Anno LXXXIV 2 novembre 2021
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
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MONDO MIGROS
Pagine 4 – 5 ●
SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
Quando le relazioni finiscono nel silenzio totale: le conseguenze psicologiche del «ghosting»
Indagare il rapporto indissolubile fra passatempi e identità svela le dinamiche delle nostre azioni
Cos’è l’ingorgo globale che attanaglia l’economia ed era sfuggito alle previsioni
Alla Beyeler di Basilea una mostra straordinaria celebra Francisco José de Goya
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Keystone
Taiwan e l’artiglio del Dragone
Alfredo Venturi
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La «formula magica» scricchiola Peter Schiesser
Il tempo corre, sotto la cupola di Palazzo federale, metà legislatura è trascorsa. E se quella precedente era stata definita una «legislatura perduta», povera di riforme di peso, neppure quella attuale ha dato grandi risultati. Eppure, l’elezione di un buon numero di deputati giovani, donne e ecologisti aveva fatto sperare che si facessero passi avanti, soprattutto sull’Avs e sull’Europa. Non è stato così. Infatti, la nuova riforma delle assicurazioni per la vecchiaia, dopo la bocciatura popolare della revisione dell’Avs e della previdenza professionale del , non è approdata a granché: la mini-riforma dell’Avs che verrà approvata alle Camere federali nella sessione invernale, con l’aumento a anni dell’età di pensionamento per le donne, dovrà affrontare lo scoglio della votazione popolare (sindacati e Ps hanno preannunciato il referendum); la riforma del secondo pilastro, con la proposta di compromesso elaborata dalle parti sociali, rischia di essere bocciata già in parlamento. Dopo anni dall’ultima grande revisione delle rendite per la vecchiaia si
resta dunque al palo e le finanze dell’Avs peggiorano di anno in anno. In tema di Europa, poi, siamo ai piedi della scala, dopo l’abbandono del tavolo dei negoziati sull’accordo quadro con l’Unione europea. Anzi, sono stati fatti passi indietro, poiché senza accordo quadro gli accordi bilaterali rischiano di perdere consistenza, non venendo aggiornati. Inoltre la Svizzera si vede negata la partecipazione ai programmi di ricerca scientifica dell’Ue, e un accordo sull’elettricità ancora più importante con la presente crisi energetica globale – si fa più improbabile. Qualche riforma il Parlamento l’ha fatta: l’introduzione di un matrimonio per tutti e il congedo paternità, approvati dal popolo, l’abolizione dei dazi doganali sui prodotti industriali importati. Tuttavia, le aspettative sorte due anni fa, considerato che al Nazionale non c’è più una maggioranza di centro-destra (ma al Consiglio degli Stati sì), sono state deluse. Si guarda quindi alla prossima legislatura, e com’è tradizione si fanno i primi sondaggi, in primis quello commissionato dalla Srg-Ssr (ne scrive Luca Beti a
pagina ). Come ben sappiamo, i sondaggi sono una fotografia istantanea e spesso vengono sconfessati alle urne. Tuttavia, sono uno strumento utile per i partiti, per la loro futura campagna elettorale e per la composizione del futuro Consiglio federale. Sì, perché se i risultati mostrano una sostanziale stabilità dei blocchi, qualcosa potrebbe cambiare nella ripartizione dei sette seggi nel governo federale. L’Udc si conferma primo partito, con consensi in crescita, i socialisti restano il secondo partito benché in leggero calo, ma i dati più interessanti riguardano Plr, Alleanza del Centro (nata dalla fusione di Popolari democratici e Partito borghese democratico, il partito dell’ex consigliera federale Widmer-Schlumpf), Verdi e Verdi liberali: il Plr infatti perde voti, a causa delle sue divisioni interne manifestatisi sulla legge sul CO bocciata dal popolo e sull’accordo quadro con l’Ue, l’Alleanza del Centro perde qualcosa ma resiste, i Verdi confermano la loro forza e i Verdi liberali crescono ancora (rubando voti al Plr e al Ps, fra chi è deluso dal
mancato appoggio all’accordo quadro con l’Ue). Secondo il sondaggio citato, Plr, AdC e Verdi raccolgono fra il , e il , per cento di voti. E questo non giustifica più che il Plr abbia due seggi in Consiglio federale, l’AdC uno e i Verdi nessuno. Questa riflessione era già nata due anni fa e i partiti di governo avevano promesso che in questi quattro anni avrebbero affrontato la questione, ma non l’hanno fatto. Se le prossime elezioni dovessero confermare queste stime, molto probabilmente la composizione del Consiglio federale dovrà cambiare e il Plr perderebbe un seggio, in questo caso probabilmente Ignazio Cassis non verrebbe rieletto. Ma non è detto che l’unico cambiamento riguardi la cessione del seggio del Plr ai Verdi, poiché tre seggi su sette all’area rosso-verde sarebbero eccessivi: il Ps infatti non svetta, con il suo , per cento di preferenze. Quindi anche il Ps rischia il suo secondo seggio, a vantaggio dei Verdi liberali (al , per cento, in crescita di punti rispetto al ). Qualcosa potrebbe effettivamente cambiare nell’attuale «formula magica» di governo.
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SOCIETÀ
azione – Cooperativa Migros Ticino
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La vita di Pasquale Lucchini Collina d’Oro ha da poco inaugurato una nuova sala espositiva dedicata all’ingegnere, imprenditore, costruttore e finanziere
Ladra di memorie Un libro di Manuela Bonfanti Bozzini racconta storie di malattie neurodegenerative attraverso i racconti dei protagonisti
Mondoanimale La Rabbia è una malattia virale letale per l’animale e per l’uomo, in Svizzera è sparita dal 1999 ma non bisogna abbassare la guardia
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Il trattamento del silenzio
Psicologia ◆ Con il diffondersi dei social network è sempre più frequente che le relazioni amicali, amorose o di lavoro finiscano nel silenzio totale. Un comportamento che causa stress e forte malessere psicologico
Stefania Prandi
Controlliamo lo smartphone con ansia, più volte al giorno, per vedere se arriva la risposta al nostro messaggio. Passa il tempo e l’attesa diventa snervante. Ci domandiamo quando abbiamo sbagliato e se c’è un modo per fermare quel silenzio forzato. Prima o poi succede a tutti: una persona che frequentiamo e con la quale abbiamo una relazione – amicale, amorosa o di lavoro – all’improvviso interrompe i rapporti, senza spiegare il motivo. Ci ignora, smettendo di parlarci oppure non rispondendo più ai messaggi. La parola inglese per indicare questo tipo di «evitamento» è ghosting (da ghost, fantasma), traducibile come «sparire». Ma ci sono altri termini per indicare lo stesso comportamento: isolamento, ostruzionismo e «trattamento del silenzio». Nonostante gli psicologi abbiano definizioni sfumate per ognuna di queste parole, sono tutte essenzialmente forme di ostracismo. Kipling Williams, docente di Psicologia alla Purdue University, in Indiana, ha studiato per oltre trentacinque anni gli effetti del «trattamento del silenzio», incontrando sia le vittime sia quanti lo hanno messo in atto. Secondo le sue ricerche, riportate in un articolo di Daryl Austin sul mensile statunitense «The Atlantic», due persone su tre, nel corso della vita, hanno usato questo metodo – per prendere le distanze oppure per vendicarsi – contro qualcun altro.
Nessuna risposta ai messaggi e l’attesa diventa snervante. (Shutterstock)
Il «ghosting» è l’improvvisa interruzione dei rapporti e della comunicazione senza la spiegazione del motivo Il ghosting può variare di intensità (con interruzioni parziali o totali della comunicazione) e di durata (da qualche giorno a diversi mesi oppure addirittura anni) e non è una novità. È sempre esistito ma, secondo alcuni studi, sembra essere aumentato con i nuovi modi di comunicazione, subendo un’accelerazione grazie alle occasioni offerte da internet. Ogni possibilità di connessione, infatti, implica l’eventualità di disconnettersi. Col ghosting, in genere, ci si «libera» di qualcuno conosciuto online sulle app di incontri. Sul web è tutto un fiorire di video e vademecum in inglese che spiegano quanto sia doloroso e frustrante essere inaspettatamente scaricati senza spiegazioni e senza possibilità di controbattere. Si fissano i messaggi inviati su WhatsApp e ci si domanda perché si è stati bloccati improvvisamente sui social network. Si è messi da parte nonostante ci fossero intesa e affiatamento (almeno così sembrava). Lo strappo risulta impre-
visto anche se, secondo alcuni esperti, ci sono segnali premonitori che andrebbero colti, almeno per rendere il processo meno penoso. La caduta di interesse che anticipa il darsi alla macchia si manifesta con appuntamenti cancellati, tempi dilatati di risposta ai messaggi, testi scritti senza cura, pieni di refusi o ridotti alle sole emoticons. La vittima di ghosting soffre. In quanto esseri umani abbiamo bisogno del contatto sociale per la nostra salute mentale e l’isolamento può avere conseguenze gravi. Il «trattamento del silenzio» causa stress e un malessere psicologico equiparabile al dolore fisico. Sul lungo periodo potrebbe rivelarsi un abuso, sebbene non sempre all’origine di questo comportamento ci sia la malafede. Alla base può esserci l’incapacità di gestire la rottura di un rapporto in modo diretto, per timore di un confronto. Il problema è che chi viene tagliato fuori si sente responsabile ed è portato a scusarsi, perfino se non ci sono ragioni reali. Il ghosting è un at-
to unidirezionale, contro il quale non sembra esserci molto da fare: bisogna accettarlo e distaccarsi emotivamente il prima possibile. Insistere è controproducente e aumenta lo sconforto. Il «trattamento del silenzio» si verifica anche all’interno di una famiglia, tra genitori e figli – capita che cominci nell’infanzia, come punizione per bambini o adolescenti – oppure tra moglie e marito. In un articolo pubblicato sul sito della Prude University, Kipling Williams racconta il caso di una moglie che, in seguito a una discussione apparentemente di poco conto, è stata completamente esclusa dalle conversazioni col marito, un rapporto malato finito soltanto quando l’uomo è morto. Un altro esempio citato da Williams è quello di un padre arrabbiato con il figlio adolescente al quale aveva smesso di parlare senza più riuscire a riprendere il dialogo, pur essendo cosciente del male inflitto al ragazzo. Si tratta di forme di controllo che rendono impotenti, provocando irri-
tazione, umiliazione e senso di colpa. Anche chi le mette in atto, però, non è esente dalle conseguenze negative.
Anche chi mette in atto il mutismo forzato finisce per vivere in uno stato costante di negatività Per portare avanti il mutismo forzato bisogna ribadire ogni giorno la propria scelta, rimuginando sul motivo scatenante e finendo per vivere in uno stato costante di rabbia e negatività. Inoltre, è difficile uscire dalla spirale perché ripetere un’attività tossica, nonostante se ne conoscano i danni, crea dipendenza. In certi casi, senza un aiuto esterno, diventa impossibile cambiare, ci si trova imprigionati in «sabbie mobili psicologiche». L’ostracismo si manifesta anche in modi parziali: qualcuno esce dalla stanza nel bel mezzo di una conversazione, un amico a scuola guarda
dall’altra parte quando lo si saluta oppure un collega, in un thread di messaggi, risponde ai commenti di tutti evitando solo una persona. Venire ostracizzati sul lavoro significa essere esclusi dagli eventi sociali e dai processi decisionali. L’atteggiamento può degenerare in bullismo. Come viene spiegato in un articolo di «Psichology Today», si tratta di un «non comportamento», un’aggressione mascherata e sulla quale è difficile intervenire. Spesso le vittime non sono i lavoratori più arroganti e aggressivi ma quelli che, con coraggio, esprimono pareri impopolari. Chi si trova messo all’angolo prova angoscia, seguita da collera ed è portato a reagire perdendo la pazienza. L’«evitamento» esaspera, scatenando l’aggressività. La risposta, però, deve essere improntata alla calma. È importante mantenere il controllo sugli altri aspetti della propria vita, dagli hobby alle attività culturali, e continuare a coltivare i rapporti con i colleghi bendisposti.
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Lugano ripensa il lungolago
Città ◆ A Rivetta Tell sono esposti i progetti proposti da quattro gruppi di architetti e paesaggisti per ridisegnare le aree pubbliche lungo il lago Alberto Caruso
Il centro della città di Lugano, sulla piana del Cassarate, è delimitato dai rilievi ed è aperto verso il lago, a sud. Il lago è il fronte della città. Lungo la riva sono allineati i luoghi e le istituzioni più importanti come il Musec, il LAC, il Municipio, il parco Ciani e il palazzo dei Congressi, la Biblioteca Cantonale, il Lido, l’area destinata al futuro polo congressuale. Anche a Lucerna il lungolago è il luogo che ospita le attività più rappresentative della città. Così come avviene in altre città elvetiche costruite sulle rive dei laghi, compresi gli esempi più importanti di Zurigo e di Ginevra. In queste ultime ed anche a Lucerna, tuttavia, è anche il bordo del grande fiume che le attraversa a rappresentare il fronte delle città storiche. A Lugano il lungolago è lo spazio pubblico fondamentale, il terminale dei più significativi interessi sociali, culturali ed economici cittadini. Per questo ha un particolare rilievo l’attuale confronto tra architetti e paesaggisti, bandito dalla città e concluso di recente, per un ridisegno complessivo delle aree pubbliche lungo il lago e nel centro. Un confronto diretto prima di tutto a risolvere il tema del traffico che separa la città dal lago. Il mandato di studio in parallelo, coordinato da Architetti Tibiletti Associati e Cultura del territorio-Claudio Ferrata, si è svolto tra quattro gruppi selezionati dopo prequalifica: Michele Arnaboldi Architetti, di Minusio, con Joao Gomes Da Silva, Global Arquitectura Paisagista e altri; Inches Geleta Architetti, di Locarno, con Demattè Fontana, De Molfetta & Strode e altri; Sophie Agata Ambroise – Officina del Paesaggio, di Lugano, con Michael Güller e altri; Paolo L. Bürgi, di Camorino, con Van de Wetering Atelier für Städtebau, Josep Lluis Mateo e altri. Il collegio di esperti ha raccomandato al Municipio «di procedere nello sviluppo del comparto tenendo come base di riferimento» il progetto del gruppo con capofila Inches Geleta – i più giovani tra i team partecipanti – ed ha raccomandato di prendere in considerazione anche alcune proposte degli altri gruppi partecipanti. Secondo il collegio, gli obiettivi indicati dai partecipanti e da perseguire sono principalmente quello della moderazione del traffico, quello dell’allargamento della pedonalizzazione, del ridisegno delle piazze intorno al Municipio, del miglioramento dei collegamenti tra la mobilità lenta e il nodo di interscambio di piazzale ex Scuole, e quello dell’organizzazione di altre attività, come il mercato, da ospitare nelle vie del centro liberate dal traffico. Entrare nel merito dei progetti in poche righe e senza rappresentazioni grafiche è arduo, anche per la complessità delle proposte, che corrisponde alle diverse situazioni urbanistiche del lungolago, storicamente formate in tempi e secondo concetti culturali differenti. L’esposizione dei progetti sul lungolago, alla Rivetta Tell, è una buona occasione rivolta al grande pubblico degli utenti, invitato ad esamina-
Vista 3D del lungolago di Lugano, progetto del team con capofila Inches Geleta Architetti di Locarno.
re i disegni proposti e a confrontarli. Nel merito dei progetti (e chiedendo scusa agli autori per la necessaria approssimazione descrittiva), quello scelto dal collegio, con capofila Inches Geleta, propone misure per favorire il transito del lungolago da parte dei trasporti pubblici e della mobilità lenta, disincentivando i mezzi privati. Nella proposta molto articolata, Riva Caccia perde il ruolo di passaggio e diventa un parco pubblico, in modo che l’affaccio del centro sul lago «diventi una terrazza racchiusa tra due parchi urbani».
Per arrivare alla progettazione definitiva il Municipio dovrà elaborare un masterplan Il progetto propone di estendere fino al lago la pavimentazione della piazza del LAC, mentre il parco Ciani viene esteso dai giardini di piazza Indipendenza fino alla Lanchetta. La continuità del percorso pubblico a lago viene potenziata, introducendo passerelle pedonali a lago laddove la presenza di spazi privati e ostacoli topografici la interrompono. Gli or-
meggi vengono riorganizzati in modo da liberare spazi a terra e viene creata una completa permeabilità pedonale tra il Campo Marzio sud e nord. Il rapporto del collegio ha apprezzato anche la proposta di una copertura del piazzale delle ex Scuole e quella della formazione di un centro destinato alla «logistica urbana» nel piano interrato dell’autosilo Balestra. Il progetto con capofila Michele Arnaboldi organizza le sue proposte intorno all’obiettivo di superare il concetto ottocentesco della «lettura contemplativa dello spazio lacustre» offerta al visitatore e di ristrutturare i luoghi in chiave moderna, generando nuovi spazi di qualità per la vita pubblica. Il collegio ha criticato la proposta di costruire nel piazzale delle ex Scuole un nuovo fabbricato sollevato dal suolo, diretto a ricomporre un assetto urbanistico simile a quello antecedente alla demolizione delle scuole. Nel progetto con capofila Paolo Bürgi è protagonista l’organizzazione degli spazi verdi, come elemento continuo e prevalente del nuovo disegno. La lettura del comparto è a scala territoriale, tra i monti Brè e San Salvatore. È previsto il rispetto dei filari storici di tigli e il loro pro-
lungamento. Il percorso dal piazzale ex Scuole al Cassarate diventa un boulevard continuo e riconoscibile. Anche nel progetto del gruppo con capofila Sophie Agata Ambroise la continuità del verde e dei percorsi innerva il nuovo disegno, rappresentato nelle belle tavole ad effetto acquarellato. Nel piazzale ex Scuole è previsto un nuovo edificio a corte residenziale cooperativo e misto, sul modello del Kalkbreite zurighese. Viene inoltre proposta la rifunzionalizzazione del Palazzo dei Congressi, per ospitare sotto la sua copertura una agorà e un mercato. Entrambe queste proposte sono state criticate dal collegio di esperti, che ha messo in dubbio l’obiettivo del progetto di valorizzare un’immagine romantica della città, ritenendo che «non è forse mai esistita». L’iter previsto per arrivare alla progettazione definitiva è lungo e faticoso. Prevede che il Municipio rediga un masterplan sulla base delle proposte emerse dal mandato di studio in parallelo, le cui previsioni saranno successivamente oggetto di più concorsi di progettazione. È auspicabile che l’energia innovativa emersa oggi nel fertile confronto sul lungolago non venga dispersa nel tempo e nello spezzettamento dei concetti progettuali. Il rischio maggiore, per un positivo esito finale di questa vicenda, è rappresentato dal fatto che il masterplan del lungolago è sovrapposto al masterplan generale della città, la cui gara è conclusa, ma senza ancora la scelta della proposta più convincente. L’area del lungolago e le sue fondamentali relazioni con il resto della città sono, appunto, oggetto anche del masterplan generale, che proporrà concetti strategici e coerenti per l’insieme del territorio comunale. L’auspicio è che i progetti siano integrabili. Nel prossimo futuro si prospetta, evidentemente, una prova importante e impegnativa per la gestione dell’urbanistica cittadina.
Bambini e digitale Lapurla ◆ Per la prima volta in Ticino un «Laboratorio di dialogo» Di creatività, arte, cultura, digitalizzazione nella prima infanzia si discuterà il novembre, dalle . alle ., al LAC di Lugano. L’evento, promosso da Percento culturale Migros in collaborazione con il Dipartimento della sanità e della socialità e con LAC Edu, ha lo scopo di approfondire il ruolo delle manifestazioni e delle attività culturali e artistiche nel delicato rapporto educativo con il bambino piccolo. Lapurla, progetto ideato dall’Univ. delle Arti di Berna HKB e dal Percento culturale di Migros intende evidenziare, anche su spinta della Commissione svizzera per l’UNESCO, l’importanza della qualità dell’educazione nella prima infanzia in relazione alle possibilità di integrazione e riuscita professionale e personale in tutti gli ambiti di vita. L’evento si rivolge a professioniste/i del mondo dell’educazione, cultura sociale e salute che desiderano impegnarsi per garantire continuità e qualità al settore. Prenderanno la parola Antonio Catalano, Dieter Schürch, Karin Kraus, Jessica Schnelle, Maren Zeller, Monica Ceccardi, Stefano Papetti. Info su: www.lapurla.ch.
Attenti al trucco Sicurezza ◆ Avviso a proposito di messaggi su presunti concorsi Negli scorsi giorni alcuni nostri lettori ci hanno informato di aver ricevuto sul loro smartphone messaggi apparentemente provenienti da Migros, in cui si segnalava la possibilità di vincere vari premi in buoni d’acquisto cliccando su un indirizzo internet contenuto nel messaggio. Si trattava evidentemente di falsi concorsi: invitiamo i nostri clienti a non rispondere in alcun modo a questo tipo di inviti e di cancellarli immediatamente una volta ricevuti. L’obiettivo di questi messaggi è di convogliare le persone su pagine da cui si scaricano e installano programmi nocivi sullo smartphone (malware). Come già chiarito molte volte, Migros non interpellerà mai in questo modo i propri clienti né chiederà mai di interagire attraverso messaggi sul cellulare privato. Invitiamo dunque a mantenere un’attenzione vigile su questo tipo di attività e a contattare la Hotline Migros in caso di dubbio, al numero () .
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MONDO MIGROS
Delicato e fragrante
Attualità ◆ Prodotto solo con cosce di maiali allevati in Ticino, l’aromatico prosciutto cotto nostrano si scioglie letteralmente in bocca. Questa settimana lo trovate in azione presso l’Angolo del Buongustaio delle maggiori filiali Migros
I suini con cui si produce il prosciutto cotto nostrano vengono allevati in spazi adatti alle loro esigenze, dove vivono in piccoli gruppi e dispongono di luce diurna naturale e aria fresca. La loro alimentazione bilanciata è costituita esclusivamente da cereali svizzeri, integrati con mais ticinese. Queste particolari condizioni contribuiscono a rendere la loro carne gustosa, tenera e consistente. Una materia prima che di fatto si presta bene per la produzione di prelibati salumi, come quelli preparati dalla Salumi di Pin. Accanto alle più tradizionali specialità quali salame, salametti, pancetta, coppa, mortadella e prosciutto crudo, il salumificio familiare di Mendrisio propone anche il prosciutto cotto, disponibile affettato al momento presso l’Angolo del Buongustaio dei principali supermercati Migros. Per produrre questa bontà i mastri salumieri selezionano le migliori cosce di suino ticinese, che presentano un’adeguata proporzione tra parte grassa e magra. Le cosce vengono poi disossate, refilate e aromatizzate con una miscela di sale e spezie la cui composizione è custodita gelosamente dall’azienda momò. Segue un lento massaggio, che avviene in apposite macchine chiamate zangole, che servono a distribuire la salamoia in modo omogeneo all’interno delle cosce e ad ammorbidire la carne. Terminata questa fase, le cosce sono inserite in appositi stampi metallici e collocati in un forno a vapore saturo per la lunga cottu-
Azione 30% ra a temperatura controllata, che dura mediamente - ore. Dopo la cottura, i prosciutti vengono raffreddati rapidamente, tolti dallo stampo, imballati sottovuoto in appositi sacchetti resi-
stenti al calore e infine pastorizzati. Il prosciutto cotto nostrano è un prodotto di alta qualità, povero di grassi, che si gusta da solo in qualsiasi momento; è un ingrediente sfizioso per sughi al-
la panna; è un must per farcire toast, panini, focacce e piadine; ma arricchisce molte altre ricette con il suo sapore delicato. Non contiene polifosfati aggiunti, né lattosio o glutine.
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Il calendario dei Nostrani del Ticino 2022
Attualità ◆ Da questa settimana il nuovo almanacco da parete illustrato è disponibile in tutte le filali Migros fino ad esaurimento dello stock. Le fotografie e le idee di abbinamento dei prodotti sono di Flavia Leuenberger Ceppi, alla quale abbiamo posto qualche domanda
Come ha trovato l’ispirazione per il nuovo calendario dei Nostrani del Ticino? Per realizzare il nuovo calendario mi sono lasciata semplicemente ispirare dal vasto e variegato assortimento dei prodotti nostrani presenti sugli scaffali dei negozi Migros. L’idea è stata quella di creare fotografie ambientate, una per ogni mese dell’anno, raffiguranti delle composizioni gastronomiche a km zero con la relativa indicazione per la preparazione. È
incredibile constatare quanti prodotti del territorio si possano combinare tra di loro per i nostri pasti quotidiani! Sono ricette facili da realizzare? Assolutamente sì. Non ho voluto rappresentare delle ricette elaborate, ma bensì degli accostamenti che tutti possano ricreare anche a casa in modo semplice e fantasioso. Di cosa ha tenuto conto nella scelta degli abbinamenti?
Innanzitutto della stagionalità, successivamente ho considerato quei prodotti che ben si combinavano tra di loro dal punto di vista culinario e che allo stesso tempo fossero interessanti cromaticamente. Qual è la combinazione che preferisce? Quella del mese di maggio, che illustra una coppa di gelati nostrani: quello alla farina bona è davvero buonissimo!
Il ritratto Nata a Lugano nel 1985, Flavia Leuenberger Ceppi ha frequentato il centro scolastico per le industrie artistiche (CSIA) ottenendo nel 2004 il diploma di grafica. Dopo alcuni anni di esperienza anche in ambito fotografico, dal 2010 svolge entrambe le attività come indipendente, affiancando all’attività commerciale anche progetti personali: nel 2013 ha inizio quello legato all’emigrazio-
ne ticinese negli Stati Uniti e Australia, dove in 4 viaggi ha ritratto diverse famiglie in territorio americano e australiano. Nel 2015 ha vinto il primo premio allo Swiss Press Photo nella categoria ritratti. Collabora con Migros Ticino da una decina di anni come fotografa freelance. Nel 2016 trasferisce il proprio studio da Balerna a Mendrisio presso l’atelier di coworking Zenith.
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Quando i Nostrani premiano
Attualità ◆ Consegnati i premi ai fortunati vincitori del grande concorso dedicato ai prodotti del nostro territorio
La scorsa settimana, presso il Centro S. Antonino, si è svolta la cerimonia di premiazione del grande concorso indetto lo scorso mese di settembre in occasione delle settimane dedicate ai prodotti della linea Nostrani del Ticino. Fra i numerosissimi tagliandi di partecipazione giunti a Migros Ticino, la fortuna ha sorriso alle tre vincitrici sotto elencate, che si sono aggiudicate i favolosi premi in palio e a cui facciamo tutte le nostre congratulazioni.
Le tre fortunate vincitrici ritirano il proprio premio al Centro S. Antonino. (Giovanni Barberis)
1° premio Scooter elettrico NIU N-GT del valore di CHF 5400.– a PaolaTettamanti di Morbio Inferiore 2° premio Bici MTB elettrica Ghost HTX del valore di CHF 2799.– a Lorenza Santi di Bellinzona 3° premio Carta regalo Migros del valore di CHF 500.– a Elda Carmine di Minusio.
Ricordiamo che le risposte corrette del concorso erano le seguenti: B (Gazosa/Chiasso); A (Iogurt/Airolo); D (Gallette di mais/Vergeletto; C (Formaggella Ra Crénga/Aquila). Annuncio pubblicitario
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La vita intensa di Pasquale Lucchini
Personaggi ◆ A Villa Lucchini una nuova sala espositiva permanente è stata dedicata all’ingegnere, imprenditore, costruttore e finanziere della Collina d’Oro Elena Robert
Non è facile raccontare una vita intensa e straordinaria come quella di Pasquale Lucchini (-) ingegnere, imprenditore, costruttore e finanziere, che per di più attraversa quasi tutto il primo secolo di esistenza del Canton Ticino. Risale al la donazione al Comune di Gentilino (ora Collina d’Oro, dopo la fusione) di Villa Lucchini e del fondo archivistico della famiglia da parte dei discendenti Aldo e Roberto Lucchini. Nella residenza privata trasformata per accogliere uffici, rispetto allo spazio del dedicato dall’ente pubblico al loro concittadino, la soluzione odierna valorizza in modo nuovo i materiali documentari, nel frattempo inventariati e selezionati.
