Azione 43 del 25 ottobre 2021

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Anno LXXXIV 25 ottobre 2021

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A.  Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

43

MONDO MIGROS

Pagine 4 – 5 ●

SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Ambiente, gli apicoltori temono le conseguenze delle intossicazioni sub-letali da pesticidi nelle api

Tra realtà e virtuale, abbiamo creato uno spazio per proporre riflessioni sul tema dello svago

Cosa c’è dietro Squid game, la cruenta serie tv sudcoreana che fa furore su Netflix

Al Museo Tinguely di Basilea un omaggio al pittore, scultore e regista statunitense Bruce Conner

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Enrico Martino

Quell’Argentina dimenticata

di Enrico Martino

Lo spettro di un black out elettrico Peter Schiesser

Un black out elettrico in Svizzera, con tutta l’energia idrica e nucleare di cui disponiamo? Forse non si arriverà a tanto, ma la crisi energetica globale che colpisce in particolare, ma non solo, l’Europa, la Cina, l’India è una realtà che non risparmia neppure il nostro paese. Il Consiglio federale ne è consapevole e sta correndo ai ripari: il Dipartimento dell’economia e l’Associazione delle aziende elettriche svizzere si stanno preparando, l’Organizzazione per l’approvvigionamento di corrente elettrica in situazioni straordinarie (OSTRAL) è incaricata di monitorare e gestire una crisi energetica che, secondo il consigliere federale Guy Parmelin, diventa sempre più probabile nei prossimi anni. Per evitare black out, che creerebbero seri danni all’economia, si preparano piani per ridurre il consumo di energia in situazioni di emergenza. Come si è arrivati a questa crisi energetica globale? Da una parte, dopo la prima fase della pandemia con i suoi lockdown il consumo di energia è cresciuto fortemente, dall’altra i mutamenti climatici creano forti fluttuazioni nel-

la produzione e nel consumo di elettricità. La scarsità di piogge riduce la produzione di energia idrica, come pure fanno eventi eccezionali come l’assenza di venti in regioni in cui si produce energia eolica, le ondate di caldo aumentano il consumo di energia (per i condizionatori d’aria), le alluvioni possono provocare come è stato il caso in Cina una riduzione della produzione di carbone. La concomitanza di eventi come quelli sopra descritti avvenuti nell’ultimo anno, sommati ad un lungo inverno freddo nel nord ovest dell’Europa, nel nord-est dell’Asia, nel Nordamerica, hanno fatto sì che i depositi di stoccaggio di gas naturale fossero insufficienti a coprire il fabbisogno energetico. I prezzi del gas sono più che triplicati in un anno, e se la Cina e altri paesi asiatici si sono accaparrati una larga quantità di gas liquido grazie a contratti a lungo termine, l’Europa è rimasta più a secco, anche in conseguenza della liberalizzazione del mercato che impone contratti a breve. Per la Svizzera si aggiunge un’altra difficoltà: avendo deciso di rinunciare ad un accordo

quadro sugli accordi bilaterali con l’Unione europea, Bruxelles rifiuta di portare a termine il negoziato su un accordo sull’energia elettrica. Anzi: ha persino espulso gli osservatori svizzeri dalla Acer, l’Agenzia che raggruppa le autorità che regolamentano e coordinano i flussi di elettricità attraverso il continente. La Svizzera, pur al centro dell’Europa, si trova ora sola in un mercato che per sua natura è fortemente interconnesso. La rete elettrica, infatti, per funzionare deve mantenere sempre una sua stabilità, per evitare collassi e quindi black out. Ma l’Europa e la Svizzera pagano anche il prezzo della conversione da una produzione di energia fossile (petrolio, carbone, nucleare) a una produzione da fonti rinnovabili (eolico, solare, idrico) voluta per tentare di contrastare i mutamenti climatici. Ma, appunto, per loro natura vento, sole, piogge sono fenomeni naturali non controllabili, che proprio i mutamenti climatici rendono ancora meno prevedibili. Per contro, la rete di approvvigionamento elettrico può funzionare solo se la tensione resta stabile.

Si constata dunque in condizioni come quelle attuali che il gap energetico che subentra con l’abbandono del nucleare (repentino, in Germania, a tappe altrove, come in Svizzera) non può essere coperto a sufficienza dalle energie rinnovabili. Per questo motivo in Svizzera si levano voci che chiedono di allungare da  a  anni la vita delle ancora esistenti centrali nucleari (finora è stata spenta solo Mühleberg), come anche di creare delle centrali a gas. Oppure, come ha fatto recentemente Axpo, il più grande produttore di energia svizzero (energie rinnovabili; in mano pubblica), si chiede di accelerare fortemente la costruzione di impianti eolici e solari e di semplificare le autorizzazioni, spesso bloccate da ricorsi. Per Axpo le centrali a gas serviranno solo dal , quando le centrali nucleari saranno tutte spente. Insomma, anche se irreversibile la transizione a una produzione energetica verde ha un suo prezzo e deve superare imprevisti ostacoli e rischi importanti, provocati anche dagli stessi mutamenti climatici.


2 Settimanale di informazione e cultura

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SOCIETÀ

azione – Cooperativa Migros Ticino

Dare tempo all’amicizia Coltivare relazioni intime è molto importante per il nostro benessere emotivo ma anche per quello fisico

Novità per la Honda HR-V È in arrivo la terza generazione per la Honda HR-V, ora anche Full Hybrid

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Visita a Nottwil Il Centro svizzero per paraplegici assiste i pazienti nella fase acuta e riabilitativa dopo una lesione del midollo spinale

Casa VitaCore La nuova struttura a Sant’Antonino accoglie persone colpite da demenza che vivono ancora a casa propria

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Pixabay.com

La fragile vita dell’ape Ambiente

Un dubbio strisciante tra gli apicoltori fa temere intossicazioni sub-letali da pesticidi

Loris Fedele

Apiservice ha reso noto con un comunicato stampa che nel  ci sono state in Svizzera  intossicazioni delle api: cinque dovute agli insetticidi e dodici per altre cause non accertate. Sono tante? Sono poche? Chi non è specialista non sa valutarlo e vedendo un comunicato federale che segnala la cosa potrebbe allarmarsi. Tanto più che il recente comunicato stampa portava il titolo perentorio «L’intossicazione delle api può essere evitata». Per maggiori informazioni si invitava a contattare Davide Conconi, presidente della Federazione Ticinese Apicoltori, e a lui ci siamo rivolti. Apiservice, ci è stato detto, è il braccio operativo di Apisuisse che è l’organizzazione mantello delle società di apicoltura svizzere: sostiene gli apicoltori, dà consigli per promuovere le buone pratiche apistiche e contrastare i problemi di salute delle api. Apiservice funge da antenna per tutti gli apicoltori che segnalano un’intossicazione. Ogni anno redige un rapporto. Negli ultimi anni si sono verificate più o meno sempre queste cifre di contagio. A una prima lettura sembrano piccoli numeri, tanto più che in Svizzera si contano mila apicoltori. Un profano quindi può considerarle buone. Però, avverte Conconi, bisogna fare

attenzione. Questi dati possono voler dire che in tutto il Paese l’applicazione dei pesticidi, e soprattutto degli insetticidi, si fa correttamente e quindi che grazie alle sostanze omologate i rischi di intossicazione acuta siano ridotti al minimo, però gli specialisti pensano che queste poche intossicazioni acute – che sono drammatiche perché la colonia muore o viene indebolita in maniera molto drastica – in realtà nascondano un problema più strisciante, che è quello delle intossicazioni sub-letali. A questo proposito parliamo soprattutto di insetticidi, che spesso appartengono alla classe dei neonicotinoidi. In Svizzera non si possono più utilizzare in pieno campo su culture che potenzialmente possono attirare le api. La Confederazione e l’Unione europea hanno già fatto un passo importante togliendo dal mercato alcuni prodotti che erano particolarmente pericolosi per le api. I neonicotinoidi sono degli agenti che intervengono a livello del sistema nervoso dell’ape mellifera. In pratica provocano una paralisi dell’insetto, che può morire. Però se l’ape viene a contatto con delle concentrazioni di questi prodotti che non sono sufficienti per ucciderla, subisce ugualmente conseguenze negative sull’orientamento e sulla capacità di volo. Per esempio riuscirà

difficilmente a tornare nella propria famiglia, eseguirà con meno efficacia i lavori che deve fare per assicurare il benessere della colonia e questa diminuita capacità operativa dell’intera colonia a lungo andare potrebbe portarla all’estinzione. I neonicotinoidi possono anche agire sul sistema immunitario dell’ape indebolendolo, e favorendo così lo sviluppo di altre malattie. In questo caso la colonia non muore per il pesticida ma per un altro parassita che è stato favorito dalla presenza del pesticida. Alcune ricerche scientifiche hanno anche trovato che questi pesticidi provocano una riduzione di fertilità nella regina. Una regina normalmente può vivere fino a cinque anni. Per due o tre anni produce molte uova, mantenendo la colonia vigorosa e produttiva. Questo tempo viene ridotto dai pesticidi, ragion per cui gli apicoltori si troveranno costretti a cambiare più spesso la regina quando vedono che la colonia diminuisce perché la regina depone troppo poco. È però difficilissimo individuare questo avvelenamento da dosi sub-letali. Soprattutto perché l’apicoltore nota la diminuzione della popolazione, e il deperimento della colonia, quando alza i telaini e vede che la covata è rarefatta e si presenta con

dei vuoti, un po’ a mosaico, ma tutto questo può essere dato da mille fattori. Non è detto che si tratti di un problema legato ai pesticidi. Non c’è una prova chiara sul terreno che li veda come i responsabili colti sul fatto. Parliamo, annota Conconi, della nostra realtà ticinese, dove c’è un collage di aree urbane, di coltivazioni, di piccole parcelle, il tutto in un territorio ristretto. Nel nord Italia, nella pianura padana, oppure in Francia, dove ci sono grandi superfici di campicoltura, si è fatto in fretta a correlare lo spargimento di alcuni prodotti insetticidi con la morìa delle api. La realtà ci dice che l’impatto sub-letale dei neonicotinoidi va ad aggiungersi agli altri fattori negativi che sono presenti sul territorio: i cambiamenti climatici, i drastici mutamenti che sta subendo il nostro habitat, l’acaro parassita Varroa, che dal  in Svizzera condiziona tutta la pratica apistica. Poi c’entra anche la bravura o meno dell’apicoltore, che può avere un impatto sulla sopravvivenza delle api. È vero che il pesticida lo adopera l’agricoltore, ma anche il privato cittadino nel suo orto, e i Comuni nella gestione del verde pubblico e pure gli stessi apicoltori usano delle sostanze chimiche. Nel trattamento della varroa, gli apicoltori oggi tendono a usa-

re tecniche di impiego di prodotti piuttosto naturali, che hanno un impatto più moderato sulle api, tuttavia il rischio di indebolire la colonia permane. Un ulteriore problema riscontrato è la lotta alle formiche. Volendo combatterle, si sono sparse sostanze insetticide che hanno in alcuni casi danneggiato le api. I membri della Federazione presieduta da Davide Conconi sono . Una stima attendibile fa pensare che operino in Ticino circa  apicoltori. Di questi solo  o  possono essere considerati professionisti o semi-professionisti. In larga maggioranza l’apicoltura da noi è praticata da hobbisti, anche di ottimo livello, perché con le api non ci si arricchisce finanziariamente. Conconi però nota con piacere che sempre più giovani si stanno avvicinando all’apicoltura. Per il miele nostrano la produzione maggiore è legata all’acacia, al castagno, al tiglio. Poi ci sono i fiori vari e il miele di montagna, con il rododendro, pregiato anche perché molto influenzato dalle condizioni atmosferiche. La stagione non finisce mai perché, con l’addolcimento del clima invernale, le api tendono a rimanere in attività: con temperature sopra i  gradi le api cominciano a volare. Più tempo di volo e più rischi da correre all’esterno dell’alveare.


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Il tempo dell’amicizia

Relazioni ◆ L’amicizia vera si nutre di intimità e condivisione, per coltivarla bisogna dedicarle tempo di qualità, attenzioni e comprensione, non bastano i social

Alessandra Ostini Sutto

«Trova il tempo di essere amico, è la strada della felicità», scriveva Madre Teresa di Calcutta; e che la felicità possa risiedere in atti semplici, come l’incontro con un amico, lo pensa anche Mathias Binswanger (professore di economia alla Scuola universitaria professionale della Svizzera nordoccidentale a Olten e docente privato all'Università di San Gallo), il quale conduce delle ricerche proprio sul tema della felicità. In una di queste ricerche, Binswanger divide la felicità in due ambiti: soddisfazione generale nei confronti della vita e benessere emotivo. Il secondo riguarda i piccoli momenti di felicità, senza i quali, a lungo termine, non saremmo soddisfatti delle nostre vite. Brevi attimi di felicità – come incontrare un amico per un caffè – che andrebbero quindi ricercati, da un lato, e dei quali bisognerebbe saper gioire, dall’altro, per evitare di vivere in attesa di quelli «grandi», che capitano poche volte nella vita, come quando ci si innamora, ci si sposa o si ha un figlio. Bisognerebbe saperne gioire anche perché la felicità si ripercuote sul nostro essere, rafforzando le difese dell’organismo e favorendo la resilienza. Chi è appagato dalla vita in genere percepisce, per esempio, la malattia e il dolore in modo meno intenso. Nello specifico, anche il fatto di avere degli amici è importante per il nostro benessere psicologico e fisico. Un’intuizione avallata da diverse ricerche scientifiche, le quali dimostrano alcune importanti proprietà dell’amicizia: riduce lo stress e l’ansia, favorisce l’elasticità mentale, protegge a livello cellulare contro le malattie, rafforza il cuore, previene l’obesità. Al contrario, la mancanza di connessioni sociali può far male alla stregua del fumo e dell’obesità.

Avere degli amici è molto importante per il benessere psicologico e fisico: riduce lo stress, favorisce l’elasticità mentale e rafforza il cuore Coltivare un’amicizia, dedicandole il tempo necessario senza stare con lo sguardo fisso sull’orologio, è quindi un buon modo per migliorare la propria salute, in generale. Già, il tempo. Il problema di oggi è infatti proprio quello che non sono poche le persone che ritengono di non avere tempo da investire nelle proprie amicizie, si stima una su tre nelle società occidentali. Presi dalle proprie vite che viaggiano veloci, sotto pressione per l’idea di dover essere sempre e ovunque presenti, affaccendati da cose a volte inutili, sottovalutiamo il nobile sentimento dell’amicizia, che alcuni vedono come un impiccio per il raggiungimento dei propri obiettivi. Non stiamo però parlando – va detto – di un gran numero di rapporti da coltivare. Secondo vari esperti una persona intrattiene mediamente cinque amicizie di quelle «vere». Tra questi, l’antropologo Robin Dunbar sostiene, oltre all’esistenza di diversi livelli di relazione (dal conoscen-

Bere un caffè con le migliori amiche fa parte di quegli attimi di felicità che ci permettono di mantenere un benessere emotivo. (Shutterstock)

te all’amico intimo), che riflettono il grado di intimità e la frequenza dei contatti, quella di un limite cognitivo che determina il numero di persone che possiamo ospitare in ciascun livello. Se, come detto, gli amici intimi sono mediamente , quelli «buoni» sono  e circa  i «generici» amici. Secondo Dunbar,  è il numero totale di relazioni che i nostri cervelli sono in grado di gestire. Nel suo studio condotto presso l’Università del Kansas e pubblicato sulla rivista «Journal of Social and Personal Relationships», il professor Jeffrey Hall è partito dal lavoro di Dunbar per quantificare il tempo trascorso insieme che occorre per passare da un livello all’altro. Il risultato, in sintesi? per arrivare a considerare qualcuno un amico servono almeno  ore di condivisione,  per passare al livello dell’amico intimo. Il tempo trascorso insieme però non è garanzia di amicizia. Di fatto, Hall riporta che alcuni soggetti partecipanti al suo studio hanno riferito di avere trascorso centinaia di ore con determinate persone, senza che queste diventassero più che conoscenti. Ciò dimostra che il modo in cui si sta assieme è pure decisivo per influenzare il grado di vicinanza. In particolare, sono le conversazioni personali significative e i momenti di divertimento ad essere risultati determinanti nella creazione di un vero legame di amicizia. La conclusione cui giunge lo studioso conferma quindi quanto scritto in precedenza: viviamo in un’epoca in cui abbiamo la percezione di non avere mai tempo, ma le nostre amicizie, se vogliamo che siano tali, necessitano proprio di tempo e di impegno. L’amicizia non è infatti qualcosa che ha a che fare unicamente con la spensieratezza di un aperitivo o di un

giro per i negozi. Come un rapporto d’amore ha bisogno di cura, attenzioni, confronto e comprensione. In poche parole va coltivato. E per farlo bisogna essere disposti a rallentare, per andare oltre a tematiche quali quello che si è fatto o che si deve fare, e palare di sé, del modo in cui si vive ciò che si fa. L’amicizia vera trova infatti il proprio nutrimento nell’intimità e nella condivisione. Nella realtà dei fatti spesso nei rapporti si resta ad un livello superficiale. Vedere un amico coincide con un’occasione per evadere dalla propria routine, rilassarsi, ridere e scherzare; il che va bene, ma se si parla di vera amicizia, questa deve anche essere in grado di raggiungere una certa profondità. Parlando di rapporti che restano superficiali, non si può fare a meno di soffermarsi su quelli che intratteniamo sui social, i quali ci danno la sensazione, illusoria, di essere circondati da amici. Buona parte dei contatti sono però piuttosto conoscenze, che ci intrattengono e consentono di passare dei momenti piacevoli. In questo senso i social vanno sicuramente bene, come pure per mantenere i contatti, ma non devono assolutamente sostituire una telefonata o un’uscita con chi consideriamo amico. Con il passare degli anni, in genere, il numero degli amici diminuisce. Secondo dei ricercatori finlandesi che hanno effettuato uno studio nella sezione Experimental Psychology della Oxford University, il picco delle amicizie si raggiunge a  anni. Dopo questa età, i rapporti sociali diminuiscono, gradualmente. Uno dei motivi può essere individuato nel lavoro; è infatti attorno a questa età che, sovente, si comincia a lavorare e si investono quindi molte energie in questo ambito. Secondo motivo la famiglia, che mediamente si

inizia a creare attorno alla trentina e che riduce il tempo da dedicare alle amicizie, oltre a comportare un cambiamento a livello di priorità. Parallelamente allo spostamento del focus sull’asse lavoro-casa-famiglia, si modifica pure la concezione che si ha dell’amicizia. Da giovani l'amicizia è tutto, è anche più importante dell’amore. Soprattutto per le ragazze, che con le amiche condividono tutto e vivono una grande empatia. Superati i  anni invece diventa difficile trovare tempo per sé stessi e tempo da condividere con gli altri, oltre al fatto che, complici le esperienze vissute, si diventa più diffidenti. Per questi motivi in età adulta in tema di amicizie la qualità prevale sulla quantità. Anche se non si può generalizzare, nel senso che con il passare del tempo taluni rapporti si possono intensificare, è pur vero che molti sono quelli che si interrompono. Spesso le persone non evolvono allo stesso modo oppure cambiano quando affrontano esperienze di vita importanti e capita quindi che ci si stacchi dalle amicizie storiche per avvicinarsi e creare dei legami con persone con le quali in quel dato momento c’è una condivisione di esperienze. L’amicizia quindi si modifica lungo le fasi che attraversiamo nella vita, parallelamente ai cambiamenti delle nostre priorità, del nostro modo di pensare e di interagire. Capita così che, verso i  o i  anni, quando il lavoro si è «stabilizzato» e i figli sono cresciuti, l’importanza che si dà all’amicizia riprenda vigore ed emerga la voglia di rimettersi in gioco, abbassando il livello di diffidenza ed aumentando quello della fiducia. Consci forse del fatto che gli amici sono, in fondo, la «famiglia» che si sceglie di avere, la quale arricchisce alla nostra vita.

Nuova grafica, nuovi settori Azione ◆ L’edizione cartacea riprende la linea e le suddivisioni del sito web Dopo  anni, «Azione» si fa un lifting. Mantiene le sue caratteristiche di giornale con una lunga tradizione (ha superato gli  anni), ma si presenta in una veste più moderna. In prima pagina, la testata diventa meno austera. Per facilitare l’orientamento nel giornale abbiamo introdotto dei colori che distinguono i diversi settori. Per rendere ancora più piacevole all’occhio la lettura abbiamo adottato un nuovo carattere, l’Adobe Caslon, e aumentato leggermente la spaziatura e l’interlinea. L’edizione cartacea assomiglia da oggi alla versione sul web (www. azione.ch), anche nella suddivisione dei settori e della loro denominazione: Società e Territorio si trasforma in Società; gli articoli fino a ieri in Ambiente e Benessere si ritrovano in parte in Società (gli argomenti legati all’ambiente, alla tecnologia, alla salute appartengono per logica ai temi di Società) e in parte in Tempo Libero; Politica e Economia diventa Attualità; Cultura e Spettacoli più semplicemente Cultura. In Tempo Libero introduciamo una quindicinale pagina di rubriche. Anche per questo restyling grafico, come a suo tempo per il sito web, ci siamo avvalsi del grafico Thomas Capponi. Buona lettura!

Avvenuta l’elezione suppletiva Migros Ticino ◆ Nominato il nuovo membro alla FCM Care cooperatrici e cari cooperatori, ci riferiamo all’appello apparso sul numero  di «Azione» del  luglio  concernente l’elezione suppletiva del rappresentante della Cooperativa Migros Ticino in seno al Consiglio di amministrazione della Federazione delle cooperative Migros per il restante periodo legislativo (dal ° dicembre  al  giugno ), e alla successiva pubblicazione sul numero  di «Azione» del  agosto  della revoca dello scrutinio. Conformemente all’articolo  dello Statuto l’elezione è avvenuta tacitamente. Rinunciando a presentare proposte elettorali, i soci hanno lasciato al Consiglio di cooperativa e al Consiglio di amministrazione il compito di scegliere il candidato. Ringraziamo per questa testimonianza di fiducia e informiamo che i due organi hanno congiuntamente eletto il signor Mattia Keller. Ci congratuliamo con il neoeletto al quale auguriamo una proficua attività al servizio della Comunità Migros. Sant’Antonino,  ottobre  Cooperativa Migros Ticino Il Consiglio di amministrazione


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MONDO MIGROS

Che cavolo vuoi?

Attualità ◆ Ortaggi invernali per eccellenza, i cavoli sono versatili e ricchi di sostanze benefiche per il nostro organismo. Migros ne offre un’ampia scelta, tra cui un tris di cavoletti misti composto da cavolfiore, broccoli e romanesco per piatti veloci e variegati

Una grande famiglia

La famiglia dei cavoli (brassicacee) annovera moltissime varietà, di forme, dimensioni e colori assai diverse tra di loro. Tra i più diffusi possiamo citare il cavolfiore, il broccolo, il romanesco, il cavolo cinese, i cavolini di Bruxelles, il cavolo rosso, la verza, la rapa e il cavolo cappuccio. I cavoli sono una delle verdure coltivate più antiche, già nella preistoria erano molto utilizzati dall’uomo. I romani li apprezzavano in modo particolare, attribuendo loro non solo virtù culinarie, ma anche un effetto aperitivo e stimolante, come pure li consideravano un rimedio per numerosi malesseri. Da un punto di vista nutrizionale, i cavoli sono ricchi di vitamine C, K e B, sali minerali, antiossidanti e sono efficaci nello stimolare la diuresi e l’intestino grazie all’alto contenuto di fibre. Insomma, non c’è niente di meglio per rafforzare il sistema immunitario durante la stagione fredda. 1. Cavolfiore

Il cavolfiore si consuma cotto o, se crudo, generalmente sott’aceto. Si lessa una quindicina di minuti cercando di non immergere completamente la testa nell’acqua in modo che cuocia praticamente al vapore. L’aggiunta di

qualche goccia di limone, aceto o latte all’acqua di cottura permette di mantenere il colore bianco. Una volta cotto, può essere consumato fritto, impanato, saltato in padella, in insalata o gratinato.

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2. Broccolo

Il broccolo è molto apprezzato per la sua delicatezza e il suo invitante e vivace colore verde. Ha un sapore di cavolo poco pronunciato che ricorda quello degli asparagi verdi. Il suo valore nutritivo è superiore a quello del cavolfiore. Si presta bene per la surgelazione (fino a  mesi). Si cuoce porzionato in acqua salata o al vapore per ca. - minuti. Evitare la pentola a pressione per non sfaldarlo.

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3. Romanesco

Tipico ortaggio italiano, il romanesco o broccolo romanesco è particolarmente diffuso nella regione Lazio. Le sue eleganti infiorescenze di colore verde tenue presentano una caratteristica forma piramidale con rosette a spirale. La sua cottura dovrebbe essere rapida, massimo  minuti, di preferenza al vapore per preservarne le proprietà nutrizionali. Si abbina bene al pesce e, come tutti i cavoli, alla carne di maiale.

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Il tris di cavoletti è disponibile nella confezione da 400 grammi.

Un grande classico

Attualità Gli ossibuchi di vitello sono una vera delizia, perfetta in questa stagione. Questa settimana li trovate in offerta alla vostra Migros

La ricetta Ossibuchi

Azione 20% Ossibuchi di vitello IP-SUISSE, per 100 g, in self service 3.25 invece di 4.10 dal 26.10 al 01.11.2021

Secondo piatto ricco di sapori e aromi, gli ossibuchi di vitello in umido sono molto diffusi anche nella nostra regione, dove vengono spesso serviti con i tipici contorni quali risotto allo zafferano o polenta. Quella del vitello è una carne particolarmente apprezzata dai buongustai per la sua delicatezza. Si contraddistingue per la sua struttura a fibre fini, il colore dal rosa al rossiccio e i pochi grassi che contiene. Facile da digerire, tenera e succosa, permette di dar vita a molte appetitose ricette. Carne IP-SUISSE

La carne di vitello svizzera disponibile alla Migros è contrassegnata con il marchio di qualità IP-SUISSE e proviene da animali di - mesi. I vitelli sono allevati in piccoli gruppi nel rispetto della specie e della natura in fattorie di piccole-medie dimensioni, perlopiù a conduzione familiare, dove vengono foraggiati con latte vaccino e fieno, possono uscire regolarmente all’aperto e dispongono di giacigli ricoperti di paglia. Il ricorso ad antibiotici è strettamente limitato, e avviene solo in caso di malattia sotto la supervisione di un veterinario.

Ingredienti per 4 persone

Preparazione

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Infarinate gli ossobuchi e dorateli nel burro fino a quando saranno ben coloriti. Salate e pepate, unite la cipolla, la carota e il sedano tritati. Bagnate con il vino bianco e fate cuocere per ca. due ore a fuoco medio. Aggiungete del brodo se asciugano troppo. Verso fine cottura, aggiungete qualche cucchiaio di salsa di pomodoro e, alcuni minuti prima di servire, un cucchiaino di prezzemolo tritato e un po’ di scorza di limone grattugiata. Servite con un risotto o della polenta.

5-6 ossibuchi di vitello 40 g di burro 1 bicchiere di vino bianco secco 1 cipolla 1 carota 1 pezzo di sedano farina bianca brodo scorza di limone sale, pepe salsa di pomodoro prezzemolo tritato


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MONDO MIGROS

Una francese della regione Novità

Il pane Lingua Francese viene ora prodotto con cereali al 100% ticinesi

Nei reparti panetteria dei supermercati Migros da qualche giorno è disponibile una nuova bontà tutta nostrana, ma dal carattere decisamente transalpino: la Lingua Francese. Questa croccante specialità – finora prodotta a partire da farine svizzere – è ora panificata esclusivamente con l’impiego di farina ticinese IP-SUISSE, estratta da frumento tenero coltivato sul Piano di Magadino e nel Mendrisiotto e trasformato dal Mulino di Maroggia. La Lingua Francese è un pane bianco che ricorda appunto la famosa baguette, con una tipica forma allungata simile ad una «lingua». L’utilizzo di una biga (preimpasto) a lunga fermentazione conferisce al prodotto una caratteristica e irresistibile nota tostata, con gli aromi di malto e lievito discretamente in evidenza. La crosta è croccante e fragrante, di colore dorato, con un taglio longitudinale in superficie. La mollica è morbida e presenta un’alveolatura ben sviluppata. La lavorazione dell’impasto richiede una certa manualità da parte degli esperti panettieri della Jowa di S. Antonino: le porzioni di pasta vengono infatti appositamente tirate a mano, così facendo si valorizzano al meglio le qualità del prodotto, conferendogli la classica forma allungata. La Lingua Francese si gusta in qualsiasi momento della giornata: è una golosità a colazione spalmata con burro, confettura o

miele; accompagna bene le pietanze del pranzo e la cena; si sposa a meraviglia con il formaggio sia fresco che stagionato; è immancabile all’aperitivo tagliata a fettine sottili tostate come base per sfiziose bruschette; oppure è ideale per preparare ottimi panini imbottiti.

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azione – Cooperativa Migros Ticino

SOCIETÀ

Giovane, polivalente e ora anche Full Hybrid Motori

In arrivo la terza generazione della mitica Honda HR-V

Mario Alberto Cucchi

Tra tante auto, una uguale all’altra, si fece subito notare. Era il , marzo, e al Salone dell’Auto di Ginevra debuttò la Honda HR-V. La chiamarono «Joy machine». Parola usata per identificare un modello giovane e polivalente, il primo crossover del segmento B. Leggermente più alta da terra e caratterizzata dai colori sgargianti fu subito un successo anche se di nicchia. Esisteva solo a tre porte ed era riconoscibile da un alettone posizionato alla fine del tetto. Oggi arriva la terza generazione con un design accattivante anche se non così dirompente. Una linea audace e decisa caratterizza un mezzo che porta in dote per la prima volta la

Gli interni della nuova Honda HR-V e-HEV.

trazione ibrida e maggior spazio per gli occupanti posteriori che hanno  millimetri in più per le gambe. Sembra cresciuta anche nelle dimensioni, ma non è vero, misura sempre quattro metri e  centimetri. E questo è un bene dato che la difficoltà di trovare un posteggio nelle grandi città è sempre più evidente. La nuova HR-V ha una scocca più rigida e beneficia di migliorie alle sospensioni, allo sterzo e al sistema frenante. La potenza della frenata è garantita da un sistema che vanta dischi anteriori forati da  millimetri e dischi posteriori pieni da  millimetri. Inoltre, un servofreno elettrico su misura abbinato al sistema e:HEV (Hybrid Electric Vehicle) controlla e modula i freni rigenerativi e idraulici, per offrire una sensazione di frenata fluida. Tra i dettagli che fanno la differenza, il nuovo posizionamento del pedale del freno che riduce l’affaticamento del guidatore nei viaggi a lunga percorrenza. La propulsione è garantita da un sistema Full Hybrid efficace che permette di arrivare a percorrere sino a venti chilometri con un solo litro di benzina. Si tratta di un motore termico alimentato a benzina che si associa a due propulsori elettrici e:HEV. Ecco allora che HR-V può funzionare esclusivamente con il termico oppure con l’elettrico o in alternativa con entrambi nello stesso momento.

