di un rapporto autentico con il fruitore, simbolo dell’aspirazione a un mondo più giusto ed egualitario. Nei suoi lavori realizzati nel corso dei decenni con diversi materiali – dal bronzo al ferro, dall’acciaio al legno e al marmo – l’artista utilizza così la visione frontale come una possibilità per sgravare la scultura dal peso del suo bagaglio storico, conducendola verso l’essenzialità dei concetti. La mostra di Pietro Consagra allestita presso la Collezione Giancarlo e Danna Olgiati a Lugano, la prima che un’istituzione pubblica svizzera dedica all’artista, testimonia bene come nel suo prolifico percorso egli abbia costantemente posto al centro della propria ricerca la consapevolezza dell’importanza dell’uomo e dell’arte per edificare una società più democratica. La rassegna è stata organizzata con l’intento non solo di celebrare il suo centenario della nascita (che cadeva nel 2020 e che la pandemia ha rinviato) ma, ancor più, di omaggiare un artista che agli Olgiati è stato legato da un vincolo di grande amicizia e stima. Basti pensare alle rassegne che i due collezionisti gli hanno riservato a partire dalla metà degli anni Novanta alla Fonte d’Abisso Arte, la nota galleria milanese di cui Danna era titolare. La retrospettiva luganese curata da Alberto Salvadori, in collaborazione con l’Archivio Consagra di Milano, espone una nutrita selezione di opere dell’artista che va dagli anni Cinquanta ai primi anni Settanta, presentata secondo un itinerario che procede a ritroso nel tempo. Ad accogliere il visitatore sono alcuni lavori della fine degli anni Sessanta in cui si manifesta la stretta relazione tra scultura e architettura, peculiarità dell’indagine di Consagra. Folgorato dalle architetture di Frank Lloyd Wright e di Louis Sullivan, ammirate durante il suo soggiorno negli Stati Uniti tra il 1967 e il 1968, Consagra riflette sulla città come luogo in cui far confluire tutta la complessità dei rap-
Pietro Consagra, New York City, 1962 bronzo e acciaio. (Foto: paolo Vandrasch © 2021, prolitteris, zurich)
porti tra gli individui. A Lugano viene esposta La città frontale, il plastico di uno spazio urbano costruito dall’artista come fosse un’estensione della sua scultura, con gli edifici in acciaio dal profilo curvilineo, concepiti secondo i canoni estetici della frontalità, a incarnare una visione dell’architettura «mobile, provvisoria, trasparente, paradossale, sfuggente alle strutture eternali del Potere, disponibile alla mutabilità delle scelte». Di particolare interesse sono i Lenzuoli di Consagra risalenti ai primi anni Settanta, grandi teli dipinti che l’artista usa come un campo di sperimentazione libero, come ampie pagine su cui schizzare senza alcun vincolo «immagini vaganti». Si tratta di opere intime, personali, che Consagra, girovago per tutta la vita, era solito portare con sé ogni volta che cambiava città, appendendole ai muri di casa per arredare il proprio spazio domestico. Si incontrano poi alcuni lavori appartenenti alle serie dei Ferri trasparenti e dei Giardini, eseguite tra il 1965 e il 1967, in cui Consagra approda al colore.
D’altra parte la Pop Art aveva appena fatto il suo ingresso in Europa con la Biennale di Venezia del 1964 e gli artisti più accorti non potevano rimanerne indifferenti. Lontano però dall’idea del colore come portavoce di iconografie legate agli scenari della società dei consumi, Consagra lo impiega come nuovo elemento per trasformare la scultura. Queste opere, in cui ogni pezzo di ferro è stato assemblato agli altri con estrema perizia tecnica attraverso l’uso della fiamma ossidrica, trovano la loro ragion d’essere nel contrasto tra le forme ispirate alla natura e l’artificialità di colori dalle tonalità immaginifiche. Ecco ancora, nella parte finale del percorso espositivo, alcuni importanti lavori del ciclo dei Colloqui, che Consagra realizza negli anni Cinquanta in bronzo e in legno bruciato e a cui dà questo titolo per l’esclusività del punto di vista frontale da cui osservarli, garanzia di un impatto diretto e di un dialogo privo di ambiguità. Nonostante la loro bidimensionalità, queste sculture sono animate da un incalzante
ritmo interno generato dalla sovrapposizione degli strati di metallo, dall’alternanza di pieni e vuoti o dagli effetti di profondità ottenuti tramite le bruciature che variano il colore e lo spessore del legno (si vedano ad esempio Omaggio a Paisiello, del 1955, o Incontro incantato, del 1957). Merito di Consagra, ed è proprio questo il suo lascito più importante, è l’aver posto l’individuo di fronte all’opera d’arte rendendolo consapevole del proprio valore. Come ha sottolineato il critico d’arte Giulio Carlo Argan, la sua «è una poetica umanistica, perché riafferma che l’arte non è un messaggio misterioso, ma qualcosa che l’uomo fa per sé stesso e per gli altri». Dove e quando
Pietro Consagra. La materia poteva non esserci. Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, Lugano. Fino al 9 gennaio 2022. Orari: da venerdì a domenica dalle 11.00 alle 18.00. www.collezioneolgiati.ch
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cultura e Spettacoli
tra scoperta e fuga
narrativa/1 Nel nuovo libro dello scrittore-viaggiatore Marino Magliani i protagonisti
sono tre soldati napoleonici reduci dalla campagna d’Egitto
Angelo Ferracuti Narratore di molti libri, traduttore, autore di recente anche di una graphic novel da La luna e i falò di Cesare Pavese (Tunué), Marino Magliani è un affascinante scrittore-viaggiatore di diversi mondi, la Liguria natale e l’Olanda raccontata nel bellissimo reportage intimo Soggiorno a Zeewijk (Amos, 2014), dove attualmente vive, principalmente, ma è vissuto anche in Spagna e in America Latina, di cui ha tradotto molti suoi scrittori, facendo i mestieri dei nostri «spatriati» come il cameriere, lo scaricatore di porto oppure il marinaio.