Attivo sui cantieri della strada dello Spluga e dello Stelvio, Lucchini in Ticino progettò ferrovie e strade alpine oltre che il ponte sulla Tresa e il ponte diga di Melide Il concetto, studiato con sensibilità dallo storico Luca Saltini e dal grafico e designer Giuliano Tallarini, stavolta punta dritto all’essenzialità: possono bastare anche pochi documenti significativi, presentati in un sistema espositivo progettato ad hoc per uno spazio dignitoso, nonché un testo-guida accattivante, per incuriosire il visitatore ad avvicinarsi alla poliedrica figura di Pasquale Lucchini. Tra i materiali si sono individuati il manoscritto dell’autobiografia, lettere di attestazioni di stima, nomine, incarichi, un paio di disegni originali del (Bedretto e Airolo) e pochi oggetti personali come un fucile da cadetto e una lanterna da cantiere, affinché possano essere osservati e capiti, in grado di attestare le svolte significative della sua operosa esistenza, ossia il fil rouge del racconto espositivo. Per
saperne di più sul personaggio certo va letto il volume di Carlo Agliati Un ingegnere senza Politecnico, Pasquale Lucchini -. La vita e i documenti, del edito dall’allora Commissione culturale della Collina d’oro. Il maggior fondo documentario su Pasquale Lucchini resta quello acquisito nel dall’Archivio cantonale di Bellinzona, mentre altri sono conservati nei Comuni ticinesi. Nato povero, morto ricchissimo, dalla formazione frammentaria, pragmatico e dotato, Pasquale Lucchini nasce ad Arasio di Montagnola. Con non pochi sacrifici fa fortuna come ingegnere civile autodidatta e impresario, costruendo strade e ponti, riuscendo a farsi apprezzare già giovanissimo all’estero, per un ventennio, in Francia, Piemonte, Lombardia, in particolare sui cantieri della strada dello Spluga e dello Stelvio negli anni Venti e in seguito della strada tra Colico e Chiavenna. Nel rientra in Ticino e viene eletto in Gran Consiglio per il partito radicale (- e -). Come ingegnere, sulla scena cantonale si distinguerà per progetti e studi su ferrovie e strade alpine, in Val di Blenio, Valle Onsernone, Valle Bedretto e in Leventina per le gallerie dello Stalvedro. Nel Luganese progetta tra l’altro il Ponte sulla Tresa nel , l’arginatura del Cassarate, il lungolago di Lugano nel . Il suo progetto per l’opera fondamentale di collegamento tra nord e sud, il ponte diga di Melide () risale al , l’appalto del cantiere a Lucchini arriverà due anni dopo. Riesce a spuntarla sull’ingegnere Angelo Somazzi, di cui è acerrimo rivale e del quale prende il suo posto come ingegnere capo del Cantone dal e fino al . Come ingegnere cantonale si distingue nel nella difesa del territorio ticinese in Leventina, dov’è acquartierato l’esercito federale, nella Guerra del Sonderbund: la difesa è appron-
Il ponte diga fra Melide e Bissone sul Lago di Lugano. Litografia del 1847. (Biblioteca cantonale di Lugano, Fondo Giorgio Ghiringhelli)
tata da Lucchini con ampi poteri ma scarsità di mezzi, le truppe ticinesi dovranno retrocedere, anche se
Pasquale Lucchini ritratto dal fotografo Pugliano.
la lega separatista verrà poi sconfitta dall’esercito federale. In anni in cui è prevalente l’idea di far passare la ferrovia del Gottardo dal Passo del Lucomagno, tra il e il Pasquale Lucchini difende in modo acceso e a più riprese, insieme a Carlo Cattaneo, la possibilità tecnica di attraversare il Gottardo con la ferrovia, con cinque memorie e idee progettuali. Nel - Berna decide definitivamente per il Gottardo. E verranno chiesti a Lucchini rapporti sullo stato delle ferrovie del Paese e sul collaudo della linea del Gottardo, aperta nel . La sua innata vocazione imprenditoriale si esprime al meglio dal nella fiorente industria della seta, aprendo una filanda a Lugano, di cui raddoppia produzione e maestranze dal
in vent’anni, impiegando fino a operaie. La morte lo coglie nel al suo tavolo di lavoro nella casa a Lugano in procinto di firmare documenti della Banca della Svizzera italiana, di cui è nel tra i fondatori e per molti anni presidente del Consiglio di amministrazione. Informazioni A cura di Luca Saltini e Giuliano Tallarini, Un secolo con Pasquale Lucchini 1798-1892. Ingegnere, imprenditore, costruttore, finanziere, Villa Lucchini, Gentilino, Sala espositiva permanente. Visita su appuntamento, Cancelleria tel. 091 986 46 56. Certificato Covid, max 10 persone, orari lu, ma, gio, ve 10.30-12.00 e 15.00-16.00, mer 10.30-12.00 e 15.00-18.00.
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Viale dei ciliegi Katie Daynes-Christine Pym Come posso essere gentile? Usborne (Da 4 anni) Anna Milbourne-Åsa Gilland Sono (quasi) sempre gentile Usborne (Da 3 anni)
La gentilezza è di tendenza, nella letteratura per l’infanzia. Una volta non c’erano tutti questi libri sulla gentilezza. E si vede, verrebbe da chiosare, guardando la società adulta contemporanea. I più recenti sono due proposte dell’editore Usborne, che hanno una loro delicata originalità. Il primo, Come posso essere gentile?, è un libro ad alette, nella bella collana «Sollevo e scopro», che già ha pubblicato altre proposte interessanti. Qui ogni aletta si solleva su una domanda, a volte di stampo quasi filosofico (Cos’è la gentilezza? Perché è importante? Chi sono gli altri? Contano solo i grandi gesti? È facile essere gentili?), altre volte più psicologico (anche la gentilezza verso se stessi è importante!), altre ancora pratico e scientifico (sulla gen-
di Letizia Bolzani
tilezza verso la natura e il pianeta), o propositivo (esempi di piccole gentilezze da diffondere). Ad ogni doppia pagina, in robusto cartonato, troviamo tante alette con domande, le solleviamo, e sotto ecco la risposta, semplice ma mai superficiale. Il contesto scenografico di riferimento è quello del mondo degli insetti, sono loro a fare gesti gentili, e scegliere insetti per mettere in scena la gentilezza, ne sottolinea forse il lato umile, ma capace di tanto. Il secondo libro, Sono (quasi) sempre gentile, ha invece carattere narrativo, ed è un albo illustrato in cui la bimba pro-
tagonista cerca di capire, con l’aiuto della mamma, cosa significhi essere gentili. Scoprirà che è molto importante, ma che non sempre è facile, e che quello che sembra gentile a me forse non lo è per l’altro. Non manca, parlando di gentilezze «maldestre», un tocco di humour, che si accentua ancor più nella deliziosa (e monella) immagine finale. Vichi De Marchi-Roberta Fulci Ragazze per l’ambiente Editoriale Scienza (Da 10 anni)
Non solo Greta. Le donne che hanno, o hanno avuto, a cuore l’ambiente sono tante. E soprattutto sono scienziate. Ossia donne che hanno studiato. Con fatica, determinazione, impegno, intelligenza. È importante smuovere le coscienze, certo. Ma poi occorre anche approfondire, realizzare delle cose, indicare delle strade. Come hanno fatto le dieci Ragazze per l’ambiente di cui Vichi De Marchi e Roberta Fulci ci raccontano la vita. Dopo Ragazze con i numeri, delle stesse autrici, che narravano storie di scienziate in vari ambiti, qui ci si
concentra nel campo dell’ambiente. Ma «ambiente», come viene dichiarato sin dalla prefazione, significa tante cose. E queste dieci donne lo mostrano bene nelle loro aree di interesse: da Rachel Carson, che negli anni ’ denunciò l’uso indiscriminato di Ddt e pesticidi (subendo insulti atroci come «femmina isterica», o «zitella che chissà perché si interessa alla genetica»); a Eva Crane, che sottolineò il ruolo fondamentale delle api per l’agricoltura; a Barbara Mazzolai, che ideò un robot in grado di studiare il suolo, ispirandosi alle piante; a Caitlin O’Connell, stu-
diosa di elefanti e impegnata nella loro tutela; a Eunice Newton Foote, la prima persona in assoluto a parlare di gas serra; a Maria Klenova, «madre della geologia marina», come lei stessa si definì; a Anne Innis Dagg, che si dedicò alla salvaguardia delle giraffe; a Maria Telkes, studiosa del Massachusetts Institute of Technology, che già un secolo fa si dedicava alle ricerche sull’utilizzo dell’energia rinnovabile del sole, tanto da meritarsi l’appellativo di regina del sole («presto o tardi il Sole sarà usato come fonte di energia», scrisse); a Susan Solomon, chimica, una delle prime a proporre i clorofluorocarburi come la causa del buco dell’ozono sopra l’Antartide; a Gitanjali Rao, la quindicenne decretata «Kid of the Year» dalla rivista «Time», in seguito alla sua applicazione per individuare il piombo nell’acqua. Storie interessanti, rese ancora più vivaci dall’utilizzo della prima persona, dai dialoghi ritmati, e in generale dallo stile narrativo di Vichi De Marchi, grande esperta di biografie di scienziate, e di Roberta Fulci, giornalista scientifica, ottimamente coadiuvate dalle illustrazioni di Giulia Sagramola.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 2 novembre 2021
azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ
Quando la malattia ci ruba la memoria Disturbi neurodegenerativi
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Un libro per raccontare storie di Alzheimer, tra chi ne soffre, i famigliari e i curanti
Sara Rossi Guidicelli
Può colpire chiunque, con l’età è sempre più frequente, toccherà quasi alla metà di tutti noi, dopo i anni, ma esistono anche forme giovanili. Parliamo di disturbi neurocognitivi maggiori, come Alzheimer, demenza senile e altre forme più rare. L’associazione Alzheimer Ticino, che tra pochi mesi compie anni di vita, ha sostenuto la pubblicazione di un libro sull’argomento che si legge come un libro di narrativa. L’autrice è la scrittrice Manuela Bonfanti Bozzini che ha raccolto storie di vita. Quando nel sua mamma si è ammalata di una forma rara di malattia neurodegenerativa, Manuela (che ha una formazione in metodologie autobiografiche) ha capito che la mamma stava per perdere grossi pezzi della sua memoria e così ha deciso di raccoglierne la storia. Questione di poche pagine, non un libro intero. Poi però ha pensato di provare a conservare altre storie di altre persone che iniziavano a dimenticarsene, come stava accadendo a sua madre. Nel frattempo la situazione a casa diventava sempre più difficile a livello organizzativo e Manuela e i suoi fratelli si sono interrogati su quali fossero le cure e l’accompagnamento più adatti per starle meglio vicino. Di bisogno in bisogno, la scrittrice ha agito e chiesto. Ha intervistato chi come lei si stava occupando di un parente stretto con l’Alzheimer, con il sostegno di alcune volontarie operanti
nel settore. Si informava per la mamma e si rendeva conto che quelle strategie potevano servire anche ad altri. Scriveva e strutturava intanto un libro in tre parti: siamo arrivati alla fine a interviste, trascritte con lingua viva, la lingua specifica di ognuno: nella prima parte ci sono le storie di vita di persone affette da malattia, una seconda parte raccoglie testimonianze dei loro parenti e l’ultima è dedicata al personale curante specializzato. «Sono molto d’accordo con quel proverbio che dice “Quando muore un uomo brucia una biblioteca”», spiega Manuela. «Ho studiato alla Libera Università dell’Autobiografia e parte del mio lavoro consiste proprio nel far raccontare alle persone la propria storia. Se penso a qualcuno che si trova confrontato con una diagnosi di perdita di memoria, mi chiedo: chi più di costui necessita di mettere su carta il proprio racconto? Non importa che sia completo né oggettivo. Al contrario, non può che essere incompleto e molto soggettivo: ognuno ha il diritto di ricordare e raccontare la propria vita come vuole. Ma in qualche modo bisogna fregarla, quella ladra di memorie». La prima parte del volume ci ricorda che nonostante tutto si rimane sempre una persona. Per quanto la personalità muti e mutino la capacità di ragionare e di comunicare, quella che abbiamo davanti continua a essere una donna o un uomo e non solo un malato. Proprio per coerenza con questo as-
sunto, l’autrice si occupa, nella seconda parte della sua ricerca, di provare a capire cosa possono fare i parenti che rimangono accanto a chi perde una parte così grande di se stesso. «So che è molto difficile; il cambiamento di vita è immenso. È complicato accorgersi e ammettere che sta succedendo qualcosa; è doloroso accettarlo e poi trovare le strategie per continuare a sostenere il proprio caro. A volte si può passare molto tempo anche a chiedersi: devo tenerlo a casa? Meglio portarlo in una struttura per anziani? Cosa penseranno di me se lo lascio alle cure di al-
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tri? Cosa vorrebbe lui? Cosa vorrei io? Cosa posso permettermi? A quali aiuti ho diritto?». Le donne, soprattutto. Ancora ci tiriamo dietro quell’idea che dovremmo riuscire a tenere insieme tutti i pezzi della famiglia, comunque vada. Pensiamo che dovremmo farlo e che dovremmo volerlo, altrimenti non siamo brave mogli, brave figlie, brave donne. «Se a un uomo succede di doversi occupare di moglie, figli o genitori o anche solo della casa, e non ce la fa, la gente è più indulgente, lo capisce. Magari gli dà anche una mano. Da una donna invece, ancora spesso, ci si aspetta che ce la faccia. Questo è il primo nemico contro cui combattere: l’idea di potercela (e dovercela) fare da sola». A questo d’altronde servono associazioni come Alzheimer Ticino, che ha sostenuto la pubblicazione di Ladra di memorie. Storie di Alzheimer e altre malattie neurocognitive. Leggendo il libro, si ricevono così, in modo più o meno esplicito, molti consigli, strategie di sopravvivenza; uno degli ingredienti più importanti per affrontare la malattia sembra essere la pazienza; ma anche l’accettazione della nuova situazione (delle continue nuove situazioni a mano a mano che la malattia progredisce); e la capacità di chiedere aiuto. Una delle persone intervistate parla del delicato equilibrio tra assecondare il malato e dirgli la verità: quando tuo marito (o tua madre, padre, nonna, moglie) comincia a chiamarti mamma e si convince che lo sei, è inutile cercare di farlo ragionare. Non serve sbattere in faccia la realtà né sgridare né contraddire. Questo vale per qualsiasi «nuova credenza» egli si metta in mente. Però non è neanche giusto mentire. Meglio assecondare e poi, delicatamente, cercare di andare verso qualcosa di reale. La comunicazione si sposta su un altro piano: fuori dalla logica, dalla cronologia, e a un certo punto anche fuori dal linguaggio delle parole. Anche se all’inizio sembra solo una condanna, questo può tuttavia anche darci un’opportunità. Coccolare, guardarsi negli occhi, toccarsi. Cercare di capirsi, nonostante tutto. Magari non si parla più di «cosa hai mangiato a pranzo» ma piuttosto «dei giochi che facevi da piccolo». L’importante diventa passare un bel momento insieme, qui e ora, senza cercare di fare qualcosa che lasci un ricordo. «La maggior parte dei problemi nascono da noi, da come noi ci relazioniamo con una persona che soffre di malattie neurocognitive maggiori. Quindi dobbiamo operare un cambiamento dentro noi stessi e provare a trovare il modo di stare insieme». E così si arriva alla terza parte,
quella più professionale. Attraverso le parole di altre voci, tra infermiere, assistenti di cura, medici, badanti, Ladra di memorie offre riflessioni, metodi e esempi di cura. Ripercorre gli ultimi quarant’anni di studi e accorgimenti che nel Canton Ticino hanno portato a un cambiamento fondamentale: da quando si chiamava un po’ tutto arteriosclerosi e si eseguivano soprattutto terapie farmacologiche fino alla rivoluzione degli ultimi venti anni, a livello di strutture, di formazione del personale e soprattutto a livello metodologico. Una delle intervistate racconta che a un corso di specializzazione le è stato proposto un esercizio in cui le avevano bendato gli occhi e poi le avevano messo in faccia all’improvviso una lavette bagnata e poi un cucchiaino in bocca. Ecco: in quel momento aveva capito come può essere sgradevole la sensazione del corpo violato, del gesto sgarbato. Un’altra presa di coscienza: una volta una persona affetta da Alzheimer ha detto che stentava a riconoscere le operatrici perché le sembravano tutte uguali, con quella divisa dello stesso colore; allora alla casa anziani di Acquarossa hanno pensato di indossare ognuna un colore diverso e di colpo sono«diventate anche loro umane». La «arancionina» racconta che da quel momento gli ospiti riuscivano a distinguerle molto meglio e la relazione ne beneficiava. Alla fine, chiediamo a Manuela Bonfanti Bozzini che cosa le rimane, cosa resta di più da un lavoro così lungo e approfondito: «Tanta ammirazione, per tutti quelli che si impegnano. Gratitudine, per chi mi ha offerto un pezzetto di sé. E qualche auspicio: che le case per anziani continuino a essere posti di vita, che possano aumentare sia il personale sia la formazione, perché sono essenziali. E perché a livello mondiale oggi ci sono milioni di persone che convivono con una forma di demenza e questa cifra è destinata a crescere fino a milioni nel . Infine, credo di aver capito che non si sa mai cosa si vorrebbe dopo. Forse adesso potrei dire che voglio vivere solo se sono sana e mentalmente integra. Ma credo che se capiterà anche a me di ammalarmi di Alzheimer o simili, vorrei solo avere delle persone che mi stiano vicine con la convinzione che la mia vita vale comunque la pena di essere vissuta, fino all’ultimo». Ladra di memorie sarà presentato allo Spazio Aperto in via Geretta a, a Bellinzona, il novembre alle .. Dopo quella data, il libro sarà disponibile nelle librerie o presso Alzheimer Ticino. Tutti i proventi delle vendite andranno all’associazione.
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Settimanale di informazione e cultura
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La Rabbia, un virus da tenere lontano Mondoanimale
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L’Usav invita a non abbassare la guardia su questa malattia virale letale per l’animale e per l’uomo
Maria Grazia Buletti
«Dal / la Svizzera è un paese esente da rabbia e ogni rischio maggiore di introduzione è rappresentato dall’importazione illegale di cani o di altri animali da compagnia da paesi a rischio». A ridosso della Giornata mondiale della rabbia del settembre scorso, con queste chiare parole l’Ufficio del veterinario cantonale (Uvc) ricorda il grande successo della nostra nazione per aver debellato una malattia trasmissibile all’uomo (zoonosi) da tutti gli animali domestici e selvatici che ne possono essere colpiti. Ma comporta anche un serio monito rivolto alla leggerezza di chi non si attiene alle severe regole veterinarie e sanitarie di importazione di animali dall’estero. La trasmissione di questa malattia virale avviene dall’animale ammalato all’essere umano «attraverso il morso e la contaminazione di ferite o piccole lesioni cutanee con la saliva dell’animale infetto»; tale contagio porta alla morte il soggetto colpito.
L’infezione umana da parte del virus della rabbia è l’unica malattia infettiva mortale praticamente al cento per cento Le severe misure legislative e di controllo hanno fatto sì che oggi in Svizzera «i casi di rabbia nell’essere umano siano straordinariamente rari e gli ultimi noti risalgono al ». Uno scenario altrettanto sereno non appartiene, per contro, alla situazione mondiale: «Letale sia per l’essere umano sia per gli animali, la rabbia provoca ogni anno quasi mila casi di decessi umani in tutto il mondo», asserisce l’Ufficio federale del-
Tutti i mammiferi possono esserne colpiti, ma quelli più frequentemente attaccati da questa nefasta malattia virale sono i carnivori. (TambakoThe Jaguar)
la sicurezza alimentare e veterinaria (Usav) che si allinea all’Uvc nel mettere all’erta sul fatto che «malgrado la Svizzera sia indenne da rabbia dal , la malattia può essere introdotta nel nostro Paese in qualsiasi momento». Severi sono i disturbi che manifestano i mammiferi colpiti da rabbia: «Si tratta di disturbi comportamentali, crampi muscolari e paralisi, con esito mortale». Tutti i mammiferi possono esserne colpiti, ma quelli più frequentemente attaccati da questa nefasta malattia virale sono i carnivori. Mentre «i pipistrelli possono essere portatori della rabbia dei pipistrelli e gli uccelli si ammalano molto raramente», puntualizza l’Usav che
così traccia pure lo scenario europeo, indicando la volpe come l’animale che porta e trasmette più di frequente la rabbia. Inoltre: «In Svizzera fungono da vettori anche le martore, i tassi, i cani e i gatti. I ruminanti e gli equini infetti rappresentano un ulteriore pericolo per l’essere umano». La malattia parte, dunque, dagli animali nei quali sono stati individuati i sintomi precoci nei disturbi del comportamento, febbre o attacchi di prurito nel punto della morsicatura: «Nella fase neurologica acuta si manifestano rabbia furiosa o rabbia muta. La prima è caratterizzata da iperattività, maggior propensione a mordere, difficoltà a deglutire e aumento della salivazione».
Sintomi severi che il virologo italiano Roberto Burioni spiega attraverso il meccanismo di trasmissione del virus nel suo libro Virus, la grande sfida: «Il virus della rabbia provoca una gravissima infiammazione che si localizza in particolare nella regione cerebrale che regola l’aggressività. Questo fa diventare l’animale cattivo e provoca un disturbo che impedisce la deglutizione della saliva. Proprio la saliva contiene il virus in grande quantità, visto che sempre attraverso le fibre nervose, esso arriva alle ghiandole salivari (…) grazie a queste scelte, il virus trasforma un animale pacifico in un’efficiente macchina asservita alla sua trasmissione particolarmente tragica e violenta».
Così tanto da essere per l’appunto letale, come conferma Burioni: «L’infezione umana da parte del virus della rabbia è l’unica malattia infettiva mortale praticamente al cento per cento». I sintomi della malattia nell’uomo appaiono dopo un periodo che va da circa dieci giorni fino a tre mesi dal contagio e, rileva l’Usav, «sono caratterizzati da malessere generale, febbre, dolori muscolari e disturbi della sensibilità nella zona della morsicatura. In seguito, si osservano movimenti incontrollati, crampi, attacchi d’ira, nonché crampi respiratori e della deglutizione. Più tardi appaiono paralisi e alla fine il coma, mentre la morte avviene spesso per paralisi del centro respiratorio». Uno scenario da brivido, certo, e che ben giustifica le severe misure intraprese per liberare il nostro Paese da questo virus, insieme a quelle di sorveglianza e alle raccomandazioni che lo scorso settembre, in occasione della giornata mondiale, sono state chiaramente ribadite dall’Usav, insieme ad altre interessanti informazioni: «In Svizzera si è svolta con successo una campagna di vaccinazione delle volpi, che consisteva nel distribuire esche contenenti il vaccino. In tal modo, si è riusciti a eradicare la malattia». Per la sua natura di epizoozia da debellare è quindi soggetta a notifica. A tal proposito, l’Usav invita «chiunque osservi animali selvatici o domestici senza padrone che presentano sintomi sospetti di rabbia, a notificarlo alla polizia, alla polizia della caccia o a un veterinario». Infine: «Gli animali domestici e selvatici sospetti di rabbia devono essere uccisi immediatamente».
Il brugo e le brughiere Biodiversità
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Con l’autunno, tornano le belle fioriture della Calluna vulgaris
Alessandro Focarile
Nel Mondo esistono attualmente specie di rododendri, detti anche «azalee» dai giardinieri. La loro massima concentrazione geografica occupa quella vastissima area continentale costituita dalla regione himalayana, e dal Sud-Est-asiatico. In Europa ci dobbiamo accontentare di tre sole specie! Altrettanto dovizioso è il numero di eriche: ben specie, delle quali concentrate in Sud Africa, nella regione del Capo (Kapland). Per contro, esiste una sola specie di brugo in tutto il mondo, ed è la Calluna vulgaris. È una piccola pianta legnosa perenne, che assume con l’età un aspetto arbustivo, non più alta di centimetri, e che ha molti milioni di anni alle spalle. La sua fioritura tardo-estiva (temporalmente sfasata rispetto a quella della gran parte dei vegetali nostrani), i suoi semi maturi che cadono al suolo in febbraio-marzo, le sue singolari foglie, minute e sovrapposte come le tegole di un tetto, gli ammassati piccoli fiori, costituiscono tutti un insieme di caratteri ancestrali. Il brugo (Calluna vulgaris) ha conservato, attraverso un lunghissimo periodo di tempo, tali caratteristiche genetiche e morfologiche rimaste immutate, da poter essere considerato un vero «fossile vivente». I suoi tappeti, vivacemente colorati, ingentiliscono ora i castagneti, le lande soleggiate, e
la brughiera alpina, spingendosi fino a metri di altitudine. Il suo nome, brugo, deriva dal latino «bruchus», e nelle lingue neolatine questa è la radice che ha prevalso, e dalla quale sono derivate «brughiera» e la «bruyère» dei francesi. Mentre, nelle lingue germaniche abbiamo «heath» in inglese, e «Heide» in tedesco. La Calluna è stata, fino dagli albori della civilizzazione centro-europea, una componente di primaria importanza del paesaggio vegetale nel quale si è insediato l’uomo. Dapprima, con un processo inarrestabile e progressivo di disboscamento della foresta pri-
meva (con l’ausilio di vasti incendi intenzionalmente provocati), in seguito con la creazione di sempre più vaste superfici adibite all’agricoltura, alternate da ampie aree pascolive. È documentato che lo sviluppo del brugo è stato favorito dalla distruzione della foresta. Si può dire che il brugo ha accompagnato l’uomo, il quale ha imparato a utilizzarne tutte le sue componenti: come combustibile, come foraggio e strame, come concime (con le ceneri), e persino per ubriacarsi allegramente. Le cronache ci hanno tramandato la memoria (ma non la ricetta!) di un alcolico otUn denso tappeto fiorito di Calluna. (Pixabay.com)
tenuto dalla fermentazione dei fiori. L’Anglia e la Scozia sono terre ideali per il brugo, che occupa vastissime distese di territorio, cantate da poeti, celebrate da scrittori e da pittori, in quanto componenti essenziali del paese: le «heathers», ovvero le brughiere.
Esiste una sola specie di brugo in tutto il mondo e si chiama Calluna vulgaris: un vero «fossile vivente» Come gli olandesi hanno conosciuto un periodo di autentica mania (estetica e commerciale) per i tulipani, tanto da farne l’emblema del loro Paese, così gli inglesi (ma soprattutto gli scozzesi) si sono fatti un vanto di divenire gli affermati ed entusiasti specialisti nella coltivazione e nell’ibridazione della calluna. Schiere di giardinieri professionisti, e di «gentlemen amateurs» nel corso di quasi anni hanno creato qualcosa come cultivars di Calluna (Underhill, ). Fiori bianchi, gialli, rosa, porpora, e foglie argentate, bronzee, variamente striate. Il tutto per creare, per il piacere degli occhi, giardini e parti di giardini di grande bellezza e attrattività. Il brugo è tipico dell’Europa occidentale, dalla Scozia alle grandi pia-
nure centro-europee. Ha bisogno di un clima temperato-umido, senza geli, e senza estati siccitose, e si insedia sui terreni acidi e ben drenati. Con la sua lettiera di foglie morte tende ad aumentare l’acidità del suolo, rendendolo economicamente più povero. Trattandosi di una pianta molto antica, come abbiamo visto, nel corso del tempo si è creata tutta una fauna di insetti, legata più o meno strettamente alla sua presenza. Sono state censite (in Gran Bretagna) quasi specie di insetti sulla Calluna, molte delle quali esclusive (monófaghe). Tra queste, è da segnalare un piccolo coleottero caràbide che si nutre esclusivamente dei semi, e la coccinella del brugo che dà la caccia a un afide altrettanto specializzato. Un altro coccinéllide preda invece un afide che succhia le radici. A proposito: alla Migros sono in vendita brughi color bordeaux, rosa, e bianchi. Val la pena farne la conoscenza, e mantengono la loro fioritura fino a Natale. Bibliografia Charles H. Gimingham, Ecology of Heathlands, Chapman and Hall (London) 1976, 266 pp. Terry Leonard Underhill, Heaths and Heathers, (Newton and Abbot) 1971, 256 pp.