La nuova Honda HR-V e-HEV più che essere una stradista è una compagna di vita quotidiana.

Una scelta che il pilota non può fare autonomamente ma che viene demandata all’elettronica. D’altra parte, anche le batterie si ricaricano autonomamente. Un po’ con la frenata rigenerativa e un po’ attraverso il motore a benzina da , litri. Insomma, bisogna solo pensare a guidare. E le prestazioni? La potenza e la coppia sono state portate rispettivamente a  kW ( CV) e  Nm,

mentre il rapporto finale della trasmissione è stato ridotto per ottenere performance di guida migliori. Il sistema di batterie e:HEV del nuovo HR-V ha una densità di energia superiore che permette al propulsore di generare una maggiore potenza. Il numero di celle della batteria è stato aumentato del  per cento, passando dalle  celle della Jazz e:HEV alle  di HR-V.

Su strada la nuova HR-V risulta piacevole da guidare anche se il motore termico quando in uso a velocità autostradali si fa sempre sentire a livello di sound. D’altra parte, si tratta di una vettura che non è pensata per essere una stradista ma è invece una buona compagna di vita quotidiana. E su questo, la qualità costruttiva Honda ci fa pensare di avere a che fare con un mezzo pensato per durare. Annuncio pubblicitario

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Quando la lesione del midollo cambia la vita Terapia medica ◆ Centro svizzero per paraplegici a Nottwil e ambulatorio per mielolesi a Bellinzona: dalla fase acuta e riabilitativa all’assistenza nella quotidianità Maria Grazia Buletti

Christian è un ingegnere forestale di 36 anni e vive in Ticino insieme alla moglie e ai tre figli. Lo incontriamo al Centro svizzero per paraplegici (CSP) di Nottwil, dove ci siamo dati appuntamento per visitare la clinica nella quale dodici anni or sono ha soggiornato per sei mesi, a causa delle conseguenze di un infortunio che gli ha cambiato la vita: «Ero a un passo dalla laurea in ingegneria forestale e, durante un’uscita scolastica, è ceduta la piattaforma sulla quale ci trovavamo noi allievi. Sono caduto nel vuoto, ho subìto la lesione del midollo spinale a livello della prima vertebra lombare». Christian ha accettato di buon grado il nostro invito ad accompagnarci: «Torno sempre volentieri qui a Nottwil, luogo che reputo un po’ uno spartiacque fra un “prima” e un “dopo” della mia vita».

Secondo l’OMS (2015), ogni anno da 250mila a 500mila persone subiscono una lesione midollare, la maggior parte delle quali è traumatica Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2015), ogni anno da 250mila a 500mila persone subiscono una lesione midollare, la maggior parte delle quali è traumatica anche se i tassi di incidenza variano largamente nel mondo da 13 a 53 casi per milione di abitanti. In Svizzera, ogni anno circa 200 persone restano vittime di una para o tetraplegia in seguito a un infortunio (incidenza di circa 13 unità per milione di abitanti), e il Gruppo Svizzero Paraplegici rileva che un giorno sì e uno no una persona subisce una lesione midol-

lare rimanendo paraplegica, con un rapporto fra uomini e donne di circa 5 a 1, variabile per età. «In genere non si riflette sul fatto che una lesione midollare significa molto più che stare seduti su una carrozzina. Essa comporta infatti importanti limitazioni nella vita di chi ne rimane vittima: la persona non può più camminare e solo il paraplegico può muovere ancora le braccia (mentre il tetraplegico no), ma pure altre funzioni del sistema vegetativo sono interessate da queste lesioni, come vescica, cuore e vasi sanguigni, intestino e apparato riproduttivo ad esempio». A parlare è il dottor Michael Baumberger, specialista in medicina fisica e riabilitativa che dal 2005 è primario di Unità spinale e Medicina riabilitativa nel Centro svizzero per paraplegici a Nottwill. Baumberger sottolinea come un tempo le lesioni midollari erano associate a un alto tasso di mortalità, mentre «oggi, nei Paesi come la Svizzera, una lesione midollare non significa più la fine di una vita felice e degna di essere vissuta, oggigiorno l’aspettativa di vita delle persone mielolese è simile a quella delle persone senza mielolesione. Ciò è dovuto a diversi fattori come una migliore assistenza medica, a cominciare dalla fase d’emergenza (essenziale per un migliore recupero delle funzioni neurologiche), che si estende all’assistenza sanitaria e riabilitativa per le quali interdisciplinarietà, tecnologie, apparecchi di respirazione moderni e sedie a rotelle adattate fanno la differenza, insieme alla reintegrazione sociale nel ritorno a casa dopo la fase riabilitativa (da sei a nove mesi) vissuta qui al CSP». L’OMS definisce questo avvenimento come qualcosa che cambia la L’infermiera specializzata in cure intensive Ilaria Perren (a sinistra), con l’urologo specializzato in neurourologia Julien Renard e una collaboratrice dell’ambulatorio mielolesi ORBV. (Stefano Spinelli)

Christian Broggi e il direttore del Centro di Nottwil Luca Jelmoni. (Stefano Spinelli)

vita, provoca gravi alterazioni sensitive, motorie e altre menomazioni neurologiche, e parla della lesione midollare traumatica come «un passaggio in pochi secondi da una condizione di buona salute a una disabilità permanente». Le conseguenze sono plurime secondo il livello del midollo spinale leso, e le cause non sono riconducibili sempre solo all’origine traumatica, sebbene queste in Svizzera restino le più comuni, spiega Baumberger: «Esistono forme di paraplegia specifiche per gruppi di età, come la spina bifida (congenita) o la stenosi spinale (ndr: restringimento del canale vertebrale) negli anziani. Esistono anche paralisi (mielolesioni) conseguenti a traumi da parto (rarissime in Svizzera ma più comuni altrove) e infine lesioni midollari dovute ad altre patologie». Nel parlare della propria esperienza, Christian ricorda poco dell’incidente e delle sue sensazioni nell’immediato: «Sono stato operato per stabilizzare la colonna, poi sono stato trasferito subito qui a Nottwil». Baumberger ribadisce che la prognosi è strettamente legata a una presa a carico adeguata del paziente già dal momento dell’infortunio. Riferisce pure che il paziente nella fase iniziale subisce «una sorta di black out in cui la funzione cognitiva viene scossa (il cervello percepisce solo la parte sensibile del proprio corpo) e recuperata solo in seguito, quando il paziente dovrà prendere nuovamente coscienza della sua parte paralizzata». Tale complessa e interdisciplinare presa a carico comprende diverse fasi come abbiamo modo di constatare visitando i differenti comparti della struttura (dalle camere delle cure intensive, ai reparti di fisioterapia, pa-

lestra, piscina, ergoterapia e via dicendo) e come il dottore ci illustra, ribadendo che «la riabilitazione inizia sul luogo dell’incidente, durante l’intervento di salvataggio, quando è di estrema importanza non causare ulteriori danni. Nei primi momenti è essenziale, tra l’altro, una buona gestione della pressione arteriosa finalizzata a evitare ulteriori lesioni da inadeguata perfusione sanguigna del midollo, sempre con lo sco-

Prevenzione OMS L’OMS suggerisce le seguenti misure preventive e di accompagnamento: 1. Evitare o eliminare cause di lesioni midollari, prima che il problema si presenti. Per esempio, incentivare i provvedimenti per ridurre il numero di incidenti su strade o lavoro. 2. Rendere possibili diagnosi e cura precoci, e contenere il più possibile la disabilità. In altre parole, al momento dell’infortunio è importante considerare tempestivamente la possibilità di essere confrontati con una lesione midollare. In seguito, organizzare un trasporto adeguato dell’infortunato in una struttura idonea e consentire l’accesso alla prima riabilitazione (cure acute). 3. Dopo la riabilitazione bisogna invece ridurre le complicanze e favorire il reinserimento del paziente in famiglia, nella società e sul posto di lavoro.

po di favorire la migliore prognosi possibile». Poi, pure la scelta del percorso riabilitativo del paziente è individualizzata, passo per passo, secondo il tipo di lesione: «La fase acuta è il periodo di trattamento iniziale dopo la paralisi: è a quel punto che creiamo le basi per le successive fasi riabilitative attraverso una diagnosi corretta, il trattamento delle lesioni, la stabilizzazione delle funzioni vitali, lo svuotamento di vescica e intestino, e l’inizio di un programma riabilitativo speciale». Baumberger elenca così il prosieguo del programma terapeutico: «Nella fase di stabilizzazione clinica il paziente impara la gestione del corpo paralizzato e diventa gradualmente più mobile e indipendente. Iniziano qui i preparativi in vista della dimissione e del reinserimento della persona nel suo ambiente sociale e professionale. Nella fase di consolidamento, il paziente comincia ad assumersi la responsabilità della sua dimissione, sostenuto da un’équipe di specialisti in caso di problemi o complicazioni». A questo punto, ci viene spiegata l’esistenza di una comunità abitativa esterna al CSP nella quale possono andare a vivere i giovani dai 16 ai 25 anni per un periodo variabile fino a un anno: «Una comunità in cui testare la propria indipendenza, migliorare le proprie sicurezze, l’autostima, cominciando ad avere quei contatti graduali con il mondo esterno; questo prima di rientrare definitivamente al proprio domicilio». Un percorso, ribadisce lo specialista, individualizzato e con risultati dipendenti dalla gravità della lesione: «Ogni persona ha un modello di lesione diverso: dobbiamo capire


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SOCIETÀ

Christian Broggi con il dottor Michael Baumberger, primario unità spinale Centro paraplegici Nottwil. (Stefano Spinelli)

quali muscoli e quali funzioni restano ancora intatte, quale sensibilità è alterata e come funzionano i singoli organi, adeguando il progetto riabilitativo all’evoluzione della mielolesione». Ribadisce che l’équipe di cura è composta non solo da medici, ma pure da ergoterapisti, logopedisti, fisioterapisti, infermieri, psicologi e altri specialisti. Il supporto psicologico di pazien-

L’ingresso del Centro svizzero per paraplegici a Nottwil. (Stefano Spinelli)

te e famigliari è fondamentale per affrontare nel modo più consono possibile questo trauma: «Ogni paziente attraversa diversi momenti: incredulità, rabbia, patteggiamento, dolore e convivenza con la nuova condizione. La maggior parte di loro non assume psicofarmaci, ma riceve un adeguato sostegno dagli operatori e dagli psicologi». Le nuove sfide che attendono questi pazienti sono il ri-

entro in società, in famiglia e al lavoro, e poggiano sulla convivenza con la nuova condizione. I pazienti soffrono spesso di dolori neuropatici e, anche in questo caso, la gestione ottimale del sintomo passa per un sostegno psicologico». Infine, arriva il momento della dimissione: «Terminata la prima riabilitazione il paziente ha acquisito le competenze per condurre una vita

Voce al direttore del Centro svizzero per paraplegici (CSP) Il Centro svizzero per paraplegici (CSP) a Nottwil, nel canton Lucerna, è una clinica specialistica privata riconosciuta a livello nazionale e internazionale che si occupa di lesioni midollari, medicina della colonna vertebrale e riabilitazione respiratoria. Questo, dalla fase acuta fino alla riabilitazione e assistenza a vita dei suoi pazienti. Inaugurata nel 1990 dal dottor Guido Alfons Zäch, il CSP dispone oggi di 204 letti e impiega 1367 persone fra medici, sanitari e amministrazione. La clinica è parte del Gruppo Svizzero Paraplegici che comprende a sua volta una rete di prestazioni integrate a favore della riabilitazione globale delle persone mielolese. L’istituzione competente di questa rete di prestazioni è la Fondazione svizzera per paraplegici (FSP). Incontriamo il direttore del CSP Luca Jelmoni, al quale chiediamo di riassumerci visione e missione del Centro di cui ha assunto la conduzione da pochi mesi: «A livello nazionale e internazionale siamo leader

per quanto attiene alla presa a carico delle lesioni midollari, della medicina del rachide e respiratoria. Ogni anno curiamo a livello stazionario circa 1200 pazienti, accompagnandoli dalla fase acuta alla riabilitazione, e assicurando loro l’assistenza a vita». Questo è possibile grazie alla convergenza di diversi fattori, spiega Jelmoni, «a cominciare dalla presa a carico delle persone mielolese da parte di un sistema di interdisciplinarità e di cure erogate da specialisti con grande esperienza terapeutica e altissime competenze acquisite nel campo delle diverse fasi del percorso terapeutico individualizzato per ciascun paziente». Essenziale pure il supporto e la partecipazione di ricerca, management, e dei partner di sostegno: «Per il prosieguo e lo sviluppo delle nostre attività terapeutiche, e per assicurare la presenza dei nostri specialisti e collaboratori a cui vanno riconosciute grandi competenze e massime conoscenze, sono essenziali i contributi dei Cantoni, delle assicurazioni sociali

come ad esempio AI, dei membri della Fondazione svizzera per paraplegici e dei nostri sostenitori privati». Parecchie anche le sfide raccolte da Jelmoni: «Sarà importante rendere operativo il passaggio al sistema di fatturazione a forfait per ciascun caso, che porterà a un’ulteriore personalizzazione e revisione dei processi di cure, sempre con lo scopo di continuare a garantirne e sviluppare la qualità fino a oggi assicurata». L’aumento della speranza di vita è un’altra nuova sfida: «Il numero crescente di mielolesi anziani ha necessità specifiche, alle quali dobbiamo andare incontro». La realtà sanitaria, che vede diminuire la degenza a favore di cure ambulatoriali, conferma la direzione e decreta il successo del nuovo ambulatorio mielolesi di Bellinzona: «Il desiderio di agevolare il paziente al rientro a domicilio è la spinta a incentivare una regionalizzazione di ambulatori che fanno capo al CSP, come ad esempio quello all’ORBV di Bellinzona già attivo da cinque anni». ◆

indipendente». Baumberger ricorda inoltre che il centro offre a suoi pazienti la possibilità di essere seguiti a lungo termine in ambiente ambulatoriale, in collaborazione con i medici di famiglia: «Un programma riabilitativo specifico a lungo termine viene consigliato al fine di mantenere e migliorare lo stato riabilitativo e prevenire complicanze». Al rientro a casa, Christian ha terminato i suoi studi, si è sposato, ha iniziato a lavorare e sono nati tre bambini: «Piano piano ho imparato a conoscermi, a “sentirmi”, ho imparato anche a sopperire al mio bisogno di movimento e oggi vado a sciare (ndr: ci ha spiegato com’è fatto il suo sci, una sorta di capsula con cui dice di sentirsi come tutti gli altri sciatori), e pratico hand-byke con grande soddisfazione!». Anch’egli si sottopone a controlli annuali regolari per i quali può scegliere di recarsi a Nottwil, oppure, da ticinese, a Bellinzona, all’ORBV, dove è attivo l’Ambulatorio Mielolesi: un progetto fortemente voluto dall’infermiera specializzata in medicina intensiva Ilaria Perren, anch’essa mielolesa, che è riuscita a rendererlo operativo cinque anni or sono: «In Ticino ci sono 200-250 persone mielolese a causa di un infortunio, a cui si aggiungono altri pazienti le cui cause del problema risalgono a malattie neurodegenerative o altro. Sono persone che spesso hanno qualche comprensibile difficoltà a recarsi Oltralpe: i mielolesi devono avere riguardo per lo svuotamento vescicale, intestinale, non tutti guidano, spesso necessitano di essere accompagnati e le colonne autostradali, l’intera giornata da mettere a disposizione possono essere pesanti da sostenere».

Al momento, «anche grazie all’aiuto della direzione ORBV che ha creduto nel progetto», l’Ambulatorio di Bellinzona è realtà ed è aperto una volta al mese, in collaborazione con il dottor Michael Baumberger del Centro svizzero per paraplegici e della sua équipe, spiega Ilaria, mentre in sede gode della collaborazione dell’urologo con formazione approfondita in neuro-urologia Julien Renard, viceprimario di Urologia all’ORBV, il quale ribadisce la complessità della presa a carico dei pazienti mielolesi che necessitano di un’estrema personalizzazione delle cure: «L’assenza di sensibilità, e un funzionamento potenzialmente diverso degli organi interni interessati dalla lesione, portano facilmente a complicazioni come infetti urinari o problemi vescicali, rendendo ad esempio indispensabili dei controlli serrati». Accoglienza, competenze e la prossimità dell’Ambulatorio mielolesi sono dunque un grande vantaggio per i pazienti ticinesi: incentivano la regolarità dei controlli e assicurano una prima presa a carico per ogni altra emergenza, che sarà sempre valutata collegialmente con gli specialisti di Nottwil. A conferma di ciò, Renard spiega che «il paziente può beneficiare di una valutazione fisiatrica mirata a prevenire le complicanze tipiche dei mielolesi, ergoterapica, infermieristica, urologica e neurologica; in base all’esito di questi accertamenti sarà discusso insieme il prosieguo del percorso medico e terapeutico».

Nell’ultima fase il paziente comincia ad assumersi la responsabilità della sua dimissione Dal canto suo, Ilaria Perren vede realizzato un progetto che oggi festeggia i cinque anni di attività e ne medita un ampliamento. Un’idea per la quale, dice, è valsa la pena di spendere una buona dose di energie: «Ci rivolgiamo alle persone mielolese a seguito di malattia o infortunio, e a chi è affetto da malattie neuromuscolari congenite o acquisite, offrendo un aiuto rapido e mirato». Parla di una vera missione «per agevolare l’inserimento nella società, aiutando a mantenere e migliorare lo stato di salute come pure le necessità quotidiane». Al Centro paraplegici di Nottwil come all’Ambulatorio Mielolesi dell’Ospedale regionale di Bellinzona abbiamo trovato il concetto di «inclusione e partecipazione»: comun denominatore con l’OMS della presa a carico, della riabilitazione e del reinserimento della persona mielolesa. Il sorriso e la disponibilità di Christian a raccontarsi, l’esperienza del dottor Julien Renard e dell’infermiera Ilaria Perren a Bellinzona e le grandi competenze e umanità del dottor Michael Baumberger sono riassumibili nelle parole di commiato di quest’ultimo: «Un tempo la disabilità era un problema corporeo, oggi non più: la disabilità viene cancellata dal momento in cui la persona può esser partecipe della vita, anche con l’ausilio di mezzi ausiliari. Perché non bisogna guardare la disabilità, ma la persona che abbiamo davanti!».


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Attivarsi, rilassarsi, imparare Scuola in movimento ◆ Il programma di Swiss Olympic concilia didattica, formazione e salute

Guido Grilli

Il signor Furio ospite appassionato musicista di 88 anni insieme alla direttrice Anna Margani e al Consigliere di Stato De Rosa il giorno dell’inaugurazione di Casa VitaCore. (Ti-Press)

Come a casa

Socialità ◆ La Casa VitaCore accoglie le persone colpite da demenza che vivono ancora a casa propria, assicurando un supporto ai familiari 7 giorni su 7

Stefania Hubmann

Sentirsi come a casa grazie a soluzioni mirate nella gestione degli spazi, nella scelta di colori e materiali, nella creazione di percorsi. Quando si è colpiti da un declino cognitivo tutti questi aspetti assumono un ruolo cruciale. La Casa VitaCore, inaugurata lo scorso agosto a San’Antonino, accoglie le persone colpite da demenza che vivono ancora a casa. Possono usufruire del Centro sia durante la giornata, sia nella fascia oraria notturna nel caso sia necessario risolvere disturbi del comportamento che si manifestano di notte. Un ambiente favorevole e un team specializzato, guidato dalla fondatrice e direttrice Anna Margani, assicura per la prima volta in Ticino un supporto alle famiglie  giorni su ,  ore su . Un nuovo edificio residenziale vicino alle scuole ospita al pianterreno il centro diurno e notturno. Attorno, un’area verde (giardino terapeutico) composta da un percorso cromatico, aromatico e sensoriale. La presenza esterna degli allievi crea subito allegria ed è molto gradita da chi frequenta il centro. Nella mattina in cui visitiamo Casa VitaCore le persone arrivano a ritmo lento, in sintonia con il loro risveglio. «Benché venga fissata una fascia oraria d’entrata in accordo con i familiari – chiarisce subito Anna Margani – accordiamo una buona flessibilità, in modo da favorire un risveglio naturale della persona. L’accoglienza è individualizzata con l’obiettivo principale di garantire una giornata serena. Quando la persona torna a casa nel pomeriggio o in serata, deve poter continuare a beneficiare di questo stato d’animo, così che la situazione al domicilio risulti facilitata. A tutto vantaggio della persona stessa, ma anche dei suoi familiari». Sono infatti questi ultimi ad aver manifestato un crescente bisogno di assistenza in particolare con orari più estesi per riuscire a conciliare il ruolo di curanti con gli impegni lavorativi. L’apertura del nuovo centro terapeutico – in posizione strategica a Sant’Antonino, favorevole anche per chi proviene dal Grigioni italiano – completa l’offerta di VitaCore partita cinque anni fa con il servizio a domicilio focalizzato sulle persone affette da demenza. Adattando i nuovi spazi alle proprie necessità, Casa VitaCore propone un ambiente di vita ideale, stimolante quando necessario,

rilassante per il resto della giornata ad un massimo di  persone durante l’apertura diurna. Anna Margani: «Abbiamo ideato e arredato il centro in base ai risultati di studi scientifici sulla demenza, quindi modellandolo il più possibile come una casa e riducendo la percezione di una struttura sanitaria. L’accoglienza e il saluto sono caratterizzati da un massaggio delle mani (handtouch) utilizzando oli essenziali specifici per ogni singola persona». Spazi aperti con porte cammuffate dal colore delle pareti, pavimenti in legno ma di colore diverso, pochi mobili che aiutano a modulare le diverse zone. Quali i significati di queste scelte nella definizione dell’ambiente? Risponde la direttrice: «Con le persone affette da demenza sono da evitare in primo luogo gli spazi morti, poiché suscitano ansia. Queste persone, tendono a camminare guardando verso il basso, per cui un colore del pavimento diverso in ogni spazio facilita il loro orientamento. Per quanto concerne i colori, ci sono quelli che vanno utilizzati con cautela e non su superfici ampie, come il rosso (stimola i disturbi del comportamento) o il nero (peggiora la loro percezione della profondità). Altri invece stimolano altre sensazioni, come il rosa, utilizzato nella sala relax, che induce calma e serenità. Ogni colore è stato usato nelle diverse sale secondo la necessità». Sebbene la giornata sia all’insegna della serenità, le attività non mancano. Si punta in primo luogo a quelle quotidiane alle quali le persone che arrivano a Casa VitaCore già sono abituate. Cucinare, rigovernare, curare il giardino sono esempi concreti ben recepiti. «A poco più di un mese dall’apertura – aggiunge Anna Margani – abbiamo iniziato un progetto di collaborazione esterna con una fattoria situata nelle vicinanze, perché uno dei nostri obiettivi è quello di rafforzare il legame con il territorio. Ogni giorno alcune persone accompagnate da un ergoterapista si recano sul posto per svolgere compiti mirati di loro responsabilità, come foraggiare alcuni animali o spazzolarli o pulire i locali». Casa VitaCore, oltre ad aver ottenuto l’autorizzazione cantonale e il sostegno di Alzheimer Ticino, ha suscitato l’interesse del Convegno europeo per l’Alzheimer, dove si spera di poter

presentare i primi risultati nel  o l’anno seguente. Una sua caratteristica innovativa è la presa a carico notturna in caso di difficile gestione di questa fascia oraria. A disposizione vi sono tre camere in un’apposita ala. In presenza di disturbi del comportamento che impediscono di dormire bene, il team di Casa VitaCore è in grado di monitorare la situazione per poi intervenire con strategie appropriate e personalizzate. Per Anna Margani la demenza è un mondo che ha subito suscitato il suo interesse, «un mondo da scoprire». Prosegue affermando che «queste persone sono capaci di offrire molto dal punto di vista umano. Si traggono così soddisfazioni professionali e personali». Prima di avviare l’attività in proprio, Anna Margani ha arricchito la formazione di base quale infermiera con specializzazioni nell’ambito geriatrico e gerontologico come pure nella gestione sanitaria (Master SUPSI) lavorando presso diverse strutture ticinesi. Il declino cognitivo delle persone accolte a Casa VitaCore è caratterizzato da gradi diversi, compresi quelli più marcati. Altrettanto variata la loro età. Il focus è però sempre mantenuto sulla persona e sulle sue capacità. Attraverso un percorso individualizzato, stabilito in collaborazione con la famiglia, si cerca di mantenere vive le competenze che le permettono di risiedere al domicilio e in alcuni casi persino di migliorarle ritrovando nuovi stimoli. È il caso del signor Furio, appassionato musicista di  anni, che nel caloroso ambiente di Casa VitaCore ha ritrovato la voglia di suonare e di trasmettere alle altre persone il suo amore per la musica. Basandosi sulle esigenze delle famiglie visitate a domicilio, Anna Margani ha puntato ad un’offerta mirata per le persone affette da demenza estendendo in particolare l’orario di accoglienza. In ogni aspetto di Casa VitaCore sono state messe a frutto le esperienze maturate in molti anni di attività professionale, lasciando spazio anche alle proposte legate al contesto, come dimostra il lavoro in fattoria. Informazioni: www.camar.ch info@camar.ch Tel. 091 210 89 56 / 079 138 09 82.

La cosa più semplice – muoversi – rappresenta un toccasana a scuola. Pochi, tuttavia, avrebbero scommesso sul luogo e il contesto: veri e propri esercizi della durata di - minuti… in classe e… in piena lezione. La proposta, già sperimentata con successo nei Cantoni d’oltre Gottardo, si sta facendo timidamente strada anche in Ticino. Si chiama Scuola in movimento. L’idea è condensata in una piattaforma online, gestita da Swiss Olympic, che contempla una miriade di attività fisiche da svolgere. Tre le tipologie, che ne orientano indirettamente le finalità: «Attivante», «Rilassante», «Apprendimento movimentato». Lo scopo è presto detto e riassunto nel seguente motto posto in evidenza nel sito web (www. schulebewegt.ch/it): «Se si aumenta il movimento nella quotidianità scolastica, bambini e ragazzi sono più equilibrati e motivati. Chi partecipa a Scuola in movimento beneficia di questi e di molti altri vantaggi, ma non solo: contribuisce in modo importante alla salute dei nostri giovani».

Scuola in movimento introduce esercizi motori in classe durante le lezioni. Il risultato? Bambini e ragazzi più equilibrati e motivati A livello svizzero il progetto, che concilia didattica, formazione e salute, ha avuto inizio al Centro sportivo nazionale di Macolin per iniziativa dell’Ufficio federale dello sport. Swiss Olympic è responsabile del programma di Scuola in movimento dal . L’iniziativa si rivolge agli allievi delle scuole dell’obbligo, dunque si può introdurre nelle diverse sedi a partire dai bambini della scuola dell’infanzia fino alle scuole medie. La piattaforma è consultabile da chiunque, ma l’accesso al materiale gratuito del programma e degli esercizi è riservato unicamente ai docenti, che dunque, se desiderano mettere in pratica la proposta e aderire al mondo di Scuola in movimento non devono far altro che iscriversi alla piattaforma, così da aver accesso ai set di attività e a tutto l’occorrente per dispensare ai propri allievi pause

di movimento durante le proprie lezioni. Il raggio di attività, come s’intuisce immediatamente accedendo al sito, arricchito di video e immagini, è davvero ampio: da semplici esercizi di ginnastica ad attività più articolate che allenano implicitamente anche la mente o che contemplano il gioco e l’interazione. Rafael Meier, di Swiss Olympic, tra i responsabili di Scuola in movimento, da noi raggiunto telefonicamente a Berna, sottolinea la validità della proposta: «L’anno scorso abbiamo sottoposto il programma a una valutazione fatta da una società esterna, la quale ha sentito il parere dei docenti che hanno sperimentato Scuola in movimento. Ebbene, gli interpellati hanno affermato quanto sia facile integrare alla lezione l’ampio campionario di esercizi. Ad oggi in tutta la Svizzera abbiamo mila docenti iscritti alla piattaforma. La nostra iniziativa è diffusa con successo soprattutto nei Cantoni della Svizzera tedesca e, a seguire, in quelli romandi. In Ticino è invece ancora poco conosciuta. Per contro abbiamo ottenuto l’interesse da docenti in Italia». La durata degli esercizi si attesta da un minimo di cinque a dieci minuti. Non rischia di compromettere l’equilibrio della lezione della materia trattata in quel momento (matematica, storia, lingue, eccetera)? «I docenti, in genere, sostengono di non aver tempo per esercizi di movimento durante le lezioni. Ma affinché funzioni la Scuola in movimento, gli esercizi devono costituire brevi pause e svolgersi nel loro limitato tempo e non certo delle mezzore. Gli esercizi si dimostrano di aiuto perché possono riattivare una lezione. È comunque importante che il campionario di attività si svolga all’interno dell’aula e non nell’atrio o in palestra. Vi sono esercizi mirati per singoli allievi, per piccoli gruppi o per l’intera classe. La nostra piattaforma è ricca, propone circa  esercizi e quattro volte all’anno ne aggiungiamo  nuovi, su diversi temi, denominati ad esempio “Orientati, partenza, via”, “Forti per la vita”, “Yoga”. Gli esercizi si possono svolgere all’inizio, alla fine o in qualsiasi momento della lezione. Questo lo decide liberamente il docente».

Bastano 5-10 minuti minuti dedicati al movimento in aula (www.schulebewegt.ch).


Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXIV 25 ottobre 2021

azione – Cooperativa Migros Ticino

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SOCIETÀ / RUBRICHE ●

Approdi e derive

di Lina Bertola

Gli intrecci del vivere e del morire ◆

Per chi come me ha frequentato per una vita l’ambiente, e per chi ha figli a scuola, questi sono i giorni di una domanda ricorrente: «che cosa farete durante le vacanze dei Morti?». C’è una grande dolcezza in questo interrogativo che riesce ad avvicinare un momento piacevole alla presenza silenziosa dei Morti. Perché sì, quella dei nostri Morti è un’assenza che sa essere intensa presenza, e non solo in questi giorni. La dolcezza che attraversa queste nostre allegre aperture sul domani, mantenendoci in contatto con la presenza degli assenti, mi ricorda la voce del sacro che sa tenere assieme ciò che la ragione invece separa e misura; mi ricorda il luogo magico che abita la poesia e, in lei, l’intrecciarsi sempre possibile del vivere e del morire. Eppure lo scorrere del tempo scandisce un prima e un dopo e ci costringe, in un certo senso, a separare il vivere dal non vivere più. Quest’altro volto dell’e-

sperienza è ben presente nelle parole del filosofo greco Epicuro, parole che invitano a trasformare la paura procurata dell’attesa della morte in una sua serena accoglienza. «Abìtuati a pensare, scrive al suo allievo Meneceo, che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte non è che la sua assenza. La coscienza che la morte non è nulla per noi rende godibile la mortalità della vita». Sono parole che riescono a custodire tutta l’intensità dell’intreccio di presenze e assenze, e questo proprio perché aprono una distanza incolmabile tra la morte, come evento che interrompe la vita, e i Morti che possono continuare ad abitare la vita e il suo sentire. Anche gli stoici ci offrono straordinarie parole di una saggezza antica che ancora oggi può accompagnarci nell’affrontare le vicende che attraversano i nostri giorni, invitando-

Le parole dei figli

ci ad esserne protagonisti: il saggio ci invita a volerla la vita, non a essere voluti da lei. Quanto avremmo bisogno di questa forza interiore, di un coraggio esistenziale che ci riporti al senso profondo delle nostre individualità, oggi annacquate da tanti miseri individualismi! Con questa forza che sboccia dentro di noi, diventa possibile riconoscere il valore del vivere anche nella sofferenza, anche nel dolore della separazione. Lo stoicismo offre molte voci interessanti, dalle radici greche all’epoca della Roma imperiale di Seneca e di Marco Aurelio. Tra questi nomi famosi, vorrei ricordare anche quello forse meno conosciuto di uno schiavo liberato. Si chiama Epitteto e i suoi pensieri, che ebbero nel tempo grande risonanza, prefigurano un orizzonte armonioso in cui le ombre della vita possono trasformarsi in nuove aperture e in sempre nuove fioriture, purché impariamo a tenere sotto control-

lo solo ciò che dipende da noi. Perché molto di ciò che attraversa i nostri giorni non dipende da noi. Grazie ad Epitteto, qualche dubbio potrebbe affiorare sul nostro desiderio di controllare sempre tutto, ma proprio tutto. Perché da noi dipendono solo le emozioni suscitate da ciò che in realtà accade, e accade perché deve accadere; da noi dipendono solo i significati con cui diamo un nome alle nostre emozioni e ai nostri sentimenti. C’è come una soglia invalicabile tra ciò che è in nostro potere e ciò che non lo è. La nostra responsabilità comincia e finisce qui: impegnativa e insieme grandiosa nel riconoscere il suo limite e insieme la sua potenza. Ma quali sono le cose che non dipendono da noi? Duemila anni sono passati da queste parole; duemila anni in cui il potere dell’uomo ha via via preso il sopravvento sul potere del cosmo e sulle sue ragioni. Nel bene e nel male. Quali siano le cose che non dipen-

dono da noi, rimane una domanda grande che arriva da lontano per suggerirci, forse, altre possibili posture nel nostro stare al mondo e nuovi significati per il viaggio interminabile verso noi stessi. Riflettere su questa soglia significa riflettere anche sul morire. E capire, forse, che la morte accade, ed accade per tutti, lo sappiamo bene. I nostri Morti invece sono, e lo sono per ciascuno di noi. E in questi giorni in cui fioriranno i giardini dei ricordi, questa soglia ci invita ad accogliere la nostalgia di un’assenza dentro un’intima presenza. Così, tra i colori delle case dell’anima, potrà fiorire la pienezza del vivere oltre l’attimo vissuto, in un abbraccio cosmico. «Le nostre lacrime più sacre non sgorgano mai dagli occhi – scrive Kalhil Gibran – la tristezza non è che un muro tra due giardini… o forse una finestra che si apre nella parete ad oriente della tua casa».

di Simona Ravizza

Sensibilità ◆

«Bisogna sempre spiegargliele le cose, ai grandi». Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry, per cui chi segue Il Caffè delle mamme sa che io ho una passione, è indignato dagli adulti che non capiscono cos’ha disegnato. Per loro è un cappello. Per lui, invece, il disegno rappresenta un boa che digerisce un elefante! «Gli adulti da soli non capiscono niente – ripete il bimbo che proviene dall’asteroide B –. Ed è stancante per i bambini dovere sempre spiegare tutto». Ecco, ora che gli adulti siamo diventati noi, indubbiamente comprendere cosa passa nella testa dei figli è una sfida quotidiana. Con gli adolescenti è ancora più difficile. La buona volontà c’è. Ma i nostri ragionamenti sono condizionati, ed è ovvio che sia così, dalla visione da «boomer». È il termine con il quale, ormai lo abbiamo capito, vengono definiti i genito-

ri considerandoli di una generazione passata. Siamo visti come vecchi, a partire da particolari come l’utilizzo delle parole, per esempio su whatsapp. In effetti per esprimere divertimento smisurato loro usano la sigla lmao (che sta per Laughing My Ass Off, ed è meglio non fare una traduzione troppo letterale dall’inglese), noi l’emoticon con le lacrime. Per noi non lo so è semplicemente non lo so, per loro Idk (I don’t know). Il nostro in verità per loro è tbh, che sta per to be honest. Come ci considerano spesso ce lo ricordano in modo spietato, dando per scontato che tanto noi mamme e papà non possiamo capirli. «Che te lo dico a fare?», il loro sbotto frequente. Ma, a mio avviso, la questione non può essere derubricata al capitolo delle incomprensioni generazionali. Troppo facile. Ma anche ingiusto. Perché loro hanno le loro ragioni:

La società connessa

anche se ciò non vuol dire che abbiano ragione. La mia convinzione è che a questi giovani che sono i nostri figli, magari troppo zitti e poco buoni – parafrasando i loro amati Maneskin – noi dobbiamo dare la massima fiducia. Per cercare di capirli al di là del loro mutismo, del loro essere sfuggenti, dei loro pensieri difficili da carpire. È il motivo per cui Le parole dei figli, la rubrica che da oggi leggerete una volta al mese su «Azione», ha il desiderio di raccontarli attraverso le parole che loro ci consegnano. La prima è la parola che più di ogni altra a mio parere contraddistingue gli Z, ossia i nati tra il ’ e il  a cui appartengono anche gli adolescenti di oggi: sensibilità. Una sensibilità declinata in mille modi. Quella sui temi ambientali che li porta a seguire Greta Thunberg, la enne svedese che denuncia davanti ai Grandi del mondo che

«la nostra casa (ossia il Pianeta) brucia» e li porta in piazza con gli slogan del Fridays for Future (nella vita quotidiana ciò si traduce, per esempio, in sgridate allucinanti se quando ci laviamo i denti non chiudiamo l’acqua mentre ce li sfreghiamo). La sensibilità alla causa Lgbt, che sta per Lesbica, Gay, Bisessuale e Transgender: le borse di stoffa arcobaleno sulle spalle di molte - enni sono il segnale di una generazione che vede anche il sesso in modo più fluido e le etichettature o, ancora peggio, le discriminazioni per le preferenze sessuali sono (giustamente) incomprensibili. Ancora la sensibilità al body shaming, ossia ai pregiudizi che si scatenano per l’aspetto fisico. E alla causa del Black Live Matter, che tradotto letteralmente vuol dire «Le vite nere contano». Non possiamo scordarci, poi, la disponibilità a rinunciare alla loro libertà con sen-

so di responsabilità nei momenti più brutti della pandemia. Per capirli, allora, forse dobbiamo partire proprio dal loro linguaggio. È quello che, insieme a voi, tenteremo di fare in questo spazio. Una parola al mese, per cercare di vedere il mondo anche attraverso i loro occhi. Non solo quello degli adolescenti, ma anche dei più piccoli. È un tentativo di mettersi in gioco, senza rinunciare al nostro sguardo. Con il pensiero sempre a Il Piccolo Principe: «Agli adulti piacciono i numeri – rivela l’aviatore –. Quando raccontate loro di un nuovo amico, non vi chiedono mai le cose importanti. Non vi dicono: “Com’è il suono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Fa collezione di farfalle?” Le loro domande sono: “Quanti anni ha? Quanti fratelli? Quanto pesa? Quanto guadagna suo padre?” Solo allora pensano di conoscerlo».

di Natascha Fioretti

Lasciare un giornale per scrivere su Substack ◆

Casey Newton scriveva di tecnologia per «The Verge». Nella Silicon Valley era considerato una sorta di istituzione, apprezzato soprattutto per come nei suoi testi sapeva unire analisi e attualità. Un punto di riferimento per chi voleva capire meglio meccanismi, novità e tendenze dell’industria tecnologica. Un bel giorno, più o meno l’anno scorso di questi tempi, ha appeso tutto al chiodo per lanciare la sua newsletter Platformer su Substack. Spiegando le sue motivazioni, in un’intervista a NPR diceva che a spingerlo era l’idea di libertà e di indipendenza. Substack gli offre una piattaforma e gli strumenti per personalizzare la sua mail, gli paga il sussidio per l’assistenza sanitaria e gli offre assistenza legale. Non è solo, in questa scelta lo hanno preceduto altri colleghi autorevoli provenienti da testate tipo «Rol-

ling Stone», «The New Republic», «New York Magazine», «BuzzFeed» e «Vox». A spingerli, secondo il cofondatore di Substack Chris Best, sarebbe la voglia di cambiare, la voglia di uscire dal circuito stressante dei social media, da quella pressione continua di postare articoli e farli diventare virali. Sulla piattaforma di newsletter scrittori e giornalisti gestiscono in piena libertà i loro contenuti e le liste dei loro abbonati. In cambio la piattaforma prende il % dei ricavi degli abbonamenti. Stripe, l’azienda statunitense di pagamenti online, prende un ulteriore % ma tutto il resto va direttamente all’autore. «Craigslist ha ucciso le inserzioni. Facebook e Google si sono prese l’industria pubblicitaria. Viviamo in un mondo in cui i social media si sono presi tutta la nostra attenzione. E siamo intrappolati in questa modalità per cui ognuno di

noi è a caccia di partecipazione» ha detto Chris Best a NPR. Substack, dunque, si propone come antidoto alla cacofonia dell’informazione da social e non attira soltanto giornalisti affermati ma anche freelance come la newyorchese Helena Fitzgerald autrice della newsletter Griefbacon, che in tedesco trova il suo corrispettivo nella bella parola Kummerspeck e in italiano nella più triste espressione «Pancetta da dispiacere». In ogni caso Helena ha fatto della sua Newsletter la sua principale entrata mensile. C’è chi vede in Substack la tempesta perfetta perché accoglie tutti gli scontenti, stanchi dello strapotere degli algoritmi che non hanno più voglia di passare ore davanti agli schermi come durante la pandemia. E accoglie anche tutti quei giornalisti stanchi di lavorare in un’industria dei media tar-

tassata dalla crisi economica. Secondo uno studio, negli Stati Uniti nel  sono stati tagliati trentamila posti di lavoro. Su Substack nello stesso anno tra marzo e giugno gli autori sono raddoppiati e continuano a crescere. La piattaforma conta ’ abbonati e i suoi autori di maggior successo riescono a portarsi a casa guadagni a sette cifre. Certo, se pensiamo che gli abbonati al «New York Times» sono , milioni la strada per fare concorrenza ai media è ancora lunga. Secondo Meredith Broussard, professoressa di giornalismo alla New York University, il modello di Substack funziona molto bene solo per chi ha prestigio e ha già un seguito. Intanto, un anno, dopo Casey Newton ha più che raddoppiato il suo seguito passando da ’ abbonati a ’. A cosa è dovuto l’alto gradimento nei confronti della sua Newsletter? Al

buon giornalismo, agli articoli che vanno al cuore delle questioni e fanno rivelazioni inedite. Il giornalista è stato il primo a raccontare i dettagli della mail che ha licenziato la ricercatrice Timnit Gebru, co-leader del team di etica per l’intelligenza artificiale di Mountain View. Licenziata per aver criticato l’approccio dell’azienda nei confronti delle minoranze ed aver evidenziato i potenziali rischi dei suoi sistemi di intelligenza artificiale. Dettagli che sono poi stati ripresi dai maggiori media mainstream. Non solo, di recente Casey Newton per la sua Newsletter ha intervistato dal vivo in video il CEO di Facebook Mark Zuckerberg in persona per conoscere i piani dell’azienda in fatto di espansione nel settore dei prodotti audio. Un’intervista che in altri tempi sarebbe andata su un quotidiano come il «New York Times» o il «Guardian».


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Anno LXXXIV 25 ottobre 2021

TEMPO LIBERO L’Argentina più povera Un viaggio tra agricoltori precari, allevatori di lama e minatori dimenticati

Dalla pellicola al digitale Inizia con questo articolo una rubrica dedicata alla fotografia amatoriale

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azione – Cooperativa Migros Ticino 15

Di suino, ma anche d’asino Sono molte le carni con le quali si producono saporite salsicce in tutte le regioni d’Italia

E la pallamano in Ticino? Per ora è questione fra cantoni germanofoni, con rare licenze oltre la Sarine, ma qualcosa si muove

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Un tempo rubato al dovere di vivere Leisure

Si può appagare un desiderio pur mantenendo quel naturale conflitto tra piacere e sacrificio che ci permette di crescere

Manuela Mazzi

«Il tempo per leggere è sempre tempo rubato, come il tempo per scrivere, d’altronde, o il tempo per amare. Rubato a cosa? Diciamo, al dovere di vivere». Scriveva così Daniel Pennac nel suo libro intitolato Come un romanzo (Feltrinelli, , nella traduzione di Yasmina Melaouah). Si trattava di una riflessione sulla lettura che, tuttavia, portava con sé una verità sul tempo libero. Sospesa l’attività scolastica o lavorativa, inizia lo spazio dell’autodeterminazione, della libertà di scelta, dove «potere» e «volere» si sostituiscono al «dovere». «Leisure» per chi mastica l’inglese, è detto più genericamente «tempo libero» in italiano; uno spazio concettuale trasformatosi da epoca in epoca: se all’americana sta a indicare con più precisione lo svago, la ricreazione, il divertimento, per noi italofoni ha più il significato di «tempo liberato dal lavoro». Un concetto astratto, dalle molteplici ricadute pratiche. Il senso d’altronde rimane quello, si sa: mettere a frutto minuti ricreativi, ore di riposo, giorni di attività alternative e non remunerative, creare spazi di incontro, frequentare corsi di

formazione, rimettersi in «gioco» nel vero senso della parola, trovare infine ristoro, anche e soprattutto per sentire meno il peso della vita. Vita sempre più votata a «quel dovere», che da una parte si coniuga con lo studio o il lavoro – dove investiamo «obbligatoriamente» su di noi, o mettiamo le nostre competenze al servizio di titolari e clienti – mentre dall’altra è di natura non remunerata, com’è quello verso la famiglia, verso la cura della casa e dei nostri cari, siano figli, parenti o amici; e in particolare ci si riferisce al ruolo ancora troppo spesso relegato al mondo femminile, il quale parrebbe disporre in minore misura di uno spazio per sé. Certo, il tempo cosiddetto libero serve anche per soddisfare le necessità delle nostre principali funzioni corporali: fare una pausa caffè, mangiare, dormire, spostarsi con mezzi privati o pubblici e tutte quelle altre banali e inevitabili attività che, tuttavia, in una certa misura possono essere svolte procurandoci piacere nel farlo. Basti pensare a quanti risolvono cruciverba sul treno, o a chi si sbizzarrisce nel cucinare piatti gourmet.

È però il «tempo altro», quello che va al di là delle «necessità», il tempo libero più arricchente e rinvigorente. Uno «spazio» che non sempre è facile da ritagliarsi, e per questo ancora più prezioso. È così prezioso che la massima libertà di chi dispone tempo libero è forse il potersi permettere di sprecarlo, ma anche quest’aspirazione ha un limite: se da una parte molti ne denunciano la mancanza, i più che ne dispongono – spesso pensionati o per altre ragioni disimpegnati, ma anche famiglie composte da figli energici con il finesettimana da «riempire» – tendono ad averne troppo senza sapere come liberarsene, correndo così il rischio di annoiarsi. Due sono gli approcci più comuni, quello strettamente edonistico che mette al centro l’ozio, e comprende la cura dello spirito, e quello costruttivo, che pur richiedendo una certa fatica produce una gratificante crescita personale. Ed è in particolare di questo secondo orientamento che ci occuperemo nelle pagine del nuovo settore dedicato per l’appunto al «Tempo libero», convinti che in un certo senso la condizione umana contemporanea

abbia sempre bisogno di «fare» per «essere». Un «fare», in questo contesto, che cerchi comunque di appagare un volere e non un dovere, pur mantenendo vivo quel naturale conflitto tra piacere e sacrificio. Ma ci sarà spazio anche per approfondire e rivalutare l’ozio creativo. Sono molte le imprese votate alla ricreazione non solo culturale, ma anche turistica, sportiva, formativa, gastronomica, ambientale, urbana, impegnata, dilettantistica, e via elencando… Un intero mondo di attività extra lavorative che negli ultimi due anni ha subìto uno scossone (quando non una vera e propria battuta d’arresto) non inferiore a quello subìto dalle attività rimunerative, tanto che ne ha in parte modificata la natura, trasferendo online incontri che prima si svolgevano dal vivo, facendo perdere la manualità dei gesti che per chi pratica alcuni passatempi artigianali sono importanti, generando laboratori virtuali che affievoliscono i rapporti, certo, ma allo stesso tempo intensificano le nozioni insegnate; tanto per dire quelle più evidenti. Timidamente ora qualche attività sta riaprendo i

battenti anche dal vivo. Cionondimeno resta importante il valore aggiunto che ci ha insegnato questo recente periodo: si può far partecipare, cioè si può invitare a far parte di un certo mondo, anche da remoto. In questo spazio, tra realtà e virtuale, abbiamo creato un contenitore dove poter sia ragionare sul tema stesso del tempo libero, sia proporre forme di tutoraggio ampliando e diversificando gli articoli che già erano presenti su «Azione» come quelli dedicati al mondoverde, ovvero al giardinaggio, o quelli enogastronomici. La prima serie di articoli che va in questa direzione è quella che si occupa di fotografia amatoriale, a firma di Stefano Spinelli, di cui pubblichiamo il primo articolo a pag. . Non avremo il potere di agire sulla quantità del tempo libero, ma faremo il possibile per suggerire come migliorarne la qualità. Per chiudere lasciamo di nuovo la parola a Daniel Pennac: «“Il tempo per leggere? Ce l’ho in tasca!” […] “Sì… quando si compra una giacca, l’importante è che le tasche siano del formato giusto!”» (Come un romanzo, Feltrinelli, ).


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TEMPO LIBERO

La nuova Pachamama

Reportage ◆ È in atto una vera rivoluzione a Jujuy, la provincia più povera dell’Argentina che si sta muovendo tra rivendicazioni quasi romantiche e acrobatici salti nel mondo delle nuove tecnologie Enrico Martino, testo e immagini

Un vento sordo e incessante. Arruffa l’erba spelacchiata della puna, la pianura graffiata dall’erosione a oltre quattromila metri dove quando il mal di montagna si impadronisce degli uomini, «oggi c’è apunamiento» ti avvertono, bisogna infilarsi un pugno di foglie di coca tra i denti per resistere. Quassù è l’uomo a doversi adeguare all’ambiente e le culture sono come gli strati geologici, si sovrappongono senza fondersi, qolla, incas e spagnoli come le gigantesche onde di pietra rosse e verdi che si scontrano al passo di Tres Cruces. Agricoltori precari, allevatori di lama e minatori, i qolla incollati a questo nord dimenticato al confine con la Bolivia sono una delle comunità indigene più importanti dell’Argentina, rimossi fino alla fine del secolo scorso dall’immaginario di un paese ossessionato dalle sue origini europee. Una skyline di antichi vulcani color cenere ha sempre isolato l’altipiano, collegato solo da strade che si arrotolano come spire di serpenti per raggiungere villaggi sperduti dove di notte si gela e di giorno si brucia.

A Salinas Grandes il fumo acre delle offerte si mischia alle musiche andine sparate nel total white della terza salina del mondo mentre i salineros rendono omaggio alla Pachamama, la Madre Terra A pochi chilometri dal confine con la Bolivia, doña Ermelinda mette in bella mostra sugli scaffali dell’unico emporio di Santa Catalina fagioli brasiliani e soprammobili cinesi che insidiano la tradizionale supremazia delle scatole di spezzatino di carne La Negra persino a oltre tremilaottocento metri di altezza. È il villaggio più a nord di tutto il paese dove «inizia l’Argentina», non è rimasto molto altro da dire al migliaio di anime che sopravvivono a un glorioso passato minerario svanito nel nulla. «L’Occidente ha imposto un modello che ci sta distruggendo» tuona nella vicina chiesa padre Enrique in perenne resistencia contro globalizzatori e imperialisti, circondato da un rassicurante lunapark di santi e madonne decisamente pop, «ma per la cosmogonia andina questo è il tempo di una ritrovata armonia, e dopo oltre cinquecento anni ci sentiamo di nuovo parte del Tayantisuyo, l’impero inca». Nel frattempo, due donne, quattro cani e un ubriaco ancora immerso in una borrachera suave, la sbronza dolce da domenica mattina, guardano fissi il vuoto assoluto di una piazza dove si muovono solo la polvere e i brandelli di un vecchio manifesto elettorale che prometteva de todo. A est di Abra Pampa, con la sua stazione ormai abbandonata e un soprannome, La Siberia dell’Argentina, guadagnato sul campo con il freddo che ogni notte ghiaccia le ossa, si spalanca l’abbagliante bellezza minerale delle stratificazioni di rossi e di ocra che ricoprono la Montagna dei Sette Colori di Purmamarca e la Tavolozza del Pittore di Tilcara, star indiscusse della Quebrada de Humahuaca. Basta guardare Google Earth per capire l’importanza di questa frattura geologica che spezza le Ande per due-

cento chilometri, Patrimonio dell’Umanità UNESCO dal  perché da qui sono passati gli incas e le carovane spagnole cariche di oro e argento che dalle miniere di Potosì in Bolivia raggiungevano il Rio de la Plata e i galeoni in partenza per la Spagna, evitando le lunghe traversate sul Pacifico verso Panamá. Poi i giacimenti si impoverirono e da allora basta abbandonare la strada, unica colonna vertebrale di questi luoghi incerti, e non ci sono più destra o sinistra, davanti o dietro, solo piste dove il tempo dura più a lungo, come le feste che sembrano sempre lì per cominciare e non cominciano mai.

A Salinas Grandes il fumo acre delle offerte si mischia alle musiche andine sparate nel total white della terza salina del mondo mentre i salineros rendono omaggio con candele e soft drink dai colori improbabili alla Pachamama, la Madre Terra. «In Argentina lo slogan dell’indigenismo spesso serve a gruppi di potere per manipolare intere comunità» spiega con un’amarezza che si taglia con il coltello Fernando, insegnante della vicina comunità di El Moreno. «Qui della ricchezza nazionale non è mai arrivato nulla, persino i figli e la moglie possono abbandonarci. L’uni-

ca che non si dimentica mai di noi è la Pachamama, anche se l’avveleniamo con i prodotti chimici». Alle sue spalle i colori arcobaleno della wiphala, l’antica bandiera inca, sventolano su grigliate di asados, e sulle contraddizioni dei qolla conquistati dagli incas ma che con l’orgoglio del ricordo di quell’impero alimentano una brezza indigenista che fa fremere i mestizos bianchi di Salta, e può trasformare un forno solare in un grimaldello per un futuro possibile, e diverso. «All’inizio volevamo solo rivitalizzare quinua e kiwicha, l’amaranto, piante ricche di proprietà nutritive e alla base della tradizionale alimentazione andina che possono diventare un motore di sviluppo» ricorda Armando Alvarez, uomo dalle molte vite, sopravvissuto al carcere ai tempi della dittatura dei generali, coordinatore di una radio comunitaria ma soprattutto orgoglioso del tempo in cui costruiva le prime cucine solari della regione. «Volevamo realizzare qualcosa di concreto per queste aree isolate dove il combustibile costa troppo» continua sempre più infervorato. «Quando si parla di nuove energie spesso si pensa a tecnologie complicate, qui invece tutto per funzionare doveva costare poco. Ce l’abbiamo fatta con l’aiuto di un ingegnere tedesco, Christoph Müller, utilizzando dei

pannelli riflettenti Scheffler che ruotano mantenendo lo specchio nella stessa posizione rispetto al sole, senza consumare energia, e forni a energia solare che possiamo costruire noi ma abbastanza grandi che ci puoi cuocere dentro due capretti». Oggi la Fundación EcoAndina ha installato duecentocinquanta forni solari, i più alti del mondo, e ventitré cucine solari comunitarie che scaldano scuole, alimentano cucine collettive e producono elettricità, e si pensa all’utilizzo dei carbon credits per rendere economicamente possibile l’acquisto di tecnologie solari a comunità poverissime. Per molti campesinos è l’ultimo miracolo di Tata Inti, il Dio Sole, una rinascita della Pachamama che li aiuta a conservare i prodotti aspettando prezzi migliori, senza svendere ai commercianti di Salta. Una vera rivoluzione a Jujuy, la provincia più povera dell’Argentina dove se va bene si mangia charqui, la carne di lama seccata, e le uniche feste sono quelle che festeggiano il santo patrono o la cacciata degli spagnoli con una banda avvolta in ponchos spelacchiati. Oggi però l’altipiano si sta muovendo, tra rivendicazioni quasi romantiche e acrobatici salti nel mondo delle nuove tecnologie, perché tra questi paesaggi lunari quello che si vede non conta, conta quello che si sente.


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Uno strumento rivoluzionario Fotografia

Da imitatore della pittura, a registratore della realtà

L’avvento dell’elettronica, negli anni Sessanta del secolo scorso, ha comportato profondi cambiamenti in tutti gli ambiti della nostra realtà. Oltre che tecnologica, si è trattato di una vera e propria rivoluzione antropologica, capace di mutare in modo radicale comportamenti e percezioni, rapporti sociali, modi produttivi, sistemi culturali. E la fotografia non poteva sfuggire a tale trasformazione. Con quest’articolo, il primo di una rubrica dedicata alla fotografia considerata perlopiù nei suoi aspetti pratici, vogliamo dapprima descrivere almeno in parte quali sono state le ripercussioni sulla pratica fotografica legate al passaggio dalla pellicola al digitale. Va detto, per cominciare, che più di una trasformazione, questo passaggio rappresenta una discontinuità nella linea evolutiva vissuta dalla fotografia dai suoi albori, nel primo Ottocento, fino agli ultimi decenni del Novecento. Tale evoluzione rincorse il perfezionamento dei materiali (pellicole sempre più sensibili, sistemi ottici più efficienti e qualitativi) e delle apparecchiature impiegate. Col tempo, il miglioramento dei materiali permise l’introduzione di macchine fotografiche più piccole, più maneggevoli e facili da usare rispetto ai complicati e ingombranti apparecchi precedenti. L’industria si assunse il compito di produrre le pellicole e di sviluppare e stampare le immagini scattate da chi non aveva tempo, voglia o capacità di farlo da sé. Grazie a tutto ciò, fin dall’ultimo decennio dell’Ottocento, sempre più persone cominciarono a fotografare.