Quella di Magliani è una scrittura scabra e priva di orpelli, volutamente francescana Con Il cannocchiale del tenente Dumont (L’Orma, 2021, 286 pp), adesso scrive anche un romanzo storico, o il tradimento di un romanzo storico, ma soprattutto un libro d’avventura dallo stile quasi classico e un conio letterario che sarebbe piaciuto a un suo conterraneo che per tanti motivi gli è affine, Francesco Biamonti, cesellatore di paesaggi e cantore dei passeur, perché proprio il paesaggio, più dei personaggi e la trama, è uno dei protagonisti di questo godibilissimo libro dal piglio assolutamente letterario. Reperto memoriale, documenti d’epoca, missive ritrovate, relazioni medico-scientifiche, mappe, dispacci militareschi convivono armonicamente in questo libro con partiture di narrativa d’invenzione, di luoghi, storie della Storia e paesaggi, soprattutto paesaggi, una geografia piuttosto definita, che è un’altra traccia di scrit-
Jacques-Louis David, Napoleone Bonaparte nel suo gabinetto di lavoro, 1812. (national gallery of art)
tura, dove appunto l’autore rivisita con stile personale il romanzo di viaggio e di scoperta, prendendo decisamente le distanze da una letteratura sempre più relegata nelle pieghe dell’io, condannata al registro del presente. La storia comincia nel 1799, quando tre soldati napoleonici reduci dalla campagna d’Egitto dopo la battaglia di Marengo, Lemoine, Dumont e Urruti, «un capitano, un tenentino e un soldato mezzo basco» – il primo un uomo colto, il secondo un sognatore e il terzo molto
rude – fuggono disertando, arrivando con dei piroscafi in Europa, girovagando dispersi tra il Piemonte e la Liguria di Ponente, luoghi popolati da pericolose spie, dove continuano a consumare hashish. Sono attenzionati da un medico olandese, il dottor Zoomer, che sta effettuando un «esperimento sanitario» voluto da Napoleone in persona, indagando le molte defezioni tra le truppe, certo che uno dei motivi della stanchezza della guerra sia l’uso di questa nuova sostanza stupefacente che i soldati han-
no conosciuto sulle rive di un lago paludoso non lontano dalle acque del Nilo, il quale mette alle calcagna dei fuggiaschi il suo collaboratore Pangloss. I tre picari sono colti nel momento di spaesamento umano ed esistenziale dopo la guerra, in un territorio popolato da uniformi nemiche, in quella che può essere letta anche come una favola antimilitarista; deposte le armi resta il cannocchiale del titolo, che però serve a osservare la natura lirica, crepuscolare, i tramonti struggenti. Fuggiti dai conflitti, dalla battaglia, feriti, i tre attraverso quello strumento di osservazione «scoprono la vita», le Marenche, le strade del sale, i torrenti, quello che il narratore con nostalgia definisce «lo spettacolo della vegetazione», il mondo animale di uccelli, persino la preghiera di una mantide, protetti dagli ulivi, che «riescono a riappacificare, consumano i fantasmi», quando «la venatura della lente ristabilirà tra l’occhio e il mondo un miracoloso equilibrio, annullando lo spavento». Vedono le poiane, «forme di rocce», quella campagna aspra costruita dai contadini arcaici, «i veri architetti della Liguria». La narrazione pendolareggia tra fuga verso l’ignoto e scoperta, con una scrittura scabra e priva di orpelli, volutamente francescana, fortemente nitida. Insegue i movimenti, gli attraversamenti avventurosi dei personaggi, con vena visionaria e stralunata, e una prosa pittorica abilmente costruita sul mistero delle cose intorno, che insieme si intrecciano dentro il campo vivo della letteratura, tra il vero storico e un travestimento narrativo, l’invenzione di un personalissimo punto di vista. Bibliografia
Marino Magliani, Il cannocchiale del tenente Dumont, Roma, L’Orma editore, 2021
narrativa/2 Le sei sezioni che compongono Appunti per me stessa invitano a una full
immersion nella vita dell’autrice. E delle donne
«Mi arrabbio sempre con quelli che sostengono che scrivere dei romanzi è una fuga dalla realtà, perché al contrario è un’immersione nella realtà, che comporta una grande sofferenza»: la scrittrice Flannery O’ Connor, a cui appartiene questa considerazione sul rapporto spesso frainteso fra realtà e letteratura, sarebbe stata davvero fiera leggendo il romanzo d’esordio di Emilie Pine, Appunti per me stessa, che si è aggiudicato l’Irish Book Award, il maggior riconoscimento letterario irlandese. La realtà in cui si immerge Pine è quella della sua esistenza: il testo è diviso in 6 sezioni, che affrontano altrettante vicende e temi della sua vita, fino all’ultimo capitolo intitolato Cose non in programma, in cui Pine descrive la sua condizione lavorativa di docente universitaria. Affronta quali siano le conseguenze del sessismo per la sua carriera e il suo stesso modo di comportarsi, non eludendo, quindi, come uno sguardo avvelenato sul femminile possa appartenere anche alle donne stesse. Racconta di come l’Università, a seguito della crisi economica, sia diventata un luogo in cui il valore dei docenti viene valutato in base a quanti fondi privati riescono ad accaparrarsi, non certo a quanto sono bravi a insegnare e a formare le nuove generazioni. Questo approccio spiazzante, questa ricerca della verità
appunto, che guida l’autrice a ogni riga del testo, costituisce per la lettrice e il lettore una garanzia di arricchimento a ogni riga. Emilie Pine ha scritto uno di quei libri che non si vorrebbero mai finire, in cui sottolineare frasi cruciali quasi a ogni pagina. Il segreto sta nel fatto che pur raccontandoci la sua vita, quella della sua famiglia, il suo lavoro, la sua coppia, con una precisione chirurgica, il racconto risuona anche in chi legge. Per esempio, si parla molto di come il ciclo mestruale sia un vero tabù ancora oggi, ma è anche vero che è difficilissimo
affrontarlo o scriverne in un racconto che non sia solo rivendicativo, seppur la rivendicazione è un primo passaggio necessario, come insegnava Simone de Beauvoir. Nel capitolo Appunti sul sangue e altri crimini, Pine riesce a descrivere la difficoltà e il dolore fisico ed emotivo, come conseguenze inevitabili del menarca, ma va oltre, perché sanguinare è una condizione esistenziale significativa: «tutti dicono che il segreto per scrivere bene sia versare sangue sulla pagina. Immagino lo scrittore maschio che ha coniato questa frase […] A che genere di sangue si riferiva? Quello che sgorga dalla vena di un braccio? O di una gamba? […] Non credo che abbia mai preso in considerazione il sangue uterino. Io di quello ne ho tantissimo, sangue mestruale, sangue gravidico, sangue abortivo, sangue del non-più-incinta, sangue perimenopausale». Attraversando la rivendicazione, ma riuscendo a superarla, Pine racconta di come questo rapporto represso con un aspetto cruciale della vita di ogni ragazza, poi donna infine anziana, abbia come conseguenza una relazione insana col proprio corpo. Sia perché, come sappiamo, ci trattiamo come se fossimo delle cose da rendere appetibili: per forza snelle, giovani, magre. Sia perché a causa di questo modo di guardarci e osservare le altre, non impariamo a prenderci cura di noi stesse, a proteggerci e tanto meno a cercare il piacere.
In scena Spunti e
riflessioni dal FIT
la strenua ricerca della verità Laura Marzi
lo spettatore preso per mano
Il testo di Pine, però, non è un saggio sul femminismo, è un insieme di storie. Per questo, si apre con un capitolo dedicato al suo rapporto col padre o meglio a cosa significhi volere bene a una persona affetta da una dipendenza: in questo caso l’alcolismo. Il rapporto con la sua famiglia attraversa le varie sezioni del romanzo, ovviamente quella dedicata all’infanzia, dopo la separazione dei suoi genitori, quando Emilie e sua sorella vivevano con la madre, che si occupava di loro, lavorando tutto il giorno. Qualcosa di me è invece il racconto della sua adolescenza dolorosa, o meglio delle conseguenze di essersi sentita una bambina dimenticata e anche in questo capitolo sono importanti le figure della madre e della sorella. A colpire soprattutto è la postura di Pine, il tentativo costante di raccontare la verità, di trovarla insieme alle lettrici e ai lettori proprio attraverso la scrittura, che diventa per lei lo strumento per forzare delle porte serrate, da troppo tempo. Questo riappropriarsi della propria storia rappresenta invece per chi legge il rinnovarsi di un dono, un susseguirsi di tesori.