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SOCIETÀ / RUBRICHE
L’altropologo
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di Cesare Poppi
Lavori in corso ◆
L’episodio è rimasto in quello zibaldone di fatti e misfatti fra cronaca, imprecazione e fantasia che è la tradizione folclorica del popolo romano. Si racconta nella fattispecie che, spazientito dai ritardi del suo operaio – o forse presago che la sua vita non sarebbe durata ancora molto – Papa Giulio II Della Rovere si recasse nottetempo nella Cappella Sistina dove, lassù sulle impalcature della volta al lume di speciali torce da lui stesso inventate che gli permettessero di lavorare nelle condizioni di luce migliori, Michelangelo fosse intento a dipingere il suo capolavoro. «Allora, quando finiamo?!». Domandava spazientito il Pontefice. «Finiamo quando possiamo, Santità!» era la risposta che rimbalzava regolarmente dalle cavernose vele lassù. I lavori durarono dal al . Poi, finalmente, il primo novembre dell’anno del Signore , Festa di Ognissanti, la
volta affrescata fu svelata ad uno sceltissimo pubblico di cardinali, prelati, nobili e diplomatici accreditati. Fu subito un successo urbi et orbi, tanto che una sapiente amministrazione delle visite divenne una sorta di termometro politico del placet del visitatore di turno, abilmente selezionato, presso la Cattedra di Pietro. Giulio Secondo non sopravvisse a lungo all’evento: sarebbe infatti morto l’anno successivo, il febbraio . E sarebbero poi passati altri lunghi anni – che videro fra gli altri consumarsi il Sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi – e ci sarebbero poi voluti altri due Papi – Clemente VII e Paolo III – per persuadere il lunatico fiorentino a tornare a Roma e dipingere quel Giudizio Universale che Goethe avrebbe poi descritto come un’impresa insuperata del genio umano. La Cappella era stata fatta costru-
La stanza del dialogo
ire fra il ed il – o meglio: ricostruire – da Papa Sisto IV per ospitare in tutta sicurezza i Conclavi (cum clavis perché i grandi elettori ci sarebbero stati letteralmente chiusi dentro a chiave durante le elezioni pontificali) ed evitare per quanto possibile interferenze esterne. A decorare le pareti erano stati chiamati alcuni dei grandi artisti dell’epoca: Perugino, Botticelli, il Pinturicchio, Ghirlandaio ed altri. Ma la volta restava nuda. Poi furono il caso e l’accidente, come spesso succede, a prendere le redini della Storia. Lungo la volta si aprì un brutta crepa che rese necessario un intervento di restauro radicale durante il quale si cominciò a far circolare la voce che, per mascherare il castrone evidente, sarebbe stata una buona idea dipingere la volta e – perché no – magari affrescarla. A questo punto mancava solo un Papa
soprannominato «il Papa Guerriero» o «il Papa Terribile» per persuadere un altrettanto terribile Michelangelo Buonarroti ad impugnare per lui – lui che era scultore – i pennelli. Intanto che maturavano i negoziati per la grande impresa, Michelangelo si schermiva facendo lavoretti – diciamo così – tanto per tenersi buono il potente patrono. Si tramanda fra gli ultimi popolani di Trastevere «romani dde Roma» che Michelangelo avrebbe disegnato la divisa della Guardia Svizzera Pontificia voluta dallo stesso Giulio II ed inaugurata il gennaio , due anni prima ovvero che Michelangelo si mettesse a lavorare seriamente alla Sistina. In quel giorno, una compagnia di mercenari entrarono a Roma in solenne parata dalla Porta del Popolo al comando del Capitano Kaspar Von Silenen del Canton d’Uri. Non mancavano gli sponsor: mer-
canti tedeschi d’Amburgo ed anche i grandi banchieri Fugger – avevano investito somme rilevanti a Roma con il benestare papale e non intendevano che il loro Agente in Vaticano potesse essere vittima di una congiura di palazzo curiale, ipotesi tutt’altro che peregrina specie di quei tempi. La Guardia Svizzera ebbe presto occasione di mostrare la sua lealtà come guardia del corpo personale del Papa. Durante il Sacco di Roma del , Papa Clemente VII cercava di raggiungere Castel Sant’Angelo attraverso il cosiddetto «Passetto del Borgo». Intercettati dai Lanzichenecchi, gli Svizzeri ingaggiarono battaglia: di armigeri si salvarono in , ovvero solo quelli direttamente coinvolti nella difesa del corpo del Pontefice mentre gli altri ritardavano l’inseguimento delle truppe di Carlo V. Il resto è storia del corpo di guardaspalle più colorato del mondo: e che griffe!
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di Silvia Vegetti Finzi
Squid Game ◆
Cara Silvia, ho un bambino di dieci anni, Marcello, che non è mai stato appassionato, diversamente dai suoi compagni, alle avventure in Tv. In questi ultimi giorni invece chiede con insistenza di vedere, su Netflix, Squid Game. Secondo lui a scuola ne parlano tutti facendolo sentire piccolo e solo. Non so come comportarmi perché non abbiamo mai installato quella connessione e perché mio cugino, che studia psicologia, mi ha detto che si tratta di uno spettacolo molto violento non adatto ai bambini. Mi ha colpito in proposito un’intervista che il telegiornale ha fatto a una mamma che, per evitare che il figlio si senta frustrato, gli concede di guardare Squid Game a condizione che vi sia lei accanto. Anche a me non fa piacere sapere che Marcello si sente escluso da un’esperienza che i suoi compagni condividono e vorrei il suo consiglio su come comportarmi. La ringrazio tanto. Linda
Cara Linda, anzitutto due parole sui termini «tutti e nessuno, sempre e mai» con cui i ragazzini sostengono le loro richieste, li consideri, con un sorriso, semplici stratagemmi retorici. Trovarsi in minoranza è difficile ma aiuta a elaborare un pensiero indipendente. La voglia di conoscere è sempre una bella cosa ma l’esperienza che intendono affrontare può essere giusta o ingiusta, adeguata o inadeguata, opportuna o meno. Sta agli adulti valutare e decidere assumendosi le loro responsabilità. La mamma che si siede accanto al figlio per condividerne le emozioni va bene in molti casi ma non quando lo spettacolo supera, come Squid Game, le capacità razionali e affettive del bambino. Il video racconta la storia di Gi-Hun, un poverissimo cittadino della Corea del Sud che vive di ignobili espedien-
Mode e modi
ti quando un giorno viene avvicinato da un ricco signore che lo convince a partecipare a una serie di giochi infantili, come «un, due, tre, stella», che promettono ricchi premi al vincitore. Gi-Hun si trova così catapultato in un parco giochi dell’orrore dove chi perde viene ucciso in modo brutale mentre il montepremi continua ad aumentare sollecitando l’ingordigia dei concorrenti. Lo scopo del regista è di condannare una società ingiusta e crudele che, provocando estreme discriminazioni economiche e sociali, svela il sadismo che abita in noi. Ma i bambini, che non colgono questo aspetto, rimangono invece affascianti dall’inquietante accostamento tra gioco e violenza. L’età dell’innocenza, connotata di dolcezza e tenerezza, si trova in tal modo contaminata dalle più deplorevoli pulsioni della natura umana. Come avrà già capito, sconsiglio for-
temente di sottoporre suo figlio a un’esperienza prematura che non è in grado di valutare ed elaborare. Di fronte a messaggi violenti e crudeli i bambini vengono invasi da emozioni negative che, infiltrandosi nell’inconscio, continuano a turbare la psiche molto dopo che si è spento lo schermo. E i loro giochi, che si svolgono tra realtà e fantasia, rischiano di diventare così turbolenti da diventare pericolosi. Mi è stato fatto notare che anche le favole sono spesso terribili e paurose ma in questo caso scatta un «vaccino» plurisecolare. I bambini comprendono subito che quelle vicende si svolgono in un mondo lontano lontano e che alla fine i buoni avranno la meglio sui cattivi. La narrazione stempera le emozioni e le parole mettono ordine nel caos delle emozioni per cui, in questo senso, un racconto e un libro sono meglio di un video. Le mie preoccupazioni cambiano con
gli adolescenti che qualche volta, senza che diventi una dipendenza, hanno bisogno di affrontare esperienze perturbanti per valutare le loro capacità di reazione e attivare modalità di adattamento e riequilibrio. Per non lasciarli soli sarebbe bene che gli insegnanti aprissero un dibattito in classe facendosi raccontare dai ragazzi che cosa accade oltre lo schermo e quali emozioni suscitano scene che evocano un mondo assolutamente negativo, ove non vi è posto per la fiducia e la speranza, le virtù necessarie per crescere. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
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di Luciana Caglio
Periferia o quartiere? ◆
Quale sarà il destino del Molino Nuovo: lo decideranno i luganesi, chiamati prossimamente alle urne per una consultazione, per così dire anomala. Questa volta, infatti, non si assiste allo scontro fra destra e sinistra o fra potere e opposizione o fra conservazione e rinnovamento. Anche la posta in gioco, del resto, appare confusa, addirittura contraddittoria. Si tratta, appunto, di decidere le sorti della zona nord della città: da considerare una periferia, qual è per sua natura, o da promuovere a quartiere, quale potrebbe diventare? I due termini, se concernono entrambi una condizione urbanistica, non sono però sinonimi. Mentre quartiere spetta a un luogo, ben ancorato alle proprie radici storiche e culturali, in grado di garantire una buona qualità di vita, periferia è, come dice il nome, una zona
marginale, un contorno rispetto al centro. Secondo la fortunata definizione dell’antropologo Marc Augé, un esempio di «non luogo», da evitare. Sulla scorta di queste considerazioni, il votante luganese dovrebbe logicamente esprimersi a favore del Molino Nuovo quartiere. Che si chiamerà Cornaredo, amplierà i suoi contenuti, oltre lo stadio sportivo, diventando il simbolo dello sviluppo virtuoso di una Lugano che vanta già una decina di quartieri, cioè piccoli centri autonomi. Si tratta di veri e propri «paesi nella città», teorizzati da urbanisti in vena di ottimismo. Ma la realtà, non di rado, sconfessa i visionari. E così anche Cornaredo, undicesimo quartiere cittadino, si trova alle prese con un ostacolo particolarmente imbarazzante. In parole povere, la sua nascita e la sua crescita rischiano di danneggiare la vitalità eco-
nomica e sociale di un centro già in affanno. Il discorso non è certo nuovo. Da anni, anzi da decenni, conclusa l’euforica stagione del boom bancario, il centro soffre. E non si tratta della solita lamentela, vezzo praticato soprattutto dai commercianti, e aggravato dalla pandemia. Il disagio, confermato dalle statistiche, è visibile. Cala, incessantemente, la popolazione residente, in particolare i giovani. Questione di affitti troppo alti e questione di nuove abitudini di vita, ispirate alla riscoperta delle fatiche e dei piaceri rurali, come pure al culto del fisico, tipo jogging e palestra. Da qui gli effetti percettibili nella quotidianità urbana: la via Nassa perde cultori, ne conquistano i parchi e la foce. Ora, nel pieno della crisi, arriva la prospettiva di un’ulteriore «minaccia»: sono gli stessi
luganesi a proporre il trasloco di uffici e servizi a Cornaredo. Scontate le conseguenze per bar, ristoranti, negozi di Piazza Riforma, piazza Cioccaro, via Canova, piazza Dante. Imperscrutabili, le motivazioni che l’hanno provocato. Anche nella saggia Svizzera, patria della democrazia diretta, capita sempre più spesso di avvertire una crescente distanza nei confronti dei politici, chiusi in un mondo a parte. Altrove, però, se può consolare, è peggio. Mi è capitato di riascoltare questo leitmotiv, a proposito della contrapposizione periferia-quartiere: tema che ha fatto recentemente notizia grazie a Mahmood, il rapper vincitore a Sanremo, e in pari tempo protagonista del riscatto d’immagine di Gratosoglio. Proprio questa località della periferia al sud di Milano, racconta esemplarmente una storia di rinascita e di decaden-
za. Le sue torri bianche, progettate negli anni da architetti d’avanguardia, impegnati nell’edilizia popolare, subirono poi un incessante degrado tanto da rendere Gratosoglio una tipica periferia dormitorio, sinonimo di abbandono, malavita: un luogo dell’assenza, insomma. Tuttavia, si registrano, non soltanto qui, sintomi di risveglio. E risveglio di consapevolezza, che accomuna al di là dei confini. Si tratta, secondo l’Ufficio federale per lo sviluppo territoriale e l’energia, di stimolare il contatto città-edificio, intensificare i rapporti fra vicini. E qui si tocca un ambito delicato: la festa dei vicini, ufficializzata, stenta a imporsi, in un Ticino restio agli abbracci pubblici, dove si preferisce farsi i fatti propri. Tuttavia, retorica a parte, il covid ha rivelato capacità d’aiuto e d’amicizia insospettate.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 2 novembre 2021
TEMPO LIBERO 1200 chilometri in bicicletta Direzione: Santa Maria di Leuca con un senso di liberazione dal periodo di chiusura forzata
Nel deserto della Mauritania Dall’Atlantico alla Città del ferro a bordo del Sahara Express, il treno più lungo del mondo
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azione – Cooperativa Migros Ticino 15
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Omaggio all’autunno italiano Un risotto dolce e cremoso dall’aspetto molto invitante grazie all’acceso colore arancione
Il Melo di Cydonia Un albero apprezzato sia per i fiori, dai petali bianchi e rosa, sia per i frutti molto decorativi
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Fotografia tratta dall’esposizione The Hobbyist; «Bisogno di adrenalina!», 2014. (© Alexander Remnev)
Svelami il tuo hobby e ti dirò chi sei Tra il ludico e il dilettevole
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Percorrere la linea sottile che unisce vita privata, svaghi, e professione può rivelare molto di noi
Sebastiano Caroni
Nella società moderna, i passatempi sono fra i principali vettori attraverso cui, con un certo candore, diciamo al mondo chi siamo e cosa ci piace. Individuali e solitari, oppure collettivi e socievoli, gli hobby sono componenti formative della nostra identità. In modo molto semplice e diretto, lo metteva in luce un’esposizione di qualche anno fa al Fotomuseum di Winterthur: The Hobbyist, l’eloquente titolo dell’intrigante mostra fotografica. L’intento era di farci reagire agli hobby degli altri (che magari sono anche i nostri) immortalati da fotografi e artisti anche molto rinomati come Diane Arbus e Robert Frank, per citarne due. Grazie a immagini molto suggestive, l’esposizione di Winterthur permetteva di entrare, per il tempo di uno scatto, nelle vite di altre persone, di scoprire i passatempi più triti così come quelli più bizzarri, pittoreschi o assurdi, sfidandoci comunque sempre a cogliere il rapporto indissolubile fra hobby e identità, e lasciandoci spesso intravedere la linea sottile fra vita privata, hobby, e professione. Del resto, i nostri passatempi figuravano in prima linea già ai tempi delle medie quando, il primo giorno di scuola, un po’ a fatica ci si prestava al rituale della presentazione di sé, e
a turno i compagni si alzavano, vagamente rintronati, i capelli arruffati e i vestiti un po’ in disordine per recitare il breve monologo. La struttura era quella, riconoscibile, rassicurante, finalizzata a un unico scopo: raccontarsi in una manciata di secondi. Dicendo ciò che conta, distillando la propria identità senza una parola di troppo, per non sgarrare, altrimenti c’era il rischio di perdersi o, peggio, di ritrovarsi senza parole; addirittura derisi, o pietrificanti, con la gola riarsa e il respiro strozzato. Quando finalmente arrivava il nostro turno, meccanicamente ci alzavamo, come automi che rispondono a un comando a distanza. In piedi, gli occhi puntati su di noi, non trovavamo nulla di meglio che abbozzare un sorriso imbarazzato e nervoso: «mi chiamo Giacomino, ho due fratelli, abito a Bellinzona e la mia materia preferita è ginnastica». E poi, con il piglio serio che avevamo mantenuto sin lì, aggiungevamo: «i miei hobby sono calcio e pesca». Superata la prova, stremati ci abbandonavamo sulla sedia, tornando a respirare regolarmente, mentre il compagno lì accanto incespicava su una consonante, e tutta la classe si metteva a ridere. Per fortuna che non è successo a noi, pensavamo rinfrancati.
Abbiamo vissuto tutti, credo, il rituale del «mi presento». Non avvezzi a parlare in pubblico, non trovavamo nulla di meglio che aggrapparci a quella semplice sequenza di informazioni. Nome, fratelli o sorelle, materia preferita, hobby. Grossomodo la struttura era quella: con alcune variazioni possibili, ma neanche tante. Certo è che, oggi come ieri, il termine hobby può rinviare ad attività anche molte diverse. Gli sport individuali o di squadra, la lettura, le serie TV, la collezione di francobolli, il culturismo, lo shopping, il birdwatching, il modellismo, le passeggiate in montagna, e molto altro ancora. Al di là delle differenze, gli hobby esprimono in modo autentico, ancora di più rispetto a quanto faccia una professione, l’unicità delle persone. La definizione di un hobby passa, del resto, da una distinzione più o meno netta rispetto al termine professione. Là dove il passatempo è legato allo svago, al tempo libero, e alla spontaneità, l’attività remunerata è vincolata a un tempo di lavoro misurato, a una prestazione da fornire, a delle attese da soddisfare. E dove la professione esprime un senso del dovere e una serietà un po’ ingessata, i passatempi sono più affini alla spensieratezza e al divertimento.
Chi coltiva una passione può anche permettersi di non prendersi troppo seriamente. Come riconosce lo scrittore Haruki Murakami, appassionato di corsa: «chi ha partecipato a una maratona lo sa, in gara vincere o perdere contro un concorrente determinato non importa a nessuno. Ovviamente per un campione professionista sarà uno shock vedersi superare da un rivale, ma chi corre per hobby non vi dà molto peso». Alla sua passione, Murakami ha dedicato un libro dove racconta molto bene il ruolo di valvola di sfogo e la funzione rigeneratrice che l’attività fisica svolge rispetto al lavoro della scrittura. Le persone tengono ai propri hobby e ne ricavano piacere. Lo scienziato tedesco Charles Proteus Steinmetz affermò, non senza ironia, che era riuscito «a ridurre le ore di lavoro a trenta minuti al giorno, così mi rimangono diciotto ore da dedicare all’ingegneria». Più prosaicamente ma non meno efficacemente, anche lo scrittore Pier Vittorio Tondelli esprime lo stesso concetto quando, di sé e dei suoi colleghi scrittori, ammette: «il nostro atteggiamento generale era di svacco, trasandatezza, noia. Il principio: fare tutto più in fretta possibile per mantenere uno spazio laterale per sé in cui parlare di musica, di libri, di “storie”».
Se c’è un’attività che forse più di altre ha dato l’occasione a sociologi e antropologi di descrivere la creatività, l’intraprendenza e il carattere esplorativo non solo dei grandi artisti o scienziati, ma anche delle persone comuni, questa è certamente il bricolage. L’antropologo Claude Levi-Strauss, per esempio, ha nobilitato il bricolage trasformandolo in metafora per eccellenza della cultura come processo creativo. Altri, come Sigmund Freud, e più recentemente l’autore inglese Geoff Nicholson, hanno invece messo a nudo un lato più oscuro dei passatempi, affermando che accumulare oggetti in modo compulsivo, dedicandovisi con eccessiva dedizione e passione, sia un modo, neanche troppo velato, per soddisfare bisogni legati al sesso. Certo è che gli hobby non smettono mai di sorprenderci, e si rivelano quanto mai preziosi per cogliere le dinamiche delle nostre azioni e le ragioni più profonde del nostro essere. E chissà che allora, dietro agli hobby, non si celi qualche altra sorprendente verità; come sembra lasciare intendere Aldous Huxley, quando affermava che «non i filosofi, ma coloro che si dedicano agli intagli in legno e alle collezioni di francobolli costituiscono l’ossatura della società».
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 2 novembre 2021
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azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO
A pedali lungo lo stivale
Itinerari
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Da Milano a Santa Maria di Leuca in bicicletta
Diana Facile, testo e foto
La strada dissestata corre parallela alla statale, attraverso una distesa di terra rossa arginata da muretti a secco e pale di fichi d’India giganti. Al mio passaggio qualche ulivo solitario devastato dalla Xylella sembra dar voce al suo dolore, mentre all’orizzonte il bianco delle case spicca sul blu del cielo e del mare: una cartolina. Pedalo senza tregua da quasi tre ore quando in lontananza intravedo il profilo del promontorio proteso verso est: il leggendario Capo di Leuca. In dirittura d’arrivo sollevo gli occhi verso il faro, il secondo più alto d’Europa, e mi confronto con questo colosso che dal vigila sulla marina e illumina la rotta ai naviganti. Ho pedalato milleduecento chilometri per spingermi con lo sguardo oltre l’infinito. Qui, dove nelle giornate nitide si riesce a distinguere il punto d’incontro tra il Mar Jonio e l’Adriatico, termina il mio viaggio in bicicletta, iniziato a Milano trentatré giorni fa. In questo mese ho visto l’Italia spogliarsi dei panni primaverili per indossare quelli estivi, accompagnata dal profumo sempre più intenso dei gelsomini e dal canto sempre più insistente di grilli e cicale.
«Ho pedalato milleduecento chilometri per spingermi con lo sguardo oltre l’infinito»
Pedalando sulla Costa dei trabocchi. sotto: Rocca Calascio, castello medievale nel Parco Nazionale del Gran Sasso. Il porto di Giovanizzo. A Dozza, in Emilia Romagna, la Street Art si fa paesaggio urbano.
decido di sfidare gli Appennini per visitare il borgo medievale di Dozza. Alla prima salita impegnativa il mio ottimismo si scontra con i settecento metri di dislivello da affrontare a pieno carico e poco dopo mi ritrovo a
camminare sull’asfalto con la bicicletta al fianco: lezioni gratuite d’umiltà. Dozza però mi ripaga subito della fatica: qui la Street Art si fa paesaggio urbano e avvolge il borgo in un concerto di luci e colori.
Dopo un anno di pandemia tutto è lecito, pur di partire, scuotersi di dosso il malumore e riprendersi la propria libertà: anche la strampalata decisione di attraversare l’Italia su due ruote pur non avendo mai posseduto una bicicletta degna di tale nome. «Ma come da sola? E poi in bici? Tu sei tutta matta!». La reazione di amici e conoscenti mi scivola addosso senza effetto. La solitudine non mi spaventa. È da quindici anni che giro il mondo da sola: sono stata in Mali, Niger, Uganda, Bolivia (e un sacco di altri posti non proprio tranquilli) con lo zaino in spalla, questa al confronto è una passeggiata. Tutto il resto però è un enorme punto di domanda. E infatti, dopo essermi illusa quando i primi chilometri scorrono lisci, i nodi dell’impreparazione vengono al pettine. Il peso mal distribuito nelle borse laterali mi sbilancia nelle frenate e anche la scelta del percorso va rivista meglio; lo capisco quando mi ritrovo a pedalare sulla statale Paullese con dei grossi bestioni accanto che mi fanno il pelo e il contropelo. In qualche modo arrivo a Cremona, la città di Stradivari, dove incontro il maestro liutaio Stefano Conia. Mi apre le porte della sua bottega e mi racconta come nasce un violino perfetto, in quattro mesi di lavoro sapiente. La Pianura Padana cede il passo al dolce saliscendi dei colli emiliani costellati di balle di fieno e vitigni in fiore fino a quando, superata Bologna,
All’altezza di Faenza viro verso est e mi sposto sulla litoranea, mantenendo le grandi città a debita distanza. Il piacere di pedalare lungo la ciclabile dell’Adriatico aumenta non appena lascio la Romagna ed entro nelle Marche: mille sfumature di blu sulla sinistra fanno da contrappunto alle striature delle verdi colline sulla destra. In Abruzzo, opto per un fuori programma suggerito da Cathy, una delle tante persone generose che mi hanno offerto un letto e un pasto caldo a casa loro. Mi prendo un giorno di pausa per visitare con lei Rocca Calascio. Siamo a quasi millecinquecento metri d’altezza, all’interno del Parco nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga, e con lo sguardo abbraccio gran parte della valle del Tirino e della piana di Navelli. Alla mia destra, imponente e maestoso, si innalza il castello medievale dove furono girate alcune scene del film fantasy Ladyhawke. Quando arrivo in Puglia mi sem-
bra già d’intravedere il mio personale traguardo. E invece la Puglia è dannatamente lunga, ancor più se pedali a una temperatura media costante di °C. Sulla fatidica statale un branco di cani randagi mi rincorre e mentre pedalo affannosamente forse per la prima volta mi chiedo chi me l’ha fatto fare. Attraverso l’arida piana della Capitanata color ocra che mi ricorda i paesaggi del Sahel e poi scivolo lungo la costa, accarezzata dalla brezza del mare. A San Donaci, quasi alle porte di Lecce, stremata da caldo e stanchezza, mi trasformo in una pellegrina d’altri tempi e busso alla prima porta che incontro chiedendo dell’acqua. Entro in casa assetata e ne esco un’ora dopo, dissetata e rifocillata. La Puglia sarà pure lunga e dannatamente calda, ma l’ospitalità della sua gente non è un luogo comune.
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azione
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Anno LXXXIV 2 novembre 2021
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TEMPO LIBERO
Assalto al Sahara Express
Reportage ◆ A bordo del treno più lungo del mondo che dal porto atlantico di Nauadibou arriva alla città mineraria di ferro di Zouerat attraverso il deserto Luigi Baldelli, testo e foto
È lungo circa , chilometri, viaggia attraverso il deserto della Mauritania a km all’ora e impiega più di ore per percorrere chilometri tra le dune di sabbia, con più di vagoni trainati da locomotive e solo uno per i passeggeri. Tutti gli altri vagoni sono destinati al trasporto delle merci. È il Sahara Express, il treno più lungo del mondo che parte vuoto dal porto di Nauadibou, città sull’Atlantico, per raggiungere la miniera di ferro di Zouerat, nel mezzo del Sahara. Un tragitto coperto due o tre volte a settimana. Il treno appena uscito dal porto si ferma poco dopo, alle porte della città. Inizia qui l’assalto dei viaggiatori. Passeggeri abusivi che occupano i vagoni merci vuoti (all’andata) per evitare di pagare l’economico biglietto del vagone viaggiatori. Una soluzione che permette loro anche di caricare tutto quello che vogliono: copertoni, capre, bombole del gas, masserizie, cibo. Un vero assalto alla diligenza.
Il Sahara Express è il treno più lungo del mondo, e forse anche il più lento. Molti i passeggeri «clandestini» che viaggiano sui vagoni merci.