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Stefano Spinelli

petizione con la pittura, ma in quanto dotata di sue ben specifiche e distinte caratteristiche operative. Innumerevoli altri furono gli ambiti investiti da questo mezzo: industriale, commerciale, dello svago, dell’educazione, per dirne solo alcuni. Tutti trassero gran beneficio dal suo utilizzo. Nei decenni successivi vi furono importanti sviluppi tecnologici. Ad esempio, dal 1907 con le autocromie dei fratelli Lumière, la fotografia a colori cominciò a essere alla portata di mano di molte più persone, che i metodi complessi, imprecisi e costosi, scoperti e utilizzati in precedenza non consentivano. Nel 1936 Agfa introdusse un procedimento a colori applicabile ai vari supporti fotografici: lastre, carte e pellicole, positive e negative. Andando così a incrementarne ulteriormente la diffusione. Si svilupparono automatismi sempre più precisi ed efficaci, per l’esposizione delle pellicole, per la messa a fuoco. Motori di trascinamento, pellicole istantanee ad autosviluppo (la Polaroid fu la prima e la più famosa). Si moltiplicarono i formati disponibili, per ogni tasca e occasione. L’uso della fotografia divenne talmente popolare da diventare un vero e proprio

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Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

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L’arrivo del digitale trasforma l’arte fotografica da testimone della storia a mezzo manipolatorio L’evoluzione tecnologica e la massificazione dell’uso portarono cambiamenti nella pratica fotografica. Fino ad allora, la fotografia era appannaggio di un’élite di ricchi appassionati che la sperimentavano con spirito pioneristico e di ricerca, di artisti che la usavano per i loro studi preparatori, e di qualche professionista che ne aveva fatto il proprio mestiere. Si trattava soprattutto di un uso che prendeva a modello – e talvolta sostituiva – la pittura, ricalcandone i temi più diffusi: ritratti, paesaggi, nature morte. Le inquadrature e le messe in scena erano a lungo studiate. I canoni estetici si rifacevano a quelli dell’arte classica. E il culmine di questa prima fase della fotografia, proprio per questi motivi, venne poi definito pittorialismo. Gli esponenti di questo movimento – sia attraverso la composizione sia con un uso mirato di tecniche di ripresa e di stampa – producevano immagini che si volevano il più simile possibile a veri e propri quadri e disegni. Va detto però che da subito la fotografia esercitò grande fascino principalmente per la sua capacità di rap-

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presentare la realtà fin nei più piccoli dettagli. Furono solo i suoi limiti tecnici a restringere la scelta dei soggetti e dei campi di azione. Per fare un esempio, i tempi lunghi di esposizione impedirono per molti anni di cogliere sul vivo situazioni di vita quotidiana, di realizzare quelle che oggi chiamiamo istantanee. Superati quei limiti, si aprì un vasto campo di possibilità. Fu a quel momento che la fotografia, iniziando il suo percorso di emancipazione dalla pittura, raggiunse la sua maggiore età. La macchina fotografica si staccò dal cavalletto e cominciò a esplorare tutti gli ambiti della vita. Divenne, ad esempio, uno strumento imprescindibile nella ricerca scientifica. Ma, soprattutto per le sue capacità di documentare la realtà, la fotografia trovò innumerevoli applicazioni nell’ambito sociale. Da un suo uso nel contesto familiare, a ricordo dei momenti forti e rituali che scandiscono i tempi della vita delle persone, a quello più sociale, giornalistico e politico, andando a registrare e testimoniando realtà che attraversano la società fin nelle sue parti più recondite. Fu inoltre nei primi decenni del Novecento che si affermò come pratica artistica a sé stante, non più in com-

affare miliardario, oltre ad essere vettore di un nuovo modo di vedere e interpretare il mondo. La realtà sociale tutt’intera venne invasa dalle immagini, tanto che si cominciò a parlare – a partire dagli anni Cinquanta – di «civiltà dell’immagine», grazie anche al ruolo importante che il cinema e la televisione stavano assumendo nella comunicazione di massa. Sebbene tutti questi suoi indubbi progressi, possiamo però dire che in buona sostanza la fotografia – fino alla nascita del digitale – rimase legata alla modalità originaria di registrazione della realtà, cioè quella di essere una traccia fotochimica – e dunque in sé concreta – impressa dalla realtà in un breve lasso di tempo su una superficie fotosensibile. La fotografia poteva a giusto titolo dirsi testimone del mondo e dei suoi accadimenti. L’arrivo del digitale e il suo progressivo sostituirsi alla pellicola modificò in modo radicale i presupposti iniziali della fotografia. Senza ricapitolarne la storia, vediamo in breve cosa comportò. Innanzitutto, col digitale si perde quel legame immediato che congiungeva la realtà fotografata all’immagine prodotta. L’apparecchio digitale raccoglie, sì, l’informazione luminosa attraverso un dispositivo ottico in tutto e per tutto simile a quello utilizzato con la pellicola, ma per tradurlo poi in una sequenza precaria di numeri, virtuale, effimera, facilmente manipolabile. Non si tratta solo di un cambiamento di forma, ma propriamente di sostanza. Perso quel legame intimo, materiale, diretto con la realtà, va a perdersi anche il forte valore testimoniale che la fotografia aveva incarnato fino a quel momento. La facile manipolabilità delle immagini ottenute accentua ulteriormente questa perdita. Potremmo quasi dire che, allontanandosi dalla sostanza della realtà, il digitale tenda a valorizzarne l’aspetto formale. In altre parole, da una fotografia attraversata da un forte spirito

etico, col digitale si passa a una fotografia che valorizza il versante estetico. La rappresentazione della realtà lascia il posto all’immaginario, all’artefatto, al virtuale. Col tempo, gli interventi di alterazione delle immagini sono stati vieppiù recepiti come normali, quasi momento connaturato alla pratica fotografica: l’applicazione di filtri e di altre manipolazioni sulle immagini è ormai un fatto corrente, proposta persino in automatico da molti dei nuovi dispositivi fotografici di uso comune. Questa nuova modalità operativa fa sì che si passi da una situazione dove l’uomo agisce attraverso la macchina a una dove è la macchina ad avere il sopravvento nel determinare il risultato finale. Da un approccio di stampo umanistico a uno improntato fortemente alla tecnica, al primato della macchina sull’uomo. Grazie alla tecnologia digitale, oggi si possono fare con facilità cose assolutamente impensabili prima, con la pellicola, ma andando a determinare un paradossale appiattimento di questo nostro nuovo orizzonte visivo. L’immagine si omologa alle capacità d’intervento tecnologico. Della pellicola si faceva un uso parsimonioso. Vi era un tempo di latenza tra lo scatto e la sua fruizione attraverso una stampa, che ne impreziosiva il valore. La stampa veniva custodita e andava a costruire una sorta di archivio della storia, da quella piccola, individuale o familiare, a quella collettiva, con la esse maiuscola. Oggi, quotidianamente vengono realizzati milioni di fotografie, molte delle quali non verranno mai guardate, se non fugacemente al momento dello scatto. Sarà allora ben difficile – se non impossibile – per uno storico riuscire a utilizzare efficacemente una tale mole d’informazioni. Per la fotografia, il passaggio dalla pellicola al digitale è stato, oltre che fatale, probabilmente inevitabile, quasi tutta la nostra società ha subito questa trasformazione. Solo il tempo saprà dirci se ritroveremo la capacità, o le ragioni, di una sua rinascita. E dunque? Dunque abbiamo pensato a questa rubrica per suggerire agli appassionati della fotografia amatoriale, qualche riflessione per rendere forse meno banali gli scatti che si fanno a volte senza davvero prestare attenzioni, anche minime, che potrebbero aumentare la resa dei ricordi, l’estetica dell’immagine, ma anche solo potenziarne il contenuto, tornando a dominare la macchina invece di farci dominare da essa. Tra questi suggerimenti che vorremo sviluppare, vi sono temi classici da tornare a esplorare con uno sguardo più consapevole. Partendo dai primi rudimenti, come la conoscenza dell’esposizione attraverso i tre elementi fondamentali che costituiscono una macchina fotografica, che sono l’otturatore, il diaframma e la sensibilità, si vorrebbe parlare di luce, di bianco e nero o colore, di temi e soggetti, di narrazione delle immagini, di fotografia astratta, e tanto altro.

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TEMPO LIBERO

Dalla caduta dell’Impero Romano all’Editto di Rotari

Vino nella storia ◆ Mentre la cultura cadde nel buio, il vino, e con esso la poesia, trovarono rifugio nei grandi monasteri

Scelto per voi Salmos Torres

Davide Comoli

Con il crollo dell’Impero Romano sul mondo «civile», sembrarono sparire insieme le leggi e il diritto che Roma aveva saputo dare al mondo allora conosciuto, come anche la cultura e l’arte. Il vino, e con lui la poesia, trovarono invece una sorta di rifugio tra le mura dei grandi monasteri sparsi un po’ ovunque in Europa. I nostri territori divennero terreno di guerra tra Ostrogoti e Bizantini fra il  e il . Dalla sconfitta dei Goti ne approfittarono i Longobardi che, dall’Est, dilagarono verso la pianura iniziando altre lotte contro i Bizantini. Con l’elezione di Autari nel , i Longobardi controllavano già gran parte della vicina Penisola. Restando in tema di cultura e del baratro in cui era precipitata, possiamo anche farcene un’idea restando in tema vino. Se rammentiamo gli ampi trattati sulla vite e i suoi derivati che Plinio ha sviluppato nelle pagine della sua Naturalis Historia, di cui già ampiamente abbiamo scritto, la misura della decadenza di quei secoli la forniscono le poche righe che, sugli stessi argomenti, vengono scritte dal più famoso tuttologo del XI-XII sec., il vescovo Isidoro di Siviglia ( circa-): santo, dottore della Chiesa, il quale esercitò grande influsso sulla cultura occidentale per aver conservato e tramandato moltissime informazioni sulla civiltà classica. Nella sua opera, Originum sive etymologiarum libri XX, troviamo solo uno scarno capitolo (De Vitibus) nel libro XVII (De lapidibus et metallis): «Vitis dicta quod vim habeat citius radicandi» («la vite è così chiamata perché possiede la forza – vis – per radicare più in fretta»). Tre libri più avanti nel capitolo De Mensis scrive: «Vinum inde dictum quod eius potus venas sanguine cito repleat» («Il vino è così chiamato perché il berlo riempie in fretta le vene di sangue»). Sempre nel XX libro, Isidoro riprende la discutibile (seppur profon-

La statua che raffigura Isidoro di Siviglia, opera dello scultore spagnolo José Alcoverro (1892) sulla scalinata d’entrata della Biblioteca Nazionale di Spagna, a Madrid. (Luis García)

da) saggezza dei Padri della Chiesa, e ci informa che San Girolamo, in un libro scritto sulla necessità di preservare la verginità afferma che: «Le fanciulle debbono fuggire il vino come fosse veleno affinché per il bruciore che si sentono addosso, non abbiano a berne e quindi a perdersi». Se prendiamo in considerazione che anche al cospetto di questi ameni scritti, Isidoro di Siviglia veniva considerato la più grande mente del suo tempo, possiamo farci un’idea di cosa abbia significato per la cultura, il Medioevo, lungo e oscuro periodo di transizione tra due epoche di altissima civiltà. Molti popoli, respinti come barbari dal mondo romano, entrarono a far parte del nuovo mondo romano-cristiano. Fra il VII e VIII secolo, i Longobardi si trasformarono da invasori a protagonisti integrati come narra Paolo Diacono, storico longobardo () nella sua Historia Langobardorum, scritta in latino, documento unico per la conoscenza di quel periodo. Il processo di fusione fra invasori e popolazione locale passò anche attra-

verso i matrimoni misti, che portarono alla cristianizzazione di questo popolo, in origine di religione «ariana». L’agricoltura, che nei secoli precedenti aveva subito un forte colpo, grazie al cristianesimo, ebbe un forte recupero. In effetti leggendo le cronache dell’epoca di Paolo Diacono, si nota come la diffusione delle comunità cristiane e la loro organizzazione ebbero ripercussioni notevoli sulla ricostituzione del paesaggio agrario. Il vino, «pretiosa vina», citava specificamente l’autore di Historia Langobardorum, era amato e valorizzato, tant’è vero che era divenuto simbolo di ricchezza e regalità tra i nobili longobardi ed era una delle delizie italiche che attirava i popoli del nord, senza dimenticare che, con la diffusione del cristianesimo, la vite e il vino erano caricati di una valenza nuova. I re longobardi costruivano chiese e patrocinavano monasteri (uno per tutti quelli di Bobbio fondato nel ) e i vescovi stessi provenivano da importanti famiglie longobarde, anche se molti dei nobili continuavano a seguire la dottrina ariana.

Nell’anno , la regina Gundeberga, figlia della più famosa Teodolinda, rimasta vedova, sceglie come sposo Rotari: «uomo di grande forza che seguiva la via della giustizia, sebbene privo della corretta fede, e si macchiasse dell’eresia ariana», così sta scritto nell’Historia Langobardorum. Il  novembre , il re Rotari promulga il suo celebre Editto:  articoli; più della metà codificano le norme del diritto penale. Si tratta di una raccolta di leggi germaniche, scritto in latino, che contemplava anche riferimenti all’agricoltura, compresi determinati comportamenti relativi alla vite e al vino, e le severe multe per i contravventori. Mostrando una particolare attenzione alla coltura vitivinicola, l’Editto colpisce ogni danneggiamento all’impianto, ai ceppi di vite e ai tralci, come pure il furto delle uve: «Se qualcuno prende un palo da una vite, paghi una composizione di sei soldi. Se qualcuno scavando una fossa, distrugge intenzionalmente una pianta di vite, paghi una composizione di un soldo. Paghi una composizione di mezzo soldo, colui che intenzionalmente taglia un tralcio di vite. Se qualcuno, da una vigna altrui, coglie più di tre grappoli d’uva, paghi una composizione di sei soldi; ma se ne prende fino a tre, non gli sia fatta alcuna colpa». Nel  fu eletto Adriano I che richiamò a Roma tutti i seguaci della fazione filofranca. L’alleanza fra il Papato e il Regno Franco provocò la fine del Regno Longobardo. I Franchi sconfissero a più riprese i Longobardi, e nel  Carlo Magno depose Desiderio, l’ultimo re longobardo e ne assunse la corona. Il vino continuò ad essere la prova di diversi capitoli a esso dedicati nel Capitulare de Villis vel de Curtis Imperatoris voluto dallo stesso Carlo Magno.

Il vigneto del Priorato si estende a occidente della provincia di Terragona. Qui la famiglia Torres è riuscita a dare prestigio a una delle regioni viticole più importanti e produttive della Spagna, utilizzando le tecniche enologiche e produttive dei francesi. Così facendo i loro vini hanno acquisito un bouquet molto in sintonia con i vicini di frontiera. Oggi abbiamo scelto per voi il Salmos, vino di corpo, prodotto con le tipiche uve locali, Cariñena, Garnacha e la francese Syrah. Con il suo colore molto scuro come l’inchiostro di china, ricco di alcol, i suoi aromi ricordano la frutta secca e in modo particolare la prugna: vino corposo elevato per quattro anni in barrique di quercia francese, rende i suoi tannini ben presenti, ma delicati. Il Salmos regge molto bene l’invecchiamento. Adatto ad accompagnare piatti molto strutturati, noi l’abbiamo apprezzato con un «filetto di cervo al tartufo». / DC

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Tutti i tipi di salsiccia Gastronomia

Saporito e gustoso, questo popolare insaccato viene utilizzato per condire, con ripieni e sughi, o come secondo

Le salsicce possono essere di carne e grasso di puro suino, oppure di carni miste, dal maiale all’asino, ma anche di agnello, capra, cavallo, e selvaggina È preparata con carne e grasso di puro suino macinati e conciati con spezie, sale e pepe; questo composto viene poi insaccato in lunghi budelli di piccolo diametro; vale a dire che le salsicce si trovano dunque sia proposte «a metro», sia presentate in forma di salamini corti. Inoltre, è anche possibile trovare sul mercato salsicce confezionate con carni non suine (per esempio quelle toscane di cinghiale, corte e strette, conservate nel grasso fuso o nell’olio di oliva) e con carni miste: alla carne di maiale possono essere aggiunti manzo, agnello, capra, cavallo, asino, selvaggina e altre ancora. Gli odori usati per aromatizzare l’impasto sottostanno a variazioni diverse che si rifanno per lo più su base territoriale: salsicce insaporite con aglio, cannella, chiodi di garofano e vino bianco sono tipiche delle regioni del Nord, mentre quelle di produzione meridionale privilegiano semi di finocchio o peperoncino e, in certi casi, anche pomodoro secco. La maggior parte delle salsicce è destinata a essere consumata fresca, previa cottura. È il caso soprattut-

to delle salsicce prodotte nell’Italia del Nord, come la luganega, lunga e sottile, ideale con il risotto (rinomata quella di Monza); i verzitt tipici del milanese, corte salsicce cucinate in umido insieme alla verza; i probusti di Rovereto, di coppa di maiale e polpa di vitello, aromatizzate con aglio, insaccate e affumicate, da gustare bollite insieme ai crauti. La più celebre delle salsicce da consumare al naturale è la salsiccia di Calabria, composta per il venti per cento di grasso e per il resto di carne magra (spalla e altro): viene insaccata in un budello e piegata nella tipica forma a catenella, quindi stagionata per un mese; vanta un sapore intenso. Tra le salsicce dell’Italia centro-meridionale, vanno ricordate la salsiccia toscana, preparata con più parti del suino (tra cui la spalla), aromatizzata con salvia e rosmarino, quindi insaccata e consumata fresca oppure stagionata per un mese, e la salsiccia umbra: entrambe vengono cotte in padella per lo più con verdure come broccoli o cime di rapa, ma tipica dell’Umbria è la ricetta con uva bianca. La salsiccia napoletana, diffusa un po’ in tutto il Mezzogiorno, è a grana media, piuttosto piccante (contiene pepe e peperoncino) e può eventualmente essere affumicata. Le salsicce da cuocere vanno bucate con un ago prima dell’uso, in modo che la pelle non si rompa in cottura e il grasso possa fuoriuscire. Si servono alla griglia, al forno, in padella, in umido. Saporito e gustoso, questo popolare insaccato viene utilizzato per condire primi piatti e polenta; per preparare ripieni e sughi; per insaporire funghi e risotti. Insomma per mille usi, è forse l’ingrediente «importante» più eclettico che ci sia.

Come si fa?

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Quante volte, in tante ricette che vi ho proposto, sono comparse le salsicce! Eppure, non le ho mai presentate davvero. Lo faccio oggi. La salsiccia è un insaccato di carne suina, normalmente fresco, più raramente stagionato, ma mai a lungo. Di antica origine, è presente nelle cucine di tutte le regioni italiane con numerose varianti.

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Allan Bay

Wafer è un termine inglese che indica un biscotto formato da più strati di cialde sovrapposte, farcite con una crema. L’origine risale all’antica arte dei «cialdonari», che fin dal XV secolo confezionavano nelle contrade

europee sottili e croccanti cialdoni, facendo cuocere la pastella su grandi stampi a tenaglia al diretto calore del fuoco. Sulla superficie delle cialde sono impressi piccoli motivi geometrici a reticolo o a losanga che ricordano la struttura ad alveare del favo di miele (waba nell’inglese antico, da cui il nome attuale). L’impasto viene cotto su appositi stampi a libro; una volta pronti, i sottili fogli di cialda vengono fatti raffreddare, uniti a due a due, farciti con la crema scelta e tagliati in forma quadrata, rettangolare o rotonda. Vediamo come si fanno (ingredienti per quattro persone). Amalgamate in una ciotola  g di farina con

 cucchiaino di lievito,  cucchiai di zucchero a velo e  di zucchero vanigliato. Versate , dl di latte e  tazza d’acqua, mescolando bene perché non si formino grumi. Fate sciogliere sul fuoco una noce abbondante di burro, lasciatelo intiepidire e unitelo all’impasto. Aggiungete  cucchiai di miele,  uova leggermente sbattute e un pizzico di sale. Scaldate sul fuoco un ferro a libro per cialde, versatevi sopra un po’ di pastella per volta e cuocete girandolo su entrambi i lati. Man mano che sono pronte, impilate le cialde su un piatto, spolverizzandole con lo zucchero a velo. Servitele come accompagnamento a creme dolci o a macedonie di frutta.

Ballando coi gusti

Oggi, due risi. Moros e cristianos, cubano in origine, si chiama così perché i fagioli erano neri e il riso bianco: anche se oggi vanno bene tutti i risi. Quello con le lenticchie è più classico.

Moros e cristianos

Riso nero e lenticchie rosse

Ingredienti per 4 persone: 240 g di riso rosso o selvatico (o anche come volete voi) – 240 g di fagioli neri secchi – 100 g di sfilacci di cavallo – concentrato di pomodoro – alloro – olio – sale e peperoncino.

Ingredienti per 4 persone: 240 g di riso tipo Venere Nero – 240 g di lenticchie rosse – 2 cipollotti – 2 spicchi di aglio – cumino in polvere – brodo vegetale – olio – sale e pepe.

La sera prima mettete a mollo i fagioli neri in acqua tiepida, il giorno dopo scolateli, sciacquateli e lessateli con  foglie di alloro per  ore. Cuocete il riso e portatelo a cottura per il tempo indicato sulla confezione. Scaldate in una casseruola un filo di olio con l’aglio mondato e leggermente schiacciato. Unite i fagioli scolati e  cucchiaio di concentrato di pomodoro stemperato in poca acqua, mescolate, unite il riso e fate insaporire. Alla fine, regolate di sale e di peperoncino, nappate con gli sfilacci e servite.

Cuocete il riso nero come indicato sulla confezione, usando però brodo vegetale e non acqua. Fate scaldare un filo di olio in una casseruola, unite le lenticchie rosse, ben sciacquate, bagnate con poco brodo e lasciate cuocere a fuoco dolce per una decina di minuti, ma assaggiate, perché non devono stracuocere, unendo altro brodo bollente se necessario. Due minuti prima che siano pronte, unite il riso, mescolando bene. Regolate di sale e di pepe. Spegnete e lasciate riposare per dieci minuti. Nel frattempo, soffriggete in  filo di olio un paio di spicchi di aglio tritato e  cipollotti tritati finemente con  cucchiaio di cumino in polvere. Distribuite il riso nel piatto di portata, irroratelo con il soffritto e servite.


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A N I M azione E – Cooperativa Migros Ticino 23 LIBERO A V I D E V E L TEMPO I 17 18 N A R D O A N I C E 19 20 N E R A D S C E E 21 22 23 T più A spaventosa R Ndell’anno: E V Halloween! O S I Crea con noi ◆ Le scatoline per dolcetti, un perfetto bricolage in attesa della festa 24 25 E S I L E A G O A Giovanna Grimaldi Leoni Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXIV 25 ottobre 2021 13 14 15 16

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Le scatoline mostruose

(N 41 - In Germania, a Monaco di Baviera) 1

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R A I Gatto e Mummia Ritagliate le due basi nere dal A N A cartoncino. Per il gatto ritagliate e riportate i vari A pezzi sui colori desideratiTe incollateli con poca colla alla base. Per i baffi M Outilizzare N dello T spago E o come O potete in questo caso tagliare sottilmente O Oche potreteBan- I della D carta daI pacco arricciare un po’ con la lama delLlecheforbici. I T E O L Per la mummia tagliate a strisce di Icirca R A N G E cm un foglio di carta da cucina. Applicate C Ole strisce R sulla D base Acon la colla vinilica in modo irregolare, quando sarete soddisfatti del risultato e avrete quasi completamente coperto il fondo lasciate asciugare la colla e con le forbici tagliate la parte delle strisce che fuoriesce. AggiunLgete A P I L L O quindi due occhietti semovibili alla vostra mummia.

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la scatolina. Aggiungete gli occhietti semovibili e i tratti a penna. I N G

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(N 42 - La paura di guidare) Per tutti quei bambini che si apprestano a vagare mascherati chiedendo «dolcetto o scherzetto?» ma anche per quelli che festeggeranno la serata in casa e non vogliono rinunciare ai protagonisti di questa festa, i dolciumi. Un’idea bricolage molto semplice per trasformare con forbici e colla delle semplici scatoline craft in tanti personaggi mostruosi. Vampiro, pipistrello, Frankenstein, mummia, zucca o gatto, ad ognuno scegliere il proprio preferito o perché no, con un po’ di fantasia inventarne uno proprio.

1 2 3 4 5 Procedimento Stampate e ritagliate i cartamodelli 7 con i soggetti scelti. Li trovate online su www.azione.ch/tempo-libero/ 8 9 passatempi 10

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• Pennarello nero e bianco • Bastoncino di colla stick o colla vinilica • Confezione di occhietti semovibili • Stampante per cartamodello

A C U T A R (I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto e dracula SPipistrello A R A D A Bricolage o Migros do-it) Dracula nelle sue due sembianze. Procedete come per i soggetti preE C O S I R cedenti, l’unica differenza è che per RDracula I la base è data L dalUcoperchio P I Sul cartamodello G I Mummia U e Frankenstein ci sono due spazi vuoti per stesso della scatola. Non vi servirà poterlo quindi Etagliare T il relativo I Cquadrato O F fare. A N S Mostruoso Halloween a tutti! per ricoprirlo. DEdGiochi Rla“Azione” E mostruosa C I al2021 T A O A ecco tutta banda per - Ottobre Tutorial completo completo, volete creare il vostro perStefania Usonaggio L mostruoso? I VSargentini O E T A T azione.ch/tempo-libero/passatempi E R O E A N E L L O

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Zucca e Frankenstein Ritagliate la base con13taglierino e 12 righello seguendo i colori indicati (arancio la zucca e verde per 17 per18 Frankenstein). Riportate le piccole parti dei due 20 21 cartamodelli sul cartoncino nero quindi applicateli con poca colla alla 24 25 base che incollerete al coperchio del-

E N T E S A M U N I A S I R P A C O R R A • Scatoline craft da 75mm in Iconfezione E da 4pzV • Cartoncino A4 nero, bianco, Rarancio e verde C I •ERestiR di carta Bda pacco A • Forbici, taglierino, righello

Materiale

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(N 40 - Babirussa e vive in Indonesia) Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba 1 2 3 4 5 6 B Aregalo M B da I 50 N franchi I e una delle 2 carte con il sudoku 7 8

Giochi e passatempi (N 43 - ...ritenzione idrica favorisce l’adipe) Cruciverba

Se ti pesi e ti viene da piangere fallo, la… Trova il resto della frase a cruciverba ultimato leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 10, 6, 9, 1, 5)

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38. L’elmo di questo... nell’inno di Mameli 39. Persona responsabile VERTICALI 1. Né freddi, né ferventi 2. Crollo, distruzione 3. Vano, inutile 4. Pronome personale 5. Nome maschile 6. È un’arrampicatrice... 7. Un po’ di gusto 8. Colore giallo-rossiccio 9. Una di famiglia 10. Come comincia... finisce 12. Le iniziali dell’attore Insinna 14. Le iniziali dell’attore Redford

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ORIZZONTALI 1. Macinate 5. Esercizi commerciali 11. Carico di elettricità 12. Credito, stima 13. Nome femminile 14. Riso inglese 15. Le iniziali del noto Arbore 16. Pineta in Spagna 18. È maggiore nel cielo 21. Fu amata da Vasco de Gama 22. Un pasticcio in cucina... 23. La... precedono a tavola 24. Preposizione 25. Un gruppetto 27. Uno strato del nucleo terrestre 29. Antico nome romano 30. Assassinato per primo 31. Simbolo chimico del sodio 32. Hanno fegato da vendere 34. L’uomo inglese 35. Segnalazioni di reati alle autorità 37. Una frazione di dollaro

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R U M I T O Sudoku O T ARN Scoprite i 3 numeri IA VOI corretti A N I C da inserire S EC EVE nelle caselle T A R colorate. P EIS A

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27 17. Vendita all’incanto 19. Ostenta aristocrazia 20. Cibo tipico dell’Italia (N 42 - La paura di guidare) settentrionale 1 2 4 5 6 22.3 Annodatura ornamentale 7 23. Si colpiscono giocando a badminton 8 9 26. Porzioni di città 10 11 28. Seminare in Francia 12 13 29. Formano una muta 14 15 16 30.18Le iniziali dell’attrice Elia 17 19 31. Né in latino 20 21 22 23 33. L’attore Elizondo (Iniz.) 24 25 26 27 35. Le iniziali dell’attore Schwimmer 28 36. Su per gli29inglesi 37. Se è apostrofato esiste... 26

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N 4 V E L I E F I N A 5R D O 8 E RR A ID C 9 V O S I A RA G O O E 5 N E S F L 9 3 A I N TG ERN T I E O R A I S7 A M C A I O A N A U N I 8 N A AOS C I R H T A N T E O P A C5 O E N U N C E I O B I R R A 2V IE O TC EI O P L I9

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web (Nwww.azione.ch 43 - ...ritenzione idrica favorisce l’adipe) I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato del postale: la lettera o la T R Isulla T pagina E N Esito. G Partecipazione O Z I 12 11 indirizzo del partecipante cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si F I D U C I A I O N E intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non13è possibile un dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata 14 pagamento in contanti 15 E V A R I C E R A esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera. 16

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXIV 25 ottobre 2021

azione – Cooperativa Migros Ticino

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TEMPO LIBERO / RUBRICHE

Viaggiatori d’Occidente

di Claudio Visentin

Le frontiere di oggi ◆

Il battello si stacca lentamente dalla banchina di Lugano Giardino. Trotterella verso Paradiso scivolando lungo la riva, poi punta deciso verso il centro del lago. A bordo si parla tedesco e un poco di francese. Ogni passeggero, anche chi va per gli affari suoi, diventa turista. C’è il piacere infantile della navigazione e un punto di vista insolito sulla città, in dissolvenza dietro di noi. A Lugano si è molto demolito e altrettanto costruito, anzi le gru sono ancora all’opera, ben visibili. Gli edifici storici sono una rarità e molto del poco che è rimasto rimanda alla nascita del turismo, tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, a cominciare dalla cortina scenografica dei grandi alberghi. Mentre mi immergo in queste riflessioni, puntiamo decisi verso Porlezza, infilandoci nella strettoia tra le montagne. Poco oltre Gandria la linea del confine tra Svizzera e Italia corre invisibile sul filo dell’acqua. Non

è una rarità: il trenta per cento delle frontiere mondiali sono acquatiche. A volte sono piacevolmente indefinite: per esempio l’assenza di una frontiera riconosciuta tra Germania, Austria e Svizzera sul lago di Costanza non sembra preoccupare nessuno dei Paesi coinvolti. Ci sono frontiere diverse. Quella di Gandria per esempio è una frontiera politica, certo, ma non linguistica né culturale né religiosa. Ogni frontiera tra Stati crea un’economia, perché le differenze di prezzi sui due lati del confine offrono opportunità di guadagno, sia pure illegali, come ricorda il piccolo Museo doganale alle Cantine di Gandria, meglio conosciuto come il Museo dei contrabbandieri (ne ha parlato Barbara Manzoni sul numero  di «Azione» del  luglio ). Da qualche tempo l’Amministrazione Federale delle Dogane è tornata a gestirlo direttamente con personale proprio. Il nuovo allestimento è diretto ed efficace. Sonja, elegante nella sua divisa nera e blu,

Passeggiate svizzere

ha passato vent’anni a scovare merci nascoste nei camion in transito, ma adesso se la cava altrettanto bene coi visitatori. Racconta la storia del posto di confine e intanto parla anche del suo mestiere, dei cambiamenti in corso e delle prospettive future. «Le frontiere sono la mia prigione» cantava Leonard Cohen; «Chi se ne importa delle frontiere!» era uno slogan del maggio francese, nel . Niente di nuovo, artisti e intellettuali non hanno mai amato le frontiere, ma Sonja ha un’opinione diversa: parla di sicurezza, protezione, cura amorevole dell’isola che siamo, al centro dell’Europa. Mentre una parte dei Paesi dell’est vuole erigere muri, questo piccolo avamposto affacciato sul lago ci ricorda che le frontiere sono fatte per essere attraversate, sia pure in modo appropriato e rispettando la legge. E tuttavia legalità non è sempre sinonimo di giustizia, come mostra bene Henley Passport Index. L’idea è semplice ma efficace: creare una classifi-

ca dei passaporti sulla base del loro potere. Scopriamo così che i «migliori» sono quelli del Giappone e di Singapore. Permettono di entrare in  Stati (praticamente tutti) senza visto o con un visto all’ingresso ridotto a una pura formalità. Al secondo posto troviamo Germania e Corea del Sud (), poi Finlandia, Italia, Lussemburgo, Spagna (tutti a ), Austria e Danimarca (), Francia, Irlanda, Olanda, Portogallo, Svezia (). La Svizzera occupa un confortevole sesto posto (), insieme a Belgio e Nuova Zelanda. Insomma le porte del mondo sono spalancate davanti agli abitanti dei Paesi più ricchi, sia che vogliano muoversi per lavoro o per turismo; e i capitali neanche si accorgono delle frontiere. Ma tutto cambia quando consideriamo i Paesi meno sviluppati. Non mi sorprende, viste le recenti vicende, che gli afgani siano benvenuti solo in  Paesi. Ma è già meno evidente perché gli iraniani siano accolti senza visto solo in . Se la cava-

no appena un poco meglio Marocco () e Tunisia (), ovvero alcune delle mete favorite delle nostre vacanze. Come dire che il viaggiatore agiato è considerato a priori un turista, senza bisogno di prove, mentre chi viene dai paesi meno fortunati è subito sospettato di essere un migrante alla ricerca di un viaggio di sola andata. Com’era prevedibile il Covid ha rafforzato queste disuguaglianze, questo Global mobility divide, perché spesso i Paesi già in difficoltà non hanno neppure il vaccino «giusto», ovvero AstraZeneca (valido in oltre  Paesi) o Pfizer () rispetto a Sputnik () e Moderna (). Per questa ragione i primi della classe, i giapponesi, tengono fuori dalla porta di casa un centinaio di Paesi. Gli egiziani accettano tutti, ma sono accettati solo in  destinazioni. La sera scende presto sul Museo delle Cantine di Gandria, sovrastato dalla montagna. Ma ripartendo penso che c’è già un ottimo tema per il programma del prossimo anno.