Giorgio Thoeni Una delle particolarità del Festival Internazionale del Teatro e della scena contemporanea (FIT) è quella di prendere per mano lo spettatore e condurlo lungo un percorso spesso sorprendente e coerente con il tema portante. Emerge anche dalla 30esima edizione in scena a Lugano dedicata all’amore (e ad altre cose). La buona riuscita di uno spettacolo è soprattutto legata a un’immediata captazione da parte del pubblico dell’idea su cui dovrà poggiare la sua architettura. Ne avvertiamo la forza, una base solida da cui partono riflessioni e confronti capaci di spronare un artista a costruire una visione, un racconto teatrale affascinante. Ne abbiamo avuto la riprova seguendo la programmazione del FIT messa in campo da Paola Tripoli con la sua squadra. Già a partire da quell’idea d’amore raccontata da Leonardo Lidi nella sua Fedra da cui si proietta l’immagine di sentimenti declinati su più piani d’ascolto. Un’illusione della ragione, un orizzonte carnale dell’esistenza da cui passano concetti, passioni, fragilità, equilibri e finzione. Dalla poesia e dalla fisicità di Marc Oosterhof con Lab Rats, uno studio delicato per due corpi, entità alla ricerca di una comunicazione subliminale nella prigione di una scatola di vetro. Ai silenzi e le inquietudini di Francesca Sproccati in Out of Me, Inside You in una dimensione contemplativa di abbandono fra video e suoni. Per arrivare agli sviluppi narrativi di Michikazu Matsune, raffinato artista giapponese in scena con Mitsouko & Mitsuko per cui l’amore passa attraverso storie di donne in unione da straordinari intrecci generati da un profumo. Cerchi concentrici che sembrano perdersi lungo la loro tangente ma che tornano al punto di partenza dopo aver attraversato la Storia e la Società del XX secolo in una trama di rimandi e legami iconici e letterari. Un viaggio appassionante, a tratti destabilizzante, pieno di quella semplicità che rende straordinariamente forte l’idea originaria. Come Double Bill, doppio biglietto, due spettacoliperformance dove l’idea consiste nella scommessa della drammaturga e regista argentina Lola Arias di far confessare la propria passione segreta a Pedro Penim e Felipe Pereira. Prende così forma Doing It, il viaggio di Penim, uno dei direttori artistici del teatro del collettivo Teatro Praga. La sua un’innocente dipendenza, quasi un’ossessione che consiste nella ricerca di isole remote, dimenticate o abbandonate dalla civiltà: una sorta di atlante fra conferenza e oscura voglia di evasione. Il coreografo e danzatore Pereira, con Floral Arrangement conduce in un botanico viaggio autobiografico dall’assordante kitsch del culto di Fatima nel passaggio dalla fede all’ateismo aggiunto al risveglio sessuale. Come se tutto fosse già stato scritto.
Bibliografia
Emilie Pine, Appunti per me stessa, Rizzoli, 2021, pp. 205. Flannery O’ Connor, Nel territorio del diavolo. Sul mestiere di scrivere, Minimum Fax, (1957), pp. 153.
Michikazu Matsune. (elsa okazaki)
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 ottobre 2021 • N. 41
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cultura e Spettacoli
la quarta fase è il «decadimento finale» Incontri Com’è possibile raccontare, oggi, una storia partendo da un fatto di cronaca? Giorgio Falco,
di recente ospite al Festival bellinzonese Sconfinare, ci parla di Flashover. Incendio a Venezia
Manuela Mazzi Non è romanzo verità, non inchiesta giornalistica, e men che meno reportage narrativo, bensì è un «iconotesto». Parliamo di Flashover (Einaudi), libro di Giorgio Falco basato sull’incendio doloso del 1996 che vide andare in fiamme il Teatro La Fenice di Venezia. Lo scrittore lombardo è stato ospite della seconda edizione del Festival «Sconfinare» a Bellinzona. Iconotesto, si diceva, perché, così come in Condominio Oltremare (L’Orma editore), Falco ha adottato una forma ibrida che fa dialogare le sue parole con le fotografie di Sabrina Ragucci. E proprio sul rapporto tra diverse espressioni artistiche lo scrittore ha raccontato la sua visione durante l’incontro di sabato scorso. Giorgio Falco, nel libro è citato alberto Burri che utilizzava il fuoco per trasformare altro in opere d’arte. In che modo ha «bruciato» la materia della cronaca in Flashover?
L’ho fatto seguendo l’andamento di un incendio. Ogni incendio si divide in quattro fasi: ignizione, propagazione, flashover, decadimento finale. La terza fase dell’incendio è diventata anche il titolo dell’opera. Il flashover, nel gergo tecnico dei pompieri di tutto il mondo, indica lo sviluppo completo dell’incendio, quando la temperatura è altissima, uniforme, e non si verifica più il rapido aumento della fase di propagazione dell’incendio: durante il flashover tutti i singoli elementi bruciano all’unisono, il fuoco è ovunque, e quindi ogni cosa non si rivela più come appariva pochi minuti prima, non è più, per esempio, un tendone in fiamme: si rivela in quanto fuoco. Il flashover è «la distruzione portata da sé stesso, la distruzione di sé stesso». Il flashover è un momento labile di stabilità nel picco massimo di distruzione. Quindi, ho bruciato la materia della cronaca rispettandola. Ha immaginato una forma antiromanzesca «iconica» e fortemente letteraria. le forme esistenti non bastavano a dire quel che aveva da dire?
È così: non ho voluto usare niente di romanzesco. L’incipit – e la fine – hanno un andamento che potrebbe muoversi nella
direzione del romanzo basato su fatti reali: definisco quelle parti «sconfinamento romanzesco», per dimostrare ciò che il libro avrebbe potuto essere, e invece, non è. Volevo scrivere questo libro da molti anni e non potevo accontentarmi di un romanzo verità che giocasse con la finzione, o peggio, con l’autofinzione. Ho scritto un altro tipo di libro, che ponesse anche a me questioni più grandi: come è possibile raccontare, oggi, in modo nuovo, una storia partendo da un fatto di cronaca? Che cos’è un personaggio? Nel libro esistono due personaggi principali: Enrico Carella, l’incendiario; e poi il personaggio senza nome, mascherato, il personaggio che attraversa il libro nella serie visiva di Sabrina Ragucci. Ma Enrico Carella, nel libro diventa fin dall’inizio il cugino padrone, mentre suo cugino, Massimiliano Marchetti, diventa il cugino dipendente. È una scelta fondamentale, perché così li sottraggo alla catena della cronaca. Il cugino padrone, in minuscolo, non in maiuscolo. Quasi stessi narrando l’aquila reale, il falco pellegrino. Flashover non è il caso Carella o il caso Fenice. Flashover è una riflessione narrativa, saggistica e visiva sul passaggio dal Novecento al nostro contemporaneo, su tutto ciò che viviamo. ma quel che viviamo è l’era della «tv del dolore» dove la drammatizzazione sembra inevitabile: la scelta di eludere la retorica sentimentalista è un ribellarsi alla falsa profondità, oppure la vuole sottolineare togliendo «emozioni» alla narrazione?