Una moderna carovana composta da una sola carrozza passeggeri e 200 vagoni merci trainati da quattro locomotive Si viaggia in compagnia e i vagoni merci, che altrimenti resterebbero vuoti, diventano piccoli spiazzi di convivenza e condivisione, durante un lungo viaggio caldo di giorno e freddo di notte, quando il deserto fa sentire la sua escursione termica. Non che cambi di molto la situazione per chi vuole viaggiare nell’unico vagone passeggeri, posizionato verso la coda del treno, pagando un biglietto di circa tre euro per l’intero viaggio. Ci si affolla nell’unica porta che permette l’ingresso e una volta dentro si scopre che il vagone non è altro che un contenitore con panche di legno poste lungo le pareti. Non certo una prima classe, ma neanche una terza. È solo un vecchio vagone passeggeri. C’è chi prende posto sulle panchine, chi si siede o sdraia per terra. E ci si prepara per il viaggio sistemando le valigie da usare come cuscini e le coperte per ripararsi dal freddo della notte. Fornelli e pentole per cucinare qualcosa. Ci si guarda intorno, si accennano sorrisi e saluti in attesa della partenza. Che non è mai in orario. Il macchinista mi dice che era previsto per le due del pomeriggio, ma c’è ritardo. «E quando partiamo?» domando in modo ingenuo. Mi guarda e sorride senza rispondere. Nell’attesa butto l’occhio dentro i vagoni merci «vuoti», che saranno riempiti dal minerale nel viaggio di ritorno. Anche qui si cerca di sistemarsi nel miglior modo possibile, sul duro pavimento di ferro del vagone, tirando fuori piccole griglie a carbone per preparare il tè e sistemando panni e drappi per la notte. Gruppi di persone raccolti per non affrontare in solitudine il lungo percorso. Nessuno li controlla nel loro viaggio da «clandestini». In un vagone, non so come, sono riusciti a far entrare una decina di pecore. Da dove mi trovo io, non si riesce a vedere la fine del treno. Tutto intorno schiamazzi, grida e risate. Finalmente, come a un segnale non concordato, ma atteso da tutti, il rettile d’acciaio si mette in moto. Sono le quattro del pomeriggio. Un movimento violento e via in direzione del Sahara setten-
L’assalto dei passeggeri «non paganti» che prendono possesso dei vagoni per il trasporto delle merci.
trionale, verso quella che è una delle miniere di ferro più ricche del mondo. E se questo treno detiene il primato di essere il più lungo del mondo, probabilmente ha anche quello di essere il più lento. Il sole si sta abbassando e il chiarore dorato entra dai finestrini. Guardando fuori, accompagnati dal lento dondolio del convoglio ferroviario e dal brusio dei viaggiatori, le dune sono infinite e cercano di catturare l’ultima luce rimasta. Quelle più lontane sono gobbe scure, nere. Nessun punto di riferimento. Una preghiera risuona nel vagone. Quattro uomini, inginocchiati e rivolti verso la Mecca, fanno la loro giacuLa «fossa», così è chiamata dagli operai la mineraria di ferro di Zouerat.
latoria. In un angolo, invece, una donna è intenta a preparare il tè alla menta che viene subito offerto allo straniero in segno di ospitalità e amicizia. E mentre sorseggio la mia bevanda calda osservo un vecchio seduto in penombra, e mi torna in mente che in Mauritania la schiavitù è stata abolita ufficialmente nel , ultimo paese a prendere questa decisione. Abolita, ma non debellata. Chissà da che parte stava lui, se da quella dell’etnia Haratin, cioè quella degli schiavi, o se dalla parte degli arabi-berberi. Intanto il freddo inizia a penetrare nelle ossa, mi avvolgo nella coperta e mi lascio cullare dal treno che fa po-
che fermate. Una di queste è a Choum. Uno scossone, la frenata del lungo rettile, mi sveglia. Pochi lampioni profilano la stazione. Scendo per vedere meglio dove siamo, anche se un passeggero mi sconsiglia di farlo, perché il treno non annuncia la partenza e potrei rischiare di rimanere a terra. Alla luce gialla delle lampade, riesco a vedere chi frettolosamente scende dal treno e chi invece sale con la stessa velocità, a occupare un posto dentro uno dei duecento vagoni merci vuoti. Il tempo di un paio di sigarette e si riparte. Siamo a circa tre quarti del viaggio. La luce dell’alba arriva improvvisa, lame di sole entrano di nuovo nel vagone a dare sollievo dopo il freddo intenso della notte. Riprende il brusio, voci che sussurrano piano e di nuovo l’odore del tè caldo alla menta. Chi ha già fatto diverse volte il viaggio riconosce luoghi o segnali e dice che non manca molto all’arrivo. Ma il tempo non è una scienza esatta in questo viaggio. E infatti, solo dopo altre quattro ore, alle dieci del mattino, arriviamo a destinazione, la città di Zouerat. Una città nata intorno alla miniera dove la stazione d’arrivo non è tanto diversa da quella di partenza: sabbia e dune, mentre tutto intorno ci sono solo case basse e bianche con strade di terra. Resta da vedere questa miniera, questo immenso cratere profondo più di metri da dove ogni anno
si estraggono più di dieci milioni di tonnellate di ferro. Immaginavo di ritrovarmi di fronte a una bolgia infernale, e invece mi devo subito ricredere. Qui si lavora con le tecnologie più moderne. Le strade sterrate della miniera sembrano il vortice di un imbuto e arrivano giù fino alle profondità dello scavo. Un via vai continuo di camion, con ruote alte due metri, trasportano il minerale di ferro verso uno scivolo che riempirà i vagoni del treno. Enormi ruspe conficcano incessantemente le loro lunghe braccia sulle pareti di roccia. Leggere folate di vento alzano nuvole di polvere rossa, rendendo il paesaggio ancora più inverosimile. Non ci si ferma mai qui nella «fossa», come viene chiamata dai lavoratori, «perché tutto il mondo ha bisogno del nostro ferro», mi dice un operaio sotto un caschetto giallo con la tuta ricoperta di polvere. Senza dubbio la miniera di ferro di Zouerat dà una spinta importante all’economia della Mauritania. Andando verso la città incontro gruppi di operai che si salutano, è l’orario del cambio turno. Sciamano via per le strade, chi si è trasferito qui con la famiglia torna a casa, mentre gli altri si avviano verso le abitazioni messe a disposizione dalla società mineraria. «Tutta la città vive della miniera» mi dice il giovane cameriere di un piccolo bar dove mi siedo per bere un caffè. Torno verso la stazione, dove lungo i binari già si vedono i primi passeggeri in attesa. Soprattutto tecnici od operai con le loro famiglie che rientrano a Nouadibou o, con un viaggio ancora più lungo, a Nouakchott, la capitale. Ed eccolo arrivare, il treno, per il viaggio di ritorno. Sembra uguale a quello che ci ha portato qui «ma questo è il fratello gemello» mi suggerisce un viaggiatore, pronto all’assalto per conquistare una buona postazione per la traversata del deserto. La differenza è che adesso i più di duecento vagoni merci sono tutti pieni del minerale ferroso, pronto per essere portato alle navi in attesa al porto di Nouadibou. Questo vuol dire che per chi viaggerà all’aperto, senza biglietto, la peregrinazione sarà ancora più difficile perché in bilico sopra al materiale estratto dalla miniera, non riparati dalle alte sponde dei vagoni. Si cerca la posizione più comoda e sicura per evitare di cadere fuori durante il tragitto che a causa del pesante carico del «serpente di ferro», durerà qualche ora in più per arrivare a destinazione. I disagi non fermano e non intimoriscono i passeggeri che partono all’assalto, con il solito sottofondo di grida. Passa qualche ora e oramai tutti si sono trovati un cantuccio: l’unica carrozza passeggeri è piena, nei vagoni merci di nuovo le capre sopra la terra ferrosa, mentre grappoli di operai sono seduti sui sassi e polvere di metallo o appoggiati sulle sponde del vagone. Si aspetta solo il via. Qui nella carrozza passeggeri un nonno sbuccia un uovo sodo al nipotino che gli siede accanto. Una donna avvolta in un abito tradizionale di un colore blu intenso parla sottovoce con sua figlia e scoppiano in una fragorosa risata. Poco prima del tramonto il lungo treno si mette in moto, destinazione Atlantico, dopo essere stato accolto dalle dune e dalla notte stellata del Sahara. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica
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azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO
Ricetta della settimana - Risotto alla zucca ●
Ingredienti per 4 persone 1 cipolla 1 spicchio d’aglio 600 g di zucca, pesata mondata, ad esempio orange Knirps 3 c d’olio d’oliva 300 g di riso, ad esempio Carnaroli 1,5 dl di vino bianco 1 l circa, di brodo di verdura 4 c di panna acidula semigrassa parmigiano grattugiato sale pepe 3 cucchiai di semi di zucca ½ mazzetto di prezzemolo
Preparazione
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1. Tritate finemente la cipolla e l’aglio. Tagliate a dadi la zucca senza sbucciarla. Scaldate la metà dell’olio e soffriggete la cipolla e l’aglio per circa 2 minuti. Aggiungete il riso, due terzi della zucca e continuate a soffriggere brevemente. Bagnate con il vino e fate ridurre. Aggiungete il brodo poco alla volta mescolando di continuo. 2. Lasciate sobbollire il risotto per circa 20 minuti, finché risulta cremoso, ma ancora al dente. Incorporate la panna acidula e il parmigiano e regolate di sale e pepe. 3. Scaldate l’olio restante in una padella. Rosolate bene i dadi di zucca messi da parte. Tritate grossolanamente i semi di zucca e il prezzemolo e uniteli. Condite con sale e pepe. 4. Servite il risotto cosparso con i dadi di zucca, a piacere con del parmigiano.
I membri del club Migusto ricevono gratuitamente la nuova rivista di cucina della Migros pubblicata dieci volte l’anno. www.migusto.migros.ch
Preparazione: circa 20 minuti; sobbollitura: circa 20 minuti. Per persona: circa 47 g di proteine, 40 g di grassi, 73 g di carboidrati, 860 kcal /3600 kJ.
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Anno LXXXIV 2 novembre 2021
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azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO
Bello e utile, ma non altrettanto buono Mondoverde ◆ Diverse le qualità del melo cotogno, che può servire per profumare o produrre preparati cosmetici Anita Negretti
La Cydonia oblonga, chiamata più famigliarmente melo cotogno, è una pianta in grado di farsi apprezzare durante tutte le stagioni. Coltivata sin dall’antichità, troviamo traccia della sua presenza nei lasciti dei Babilonesi che già nel a.C. ne elogiavano le virtù. Il melo cotogno è apprezzato ancora oggi sia per i fiori, che sbocciano a maggio e si presentano con petali bianchi all’interno e rosa all’esterno, sia per i frutti molto decorativi a forma rotonda o oblunga in base alla varietà.
Un umile melo cotogno dal portamento chino.
◆
mani che la chiamarono «mela cydonia» cioè mela di Cidone, riferendosi a una città dell’isola di Creta, sua ter-
Così si presenta il frutto della varietà «Maliformis» del melo cotogno.
ra di origine insieme a Persia, Turkestan e Arabia, dove ancora oggi vengono coltivate in enormi frutteti. Si presenta come un alberello caduco, dai rami sottili e foglie oblunghe di un color verde biancastro pronte a comparire da marzo in avanti. Dal portamento leggermente contorto, la Cydonia viene coltivata nei giardini anche per via del suo aspetto decorativo, richiedendo tra l’altro ben poche cure. Tra queste, va tenuto in considerazione che l’apparato radicale è piuttosto superficiale e quindi è utile non lavorare il terreno circostante il fusto per evitare di danneggiare le radici. Dalla crescita molto lenta, il melo cotogno necessita di buone concimazioni primaverili e autunnali, mentre la potatura a fine inverno è indispensabile per diradare la chioma che finirebbe per diventare molto densa con scarsa fruttificazione.
Inoltre, una chioma ariosa farà sì che gli attacchi da parte di funghi o insetti saranno minori, anche se un trattamento con poltiglia bordolese data in febbraio a scopo preventivo è sempre consigliabile. Posta in pieno sole o al massimo a mezz’ombra, questa pianta comincerà a produrre frutti dal terzo anno in poi, anche se i raccolti più abbondanti si otterranno dopo il decimo anno di vita. I frutti del melo cotogno hanno forme strane e non sono mai uniformi nemmeno sulla stessa pianta né tra le varietà presenti in vendita: si parte dall’«Orange», la capostipite, con frutti ovali, per arrivare alla «Pyriformis» a forma di pera, passando per la «Lusitanica» dalla forma simile ma più grande, fino ad arrivare alla varietà «Maliformis» molto simile a una grossa mela.
Il primo posto dove cercare una qualsiasi cosa è l’ultimo in cui ci si aspetta di…
Ennio Peres
Nel , lo scrittore statunitense Arthur Bloch pensò di raccogliere in un volumetto una selezione dei più divertenti aforismi ispirati alla Legge di Murphy. La sua opera ottenne un clamoroso successo internazionale e la stessa sorte conobbero, poi, altre sue analoghe raccolte. In breve tempo, così, Arthur Bloch divenne ricco, famoso e… ottimista. Ciò che soprattutto colpisce delle massime murfologiche è che, in maniera più o meno esasperata, affermano delle verità riscontrabili nella vita quotidiana. In linea di massima, possono essere considerate delle trasposizioni, in chiave pessimistica, dell’assunto statistico secondo il quale, persino un evento altamente improbabile, possa avere, alla lunga, la quasi certezza di verificarsi. Qui di seguito, riporto alcune graffianti citazioni, tratte dal repertorio di Arthur Bloch, in ciascuna delle quali, le lettere delle parole finali sono
state sostituite da un’uguale quantità di lettere «x». Provate a testare il vostro potenziale sarcastico, cercando di ricostruire esattamente i finali mancanti. . Il primo posto dove cercare una qualsiasi cosa è l’ultimo in cui ci si aspetta xx xxxxxxxx. . Per pulire una cosa, bisogna xxxxxxxxx xx’xxxxx. . Più un oggetto costa, più lontano bisognerà spedirlo per xxxxx xxxxxxxx. . La telefonata che hai aspettato per ore giunge non appena xxx xxxxxx. . Se ci sono due modi di collegare due fili, il primo che si prova fa xxxxxxx xxxxx. . Di due possibili eventi, accadrà solo quello xxxxxxxxxxxx. . Non c’è lavoro tanto semplice che non possa essere xxxxx xxxx. . Le decisioni giuste vengono dall’esperienza. L’esperienza viene dalle xxxxxxxxx xxxxxxxxx. . Le funzioni del computer, più
facili da usare, sono quelle che xxxxxxx xx xxxx. . Se tutti ti vengono incontro, sei nella xxxxxxxxxxx xxxxxxxxx. . La strada più breve è tutta xx xxxxxx. . Non c’è problema tanto piccolo che non possa essere xxxxxxxxxxx. . L’unica volta in una giornata che vi concedete un attimo di riposo è la volta che il capufficio xx xxxxxx. . Nessuna impresa è mai stata compiuta da un uomo xxxxxxxxxxx. . Se non giochi non vinci. Se giochi xxxxx. Soluzioni . [...] di trovarla – . [...] sporcarne un’altra – . [...] farlo riparare – . [...] sei uscito – . [...] saltare tutto – . [...] indesiderato – . [...] fatto male – . [...] decisioni sbagliate – . [...] servono di meno – . [...] carreggiata sbagliata – . [...] in salita – . [...] ingigantito – . [...] vi guarda – . [...] ragionevole – . [...] perdi.
Nel , l’ingegnere aeronautico dell’aviazione statunitense, capitano Ed Murphy, osservando l’andamento dei propri esperimenti, commentò: «Se qualcosa può andar male, lo farà». Questa amara sentenza, che ha il dono di riassumere in poche parole tutta l’essenza del pensiero pessimistico esistenziale, divenne rapidamente popolare in ogni parte del mondo con il nome di Legge di Murphy, favorendo allo stesso tempo la filiazione di una miriade di sue divertenti varianti, come le seguenti: «Ogni soluzione genera nuovi problemi»; «Per quanto nascosta sia una pecca, la natura riuscirà sempre a scovarla»; «Se c’è una possibilità che varie cose vadano male, quella che causa il danno maggiore sarà la prima a farlo»; «Se si prevedono quattro possibili modi in cui qualcosa può andar male e si prevengono, immediatamente se ne rivelerà un quinto»; e così via, drammatizzando…
Continuano gli incontri proposti dall’organizzazione femminile di Migros, che, come di consueto, ha allestito per le sue socie e per i simpatizzanti un calendario nutrito di incontri culturali e di momenti di svago.
novembre Visita alla Lindt Home of Chocolate di Kilchberg. A Kilchberg, sul lago di Zurigo, in un’impressionante, nuova costruzione degli archistar Christ & Gantenbein una mostra multimediale interattiva ci accompagnerà attraverso sette mondi incentrati sul cioccolato.
La sinistra legge di Murphy Giochi di parole
Forum elle ◆ Nuove proposte per le socie dell’organizzazione femminile di Migros
novembre Visita alla Fondazione Loverciano di Castel San Pietro. La Fondazione Sant’Angelo di Loverciano è un’opera educativa e formativa per giovani con bisogni speciali. Ne promuove lo sviluppo, lo studio e l’introduzione nel mondo del lavoro e offre alle loro famiglie un luogo di condivisione e di sostegno.
Dal portamento leggermente contorto, la Cydonia viene coltivata nei giardini anche per il suo aspetto decorativo I frutti sono senza peduncolo, maturano in ottobre e sono di colore prima verde e poi giallo quando la maturazione è completa. Di grandi dimensioni, risultano essere immangiabili se addentati crudi, mentre il sapore migliora notevolmente se cotti. Appena raccolti, i grossi frutti profumano intensamente e in molte nazioni, così come in passato alle nostre latitudini, vengono utilizzate per profumare cassetti e armadi della biancheria. Negli ultimi anni le industrie chimiche e farmaceutiche hanno dato particolare rilievo all’uso di questi frutti, apprezzandoli per le loro virtù cosmetiche: bagnoschiuma, profumi, creme, shampoo, antirughe sono solo alcuni dei prodotti a base di melo cotogno, che hanno fatto il loro ingresso in erboristerie e profumerie. Per chi desidera coltivare una pianta (o più di una!) di questa specie, sappia che in piena terra raggiunge anche i sette metri d’altezza, con una chioma larga e densa, ma la si può coltivare facilmente anche in vasi ampi, ottenendo piante con dimensioni più modeste, che raramente superano i tre metri d’altezza. Deve il suo nome Cydonia ai ro-
Arte, musica e cioccolata
dicembre Visita alla Mostra degli Impressionisti al MA*GA di Gallarate. sono le opere dei maggiori esponenti dell’Impressionismo esposte al Museo MA*GA di Gallarate (VA) in una mostra, che vuole presentare ai visitatori uno dei movimenti che più hanno segnato la storia dell’arte.Da Courbet a Pissarro, da Degas a Manet, da Monet a Renoir, da Cézanne a Sisley: dipinti, disegni, acquarelli, incisioni e sculture, conducono il pubblico lungo un percorso alla scoperta delle trasformazioni della cultura visiva europea. dicembre Incontro con Natasha Korsakova, violinista… e scrittrice. Natasha Korsakova è una violinista greco-russa di fama internazionale che ha scelto di vivere in Ticino, nel Mendrisiotto ci parlerà della sua passione per la musica e la scrittura e ci allieterà con il suo violino, scegliendo dei pezzi a noi dedicati. dicembre Teatro Sociale di Bellinzona. Spettacolo gospel con il Darnell Moore & Company. La Company di Darnell Moore è una nuova ed emergente formazione proveniente dall’area di Washington D.C. Informazione più precise, insieme a formulari di iscrizione a Forum elle e alle varie attività, sono disponibili sul sito web www.forum-elle.ch/ticino. Ricordiamo tra l'altro che non è più possibile iscriversi allo spettacolo di Ale & Franz al Sociale previsto per il novembre perché il limite delle iscrizioni è già raggiunto.
Natasha Korsakova ha al suo attivo esibizioni in tutto il mondo. (V. Fiori)
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TEMPO LIBERO
Le avventure dello spadaccino ammazza demoni Videogiochi
Demon Slayer: Kimetsu no Yaiba – The Hinokami Chronicle si rivolge soprattutto ai fan della serie televisiva
◆
Davide Canavesi
I cartoni animati giapponesi! Oramai non si possono più definire un prodotto di nicchia, visto che più d’una generazione è cresciuta guardando serie iconiche come Holly e Benji o Pokémon. Ma quelli giunti alle nostre latitudini, specialmente fino agli anni , non sono mai divenuti davvero mainstream, i due esempi citati a parte, ovviamente. Tuttavia, col passare del tempo e la crescita dei primi estimatori di questo tipo tutto particolare d’animazione, si può dire che anime (le serie animate) e manga (i fumetti) siano divenuti parte della quotidianità per molte più persone della Svizzera italiana di quanto potremmo pensare. Non è nemmeno un caso che i film d’animazione giapponesi si siano guadagnati a giusto titolo dei premi Oscar in più occasioni e nemmeno che Netflix investa un discreto quantitativo di fondi per finanziare tali prodotti. L’animazione giapponese piace in tutto il mondo e, di conseguenza, certe storie finiscono per essere adattate non solo dalla carta allo schermo della tv ma anche in formato videoludico. Le produzioni di videogiochi tratte da serie anime non sono una novità e spesso gli adattamenti sono fatti in modo un po’ approssimativo, da team che desiderano solamente capitalizzare su una fanbase particolarmente fedele. Produzioni che finiscono invariabilmente per essere di scarsa qualità. E poi ci sono i casi come quello del gioco di cui parliamo questa settimana,
Demon Slayer: Kimetsu no Yaiba - The Hinokami Chronicle. Casi in cui l’adattamento è più che discreto ma che rimane un prodotto per i fan dell’opera originale perché, da un punto di vista prettamente videoludico, l’offerta non è davvero ad un livello soddisfacente. Demon Slayer (Kimetsu no Yaiba in giapponese) è un manga creato da Koyoharu Gotōge e pubblicato tra il e il . La serie animata, pubblicata dal , si è conclusa con la chiusura del primo arco narrativo mentre il secondo è stato riassunto in un film uscito nelle sale nel . Ora, in attesa del terzo arco narrativo, il film sta venendo serializzato in formato televisivo con scene aggiuntive. Oppure, se leggere o guardare anime non ci va a genio, possiamo giocare al gioco sviluppato da CyberConnect e SEGA che segue fedelmente le avventure di Tanjiro Kamado e della sua sorellina Nezuko. Nel mondo di Tanjiro esistono i demoni, sebbene la maggior parte dell’umanità non ne sia al corrente. Esseri crudeli e feroci che sopravvivono alle spalle degli uomini e delle donne di cui si cibano. Un brutto giorno, il mondo di Tanjiro viene capovolto proprio da uno di questi esseri. Tornato a casa dopo un’escursione nel vicino villaggio, il ragazzo scopre che madre, fratelli e sorelle sono stati assassinati. Disperato, si rende però conto che una delle sorelle, Nezuko, sembra ancora viva. Durante una lunga corsa nella foresta
per tentare di raggiungere i soccorsi, la giovane si trasforma improvvisamente in un demone. Ne segue una colluttazione nella quale interviene anche un misterioso spadaccino. Tanjiro e il nuovo arrivato resteranno molto sorpresi di scoprire che Nezuko è forse l’unico demone che non attacca gli umani per nutrirsi. L’avventura è servita: Tanjiro si metterà alla ricerca di una cura per la condizione della sorellina e, per farlo, dovrà diventare uno spadaccino ammazza demoni. Il gioco, uscito su console Sony e Microsoft, oltre che PC, è di qualità discontinua. La parte narrativa, tra presentazione dei personaggi, veste grafica, doppiaggio (rigorosamente in giapponese ma si può optare anche
Giochi e passatempi Cruciverba
A quale nazione appartiene questa bandiera? Si dice che il bianco al centro simboleggi la purezza dei suoi valori e l’azzurro ai lati… Scopri il resto della frase rispondo alle definizioni e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 9 – 3, 6, 10) 1
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Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
ORIZZONTALI 1. Indica una posizione 3. Lo era Sartre 6. Rafforza un sì 8. Articolo 9. Campo, podere in latino 10. Una lite senza fine 11. Mette in ridicolo 13. Si attacca alla bugia... 14. Compone i cromosomi 15. Capitale dell’Ucraina 17. Un piccolo centro 19. 9 orizzontale in latino 21. Lo sono i personaggi pubblici 23. Rendono serena la sera 25. Lo paga il reo 26. Il «no» portoghese 27. È scritta... senza consonanti 28. Generati 29. È come un’altra VERTICALI 1. Articolo per sciatori ... 2. Misura lineare inglese 3. Ne gode chi può... 4. Legno pregiato 5. Cambiano spesso in... espresso 6. A me in tedesco 7. Cravatta in spagnolo 9. La scritta dei cantonieri italiani 10. Macchine semplici 12. Un numero inglese 13. Sono legumi 16. Contrapposto al dittongo 18. Gonfio, tumefatto 20. Li estingue l’amnistia 22. Tre vocali 24. Non è reato ammazzarla 26. Pisolino a Londra 28. Un avverbio
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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G I U L A I R O D N P A E
(Avvertenza: Questo è lo stesso schema pubblicato sul numero 43 di «Azione», in cui mancavano le caselle evidenziate)
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Giochi per “Azione” - Novembre 20215 9 3 Sargentini Stefania 7
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per le voci in inglese) è assai riuscita. In alcuni casi sarà davvero difficile distinguere il gioco dalla sua controparte animata. Dal punto di vista ludico, però, è un adattamento un po’ pigro. Nei panni di Tanjiro, Nezuko e in certi frangenti altri personaggi della serie saremo chiamati ad esplorare ambienti abbastanza spogli e combattere nemici. I combattimenti sono visivamente spettacolari ma poveri di azioni vere e proprie. Avremo a disposizione attacchi leggeri e pesanti, più livelli di colpi speciali e in certi scontri potremo chiedere l’aiuto di un compagno di squadra, che si limiterà però a fornire copertura. Le esplorazioni, poi, sono molto essenziali. Viaggeremo per bo-
schetti e villaggi in percorsi più simili a corridoi che labirinti. L’unico motivo per deviare dall’ovvio percorso è la raccolta di alcuni oggetti collezionabili. Nella selezione dei capitoli potremo poi affrontare dei boss fight più impegnativi ma mai davvero impossibili da battere, un’aggiunta doverosa ma comunque insufficiente. Il gioco offre anche una modalità online in cui avremo la possibilità di sfidare nemici in locale, contro la CPU e online (classificati o personalizzati) con differenti varianti dei personaggi. Le opzioni non sono tantissime, possiamo selezionare ad esempio la zona del mondo per il matchmaking o consultare la classifica dei giocatori migliori per lanciare la nostra sfida. Insomma, Demon Slayer: Kimetsu no Yaiba - The Hinokami Chronicle rimane un gioco fatto per i fan dell’opera originale. Ma perché parlarne allora? Semplicemente perché la serie è assai conosciuta e l’adattamento a videogioco, per un fan, vale sempre la pena di essere giocato. È una produzione un po’ semplicistica, ma rimane uno degli adattamenti che abbiamo trovato più soddisfacenti dal mondo dei cartoni giapponesi a quello dei videogiochi. Aspettando la nuova serie che uscirà in dicembre, il gioco di SEGA e CyberConnect è un ottimo modo per riscoprire i personaggi e le vicende immaginate da Koyoharu Gotōge. A causa delle immagini a volte violente, il gioco è riservato ai maggiori di anni.
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A T E O M A 9 2 4 A G E R L I T Soluzione della settimana precedente N I ARIDIAMOCICSU – E R e tiAviene da piangere fallo, la… Resto Se ti pesi della frase: …RITENZIONE IDRICA FAVORISCE L’ADIPE. A K I E V R T R I T E N E G O Z I 1 4 9 2 3 6 8 7 U C I A I OAN EC F EI DR 3 6 5 8 9 7 1 4 S E E V A R I C E R A 8 7 2 4 1 5 3 9 N OP I TN A IR O R ES AN P 5 8 7 3 6 2 4 1 I N E S F L A N V O 4 3 6 9 7 1 5 2 F I D AO T R I NO AO SOO L 2 9 1 5 8 4 7 6 I C A I O A B E L’ E I A N A NO CAH E T M IA N 69 52 43 71 42 38 69 58 D E N U N C E C E N T O S CCI POI OP S IE R AI A 7 1 8 6 5 9 2 3
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata 1 2 3 4 5 6 esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Davide che resiste a Golia La storia di Taiwan, isola che da oltre settant’anni tiene testa alle pressioni della gigantesca Cina
Il grande ingorgo globale La robusta ripartenza dell’economia dopo lo stop dovuto alla pandemia mette a dura prova le infrastrutture
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Un’alleanza «anti-comunista» L’estrema destra spagnola strizza l’occhio ai leader latinoamericani con tendenze autoritarie
Come stanno i partiti? A metà legislatura, l’Udc accresce i consensi, l’onda verde si conferma e il Plr è il più in difficoltà
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Jens Weidmann è in panchina ma non rimarrà un muto spettatore. (Shutterstock)
Verso il compromesso tra formiche e cicale?