di Oliver Scharpf

L’Alpineum di Lucerna ◆

Da sempre, non so perché, m’interessano le attrazioni desuete tipo orridi e panorami. Una di queste, a cui nessuno bada, è proprio di fronte al leone morente che attira sempre greggi di turisti. Il negozietto di souvenir e il bel bistrò omonimo nello stesso edificio, camuffano ancora di più la sua presenza. Eppure la scritta Alpineum, benché in parte sbiadita, campeggia sulla cupola della rotonda neoclassica. I bambù nei vasi – di un verdino spigliato, abbinato alla pietra arenaria olivastra e malinconica simile a quella nel centro storico di Berna – danno subito un tono gradevole a tutto l’edificio. Disegnato, verso il , da Othmar Schnyder (-) come museo del leone morente. Fallimentare il museo, lo compra il pittore paesaggista Ernst Hodel senior (). Assieme al figlio, Ernst Hodel

junior (-), pittore paesaggista pure lui, lo trasforma in un diorama delle Alpi inaugurato nel . Sedie da bistrò parigino, leggiadre, in bambù, intonate alle piante, sono disseminate intorno e seduto su una di queste, sorseggio un ottimo espresso doppio. Tralasciando i souvenir ingombranti all’entrata, il colpo di scena, sopra la cassa, è uno stambecco imbalsamato. Fra stucchi, con lo sfondo affrescato di cime aguzze, tra rocce vere, vive lo stambecco dell’Alpineum ( m) di Lucerna. Ingobbito, lo sguardo nei piedi, gareggia in tristezza con il più famoso leone. Crepacci e seracchi di un ghiacciaio del Monte Bianco, dipinti non senza abilità (credo dal Senior), illuminati nel buio teatrale, sono il primo scorcio dell’avventura fuori moda per pigroni. Un poggiabraccio che ricorda quelli dei palchetti all’opera, in similpelle color cognac,

Sport in Azione

acuisce la teatralità. Due alpinisti d’epoca di una cordata di tre, guardano me, l’unico spettatore. Il mio occhio ora scruta dentro uno stereoscopio ottocentesco: magicamente trovo altri tre avventurieri alpini di quei tempi. Il suono di grilli accompagna la vista dal Rigi: lago dei Quattro Cantoni, Bürgenstock, Pilatus e tutto il resto. Il faux terrain è composto da rocce, muschi, tronchi divelti, conifere rinsecchite. Ricorda un po’ l’ambientazione dei trenini Märklin. Del resto, casette in miniatura, modellini di treni, battelli a vapore, sono esposti in alcune vetrinette accanto ai primi due diorami dell’Alpineum ancora oggi a conduzione famigliare. È il pronipote del Senior e nipote del Junior, Daniel, a condurre l’Alpineum. Il nome, va detto, non è farina del loro sacco. Un Alpineum, creato da Maurice Andréossi (-) in rue du

Vieux-Billard a Ginevra, è esistito tra il  e il , mostrando, oltre a tre diorami alpestri, i film dei fratelli Lumière ed è considerato il primo cinema svizzero. Jodel adesso, terza tappa: il mare di ghiaccio della Jungfrau visto attraverso lo squarcio ferroviario del tunnel dove passa il trenino. Lo jodel, per fortuna, s’intreccia a un charleston, come sottofondo ai colori (Hodel junior mi sa, l’autore di uno dei dipinti panoramici nella hall della stazione di Basilea) dell’alba sul culmine del Pilatus. Una staccionata e prati con rocce sono il faux terrain del quarto paesaggio. Una musica da film proviene da dietro l’angolo, dove c’è il gran finale con tramonto dal Gornergrat. Un panorama circolare con Cervino eccetera, rocce a go go, marmotta impagliata. Colonne in legno, in scala reale, tipo baita, cercano di creare l’illusione

perfetta. Due stereoscopi in legno di ciliegio mi distraggono. Uno è intitolato da Parigi al Monte Bianco, l’altro da Roma al Matterhorn. Muovendo una manopola d’ottone sul fianco, si passa da una fotografia tridimensionale all’altra. Incredibile questa profondità illusionistica d’altri tempi: mi sembra di cadere dentro questi paesaggi. E così, tra meravigliose betulle stereoscopiche e stagni con fanciulle in posa, palme sui lungomari chissàdove, parchi francesi, rovine ateniesi, viaggio altrove. Ci voleva, dopo tutta questa alpitudine. La fuga massima, quando la musica strappalacrime di non so che film, jodel, corni delle alpi, charleston, grilli del Pilatus o del Rigi, mi mandano un po’ in tilt, è uno stereoscopio Holmes. Lo sguardo si rifugia nel vulcano La Grande Soufrière, sull’isola di Guadeloupe.

di Gianfranco Dionisio

Aggiungi un posto a tavola, che c’è un amico in più ◆

Al già ricco banchetto sportivo del Ticino si è aggiunta, da un paio di anni, anche la Pallamano. È strano, spesso incomprensibile, il modo in cui le discipline sportive si diffondono nelle varie regioni linguistiche del Paese. Dato per acquisito che gli sport più seguiti dal pubblico, e pensiamo al calcio e all’hockey su ghiaccio, sono praticati, anche ad alto livello, in ogni angolo del territorio, rimane un velo di mistero su molte altre discipline. Pensate ad esempio all’unihockey, che, pur senza il supporto di una mediatizzazione degna delle sue cifre, è la seconda disciplina sportiva nazionale per numero di praticanti, dopo la ginnastica. E pensare che si tratta di un’attività ancora relativamente giovane. Senza scomodare fenomeni di nicchia come l’Hornussen, ricordiamo che l’unica squadra svizzero tede-

sca a vincere un campionato svizzero maschile di pallacanestro fu l'Uni Berna e accadde nel . Dall’anno successivo, il basket, ai vertici, fu un affare esclusivamente romando e ticinese. Dal canto suo la pallavolo ha manifestato un maggior equilibrio, grazie a un ritorno in cattedra dei club svizzero tedeschi, dopo un lungo dominio romando. Ma che dire della pallamano? È una questione fra cantoni germanofoni, con rarissime concessioni oltre la Sarine. In Ticino? Chi l’ha vista, questa sconosciuta? Da un po’ di tempo, però la si intravede. A sud delle Alpi qualcosa si muove. Un mini-movimento, nato nel  a Bellinzona. Sull’onda di un doposcuola, una ventina di ragazzini ha scelto di praticare questo sport dinamico, veloce, dalle regole semplici.

Erano prevalentemente giovani che abbandonavano l’hockey o la pallacanestro, poiché non riuscivano a essere in sintonia con l’esasperazione e la selezione precoce che li contraddistingue. La politica dei piccoli passi, porta spesso a risultati lusinghieri. Sempre a Bellinzona è nata l’Associazione Pallamano Ticino, prima e unica nel Cantone e come tale funge, in forma ufficiosa, anche da Federazione, pur non essendolo. A reggerne le sorti tecniche c’è Antonio Marano, che a Vasto, in Abruzzo, è stato un ottimo giocatore e allenatore. È un uomo che infonde fiducia e motivazione. E i risultati non si sono fatti attendere. Il  settembre scorso, nella palestra della Scuola Arti e Mestieri, l’Under  bellinzonese ha dominato il primo torneo svoltosi su suolo cantonale. Quattro successi, in altrettan-

te sfide, contro avversari blasonati come Kriens, Stans, Altdorf e Goldau. In virtù della maggiore esperienza dei club confederati, la Federazione svizzera ha concesso ai nostri ragazzini e alle nostre ragazzine di sfidare rivali di mezzo anno più giovani. Ma dal primo gennaio tutto rientrerà nella norma. Di fronte a loro troveranno agguerritissimi avversari di pari età. Nel frattempo, non c’è ragione di credere che non sarà così, avranno acquisito ulteriore esperienza. È in atto un’azione promozionale negli istituti scolastici del settore primario e secondario. All’insegna del motto «La pallamano fa scuola», si cerca di allargare il bacino, trasmettendo i fondamentali di questo sport a un numero sempre maggiore di alunni. Nella Svizzera tedesca, il progetto «Handball macht Schule» è moneta

corrente da almeno quindici anni. Da noi, si spera che possa portare buoni frutti in tempi medi. Il Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport si è messo in gioco, stanziando fondi per l’acquisto del materiale, e per consentire ai docenti di educazione fisica di allargare la loro formazione anche alla pallamano. Un primo importante riscontro lo si avrà nella primavera del , quando andrà in scena il primo Torneo Interscolastico. Prima di cavalcare l’onda della gloria e degli onori olimpici – la pallamano è infatti inclusa nel programma a cinque cerchi – i partecipanti se la godranno. La parola d’ordine è «Giocare, crescere, divertirsi». Così facendo, senza dubbio, l’Associazione Pallamano Ticino, vedrà aumentare la sua forza numerica e il suo tasso tecnico.


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Anno LXXXIV 25 ottobre 2021

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Tra debolezze e missili Cosa c’è dietro la brusca frenata della crescita della Repubblica popolare cinese e quali possono esserne le conseguenze a livello internazionale?

Agnelli, un tesoro che pesa Nell’agguerrita lotta per l’eredità dello storico patron della Fiat emergono incomprensioni pluridecennali, grandi gelosie e voglie di rivalsa

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Tensione alle stelle in Libano In un Paese messo in ginocchio dalla crisi economica e sociale le armi tornano a farsi sentire. Nell’aria aleggia lo spettro della guerra civile

Prodotti industriali senza dazi Con un unico voto di scarto al Nazionale, le Camere federali hanno approvato una soppressione di dazi che costerà oltre mezzo miliardo in minori entrate

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Quei perdenti che mandano avanti il Paese

Il fenomeno ◆ Squid game, la serie televisiva sudcoreana che fa furore su Netflix, rappresenta le enormi diseguaglianze sociali, la competizione violenta e la rabbia che segnano le economie più sviluppate dell’Asia orientale (e non solo)

Giulia Pompili

Uomini perdenti, disperati e pronti a tutto. E dall’altra parte individui ricchissimi, senza freni, incapaci di guardare in basso, sotto di loro, e ubriachi di avidità. La Corea del sud ha conquistato il pubblico internazionale con libri, film e serie televisive che raccontano la società sudcoreana quasi sempre attraverso la lente delle diseguaglianze sociali. Ci sono gli ultimi – gli umili, quelli senza speranza – e poi i privilegiati. Pensiamo a Parasite, il film diretto da Bong Joon-ho entrato nella storia poiché è stato il primo, non in lingua inglese, a vincere agli Oscar del  come miglior film in assoluto (in quell’occasione si è accaparrato anche i riconoscimenti per la miglior regia e la migliore sceneggiatura originale). Un successo straordinario insomma. Così la storia della famiglia Kim (padre, madre e due figli adolescenti) – che vive di espedienti dentro un banjiha, i tipici seminterrati di Seul, e si ritrova a odiare una famiglia di ricchi e a volersi appropriare di quell’agio – è diventata universale.

Oltre 450 persone vengono scelte per competere in alcuni giochi, possono vincere denaro o morire in maniera atroce Più o meno lo stesso è successo ai giochi per bambini che diventano mortali di Squid game (letteralmente Il gioco del calamaro), la serie televisiva più vista della storia dello streaming. Il regista Hwang Dong-hyuk – nato e cresciuto a Seul – l’aveva scritta nel , ma è solo lo scorso anno che Netflix ha deciso di acquistarla e produrla. La trama è molto simile a quella di altri fenomeni internazionali, da Battle royale a Hunger games. Più di  persone – i «perdenti», li definisce il regista – vengono scelte per competere in alcuni giochi tradizionali. Chi vince può arrivare a ottenere molti soldi. Chi perde muore, in maniera atroce. Ai concorrenti vengono fatte sapere subito le regole, e ce n’è una in particolare che si rivela fondamentale per capire il messaggio della serie: si può uscire dal gioco, se la maggioranza lo decide. Solo che quasi nessuno vuole farlo. L’allegoria, è stato scritto così su tutti i giornali internazionali, è quella del capitalismo, della necessità di fare soldi a tutti i costi ma, dal punto di vista dei Paesi asiatici, in quella sceneggiatura c’è molto di più. C’è soprattutto un problema politico dietro a Squid game. Le diseguaglianze, la rabbia, il cosiddetto «ascensore sociale», la competizione, sono tutti temi della vita quotidiana delle economie più sviluppate dell’A-

sia orientale. Dalla Corea del sud a Taiwan, dal Giappone a Hong Kong, fino a Singapore e alla Cina continentale, nell’immaginario collettivo chi non riesce ad avere successo è condannato a una vita mediocre. Da tempo ormai la classe politica sudcoreana s’interroga su questi temi, anche perché questa competizione ha portato il Paese a un triste primato: il più alto tasso di suicidi tra i giovani.

I giocatori di Squid game sono tenuti costantemente sotto controllo da alcune guardie vestite di rosso. (Keystone)

Nell’immaginario collettivo dell’Asia orientale chi non riesce ad avere successo è condannato a una vita mediocre Il presidente in carica, il democratico Moon Jae-in, ex avvocato dei diritti umani, nel  fece la sua campagna elettorale e vinse anche grazie alle promesse fatte di riforma del sistema economico e di accesso al welfare. Aveva convinto l’elettorato più giovane che avrebbe costruito una società «più equa e giusta». Ma alla fine del suo mandato, che scade a marzo del , non molto è stato fatto. Alle elezioni amministrative per scegliere il sindaco di Seul, nell’aprile scorso, il Partito democratico è stato battuto dai conservatori: secondo i sondaggi, la maggioranza di chi non ha dato fiducia alla sinistra guidata da Moon non lo ha fatto perché insoddisfatto dalla strategia di contenimento della pandemia (come pure è avvenuto in varie parti del mondo) ma per le mancate riforme sul mercato immobiliare. La casa è un fattore fondamentale per interpretare le diseguaglianze sociali in Corea del sud. Negli ultimi quattro anni il prezzo medio di un appartamento di  metri quadrati a Seul è aumentato da  mila a oltre un milione di dollari, che corrisponde a  volte lo stipendio medio annuo di un cittadino. Sebbene gran parte della popolazione sudcoreana viva nell’area metropolitana della capitale, fuori la situazione non è migliore. Nella tradizione del Paese, all’interno di una coppia è la donna a pagare per il matrimonio però l’uomo deve provvedere ad acquistare l’appartamento dove vivrà la famiglia. Una missione impossibile per i giovani appena usciti dall’università, che sono costretti a indebitarsi per tutta la vita oppure a vivere in affitto. E se in questo gioco infernale qualcuno perde qualcosa, la conseguenza è il seminterrato, quello in cui vive la famiglia di Parasite. Il nuovo candidato del Partito democratico, che vuole arrivare alla presidenza alle elezioni del  marzo prossimo, si chiama Lee Jae-myung, ha  anni, è il governatore della provincia

di Gyeonggi, poco sotto l’area della capitale Seul. Per vincere le primarie ha fatto una campagna elettorale tutta dedicata alla giustizia sociale: più case popolari, con prezzi fissati, un reddito universale di base, più tassazione per i ricchi. Qualche anno fa si era definito un «Bernie Sanders di successo», riferendosi al leader americano della sinistra più socialista. La sua storia personale parla molto di lui: è nato da una famiglia poverissima, con sei fratelli, senza poter frequentare le medie e le superiori perché i genitori non potevano permettersi di mandare tutti a scuola. Studiò da so-

lo, sostenne gli esami, entrò all’università e divenne avvocato giuslavorista. Finora sta raccogliendo parecchio supporto soprattutto tra gli scontenti, quelli che accusano la politica di occuparsi di problemi poco reali: Lee ha già promesso che ridurrà il divario tra ricchi e poveri, e che riformerà i «chaebol», i colossi industriali a conduzione familiare che bloccano l’economia sudcoreana, non producono ricchezza e creano diseguaglianze. Ma molti lo accusano di essere un populista, senza una vera ricetta di riforme. Per cambiare la società sudcorena non basta l’assistenzialismo, dicono all’opposi-

zione, bisogna trasformare il Paese. Che nel frattempo però è sempre più arrabbiato e insoddisfatto. La serie Squid game è costruita come dovrebbero essere fatte le serie per diventare virali. Le luci, la fotografia, l’ambientazione, i costumi: tutto è già pronto per essere pubblicato su Instagram, per essere trasformato in gadget promozionali, meme e immaginette da social network, travestimenti per la festa di Halloween. Per il pubblico internazionale è un romanzo a tinte dark di cui ridere, per alcuni sudcoreani è la rappresentazione dei perdenti che mandano avanti il Paese.


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Tra frenate della crescita e provocazioni militari

L’analisi ◆ La debolezza di Pechino è interna: dalla contrazione della domanda allo shock energetico, passando per la bancarotta strisciante di Evergrande. Mentre sullo sfondo appare un missile ipersonico e si intensificano le minacce rivolte a Taiwan Federico Rampini

La crescita cinese rallenta bruscamente: cosa c’è dietro questa frenata, e quali possono esserne le conseguenze mondiali? Il dato del terzo trimestre segna +,% di aumento del Pil, e sarebbe ragguardevole nelle economie sviluppate dell’Occidente, ma è una delusione ed è inferiore alle aspettative per Pechino. Tra l’altro siamo «noi» a salvare la Cina da una frenata molto peggiore, perché abbiamo aumentato le nostre importazioni di prodotti made in China. L’attivo commerciale di Pechino verso il resto del mondo sale al livello record di  miliardi di dollari in un solo trimestre e rappresenta il % del Pil. Sia l’America che l’Europa hanno accresciuto la propria dipendenza dai prodotti cinesi e così facendo hanno sospinto la crescita della Repubblica popolare. La debolezza cinese quindi è tutta interna, in particolare è in ritirata la domanda domestica fatta di consumi e investimenti. Xi Jinping è ancora troppo dipendente dal traino delle esportazioni, malgrado il suo obiettivo proclamato di una «circolazione duale» cioè un’economia che abbia due motori, le vendite all’estero e i consumi interni. Ancor più dell’Europa, la Cina è vulnerabile allo shock energetico in corso. In parte lo ha scatenato lei, con la ripresa di attività post-lockdown. Il boom di consumi elettrici necessari per far funzionare «la fabbrica del pianeta» si è riverberato su tutte le fonti di energia e in particolare quelle fossili: carbone, petrolio e gas naturale hanno subito forti rincari proprio per effetto della domanda cinese. Poiché la Repubblica popolare non è autosufficiente in materie prime energetiche, la tensione sui prezzi è mondiale. Quando l’alleanza tra Opec e Russia gongola perché i prezzi degli idrocarburi ri-

salgono, i primi a soffrire sono proprio i cinesi, ancora dipendenti da un «capitalismo carbonico». Xi Jinping è ancora a metà del guado nella sua transizione energetica: da un lato punta a dominare le auto elettriche, le batterie, il solare e l’eolico; d’altra parte nell’immediato paga una bolletta energetica colossale il cui rincaro frena la crescita. Alcune fabbriche sono state costrette a razionare la produzione per non incorrere in blackout elettrici e questo ha contribuito al dato deludente sul Pil da luglio a settembre. Xi deve prendere atto che la transizione verso la sostenibilità richiede delle tappe intermedie, tra cui un riequilibrio in favore del gas naturale e a scapito di carbone e gasolio per il riscaldamento urbano. Ma la riconversione del riscaldamento urbano nelle metropoli costiere più ricche, da Tianjin a Pechino, da Shanghai a Guangzhou e Shenzhen, aggiunge annualmente  milioni di abitazioni all’utenza mondiale del gas naturale, cioè l’equivalente di Olanda più Belgio ogni anno. L’irruzione di questa domanda è una delle ragioni per cui si abbatte un rincaro poderoso sulle bollette della luce di tanti utenti europei. Un’altra frenata alla crescita cinese l’ha imposta lo stesso Xi Jinping. Il presidente, nonché segretario generale del Partito comunista, ha deciso di purgare la seconda economia mondiale dalle bolle speculative. La più grossa e pericolosa si trova nel mercato immobiliare. La bancarotta strisciante del colosso Evergrande è uno dei tanti episodi provocati dalle nuove restrizioni di Pechino, che tentano di porre fine a decenni di finanza allegra, cattedrali nel deserto, piramidi debitorie, catene di Sant’Antonio e illeciti di vario tipo. Ma questo settore immobilia-

Un cartellone nella provincia di Gansu: Xi Jinping e lo slogan «Sogno cinese, sogno spaziale». (Keystone)

re artificiosamente gonfiato dalla speculazione ha contribuito per il % alla crescita del passato e sgonfiarlo non è un’operazione indolore. Molti investitori tifano per un ritorno al passato, sperano cioè che Xi si ricreda e torni ad agire a sostegno della crescita con robuste manovre di spesa pubblica. Il leader è sicuramente combattuto, tirato per la manica da diverse lobby interne. Nell’opacità del suo sistema finanziario, Pechino ha allevato tanti mostri simili a Lehman Brothers o alla montagna di mutui subprime che fecero crollare Wall Street nel . Finora ha tenuto duro nel voler risanare quel marciume, ma il prezzo che rischia di pagare è grande. La crescita elevata dell’ultimo trentennio ha garantito alla nomenclatura comunista un vero consenso sociale, sia pure «aiutato» dalla censura del dissenso e dai metodi autoritari contro le lotte operaie. L’ul-

tima volta in cui Pechino fu investita da gravi turbolenze economiche e da una fortissima inflazione che provocarono diffuso malcontento e proteste, fu all’epoca dell’occupazione di Piazza Tienanmen nel . La crisi successiva, «l’asiatica» del , fu curata con un mix di spese pubbliche faraoniche, rigidi controlli sui movimenti di capitali ed espansione sui mercati globali. Oggi i margini di manovra su tutti quei fronti si sono ridotti. La coincidenza tra questa frenata della crescita, le provocazioni militari sui cieli di Taiwan, e il lancio di un missile ipersonico in grado di colpire gli Usa con testate nucleari, fa temere un nuovo tipo di scenario: una Cina che esporta la sua crisi con la valvola di sfogo della tensione militare. Per quanto riguarda il missile ipersonico il test è avvenuto ad agosto, anche se la fuga di notizie sui media oc-

cidentali si è verificata con due mesi di ritardo. La natura di questo vettore è tale da rendere di colpo meno solide tutte le difese anti-missili che proteggono il territorio degli Usa. È come se di colpo l’Oceano Pacifico fosse diventato più stretto. Il segnale che Pechino ha mandato a Washington con questo test si collega anche al futuro di Taiwan. Se la Repubblica popolare dovesse lanciare un’invasione militare, e se gli Stati uniti decidessero di venire in soccorso a Taiwan, la risposta cinese potrebbe non risparmiare lo stesso territorio americano. La dottrina ufficiale di Pechino dice dal  che Taiwan è una provincia ribelle destinata a tornare nell’alveo della madrepatria. La differenza è che oggi i rapporti di forze militari sono favorevoli ad un atto di forza di Pechino. L’unica «democrazia cinese» del pianeta rischierebbe di fare la fine di Hong Kong.

Le vecchie vie del terrore

Prospettive ◆ Lungo la Belt and road initiative o Nuova via della seta, iniziativa strategica cinese per il miglioramento dei collegamenti commerciali con gli altri Paesi dell’Eurasia, dilagano le violazioni dei diritti umani

Francesca Marino

In principio è stato il Tibet. Il Tibet vittima di un genocidio culturale e in molti casi anche fisico. Il Tibet con i suoi Lama rapiti e mai più visti, con una composizione demografica alterata da immigrazioni più o meno forzate che rende difficile, sempre di più, mantenere vive lingua, tradizioni e religione. Poi, dapprima in sordina e negli ultimi anni in modo sempre più sistematico, violento e sfacciato, è stata la volta dello Xinjiang. Gli abitanti della regione, uiguri di religione musulmana, sono vittime non soltanto di un genocidio culturale, ma di sterilizzazioni di massa, campi di rieducazione, esecuzioni extragiudiziali e arresti arbitrari. Qualche migliaio di chilometri più in là, nel Belucistan illegalmente occupato dal Pakistan nel , la situazione si ripete da anni con varianti minime: sparizioni forzate, esecuzioni extragiudiziali, fosse comuni, genocidio culturale e fisico sono la norma. Qual’è il comune denominatore? La Cina. La Cina e il suo progetto di «connettività globale» battezzato Belt and road initiative o Bri (la Nuova via della seta, iniziativa per il miglioramento dei collegamenti commerciali con gli altri Paesi dell’Eurasia). Un progetto di stampo imperialistico modellato sulla vecchia East India com-

pany, che vede agli ingegneri e agli operai seguire da presso i militari per «proteggere gli interessi cinesi». Lungo la Bri non corrono però soltanto ferrovie e autostrade ma, parafrasando il titolo di un vecchio romanzo, corre anche il terrore. E le violazioni dei diritti umani. Secondo attivisti locali, ci sarebbe lo zampino della Cina anche dietro il genocidio dei rohingya, ad esempio. Le terre abitate dai rohingya sono difatti parte essenziale dei progetti cinesi di «sviluppo e connettività». E Pechino, come da copione, non vuole avere nulla a che fare con conflitti di tipo etnico-religioso. Che possono essere risolti con la corruzione o, quando questa fallisce, seguendo l’ormai impareggiabile modello del Tibet e dello Xinjiang, del Belucistan e del Myanmar. La prima e più famosa porzione della Bri è il China Pakistan economic corridor (Cpec), che va appunto dallo Xinjiang fino al porto di Gwadar in Belucistan disperdendosi all’interno del Pakistan in diversi rivoli e sotto-branche. Passando per il Gilgit-Baltisan, altra regione illegalmente occupata che era un tempo parte del regno del Kashmir. La Bri passa poi per il Kashmir occupato dal Pakistan, dove la popolazione è preda di integra-

listi islamici e terroristi, e arriva fino al Belucistan. La regione più ricca di risorse minerarie del Pakistan, e anche quella più misera in termini di reddito pro-capite. Il % dei beluci vive sotto la soglia di povertà. Gran parte dei suoi abitanti non ha accesso né all’elettricità né all’acqua potabile o al gas e in gran parte della regione non ci sono scuole né ospedali. Non solo. Secondo Amnesty international: «I gruppi e gli individui presi di mira dalla pratica delle sparizioni forzate in Pakistan includono persone provenienti dal Sindh, dal Belucistan, individui di etnia

Un treno merci in partenza da Shenzhen, nella Cina sud-orientale, e diretto in Asia centrale. (Shutterstock)

Pashtun, membri della comunità sciita, attivisti politici, difensori dei diritti umani, membri e sostenitori di gruppi religiosi e nazionalisti, sospetti membri di gruppi armati e religiosi banditi dal Governo e organizzazioni politiche». E, aggiunge la Defense of human rights: «La maggior parte di questi casi è stata registrata nelle Federally administered tribal areas, nelle Provincially administered tribal areas, nel Khyber Pakhtunkhwa, in Belucistan e nel Sindh». Tutte le regioni, cioè, protagoniste del Cpec. Tutti gli attivisti sono concordi nel dichiarare che alle spalle degli assassini di Stato guidati dall’intelligence pakistana (Isi) si trovano i servizi segreti cinesi, che regolarmente interrogano quelli che l’Isi preleva e che occupano, militarmente e commercialmente, con la scusa del Cpec le regioni che dovrebbero «sviluppare». La strategia del «guerriero-lupo» inagurata da Pechino non contempla remore etiche o morali. Volenti o nolenti, visto che sono strangolati dai debiti, i Paesi già parte della Bri non possono fare altro che adeguarsi. Specialmente quando, come nel caso del Pakistan o del Myanmar, le istanze cinesi si saldano a regimi già pesantemente compromessi e di fatto dittatoriali. Tramite il Pakistan la Ci-

na si è già accordata anche con i talebani per proseguire la sua Belt and road. Tutti sono consapevoli di ciò che succede, ma tacciono o sono conniventi. Come ha dimostrato l’avvocata Emma Reilly, che ha lavorato nell’Alto commissariato per i diritti umani (Unhcr) di Ginevra e ha denunciato la connivenza tra funzionari dell’Unhcr e rappresentanti della locale ambasciata cinese. In pratica Reilly, producendo documenti ed email, ha accusato l’ufficio dell’Unhcr di passare all’ambasciata cinese nomi e indirizzi di dissidenti, uiguri e non solo, che si sarebbero recati a testimoniare davanti alla Commissione per i diritti umani. I dissidenti e le loro famiglie sarebbero stati quindi intimiditi, arrestati e in alcuni casi torturati. Secondo Reilly questo «trattamento di favore» da parte dei funzionari alla commissione era riservato soltanto a Pechino. Resta però il fatto che, dietro pressioni cinesi, anche molti dissidenti o richiedenti asilo beluci si sono visti ritirare il permesso di testimoniare o si sono visti negare l’asilo politico. E che da almeno vent’ anni gli uiguri e i beluci, sia a Bruxelles che a Ginevra, testimoniano del trattamento che gli è riservato dalla Cina e dal Pakistan. Senza risposta alcuna.