Sì, da molti anni siamo immersi in una specie di melassa che attecchisce ovunque, non soltanto in televisione. Questa melassa è pervasiva, riguarda tutto. A un certo punto, scrivo nel libro che alcune locuzioni sono ormai logore e inadatte a descriverci. «Sono profondamente commosso» non ha più senso. «Sono profondamente commosso in superficie» descrive meglio ciò che siamo diventati. Forse è un meccanismo di difesa, più che di menzogna o indifferenza. Comunque, preferisco usare uno stile in apparenza freddo, a maggior ragione perché il tema è il fuoco. È un calore che fa sentire le ossa, il tempo. che relazione rincorrono parole e foto? In che modo si contaminano?
la maschera indossata nelle 74 fotografie di ragucci è un’icona stereotipata del teatro, ma qui si ha quasi l’impressione che sia il «negativo vuoto» della maschera di anonymous, cioè che rappresenti il «nemico capitalista» combattuto dagli anarchici di oggi. È una lettura plausibile?
Lo scrittore lombardo Giorgio Falco, autore di Flashover. (sabrina ragucci) Quali sono i reciproci punti di forza espressivi?
Flashover è un fototesto. Secondo me e Sabrina Ragucci un fototesto è un fototesto se conserva: il ritmo delle parole, il ritmo delle immagini, il ritmo del rapporto tra questi due linguaggi, il montaggio. Altrimenti diventa un libro con all’interno alcune fotografie. A noi questo non interessa. O c’è un rapporto paritario, un’autonomia reciproca, una frizione da cui nasce qualcosa, oppure non credo che sia nemmeno necessario inserire immagini in un libro di narrativa. Flashover diventa esso stesso un flashover, la materia di cui tratta. E questo anche grazie al lavoro visivo. La presenza della serie in maschera, della parrucca, del mio corpo, aggiunge una nuova questione: infatti, dal punto di vista dell’incendio, la maschera funge da raffreddamento, è la quarta fase, quella del «decadimento finale»; ma dal punto di vista del libro, la maschera diventa il flashover del libro, distrugge la narrazione precedente.
risalta la ricerca di linguaggi diversi: espressioni dialettali (che sono un «movimento intimo»), molte domande retoriche, parentesi con divagazioni del narratore che si rivolge a sé stesso, l’alfabeto della distruzione, la
lingua delle grida che «lega il denaro ai gesti e alle parole assenti»…: sono questi i pezzi di verità bruciati? Qual è il loro ruolo? Sono funzionali, o rappresentativi di una poetica?
Ho usato linguaggi diversi. Quelli da lei citati, e poi dialoghi, monologhi saggistici sulla maschera, o le parti in cui parla una voce simile alla voce fuori campo di alcuni film, voce che interagisce con il lavoro visivo. Lo faccio sempre. Uso tutto. Ma quello che più conta, in un’opera come Flashover, è il lavoro di montaggio. Alfabeto della distruzione è il titolo del lavoro visivo di Sabrina Ragucci. Le sequenze sulla lingua delle grida si riallacciano, appunto, a ciò che dicevo all’inizio di questa intervista: Flashover è una riflessione, un’investigazione sul passaggio dal Novecento al nostro contemporaneo. Non a caso, la lingua delle grida era il linguaggio utilizzato dagli agenti della Borsa di Milano durante le contrattazioni di compravendita, nel Novecento. La finanza aveva assorbito un linguaggio che aveva una base popolare, teatrale. C’era ancora bisogno dei corpi, del loro agitarsi al centro della sala. Poi, a metà degli anni Novanta, nello stesso periodo dell’incendio alla Fenice, siamo passati alle contrattazioni telematiche.
Non direi un’icona stereotipata del teatro. È la maschera dei commerci globali, la maschera della finanza, dei flussi di denaro che impoveriscono il mondo. È la maschera che non ha una sua specificità. Non ha la caratterizzazione che ha la maschera di Anonymous. E poi, ecco, non riuscirei a indossare una maschera con il pizzetto. La maschera di Flashover è personalizzabile, ma l’abbiamo lasciata così com’era. È la maschera del «mezzo sorriso». In una delle prime immagini, il personaggio è sdraiato su un copriletto su cui sono impressi i volti di alcune star hollywoodiane: James Dean, Robert Redford, Nathalie Wood. Quell’immagine è una sorta di deposizione di Cristo, una deposizione laica, tanto più plausibile perché la maschera contiene «l’invincibile teschio». Proprio per questo motivo è, a maggior ragione, la maschera di Hollywood per tutti. Uno stile di vita da raggiungere indebitandosi. Come il cugino padrone, l’incendiario. Flashover («otto ore di fiamme, la stessa durata di una normale giornata di lavoro») è un ammonimento per dire che siamo giunti al massimo sviluppo sopportabile, e che da ora in poi sarà solo decadimento ed estinzione?
Non posso prevedere il futuro, posso solo guardare con attenzione ciò che è qui, adesso, nell’epoca in cui vivo. Anni fa ho visto una grande moria di pesci lungo dieci chilometri di costa, nel mar Adriatico. Pesci asfissiati dall’acqua troppo calda. Le persone reagivano con opportunismo, catturando i pesci agonizzanti, o rammarico per l’impossibilità di tuffarsi in acqua. Ruspe e camion hanno ripulito la spiaggia. Bibliografia:
Flashover. Incendio a Venezia, testo di Giorgio Falco, fotografie di Sabrina Ragucci, Einaudi, Torino, 2020, pp. 200
Segnali dal deserto rosso
poesia Una breve ma illuminante raccolta di versi della giovane Maria Borio Guido Monti Per i quaderni curati da Maurizio Cucchi è uscita tra le altre, quest’anno, una significativa plaquette della poetessa Maria Borio dal titolo pregno di rimandi cinematografici e soprattutto simbolici: Dal deserto rosso; sì perché quel
deserto pensato da uno dei più visionari registi del secolo passato, Michelangelo Antonioni, in qualche modo torna a visitarci con la sua carica straniante, nei versi allungati, quasi in forma di prosa della poetessa umbra, che appunto ci restituisce, attraverso queste dense pagine, frame visivi, carrellate lunghe, dell’inizio di un altro tempo del disagio, quello pandemico, che ha cambiato la storia delle nostre relazioni, così come sempre le si sono intese. E quella disintegrazione identitaria, che già soffiava negli anni della crescita esponenziale della macchina-fabbrica e che andava mangiando irreversibilmente le linee delle antiche geografie urbane, ora appunto la ritroviamo nel buco interiore provocato dal virus: «…/Ti scrivo da una zona rossa, ed è questa la verità:/i confini sono tracciati, il rosso ha riempito lo spazio,/ vuoto, neutro, senza uscita, e tutti sono come me,/punti soli, senza illusione, nella prima primavera/del millennio che al tempo sta cambiando la faccia./...». E il deserto di allora, reimmaginato nella plaquette, bene si distende nella scrittura di Borio, la quale da attenta an-
tropologa dei segni stabilisce nessi con le zone rosse del 2020, che come cerchi sempre più ampi invasero letteralmente tutti i nostri spazi. Ed ecco che in questa nuova èra, quei grandi spazi aggregativi pensati dalle comunità per promuovere anche socialità divengono d’un colpo dismisura di incomunicabilità e lontananza. Certo il virus in queste pagine è portatore di tragedia, ma per la poetessa si fa strumento anche di riflessione indispensabile per l’effetto «sindemico», di sistema, che provoca; e riemergono così le nostre fragilità sepolte e occultate da decenni di magnifica evoluzione tecnologica, oggi più che mai effimera e fragile come i suoi creatori. E la piaga odierna, opera per la poetessa una crasi dai caratteri non ancora ben definiti, tra il vecchio individuo del profitto, dell’utile, e il nuovo che verrà, costretto forse per salvare sé e la comunità a divenire altro e forse migliore: «…/…Ho sognato tanti corpi,/i codici, i caratteri, la logica del profitto ancora impressi/nelle rughe. Poi c’era una cosa più lontana, una scintilla,/un volto, un sogno lucido: il cambiamento?.../…».