L’analisi ◆ Le politiche monetarie stabilite dalla Bundesbank e quelle fiscali promosse dai Governi dell’Eurozona coincidono nello stimolare la ripresa dopo il crollo del 2020. Ma il nuovo Governo tedesco potrebbe spingere verso un graduale ritorno al rigore Lucio Caracciolo
L’addio di Jens Weidmann alla guida della Bundesbank potrebbe segnare la fine di un’epoca non solo nella Banca centrale tedesca, ma nelle politiche monetarie ed economiche della Bundesrepublik. Il precoce prepensionamento dell’anti-Draghi, appena cinquantatreenne, accade infatti mentre a causa dell’emergenza Covid- i Paesi dell’Eurozona hanno virato verso la strada dell’espansione fiscale stimolata dal colossale (per i parametri europei) fondo Next Generation Europe – vulgo, Recovery Fund – con il quale la Germania ha accettato di garantire il debito di tutta l’area. A cominciare dalla super-peccatrice, l’Italia. Ciò che all’ex presidente della Bundesbank è apparso e continua ad apparire distribuzione gratuita di droga. Questa decisione, molto sofferta, personalmente sostenuta e imposta a una importante quota refrattaria del suo stesso partito dalla cancelliera Angela Merkel, deriva infatti da un’interpretazione del Patto di stabilità e crescita in chiave rivoluzionaria. Il contratto dell’austerità collet-
tiva, espressione quasi perfetta della cultura monetaria tedesca, è stato volto nel suo imperfetto ma effettivo contrario. Oggi come mai le politiche monetarie stabilite dalla Bundesbank e quelle fiscali, promosse dai Governi dell’Eurozona in sintonia con il resto del mondo che conta – a cominciare dagli Stati uniti – coincidono nello stimolare la ripresa dopo il crollo del . Questa fase dovrebbe chiudersi, in teoria, entro poco più di un anno. In vista del ritorno a una lettura molto più restrittiva degli accordi monetari e fiscali nell’Eurozona, tutti i Paesi coinvolti affilano le armi. Specie quelli dell’Europa meridionale, le cosiddette «cicale» tra cui spiccano Italia e Francia, che intendono proseguire e magari sviluppare l’approccio corrente. Fino a vestirlo di panni para-federalisti, ovvero strutturando via eurobond il principio della solidarietà fra gli Stati nella gestione del debito. Con i più forti e rigorosi – chiamati «formiche», pilotati dalla Germania e concentrati nell’Europa settentrionale – chiama-
ti a soccorrere i più fragili, dunque esposti alle intemperie dei mercati, in nome dell’appartenenza alla medesima famiglia. Ciò che, se l’Unione europea avesse un senso davvero federalista, avrebbe molto senso. Sarebbe anzi percorso obbligato. Weidmann non l’ha mai pensata così e non ha certo cambiato idea. Leggendari i suoi scontri con Draghi in seno alla Banca centrale europea, al tempo in cui l’attuale capo del Governo italiano ne era il presidente. In una prima fase sembrava che Draghi potesse essere assimilato al canone germanico, tanto che la stampa da boulevard tedesca lo raffigurava con in testa l’elmetto prussiano. Quando poi le circostanze e l’inclinazione personale hanno spinto Draghi a incarnare l’eresia «lassista», fino a spingere i tassi attorno allo zero se non in zona negativa, la divergenza di opinioni e di culture si è fatta feroce. Con Weidmann molto spesso ridotto in minoranza, quando non solo con sé stesso, a testimoniare una politica monetaria ormai fuori tempo. Non sappiamo se il ritiro dalla
scena pubblica da parte dell’ex presidente della Bundesbank sia provvisorio o definitivo. Potrebbe forse preludere a un suo passaggio alla politica, intestandosi il ruolo di protettore dell’ortodossia economica e monetaria germanica, in fedele ossequio ai precetti dell’ordoliberalismo? Difficile, anche se non impossibile. Il clima sta cambiando, pare, anche nelle élite tedesche. Il Governo che si sta formando a Berlino sotto la guida di Olaf Scholz, attuale ministro delle Finanze e vice cancelliere socialdemocratico, avrà nei liberali una decisiva componente «ortodossa», pronta a riorientare la barra tedesca ed europea verso il graduale ritorno al rigore. Le culture e le ideologie pesano. Pesa soprattutto l’atavico, leggendario timore dell’inflazione, che sta mostrando segni di riaccensione in tutta l’Eurozona. Timore favorito anche dall’aumento spettacolare della bolletta energetica. Quando la soglia del % è valicata, in Germania scatta l’allarme rosso. I media rievocano miserabili scenari weimariani, corre-
dati dal rischio di possibili svolte politiche autoritarie. Al momento però sembra improbabile che il possa davvero rivelarsi l’anno del rientro nella norma euro-germanica. Per un dato oggettivo: la minaccia del Coronavirus pare relativamente sedata, ma certamente non eliminata. Probabile anzi che ci si debba abituare a conviverci a lungo. E per una conseguenza politica e sociale valutata soggettivamente, ma che in una misura o nell’altra coinvolge tutta l’Eurozona: il rientro accelerato significherebbe instabilità, disordini, proteste di massa. Di qui la probabilità di un compromesso fra «cicale» e «formiche» che verta sulla priorità della pace sociale – e del consenso politico – rispetto alla fredda contabilità che gli euromeridionali bollano austerità, qualcosa di molto vicino al male assoluto. Prepariamoci dunque a una battaglia senza esclusione di colpi intorno alle politiche monetarie e fiscali nella zona euro. Con Weidmann in panchina, per ora. Ma difficilmente ridotto a muto spettatore.
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ATTUALITÀ
Giù le mani da Taiwan
Luci e polemiche
Alfredo Venturi
Francesca Marino
Tsai Ing-wen, la presidente diTaiwan dal 2016. (Shutterstock)
La sua superficie è volte più ridotta e la sua popolazione un sessantesimo appena, eppure la piccola Repubblica di Cina, forte di appoggi internazionali preziosi quanto informali, tiene testa da oltre settant’anni alla gigantesca Repubblica popolare cinese. Non solo. Mentre da una parte Pechino considera terra irredenta e parte integrante del suo territorio l’isola di Taiwan, dall’altra lo Stato cinese concorrente che prende il nome da quest’isola non è da meno: nella sua costituzione rivendica infatti la sovranità sull’intera Cina e perfino sulla Mongolia. Non a caso considera Taipei una capitale provvisoria, quella vera è Nanchino, la bellissima città che fu a lungo il centro del potere nell’impero millenario, ma che presenta lo scomodo inconveniente di trovarsi in piena Cina continentale, comunista e nemica. La storia dell’isola, che nel tratto più stretto di quel braccio di mare dista chilometri dalla terraferma, ha radici lontane. È sempre stata oggetto di disputa fra cinesi e giapponesi. Quando nel Cinquecento la raggiunsero i navigatori portoghesi la trovarono così ricca di affascinanti vedute da chiamarla ilha formosa, isola bella, e proprio con quel nome, Formosa, è entrata nel vocabolario geografico dell’Occidente. La Repubblica di Cina comprende non soltanto Formosa ma anche alcuni arcipelaghi nel Mar cinese meridionale, piccole isole di chiara importanza strategica. Oggi su quelle coste sfrecciano a bassa quota i cacciabombardieri inviati da Pechino in missione pesantemente intimidatoria: Golia sfida il minuscolo Davide. Certo, se non fosse per la tutela americana, ribadita una volta ancora settimana scorsa dal presidente Joe Biden, da tempo ne avrebbe fatto un sol boccone. E pensare che furono proprio gli Stati uniti, subito dopo avere sconfitto a suon di atomiche l’impero giapponese che occupava quelle terre fin dall’ultimo scorcio dell’Ottocento, a restituirle alla Cina. Correva l’anno , la diplomazia di Washington ancora non poteva sapere che di lì a poco la lunga guerra civile fra nazionalisti e comunisti sarebbe entrata in una nuova fase destinata quattro anni più tardi a culminare nella vittoria di Mao Ze-dong e nella nascita della Repubblica popolare. Né poteva sapere che il Kuomintang nazionalista di Chiang Kai-shek avrebbe fatto base a Formosa meditando orgogliosi
propositi di riconquista e dando vita a una creatura politica revanscista, oggi popolata da milioni di abitanti. Né infine poteva sapere che di lì a poco la guerra di Corea, con il massiccio intervento della Cina comunista, avrebbe sconvolto gli equilibri strategici nell’area. Cominciava in quel la contrapposizione fra le due Cine separate dalla geografia e dall’ideologia. Vista in una prospettiva storica, la riunificazione sembra l’inevitabile sbocco di una situazione innaturale, ma certo non appare sull’orizzonte dell’attualità. Anche perché i due Paesi hanno percorso strade molto diverse. La Repubblica maoista attraversata da aspri sussulti ha finito con l’affiancare al ruolo egemonico del partito comunista la scelta di una «economia socialista di mercato», fino a diventare la superpotenza non soltanto militare ma anche commerciale che allarma il mondo intero. Taiwan è stata protagonista di uno spettacolare sviluppo all’occidentale, inizialmente favorito dal fatto che molti nazionalisti sfuggiti al vittorioso potere comunista avevano portato con sé importanti risorse con cui hanno finanziato un’impetuosa crescita economica. Oggi nell’immensa Cina di Xi Jinping il prodotto interno lordo pro-capite a parità di potere d’acquisto misura poco più di mila dollari l’anno, quello di Taiwan supera i mila: più di tre volte tanto. È su questa realtà economica e sociale che Pechino, spalleggiata dalla Russia e dalla Corea del nord, vorrebbe realizzare la sua politica irredentista. A volte le due Cine sono state sull’orlo della guerra, e anche oltre. Il Governo comunista non ha mai abbandonato il proposito di completare con le armi, vista la resistenza di Taipei alla negoziazione, il percorso avviato fin dai primi anni del dopoguerra, quando aveva contro il mondo intero. Infatti a rappresentare la Cina nella comunità internazionale, a cominciare dall’Organizzazione delle nazioni unite, non era il colosso continentale ma il piccolo e informale Stato isolano che si voleva erede della Repubblica post-imperiale di Sun Yat-sen. Fu proprio negli anni in cui Taiwan impersonava la Cina di fronte al mondo che Quemoy, un’isoletta costiera che fungeva da avamposto taiwanese a un paio di chilometri dalla terraferma, si trovò per due volte, nel e nel , al centro di un confronto militare, in pratica un ritor-
no di fiamma della guerra civile. Le due crisi si conclusero abbastanza rapidamente anche perché Washington non aveva escluso, dopo la partecipazione della Cina comunista alla guerra di Corea, il ricorso alle armi atomiche. Rimaneva il paradosso della rappresentanza: il seggio all’Onu, per non parlare di quello permanente con diritto di veto nel Consiglio di sicurezza, non poteva che toccare a Pechino. E così fu a partire dal , quando l’assemblea generale approvò la risoluzione che smentendo un atto precedente dichiarò il Governo della Repubblica popolare unico legittimo rappresentante della Cina. E poiché i due contendenti accettavano di allacciare rapporti diplomatici soltanto con i Paesi che non riconoscevano l’«altra» Cina, la comunità internazionale quasi al completo, sospinta dalle ragioni della Realpolitik, aprì le sue ambasciate a Pechino lasciando a Taipei semplici uffici di rappresentanza. Oggi sono soltanto una quindicina gli Stati che intrattengono relazioni formali con Taiwan: piccoli Paesi del Centro America e dell’Oceania, ma anche una potenza diplomatica come il Vaticano, che Xi Jinping vedrebbe volentieri in un ruolo di mediazione fra le due Cine. Tutto questo non significa, del resto, che la Repubblica taiwanese abbia perduto la protezione di cui godeva quando rappresentava l’intero gigante cinese. Gli Stati uniti, che pure riconoscono la Cina popolare, non hanno cessato di esercitare, mostrando i muscoli con le loro navi da guerra irte di missili, una funzione di garanzia dello status quo. Per venire ai nostri giorni, «giù le mani da Taiwan» è il messaggio implicito nel varo dell’Aukus (Australia, United Kingdom, United States), un patto di sicurezza con cui le tre potenze fanno fronte comune contro ogni rischio di destabilizzazione nell’area indo-pacifica. Un’iniziativa che di fronte al rinnovato protagonismo di Pechino sulla scena mondiale ha assunto una evidente connotazione anti-cinese. Qui siamo di fronte a un nuovo paradosso non privo di illuminanti precedenti storici: proprio l’attivismo e i toni minacciosi della Repubblica popolare, provocando la nascita di un agguerrito fronte di resistenza, sono diventati per Taiwan una sorta di assicurazione sulla vita. Per ora, con le flotte dell’Aukus che pattugliano quei mari turbolenti, nell’ilha formosa si possono dormire sonni un pochino più tranquilli.
India ◆ Inizia la stagione delle feste, si dimentica la pandemia ma i contrasti rimangono
In India si celebra la prima stagione delle feste dopo la pandemia. Sembra che il tempo non sia passato e che la sordina dell’ultimo anno abbia soltanto acuito, nel bene e nel male, le celebrazioni e le polemiche che le accompagnano. Come sempre, l’annuncio ufficiale lo danno i cartelloni pubblicitari e la folla crescente nei negozi di abiti, di gioielli e di utensili da cucina. Cominciano durante o subito dopo Navaratri (i nove giorni dedicati a celebrare la dea Durga) ad annunciare la stagione delle feste che culmina con la celebrazione di Diwali, la festa delle luci, che cade abitualmente tra ottobre e novembre. Diwali commemora il ritorno trionfale dall’esilio di Rama, il semidio protagonista del più famoso poema epico indiano, il «Ramayana», nella città di Ayodhya. E celebra la discesa di Lakshmi, dea della fortuna e della prosperità, sulla terra. Per accogliere degnamente la dea e indicarle il cammino verso questo mondo, si puliscono da cima a fondo case, negozi e si mettono i diya (lumini di terracotta) dappertutto.
Per la folla che riempie i negozi il Coronavirus sembra solo un ricordo lontano, vedremo con quali risultati Edifici e strade sono illuminati a giorno, così come i templi. Davanti alla porta di casa si disegnano i rangoli, composizioni augurali fatte con polveri colorate e riso, per propiziare fortuna e felicità. I commercianti, il giorno prima di Diwali, acquistano nuovi libri contabili e nuovi strumenti che saranno poi benedetti durante una solenne cerimonia all’interno del negozio. I primi soldi incassati quel giorno saranno conservati per tutto l’anno come talismano di buona fortuna. A Diwali ci si scambiano dolci e regali, preferibilmente di metallo: possono essere stoviglie. Ma è inutile dire che sono principalmente le gioiellerie a fare affari d’oro. Così come i negozi di abbigliamento, perché una nuova toilette è d’obbligo per tutti. I festeggiamenti cominciano al calar della sera, fuori e dentro casa. Famiglie e amici si riuniscono, si scambia-
no visite, si tira tardi giocando a carte e sparando fuochi d’artificio fino alle prime luci dell’alba. Quest’anno le polemiche abitualmente legate alla stagione delle feste sono cominciate prima del solito e più del solito hanno sfiorato sublimi vette di ridicolo. Un famoso brand di abiti e arredamento ha dovuto ritirare una campagna pubblicitaria in cui si vedevano le modelle indossare il sari senza il bindi, il punto rosso sulla fronte che denota per tradizione lo status di donna maritata. Qualcuno si è azzardato, in India, a sparare fuochi d’artificio per celebrare, pare, la vittoria dell’odiato Pakistan sul campo da cricket. Senza essere multato, come capita invece sempre più di frequente a chi spara fuochi d’artificio la notte di Diwali. Specie a Delhi, dove ormai da qualche anno la mattina dopo la festa la città si sveglia avvolta da una fitta e densa coltre di nebbia che rende impossibile vedere a più di dieci metri di distanza: colpa dei fuochi d’artificio sparati per due giorni, si dice. Colpa in realtà delle stoppie bruciate nei campi del Punjab dopo il raccolto, ma tant’è. Prendersela con chi festeggia è di certo più facile che affrontare il problema dei contadini punjabi che da quasi un anno occupano le strade a intermittenza per protestare contro il Governo (e le leggi che hanno liberalizzato il mercato agricolo). Di certo per la folla che riempie i negozi, Covid e spesso anche le mascherine sembrano adesso solo un ricordo lontano, vedremo con quali risultati. Ci sono infinite lucine colorate a illuminare le facciate delle case, appese agli alberi, alle staccionate o a qualunque cosa sia in grado di supportare un tubo di gomma trasparente pieno di minuscole lampadine che rimarranno per qualche mese a trasformare città e paesetti in un paese incantato. La stagione delle feste continua fino a gennaio, difatti, e si sovrappone alla stagione dei matrimoni con il traffico ribaldo causato da cortei e bande che accompagnano gli sposi. Dura finché le luci diventano via via più fioche dentro alla luce bianca del giorno e a fine gennaio, il giorno di Vasant Panchami, ci veste infine di giallo chiaro per festeggiare l’arrivo della primavera. E delle feste d’estate.
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Storia ◆ Grazie ad appoggi internazionali preziosi e informali la piccola Repubblica di Cina tiene testa da oltre settant’anni al pressing di Pechino
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ATTUALITÀ
Quando l’ingorgo diventa globale
Il punto ◆ L’economia mondiale ha subito prima una frenata traumatica poi una ripartenza a razzo. Adesso le infrastrutture non riescono a smaltire l’enorme traffico che si è riversato su di loro e manca personale in diversi settori chiave Federico Rampini
La ripresa economica americana rallenta vistosamente, il Pil è cresciuto solo del % nell’ultimo trimestre. E Joe Biden ha dovuto ridimensionare i suoi progetti di investimenti pubblici nel lungo periodo, perché all’interno del suo stesso partito una corrente moderata teme lo spettro dell’inflazione. Anche la crescita cinese rallenta, perché il Governo di Pechino deve affrontare venti contrari: la bolla speculativa del settore immobiliare che lo stesso Xi Jinping ha voluto sgonfiare; la crisi energetica; l’aumento dei costi in molti settori. Ma tra le due superpotenze c’è anche un problema di «traffico»: le merci non transitano come dovrebbero, la globalizzazione ha perso fluidità. Agli ostacoli di natura nazionalista e protezionista che erano già aumentati sotto l’Amministrazione Trump, poi aggravati durante i lockdown, si aggiunge un male oscuro che colpisce molte catene produttive transnazionali e gran parte della logistica di trasporto. Sorvolare Los Angeles e il suo porto di Long Beach è un modo per capire che cos’è il grande ingorgo globale che attanaglia le economie di tutto il mondo. Long Beach è il maggiore scalo merci di tutta la West Coast. Da qualche mese quel tratto di Oceano Pacifico è trasformato in un gigantesco parcheggio di navi «in rada», maxi-portacontainer costrette ad attendere al largo il loro turno per attraccare, poi scaricare o caricare. Le King Kong dei mari sono in situazioni simili in molti porti americani, asiatici, europei. Le infrastrutture marittime non riescono a smaltire l’enorme traffico che si è rovesciato su di loro, da quando le nostre economie sono uscite dalle restrizioni della pandemia e la ripresa produttiva si è messa a galoppare con ritmi robusti. Porti e terminali delle ferrovie merci, autostrade e Tir, tutta la filiera lungo la quale viaggiano i prodotti che aspettiamo sugli scaffali dei supermercati, si è trasformata in un imbuto. Le infrastrutture fisiche non hanno un’elasticità infinita, le banchine di un porto sono un numero fisso, non se ne costruiscono di nuove in pochi mesi; idem per i binari delle ferrovie. I camion potrebbero rispondere al boom di domanda con un po’ più di flessibilità, però qui interviene il fattore umano: scarseggiano camionisti in molti Paesi avanzati, quel mestiere è faticoso, stressante, ai livelli di remunerazione attuali evidentemente non appare abbastanza attraente. Da Amazon a Ups a Fedex, i giganti mondiali della logistica sarebbero felici di assumere più autisti, se solo li trovassero. Il grande ingorgo globale ha anche altre facce e cause diverse. Un filo rosso unisce i tagli alla produzione in uno stabilimento della Toyota in Giappone; le lunghe dilazioni previste nelle consegne di certi articoli natalizi; la stangata sulle bollette elettriche degli europei; perfino la penuria di insegnanti nelle scuole materne e asili nido di New York. C’entrano cause eterogenee. C’è la difficoltà della transizione a un’economia sostenibile e l’ingordigia di energie carboniche da parte della Cina, causa dell’attuale shock energetico. C’è la penuria di semiconduttori legata in parte alla guerra fredda America-Cina. C’è un altro fenomeno, ancora pieno di misteri, che economisti e sociologi americani chiamano «la Grande di-
Navi in attesa nel porto di Los Angeles. (Shutterstock)
missione» dal mercato del lavoro: la fuga di manodopera da certe mansioni, che vanno dalla ristorazione ad alcuni settori della scuola e della sanità. Questo mix eterogeneo concorre all’ingorgo globale, ha un nesso con la pandemia, ma era sfuggito alle previsioni. Tutto ciò che la maggioranza degli economisti prevedevano un anno e mezzo fa non si è realizzato. Non c’è stata la «Grande depressione da Covid», i numeri parlano al contrario di una recessione banale, assai meno grave della crisi del -. Colpisce invece la brutalità degli andamenti, prima al ribasso poi al rialzo. L’economia globale si è comportata come una Ferrari che il guidatore abbia sottoposto a un esperimento estremo: prima una frenata traumatica, ai limiti della capacità di decelerazione, poi una ripartenza a razzo. L’esperimento ha messo a dura prova le infrastrutture e non solo quelle. Anche le fabbriche hanno un’elasticità limitata: se le chiudi per mesi, o le costringi a lavorare a ritmo ridotto, poi non possono sovra-compensare in poco tempo, perché gli impianti non funzionano più di ore su . Né puoi in poco tempo acquistare e installare nuovi macchinari, reclutare e formare nuovi tecnici. L’effetto-imbuto è dappertutto. Inoltre questo stress-test ha messo a nudo le fragilità di catene logistiche troppo globalizzate, tanto più in un clima di crescente tensione geopolitica fra Washington e Pechino (ma anche fra la Cina e l’Australia, il Canada, il Giappone). Per cui allo stress oggettivo della frenata-ripartenza si è aggiunto un ripensamento strategico: siamo sicuri di voler affrontare la prossima pandemia – o un’altra crisi altrettanto imprevista, il «cigno nero» del futuro – con una dipendenza pericolosa da fornitori che stanno dall’altra parte del globo e potrebbero cessare all’improvviso di mandarci i loro prodotti? Il settore dei semiconduttori è un concentrato di tutti questi problemi. Perfino la Toyota ha dovuto tagliare fino al % di produzione di autovetture – ed è la numero uno mondiale, celebre per il «just-in-time» cioè una sincronizzazione perfetta dei flussi produttivi – perché non arrivano abbastanza micro-chip per l’anima
elettronica delle auto. I semiconduttori hanno subito una rivoluzione geografica: un tempo erano concentrati nella Silicon Valley, oggi la California è al terzo posto dietro Taiwan e
Corea del Sud. Con conseguenze inquietanti, in uno scenario di espansionismo della Cina. L’energia è un altro dei settori sconvolti dall’ingorgo. Quando la Cina ha ripreso a inva-
dere il mondo dei suoi prodotti, ci si è accorti di quanto sia ancora incompiuta la sua transizione verso le energie sostenibili. Pechino ha allentato i limiti al consumo di carbone. La sua macchina produttiva girando di nuovo a regime pieno ha fatto schizzare al rialzo i prezzi di gas e petrolio, con ripercussioni sui consumatori occidentali. Tanto più che Big oil era in ritirata e stava disinvestendo dalle fonti carboniche. Lo stesso traino della domanda di Pechino ha provocato rincari di altre materie prime e semilavorati, incluse le derrate agricole. La natura di queste tensioni turba le banche centrali, dalla Federal reserve alla Bce all’autorità monetaria cinese. Finora hanno tenuto duro sulla spiegazione rassicurante: l’ingorgo è transitorio, colpa dello «stop-andgo» troppo brutale, ma passerà. Ora si rafforza un’analisi alternativa. Potremmo essere agli albori di una nuova spirale prezzi-salari, quindi un rilancio durevole dell’inflazione. E gli psicologi vengono chiamati in aiuto dagli economisti per tentare di capire cosa sia accaduto nelle nostre teste durante la pandemia: se nelle fasce più basse del mercato del lavoro c’è stato un riesame della bilancia «costi e benefici esistenziali», le imprese dovranno accettare di pagare di più i mestieri essenziali per la ripartenza. Annuncio pubblicitario
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ATTUALITÀ
Quelle danze di avvicinamento tra destre
Prospettive ◆ Il presidente del partito spagnolo Vox, Santiago Abascal, strizza l’occhio ai leader latinoamericani con tendenze autoritarie. L’obiettivo è quello di creare un'alleanza «anti-comunista» che possa motivare elettori e finanziatori
Angela Nocioni
Un’Internazionale di estrema destra. Che dia a Vox una proiezione fuori dall’Europa, utili appoggi per giochi di sponda e soprattutto soldi, molti soldi. È questa l’impresa nella quale si è lanciato da qualche mese a questa parte Santiago Abascal, presidente di Vox, partito di estrema destra fondato in Spagna nel , gonfiatosi di consensi a cavallo della lunga guerra politica tra il Governo centrale di Madrid e gli indipendentisti di Barcellona.
Il punto di partenza è la Carta de Madrid, il manifesto che mette in guardia circa la presunta avanzata del comunismo Fino a un anno fa mostrare il mascellone ostentando inflessibilità verso le richieste di indipendenza catalane e soffiare sull’insofferenza verso gli immigrati era sufficiente ad Abascal per raccogliere consensi e finanziamenti a destra. Ora ha capito di non poter vivere politicamente a lungo solo di questo e anche di non potersi permettere di rimanere isolato a livello internazionale. Il presidente di Vox guarda ansioso ai lepenisti in Francia e alla Lega in Italia. E poiché, con quel Dna politico, gli è più semplice muoversi in America latina che in Europa – dove qualche imbarazzo a Le Pen e Salvini lo crea – si è buttato a capofitto nel mare della destra estrema latinoamericana. Dalla Colombia al Cile. Ha capito alla svelta che fa meno fatica e può avere più successo se riesce a coinvolgere singoli personaggi politici in vista invece di tentare di salire la scivolosa scala degli uffici relazioni internazionali dei vari partiti a lui cari dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Fa prima e ha più visibilità. Così si è lavorato ai fianchi Eduardo Bolsonaro, il figlio factotum del presidente brasiliano (presidente tra l’altro accusato di nove reati, tra i quali crimini di lesa umanità, dalla Commissione di inchiesta parlamentare che indaga sulla gestione della pandemia da Covid in Brasile), Keiko Fujimori, ex candidata presidenziale peruviana, e José Antonio Kast, il capo del partito repubblicano cileno che di repubblicano ha assai poco e che ha portato come bandiera il rifiuto a mo-
Santiago Abascal. (Shutterstock)
dificare la Costituzione di Pinochet. Poi Abascal si è dedicato a tessere una paziente trama per avvicinarsi agli ex presidenti colombiani Andrés Pastrana e Alvaro Uribe. Vecchie volpi del potere più robusto e più concreto dell’estrema destra latinoamericana. Gente che parla meno di Bolsonaro, ma combina molto di più. Con fiumi di dollari da distribuire all’occorrenza. La strategia di Abascal è per ora doppia. Marketing per potersi vendere nel mercato politico come un brand nuovo, giovane, che però sa strizzare l’occhio ai nostalgici del generale Franco in Spagna e delle varie dittature in America latina, dagli anni Settanta in poi. E, sottotraccia, ricerca spasmodica di fonti legali e presentabili per fare soldi (così da poter giustificare anche eventuali entrate meno limpide). E poiché senza soldi la politica a quel livello non si fa agevolmente, il primo rubinetto che Abascal ha tentato di aprire è quello dell’Istituto messicano della proprietà industriale. Mossa astuta. Una serie di passag-
gi tecnici relativi al registro di un suo marchio in Messico gli potrebbero consentire di offrirsi per fare sondaggi interni per imprese, svolgere servizi di comunicazione d’azienda e altre prestazioni più o meno concrete, utilissime però all’occorrenza a preparare la strada per far passare finanziamenti d’altra provenienza. Come messaggero in America latina, Vox sta usando molto l’eurodeputato Hernan Tertsch che gli porta in dote la comodissima infrastruttura garantitagli dal suo incarico in Europa. Sta anche lavorando a preparare un riconoscimento europeo all’Internazionale di destra che ha in mente Abascal. Lo chiama Foro. Niente di nuovo neanche qui. Da decenni esiste il Foro di São Paulo, assise delle sinistre latinoamericane, al quale partecipano, con vari gradi d’avvicinamento in base agli appuntamenti elettorali a casa loro, emissari delle sinistre europee. Per presentarsi con qualcosa in mano ai suoi punti di riferimento d’estrema destra latinoamericani Abascal ha giocato una carta vecchia: l’al-
larme «comunismo che avanza» di fronte al quale chiama tutti gli anticomunisti a stringersi attorno a lui. Parla di «comunismo che prende piede nella Iberosfera», quest’ultimo un termine che dovrebbe suonare innovativo rispetto alla tradizionale Iberoamerica. I suoi timori per un’ondata di potere rosso li ha sintetizzati nella Carta de Madrid, un manifesto politico vecchio stile.