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Il tesoro Agnelli e le faide di famiglia

Nostalgia a sinistra, sbaraglio a destra

Alfio Caruso

Alfredo Venturi

Keystone

Cartoline d’Italia ◆ Uno sguardo sull’intricata vicenda dell’eredità del patron della Fiat e di sua moglie Marella, a cavallo tra Svizzera e Italia

Le leggi svizzere potrebbero aiutare John Elkann (nella foto) a restare l’uomo più ricco d’Italia e uno dei più ricchi del pianeta. Dipende dall’ultimo, temerario assalto giudiziario di sua madre Margherita de Pahlen, figlia di Gianni Agnelli e sulla carta unica erede, dopo il suicidio del fratello maggiore Edoardo nel , a  anni. Le sue residue speranze di poter accedere all’enorme patrimonio risiedono nel poter dimostrare che la residenza abituale della madre Marella – moglie di Agnelli – non fosse la Svizzera bensì l’Italia. In tal caso tornerebbe in ballo l’intera eredità. Non soltanto quella del padre, per mezzo secolo dominus della Fiat, ma anche quella della genitrice. A Marella Agnelli viene attribuito un patrimonio di , miliardi di euro (secondo i «Panama papers») più , miliardi di euro in oro. Si tratta dell’«oro del Senatore», quello che Gianni Agnelli avrebbe ricevuto nel  alla morte di suo nonno. Riguarderebbe i profitti derivanti dalle forniture Fiat per la prima e la seconda guerra mondiale. Questo presunto deposito ammonterebbe a  tonnellate. Dopo essere state spostate da Basilea, dove le custodiva il vecchio Agnelli, adesso sarebbero nel «free port» dell’aeroporto di Cointrin a Ginevra. Nel caveau, oltre agli innumerevoli lingotti, sarebbero accatastate opere d’arte per un valore di oltre dieci miliardi di dollari. L’intricata vicenda comincia con la morte di Gianni Agnelli nel . Quando diventa ufficiale la scelta di John, figlio del primo marito di Margherita, il giornalista scrittore Alain Elkann, alla testa del casato. Nel  Margherita, in cambio di un miliardo e  milioni, comprensivi anche d’immobili e opere d’arte, accetta di cedere alla madre Marella i suoi diritti in Dicembre, la quasi sconosciuta piccola società detentrice dei beni di famiglia. Per adempiere la volontà di Gianni, con cui era stata sposata per mezzo secolo, Marella Agnelli fa convergere la propria eredità su John, che così si ritrova a possedere il % di Dicembre, mentre il fratello Lapo e la sorella Ginevra si dividono il restante %. In tempi recenti Margherita ci ha ripensato ritenendo che nell’accordo del  le fosse stato nascosto gran parte del tesoro accumulato dal padre. Di conseguenza ha intrapreso azioni

giudiziarie in Svizzera e in Italia. Con la morte di Marella nel  il nocciolo della vertenza poggia sulla sua residenza svizzera: secondo Margherita era soltanto di facciata essendo Torino il domicilio abituale. Se i tribunali stabiliranno che Marella risiedeva davvero in Svizzera, per la legge elvetica verrà confermata l’intesa siglata nel . Se, invece, venisse stabilita la prevalenza di Torino, sarebbe applicata la successione secondo la legge italiana con annullamento dell’accordo del . Di conseguenza Margherita potrebbe chiedere l’annullamento dell’atto di divisione e rimettere in discussione la proprietà di Dicembre.

Le leggi svizzere potrebbero aiutare John Elkann a restare l’uomo più ricco d’Italia e uno dei più ricchi del pianeta In quest’aspra contesa balla un tesoro rilevante, tuttavia traspaiono pure incomprensioni pluridecennali, gelosie, voglie di rivalsa. Marella aveva scarsa simpatia per il conte russo-francese Serge de Pahlen, secondo marito di Margherita, la quale l’ha accusata di avergli messo contro un figlio (John), di aver preferito i tre nipoti Elkann ai cinque nipoti de Pahlen. Per di più Margherita aveva cullato l’illusione che alla morte del padre il suo ruolo nella piramide familiare fosse assunto da de Pahlen. Trovò tutte le porte sbarrate. Anzi nel  de Pahlen, dirigente Fiat per Brasile, Francia e Russia, fu licenziato da John con una fredda letterina. Rapporti dunque deteriorati al punto da indurre Margherita a disertare il battesimo del nipote Leone Mosè, primo figlio di John Elkann e Lavinia Borromeo: d’altronde, era già stata esclusa l’anno prima dalle partecipazioni delle nozze. Con John, Lapo e Ginevra la madre ormai si parla attraverso gli avvocati; con Elkann, il primo marito schierato ovviamente con i figli, è subentrato un astio crescente. Margherita sostiene di battersi per i diritti della prole avuta da de Pahlen. Nel farlo non ha esitato a portare alla luce gli enormi capitali depositati all’estero del padre. In tal modo si era inimicata la madre e tutta la vecchia guardia dei pretoriani: le imputarono di aver sporcato l’immagine dell’Avvocato, così

era chiamato Gianni Agnelli, benché fosse soltanto dottore in legge. In effetti il suo glamour ne è uscito alquanto offuscato: accanto alle indiscutibili qualità, anche il discutibile primato di figurare tra i massimi evasori fiscali del Paese. L’indagine del  dell’agenzia delle entrate sulla detenzione di un miliardo e mezzo di euro nei paradisi fiscali di Svizzera e Lussemburgo è stata chiusa con il pagamento di  milioni da parte di Marella e di Margherita. Noccioline in confronto alle cifre in gioco. John Elkann controlla una galassia che attualmente capitalizza in borsa quasi  miliardi con rilevanti margini di crescita già nel breve periodo. Lo fa con una quota di azioni della Dicembre che valgono oltre  milioni. Fino all’offensiva di Margherita Agnelli, la Dicembre si mostrava come un’anonima, ininfluente accomandita destinata al piccolo cabotaggio familiare. Alla scorsa primavera riportava ancora i nominativi di soci defunti quali Marella Agnelli, Gianluigi Gabetti, Cesare Romiti. Eppure nel  il Governo di Giuseppe Conte ha autorizzato con garanzia dello Stato un prestito da , miliardi a Fca, l’ex Fiat, senza sapere ufficialmente chi fossero i detentori di una quota rilevante del capitale sociale. Una società fantasma, definita «inattiva» dalla stessa Camera di commercio di Torino. Al contrario è un forziere pieno di perle preziose. La Dicembre è infatti il maggiore azionista col % circa della Giovanni Agnelli Bv, società di diritto olandese dove per legge i voti in assemblea valgono doppio, di conseguenza Elkann è il dominus indiscusso. La Giovanni Agnelli Bv detiene il % di Exor, altra società di diritto olandese e quotata in Borsa. Exor è la holding del variopinto e numeroso clan, che controlla il ,% di Stellantis (nata dalla fusione tra Fiat, Chrysler e Peugeot), il ,% di Ferrari, il ,% di Cnh Industrial (camion e trattori), il ,% della Juventus e il % di Partner Re, gruppo riassicurativo con sede alle Bermuda. A essi si aggiungono il % del settimanale britannico «Economist», il % di Gedi («la Repubblica», «la Stampa», «il Secolo XIX» e numerosi quotidiani locali). Tradotto in cifre:  miliardi le quote delle controllate in Borsa,  miliardi il % di Exor, un miliardo il settore dei media. Dunque ce n’è motivi per litigare.

Roma ◆ Riflessioni dopo il voto di ballottaggio per le Amministrative nella vicina Penisola

E ora, in Italia, che si fa? Dopo il voto di ballottaggio per le Amministrative, che ha coinvolto alcune grandi città come Roma e Torino, le valutazioni e le conseguenti iniziative sono al centro dell’attenzione sia fra i vinti, come il Movimento  stelle e i partiti di destra e centro-destra, sia fra i vincitori, il Partito democratico e i suoi alleati. Tanto per cominciare c’è un dato che riguarda tutti: ha votato meno della metà degli elettori, chiaro segnale di una disaffezione per la politica a livello d’allarme. Una volta l’Italia votava compatta, specie quando era in ballo la scelta dei sindaci e delle Amministrazioni comunali. Un po’ meno alle politiche, l’ultima volta, nel , l’affluenza sfiorò il %: il dato più basso della storia repubblicana, eppure nettamente superiore al % di queste elezioni. Non a caso Matteo Salvini prova a consolarsi ironizzando sui «quattro gatti» che hanno eletto molti sindaci. Ma non può dimenticare che l’accesso ai seggi era garantito anche ai suoi seguaci. Perché non sono andati a votare o hanno portato altrove il loro voto? Il dito sulla piaga lo mette Giorgia Meloni, leader dei Fratelli d’Italia, un altro partito ridimensionato dagli elettori ma che conserva sia il vantaggio sugli alleati-rivali della Lega, sia la preminenza nazionale nei sondaggi. Secondo Meloni la sconfitta dipende dal fatto che il centro-destra si è presentato al voto disunito e rissoso. Ma come poteva essere diversamente visto che due dei componenti dello schieramento, Forza Italia e Lega, partecipano più o meno volentieri al Governo di Mario Draghi mentre il terzo, FdI, è all’opposizione? FdI restano il più forte fra i partiti della destra, per questo chiedono che si proceda al più presto all’elezione del presidente della Repubblica, poiché il mandato di Mattarella sta per scadere, e poi il nuovo capo dello Stato sciolga il Parlamento e indica le elezioni con un netto anticipo rispetto alla scadenza fisiologica della legislatura nella primavera del . Dopo la batosta, Salvini non ha fretta di votare, prende tempo, annuncia che non farà cadere Draghi, che cioè i suoi ministri resteranno nell’attuale Governo. Confida invece che gli converrebbe andare al voto un euforico Enrico Letta, l’ex presidente del Consiglio che ora guida il Pd: un risultato elettorale così favorevole, dice, potrebbe indurci a chiedere le elezioni anticipate. Ma non lo faremo, aggiunge, perché la tenuta di questo Governo è nell’interesse nazionale. Travolto dall’entusiasmo per un successo oltre ogni aspettativa, in particolare per i risultati di Roma e Torino dopo che al primo turno il centro-sinistra aveva confermato il predominio a Mila-

no, Napoli e Bologna, Letta non esita a parlare di «vittoria trionfale» mentre un impassibile Draghi prosegue la sua azione volta al rilancio dell’economia, alla definizione del piano di ripresa e resilienza finanziato dall’Ue, alle riforme fiscali e giudiziarie, alla gestione di quella che ci si augura sia la fase terminale della pandemia. Che cosa si profila dunque sull’inquieto orizzonte della politica italiana? Riusciranno i partiti a riconquistare un po’ della fiducia perduta? E con quali prospettive per le elezioni parlamentari? Comunque vada, da quelle elezioni usciranno Camere molto diverse dalle attuali, che rispecchiano un voto di protesta a tutto vantaggio del Movimento grillino oggi sul viale del tramonto. Nel centro-sinistra si respira un’aria di nostalgia per l’Ulivo, il fronte progressista che a suo tempo portò Romano Prodi a Palazzo Chigi. La sera del voto lo stato maggiore del Pd si è avvicendato sul palco per celebrare la schiacciante vittoria di Roberto Gualtieri, nuovo sindaco di Roma. Quel palco lo avevano eretto in Piazza dei Santi Apostoli, dov’era la sede dell’Ulivo di Prodi. Ma per resuscitare quella esperienza non basta che Gualtieri riesca davvero a «far funzionare Roma», impresa di per sé complicata. C’è un’esigenza supplementare: che i potenziali alleati del Pd, da Matteo Renzi a Carlo Calenda fino a Giuseppe Conte, l’ex presidente del Consiglio che guida ciò che resta dei Cinquestelle, diano prova di una lealtà che non tutti nel partito di Letta sono disposti a considerare parte del loro Dna. Sul fronte opposto il centro-destra intende rappresentare un’Italia profonda che, come confermano i sondaggi, è molto più conservatrice della componente metropolitana. Dunque dovrà evitare gli errori che l’hanno portato al disastro. Come le sbandate populiste e sovraniste, le polemiche anti-europee, le strizzatine d’occhio a impresentabili frange neofasciste, le ambigue aperture verso i no-vax. Non a caso si è rifatto vivo Silvio Berlusconi, fautore di un centro-destra moderato. È vero che Forza Italia ha condiviso la sconfitta, e da tempo ha perduto punti nelle graduatorie del consenso: ma è accaduto anche perché condizionato dai suoi capricciosi alleati. Toccherà a questa destra moderata il compito di tenere a freno gli imprevedibili soci, provare ad allargarsi al centro (Calenda, Renzi?) e mettersi nella condizione di affrontare un centro-sinistra rivitalizzato dalla conquista di Roma e Torino. Come andrà a finire? Dipenderà da quanti voteranno, non solo da come. Il futuro è nelle mani degli elettori e non soltanto, come dicevano gli antichi, sulle ginocchia di Zeus. Da sinistra: Enrico Letta, il nuovo sindaco di Roma Roberto Gualtieri e Nicola Zingaretti che celebrano la vittoria in Piazza dei Santi Apostoli. (Shutterstock)


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Beirut e lo spettro della guerra civile

Il punto ◆ La tensione è altissima in Libano, messo in ginocchio dalla pesante crisi economica e sociale. Hezbollah e Amal mostrano i muscoli e sembrano disposti a tutto pur di non perdere il predominio politico e finanziario oltre al sostegno dell’Iran

Francesca Mannocchi

La tensione è tornata altissima a Beirut. Il  ottobre scorso la capitale libanese è stata teatro di scontri a fuoco durante una manifestazione dei movimenti sciiti Amal e Hezbollah indetta contro il giudice Tarek Bitar, titolare delle indagini sulla violenta esplosione di  tonnellate di nitrato d’ammonio che il  agosto  ha ucciso oltre  persone, ferendone  e distruggendo interi quartieri della città. Durante gli scontri armati – durati più di quattro ore – sono morte sei persone e circa trenta sono state ferite, alcune in modo grave. Tra le vittime una ragazza di  anni colpita alla testa da un colpo vagante mentre era sul balcone di casa a stendere il bucato. La manifestazione era stata organizzata per ribadire la posizione di Hebzollah e Amal contro le indagini, già interrotte due volte in pochi mesi e che, proprio la mattina della manifestazione, il giudice Bitar era stato autorizzato a riprendere. I due movimenti politici avevano radunato i loro sostenitori davanti al Palazzo di giustizia di Beirut per chiedere la cessazione di quella che hanno definito una «politicizzazione della giustizia». In verità, come sottolineano i cittadini e soprattutto i parenti delle vittime dell’esplosione, né Amal né Hezbollah vogliono che emergano i nomi dei responsabili legati ai loro movimenti che erano coinvolti nella sicurezza del porto, e il corteo è parte della strategia di Hezbollah per sottrarsi alle responsabilità dei crimini commessi e tentare di intimorire l’opinione pubblica.

Il Paese ha disperatamente bisogno di aiuti internazionali visto la terribile crisi economica in cui versa da anni La manifestazione è stata la prova muscolare, armata, che Hezbollah può controllare non solo i suoi sostenitori ma gli equilibri del Governo e della vita parlamentare. Gli scontri armati sono infatti l’altra faccia delle minacce politiche, quelle di boicottare il Gabinetto di Najib Mikati insediatosi, dopo  mesi di stallo, lo scorso  settembre. I ministri di Hezbollah hanno infatti minacciato di ritirarsi dal Governo se il giudice Bitar non verrà rimosso dalle indagini. Nella rigida spartizione confessionale del potere in Libano, se la rappresentanza sciita si ritira, il Governo cade e alla formazione del Governo, oggi, sono legati gli aiuti internazionali di cui il Paese ha disperatamente bisogno, visto che la moneta ha perso il % del suo valore in meno di due anni e che la crisi economica del Libano è ritenuta – dalla Banca mondiale – la peggiore al mondo dal . Il giudice Tarek Bitar è il secondo giudice titolare delle indagini per determinare la causa esatta dell'esplosione dell'agosto  nel porto di Beirut e identificare i responsabili. Il suo predecessore Fadi Sawan era stato rimosso perché accusato di essere in conflitto di interesse e non imparziale poiché anche lui aveva perso casa durante l’esplosione. Dopo essere stato nominato lo scorso luglio, Tarek Bitar ha chiesto di poter convocare politici e funzionari di sicurezza, ha fissato udienze per interroga-

Violenza nelle strade di Beirut tra gruppi rivali di cristiani e musulmani il 14 ottobre scorso. (Keystone)

re l’ex primo ministro Hassan Diab e ha dichiarato di voler interrogare tre ex ministri e intentare contro di loro un processo con l'accusa di omicidio e negligenza criminale. Molti si sono rifiutati di comparire, Hassan Diab si è recato negli Usa pur di non presentarsi all’udienza e gli altri – soprattutto esponenti di Hezbollah – hanno cominciato ad accusarlo di voler politicizzare le indagini. Era chiaro dall’inizio, soprattutto alle famiglie delle vittime, che Bitar avrebbe incontrato le stesse sfide e i medesimi ostacoli del suo predecessore, manovre politiche che avrebbero protetto e garantito impunità ai colpevoli, lasciando i libanesi – una volta ancora – a subire i danni delle politiche settarie. Stavolta, però, si sono scatenati eventi più drammatici del previsto, le armi sono tornate nelle strade e Beirut sembrava essere ripiombata ai tempi che hanno preceduto il . I tre gruppi coinvolti negli scontri hanno familiarità con il conflitto armato: Hezbollah e il movimento

Amal si sono a lungo schierati dalla parte opposta rispetto al partito delle Forze libanesi, composto da cristiani maroniti. Lo stesso hanno fatto la settimana scorsa: i sostenitori di Hezbollah hanno accusato uomini armati delle Forze libanesi di aver attaccato i loro sostenitori. Le Forze libanesi hanno negato di aver iniziato la sparatoria e hanno, a loro volta, accusato Hezbollah e i suoi alleati di alimentare la violenza settaria per cercare di far fallire le indagini sul porto.

Le armi sono tornate nelle strade e Beirut sembrava essere ripiombata ai tempi che hanno preceduto il 1975 La manifestazione di Hezbollah e Amal era un modo per dire: se non bastano le pressioni politiche, agiremo con la forza, innescando nelle persone la paura del ritorno di una guerra civile. Non è una tattica nuova per il leader di Hezbollah, Has-

san Nasrallah, il Paese lo sa bene, la milizia che conta un esercito più potente delle stesse truppe ufficiali libanesi, aveva fatto lo stesso durante i processi per gli omicidi politici del , un’espressione muscolare della forza che era servita allora, e serve oggi, a dire che Hezbollah è disposta a sacrificare la stabilità del Paese pur di non perdere il dominio politico, finanziario e il sostegno sempre più solido dell’Iran. Nato durante l’invasione israeliana del Libano del  come milizia impegnata in una attività di guerriglia, Hezbollah ha raccolto molto sostegno e consenso, per convinzione ma spesso anche per paura delle conseguenze, diventando di fatto uno Stato nello Stato che spesso opera al di fuori del controllo militare e governativo ufficiale. Ha la propria milizia, i propri ospedali, le reti commerciali, un solido sistema di welfare e altri servizi come scuole e organizzazioni caritatevoli. Dopo essere entrato a far parte del Governo, nel , è stato identificato dai cittadini come parte del si-

Dal 1975-1990: quindici anni di scontri e paura Un tempo considerata la Parigi del Medio oriente, Beirut è stata attraversata da anni di crisi e conflitti. Quattro decenni fa, il 13 aprile 1975, scoppiò una guerra durata 15 anni, che è costata almeno 150’000 vite, ha provocato 300’000 feriti e ha portato all'emigrazione di quasi un milione di persone, conducendo lo Stato libanese vicino al collasso. Tra gli elementi che innescarono il conflitto furono i contrasti tra la componente cristiana del Libano, che temeva di perdere la propria predominanza in seguito all’arrivo dei profughi palestinesi, e la componente musulmana, che si sentiva sottorappresentata nelle istituzioni e intendeva rimettere in discussione i rapporti di forza. Ad alimentare la guerra con-

tribuì l’intervento di altri Stati, decisi a perseguire i propri interessi nel Paese. La guerra portò alla divisione della capitale Beirut lungo una «linea verde»: la parte occidentale riservata ai musulmani, quella orientale ai cristiani. Alla fine degli anni Ottanta il conflitto intra-settario aveva frammentato ogni aspetto della società e dell’autorità statale in Libano. La milizia sciita Amal prese il controllo di Beirut ovest e le tensioni tra Amal e i palestinesi sfociarono nella «guerra dei campi», provocando l’occupazione siriana di Beirut ovest nel 1987. La rivalità tra Hezbollah (organizzazione paramilitare islamista libanese sciita) e Amal impose i primi come forza dominante di Beirut, mentre tra i cristiani emerse Michel Aoun, che

sempre più si imponeva come leader nazionalista laico. Dopo 15 anni di guerra nessuno dei gruppi è stato in grado di stabilire il dominio sugli altri e le divisioni settarie sono continuate come prima. L'accordo di Ta’if del 1989, che è stato firmato dai parlamentari libanesi sopravvissuti e ha cristallizzato la situazione di «nessun vincitore e nessun vinto», ha portato alla modifica della Costituzione senza modificare però il confessionalismo. Secondo i suoi termini, infatti, i seggi parlamentari sono stati equamente distribuiti tra cristiani e musulmani. Tutte le milizie furono disarmate nel marzo 1991 ad eccezione di Hezbollah, che ha continuato il conflitto contro Israele nella zona di confine.

stema clientelare e corrotto colpevole di aver trascinato il Paese nel caos e nel fallimento economico. Negli ultimi due anni – dallo scoppio della crisi economica nell’autunno del , fino all’esplosione del porto e alle tragiche conseguenze economiche che ha provocato – una solida reazione anti-Hezbollah ha cominciato ad attraversare molti strati del Paese, esacerbando le fratture tra musulmani e cristiani come ai tempi della guerra civile. L’antagonista di Hezbollah è il partito delle Forze libanesi: anche questa milizia cristiana di destra ha alle spalle una feroce storia legata al conflitto civile, interrotta quando nel  gli accordi di Taif che hanno diviso il potere secondo spartizioni settarie, hanno di fatto trasformato i signori della guerra in politici. Da allora Samir Geagea, leader della milizia cristiana, è stato uno dei più ferventi oppositori di Hezbollah e ora sta, evidentemente, cercando di trarre vantaggio dal malcontento della gente verso il gruppo sciita. Quello che è certo è che il  ottobre scorso il Libano sembrava tornato indietro di trent’anni: pistole, kalashnikov, bombe a mano, granate a propulsione e, nel mezzo, decine di civili inermi che venivano evacuati dalle proprie abitazioni, terrorizzati, mentre l’esercito dispiegato nelle strade provava a riportare ordine. I parenti delle vittime dell’esplosione del porto hanno continuato a chiedere giustizia, come fanno da quattordici mesi, ogni  del mese, giorno della ricorrenza della tragedia. Dopo i recenti scontri hanno espresso rabbia e rinnovato il sostegno per il lavoro del giudice Bitar. «La ricerca di giustizia – hanno detto in un comunicato – deve rimanere libera da qualsiasi controversia politica, settaria o religiosa. Noi, famiglie delle vittime, chiediamo che la politica e le milizie tolgano le mani dalla magistratura, il giudice Bitar deve continuare a indagare, nonostante le minacce».


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Dazi doganali soppressi sui prodotti industriali Camere federali ◆ Approvata di misura la proposta del Consiglio federale dopo una prima bocciatura, dovuta a timori per le produzioni nazionali e per eventuali altre future soppressioni di dazi Ignazio Bonoli

Quasi in sordina, e anche con una maggioranza di un solo voto in Consiglio Nazionale, le Camere federali hanno finalmente accettato il messaggio del Consiglio federale che propone la soppressione dei dazi doganali sui cosiddetti «prodotti industriali», esclusi cioè il settore agrario e quello dei prodotti della pesca. Benché la Svizzera sia tradizionalmente un paese molto aperto al commercio internazionale e abbia concluso parecchi accordi di libero scambio con molti paesi, ha pur sempre conservato alcuni dazi all’importazione, essenzialmente per difendere alcune produzioni nazionali contro la concorrenza di paesi che producono a costi inferiori. La teoria economica vuole che un commercio libero produca benessere sia nel paese importatore, sia nel paese esportatore. Si tratta di uno scambio win-win, che viene in ogni caso ostacolato da barriere doganali a danno spesse volte del benessere comune. Tant’è vero che la soppressione di queste barriere dà spesso all’economia del paese interessato impulsi notevoli alla crescita. Lo scambio avviene perché vi è un interesse da ambo le parti e l’effetto di pressione sui prezzi nel paese importatore, a vantaggio di consumatori e imprese, è sempre fonte di spinte innovatrici.

Fin qui la teoria. Nella pratica le cose sono un po’ diverse, poiché soggette a decisioni politiche in genere di protezione del mercato nazionale. Non solo, ma talvolta i dazi doganali sono una fonte notevole di finanziamenti per lo Stato. In Svizzera, nel , la Confederazione ha incassato  milioni di franchi. La metà concerneva prodotti tessili, dell’abbigliamento e scarpe. Per i prodotti industriali, la media dei dazi è dell’,% del valore del bene importato, ma in singoli casi possono raggiungere anche il % e salire fino al %. Secondo il Consiglio federale, l’abolizione di questi dazi provoca diminuzioni di prezzo per consumatori e imprese, ma anche la soppressione di costi amministrativi per circa  milioni di franchi all’anno. Secondo uno studio esterno, il beneficio dell’operazione è valutabile in circa  milioni di franchi all’anno. Poca cosa nei confronti del PIL nazionale che è di oltre  miliardi di franchi, ma riflette anche il fatto che in Svizzera i dazi all’importazione sono molto bassi. La proposta del Consiglio federale di sopprimere questi dazi (la cui prima lettura risale al giugno ) è stata però molto contrastata. Perché fa perdere soldi alla Confederazione e aumenta la pressione sulle produzioni nazionali, ma anche per il timore del-

la prossima soppressione di altri dazi, in particolare sui prodotti agricoli. Così, nel giugno dello scorso anno, il Consiglio Nazionale aveva respinto la proposta. Ma poi, di fronte al massiccio sì del Consiglio degli Stati, ha dovuto cambiare idea, anche se di pochissimo. Un solo voto ha separato, infatti, i favorevoli dai contrari. Un voto che, però, ha avuto un significato molto esteso, poiché ha permesso di chiudere il dibattito ancora durante la sessione autunnale. Non è tuttavia escluso il lancio di un referendum, probabilmente da sinistra. Decisivo, oltre alla conversione di rappresentanti del mondo agricolo, il voto dei Verdi liberali. I quali hanno però proposto e ottenuto il necessario consenso per una mozione che chiede di collegare la soppressione di dazi industriali con un’eventuale partecipazione della Svizzera al previsto sistema di tassazione delle importazioni di CO. Sistema che dovrebbe permettere di contrastare eventuali migrazioni di imprese industriali con forti emissioni di CO verso altri paesi. Un intervento amministrativamente molto complicato e anche molto criticato al di fuori dell’Europa, poiché ritenuto un ostacolo alla concorrenza. All’inizio dovrebbe essere limitato a settori con forte consumo di energia, come

Il porto di Kleinhüningen, a Basilea, dove partono e arrivano 100mila container all’anno. (Keystone)

cemento, acciaio, alluminio, concimi ed energia elettrica, per poi entrare pienamente in vigore nel . Le esportazioni svizzere verso l’UE non sarebbero toccate, poiché la Svizzera ha collegato il proprio metodo dei certificati di emissioni con quello dell’UE. Il Consiglio federale è andato però anche un po’ più lontano, proponendo la rinuncia a ulteriori trattative sul

tema nell’ambito di futuri accordi di libero scambio. Questo perché l’impatto dell’abolizione proposta, secondo uno studio esterno, è positivo per  milioni di franchi all’anno sul PIL, ma ne rappresenta soltanto lo ,%. Inoltre perché i dazi svizzeri sull’importazione di prodotti industriali sono molto bassi e la politica del mercato aperto ha sempre dato buoni risultati. Annuncio pubblicitario

Lo sguardo della piccola Alaa, di soli 5 anni, esprime, più di mille parole, che ha già vissuto grandi sofferenze. L’anno scorso ha perso una gamba a causa delle schegge di una granata e, poco tempo dopo, suo padre è tragicamente morto di Covid-19.

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ATTUALITÀ

Privilegiati i porti sicuri La consulenza della Banca Migros Thomas Pentsy

Thomas Pentsy è analista di mercato presso la Banca Migros

Tra le valute del G, le classiche valute sicure come il franco svizzero, il dollaro statunitense e lo yen giapponese hanno registrato i migliori risultati nel terzo trimestre. Le valute rifugio sono state sostenute dalla minore propensione al rischio degli investitori. Con la crescente diffusione della variante Delta, gli investitori si sono nuovamente preoccupati per le prospettive di crescita dell’economia mondiale. Ci aspettiamo che il dollaro rimanga stabile. Il biglietto verde è sostenuto dall’economia statunitense che sta seguendo una buona rotta. Anche se il ritmo della ripresa rallenta, nel complesso l’economia statunitense rimane solida. La posizione della banca centrale statunitense sta fornendo un ulteriore sostegno. Già in estate la Fed aveva preparato i mercati all’annuncio di un tapering nel corso dell’anno. A settembre, il suo capo Jerome Powell ha segnalato che la banca centrale statunitense potrebbe iniziare a ridurre gradualmente gli acquisti di obbligazioni già a novembre. Al livello attuale, tuttavia, il tapering in dollari dovrebbe essere in gran parte scontato. Inoltre, i notevoli deficit di bilancio e delle partite correnti degli Stati Uniti continuano a pesare sul biglietto verde. Pertanto, a lungo termine, un ulte-

Il dollaro ha recuperato terreno 1.16 1.11 1.06 1.01 0.96 0.91 0.86 10.2020

01.2021

04.2021 EUR/CHF

riore potenziale di rialzo rimane limitato. Su un orizzonte temporale di dodici mesi, prevediamo che il dollaro si attesti a . rispetto al franco svizzero. Il rallentamento della crescita economica mondiale e l’elevato tasso di infezioni dovute al Covid-

07.2021 USD/CHF

a livello globale ci portano a prevedere che anche il franco continuerà a essere richiesto. Tuttavia, la Banca nazionale svizzera (BNS) continua a concentrarsi su un franco più debole e si opporrà a un apprezzamento dello stesso con interventi sul mercato dei cambi. Il franco

10.2021 Fonte: Bloomberg

però difficilmente si indebolirà eccessivamente. Il perdurare di una politica monetaria espansiva a livello mondiale lascia intravedere che il franco rimarrà una valuta interessante. In una prospettiva di dodici mesi ci attendiamo che il franco si collochi a . rispetto all’euro. Annuncio pubblicitario

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TEMPO LIBERO / RUBRICHE ●

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Una settimana lavorativa di 36 ore? ◆

Quando ho cominciato la mia attività, sessant’anni fa, in Ticino si lavorava anche il sabato mattina. Poi, abbastanza rapidamente, la settimana lavorativa si ridusse a  giorni senza che insorgessero grossi problemi. Questo perché la riduzione dell’orario di lavoro senza riduzione del salario si rendeva possibile grazie all’aumento della produttività che, in quegli anni, era abbastanza sostenuto. Da allora la durata del lavoro, eccezion fatta per il numero delle settimane di vacanza, non è più stata, almeno da noi, all’avanguardia delle rivendicazioni sindacali. In altri paesi, spesso confrontati con tassi di disoccupazione elevati, i sindacati e i partiti della sinistra hanno invece chiesto più volte che la durata del lavoro settimanale fosse ridotta. Conosciutissima è la riforma che ha

introdotto la settimana di  ore, adottata dal governo francese sotto la presidenza di Mitterrand. Meno noti sono invece gli esperimenti che sono stati portati avanti in altri paesi, spesso su iniziativa sindacale o, addirittura, per volere di singoli datori di lavoro illuminati. Nel corso degli ultimi anni hanno fatto discutere in particolare gli esperimenti di riduzione della durata del lavoro realizzati in Islanda da enti pubblici come la città di Reykjavik e l’amministrazione pubblica nazionale in collaborazione con il sindacato del settore pubblico BSRB. In queste istituzioni, che occupano qualche migliaio di dipendenti, si è introdotta una riduzione della settimana lavorativa a - ore senza riduzione dello stipendio. Sindacati e datori di lavoro hanno poi esaminato e fatto esaminare anche da

esperti esterni le conseguenze di questa misura in materia di produttività e di partecipazione al lavoro. In generale hanno potuto accertare che per i lavoratori la riduzione dell’orario di lavoro ha rappresentato un importante miglioramento della qualità di vita. Parallelamente hanno anche constatato che le aziende che hanno introdotto questa riforma non hanno subito riduzioni della produttività anzi, in più di un caso, le prestazioni dei lavoratori sono aumentate. Inoltre gli studi su questi due esperimenti islandesi mostrano che la riduzione dell’orario di lavoro non ha determinato – come è stato invece il caso in Francia – né un aumento delle ore straordinarie, né tanto meno un aumento dell’occupazione. Ovviamente non tutti i commentatori di questi esempi sono d’accordo per

riconoscere che sono stati un successo. Alcuni sostengono che i progressi nella produttività sono da attribuire al fatto che la produttività in Islanda non era molto elevata e che quindi vi erano grandi potenzialità di miglioramento. Altri sostengono invece che la riduzione dell’orario di lavoro non ha che un impatto iniziale positivo sulla produttività. A più lungo termine è invece probabile che l’aumento della produttività rallenti e che le aziende siano obbligate a creare nuovi posti di lavoro per compensare la riduzione dell’orario settimanale. Altri critici affermano invece che il miglioramento della produttività dei primi anni è stato ottenuto perché i lavoratori si sentivano osservati e quindi si sforzavano di fare meglio e di più durante il periodo in cui erano sotto osservazione. Quando l’attività lavora-

tiva tornerà ad essere routinaria è di nuovo probabile che l’aumento di produttività rallenti o scompaia. Come è sempre il caso quando si tratta di esperimenti, i risultati ottenuti fanno discutere perché, purtroppo, possono dissolversi nel tempo. Da parte loro i partigiani della riduzione della durata del lavoro settimanale possono far valere che fino ad oggi le riduzioni dell’orario di lavoro non sembrano aver provocato grandi scompigli sia a livello dell’organizzazione del lavoro nelle aziende, sia a livello di redditività. Bisogna comunque riconoscere che ogni esperimento in questo campo è una nuova prova: i suoi esiti, quindi, non possono essere valutati sulla base dell’esperienza fatta nel corso degli ultimi due secoli in materia di riduzione della durata del lavoro.