Il virus quindi, come momento lungo di chiusura, restringimento, isolamento, a tutela anzitutto di sé stessi e della comunità e certo mi vien da pensare, come i protagonisti del Decameron trovarono rifugio dalla peste nelle campagne circostanti Firenze, anche la poetessa perugina sembra scrivere una riflessione a tutto campo su malattia e uomo, da una campagna però quasi intatta, non toccata dalla morte, anch’essa piena di rimandi simbolici, di vita stavolta. Luoghi custodi di memoria, che sanno parlarci attraverso la ricostituzione di figure, che come numi aleggiano nel sottobosco, tra i rami, negli assi della casa: «A guardia della porta chiusa l’ulivo secolare./I frutti duri cadevano, il geco faceva una corsa/ ad ostacoli. Ricordi? Immaginavamo che la chiave/ potesse trasformarsi nella sua coda fluida: aprire/senza forzare? Una voce d’uomo gridava: “Gira,/girate”, ma era già muta- …/…». Il quieto esistere di generazioni di animali, non toccate assolutamente dalla nuova peste, così come lo spazio della flora alberata con i suoi uccelli, lampi
colorati, quasi metafisici, a squarciare gli spazi del cielo e quei suoni prodotti che riportano agli evi antichi, più antichi dell’uomo stesso: «…/Allora il pavone dei due vecchi nella casa grigia/ vola sul tetto, allunga la testa verso l’antenna,/apre e chiude la coda e grida per un mondo esistito/molto prima del nostro…/…». Il ritmo della ruralità quindi, come spazio di ripensamento, torna a dare nuovo equilibrio ai suoi abitanti e suggerirlo anche ai lettori di queste pagine. Si affaccia la speranza di un vivere altro, mutato sì per sempre rispetto al precedente ma avente però un baricentro forte e inscalfibile, nell’antica ciclicità delle stagioni, nel loro codice remoto, che sembra rilanciare per paradosso l’individuo, sulla base di questa consapevolezza, in una nuova antropologia dell’esistere, come ha saputo bene immaginare Maria Borio in questa breve ma illuminante raccolta. Bibliografia
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 ottobre 2021 • N. 41
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cultura e Spettacoli
cuore profondo
Di una forza inaudita
musica Nel profondo della provincia: come in un romanzo
di Steinbeck, i Killers s’immergono nell’intimismo americano per esplorare i rimpianti dell’età adulta
concerti Il 21 ottobre l’OSI proporrà
Stravinskij e Ravel – «Azione» mette in palio alcuni biglietti
Benedicta Froelich Forse non accade spesso quanto si potrebbe sperare, ma talvolta può succedere che anche una band ormai celebre e affermata come quella degli statunitensi The Killers possa decidere di sorprendere i fan con un album stilisticamente molto diverso da quanto ci si aspetterebbe da loro – e può anche capitare che tale esperimento riesca oltre ogni più rosea aspettativa. Come avvenuto con questo nuovo Pressure Machine, che vede i Killers, da sempre distintisi per la natura «epic rock» della loro musica, cimentarsi con la creazione di un vero e proprio concept album di matrice cantautorale, dalla forte base autobiografica (l’esperienza del frontman Brandon Flowers, cresciuto in una piccola cittadina dello Utah, tra mormoni e zone desertiche). L’album diventa così un patchwork di storie a cavallo tra la commozione inevitabilmente suscitata dal ricordo di tempi più innocenti, e il dolore scatenato dall’ineluttabile, tragica disillusione dell’età adulta: come in un’opera letteraria a cavallo tra le malinconie di William Faulkner e la coscienza working class di Woody Guthrie, la band dà voce alla gente comune che vive immersa nelle atmosfere rarefatte e vagamente surreali della provincia americana, facendo introdurre ogni brano da un estratto parlato, tratto da interviste a giovani (e meno giovani) uomini e donne – i quali, di volta in volta, esprimono affetto e senso d’appartenenza, oppure rassegnazione e disgusto, nei confronti del microcosmo nel quale sono nati e cresciuti. Su tutto, evidente nell’ambivalenza verso quei luoghi privi di vera storia, aleggia una sorta di sotterranea, strisciante disperazione, che a tratti si traduce nella dolente consapevolezza di non riuscire a sfuggire al destino dettato dalla small town culture, rimanendo così costantemente in bilico tra l’ingenuità giovanile e le brucianti delusioni date dal mondo esterno. A unire tra loro queste vicende, come un filo rosso al quale è impossibile sfuggire, vi è la presenza costante della religione istituzionalizzata, cruciale nella mentalità di luoghi in cui si nasce e si muore sotto lo sguardo sempre vigile di quel Dio il cui unico figlio si è immolato per la salvezza dell’umanità – la quale, nonostante tale sacrificio, ancora non riesce a risollevarsi da un’eterna e insensata disperazione. Le storie che Flowers racconta hanno infatti come protagonisti personaggi costretti a confrontarsi con la propria, innata condizione d’impotenza: quasi
Enrico Parola
Pressure Machine, uno scavo in profondità.
tutti loro desidererebbero soltanto sfuggire alla gabbia rappresentata dalla loro limitata realtà quotidiana (si veda Cody, l’adolescente dalle tendenze piromani dell’omonima canzone, costretto dalla noia ad atti dimostrativi senza arte né parte) – eppure, nessuno riuscirà mai a spiccare davvero il volo, come dimostrato dal destino preordinato della troppo innocente ragazza di Runaway Horses, sposatasi appena adolescente con l’amico del liceo. Sullo sfondo, il paesaggio magnetico e spietato tutt’intorno alla cittadina che fa da fulcro al CD è elemento cruciale nella lotta impari in cui i suoi figli annaspano; dall’assurda morte di una coppia di fidanzatini travolti da un treno di passaggio (Quiet Town) al dramma che, nella magistrale traccia d’apertura, si svolge sullo sfondo delle West Hills, le colline a ovest, dove un uomo inconsapevole si ritrova condannato a 15 anni di prigione per semplice possesso di droga – solo per poi arrendersi all’unica possibilità rimastagli, ovvero il suicidio. In fondo, è spesso il lato più prevedibile e meschino della vita a spazzare via in un attimo ogni antica ambizione – come quando ci si trova confrontati con la surreale illogicità della violenza domestica (Desperate Things), o con l’alienante routine di vite smozzicate e insoddisfat-
te, spesso trascorse alla catena di montaggio di una fabbrica, mentre l’amore lentamente sbiadisce (in The Getting By e la toccante title track Pressure Machine). Il tutto mirabilmente illustrato da arrangiamenti attenti e delicati, in cui le sonorità folk a base di archi, armoniche a bocca e mandolini vincono sull’epicità rock di sempre, facendo sì che la cornice perlopiù acustica e minimalista porti l’intensità della narrazione ad altissimi livelli; il che nulla toglie, naturalmente, a quei brani invece più legati al puro stile rock tipico dei Killers (In The Car Outside e In Another Life). In tutto ciò, l’inevitabile perdita dell’innocenza – la presa di coscienza della propria mortalità – lascia a tratti il posto a una certa, insopprimibile meraviglia e gratitudine nei confronti della vita, come nella struggente ballata Sleepwalker: perché se è vero che occorre rassegnarsi ai gravi limiti che l’esistenza comporta, è comunque possibile riuscire ad afferrare il grande significato e dono che ogni umana esperienza comunque comporta. Proprio questo, in fondo, è l’insegnamento principale di questo splendido, commovente album – apparentemente atipico per una rock band come i Killers, eppure così ben riuscito da potersi considerare un capolavoro.