Si è lavorato ai fianchi Eduardo Bolsonaro, figlio del presidente brasiliano, la peruviana Keiko Fujimori e in Cile José Antonio Kast Se c’è un momento in cui in America latina i Governi che rivendicano una ideologia con matrice a sinistra sono ridotti maluccio, regimi compresi, è l’attuale. Ma brandire lo spettro rosso, si sa, qualche consenso lo assicura sempre tra nostalgici dell’altra sponda. Soprattutto perché ad ottobre del prossimo anno ci sono le presidenziali in Brasile dove l’ex presidente Lu-
la potrebbe rinascere dalle sue ceneri e diventare di nuovo il trascinatore di tutti i riformismi di sinistra del Continente. Realtà politica che a destra fa ovviamente più paura di un supposto comunismo che non avanza da nessuna parte ma funziona comunque per scaldare gli animi dei camerati di base. La Carta de Madrid vergata da Abascal, per ora, non sembra un buco nell’acqua. Il maggior successo di marketing per lui è stato ottenere una comparsata (in video con la scusa della pandemia) dell’ex presidente colombiano Andrés Pastrana alla festa di Vox a Madrid. Questo il suo incasso più recente. Perché già a giugno scorso Pastrana era intervenuto accanto a Vox in un vertice del gruppo parlamentare europeo in cui stanno anche gli ultraconservatori polacchi di Legge e Giustizia e gli xenofobi ungheresi di Orban. Queste danze d’avvicinamento tra destre non sono sfuggite ai popolari spagnoli, allarmati per l’attenzione regalata dal loro amato Pastrana, del quale sono gelosissimi, al rude Abascal, che non pochi voti gli ha rubato in Spagna e che li costringe a modificare costantemente slogan e posizioni per non farsi superare a destra. Immaginate il disappunto dei popolari spagnoli a vedere Pastrana flirtare col loro rivale a destra. Immaginate la faccia di Pablo Casado, presidente del Partito popolare spagnolo determinato ad allargarsi a destra e al centro, quando s’è accorto che Abascal gli stava sfilando da sottobraccio l’utile Pastrana proprio mentre lui se lo stava coccolando insieme all’ex presidente messicano Calderón a Cartagena... Uno scivolone brutto però Abascal l’ha avuto agli inizi di settembre quando, invitato a una iniziativa antiabortista al Senato di Città del Messico, ha colto l’occasione per presentare la sua Carta de Madrid. Ha detto che l’avevano già firmata alcuni parlamentari del Pri, lo storico partito centrista messicano, oltre a una decina di senatori e certi deputati del Pan, uno dei partiti della destra locale. I membri del Pri hanno smentito subito. Vox ha dovuto chiedere scusa. E il Pan, più crudelmente, si è vendicato dicendo che il loro riferimento in Spagna è tuttora il Partito popolare. Annuncio pubblicitario
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 2 novembre 2021
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azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
Leggere il futuro dei partiti nei fondi del caffè
Elezioni federali ◆ A metà legislatura, i partiti iniziano a scaldare i motori e ad affilare le armi in vista dell’autunno 2023. Qual è il loro stato di forma? Sguardo sul panorama politico in Svizzera a due anni dalle elezioni federali Luca Beti
Ottobre . Siamo al giro di boa dell’attuale legislatura. Tra due anni in Svizzera si tornerà al voto. È il momento quindi per guardare nella sfera di cristallo e predire quale risultato potrebbe scaturire dalle urne tra due anni. L’ultimo barometro elettorale, condotto dall’Istituto di ricerca demoscopica Sotomo per conto della Società svizzera di radiotelevisione SRG SSR, ci dice che se andassimo al voto oggi non cambierebbe molto sotto la cupola di Palazzo. Con il , per cento (+%) delle intenzioni di voto, l’Unione democratica di centro (UDC) rimane il primo partito in Svizzera. Se facciamo riferimento al barometro elettorale del , l’UDC guadagna addirittura , punti percentuali, invertendo così la tendenza che vedeva i democentristi in perdita dalle elezioni . Il Partito socialista (PS) conserva il secondo posto con , per cento delle preferenze (–%). Mentre il Partito liberale radicale, Alleanza del Centro e Partito ecologista svizzero sgomitano per il terzo posto. La loro percentuale si aggira sul per cento (,% per il PLR, ,% per l’AdC e ,% per i Verdi). Una gara alla pari che stando agli autori del barometro è dovuta, da una parte, al costante calo di consensi del PLR che perde , punti percentuale rispetto al voto del . Dall’altra, alla fusione tra Partito popolare democratico e Partito borghese democratico grazie a cui è stato possibile arrestare parzialmente (–,%) la caduta libera di PPD e PBD. Anche se i risultati dei sondaggi vanno presi con le pinze – il margine di errore è dell’, per cento e nelle ultime elezioni federali nessuno aveva previsto con precisione l’ondata verde e la netta perdita dell’UDC – i dati possono fornirci alcune indicazioni interessanti per capire come i vari partiti si stanno avvicinando all’autunno . Dopo aver perso seggi e , punti percentuali nel , il partito di Marco Chiesa sembra esse-
re riuscito a invertire la rotta. Secondo gli autori del sondaggio, l’UDC ha riguadagnato terreno grazie alla sua costante critica nei confronti delle misure di lotta alla pandemia decise dal Consiglio federale. Anche la difesa delle libertà fondamentali si è rilevato un cavallo di battaglia vincente, sostituendo quello storico, migrazione e asilo, che negli ultimi anni non ha più dominato il dibattito politico e pubblico. Inoltre, l’UDC ha conseguito recentemente alcune importanti vittorie. Dopo aver riportato nel settembre una sconfitta alle urne con l’iniziativa per la limitazione (ossia contro la libera circolazione delle perone), nel Chiesa ha inanellato una serie di successi: dall’iniziativa anti-burqa alla legge sul CO, respinta dal popolo alle urne e con il solo UDC ad opporvisi. Poi c’è il fallimento dell’accordo quadro con l’Unione europea, intesa contro cui il leader storico, Christoph Blocher, si è sempre battuto. E in vista della campagna elettorale del , l’UDC sembra stia già affilando le armi. Nel si era scagliato contro «i sinistroidi e gli europeisti», ritratti come dei vermi che mangiavano la mela svizzera. Di recente ha attaccato la politica rosso-verde di alcune città, definendola parassitaria, occupando così una questione riemersa nelle ultime votazioni federali, ossia il fossato tra popolazione rurale e urbana. Al momento è ancora presto per capire se la frattura tra città e campagna sarà un argomento capace di monopolizzare l’attenzione degli elettori. Stando al sondaggio di Sotomo, attualmente sono altre le preoccupazioni della popolazione, una su tutte il cambiamento climatico. E così, stando al barometro elettorale, i Verdi marciano più o meno sul posto, mentre i Verdi liberali continuano a guadagnare consensi e segnano un più due per cento (,%) rispetto al . Ciò significa che l’ondata verde non si è indebolita. Anzi si è fatta sentire anche nei cantoni. Nei parlamenti di
Quali volti vedremo alle Camere federali fra due anni? (Keystone)
Giura, Soletta, Basilea-Città, Argovia e Vallese, il movimento ecologista (Verdi e Verdi liberali) ha continuato a conquistare seggi. Ma inarrestabile è stata anche l’avanzata delle donne. Per esempio, da aprile il Gran consiglio del canton Neuchâtel vanta una maggioranza femminile: è la prima volta che succede in Svizzera. Anche in Vallese, la percentuale di donne nel parlamento è aumentata e oggi è del per cento, con un più per cento rispetto al passato. Anche nei parlamenti di alcune città, tra cui Berna, Losanna e Friburgo, sono state elette più donne che uomini. Il Partito socialista con il duo Wermuth e Meyer si è dato un nuovo volto: più giovane, urbano e mobile. Alla fine di agosto , nell’ambito di un congresso straordinario il partito ha già piazzato i blocchi di partenza in vista delle elezioni federali. Gerhard Pfister è invece il «nuovo» presidente dell’Alleanza del Centro, nata dalla fusione tra PPD e BDP. Eliminando
nel nome ogni riferimento cristiano, almeno nella denominazione tedesca e francese, intende guadagnare i voti di chi si riconosce in uno schieramento del centro, ma non per forza nella lettera C. Con la fusione, l’AdC intende risalire la china dopo l’ per cento ottenuto nell’autunno . In chiara difficoltà è invece il Partito liberale radicale che continua a perdere voti a livello federale, un’erosione di consensi iniziata nel lontano . Situato in una posizione scomoda, tra la destra e i Verdi liberali, il PLR si trova spesso sotto un fuoco incrociato e ha difficoltà a definire chiaramente i contorni della sua politica. Michael Hermann, politologo e direttore dell’Istituto di ricerca demoscopica Sotomo, ha indicato che sui temi fondamentali, come le misure antipandemia, la legge sul CO e la questione europea, i liberali radicali erano divisi e non hanno parlato con una voce sola. Nei cinque anni di presidenza, Petra Gössi non è riuscita
a far riguadagnare terreno al partito, nonostante abbia cercato di cavalcare l’onda verde per conquistare i giovani. Una virata ecologica che non è piaciuta però molto alla base. Inoltre, negli ultimi anni, l’agenda politica è stata dominata, oltre che dalla pandemia, anche dall’accordo quadro e dai rapporti della Svizzera con l’UE, un tema piuttosto scomodo per il PLR. A metà legislatura, Gössi ha quindi deciso di gettare la spugna e ha ceduto il timone al consigliere agli Stati Thierry Burkart. A lui spetta ora il compito di ricucire gli strappi e unire le diverse ali del partito. Ma soprattutto dovrà tentare l’impossibile: difendere il doppio seggio in Consiglio federale. Va ricordato tuttavia che i sondaggi e il barometro elettorale rimangono un esercizio funambolesco tra se e ma. Le somme definitive verranno tirate il giorno delle elezioni. Con le intenzioni di voto non si vincono le elezioni e nemmeno seggi in Consiglio federale. Annuncio pubblicitario
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ATTUALITÀ ●
Il Mercato e la Piazza
di Angelo Rossi
Federalismo: aspettando la prossima riforma ◆
La Confederazione svizzera, per grazia divina o merito dei politici che l’hanno creata, ha una struttura di governo federalista. Il potere politico è diviso tra la Confederazione, i Cantoni e i Comuni e questo dal . A regolare le competenze di ciascun livello istituzionale intervengono le costituzioni che dovrebbero di norma rispettare il principio di sussidiarietà, stando al quale al livello superiore toccano unicamente le responsabilità che non possono essere attribuite al livello inferiore. Di fatto però, specie nella fase di applicazione delle leggi, l’esercizio del potere viene fatto in modo consociativo. Nell’eseguire i disposti legislativi intervengono quindi molte volte i tre livelli istituzionali, ovviamente con prerogative diverse, ma quasi sempre tali da creare più di un problema in fase esecutiva. Insomma il federalismo, pur essen-
do il miglior sistema di governo per un paese che conosce tante disparità e tante differenze come il nostro, presenta almeno due difficoltà che occorre sempre tenere d’occhio. La prima è quella della bilancia del potere tra i tre livelli istituzionali che lo costituiscono, la seconda è quella dell’operare in modo efficace e efficiente di ciascun potere nella fase di esecuzione delle leggi. Siccome con il tempo tutte le cose evolvono non sorprende che, di tanto in tanto, queste difficoltà ritornino a far discutere e che, tra gli addetti ai lavori, si parli di riforme del federalismo. Così, all’inizio di questo secolo, il dibattito sulla ridistribuzione delle competenze tra la Confederazione e i Cantoni dominò per alcuni anni la scena politica federale. Nel novembre del la nuova ripartizione delle competenze venne approvata in votazione popolare in uno con le
nuove disposizioni, pure nuove, riguardanti la perequazione finanziaria tra i Cantoni. Oggi non si discute più di ripartizione delle competenze o di impedire l’accentramento delle stesse. Sul tavolo delle discussioni ha fatto la sua apparizione un nuovo tema: la ripartizione del territorio nazionale in Cantoni. Sono tre le varianti di questo dibattito. La prima è rappresentata dalle proposte di sostituire i Cantoni con più vaste regioni (da a ) funzionali. Vi sono poi diversi tentativi, che vengono rinnovati di tanto in tanto, di far nascere nuovi Cantoni aggregando due o più degli esistenti. Infine la terza variante di questa discussione è formata dalle proposte di dare maggiore autonomia agli agglomerati urbani per esempio, come suggerisce una recente proposta del Partito Socialista, trasformando gli agglomerati maggiori in semi-cantoni.
La difficoltà è quella che, secondo noi, non potrà mai essere evitata in un sistema che vede concorrere tre livelli istituzionali nelle decisioni politiche e nell’esecuzione delle leggi. Un sistema di questo genere, che, per di più, è sempre alla ricerca del compromesso, non può essere che lento. Un sistema lento è un sistema costoso, quindi poco efficiente. Ma anche l’efficacia delle decisioni può essere messa in forse da un sistema lento. Questo succede specialmente quando sarebbe necessario intervenire rapidamente e in modo unitario, per evitare incombenti rischi e pericoli. È quanto, per esempio, abbiamo sperimentato nella pandemia del Covid-. Ed è anche quello che potrebbe succedere in futuro con frequenza se la probabilità di rischi e calamità naturali dovesse aumentare. Partendo da riflessioni di que-
sto tipo due politologi dell’università di Berna, il prof. Adrian Vatter e la dottoranda Rahel Freiburghaus, hanno proposto di recente di creare, tra il livello federale e quello cantonale, un nuovo organo decisionale al quale dovrebbero partecipare la Confederazione e i Cantoni. In un articolo apparso di recente sulla «Neue Zürcher Zeitung» i due politologi si sono occupati soprattutto di dimostrare come tale organo potrebbe essere formato in modo, da un lato, di non superare il numero di dieci membri, e dall’altro, di garantire la rappresentatività dell’insieme dei Cantoni svizzeri. Che le decisioni tra questi due livelli debbano essere coordinate in modo da velocizzarne l’adozione è un dato di fatto incontestabile. Che una nuova istituzione paritetica lo possa fare, resta però da dimostrare.
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Affari Esteri
di Paola Peduzzi
I meccanismi perversi di Facebook ◆
Sono settimane molto difficili, queste, per Facebook. La crisi è cominciata con la testimonianza al Congresso di Frances Haugen, ex manager della società di Mark Zuckerberg, che ha condiviso con il «Wall street journal», poi con il Congresso americano e infine con molte altre testate giornalistiche, tanti documenti interni di Facebook. Trentasette anni, master ad Harvard, una vita nella Silicon Valley e l’arrivo a Facebook nel , Haugen ha organizzato nei dettagli il suo atto d’accusa. Non è una whistleblower improvvisata, tutt’altro. La sua denuncia è circostanziata, meditata e ben finanziata (da se stessa principalmente) e lei ha un piglio molto deciso, che la rende decisamente credibile. Il materiale che ha portato è gigantesco: i suoi legali l’hanno editato, organizzato e poi presentato al Congresso. È quello
che ora conosciamo come «Facebook papers», i documenti che Haugen ha condiviso con parecchie testate, oltre che presentarlo lei stessa nelle trasmissioni televisive cui ha partecipato. Il «Wall street journal», primo destinatario di questi leak, non ha preso bene questa condivisione, ma Haugen ha detto che il quotidiano ha lasciato indietro molte questioni presenti nei documenti e che i «Facebook papers» sono di fatto gli «scarti» del «Wall street journal». La potenza di questa operazione è evidente a tutti: in anni di vita Facebook ha affrontato molte crisi, ma ora pare di fronte alla tempesta perfetta. I giornalisti studiano, i media riprendono, il Congresso Usa, dopo lunghi periodi in cui gli stessi deputati e senatori sembravano poco informati e un po’ incompetenti, ha raggiunto un consenso politico bipartisan: Facebook va regolamenta-
to, è pericoloso. Mark Zuckerberg è il primo a essere consapevole della rischiosità di questa azione, perciò ha previsto un cambiamento di nome (Meta) per spostare l’attenzione e conta anche sul fatto che il Congresso non sta più accettando la tesi degli altri social, che sostengono di essere molto meno pericolosi di Facebook. È tutto il sistema a non funzionare. Se nuove regole saranno, varranno per tutti. Ma per ora la strategia della distrazione di Zuckerberg non sta ottenendo grandi risultati: se tutti i social hanno algoritmi dalle conseguenze perverse, quello di Facebook è più perverso degli altri. O almeno così sostengono i «Facebook papers». Oltre a consultare i documenti forniti da Haugen, i giornali stanno facendo anche molte interviste ai dipendenti di Facebook e tutte le chiacchierate vanno nella stessa direzione: c’è una premeditazione nella strategia di cre-
scita di Zuckerberg e i dissidenti interni all’azienda che hanno segnalato e descritto le conseguenze pericolose di questo approccio sono stati silenziati. Di più: le soluzioni offerte da questi stessi dissidenti sono state insabbiate, come se non fossero mai esistite. Per il management di Facebook l’engagement, quindi la condivisione dei contenuti, anche quelli non verificati, vale più della sicurezza, cioè, dicono i commentatori, Zuckerberg adotta un approccio antidemocratico e lo fa deliberatamente. Un esempio: per le presidenziali americane di un anno fa, Facebook si era attivato. Il timore di uno scontro che poteva diventare violento era concreto e Zuckerberg non voleva essere accusato di omissione di controllo o di ingerenze varie, come già era accaduto alle presidenziali del . Dopo le elezioni però, nonostante il pericolo di un cosiddetto golpe da
parte dei trumpiani (che non accettano che Joe Biden abbia vinto le elezioni) fosse sempre più grande, Facebook ha riabbassato la guardia. Così c’è stato l’assalto al Campidoglio del gennaio e Facebook ne è stato uno strumento attivo e non inconsapevole. Zuckerberg aveva dichiarato di essere «addolorato» per quel che era accaduto in quella giornata nera per l’America, ma i suoi dipendenti gli avevano detto: non possiamo continuare a comportarci come un’entità neutrale, perché non lo siamo più da tanto tempo e anzi noi stessi abbiamo contribuito ad aumentare lo scontro. Lui li ha ignorati. Ed è di questo che oggi viene accusato: di ignorare il proprio ruolo nell’erosione del dibattito pubblico e della sicurezza, che non è soltanto una faccenda di buone maniere e buona educazione, ma riguarda sempre più e in modo chiaro la (non) istigazione alla violenza.
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Zig-Zag
di Ovidio Biffi
È già «guerra senza limiti»? ◆
Davanti ad un Tg che mi regala il solito approfondimento con il solito esperto e il successivo e solito «grazie per le sue considerazioni», mi torna in mente che in tempo di guerra «ghé püsee ball che tèra», cioè le notizie false rendono sempre più difficile scoprire quelle vere. Si parlava delle tensioni fra Pechino e Washington e subito mi chiedo: stanno portando avanti il lavoro per creare nuove strategie di minaccia o sono già ai preliminari di una guerra? In cerca di risposte, lontane da quelle delle considerazioni dell’esperto tutte basate sull’attualità, ho ripreso in mano un libro vecchio di vent’anni, ma riproposto cinque anni fa dal generale italiano Fabio Mini. In italiano il libro ha per titolo Guerra senza limiti (Leg edizioni) e in pratica è un lungo rapporto stilato a fine millennio da due colonnelli cinesi: Qiao Liang (maggiore generale in pensione dell’aero-
nautica cinese e scrittore, membro della Chinese Writers Association) e Wang Xiangsui (professore all’Università Beihang a Pechino e colonnello in pensione dell’esercito popolare cinese). Anzitutto i due autori trasmettono analisi strategiche da cui il loro superiori hanno potuto dedurre come nelle strategie militari la complessità e le interazioni di molti fattori (dalla globalizzazione al terrorismo e alle moderne tecnologie) avrebbero mutato in modo irreversibile l’arte della guerra. E si spiegano introducendo il concetto, ormai valido in tutto il mondo, di guerra asimmetrica, con l’asimmetria – cioè lo squilibrio – che diventa il principio essenziale per scovare e sfruttare i punti deboli del nemico. Questa evoluzione spinge ormai da decenni politici e militari a individuare e studiare il come «guerreggiare» con avversari e nemici in settori sinora considerati «civi-
li», vale a dire sui mercati finanziari, nei processi informatici, nei traffici commerciali, nel controllo dei flussi mediatici e così via, sino a settori molto utili per il patriottismo (con lo sport in prima fila). E arrivano a questa perentoria conclusione: «In questo senso oggi non esiste più un campo di cui la guerra non possa servirsi, e non vi è quasi nessun ambito che non abbia fatto proprio il modello offensivo della guerra». Seguendo queste teorie già due decenni fa i due analisti cinesi proponevano scenari che oggi risultano come precise mappe sia del cammino percorso in campo militare (terrorismo compreso) dall’inizio del nuovo millennio, sia dei futuri sentieri verso cui tendono le regole della guerra asimmetrica. La lunga riflessione dei due colonnelli cinesi – ricca di riferimenti letterari e filosofici – come pure la presentazione e il commento finale del
generale Mini sono preziosi aiuti nel comprendere i mutamenti intervenuti negli ultimi anni (perlomeno fino al ). Chiariscono anzitutto le mosse più recenti che riguardano la Cina e i suoi dirigenti (sempre difficili da interpretare, anche per chi segue costantemente ciò che Pechino affronta per proseguire la sua rotta ideologica), compreso quindi anche il comportamento nel conflitto con Washington, e di conseguenza consentono di decifrare i recenti e inattesi cambi di strategia da parte degli Stati Uniti in risposta all’espansionismo del presidente Xi Jinping. Ad esempio spiegano lo stillicidio di operazioni di intelligence, con hackeraggi e impiego di virus informatici, ai danni dell’Occidente; il fitto retaggio di prestiti e finanziamenti che consente a Pechino di «manovrare» decine di governi di paesi sottosviluppati; il perseguimento di un monopolio delle terre rare; la
creazione di isole artificiali nel Pacifico per nascondere basi militari. Infine gettano nuove luci anche sull’«escalation» in atto dalla fine dell’estate, cioè sull’attualità che ha mostrato, soprattutto a noi europei, mosse sproporzionate, mutando alleanze e sfoderando missili nucleari ipersonici. Breve richiamo: patto di sicurezza nucleare trilaterale nell’area del Pacifico (Aukus, con Usa, Australia e Gran Bretagna) per frenare il riarmo della Cina; il presidente cinese Xi Jinping dichiara che la questione di Taiwan sarà risolta con una riunificazione «con mezzi pacifici», ma il giorno dopo una cinquantina di aerei cinesi violano lo spazio aereo di Taiwan che raccoglie subito un «noi saremo al vostro fianco» da Joe Biden. Insomma: le conquiste del comunismo «alla cinese», naturalmente «con mezzi pacifici», non sono solo un flirt, fanno parte della guerra senza limiti.
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Anno LXXXIV 2 novembre 2021
CULTURA
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Collezioni controverse La Fondazione Bührle ha trovato una sede forse definitiva alla Kunsthaus di Zurigo
Si ritorna a teatro Una storia di nazismo all’Elfo Puccini di Milano e il nuovo spettacolo di Finzi Pasca al LAC
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L’odissea di Dune Un medioevo galattico in cui regnano le donne: finalmente al cinema l’atteso Dune di Villeneuve
La poesia nella quotidianità Scene dalla vita di tutti i giorni nella raccolta poetica di Stefano Simoncelli
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Goya, una personalità complessa Mostre
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A Basilea in collaborazione con il Prado di Madrid
Gianluigi Bellei
Chi era Francisco José de Goya y Lucientes? Sicuramente uno dei massimi pittori spagnoli, ma anche uno dei più enigmatici. In occasione dei anni dalla nascita la Fondazione Beyeler di Basilea gli dedica una splendida monografica in collaborazione con il Museo Nacional del Prado di Madrid dove l’artista è ovviamente il più rappresentato all’interno della collezione con centocinquanta dipinti e cinquecento disegni, senza contare le incisioni. A Basilea sono esposti settanta dipinti, più di cento disegni e incisioni provenienti da importanti musei quali il Louvre, gli Uffizi, il Thyssen-Bornemisza… Ma chi era Goya? Difficile dirlo. Nasce in un villaggio aragonese nel figlio di un maestro doratore. Poco più che un artigiano. Fino al , anno del trasferimento a Madrid, vive in una realtà popolare molto povera. Probabilmente è stato chiamato a Madrid da Francisco Bayeu, fratello della sua sposa Josefa. Qui si inserisce a fatica nel mondo altolocato diviso fra l’aristocrazia dei nobili e gli illuministi del governo che seguono il gusto dei francesi. Il popolo vive di slancio, d’impulso, mentre gli illuministi secondo i precetti rigorosi di un’idea. Goya si trova tra questa dicotomia: l’istinto popolare da una parte e il rigore dall’altra. In quel periodo in Spagna i pittori erano considerati poco più che mestieranti e in effetti la maggior parte di loro lo era. Pochissimi quelli considerati artisti come El Greco o Velázquez. Nei secoli precedenti, al contrario, erano trattati come dei principi, pensiamo a Salvatore Rosa o a Rubens.