In&Outlet

di Aldo Cazzullo

Per la salvezza di tutti ◆

E così in Italia il giorno tanto atteso, il d-day del green pass obbligatorio per accedere ai luoghi di lavoro – venerdì  ottobre – è arrivato, è passato e non ha prodotto gli sconquassi tanto temuti. Proviamo a pensare come ci sentivamo un anno fa, noi europei, in questi stessi giorni, quando tutto stava chiudendo di nuovo. Sbarrati i locali pubblici, serrati i cinema, i teatri, le scuole, molti uffici, molte fabbriche. Con il numero dei ricoverati e dei morti in aumento, con l’autunno e l’inverno di fronte. Se qualcuno ci avesse detto che nei mesi successivi sarebbero arrivati i vaccini, che si sarebbero dimostrati efficaci nel contenere il virus, che gli effetti collaterali si sarebbero rivelati inferiori rispetto alle previsioni e drasticamente inferiori rispetto ai timori, avremmo pensato: dai che ce la facciamo, dai che tutti insieme ne usciamo! Ora ce l’abbiamo quasi fatta, ne sia-

mo quasi usciti. E questo è accaduto perché la grande maggioranza degli italiani, degli svizzeri, degli europei ha capito la chiave per farcela: in una pandemia ognuno è responsabile non solo della propria salvezza, ma di una parte della salvezza dell’altro. E questa parte è tanto più grande quanto più l’altro ci è vicino, in quanto parente, persona cara, collega. Per questo vaccinarsi è una forma di rispetto verso se stessi, verso i familiari, verso le persone che dividono con noi la casa, il bar o il luogo di lavoro. Molti non vedevano l’ora di vaccinarsi, e hanno smanettato freneticamente sul computer o sul cellulare per prenotarsi al più presto. Molti si sono vaccinati perché le norme sul green pass li hanno indotti a farlo. Molti hanno dovuto superare la paura. La paura non è il più nobile tra i sentimenti, ma non va criminalizzata, né esorcizzata. Occorre rimuoverne le cause. In generale, si è

Il presente come storia

liberi di non vaccinarsi; non di mettere in pericolo gli altri. Chi in Italia proprio non intende immunizzarsi, se vuole condividere lo stesso spazio con i colleghi deve sottoporsi all’onere del tampone; in caso contrario, i centri vaccinazione lo attendono. Poi, certo, un po’ di tensione c’è stata, e ci sarà. Non soltanto nel porto di Trieste, dove i manifestanti no-green pass sono stati giustamente sgomberati. L’importante è affrontare la tensione senza ideologie o guerre di religione, anzi con il massimo del pragmatismo. Soffiare sul fuoco è da irresponsabili. Se poi lo si fa per vellicare gli istinti nella speranza di raccattare qualche voto è da miserabili. Se questo era l’intento di Salvini e Meloni – e mi auguro proprio di no – si può dire che è fallito: le elezioni comunali hanno visto la sconfitta della destra sovranista e populista. Che potrà prendersi la rivincita alle prossime elezioni politiche, purché

capisca che inseguire i no-vax non porta lontano. I proclami, da qualsiasi parte provengano, sono inutili se non controproducenti. Meglio tenere fisso l’obiettivo – vaccinare più gente possibile – tentando di sciogliere i nodi che ingarbugliano questo tratto finale. Ci sono segnali che vanno nella direzione giusta, appunto quella del pragmatismo. Riconoscere la validità dei vaccini somministrati nell’est europeo, per non bloccare il traffico delle merci. Consentire alle aziende di recuperare in parte il costo dei tamponi per gli irriducibili. Segnali di buona volontà, che sarebbe sbagliato lasciar cadere. I no-vax e i no-green pass che scendono in piazza, mettendo a repentaglio la salute propria e altrui (qualcuno pensa ai bambini che non possono vaccinarsi?), sono la minoranza di una minoranza, molto spesso sedotta dalle fake news che girano in Rete. In effetti anni di propaganda con-

tro i vaccini non sono passati come acqua sul marmo e molta gente ne è stata condizionata. Anche per questo erano necessarie misure drastiche. L’obbligo vaccinale sarebbe stato molto difficile da far rispettare. Esigere il green pass per accedere ai luoghi pubblici è il modo migliore per lasciarli aperti e non doverli richiudere di nuovo. Se la si affronta con buon senso e con intelligenza – che è la capacità di risolvere i problemi – passerà anche questa emergenza. Poi la storia non è mai finita. Vaccinare il mondo resta una sfida impressionante, ma almeno potremo dire di aver fatto tutto quanto sta in noi, e che gli europei ancora una volta hanno dato nel momento più difficile il meglio di loro stessi. Compresi gli inglesi, ma forse non il Governo di Boris Johnson – che non ha introdotto il green pass obbligatorio – e ora deve fronteggiare  mila casi al giorno.

di Orazio Martinetti

La libertà e il resto ◆

Dall’ideologia alla virologia; dalla dittatura del proletariato alla dittatura sanitaria. Il Novecento è stato il secolo dei fronti contrapposti, dei sistemi alternativi inconciliabili: il capitalismo da una parte, il comunismo dall’altra. Dopo il crollo del muro di Berlino, il duello epocale è venuto meno, ma non per questo le società si sono ritrovate pacificate. Anzi, sulle macerie è spuntata una miriade di micro-conflitti che vediamo prosperare in tutto il corpo sociale, divisioni interne che investono gli stili di vita, le scelte personali, i rapporti tra le generazioni. Caso esemplare di questa conflittualità trasversale è lo scontro sui vaccini e sul certificato Covid. In questo campo l’appello al buon senso e al dialogo cade molto spesso nel vuoto. Alla fine pare proprio di assistere ad una guerra di religione su princìpi non negoziabili, due schiera-

menti sorretti da atti di fede che non ammettono mediazioni. Ad esprimere forme di natura religiosa, quasi millenaristica, è soprattutto il popolo dei no-vax, che in Svizzera si è riunito sotto la bandiera degli «Amici della Costituzione». Attraverso sfilate e manifestazioni organizzate in tutte le principali città hanno fatto risuonare ritmicamente i campanacci della libertà («Freiheitstrychler»), combinando due elementi altamente simbolici: la lotta per la libertà («perché liberi erano i nostri padri») e il forte radicamento nella cultura agropastorale («Hirtenkultur») che ha reso unica la Confederazione. In questa cornice si sono poi inseriti altri elementi, più recenti, che riguardano tutto l’apparato mobilitato dalle autorità per contrastare la pandemia: la tecno-scienza, ritenuta troppo invasiva e poco trasparen-

te; lo strapotere delle multinazionali del farmaco (Big Pharma), la volontà di incasellare tutti e tutte per mezzo del tracciamento sistematico (Big Data). Ora, è vero che l’azione di contrasto al virus non ha seguito una linea retta, e che le incomprensioni sono state numerose tra la Berna federale e i cantoni, soprattutto quelli all’inizio più esposti, come il Ticino. Tuttavia va ricordato che nel marzo  l’incertezza regnava sovrana, sia sulle caratteristiche dell’agente patogeno, sia sulle misure per arginarlo e debellarlo. E questo è successo in tutti i paesi del mondo. All’industria farmaceutica si possono rivolgere numerose accuse, e di fatto nel nostro paese accade regolarmente (si pensi alle rimostranze sui prezzi dei medicinali, qui molto più elevati che altrove). La ricerca sui vaccini è stata trascurata, per-

ché considerata poco redditizia. Ma sull’efficacia dei preparati anti-Covid c’è poco da discutere, molte pillole che tutti inghiottiamo avidamente hanno effetti secondari che stando al bugiardino risultano peggiori (e sconosciuti). Anche sul controllo, sempre più occhiuto, che le autorità esercitano sui cittadini, le buone ragioni per stare all’erta non mancano. Ma anche qui si chiama alla sbarra il vaccino, dimenticando il resto. In votazione popolare, la cittadinanza ha accettato sia il passaporto biometrico (), sia la sorveglianza degli assicurati (). Nelle piazze cittadine e nei centri commerciali le videocamere registrano ogni nostro movimento. Insomma, le restrizioni alla libertà personale sono iniziate molto prima del virus, e senza incontrare particolari resistenze. Qui, va riconosciuto, occorre tenere gli occhi

bene aperti, perché la tentazione di indossare i panni del «grande fratello» è presente in molti settori della propaganda politica e dell’attività economica, soprattutto nelle grandi aziende sovranazionali che sull’estrazione e stoccaggio dei dati privati hanno costruito la loro ricchezza. Molti credono che le reti sociali di cui si fa largo uso (Facebook, Instagram, Telegram, TikTok, Twitter) appartengano alla sfera del servizio pubblico, come la nostra radiotelevisione, o come una volta le PTT. Errore: sono imprese private con sede in altri continenti, alle quali consegniamo allegramente i nostri profili e le nostre preferenze d’acquisto senza farci troppe domande sul loro utilizzo. Al cospetto il Certificato Covid sembra davvero poca cosa; in ogni caso uscirà di scena non appena verrà raggiunta l’immunità di gregge. Le reti sociali no.


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CULTURA

Una visita che è un classico In scena a Zurigo La Visita della vecchia signora, la pièce di Friedrich Dürrenmatt: sul palco solo due attori e un po’ di Ticino

Una vita per la truffa Continua la nostra serie sui personaggi estrosi della storia svizzera: Jospeh-Samuel Farinet fu contrabbandiere e truffatore

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La luce in fondo al tunnel Mostre

azione – Cooperativa Migros Ticino 41

In ricordo di Franco Cerri È mancato all’età di 95 anni il gentleman del jazz italiano Franco Cerri: un ritratto del grande musicista

Nell’addio di Schlink I protagonisti della nuova raccolta di racconti dello scrittore tedesco si guardano allo specchio con un occhio al passato

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Al Museo Tinguely di Basilea i film sperimentali di una figura leggendaria ma ancora poco nota dell’arte americana

Elio Schenini

Mentre mi aggiravo nei vocianti corridoi di Art Basel, che dopo l’annullamento a causa del Covid dell’edizione  sono tornati quest’anno a popolarsi, seppur in maniera più contenuta rispetto al passato, della vistosa e affettata mondanità internazionale che nell’arte trova una facile via d’accesso all’altrimenti impervio e poco gratificante mondo della cultura, un ronzio incessante si è lentamente ma inesorabilmente imposto al mio orecchio. Un rumore di fondo monotono e continuo in cui sembravano fondersi e annullarsi tutti i commenti sussiegosi, le richieste noncuranti di prezzo, gli apprezzamenti ostentati di quell’affollata congerie di varia, ma comunque in gran parte ricca se non ricchissima, umanità. Poi, improvvisamente, dall’enorme e spettacolare foro circolare di Herzog e de Meuron si è alzata sul cielo di Basilea un enorme sfera bianca di fumo, detriti e vapore che non appena dissolta ha svelato al suo interno la famigerata colonna di nuvole sormontata da un cappello del fungo atomico. Dopo alcuni istanti, mentre il fungo si stava ormai dissolvendo, sono stato assordato, in una sorta di straniante fuori sincro tra immagine e suono, dal fragore terribile dell’esplosione. A quel punto però mi sono svegliato e ho capito che la scena che ho appena descritto non era altro che un sogno. Il mio inconscio aveva cercato, a modo suo, di risolvere un’incongruenza con cui mi ero confrontato nel corso di tutta la giornata, ovvero quella tra l’opera dell’artista americano Bruce Conner e il mercato. E l’aveva fatto, forse non a caso, utilizzando il procedimento classico della poetica surrealista, ovvero l’accostamento insolito, come il celebre incontro lautremontiano tra un ombrello e una macchina da cucire sopra un tavolo operatorio. Del resto Bruce Conner (), di cui a Basilea nei giorni della fiera d’arte ho avuto modo di visitare la mostra ospitata negli spazi del Museo Tinguely (visibile ancora fino al  novembre), proprio nel Surrealismo trova la sua fonte d’ispirazione primaria quando, intorno alla metà degli anni Cinquanta, si impone sulla scena americana con i suoi assemblages. Pur essendo con Robert Rauschenberg e Edvin Kienholz, una delle figure di spicco di questa tecnica, Conner però decide ben presto di abbandonarla per dedicarsi, con il gusto per la sperimentazione che lo caratterizzerà per tutta la vita, ad altri linguaggi. Vi è in questa scelta, innanzitutto, il rifiuto di rimanere imprigionato dentro un’identità confortevole sostenuta unicamente dalla necessità di avere un mercato per le proprie opere. Con coerenza e rigore, Conner, la cui vicenda corre parallela ai movimenti della

Bruce Conner, A MOVIE, 1958 (Filmstill) 16mm, b/w, sound, 12 min. Musica: movimenti da Pini di Roma (1923-24), Ottorino Respighi, eseguito dalla NBC Symphony, diretta da ArturoToscanini. (Court. Kohn Gallery and Conner FamilyTrust © Conner FamilyTrust)

Bruce Conner, A MOVIE, 1958 (Filmstill) 16mm, b/w, sound. (Court. Kohn Gallery and Conner FamilyTrust © Conner FamilyTrust)

controcultura americana della West Coast, passando dal Beat al Punk, manterrà sempre questo distacco dal mercato, e lo farà in molti modi, ad esempio rifiutandosi per molto tempo di firmare le proprie opere, oppure utilizzando spesso pseudonimi che ne celavano la vera identità.

Pur abbandonando gli assemblaggi, Conner non ne abbandona però il nucleo estetico essenziale, ovvero il principio per cui l’arte del nostro tempo non può che nascere accostando e rielaborando le immagini e gli oggetti che la società stessa mette a disposizione dell’artista. Da que-

sto momento sono però gli spezzoni cinematografici il materiale «trovato» da cui prende avvio la sua ricerca artistica, che si concretizza in una serie di film sperimentali che appaiono ancora oggi come dei capolavori assoluti, a partire da A MOVIE del  che anticipa gran parte di ciò che vedremo nell’ambito dell’audiovisivo nei decenni successivi. Ed è proprio quest’opera ad aprire l’esposizione di Basilea che, con il rigore di un allestimento totalmente immerso nell’oscurità, si focalizza unicamente sulla sua produzione filmica, culminando nella videoinstallazione di Crossroads, in cui, con la colonna sonora dell’amico Terry Riley, l’artista ci mostra in modo nuovo lo spettacolo terribile e sublime di un’esplosione atomica. Utilizzando in prevalenza fram­ menti di film già esistenti, recuperati in vario modo, Conner rinnova attraverso i suoi film la lezione dei grandi maestri del montaggio del primo Novecento, da Eisenstein a Dziga Vertov, aggiornandola alla cultura Pop della seconda metà del Novecento. Una cultura Pop, da Marilyn a Kennedy, che è onnipresente,

ma che nei suoi film viene completamente trasfigurata in una ricerca sospesa tra umorismo e dramma in cui si avverte sempre un’intensa tensione spirituale. Anche se limitata ai soli film, diversamente dalla grande retrospettiva che il MOMA gli ha dedicato nel , l’esposizione di Basilea può far intuire le ragioni per cui Conner, a cui, tra le altre cose si attribuisce la paternità del videoclip musicale, è per molti il più grande artista americano del Novecento. Tra questi molti figurava anche John Lennon, che dopo aver visto Looking for mushrooms, nel  scrive all’artista americano una lettera di ammirazione del tutto analoga a quella che potrebbe aver scritto un qualsiasi fan dei Beatles. In ogni caso, chi ha conosciuto l’opera di Conner non può più dimenticarla e a volte se la sogna anche di notte. Dove e quando Bruce Conner, Light Out Of Darkness, Basilea, Museo Tinguely. Orari: ma-do 11.0018.00; lu chiuso. Fino al 28 novembre 2021. tinguely.ch


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CULTURA

Gustave Caillebotte, un impressionista atipico Mostre

Alla Gianadda di Martigny un pittore poco conosciuto rispetto agli amici parigini

Tommaso Stiano

La retrospettiva su Gustave Caillebotte (-), che chiude il ciclo sugli impressionisti iniziato dalla Gianadda nel , presenta novanta quadri dipinti tra il  e il  provenienti da musei pubblici e collezioni private europei. Naturalmente sono solo una selezione tra le circa cinquecento tele che il pittore francese ci ha lasciato nella sua pur breve vita ma sono comunque rappresentativi di una produzione artistica sulle orme dell’impressionismo parigino che nella seconda metà del XIX secolo rivoluzionò gli stilemi accademici. Se noi passiamo in rassegna un elenco, anche solo mnemonico, di pittori impressionisti, rischiamo di non citare il nome di Caillebotte perché molto meno noto rispetto a Manet, Monet, Renoir, Degas, Cezanne, Pissarro, Sisley. Eppure nel , alla seconda esposizione parigina delle loro opere, c’era anche lui perché faceva parte del gruppo che aveva deciso di abbandonare le rigide regole imparate nelle accademie di belle arti e che preferiva ritrarre la realtà en plein air lasciando pressoché vuoti gli atelier. Cavalletto portatile in spalla e colori a olio nei tubetti – le due novità pratiche appena inventate – partiva alla ricerca di scorci suggestivi nella sua città come si vede bene in Boulevard des Italiens (), oppure lungo la Senna come in La Seine à Argenteuil, bateaux au mouillage () o nel-

la campagna circostante come in La plaine du Gennevilliers () o usciva nei suoi giardini a immortalare fiori e alberi; prediligeva i paesaggi ma non disdegnava autoritratti come Autoportrait au chevalet et aux pinceaux () e ritratti che la mostra raduna in uno spazio apposito. A differenza dei colleghi un po’ bohémien, lui non aveva preoccupazioni materiali perché proveniva da una famiglia agiata e viveva nella sua tenuta di Yerres a sud di Parigi. Aveva una laurea in diritto, si era dedicato all’ingegneria navale progettando lussuosi panfili e amava il giardinaggio, la filatelia, il canottaggio. Grazie all’amicizia con Degas però, era approdato al nuovo stile pittorico che propone una realtà vista attraverso gli occhi dell’artista, quindi non una rappresentazione oggettiva, ma che segue l’impressione soggettiva del momento, quella dell’attimo fuggente, a causa della luce, che muta continuamente la percezione dell’oggetto da ritrarre. Gli impressionisti, e così Caillebotte, sono influenzati dalla fotografia e vogliono fissare l’istante come fa la lastra fotosensibile, ma con pennelli e colori, questi ultimi non mischiati alla ricerca della tinta giusta, ma accostati velocemente con contrapposizioni cromatiche efficaci. Il risultato è un’immagine un po’ sfocata, tanto che i primi critici bollarono le produzioni come opere an-

Gustave Caillebotte, Les roses, jardin du petit Gennevilliers, 1886. (Collection particulière © David Cueco)

cora incomplete, bozze di impressioni personali; oltre che dal dipinto di Claude Monet Impression. Soleil levant, è da questo giudizio ostile che deriva il sostantivo «impressionismo» che ha dato il nome alla nuova corrente artistica. Ciò che identifica però Gustave Caillebotte è la sua personale interpretazione dell’impressionismo, poiché è riuscito a coniugare il nuovo stile con alcuni insegnamenti accademici e con l’avvento della fotografia; infatti, in molte sue opere c’è il trionfo della luce e del colore secon-

do il nuovo corso pittorico ma con la solidità del disegno rifiutato dai compagni. Pur non essendo un impressionista puro, Caillebotte è annoverato tra i testimoni della metamorfosi artistica avvenuta nella seconda metà dell’Ottocento, quindi la Gianadda ha colto nel segno presentandolo al grande pubblico – lo dice il sottotitolo della mostra – come il più moderno degli amici parigini, in quanto comprese l’importanza della nuova tecnica fotografica nell’evoluzione della pittura. Diverse tele sembrano così pose fotografiche con il grandangolo

e ritraggono la modernità che avanza, come in Le Pont de l’Europe () o la quotidianità borghese e i lavoratori, come in Les Raboteurs de Parquet () e in Veau à l’étal du boucher (). Impressionista atipico, dicevamo, anche per le condizioni economiche che gli permisero di diventare mecenate e collezionista delle opere che i suoi amici meno fortunati non riuscivano a vendere; oggi buona parte di questa collezione, che alla morte di Caillebotte fu donata allo Stato, è visibile al Musée d’Orsay. Al contrario dei suoi colleghi che riscossero un grande successo con il passare degli anni, Caillebotte venne quasi dimenticato almeno fino a dopo gli anni Cinquanta del secolo scorso anche perché nessun suo lavoro faceva parte della donazione alla Nazione di cui sopra. La quasi totalità della sua produzione restò in famiglia e dunque poco esposta. Ora a Martigny abbiamo la possibilità di rimediare e conoscere questo pittore che ha contribuito a scrivere una nuova pagina nella storia dell’arte. Dove e quando Gustave Caillebotte, Impressioniste et moderne. Martigny, Fondazione Gianadda. Orari: tutti i giorni 9.00-19.00. Fino al 21 novembre 2021. gianadda.ch Annuncio pubblicitario

Falsetti nordici

Cinema ◆ Un documentario sulla storia degli A-HA, la band norvegese culto negli Anni 80 Simona Sala

Se siete nate (più che nati) negli Anni , sicuramente i nomi di Morten Harket, Pal Waaktaar e Magne Furuholmen non hanno nulla di esotico, anzi. In quel breve periodo storico, colmo di speranze e aspettative, in cui il mondo sembrava un posto anche mica male (ma forse, soprattutto, noi tutti eravamo più giovani), A-HA era un concetto, più che una band. I tre norvegesi, infatti, dopo la hit planetaria di Take On Me, entrarono a pieno titolo nell’olimpo musicale internazionale. Non vi era un’edizione delle riviste per adolescenti di allora, «Bravo» in primis, che non riportasse in copertina la chioma, la giacca norvegese, i muscoli

Stesse canzoni e stesse fan: i tre protagonisti del gruppo A-HA sono attivi ancora oggi.

o i bracciali di pelle di Morten Harket. Di colpo il paese scandinavo fino allora dedito alla musica folk, a balene e fiordi, diventò interessante, e si cominciò da più fronti a guardare con curiosità alle melodie e ai testi permeati di nostalgia degli A-HA. Poi, come spesso avviene, le cose si sono fatte più calme, e degli A-HA si è sentito parlare sempre meno. Oggi Morten Harket ha  anni, Magne  e Pal , e i loro volti sono segnati da una vena nostalgica e forse anche un pizzico amareggiata che mal si addice alle rockstar. Ma cosa è successo? Tutto e niente, si direbbe guardando il documentario A-HA The Movie (regia di Thomas Robsahm), nelle sale del cantone dal  ottobre, se non che le aspettative dei tre musicisti non si sono avverate fino in fondo, e che il bilancio sarebbe potuto essere diverso, perlomeno in termini artistici. A-HA si sono bruciati quando sono diventati oggetti del desiderio globale, prestandosi a diventare protagonisti di videoclip ridicoli e servizi fotografici altamente commerciali, e oggi sembrano vivere con il rimpianto delle scelte sbagliate, senza le quali le cose sarebbero potute andare diversamente. Lo si vede dalla freddezza con cui i tre musicisti interagiscono, e dall’inequivocabile frustrazione per non essere mai più riusciti a uscire dal proprio ruolo. Neanche oggi, quando viene loro riconosciuto un certo merito, poiché la loro musica un segno l’ha lasciato: così almeno dicono nientemeno che i Coldplay, per cui sono stati fonte di ispirazione, o Bono e The Weeknd, che dagli A-HA hanno attinto a piene mani.

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CULTURA

A Güllen sono rimasti in due Teatro

Creatività ticinese

Alla Schauspielhaus di Zurigo La Visita della Vecchia Signora

Film ◆ Bindu de Stoppani protagonista con un film e una serie

Marinella Polli

Continua il programma della Schauspielhaus con la Visita della vecchia signora di Friedrich Dürrenmatt, considerata l’opera perfetta dell’autore svizzero, nonché una delle pièce più riuscite del teatro in lingua tedesca. Una pièce che, coniugando umorismo a momenti di intensa riflessione, analizza magistralmente meschinità e piccineria, carente moralità, corruzione, abuso di potere, tentativi di manipolazione, insomma tutti i meccanismi e le dinamiche dell’animo umano. Una profonda indagine; vale a dire, con occhio ironico, ma anche severo, in quanto lascia aperti dubbi, perplessità e interrogativi sulle responsabilità individuali e sull’egoismo di noi tutti: sì perché non se ne può affrancare nessuno, e nessuno è in grado di giurare che nella stessa situazione agirebbe diversamente.

Patrycia Ziółkowska, Sebastian Rudolph, Camilla Sparksss. (© Zoé Aubry)

L’incredibile e sempre attuale pièce di Dürrenmatt costringe gli spettatori a guardarsi allo specchio In questo nuovo, interessante allestimento, il regista Nicolas Stemann (scene e video di Claudia Lehmann, costumi di Marysol del Castillo, musiche di Camilla Sparksss, già nota per la sua attività con i Peter Kernel e l’etichetta On The Camper Records), attuale co-sovrintendente del prestigioso teatro zurighese, recitano due attori soltanto. Due magnifici attori, per questa commedia tragica: Patrycia Ziolkowska e Rudolph Sebastian, i quali si alternano a ritmo mozzafiato nei ruoli di Claire Zachanassian e della vittima designata Alfred Ill. La vecchia, straricca e totalmente (e non proprio perfettamente) rifatta signora, tornata al paesello dopo molti anni, offre un miliardo a chi ucciderà l’uomo che quando era ragazza l’aveva sedotta, e poi abbandonata al ludibrio degli abitanti di Güllen.

I due attori interpretano non soltanto i due protagonisti, ma anche tutti i ruoli secondari: il sindaco, il giudice, il maestro e anche i bizzarri Roby, Toby, Koby e Loby. Una vera e propria sfida, che però pone il limpido testo di Dürrenmatt ancor più in evidenza, e fors’anche ancor più in grado di districare tutta l’esplosiva dialettica, i paradossi e le metafore care a Dürrenmatt. E proprio nessuno degli aspetti tipici del linguaggio dürrenmattiano viene meno, dunque, né quello caricaturale e grottesco, né l’impagabile umorismo, né la profondità. Tutto perfetto fin quasi al termine delle due ore e quindici, senza

pausa come Covid ancora comanda, cioè sino a quando si arriva a certe inutili scene con sputi e vomito, in seguito alle quali qualche spettatore ha lasciato il teatro. Ci è piaciuta invece l’idea delle scarpe gialle che riempiono letteralmente la scena, simbolo del consumismo smisurato e dell’opportunismo di cui diventano schiavi gli abitanti di Güllen appena sentono odor di soldi. Scarpe gialle di ogni tipo e misura e din-don del postino che porta i pacchi di Amazon a tutto il paese, ormai pervaso dall’idea di benessere e prosperità. Verso la fine dello spettacolo, i due attori interrogano anche il pub-

blico, in fondo sempre perfettamente in chiaro sull’esito della vicenda, in merito alla punizione da infliggere ad Alfred Ill, alla giustizia in generale, e a quella ottenuta grazie ad un’azione compiuta collettivamente in particolare. Lunghissimi, calorosi applausi per i due splendidi attori e per Camilla Sparksss, le cui canzoni in inglese hanno fatto da commento, anzi quasi da coro, a tutto il dramma. Dove e quando Der Besuch der alten Dame, Zurigo, Schauspielhaus, fino al 3 dicembre 2021 schauspielhaus.ch

Marionette per il teatro della fantasia In scena

Fedele a sé stesso e alle proprie passioni: la scena culturale deve molto a Poletti

Giorgio Thoeni

Ammettiamolo. Sono anni ormai che ci è difficile nascondere l’ammirazione e una rispettosa considerazione che si deve a un artista come Michel Poletti sul fronte del teatro delle marionette. Su questa affermazione certamente storcerebbe il naso perché sappiamo che il termine marionette è limitativo. Ma, ahilui, dopo  anni di professione e quasi  anni di Festival Internazionale, la sua riconoscibilità si ascrive a quell’universo, sebbene non sempre sia stato comprensivo di tutte le sue varianti artistiche. Ma già con l’avvio della esima edizione della manifestazione si avverte il profumo dell’importante e storico anniversario. Un traguardo che permette a Poletti, con la sua assistente e collaboratrice Lucia Bassetti, di mettere in campo un ventaglio di proposte che, fino al  novembre (palco.ch), permette di fruire di piacevoli appuntamenti, tutti in scena al Teatro Foce di Lugano e a due passi dal fascinoso Museo delle Marionette. Certo, con il fluire del tempo, la tipologia degli spettacoli ha ormai

dovuto adattarsi a un pubblico non necessariamente costituito da adulti. Sebbene la godibilità continui ad abbracciarne buona parte, la platea di riferimento è infatti diventata quella delle famiglie. Poletti ne parla con una vena di Michel Poletti, una vita per le marionette. (palco.ch)

nostalgia. Come dargli torto. La scena teatrale ha subìto cambiamenti, soprattutto pensando a quel piccolo magico spazio popolare nato nelle piazze e destinato ai sogni di grandi e piccini che oggi è perlopiù appannaggio dei più piccoli.