Forse nessuna musica composta per il balletto è stata eseguita come puro brano da concerto, senza coreografie e danzatori, quanto il dittico che giovedì Markus Poschner accosta sui leggii dell’OSI. La Valse di Ravel e Le sacre du printemps di Stravinskij sono pagine celebri e celebrate, soprattutto la seconda cimento ambito e temuto dai direttori per le enormi difficoltà di concertazione e dagli strumentisti per l’intensissimo impegno tecnico richiesto. Al pubblico rimane solo il piacere di ascoltare questi due capolavori, facendosi trasportare idealmente in un passato triplo e mitico: la Russia ancestrale e pagana immaginata da Stravinskij, la Vienna degli Strauss che godeva e consumava i suoi fasti a ritmo di valzer, la Parigi di inizio Novecento brulicante di straordinarie personalità artistiche. Tra di esse spiccava Sergej Djagilev con i suoi Ballets Russes, cui Stravinskij e Ravel destinarono i loro lavori. È lo stesso musicista russo a raccontare l’idea primigenia della Sagra, compostasi nella sua mente nella primavera del 1910, mentre a Pietroburgo stava terminando l’Uccello di fuoco: «Un giorno – in modo assolutamente inatteso, perché il mio spirito era occupato allora in cose del tutto differenti – intravidi nella mia immaginazione lo spettacolo di un grande rito sacro pagano: i vecchi saggi, seduti in cerchio, che osservano la danza fino alla morte di una giovinetta che essi sacrificano per rendersi propizio il dio della primavera. Fu il tema del Sacre du printemps. Confesso che questa visione m’impressionò fortemente; tanto che ne parlai subito all’amico pittore Nikolaj Roerich, specialista nell’evocazione del paganesimo. Egli accolse l’idea con entusiasmo e divenne mio collaboratore in quest’opera. A Parigi ne parlai pure a Djagilev, che si entusiasmò subito di tale progetto». Fu lo stesso Roerich, redattore assieme a Stravinskij del libretto, a dettagliare in una lettera a Djagilev l’azione evocata dalle note; un racconto che può guidare l’ascolto anche dell’ascoltare d’oggi: «Il mio scopo è presentare un certo numero di scene che manifestano la gioia terrena e il trionfo celestiale secondo la sensibilità degli slavi. La prima scena deve trasportarci ai piedi
di una collina sacra, in una pianura rigogliosa, dove le tribù slave sono riunite per celebrare i riti della primavera. (...) c’è una vecchia strega che predice il futuro, un matrimonio dopo un rapimento, danze in tondo. Poi viene il momento più solenne. Il vecchio saggio è condotto dal villaggio per imprimere il suo sacro bacio sulla terra che ricomincia a fiorire. Durante questo rito la folla è in preda a un terrore mistico. Dopo questo sfogo di gioia terrestre la seconda scena suscita intorno a noi un mistero celestiale. Giovani vergini danzano in circolo sulla collina sacra, (...): poi scelgono la vittima che vogliono onorare. (...) ella danzerà davanti ai vecchi vestiti di pelli d’orso per mostrare che l’orso era l’antenato dell’uomo. Poi i vecchioni dedicano la vittima al dio Jarilo». La prima rappresentazione, tenutasi al parigino Théâtre des Champs-Elysées il 29 maggio 1913, destò reazioni opposte, idolatranti e scandalizzate. Ancor oggi la Sagra è considerata il simbolo rivoluzionario della musica moderna nel suo sconvolgere tutti i canoni della bellezza classica, nel suo sprigionare forze di una violenza inaudita. Curioso ricordare come La Valse, assai meno scandalosa, venne inizialmente rifiutata da Djagilev perché a suo dire «paralizzava ogni varietà coreografica»: per veder danzato questo «poema coreografico» si dovette attendere il 1928, otto anni dopo l’esecuzione solo musicale al Théâtre du Châtelet il 21 dicembre 1920. I temi dei valzer straussiani rintoccano evidenti, ma dopo la tragedia della Prima Guerra Mondiale (cui Ravel aveva inizialmente guardato con entusiasmo) la Vienna di cui erano simbolo non poteva essere più così beatamente luminosa.
Biglietti in palio «Azione» offre ai suoi lettori alcuni biglietti per il concerto del 21 ottobre 2021 con l’OSI e l’Orchestra del Conservatorio (LAC, ore 20.30). Per partecipare all’estrazione inviare una email con oggetto «OSI» all’indirizzo giochi@azione.ch, indicando nome, cognome, indirizzo, domicilio, numero di telefono entro le 24.00 di giovedì 14 ottobre. annuncio pubblicitario
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comodamente nel box per cani
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grazie al piano di carico basso.
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un’altra passeggiata con Sam».
«Suppongo che il giardinaggio
grazie al Caddy con le moderne
Karin conosce da tempo le abitudini
slitterà a domani», dice Karin,
lampade a LED e il comfort
del marito; di solito dopo mangiano
guardando un po’ delusa l’orologio.
completo a bordo, l’amante dei
qualcosa di sfizioso sulla terrazza
Ma suo marito ha in serbo un’altra
piaceri della vita avrà di nuovo
del Seehotel Hallwil. Prima però si
sorpresa. Infila la mano nella tasca
molte idee su cosa fare invece di
godono un po’ di tempo insieme
della giacca e tira fuori due biglietti:
visitare il garden center. Non vuole
nella natura pittoresca.
«Volevo invitarti al cinema per concludere in bellezza il viaggio
fare altro che guidare il Caddy. Dopo cena, Christoph incontra un
avventura di 24 ore e come
Tuttavia, Karin oggi ha un piano per
collega e gli mostra spontaneamente
consolazione per il ritardo nel
accontentare entrambi. Dopo la
il Caddy. «Il cockpit completamente
giardinaggio...» Karin è raggiante,
colazione, è il momento di andare
digitale, disponibile su richiesta, è
bacia suo marito e aggiunge:
fare un giretto con il loro cane Sam.