Nella splendida monografica alla Beyeler di Basilea sono esposti sia i grandi capolavori di Francisco de Goya sia le sue opere più inquietanti In ogni caso nel Goya viene nominato pittore regio e nel primo pittore di corte. In questo lasso di tempo perde l’udito. Nel la Spagna viene invasa dai Francesi. Goya segue con interesse questa ondata illuminista. Il dicembre sale al trono Giuseppe Bonaparte e Goya figura nell’elenco di quelli che gli giurano «amor y fidelidad». Farà poi ammenda soprattutto con il famoso dipinto dei fucilati alla montagna del principe Pio del . Secondo José Ortega y Gasset, Goya si sente un pittore di mestiere e non era un buon mestierante. Ma un «genio deforme che si aggira trascinandosi, tutto rattrappito, e che riesce a spiccare i più agili balzi verso le vet-
Francisco de Goya, Hospital de apestados, 1808-1810. (Collezione Marqués de la Romana)
Francisco de Goya, Besugos, 1808-1812. (The Museum of Fine Arts, Houston, Foto: © The Museum of Fine Arts, Houston)
te dell’arte proprio facendo leva sulle sue manchevolezze». Osserviamo qual è la percezione di sé stesso nel tempo attraverso gli autoritratti in mostra. In quello del ha un bottone della giacca slacciato e la pittura tutto chiaroscuro è ancora imitazione di Anton Raphael Mengs che aveva lasciato a Madrid la sua impronta neoclassica. Nel ritratto della famiglia di Don Luis de Borbon del - al centro della scena troviamo l’infante Maria Teresa de Vallabriga; in basso a sinistra e in ombra l’artista è intento al cavalletto. Andreas Beyer, nel catalogo dell’esposizione, spiega che per questo si mette in una posizione di inferiorità. Nell’autoritratto del - è in piedi mentre dipinge al cavalletto guardandosi allo
specchio alla maniera di Rembrandt. Sulla testa ha un cappello con delle candele per dipingere anche al buio. Alle spalle una grande finestra che illumina la scena. Goya è in ombra, quindi. La giacca è particolarmente elegante, come le scarpe. L’anno prima è stato nominato pittore di corte. Nel inizia la serie di incisioni dei Capricci pubblicati nel . Nel primo sul frontespizio c’è un autoritratto. È di profilo come i liberi pensatori francesi, ma sembra di cattivo umore o addirittura triste. Nella stampa intitolata El sueño de la razón produce monstruos a parte l’ambiguità del titolo che gioca fra «sognare» e «dormire», l’immagine è un autoritratto che lo mostra malinconico fra terrore e tormenti. Nel si ri-
trae pensieroso dopo l’invasione delle truppe inglesi e la chiamata davanti all’inquisizione con l’accusa di oscenità per la Maja desnuda. Infine l’ultimo autoritratto in mostra del sembra un’immagine votiva a ringraziamento del dottor Arrieta che lo ha curato e guarito. Qui siamo di fronte al modello classico della Pietà. L’anno precedente ha acquistato alla periferia di Madrid la Quinta del sordo dove decora le stanze con le famose Pinturas negras. Insomma Goya ha una personalità complessa derivante dalla scissione fra il suo modello di riferimento popolano da una parte e quello altolocato della cultura dall’altra. I suoi lavori procedono così lentamente e inesorabilmente verso quelle ambiguità e quelle mostruosità che lo hanno reso tanto famoso ai giorni nostri. Anche perché, come ha ben precisato Giulio Carlo Argan, l’artista deve essere un testimone del proprio tempo e per essere del proprio tempo «deve essere contro il proprio tempo: per questo Goya, in un’Europa già tutta neoclassica sembra una mostruosa eccezione». L’esposizione basilese si snoda cronologicamente offrendo grandi capolavori accanto a lavori inquietanti come El aquelarre (Sabba) o Vuelo de brujas (Volo delle streghe) ambedue del , tratti da una serie di otto dipinti sulla stregoneria realizzati per la duchessa di Osuna nella residenza campestre dell’Alameda. Da vedere i dipinti della Collection Marqués de la Romana di Madrid con scene or-
rorifiche come il bandito che spoglia una donna e quello seguente… che lascio immaginare. Poi i due dipinti delle Majas al balcone; soprattutto quello della collezione privata svizzera (simile a quello del Metropolitan Museum di New York) tanto seducenti quanto misteriosi. Quest’ultimo preso a modello da Manet per il suo Le Balcon due secoli dopo. Per terminare l’ultima sala è dedicata, tra l’altro, a incisioni tratte dal ciclo dei Desastres de la guerra (Disastri della guerra) del -. La versione definitiva secondo Goya - e consegnata per le correzioni dei testi e dei numeri a Juan Agustín Celán Bermúdez - consiste in stampe. Un’ulteriore serie di stampe fu donata da Goya nel al nonno dell’incisore Pedro Gil Moreno de Mora. La terza e ultima serie comprende stampe. Gli rami, che ora si trovano alla Calcografia Nacional di Madrid, non furono tirati che successivamente in diverse occasioni e nel furono acciaiate perché in cattive condizioni. Guardatele! Sono sorprendentemente attuali. Non vi sembra di essere in Afghanistan o in Norvegia dove un mattoide ha ucciso con arco e frecce passanti? Dove e quando Goya, a cura di Martin Schwander, Ioana Jimborean e Gudrun Maurer Fondation Beyeler, Basilea. Fino al 23 gennaio 2022. Catalogo D/E Hatje Cantz Verlag, Berlino, fr. 72.–. fondationbeyeler.ch
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Anno LXXXIV 2 novembre 2021
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CULTURA
I musei d’arte svizzeri e il rinnovamento Arte ◆ La recente inaugurazione del nuovo edificio del Kunsthaus di Zurigo pone alcuni interrogativi sulle trasformazioni con cui sono confrontati i musei oggi
Elio Schenini
La controversa Collezione Bührle è ora alla Kunsthaus. (Keystone)
La vita come una grande bugia Cinema ◆ Nel nuovo film di Rolando Colla un’incredibile vicenda esistenziale Nicola Falcinella
Un documentario costruito come un thriller per andare a scoprire i retroscena di un caso che fece scalpore. È W – Ciò che rimane della bugia di Rolando Colla, in uscita nelle diverse sale del Ticino in questi giorni. Il lavoro del cineasta, noto per la serie di corti Einspruch e i lunghi Le monde à l’envers – Una vita alla rovescia, Oltre il confine, Giochi d’estate, Sette giorni fino a Quello che non sai di me (girato a Bellinzona), è prodotto ancora una volta da Elena Pedrazzoli con la Peacock Film. «W» è costruito su quattro storie, più prologo ed epilogo, che ruotano intorno a un personaggio sconcertante. Si parte da Binjamin Wilkomirski, che nel pubblicò l’autobiografia Frammenti dove raccontava come da piccolo fosse scampato ad Auschwitz, per arrivare a Bruno Dössekker, bambino traumatizzato da ripetuti abbandoni. Colla rende la complessità delle vicende e dei personaggi senza giudicare, raccontando un’impostura e tante ambiguità e assurdità, con immagini d’archivio, interviste incredibili e animazioni in bianco e nero.
In occasione della presentazione alla stampa della nuova Kunsthaus di Zurigo è stato ampiamente e orgogliosamente sottolineato il fatto che i quasi metri di superficie espositiva aggiuntiva di cui il museo può ora disporre, oltre a farne il più grande museo svizzero, abbiano consentito di aumentare la quota di dipinti e sculture appartenenti alla collezione esposti in permanenza. Si è infatti passati dal % al %. Una percentuale che rimane in ogni caso esigua, circa pezzi su un totale di , tanto più che questa cifra non tiene conto delle circa ’ opere grafiche oltre che delle fotografie e delle installazioni presenti nella raccolta. Va anche detto che quasi sempre i musei hanno, per ovvie ragioni, una struttura simile a quella di un iceberg e conservano nei propri depositi molti più oggetti rispetto a quelli che riescono a esporre in permanenza.
Spesso la struttura museale ricorda quella di un iceberg: nei depositi vi sono molte più opere che in superficie Alcune voci critiche, e tra queste figura anche quella dell’ex vice-direttore della Kunsthaus Guido Magnaguagno, hanno però fatto notare che gran parte degli spazi espositivi ottenuti con l’ampliamento sono stati destinati alla presentazione di opere che non sono di effettiva proprietà della Kunsthaus ma che appartengono invece a collezioni private. A fare bella mostra di sé nelle sale del nuovo edificio costato milioni, di cui a carico della Città e del Cantone di Zurigo, sono infatti le opere, quasi sempre di grandissima qualità – questo è unanimemente riconosciuto – di tre collezioni di proprietà privata che sono state depositate presso il museo
in concomitanza con l’apertura della nuova sede: la collezione Merzbacher, la collezione della Fondation Hubert Looser e la collezione della Fondazione Bührle. Proprio attorno a quest’ultima e alle sue discusse origini negli anni della Seconda guerra mondiale, quando Emil Bührle era uno dei principali fornitori d’armi del regime nazista, sono divampate nelle scorse settimane aspre polemiche che pongono molti dubbi sull’opportunità di una simile operazione e che trovano il loro fondamento nelle indagini e nei quesiti posti in un volume dato alle stampe nel dallo storico Thomas Buomberger in collaborazione con lo stesso Magnaguagno. Buomberger, che è stato il primo in Svizzera a mettere a fuoco la questione delle opere d’arte trafugate agli ebrei in un libro pubblicato nel che ha ormai fatto storia, individua all’interno della Collezione Bührle una ventina di opere dal pedigree lacunoso e dall’origine dubbia che potrebbero essere frutto di spoliazioni. Da un lato abbiamo quindi la Kunsthaus di Zurigo e la Fondazione Bührle, le quali affermano di aver fatto tutto il possibile per verificare la provenienza delle opere e che si dicono certe che, dopo le restituzioni già effettuate dallo stesso Bührle nel primo dopoguerra, non vi siano più all’interno della raccolta casi problematici, dall’altra troviamo Buomberger e Magnaguagno che ritengono invece che vi siano ancora una serie di opere che se non trafugate direttamente dai nazisti, sono però probabilmente state cedute dai legittimi proprietari per ragioni di necessità determinate dalle persecuzioni a cui gli ebrei furono sottoposti in quegli anni. Se la scelta della Kunsthaus ci offre la possibilità di ammirare opere capitali di autori che hanno segnato la modernità quali Van Gogh, Céz-
anne, Monet, Degas o Picasso, e il cui valore complessivo – è forse bene ricordarlo – è stimato in circa tre miliardi, la posizione critica assunta da Buomberger e Magnaguagno ci ricorda che nel momento in cui ci abbandoniamo alla contemplazione estetica di un’opera non possiamo dimenticare le vicende, spesso drammatiche e violente, che ne hanno segnato i passaggi di proprietà e soprattutto le complesse questioni morali ed etiche che si pongono in ambito museologico. Come si fa ad ammirare da un punto di vista puramente estetico un dipinto appeso sulle pareti di un museo, sapendo che il suo proprietario è stato bruciato in un forno crematorio o asfissiato con i gas ad Auschwitz? Consapevole dell’attenzione internazionale su un argomento come questo, la Kunsthaus ha cercato di trarsi di impaccio e di prevenire eventuali critiche allestendo una sala in cui sono disponibili la biografia e alcune informazioni sulla figura di Emil Bührle e sulla nascita della sua collezione, mentre in un’altra sala è esposta un’opera dell’artista francese Raphaël Denis dedicata al tema dell’arte trafugata. Tuttavia, l’insieme dà l’impressione di un compito svolto un po’ frettolosamente e senza troppa convinzione, anche perché le priorità erano indubbiamente altre. Come si sottolinea, con enfasi forse eccessiva, nel comunicato stampa, grazie all’arrivo della Collezione Bührle alla Kunsthaus, Zurigo diventa infatti il secondo centro europeo, dopo Parigi, per l’arte impressionista e postimpressionista. A dire il vero, ci permettiamo di osservare noi, lo era già anche prima, perché la Collezione Bührle, seppur in una villa privata, è sempre stata conservata a Zurigo. Tuttavia questa preminenza nell’ambito dell’Impressionismo non riflette come nel caso della capitale francese la storia culturale e artistica del
paese, ma piuttosto le vicende economiche e finanziarie di una borghesia ricca, ma indubbiamente anche colta, i cui affari e le cui acquisizioni artistiche sono stati sicuramente favoriti dalla peculiare posizione assunta della Svizzera nel contesto europeo anche nei periodi più bui che questa ha attraversato nel corso del Novecento. E come hanno dimostrato gli atti di contrizione storica a cui il paese è stato in parte obbligato negli ultimi anni, non si trattava certo di una posizione di assoluta, e in passato troppo a lungo mitizzata, neutralità.
Le collezioni presenti nella nuova Kunsthaus di Zurigo non sono state donate al museo ma solo concesse in deposito Al di là dei singoli casi, per i quali non si può fare altro che auspicare da parte di tutti la massima trasparenza e l’apertura degli archivi agli storici, in modo tale che, dove ancora possibile, le opere vengano restituite ai legittimi proprietari, rimane comunque un fatto positivo che collezioni come questa, nate in un contesto privato e strettamente connesse alle possibilità economiche di chi le ha costituite, convergano verso delle istituzioni pubbliche. Anche perché nessun museo ha oggi la possibilità di acquisire con i propri mezzi opere i cui valori superano di gran lunga le disponibilità finanziarie di qualsiasi istituzione pubblica. Il problema semmai, sono le modalità con cui avviene questo passaggio dal privato al pubblico, e proprio a questo riguardo l’operazione che sta alla base della nuova Kunsthaus appare quantomeno discutibile, perché, come abbiamo già ricordato, non si è trattato di una donazione ma di un deposito. (Continua)
Colla, come ha lavorato per questo documentario? Ho impiegato sette anni per fare il film, più uno di montaggio. Questo tempo era necessario, non credo ai documentari fatti in tre mesi. Wilkomirski era stato stigmatizzato e si era ritirato dalla scena pubblica. Era terrorizzato e mi sono dovuto guadagnare la sua fiducia, nel frattempo trovavo materiali e persone. Volevo raccontare il successo del libro e come tutti avessero creduto alla sua storia - del resto anche lui ci credeva - e la caduta dopo la scoperta. C’è anche un tentativo di capire la persona e credo che nella quarta parte ciascuno si possa fare un’idea. Volevo dare una dimensione umana. Per questo ho proceduto per tentativi, seguendo varie strade e ribaltando più volte la storia. Il primo montaggio era di quasi tre ore, ho tagliato molto per arrivare alla versione definitiva. Da cineasta di lingua italiana come vede il cinema ticinese che negli ultimi anni è cresciuto con Niccolò Castelli, Fulvio ed Erik Bernasconi, Bindu de Stoppani? Li seguo, vedo i loro film, anche se abbiamo pochi contatti. Sono interessanti e sono contento per Castelli e il successo di Atlas, è un bell’esempio, bisogna andare avanti, anche se lavorare per il cinema è più difficile ed è più semplice realizzare le serie.
Una vita, una bugia, Bruno Dössekker, alias Binjamin Wilkomirski. (Still dal film)
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Spunta il giorno, Parigi è salva In scena 1
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La nostra TV Smart TV ◆ Come difendere la Willensnation
Dialogo notturno tra un diplomatico e un generale
Giovanni Fattorini
agosto , poco prima dell’alba. In un salotto (trasformato in stanza da lavoro) del lussuoso Hôtel Meurice, il generale Dietrich von Choltitz, governatore generale di Parigi, si accinge a rendere operativo un ordine impartito da Hitler: radere al suolo la città. Attraverso una porta-finestra, che dà su un balcone affacciato sulle Tuileries, giungono i rumori delle raffiche di mitra e dei colpi d’arma da fuoco sparati dai resistenti parigini e dai soldati nazisti. Mentre le truppe alleate sono quasi alle porte della capitale, i rinforzi tedeschi sono bloccati a km di distanza, e von Choltitz dispone di soli duemila uomini. Dopo aver congedato il suo attendente (al quale ha affidato una lettera da consegnare alla moglie che si trova a Baden-Baden), e dopo che il capitano Werner Ebernach, ufficiale del genio, gli ha illustrato il piano per ridurre in macerie la città, von Choltitz rimane solo. All’improvviso, la luce elettrica balugina, si spegne per un attimo, si riaccende. Nella stanza è comparso un uomo. Si chiama Raoul Nordling: è il console generale di Svezia a Parigi. Ha raggiunto la stanza salendo la scala segreta di cui Napoleone III si serviva per incontrare la sua amante, Miss Howard, nome d’arte di Elisabeth Aryet. Agente di uno stato neutrale, Nordling è latore di una lettera-ultimatum del generale Leclerc, che von Coltitz straccia senza nemmeno aprirla. Con questo gesto, che sembra escludere drasticamente ogni possibilità di dialogo, ha invece inizio un confronto la cui tensione drammatica è legata di volta in volta al contenuto e al tono delle argomentazioni, allo sviluppo degli avvenimenti esterni, all’emergere di informazioni riguardanti la vita e la personalità dei due interlocutori. Nordling (che è nato e vive da sempre a Parigi) è animato dal proposito di salvare la città che ama e i suoi abitanti. A tal fine, invita il governatore a valutare ciò di
Marco Züblin
Elio De Capitani e Ferdinando Bruni in Diplomazia. (© Laila Pozzo)
cui è sicuramente consapevole: la bellezza e il fascino davvero unici della città, l’altissimo numero di civili che morirebbero senza colpa, il fatto che la guerra, per la Germania, è ormai manifestamente perduta, e che lui, von Choltitz, dispone di un numero troppo piccolo di soldati, quasi tutti giovanissimi. Il generale respinge queste argomentazioni. Dice di essere un ufficiale, e il discendente di una famiglia di tradizioni militari: è quindi suo dovere rispettare scrupolosamente gli ordini ricevuti. Quanto alla prossima strage di civili, invita Nordling a ricordare le tonnellate di bombe al fosforo che gli alleati hanno sganciato su Amburgo e Berlino. Rivela infine di essere sotto il ricatto di una legge recentemente firmata da Hitler, la Sippenhaft, in forza della quale i famigliari degli ufficiali che si rifiutano di eseguire gli ordini ricevuti vengono messi a morte. Nordling lo assicura di essere in grado di
far arrivare la sua famiglia sana e salva in Svizzera. Allo spuntare del giorno, von Choltitz cancella l’operazione e firma il documento di resa. Diplomazia (Diplomacie) è un lungo atto unico di Cyril Gely rappresentato per la prima volta a Parigi nel . Nel , Volker Schlöndorff ne ha diretto una trasposizione cinematografica interpretata da Niels Arestrup e André Dussolier, gli stessi che avevano ricoperto i ruoli di von Choltitz e Nordling nella messinscena parigina. Il film (sceneggiato da Gely e Schlöndorff) è ambientato all’interno e all’esterno del Meurice; l’opera teatrale si svolge invece per intero nel salotto della suite occupata dal governatore. Lo spettacolo firmato da Elio De Capitani e Francesco Frongia mette efficacemente in risalto l’unità di luogo, tempo e azione. Il ritmo varia, ma la tensione drammatica non viene mai meno. Col procedere del dialogo, lo sviluppo degli avvenimenti esterni, e
il disvelarsi della dimensione privata, la bruschezza autoritaria e sprezzante di von Choltitz (Elio De Capitani) lascia progressivamente il campo alla stanchezza, al lucido disincanto, all’amarezza, all’alternarsi di fiducia e diffidenza, di timore e speranza. All’inizio, il console svedese interpretato da Ferdinando Bruni ha intonazioni ironiche e un po’ arroganti che sembrano inadatte all’impegno gravoso che si è assunto. Ben presto però sa essere diplomaticamente severo, suasivo, pungente, appassionato. Peccato che non di rado disattenda una regola del bon ton, rivolgendosi a von Chotlitz con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni: un atteggiamento da cui il console cinematografico si astiene rigorosamente. Dove e quando Milano, Teatro Elfo Puccini, fino al 14 novembre. Lugano, LAC, 3-4 dicembre
Il fascino della parola fra le pagine di un romanzo In scena 2
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Al LAC Nuda, il nuovo spettacolo di Daniele Finzi Pasca
Giorgio Thoeni
Rinnovare la lettura di Nuda, il romanzo di Daniele Finzi Pasca pubblicato nel dai tipi di Abendstern, può riconfermarsi un ricettacolo di fantasiose invenzioni letterarie, un vortice di visioni, di giochi fra i ricordi, intrecci che sembrano imparentati con certe pagine di Marquez, impressionati in una pellicola di Tim Burton e inseriti di peso in un affresco di Rothko o di Dalì. Caratteristiche che
corrispondono anche al valore del suo teatro, così ricco di narrazioni frammiste a immagini acrobatiche e oniriche, soprattutto se pensiamo a produzioni come Icaro, Nebbia, Donka, La Verità, per certi versi a Bianco su Bianco o al più recente Luna Park, per citarne solo alcune di una lunga e prestigiosa serie. Tradurre un testo letterario per la scena non è mai un’impresa semplice. Un momento di Nuda. (Viviana Cangialosi)
Finzi Pasca invece l’ha voluta affrontare dedicando proprio a Nuda l’ultima produzione andata in scena con la sua compagnia la scorsa settimana in prima assoluta al LAC di Lugano. Un atteso e gradito ritorno, soprattutto pensando alle forche caudine imposte al settore dello spettacolo dalla pandemia. Ma andando oltre a una sincera solidarietà, con Nuda ci siamo trovati di fronte a una regia che si compiace dell’uso della parola. Non tanto per i contenuti, tutti estrapolati e scelti dal testo letterario, bensì per una sua presenza eccessiva e ostentata. Sia chiaro, la parola negli spettacoli di Daniele c’è sempre stata, basti pensare a Bianco su Bianco. Ma il regista ci ha troppo viziati con una forte presenza visionaria dove la parola iniziale veniva sovrastata dall’azione con immagini, fantasie acrobatiche, musica, poesia. Nuda è la storia di due gemelle ed è raccontata in prima persona: «Sono la prima di due gemelle. Mia sorella nacque vestita, uscì dalla pancia di
mia mamma con una tunichetta immacolata. Io sono nata nuda, sporca, con gli occhi appiccicati». Un dualismo, un doppio che percorre tutta la narrazione a scapito dei molti bizzarri personaggi del romanzo. Alcuni affiorano dalla narrazione ma senza conquistare un proprio spazio drammaturgico. Anche se Nuda resta un omaggio al teatro, con l’ombra della morte e un’ironia che guarda all’Altissimo con bonarietà. Spettacolo certamente da vedere e da applaudire, almeno come quello registrato al debutto luganese premiando le attrici Melissa Vettore, Betriz Sayad e le acrobate e danzatrici Jess Gardolin, Micol Veglia con Francesco Lanciotti. Belle le musiche di Maria Bonzanigo, essenziali e altamente evocative. Minimaliste ed efficaci le scenografie di Hugo Gargiulo con i costumi di Giovanna Buzzi. Dove e quando Nuda, Daniele Finzi Pasca, Lugano, LAC, luganolac.ch
Durante l’emergenza sanitaria, il servizio pubblico radio-televisivo ha gremito il palinsesto di appuntamenti destinati a celebrare le bellezze e le (vere, presunte) «eccellenze» del territorio della Svizzera italiana, in un profluvio di programmi dedicati a musei, sentieri, capanne, funghi, grigliate, vini (e ogni altro edibile prodotto), canzoni e tradizioni. Una programmazione lievemente sovrabbondante, dalla quale non è stata esente una certa dose di campanilismo e di retorica ticinocentrica. Come diceva il vate di Sagno, il Ticino è terra dell’iperbole e, complice l’emergenza, l’impressione è che si sia spinto molto, troppo, sul pedale del nombrilisme e dell’autocelebrazione un po’ acritica. Tutto questo per dire che chiederemmo, e la mitologica concessione radiotelevisiva lo imporrebbe, un interesse accresciuto per tutto quanto fa (in)formazione e coesione nazionali, nello specifico che può aiutarci a conoscere e capire la Svizzera tutta. In questo senso, sarebbe opportuno che si proponessero programmi che parlino del resto dell’Elvezia, e non per rileggerlo in chiave ancora una volta autoreferenziale (come è avvenuto di recente con il pur simpatico miniciclo dedicato alle città) ma proprio per comprenderne specificità culturali, sociali ed economiche. E questo anche per cercare di capire se sia vero che i nostri confederati vengono da Marte e noi da Venere, in questa bella Willensnation, oppure se – come è più che probabile – vi siano rallegranti elementi di fratellanza ideale, e quali, ma soprattutto stimoli che ci permettano di uscire dalla sclerotica insularità che ci affligge. In questo contesto, l’attenzione a quanto succede al di là delle Alpi potrebbe svolgersi attorno a due direttrici: la prima che consiste nell’intensificare i contatti con le altre unità aziendali per collaborare in modo coerente e istituzionale e per portare al sud anche ciò che queste unità producono, la seconda da affidare a corrispondenti sul posto che abbiano compito e mandato sia di dare conto di quanto avviene sia di indagare con attenzione e con confederale ma critico affetto questi luoghi che alla maggioranza dei telespettatori ticinesi sono ignoti o oggetto di superficiale conoscenza. È incomprensibile, ad esempio, che non vi sia un congruo e attivo presidio giornalistico a Zurigo e nella Svizzera orientale, o che i corrispondenti da Berna si limitino a raccontare le gesta dei nostri politici e delle istituzioni federali, invece di andare sul territorio e di parlare del molto altro che succede in quei posti. Insomma, un invito a prendere in mano un compito non privo di rallegranti promesse, di belle opportunità, di stimoli giornalistici e di benefici effetti sulla comprensione confederale.
Francesco Chiesa definiva ilTicino «la repubblica dell’iperbole». (Wikipedia)
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CULTURA
Alla scoperta di un’opera fallita Concerti
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Robert Trevino dirigerà l’Orchestra della Svizzera italiana
Enrico Parola
Vale la pena di andare al LAC per ascoltare «un’opera completamente fallita», come disse lo stesso autore, definendola «quello tra i miei pezzi che brucerei più volentieri; non dovrà mai essere pubblicato»? Tanto più che il programma la accosta a un altro brano che a fino all’ fu rifiutato dalla Tonkünstlerverein, una società di concerti viennese, e a una terza pagina di un musicista più noto come direttore e didatta che come compositore? Vale la pena eccome, e non solo per ascoltare Robert Trevino, messicano cresciuto nella texana Fort Worth e salito prepotentemente alla ribalta internazionale nel , quando sostituì in extremis Sinaisky al Bolshoj di Mosca per un Don Carlo di Verdi accolto trionfalmente. Giovedì prossimo Trevino guiderà l’Orchestra della Svizzera Italiana in un trittico che dal , anno in cui Mendelssohn scrisse la sinfonia Riforma, si spinge fino al , quando Schönberg trascriveva per orchestra Verklärte Nacht, passando per la Kammersymphonie che un anno prima firmava Franz Shreker. Tre autori di origini ebree ma musicalmente assai diversi. Il ventenne Mendelssohn considerava fallita e degna del rogo la sua seconda sinfonia (fu infatti pubblicata postuma e catalogata come quinta, dopo la Scozzese e l’Italiana) detta Riforma perché doveva celebrare il terzo centenario del-
la Confessione protestante di Augusta (giugno ). Mendelssohn vi si dedicò con slancio ed entusiasmo, ma l’Orchestra del Conservatorio di Parigi, che avrebbe dovuto tenerla a battesimo, si rifiutò d’eseguirla, non è chiaro se per motivi religiosi o per i dubbi sulla validità artistica dell’opera. In realtà la sinfonia ha molti momenti di rapinosa bellezza: l’introduzione ieratica, di grande profondità spirituale dove riecheggiano il Magnificat tertii toni e il celebre Amen di Dresda, usato da Wagner come tema del Graal nel Parsifal. Una donna che, passeggiando in una gelida notte stellata, confessa a un uomo di portare in grembo suo figlio: è la «notte trasfigurata» del poeta simbolista Dehmel che Schönberg trasfigurò spiazzando ascoltatori e critici: i grandi modelli dell’epoca venivano assunti, Brahms adottandone lo sviluppo attraverso la variazione e Wagner per i leitmotiv associati a personaggi e situazioni, ma ricorreva a un cromatismo così spinto da prefigurare l’atonalità con cui Berg e Webern avrebbero rivoluzionato tre secoli di storia musicale.