Un cambiamento anche legato ai mezzi a disposizione come alle metamorfosi del mondo dello spettacolo: un universo sempre più votato, nel bene e nel male, alla sensazione, al glamour, all’apparenza, alla superficialità, al botteghino. Comunque niente riesce a sostituire l’esperienza e la professionalità conquistate dall’avventura del teatro di figura. Uno scenario ben rappresentato dall’offerta del Festival che, attraverso i suoi spettacoli, cerca di illustrare le varie tecniche in ossequio alla tradizione: dall’opera dei pupi alle marionette mosse dai fili, da quelle animate dalle mani o dai piedi alle ombre cosiddette cinesi. E c’è anche posto per fiabe, magia e narrazione, come pure per una rivisitazione de Il piccolo Principe di Michel Poletti accompagnato da Margherita Coldesina, con il Teatro dell’Es e le musiche di Lucia Bassetti. Non è retorico invitare il pubblico a sostenere un Festival che sta diventando sempre più il baluardo di uno storico, raffinato e indispensabile artigianato.

Nicola Falcinella

È la settimana di Bindu de Stoppani. L’attrice e regista ticinese di base a Londra debutta nei prossimi giorni con ben due lavori scritti e diretti. Dopo i lungometraggi per il cinema Jump e Cercando Camille, de Stoppani ha realizzato la sua prima serie e un film tv che sarà diffuso domani alle  sulla Rsi. Si tratta di enni in salita, girato in Canton Ticino e con Anna Ferzetti, Elena Di Cioccio, Euridice Axen e Irene Casagrande protagoniste. È la storia di tre donne che da ragazzine avevano siglato una promessa di amicizia con Lisa, che è morta e ha lasciato loro il compito di disperdere le sue ceneri sulla vetta della verità. Le tre ora non potrebbero essere più diverse: Sara è un’infermiera separata dalla vita sentimentale movimentata; Isabella lavora nella moda, è una donna in carriera, dall’esistenza frenetica che in fondo la lascia insoddisfatta; Marta è sposata, ha una vita regolare ed è l’unica ad essere attrezzata per l’escursione. Finiranno con il perdersi, così che la gita assumerà una dimensione inaspettata. Il film è una commedia che parte da uno spunto come il classico Il grande freddo, con elementi da Il grande Lebowski (l’urna cineraria) e da avventura alpina, facendo un bilancio esistenziale dell’età di mezzo, senza componenti politiche, ma con riflessioni sul femminismo in una chiave molto attuale. Da mercoledì sarà invece disponibile su Netflix, in tutti i Paesi dove il servizio è disponibile, la nuova serie in sei episodi Guida astrologica per cuori infranti, creata da Bindu de Stoppani a partire dal libro di Silvia Zucca e diretta dalla stessa Bindu con Michela Andreozzi (nota come attrice in tv, in teatro e al cinema e regista di Brave ragazze). Una commedia sentimentale, tra amicizia, romanticismo, carriera, incontri surreali e vicende tragicomiche. La protagonista è Alice (Claudia Gusmano), alla ricerca del grande amore e della realizzazione lavorativa: l’incontro con Tio (Lorenzo Adorni) fa entrare l’astrologia nella sua vita, tanto da lasciarsi condurre dalle stelle per avvicinare i propri desideri. Nel cast ci sono anche Fausto Sciarappa, Esther Elisha, Maria Amelia Monti, Bebo Storti ed Euridice Axen. Si tratta di due progetti molto diversi che però si riconducono alla vena della regista per la commedia, i sentimenti, gli imprevisti, le origini, le relazioni, i bilanci della vita e il guardarsi indietro, sempre con leggerezza.

Le protagoniste del film che debutterà sul La2 della RSI il 26 ottobre.


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CULTURA

Il Robin Hood del Vallese

L’OSI in era industriale entra nelle Officine

Personaggi ◆ Quando la storia vince sulla leggenda: le rocambolesche avventure ottocentesche di Joseph-Samuel Farinet Benedicta Froelich

Vi sono casi in cui gli eventi del passato si rivelano, a conti fatti, ben più incredibili e affascinanti di qualsiasi leggenda o racconto romanzato; e perfino la storia di un Paese apparentemente stabile e «tranquillo» come la Svizzera non sfugge ad alcuni, quantomeno fulgidi esempi di questa regola – soprattutto per quanto riguarda il cosiddetto «fascino dei fuorilegge», categoria nella quale la Confederazione può annoverare alcuni esempi di rara eccellenza: come Joseph-Samuel Farinet (-), uno dei più grandi falsari di tutti i tempi, che nella seconda metà dell’ottocento fece del Canton Vallese lo scenario delle sue imprese più celebri.

JosephSamuel Farinet (1845-1880). (blognationalmuseum.ch)

Agli occhi dei vallesani Joseph-Samuel Farinet assurse quasi a personaggio mitico, riverito e osannato Sebbene originario della Valle d’Aosta, Farinet avrebbe infatti finito per divenire una figura pressoché mitica nell’immaginario popolare elvetico – specialmente per i vallesani, agli occhi dei quali sarebbe assurto allo status di personaggio mitico, sulla falsariga di Robin Hood e d’altri ribelli gentiluomini. E in effetti, ciò che più colpisce nella storia di Joseph-Samuel Farinet è proprio la sua natura di personaggio irresistibilmente d’altri tempi: figura misteriosa, degna di un romanzo d’appendice a cavallo tra Arsenio Lupin e Rocambole, Farinet si presenta nell’unica foto sgranata giunta fino a noi come un giovane «bello e dannato», abbigliato da dandy e inequivocabilmente affascinante – sebbene qualcosa, nello sguardo sfuggente e nella postura rigida tipica dei dagherrotipi di allora, sembri alludere a una qualche forma di segreto inconfessabile. Figlio di contadini della piccola comunità montana di Saint-Rhémy-enBosses, nel cuore della Valle del Gran San Bernardo, il giovane Farinet si distinse subito per un innegabile talento nella difficile arte della contraffazione, tanto da dover presto fuggire in Svizzera, per la precisione nel Vallese; aveva infatti appena ventiquattro anni quando venne arrestato per la prima volta e condannato (in contumacia) a diciotto mesi di reclusione

per furto. Ma il vero talento del giovane Joseph-Samuel risiedeva nell’attività dei suoi esordi: sarebbe infatti divenuto celeberrimo come falsario di prim’ordine, in grado di produrre monete quasi perfette, per la precisione pezzi da  centesimi (all’epoca già molto simili agli odierni), tutti datati «», con i quali avrebbe letteralmente inondato il Vallese. Il metodo di Farinet era semplice quanto efficace: grazie alla qualità del metallo utilizzato nei cosiddetti «ventini», al nostro bastavano un martelletto e uno stampo ancora morbido per ottenere, direttamente dalla moneta originale, un calco artigianale in base al quale produrre le copie in totale autonomia. Fu proprio per questo tipo di exploit che, nel , venne nuovamente arrestato, stavolta a Martigny: era quello il periodo del crollo della Banca Cantonale del Vallese, sull’orlo del fallimento dopo appena pochi

anni dalla sua fondazione – un evento in effetti imprescindibile dai presupposti del lavoro di Farinet, favorito dal fatto che le moderne banconote erano quasi inesistenti nella Svizzera dell’epoca; prima del  (data dell’editto sulla cartamoneta confederata), la stampa del denaro non era soggetta a un reale controllo federale, e, non esistendo ancora una zecca centrale, le poche banconote in circolazione venivano prodotte dalle singole banche, con il risultato che il loro valore mutava a seconda della provenienza – dando luogo a una situazione piuttosto instabile, nonché molto favorevole alla contraffazione. Anche per questo, Joseph-Samuel si era rapidamente guadagnato l’affetto e la stima della popolazione: grazie alla sua abitudine di distribuire e donare monete false agli abitanti meno abbienti del Cantone, non gli mancavano i complici e simpatizzanti, pronti a offrirgli

aiuto e nascondigli sicuri; tuttavia, ciò non bastò a evitargli una condanna a quattro anni di prigione per le sue attività di falsario. Ma come detto, Farinet era personaggio troppo rocambolesco per lasciarsi frenare da simili quisquilie, tanto che si sarebbe prodotto in diverse, incredibili evasioni, vagabondando da un capo all’altro del Vallese: tra un’avventura e l’altra, perfino uno spettacolare quanto fallimentare processo (con tanto di avvocato altolocato), e l’allestimento di un vero e proprio «covo» in una grotta di Branson. Purtroppo, proprio come in un romanzo di cappa e spada dell’epoca, l’immancabile scontro finale tra il fuorilegge Farinet e l’autorità costituita era destinato a risolversi a svantaggio del nostro eroe, il cui corpo senza vita venne rinvenuto il  aprile del  ai piedi di una delle gole tra cui si dipana il fiume Salentze, a poca distanza dal villaggio di Saillon (ove aveva cercato rifugio dalle ricerche della polizia). Sebbene l’opinione all’epoca prevalente fosse che un gendarme gli avesse sparato, l’inchiesta rivelò che Farinet era in realtà morto cadendo nel crepaccio, sebbene i particolari non siano mai stati del tutto chiariti. Da allora, la leggenda di Farinet ha ispirato svariate opere, da biografie a romanzi, fino a film e sceneggiati di discreto successo, oltre al famoso Musée de la fausse monnaie di Saillon – chiari simboli del fascino che, a tutt’oggi, questa figura romanzesca ancora esercita sul pubblico. Tuttavia, il lascito forse più interessante del falsario – perlomeno, quello che lui avrebbe certo maggiormente apprezzato – ha a che fare proprio con il fulcro della sua breve vita: nel , un comitato di cittadini vallesani ha infatti deciso di istituire una nuova valuta a uso esclusivamente regionale (da utilizzarsi negli esercizi pubblici del Cantone per dare una spinta all’economia locale), battezzando la neonata cartamoneta con il nome di Farinet. E per qualcuno che, in fondo, si potrebbe definire un vero e proprio genio nell’arte della truffa d’artista, è difficile immaginare un tributo più appropriato del vedere il proprio nome nobilitato da una nuova valuta – secondo lo stesso spirito irriverente che il «Robin Hood del Vallese» avrebbe senz’altro apprezzato.

Concerti ◆ Un eccezionale appuntamento con la classica alle Officine di Bellinzona Un appuntamento insolito e per molti versi straordinario, quello di sabato  ottobre  con l’Orchestra della Svizzera italiana (OSI), che per la prima volta si esibirà, sotto la direzione di Markus Poschner, nella «Cattedrale» delle Officine FFS di Bellinzona. Il pubblico è chiamato in un luogo dal sapore industriale suggestivo e insolito come le Officine di Bellinzona, e in particolare, la sua Cattedrale (che potrebbe in futuro trasformarsi in un centro culturale per tutto il quartiere) per assistere a un concerto che avrà per protagonista la musica dell’austriaco Erich Wolfgang Korngold (Concerto per violino) e Piotr Il’ič Čajkovskij (Quinta sinfonia in mi minore). Quest’ultimo compositore si inserisce nel progetto di Tracce, che prevede una nuova lettura dei brani. Per l’occasione si esibirà la violinista lettone Baiba Skride, vincitrice di prestigiosi concorsi e premi internazionali, che del concerto per violino di Korngold ha già realizzato un’incisione discografica. Il concerto è promosso dalla Città di Bellinzona, con il sostegno di FFS. Dove e quando 30 ottobre 2021, Officine di Bellinzona. Prevendita dei biglietti sul sito www.osi.swiss; posti non numerati e disponibilità secondo le norme COVID.

La violinista lettone Baiba Skride.

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CULTURA

Una grande chitarra dietro un grande sorriso In memoria

Ricordo di Franco Cerri che, senza farlo notare, è stato una delle figure più importanti del jazz italiano ed europeo

Alessandro Zanoli

A pensarci bene nella storia del jazz gli «obituaries», quegli articoli in ricordo dei grandi musicisti che ci lasciano, non segnano un punto di arrivo definitivo, ma piuttosto segnano l’inizio, la nascita di una leggenda. Scrivere quindi della scomparsa di un famoso jazzista equivale, in un certo senso, ad aprire un nuovo capitolo nella storia del jazz e a fissare un punto dopo il quale quella persona diventerà immortale. Ecco perché, pur nella tristezza dell’occasione, parlare della recente morte di Franco Cerri offre lo spunto per rievocare una carriera smagliante, una figura unica che ha lasciato una traccia indelebile in tutti coloro che l’hanno conosciuto. Il chitarrista milanese è forse (e magari purtroppo) più famoso per la sua fisionomia che per la sua musica. Grazie al suo volto «scientificamente simpatico» un’agenzia pubblicitaria negli anni  lo aveva scelto tra molti candidati come personaggio fortemente rappresentativo e comunicativo e lo aveva fatto diventare il testimonial di una campagna divertente e anche un po’ demenziale. A dire il vero, a noi dispiace un po’ ricordare Franco Cerri come l’uomo in ammollo. Dispiace anche notare come tutti se ne siano ricordati nei molti articoli pubblicati in questi giorni. A noi piacerebbe invece che fosse ben presente nella memoria del pubblico la sua

musica, il suo stile così particolare, ricco e complesso. Il modo di interpretare il jazz di Franco Cerri è stato di altissimo livello. Ed egli stesso è stato un eccellente didatta, ma non per aver frequentato prestigiose scuole. La sua scuola è stata l’orchestra di Gorni Kramer. A contatto con quel genio della musica italiana, dotato di una capacità straordinaria di comprendere e interpretare il jazz, Cerri ha potuto crescere in un contesto unico e stimolante. Senza contare poi che l’Italia del secondo dopoguerra, in cui ha mosso i primi fortunati passi di carriera, era una nazione in cui il bisogno di nuova musica e di nuova cultura musicale era veramente grande. Cerri è stato esponente di punta di quell’ambiente fortunato, un vero progenitore: e questo, potremmo dire, suo malgrado. Pure se la sua nota timidezza e ritrosia gli facevano evitare le luci dei riflettori, la sua bravura non poteva che emergere. Cerri, dunque, è stato uno tra gli iniziatori del movimento jazzistico milanese, quello degli anni  e , in cui il meglio dei solisti americani arrivava nella capitale lombarda, invitato a suonare da appassionati come Arrigo Polillo e Roberto Leidi. Fa venire i brividi nella schiena pensare che Cerri abbia potuto dividere il palco con Billie Holiday, con Django Reinhardt, con Chet Baker o Gerry Mulligan. Eppure è andata proprio così.

La storia di questo enorme artista è contenuta in una bellissima biografia, scritta insieme all’amico Vittorio Franchini, dal titolo di In punta di di-

ta. Era una pubblicazione che doveva segnare gli ottant’anni di Franco Cerri. A noi che l’avevamo incontrato in quel periodo, diceva di sentirsi ormai

a fine carriera. In realtà la sorte gli ha dato la possibilità di continuare ancora per più di un decennio ad esprimere la sua poetica, fatta di un pensiero musicale complesso e raffinato. Quello stile rimane fissato in vari metodi per chitarra jazz, di cui fa veramente tenerezza rileggere le pagine oggi. Ma non dobbiamo comunque dimenticare l’uomo. Per tornare al viso accattivante di quell’immagine pubblicitaria, occorre dire che Cerri è stata una persona di rara simpatia. Affabile, e dotato di una comunicativa immediata, istintiva. A chi scrive è capitato per caso di incontrarlo su un volo aereo: per il cronista, e appassionato di jazz, l’occasione di intervistarlo era imperdibile. Cerri con enorme disponibilità aveva accettato molto volentieri questa richiesta imprevista, infilando poi una serie di vivaci aneddoti tratti dalla sua carriera. Gli appassionati e i curiosi potranno trovare quei racconti anche nel bellissimo documentario Franco Cerri. L’uomo in bemolle di Nanni Zedda (verrà passato prossimamente sulla RSI). Sarà il modo per rivedere, e riascoltare, momenti salienti della vicenda di uno dei più dotati e preparati musicisti italiani. Insomma: con la scomparsa del chitarrista la storia del jazz non chiude la pagina «Franco Cerri». La riapre in bellezza, e d’ora innanzi ce la farà sentire più cara e preziosa. Annuncio pubblicitario

Verità e bellezza

Poesia ◆ Una nuova poesia di Valerio Abbondio in versione inglese Simona Sala

Nelle edizioni  e  avevamo presentato il lavoro dell’anglista e insegnante ticinese Marco Abbondio, che dopo avere scoperto l’intensa attività letteraria dell’antenato Valerio, ha deciso di tradurne alcune poesie in inglese, e poi di illustrarle. Questa settimana proponiamo Il mondo ti si svela, dove si fanno i conti con il tempo che passa e le cose che non tornano più, riconoscendone caducità ma anche, se del caso, intima bellezza. Il concetto è un po’ come come quello rappresentato dalla donna che si appresta ad entrare in acqua, il cui riflesso, a ben guardare, sovverte gli ordini della fisica, come d’altronde fanno il tempo e gli anni che passano, spesso disordinati, lontani dalla verità, ma forse proprio per questo, anche molto belli.

Il mondo ti si svela Il mondo ti si svela in verità / più che in bellezza; / e un po’ ti attristi, e pensi / un tempo non lontano in cui bastava / un colore, un accordo, a darti un senso / superno. Più a fondo ora la mente / guarda le cose e la virtù che insieme / le rinnova; e pur godi se intravedi / bellezza verità come un sol volto. The world reveals itself to you The world reveals itself to you in truth / rather than in beauty; and a bit saddened, you think / of a time not long ago when it was enough / a colour, a chord, to give you a celestial / meaning. Deeper now your mind / looks at things and the virtue that together / renews them; and still you rejoice, if you glimpse / beauty and truth as one face. (da Cuore notturno, )

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CULTURA

Bilanci crudi e sereni Narrativa/1

Nella sua recente raccolta di racconti Bernhard Schlink fa i conti con il tempo

Luigi Forte

Se amiamo veramente, in fondo non possiamo mai sbagliare, pensa un distinto signore settantenne brillante autore di libri storici. Fra le braccia della sua ben più giovane e affascinante compagna la vita in realtà sembra semplice e la felicità a portata di mano. Ma il breve racconto Anniversario che conclude la nuova raccolta I colori dell’addio del noto giurista e scrittore tedesco Bernhard Schlink, dimostra in realtà il contrario: quella remota dimensione magica è ormai preclusa all’uomo per l’incolmabile differenza di età che rischia di logorare l’euforia della giovinezza femminile. Come già nel precedente volume di racconti Bugie d’estate, ancora una volta, con il consueto tocco leggero e delicato, Schlink disegna solitudini e ambiguità, dolori e inadeguatezze sullo sfondo di un passato che ritorna inesorabile a sconvolgere il presente. Come il caso del matematico della Rdt nel racconto Intelligenza artificiale che denuncia di nascosto il proprio collega e amico Andreas catturato mentre cercava di lasciare il paese. Ne avrà anche vantaggi, perché così si assicura un posto di direttore che sarebbe spettato al fuggitivo che, dopo il carcere, viene riabilitato e approda all’Accademia delle Scienze. L’amicizia prosegue perché Andreas è all’oscuro dei fatti, ma poi, dopo la sua morte, la figlia intende richiedere i dossier dei due studiosi. La verità emerge infine solo attraverso le parole che l’amico rivolge in totale solitudine al defunto: la sua delazione gli ha garantito una vita all’insegna dell’amicizia e del lavoro comune. Del resto, non esiste una vita giusta dentro quella sbagliata, ricorda. E questo, dopo tutto, era il mondo della Rdt. Ottimi professionisti, studiosi e borghesi animano queste pagine, non più giovani e con un passato sempre incombente. Come il protagonista di Macchie senili, un docente da tempo divorziato, che dopo la festa dei suoi set-

Dall’immagine di copertina del nuovo libro di Schlink.

tant’anni, sopraffatto da avvenimenti lontani e in preda a una latente depressione, è ormai convinto di aver fallito non solo come marito, ma anche come padre. Non gli servirà nemmeno ritrovare un vecchio amore. Chissà che gli sbagli, le cattiverie, gli errori del passato non siano che piccoli segni lasciati dagli anni e ormai indelebili in una vita che prima o poi imparerà ad accettare sé stessa. Anche lo storico della musica Philip in Triangolo musicale ritorna inaspettatamente a tempi lontani incontrando la sua vecchia fiamma Susanne. Da giovane aveva frequentato la sua ricca famiglia e stretto una sincera amicizia con il fratello di lei, Eduard, bloccato su una sedia a rotelle per un grave incidente di cui la sorella fu responsabile. Proprio Philip è stata

la causa del suo distacco: non poteva sposarlo e lasciare il ragazzo da solo. Ma ora, a distanza di anni, il vecchio amore fra i due ritrova un attimo di passione in assenza del marito. Bernhard Schlink fa i conti col passato e lascia trapelare qui e là un dolore che genera nostalgia e non rifiuta l’affetto, anche se tardivo e spesso ormai inafferrabile, quasi un fantasma di lontani desideri. Come nel racconto L’estate sull’isola, la singolare avventura di un quindicenne in vacanza con la madre sul mare del Nord che viene a sapere da alcune amichette, che «c’era un uomo sdraiato su sua madre, nudo, fra le dune». Il suo disagio incuriosisce la mamma a cui il figlio racconterà ogni cosa, compresi i suoi ingenui passatempi erotici. In

quel momento cade il muro dell’autorità, del sesso e dell’età, e anche la madre non esita a confessare che quell’uomo le piace, perché le ricorda un lontano giovanissimo amore morto in guerra. C’è una dolcezza che scardina ogni morale e si deposita sulla polvere del tempo ravvivando un gesto di fedeltà verso gli altri e verso sé stessi. Anche quando sembra che il destino non possa più offrire nulla, come nel caso di Sabine, la dottoressa che nel racconto Il medaglione si trova ad affrontare l’ex marito, Michael, che l’aveva lasciata per la ragazza alla pari e che ora, affetto da un tumore, vorrebbe rivederla prima di morire. S’incontrano dopo un po’ di tempo su una panchina ai giardini, dove dialogando lei riscopre la figura del marito, e ne prova compassione. Lui, a sua volta, vuole lasciarle un ricordo: le dona una catenina d’oro con un medaglione che apparteneva a sua madre. Ora, pensandolo dopo la sua morte, Sabine non prova più imbarazzo né delusione. Forse l’ha ormai perdonato e non a caso porta ogni giorno quel miracoloso ciondolo. Non c’è invece amuleto che possa lenire il dolore del protagonista di Daniel, my brother, uno scrittore raggiunto in America dalla notizia che il fratello Chris, storico dell’arte, e sua cognata Dina si sono tolti la vita. Lei era malata da tempo e lui ha deciso di seguirla nel suo viaggio verso il nulla. Il trauma è tale che nemmeno la scrittura, una sorta di fuga che di solito gli serve per affrontare la vita, gli viene in aiuto. Non può congedarsi dal fratello e dal passato, che li aveva separati, se non ritrovando nei ricordi una risposta ai loro silenzi. È l’itinerario che accomuna gran parte di questi racconti che s’interrogano sul senso o l’insensatezza dell’esistenza, sull’inevitabile bilancio che l’età ci impone, sulla saggia accettazione di un orizzonte senza futuro. Anche l’anziano protagonista di Pi-

cnic con Anna non vede un domani, dopo che la giovanissima Anna, figlia minore di una famiglia del Kazakistan, che lui aveva aiutato fin da quando era bambina, viene uccisa. Lui assiste dalla propria finestra all’assassinio e non interviene. Trova una sorta di riscatto e una nuova libertà quando, con la pistola in mano, pensa di uccidersi. Forse che una cosa sbagliata può diventare giusta? La domanda in questo caso ha dei risvolti quasi un po’ surreali anche se legati al tema dell’incesto di cui si offrono citazioni letterarie: dal romanzo Homo Faber dello svizzero Max Frisch a numerosi esempi tratti dalla Bibbia. In effetti la storia di Bastian lasciato dalla moglie, che incontra Theresa a un seminario di yoga, offre spunti originali e anche, pur fra molte perplessità, un messaggio di vita. Perché alla fine nasce il piccolo Oskar e tutti sono felici. A cominciare dalla madre, Mara, figlia di Theresa, che a suo tempo aveva lasciato il marito per Bastian, a cui Mara si era molto affezionata. La ragazza nel frattempo è cresciuta, ha studiato e si è innamorata di Sylvie. Le due si sposano e Mara fa di tutto per avere un figlio, ma la fecondazione artificiale non dà i risultati sperati. Così durante una vacanza invernale con Bastian s’infila nottetempo nel suo letto e fa l’amore con lui che la crede Theresa. Se ne accorgerà solo al mattino e ne rimarrà come stordito, mentre Mara si mostrerà del tutto normale e imperturbabile. Il misterioso papà farà buon viso a cattivo gioco e si mostrerà orgoglioso di quel ragazzo, pur rifiutando di essere chiamato nonno. Ma allora è proprio vero che talvolta una cosa sbagliata può diventare giusta. Bibliografia Bernhard Schlink, I colori dell’addio, traduzione di Susanne Kolb, Neri Pozza editore, p. 239, € 18.

La lingua di Ellroy Narrativa/2

L’ultimo romanzo di James Ellroy. La consueta qualità e l’impegnativa e notevole traduzione italiana di Alfredo Colillo

Stefano Vassere

Chissà se veramente James Ellroy «è una delle voci più originali e potenti della letteratura americana contemporanea», come dice il risvolto di destra di questo nuovissimo Panico dell’autore californiano. A rigore, per rispondere a questo dilemma bisognerebbe sapere del resto della letteratura americana contemporanea, impresa, si sa, inarrivabile ai più. Diciamo che è più prudente ma molto fondato dire che Ellroy è senza dubbio originale e potente, a maggior ragione in quanto piegato nell’angusto e condizionante angolo dei generi. Sta di fatto che ogni sua nuova uscita è salutata con grande cerimonia, trattandosi ogni volta di un vero e proprio ritorno, di fronte al quale chi lo ama brama di ritrovare, in una specie di mania, stili e temi che già apprezza. Questa è la storia di Freddy Otash, che ha lavorato nella polizia di Los Angeles, ma ne è cacciato per un fattaccio che non staremo a dire e decide di occuparsi nell’investigazione; per via di fatti privati ma soprattutto per vendere casi piccanti al tabloid scandalistico «Confidential». Otash è vis-

suto davvero e, nel mondo ellroyano, emerge come spin off dallo sfondo di romanzi e vicende precedenti. Ora è al Purgatorio, in attesa che la suprema confessione del racconto della sua vita lo trasferisca (con pochi onori, invero, ma è la legge dell’hard boiled) in Paradiso. I romanzi di James Ellroy chiedono sforzi sovrumani al lettore. Se alle prese con un testo del realismo magico sudamericano chi legge è costretto a tenere lì uno schemino dei personag-

gi, tanti sono i protagonisti e le loro trame reciproche, qui lo stesso lettore rinuncia in partenza, affidandosi alla speranza di non perdere proprio del tutto il filo, in un continuo avanti e indietro delle pagine con il dito. Le ossessioni sono quelle che conosciamo: gli attori di Hollywood e i loro vizi, malavite varie, complotti politici, politici ancora più debosciati degli attori, russi, donne e donne, bourbon e benzedrine. Un milieu che il lettore locale può solo immaginare tanto è

lontano dallo stare al mondo europeo; lontano peraltro dal giallo britannico e dalle sue vecchine che risolvono casi di maggiordomi di campagna mentre preparano una torta o accarezzano il gatto. L’ambiente di Ellroy è lasciato alla fine nel marcio totale, nella migliore delle ipotesi nello squallido stato nel quale lo avevamo incontrato all’inizio della narrazione. Sappiamo che Ellroy esagera, con lo stile, con le parole, con le ipotesi e con le trame, e che molte sue uscite hanno il tono della posa, addirittura colpevolmente dichiarata. Come quando è lui stesso a citare il suo medesimo stile, in una delle vertigini che fanno letteralmente impazzire i tifosi: «io penso e scrivo in allitterazioni algoritmiche. La lingua deve sferzare con mano pesante. Liberare mentre offende». Sta parlando di «Confidential» o dei suoi libri? Mah? Insomma, chi adora questo autore adora anche i suoi difetti, che, dopo anni di esercizio, riconosce a prima vista rendendo l’autore americano uno di casa. Si è detto che le richieste al lettore sono fuori misura. Restano inferio-

ri comunque a quanto si presume dal traduttore, qui Alfredo Colitto, cui le prossime righe rappresentato un doveroso omaggio. Il lettore ciclico dello scrittore californiano non può risultare ammirato dalla resa di allitterazioni furibonde e sintassi sincopate. «We looked down at the dregs and the dreck and the dreamy drag queens dragging themselves through the aisles» che diventa «Ce ne stavamo a guardare residui e relitti resuscitati e tragici travestiti tra le corsie». Oppure «It’s the lexicon of the lowdown. It’s the dialogue of the dish. It’s the slithering slur and the thrill of the threat», in italiano «È il lessico delle ultime novità. Il dialogo del pettegolezzo. Il farfugliare farraginoso e il fremito della frecciata». Bref: Ellroy è bravo, ma lo sarebbe ancora di più se attraversasse l’Oceano e andasse di persona a casa di Alfredo Colitto a porgergli la mano e dirgli: «Bravo! E bravo Alfredo». Bibliografia James Ellroy, Panico, traduzione di Alfredo Colillo, Torino, Einaudi, 2021.


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