fantastico! Era del tutto entusiasta
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Una breve deviazione al castello di
un’occhiata all’orologio: «Ci rimane
Hallwyl non lascia adito a dubbi. «I
ancora del tempo per l’acquisto di
sedili più alti regalano un’ottima
piante?» Karin sorride: «Sì, perché
visibilità dal Caddy e l’agilità della
non ci tocca fare due giri come
guida rasenta quella di una vettura
d’abitudine. Il Caddy ha così tanto
compatta», afferma soddisfatto
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 ottobre 2021 • N. 41
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cultura e Spettacoli
Dalle memorie di un genio della danza pubblicazioni Le straordinarie visioni del ballerino, coreografo e docente russo Michel Fokine
in un libro autobiografico Giovanni Gavazzeni «Non voglio che il mio Mimotchka diventi un pliasoon». Mimotchka era il vezzeggiativo di Mikhail Mikhajlovic Fokin, divenuto mondialmente celebre con il nome francesizzato di Michel Fokine. I ricordi del celebre ballerino, docente e coreografo russo, disponibili in traduzione italiana (Memorie di un coreografo), raccontano come Mimotchka non finì a ballare danze folcloristiche o a fare il guitto in spettacoli di varietà (pliasoon). Mikhail assorbì la passione per la danza dai fratelli ballettomani, Sonia e Kolia – quest’ultimo gli racconta i romanzi di Jules Verne e Guerra e Pace, stimolandolo a interpretare tutti i personaggi. Il maggiore Vladimir, attore di commedie, farse e operette, trasformista talmente abile da rendersi irriconoscibile in camerino anche al fratello, gli impartisce una lezione fondamentale: «anche il teatro leggero comporta duro lavoro ed esige la capacità di trasformarsi». Un altro fratello Sasha, ciclista provetto e rematore, gli instilla il culto per l’esercizio fisico e la competizione. Tutte queste influenze sono all’origine del clamoroso rifiuto di Fokine di «un teatro in generale stereotipato, in cui ogni cosa è stabilita una volta per tutte». Prima di criticare le Regole, studia profondamente il balletto classico come allievo, ballerino e docente del Balletto Imperiale di San Pietroburgo, convincendosi che «mantenere la grazia e la bellezza contenute nelle braccia
arrotondate, nelle dita vicine e nel sorriso affettato costituisca una distorsione estetica». La sua partner dell’epoca, la divina Anna Pavlova per la quale scriverà l’assolo forse più celebre della storia della danza (La Morte del cigno), gli risponde: «così si fa», perché «piace al pubblico». Fokine sente che chi balla rivolgendo lo «sguardo supplichevole alla balconata per aspettare consensi da questa fonte», non è credibile. Anche un ballerino deve ampliare la sua cultura. Appena racimola un po’ di rubli, viaggia. Si spinge nel Caucaso per ammirare le danze locali; scende nel museo-Italia per vedere templi, quadri, bassorilievi («leggere nei bassorilievi aiuta a risalire al movimento che è sfociato in una determinata posa»), pitture vascolari, affreschi; a Parigi fra i clienti della sua pensione, russi emigrati con propensioni rivoluzionarie (Bakunin & Co.), sente che la riforma della danza è qualcosa che va verso il popolo. Entra in un gruppo di suonatori dello strumento nazional-popolare russo per antonomasia, la balalaika: sono così bravi che il celebre direttore tedesco Arthur Nikisch li dirige nello Scherzo pizzicato della Quarta sinfonia di Čajkovskij. L’allargamento degli orizzonti culturali e la passione per la pittura esercitata in prima persona, portano Fokine a proclamare principi diventati caposaldi della danza moderna: la conformità della coreografia con l’epoca rappresentata e quella della danza pantomimica con lo stile rappresentato; l’abbandono
Fokine è Arlecchino, 1914. (Wikipedia)
delle punte per sandali o piedi nudi; l’attenzione alla congruenza del costume alla trama. Basta applausi e ringraziamenti durante l’esecuzione. Creazione decisiva fu il «primo balletto astratto» (senza trama): Les
Sylphides da Chopin, dove il non ancora divo Vaslav Nijinskij «emergeva come personificazione di una visione poetica»: si attendeva il ballerino non per fare «doubles tours en l’air, préparation e pirouette», ma per la sua espressione. «Non danzare per te, metti in evidenza chi ti sta attorno, le eteree silfidi», raccomanda Fokine. «Guardale mentre danzi, ammirale, cerca di arrivare a loro! I momenti di desiderio e la volontà di raggiungere un mondo irreale sono alla base dei movimenti e delle espressioni di questo balletto». Il coreografo Fokine unisce danzatore classico e di carattere in uno spettacolo dove tutte le arti convergono. Naturale che si interessi e accenda l’entusiasmo dei pittori del gruppo «Mir isskustva», soprattutto Alexandr Benois e Léon Bakst, raccolti intorno all’editore e futuro impresario Sergej Djagilev, «uomo di energia fenomenale e straordinarie capacità organizzative». La storia ha dimenticato il ruolo determinante di Fokine nel creare il repertorio che fece esplodere i Ballets Russes come il fenomeno artistico di punta del primo Novecento. Traduce la potenza espressiva del corpo di ballo per le Danze polovesiane dal Principe Igor: il pubblico entusiasta scardina la ringhiera dell’orchestra del Théatre du Châtelet. Utilizza con genialità una storia diversa da quella pensata dal compositore in Shéhérazade di Rimskij-Korsakov codificando una danza di gesti sintetici e chiari che esprimono l’azione senza equivoci (dut-
tili strumenti interpreti leggendari: Ida Rubinstein e Nijinskij, Enrico Cecchetti, Vera Fokina e Bronislava Nijinska). Trasforma il duttile Nijinskij nell’ambigua marionetta umanizzata Petruška, ricevendo i dettagli della trama poco prima dell’andata in scena. Inventa ex novo il libretto per quello che diventerà un capolavoro della musica di Maurice Ravel, Daphnis et Chloé, purtroppo sabotato da Djagilev che ha deciso di trasformare il suo favorito Nijinskij nel nuovo coreografo dei Ballets Russes attraverso lo scandalo del Fauno erotico da Debussy. Nell’opera Il Gallo d’oro di Rimskij prima mette i cantanti in buca, poi li sostituisce con strumenti: sul palcoscenico i ballerini danzano un gioiello coreografico ispirato alle tavolette contadine russe (lubok), ai giocattoli di legno, alle posizioni di vecchie icone, a pitture di frammenti murari e ricami artigianali. Quando torna a vedere da spettatore il suo balletto forse più famoso, L’uccello di fuoco, osserva i cambiamenti fatti da Djagilev: i suoi passi sono diventati «automatismi». È l’amaro destino dell’Arte coreografica: «quanto più un balletto gira nel mondo, tanto più si deteriora; quanto più rimane in repertorio, tanto più si allontana dalla sua versione originale». Bibliografia
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 ottobre 2021 • N. 41
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 ottobre 2021 • N. 41
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cultura e Spettacoli
a caccia della bellezza
musei A Los Angeles si è (finalmente) inaugurato l’Academy Museum of Motion Pictures, un «vascello
sperimentale» progettato da Renzo Piano
storia. L’Academy Museum nasce in parte da un edificio «storico», del 1939, i grandi magazzini della May Company che erano un po’ La Rinascente dei californiani, un’icona all’inizio del cosiddetto Miracle Mile. Los Angeles senz’anima? Non può esserlo una città che il cinema ha immortalato in molteplici capolavori da Sunset Boulevard a Chinatown, da The Long Goodbye al Big Lebowski. E poi Los Angeles cambia, sta perfino diventando una città ospitale per i pedoni, vicino all’Academy Museum apre una stazione del metrò. L’area compresa tra il museo del cinema e quello di arte contemporanea ha la vocazione di essere una piazza all’italiana, ricca di occasioni di vita comunitaria, di socialità».
Federico Rampini Il giorno fatidico, Inauguration Day, è finalmente arrivato il 28 settembre. La luce del tramonto illuminava, a distanza, la collina di Hollywood visibile dalla terrazza nella «bolla di sapone», tingendola dello stesso color rosa usato per accendere la sfera di cristallo. Il Gotha del cinema di Hollywood era presente alla grande cerimonia, e per forza. Era da cent’anni che Los Angeles tentava, invano, di darsi un museo del cinema. Faide e scontri di potere tra i magnati egomaniaci delle majors di Hollywood, e perfino il 1929 e la Grande Depressione, fecero deragliare tanti di quei progetti. Alla fine, per realizzarlo la mecca del cinema mondiale ha dovuto rivolgersi a Renzo Piano. La storia d’amore tra Piano e l’America si arricchisce così di un altro gioiello e di un capitolo nuovo, forse il più sorprendente. Questo è in assoluto il paese al mondo più attratto verso il grande architetto italiano: negli Stati Uniti portano la sua firma ben 25 opere importanti, dal Whitney Museum di Chelsea al nuovo campus della Columbia University a Manhattanville (West Harlem) alla sede del «New York Times», dal museo di scienze naturali di San Francisco a varie pinacoteche nel Massachusetts e in Texas. L’Academy Museum of Motion Pictures è la prima grande opera dalla visibilità globale che s’inaugura mentre la pandemia non è ancora finita. È una scommessa del cinema sulla propria sopravvivenza dopo l’assalto feroce dello streaming. Infine l’apertura a Los Angeles avviene in pieno revival di antiamericanismo in quel mondo della cultura europea di cui Piano è un esponente autorevole. Qui in America le sale cinematografiche hanno riaperto da mesi, eppure sono semivuote. Si teme che il periodo dei lockdown abbia segnato il trionfo definitivo dello streaming e quindi della fruizione casalinga, solitaria. Invece il suo museo esibisce grandi sale di proiezione. Un atto di fede? «Il cinema a casa – mi dice Piano che incontro a Los Angeles per la cerimonia di apertura – non darà mai la
Renzo Piano ha sempre coltivato un intenso dialogo con i rappresentanti del mondo del cinema
L’edificio che ospita l’Academy Museum of Motion Pictures di Los Angeles, progettata dall’italiano Renzo Piano. (shutterstock)
stessa condivisione del piacere. Anche un concerto puoi ascoltarlo in cuffia, ma è un’altra cosa immergersi nella musica in mezzo a duemila persone. Il cinema è rito collettivo, cerimoniale, celebrazione comunitaria di una bellezza». Un’arte giovane come il cinema, che continua a cambiare sotto i nostri occhi, non può essere «fissata» in un museo. E infatti secondo Piano «questo non è un museo nel senso tradizionale. Non pretende di cristallizzare la storia del cinema, bensì di accoglierne il futuro. Già sono programmate qui centinaia di anteprime. Sarà il luogo dove tanti potranno sentirsi parte di una comunità di appassionati, dove i cineasti si spiegheranno, faranno scuola, sperimenteranno. È più una
fabbrica che un museo. La velocità del cambiamento che è tipica del cinema, qui viene assecondata. Il Museum ha 16 proiettori per seguire tutte le metamorfosi tecnologiche già note, dal cinema muto al tridimensionale: altre ne verranno, e questo edificio ha la flessibilità per accoglierle. L’ambizione di farne un vascello sperimentale è cresciuta strada facendo, con amici e compagni di strada come Steven Spielberg e Joel Coen abbiamo voluto introdurre qui la dimensione della ricerca tecnologica». Los Angeles attira come una calamita pregiudizi e stereotipi. In un’epoca in cui l’Europa torna a gonfiarsi di risentimento verso gli Stati Uniti, questa megalopoli condensa
tutto il male che gli intellettuali del Vecchio continente hanno sempre pensato dell’America: finta città, ameba urbana, mostro di celluloide e di silicone, è lungo l’elenco di maldicenze. Piano, che spesso s’ispira al Rinascimento italiano, ha già affrontato in passato questa «strana città». Ha lavorato al museo di arte contemporanea Lacma, vicinissimo. «Ho combattuto – mi dice – contro quei pregiudizi europei, contro l’idea che Los Angeles è una schifezza, una megalopoli senza storia e senz’anima. Invece possiede una magia vera, un genius loci nascosto. Anche a prescindere dalle civiltà precolombiane che ora vengono riscoperte con attenzione, nella modernità Los Angeles ha già stratificato una sua
la vita che scorre inesorabile
Per lui è l’occasione di continuare un dialogo con il cinema, iniziato molti anni fa. Piano ha sempre avuto amici in questo mondo, da Michelangelo Antonioni a Roberto Rossellini, il cui ultimo film fu un documentario sul Beaubourg-Centre Pompidou. A Parigi ha disegnato la Fondazione Pathé, a Lione sta progettando la sede del museo dei Fratelli Lumière. «Cimentarsi con un ritratto del cinema è affascinante – dice – , perché il suo dialogo con l’architettura è costante: registi, maestri della fotografia, architetti, siamo tutti impegnati a giocare con il rapporto tra luci e ombre. In questo museo di Los Angeles ci deve essere qualcosa per cui la gente ci sta bene: la luce. Disegnandolo ho ripensato a un passaggio di Jorge Luis Borges, in cui scrive che qualsiasi attività creativa è sospesa fra la memoria e l’oblio: l’arte di evocare, risvegliare dal profondo della tua memoria delle emozioni, questo è andare a caccia della bellezza. E questo è il grande cinema».
poesia Proponiamo una nuova poesia del ticinese Valerio Abbondio, tradotta in inglese e illustrata
dal discendente Marco Abbondio
Continua anche questa settimana il viaggio di «Azione» alla scoperta di alcuni dei versi più suggestivi di Valerio Abbondio (la prima puntata è apparsa sul numero 40, pagina 42). Valerio Abbondio nasce ad Ascona il 26 febbraio 1891. Dopo gli studi al Papio e la scelta di imboccare la via del seminario, ritorna sui suoi passi, decidendo di studiare letteratura e lingua francesi, dapprima a Friborgo e poi a Milano. Abbondio è attivo per molti anni come insegnante di francese al Liceo di Lugano, mentre in parallelo porta avanti la propria produzione poetica. Muore nel 1958 a Mendrisio, dopo essere stato assistito a lungo dal fratello Fiorenzo, anch’egli attivo artisticamente come scultore (ricordiamo la «sua» Helvetia del Touring di Chiasso, oggi Mövenpick). Per molti anni Valerio Abbondio ha fatto parte degli autori ticinesi che venivano letti e studiati nelle scuole del Cantone. Da qualche tempo egli è però inesorabilmente scivolato nel dimenticatoio, motivo per cui Marco
Abbondio ha deciso di dargli nuova linfa grazie alla traduzione di alcune poesie in inglese (coadiuvato in questo da un ex professore di inglese dell’Università di Zurigo) e alla realizzazione di una serie di disegni che cercano di ricreare lo spirito dei versi di Abbondio. LUCE CRUDA Rimestando il caffé, guardo la mano Mai non m’apparve così frusta: gonfie le vene pallide, entro una minuta rete di rughe. Invecchi, amico mio. E non ti giova, scrutando la palma, cercar la linea della lunga vita RAW LIGHT Stirring the coffee, I look at my hand. Never have I seen it so battered, bulging veins and pale, within a tiny web of wrinkles. You are getting old, my friend. And it doesn’t help, gazing at the palm, to seek the line of long life. (da Il mio sentiero, 1936)
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