Il direttore d’orchestra Robert Trevino è nato a Fort Worth, Texas, nel 1984. (musacchioianniello)
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Un immaginario che dura da oltre mezzo secolo Letteratura cinematografica
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Dalla saga di Herbert alla visione di Jodorowsky, fino al riuscito colossal Dune di Villeneuve
Manuela Mazzi
Influenza da sessant’anni l’immaginario dell’arte cinematografica fantascientifica di tutto il mondo: senza Dune, Star Wars non esisterebbe, e molte scene di film di oggi non sarebbero forse mai state concepite. Frank Herbert, che pubblicò il primo dei sei romanzi della saga nel , fu così lungimirante da andare oltre la fantascienza, tematizzando narrativamente i problemi climatici e conferendo il potere maggiore alle donne. A tentare per primo l’impresa di trasporre cinematograficamente l’opera dello scrittore americano, fu l’autore post-surrealista Alejandro Jodorowsky. L’idea risaliva al - e prevedeva la realizzazione di un unico film foss’anche durato venti ore. Il regista cileno lo racconta nel documentario Jodorowsky’s Dune di Frank Pavich; del , è uscito in italiano solo un mese fa. In un’ora e mezza ricostruisce i momenti più importanti della mancata realizzazione del suo leggendario film che prevedeva un cast di «attori» già scritturati al pari di Orson Welles, Mick Jagger, e persino Salvador Dalì; dei Pink Floyd doveva essere la colonna sonora. Il film di Jodorowsky avrebbe dovuto cambiare la visione dell’industria del cinema, e a dirla tutta – pur non essendo mai stato girato – ha dato davvero i natali a tante altre pellicole senza che però mai ne eguagliassero l’utopica visione. Fallimentare fu, di
fatto, l’omonimo film girato nel da David Lynch, mentre si trovano riusciti riferimenti all’opera incompiuta di Jodorowsky in: I predatori dell’Arca perduta; Alien e Prometheus; Matrix... e soprattutto nella celebre saga di Star Wars di George Lucas, che saccheggiò dichiaratamente Dune e in particolare lo storyboard di Jodorowsky; altro oggetto da collezione (una copia è stata di recente venduta a oltre mila dollari). La mitica sceneggiatura a vignette contiene tremila disegni del fumettista Jean «Moebius» Giraud, e l’incredibile castello degli Harkonnen oltre al trono del barone ideati dall’artista svizzero HR Giger (il quale si dedicò poi ad Alien). Non avessero temuto a Hollywood per il budget e per la follia del regista cileno, sarebbe bastato «poco» per girare il film. D’altro canto, come dichiarò l’allora produttore Michel Seydoux: «Non si può fare un capolavoro senza follia, forse Dune di Jodorowsky era troppo folle». Ci è riuscito invece il regista canadese Denis Villeneuve, la cui opera è arrivata da poche settimane nei cinema, dopo l’anteprima mondiale alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Il film, della durata di tre ore, è invero molto aderente al contenuto del primo volume della saga, e alla stessa maniera coinvolge e trascina in un futuro dove la «superficialità» è superata dal potere del-
Una fremen dalla locandina di Dune di Denis Villeneuve. (Warner Bros)
la mente. Dote acquisita dalle donne della sorellanza delle Bene Gesserit che scendono a patti con duchi e baroni di antichissime caste famigliari, in un medioevo galattico dove vigono onore e meditazione. Siamo alla fine dell’anno Duecento del Diecimila, e Paul Atreides, primogenito del duca Leto e di Lady Jessica (una Bene Gesserit), si trova a fare i conti con una profezia e con la gente del popolo del deserto, i Fremen, che vivono su Arrakis e sono in
attesa del loro Messia. Arrakis, anche detto Dune, è una versione galattica dell’Afghanistan: composto di roccia, sabbia e… vermi giganti, è fonte di una spezia preziosissima. Per affrontare le responsabilità che un giorno graveranno su di lui come discendente del Duca, Paul sarà spinto al limite per affrontare le proprie paure. In questo futuro dove il potere resta il nodo cruciale di tutte le relazioni e dunque di tutte le storie, Dune si spinge oltre il genere, riproponendo il
comportamento della storia umana, tanto che Jodorowsky, traducendolo, puntava alla creazione di un Dio-artistico, che entrasse nel profondo dell’animo dei giovani per aprire le loro menti, offrendo nuove prospettive. Resta invece abbastanza in superficie, ma non per questo è meno audace, il colossal del regista canadese che alla profondità narrativa ha preferito la forza estetica di immagini e suoni, ha scelto la poesia visiva e uditiva per offrire un’esperienza sensoriale, la cui massima espressione è garantita solo dal grande schermo, come afferma lo stesso Villeneuve: «Guardare in streaming il mio Dune è come guidare un motoscafo in una vasca da bagno». Il sequel – da poco confermato grazie al successo del primo (costato milioni di dollari, ne ha già incassati ) – uscirà il ottobre . Questa volta Paul vedrà messi alla prova orgogli e amori, imparerà la convivenza tra uomo e selvaggio, e sentirà nascere la comprensione e la fiducia nello straniero, sempre che la narrazione continui a rispettare la saga. Bibliografia e filmografia: Dune (1965) di Frank Herbert, tradotto da G. Cossato e S. Sandrelli, Fanucci editore. Jodorowsky’s Dune (2013), documentario di Frank Pavich; Dune (2021), film di Denis Villeneuve, Warner Bros. Annuncio pubblicitario
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CULTURA
In bilico tra dolore e sfuggente felicità Poesia
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Nell’ultima raccolta di Stefano Simoncelli, il vivere di tutti i giorni
Guido Monti
Torna Stefano Simoncelli con una piccola ma preziosa raccolta di poesia edita dall’editore Italic Pequod dal titolo molto indicativo, Un barelliere del turno di notte, che ci riporta visivamente e anche emozionalmente, all’immane tragedia degli ultimi due anni che ognuno ha in qualche modo toccato. In questo aureo libriccino, come d’altronde in tutta la sua opera, il poeta, partendo appunto dalla quotidianità, fa scorrere sottotraccia qualcosa d’altro, forse per parafrasare Shakespeare, quella stessa materia di cui son fatti i sogni. Ecco allora correre paralleli nel verso i giorni oscuri nei quali lo scrittore dà prova di entrare con l’occhio lucido e impietoso del cronista ma anche il loro risvolto metafisico, attraverso certe magistrali fughe oniriche, che si distendono nella pagina creando realtà parallele alla nostra e rafforzate: «Per le strade qui fermano tutti» / mi hanno scritto… / e all’alba ho sognato periferie / che sparivano nella nebbia / e fanali di posti di blocco / che illuminavano il niente // da dove usciva mia madre / con il cappottino rattoppato / e le scarpe distrutte dei giorni / in cui fuggiva dai rastrellamenti / tedeschi. Veniva avanti pregando // e si copriva gli occhi con le mani./»
Uno dei tratti caratteristici della scrittura di Simoncelli è data dall’intersezione dei tempi, a modo suo un unicum L’intersezione dei tempi quindi è il tratto caratteristico della scrittura di Simoncelli, che per originalità e ampiezza costituisce un unicum nel panorama contemporaneo; e allora è difficile non avvicinarla, per forza vi-
sionaria, anche alla grande tradizione romagnola del Novecento, non solo poetico-letteraria, e penso su tutti a Raffaello Baldini, ma anche cinematografica. Difatti gli incontri che il libro porta in scena, sono vere e proprie epifanie laiche, apparizioni, che ci scuotono, facendo rielaborare in un attimo il vissuto e la realtà che ci circonda. Gli uomini e le donne che compaiono in questo libro, al di là di poche eccezioni, tra le quali gli illustri amici del poeta, come Enzo Siciliano e Ferruccio Benzoni, appartengono alla folta schiera di figure anonime ma esemplari per aver vissuto autenticamente, senza infingimenti, ogni loro giorno e certo sembrano affacciarsi dal lumicino flebile del passato e rianimare proprio loro, per paradosso, questo presente che sembra da molto tempo oramai in uno stato di cronica infelicità: «… / …ho visto mio padre senza cappotto nella neve / che gli arrivava sino al ginocchio / …caricando il peso sulla gamba buona, / … // … Chiedeva che lo andassi a prendere / e me lo caricassi sulle spalle / che non ce la faceva più, / … / e non aveva fatto in tempo / … // … a costruire una carrucola di canne … / che lo tirasse di peso con corde, liane / … / fino al terrazzo del secondo piano / da dove guardava il mare d’inverno». Figure che nelle loro fuggevoli apparizioni, portando con sé un gesto, un sorriso, una incolmabile malinconia, riempiono ancora una volta di significato altro il tempo pandemico, che vorrebbe invece ingoiare in un buco nero la storia dell’individuo e delle sue relazioni, dandogli un punto di caduta definitivo. Ecco invece al contrario affiorare in Simoncelli, attraverso la continua costruzione dell’altro tempo, quello poetico, una
diversa percezione del mondo, quasi un pensiero applicabile alla vita, che ogni lettore dovrebbe far suo. Il libro è quindi un naturale crocevia e punto di intersezione tra i vivi e i morti che rievocati, appaiono più vivi dei vivi stessi; dal limbo onirico del poeta, tutti fuoriescono e tornano a camminare nel verso in una lunga schiera vociante, a volte silenziosa, nella gran via rattristata dei nostri giorni
e talvolta, l’incontro tra certe figure memoriali e il virus produce strane dissociazioni e nuove realtà, tutte da interpretare: «Mi piacevano da morire le piazze / e le strade deserte nel periodo / del lockdown. Potevo vedere / chi volevo incontrare: figure / di persone scomparse da anni / … // Alla fine, oscillando sui tacchi, ecco mia moglie / che illuminava il buio che la nasconde / … / ma bella come sem-
pre, esile ed elegante. / Aveva i guanti… e il cappello di rafia / che portava d’estate,… / e veniva su la nebbia dal fiume, tanta nebbia, // un mare di nebbia, e non vedevo più niente». E le intersezioni temporali e spaziali di cui si accennava, avvengono talvolta coinvolgendo non solo i grandi autori letti, da Simenon a Tolstoj, da Celine a Dostoevskij ma anche quelli conosciuti fraternamente, che con le loro esistenze sembrano portare qualcosa che resiste e sostiene, innanzi al grande buio contemporaneo: la luce dell’arte, sempre dispensatrice delle umane sofferenze: «Non vedo più il paese come prima, / … / …Niente, proprio niente, // è come lo vedevo quando passeggiavo con Ferruccio / parlando di Holderlin-Scardanelli dal bar Campari / fino al molo. Qualche gauloise ed un abbraccio / …». Questo mette in scena il libro, un variegatissimo coro di voci e quella magari anonima del barelliere del turno di notte, con le tante altre che si affacciano nel verso, sono lì a restituirci l’esperienza di ognuno, sempre in bilico tra dolore e ricerca della sfuggente felicità. Ecco, oltre questo mondo monocorde, asfittico in cui tutti siamo finiti, Stefano Simoncelli ne pensa e mette in scena altri, dove finalmente ritrovare ossigeno ma anche nuove ragioni di vita, in questa vita oramai inesorabilmente altra: «C’è un angolo di questa vecchia casa / in via dei platani, una rientranza / tra muri portanti con il lavello / e il rubinetto dove l’acqua / che scorre odora di mia madre / mentre mi lavo la mani e la faccia». Bibliografia Stefano Simoncelli, Un barelliere del turno di notte, Italic Pequod, 2021.
È sempre questione d’amore Incontri
◆
La studiosa Nadia Fusini sarà ospite degli Eventi letterari – «Azione» mette in palio alcuni biglietti
Laura Marzi
Nel suo ultimo saggio Maestre d’amore, lei cita Dante in apertura e la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, poi scrive che: «l’amore, più che un’azione, è un discorso». Perché le donne sono più brave a comprendere il discorso dell’amore? Racconto per spiegare questo, l’episodio di mia madre e mio padre che «facevano l’amore» secondo un modo di dire di generazioni passate, per le quali l’amore si faceva per l’appunto parlando, nella fase del corteggiamento. Il corteggiamento era «fare l’amore» – alla lettera dare all’amore corpo di parola. È una idea del «fare» poetico, fare come creare. Non come mettere al lavoro il corpo, in uno scambio di fatica e di guadagno. Naturalmente «fare l’amore» è anche quello: con «fare l’amore» si può
intendere «fare sesso» – ma «to make love» e «to make sex» rimangono cose diverse. Sono sfumature da cogliere, sono modi di dare senso a delle azioni, a degli atti. In ogni caso è in gioco un’idea del «fare» come azione, in cui si spendono il corpo e la mente, in un esercizio in cui il corpo spendendosi, ne guadagna qualcosa in termini di sensazioni – nel fare sesso è così, no? Nel fare l’amore, al modo in cui lo intendeva mia madre, l’azione riguardava la lingua – era non lavoro, non dispendio, ma creazione. Dante ragiona di tutto questo nella Vita Nuova, e non poteva non essere sullo sfondo del mio libro, perché il discorso sull’amore delle «mie» donne shakespeariane prende avvio contro quella tradizione dell’amore cortese. Nel capitolo «Godo di te, con te, dice Giulietta», lei aggiunge: «la donna è l’ora della verità per un uomo […] Scrivo questo libro per dimostrare la verità di tali parole». Qual è secondo lei l’ora della verità per una donna? Che la donna sia l’ora della verità per un uomo significa che la donna che l’uomo sceglie lo «svela», lo «smaschera». L’uomo si fregia della donna, quasi desse così, con la conquista,
te, protagonisti della commedia di Shakespeare La bisbetica domata? Senz’altro la commedia di Petruccio e di Kate trasuda intelligenza e ironia, è una presa in giro sovversiva dei ruoli femminili e maschili della scena dell’incontro tra i sessi. L’esercizio della «doma» – the taming – che coinvolge entrambi i protagonisti è trasformativo. L’amore intelligente è l’amore che trasforma.
Wikipedia
Abbiamo incontrato Nadia Fusini, studiosa di Letteratura inglese e comparata, critica letteraria e accademica italiana, curatrice dei due volumi dei Meridiani Mondadori dedicati a Virginia Woolf e di quello su John Keats. Autrice di numerosi romanzi e saggi sulla scrittura delle donne, tra cui l’ultimo Maestre d’amore. Giulietta, Ofelia, Desdemona e le altre, edito da Einaudi, sarà al centro dell’evento letterario «Le donne di Shakespeare».
consistenza alla sua credenza fallica. Al suo abbaglio. Sono altre le ragioni per cui una donna sceglie l’uomo che sceglie. Per ognuna, ragioni diverse. Perché non esiste La donna. Esistono le donne. Come insegna Lacan. Nella prima parte del testo, dedicata a un’analisi di alcune tragedie shakespeariane, nel capitolo «La bestia a due schiene: Desdemona con Otello», scrive: «l’amore che salva è l’amore intelligente, l’amore attivo che allontana il male e avvicina il bene». Come si fa l’amore intelligente, come Petruccio e Ka-
Nel testo ricorre questa considerazione: «in amore vince il fantasma, non ci si può fare niente, è così». Può spiegarla? Non faccio che spiegarlo in tutto il libro. Si può capire leggendo. Credo. Non c’è altra strada. Nella seconda sezione «L’amore in commedia I», lei scrive: «La bontà e la cattiveria sono qualità etiche, o etichette morali? […] Trasgredire una legge ingiusta non è forse un’azione etica? [..] Se per avere quel che si vuole si deve disobbedire […] come andrà a finire?» Nei testi che descrive e analizza, spesso oltre agli amanti, è protagonista il coraggio. L’amore, dunque, è sempre una prova? Le commedie romantiche di Shakespeare – come queste commedie
vengono definite – sono sì commedie d’amore, ma sono soprattutto una esaltazione del «free will». Della volontà libera, della coscienza del soggetto, uomo e donna, perché liberamente il soggetto scelga e decida della sua vita secondo coscienza. È questo l’amore early modern che Shakespeare esalta. A conclusione di questo percorso, in cui lei stessa è stata Maestra d’amore, si domanda: «Perché con tutta la scienza che ne abbiamo, ancora soffriamo per amore? […] Questione etica, che chiama in causa il senso della letteratura, il suo valore». Ama peggio chi non legge? E soffre meno per amore? Direi di sì. Non so proprio come possa amare chi non ha fantasia. Chi non s’avventura nel mondo meraviglioso e portentoso dell’invenzione fantastica. Dove e quando Nadia Fusini sarà al Monte Verità sabato 13 novembre 2021 (ore 16). «Azione» mette in palio 2x2 biglietti per l’incontro con Nadia Fusini e per quello con Natascia Tonelli (13.11, ore 14). Per partecipare al concorso seguire le istruzioni nella pagina web www.azione.ch/concorsi
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CULTURA
Mesi di buon jazz davanti a noi Dal vivo
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Il cartellone concertistico ticinese delle prossime settimane è ricco e stimolante
Alessandro Zanoli
Diamo al Certificato quel che è del Certificato: se l’attività concertistica in ambito jazz è potuta ricominciare, se molti musicisti hanno potuto riprendere ad esercitare la loro precaria professione, se i locali e le sale da concerto hanno potuto accogliere nuovamente gli appassionati, è proprio grazie a questo importante «strumento». Inutile stare a fare discussioni. Così è; e osservando il calendario delle prossime settimane c’è proprio da essere allegri per coloro che amano questa meravigliosa forma di musica. Il nostro cantone può vantare un uditorio ben educato e attento, a cui gli organizzatori di concerti hanno riservato belle sorprese. Osservando le proposte di tre tra i principali attori in questo particolare settore, il locarnese Jazz Cat Club, il luganese Jazz in Bess e la rassegna itinerante curata da Rete Due Tra jazz e nuove musiche, si mettono in fila, ridendo e scherzando, almeno una dozzina di appuntamenti da qui ai primi mesi dell’anno prossimo. Vi proponiamo volentieri, quindi, alcuni suggerimenti di ascolto che meritano attenzione e partecipazione. Lo dicevamo più sopra: è bastata una contingenza tanto drammatica quanto imprevista come la pandemia per mostrare quanto sia precaria e fragile la nostra scena musicale (e artistica), mentre noi ne abbiamo davvero sofferto la mancanza. Occorre dunque
cogliere ora le occasioni che ci vengono aperte di mantenere tanta splendida biodiversità culturale. Partiamo quindi dal Jazz Cat Club, che aveva iniziato quest’anno i suoi concerti con una bellissima serata italiana, dedicata al repertorio di Pino Daniele con un ospite d’eccezione come Tullio de Piscopo. Il calendario asconese proporrà lunedì novembre, ore ., la cantante newyorkese Shayna Steele, accompagnata dal dinamico ensemble Huntertones, un’accoppiata energetica che vivacizza il cartellone disegnato da Nicolas Gilliet per quest’anno. Lunedì novembre sarà la volta del pianista George Cables, uno degli interpreti più eleganti del pianoforte contemporaneo, accompagnato da Piero Odorici (al sassofono), Darryl Hall (al basso) e Kyle Poole (alla batteria), in attesa del concerto, che l’anno scorso era stato annullato, con la giovane nuova star del jazz vocale americano, la cantante francese Cyrille Aimée. Sarà ad Ascona il marzo del . A Jazz in Bess di Lugano, la musica è ripresa a tutto vapore: tra le molte serate previste (oltre ai frequentatissimi Aperi-jazz del mercoledì, alle Jam session di fine mese e alla serata in ricordo di Roberto Mandozzi, il novembre) segnaliamo il concerto del quartetto del contrabbassista Noah Punkt il ., il trio del chitarrista Lage Lund il . e il trio
del pianista Florian Favre il dicembre, serata in collaborazione con Rete Due RSI. Rete Due che, dal canto suo, continua la prestigiosa rassegna Tra Jazz e nuove musiche, con il consueto
giro d’orizzonte su proposte eccellenti provenienti da tutto il mondo: il / saranno ospiti il Duo Matinier & Seddiki; il / eccezionale concerto con Julian Lage (nella foto), uno dei maggiori chitarristi attual-
mente attivi a livello mondiale (Studio Foce); mentre sabato novembre ore . al Cinema Teatro di Chiasso sarà interessante seguire l’omaggio a Morricone del sassofonista italiano Stefano Di Battista. Annuncio pubblicitario
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In fin della fiera
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di Bruno Gambarotta
La bella Arianna ◆
Federica Marescalchi in Beccuti, le mani ingombre di sacchetti della spesa, non è ancora entrata in casa che suo figlio Alex, nove anni, le corre incontro eccitatissimo: «Mamma! Mamma! Sapessi chi abbiamo incontrato io e nonno Learco oggi tornando a casa!» La mamma si fa attenta e lancia uno sguardo indagatore al nonno che minimizza: «Abbiamo incontrato per caso un mio vecchio collega e ci siamo fermati a scambiare quattro chiacchiere, a rievocare i vecchi tempi. Tutto qui». «Ma mamma! – Alex quasi grida – quel tale non era suo amico! Non l’aveva mai visto prima! È il nonno che gliel’ha fatto credere!» «Io non gli ho fatto credere un bel niente, è lui che ha cominciato per primo. Io mi sono limitato ad andargli dietro». «Cos’è questa storia? Raccontatemi tutto per filo e per segno se volete che ci capisca qualcosa. Allora?». «Allora c’è questo tizio – riprende il nonno – che avrà più o meno la
mia età». «Un vecchio», puntualizza Alex. «Grazie. Non so chi fosse, non l’avevo mai visto prima. Mi ha salutato con grandi effusioni come se fossimo due vecchi amici, due colleghi che hanno lavorato insieme per trent’anni. Deve avermi scambiato per qualcun altro». «E tu gli hai fatto credere di essere quell’altro». «La gente, quando scopre di aver preso un granchio, ci sta male, si vergogna». «Mamma, dovevi sentirlo il nonno mentre rievocava con il suo vecchio amico gli anni trascorsi insieme nell’ufficio. Ricordava i nomi, le storie, gli scherzi...» «In quale ufficio avete lavorato?» domanda Federica. «Lui. In quale ufficio ha lavorato lui. Da quello che ho capito dovrebbe trattarsi di un impiegato delle dogane». «Se tu non ci sei mai stato come facevi a rievocare quell’ambiente?» «Oh, la vita degli impiegati nelle aziende è dappertutto eguale e per i nomi ho usato quelli dei miei ex colleghi, quelli veri. Lo sco-
Un mondo storto
nosciuto avrà pensato che non ricordavo più tanto bene. Come non manca mai di ricordarmi tuo figlio, sono vecchio. E i vecchi perdono la memoria». «Il momento più bello – rincara la dose Alex – è stato quando avete rievocato la gita a Venezia. Li avessi sentiti, mamma, facevano a gara nel tirare fuori storie divertenti». «Oh – minimizza il nonno – nelle aziende c’è sempre una gita a Venezia organizzata per i dipendenti. E le gite a Venezia sono tutte uguali». «Ma tu – gli ricorda sua nuora – non eri quello che si era sempre rifiutato di andare in gita con i colleghi?» «Sì, ma al ritorno mi riempivano la testa con i loro racconti. Era come esserci stato». Alex non ha perso una parola del dialogo fra i due amici: «Però lui era ancora un poco offeso, ha detto che durante quella gita gli hai soffiato Arianna, la sua fidanzata». «È vero?» domanda la mamma di Alex. «Beh, che male c’è? Da quello che ho capito, Arianna la-
vorava all’ufficio del personale. Non mi sono stupito, è un classico, durante le gite a Venezia non manca mai l’impiegata che cambia fidanzato». Federica incalza suo suocero: «Quanto è durata questa tresca? E tua moglie?» «Intanto lei non l’ha mai saputo. E poi scusami, io questa Arianna non l’ho mai conosciuta, non ero a Venezia, ma visto com’è conciato il mio amico non mi stupisce che l’abbia mollato per me». Alex, a sua madre: «Alla fine si sono salutati con la promessa di rivedersi». «Non mi dire». «È difficile che succeda. Non deve essere di queste parti. Non l’avevo mai visto prima». «Speriamo che vi ritroviate. Non mi sono mai divertito così tanto». La mamma di Alex non può rinunciare al ruolo di maestrina: «Ti rendi conto del pessimo esempio che hai dato a tuo nipote?» «Pessimo esempio? Far felice una persona è un pessimo esempio?» «E lasciarlo invece nell’errore e nell’illusione?» «Che
male c’è? Una storia è bella a prescindere dal fatto che sia vera o inventata». «Un bambino deve essere educato a lottare per la verità, sempre e ovunque. Tu, Alex, se vi capitasse di incontrare ancora quel signore, devi dirgli che a tuo nonno piace scherzare e che loro due non sono mai stati colleghi». Il nonno non è d’accordo ma non può contestare sua nuora: «Peccato, mi sarebbe piaciuto passare per quello che soffia la ragazza al collega». Trascorrono un paio di settimane quando rieccolo, allo svoltare di un angolo di strada, a pochi passi dal nonno e dal nipote. Il finto collega però non li nota, è impegnato in una animata conversazione con un signore anziano che gli sta dicendo: «Adesso che me lo dici mi pare proprio di ricordarmelo. Devi scusarmi se non ti ho riconosciuto subito, ma a volte a noi anziani la memoria fa dei brutti scherzi...» «Non puoi esserti scordato di Arianna, era bellissima...».
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di Ermanno Cavazzoni
La velocità della luce ◆
L’universo è ben congegnato, sono d’accordo, ammirevole questo immenso ruotare dei corpi l’uno attorno all’altro, mette in soggezione, che ci sia ancora tanta spinta dopo miliardi di anni e tutto funzioni impeccabilmente dentro questa sfera gravitazionale, che dicono si stia espandendo, va bene, tanto non ce ne accorgiamo; e anche delle supernove alla fine sono contento, hanno prodotto gli elementi pesanti, il ferro, l’oro, l’argento; anche il piombo, che entra nella composizione del cristallo; senza le supernove niente lampadari o bicchieri. Anche i buchi neri, per quanto mi riguarda vanno bene, sono come scarichi di lavandino, che ruotano e inghiottono tutto, poi non se ne sa più niente, se c’è una fogna universale, vasche di depurazione, in ogni caso non ci riguarda, è l’idraulica dell’universo, che non ha ricadute
sul sistema solare e sul nostro pianeta. Semmai trovo l’universo un po’ esagerato, ad esempio le distanze: se il sole fosse a Milano e fosse grande come un’arancia, la stella più vicina, Proxima Centauri, sarebbe a Reggio Calabria. È impressionante. E in mezzo niente o quasi niente, uno spazio enorme sprecato. Ma la questione più grave è questa: la luce impiega quattro anni per arrivarci. Immaginiamo che la luce sia un treno, la distanza Milano-Reggio Calabria è mille chilometri, arrotondando; quindi in un anno farebbe chilometri, cioè Km al mese, che sono metri al giorno. Ora immaginando anche tutti i disservizi possibili, scioperi, smottamento della massicciata, gente lungo i binari, caduta della tensione elettrica, la locomotiva in avaria, il pilota in narcolessia, guasti negli scambi, cos’altro? una pazza a bordo che tira continua-
mente l’allarme, io dico che metri al giorno, cioè metri all’ora è come dire che il treno è fermo, forse quella che tira l’allarme lo fa per sollecitare, perché di sicuro a piedi si farebbe prima, anche se il passeggero fosse rimpicciolito in proporzione. Quindi, o la luce è troppo lenta, o le distanze sono esagerate; se si vogliono organizzare servizi di trasporto per un territorio così vasto bisogna modernizzare. E però dicono che la luce più di così non va; la luce ha tanti pregi, ma ha un limite eccessivo di velocità, non so se è colpa del costruttore o è una legge. Con un mezzo così scadente ci si dovrebbe limitare ad un comprensorio non più grande del sistema solare: terra-luna in un secondo e tre decimi, questo sì è un buon servizio. Considerando il sole come la stazione centrale, da lì si raggiunge attualmente Mercurio in tre minuti, Venere in sei, la
terra in otto, sempre alla velocità della luce, che in rapporto a quest’area è adeguata, una rete metropolitana modernissima; Nettuno quattro ore, ma è molto decentrato, come certi paesini di montagna difficili da raggiungere, lassù il giorno è breve, sedici ore, poco soleggiato, molta ammoniaca e metano ghiacciato, se uno non ci va per sciare trova poco da fare, e tira un vento che arriva a duemila all’ora, come stazione sciistica non lo consiglio. Dunque il servizio luce nel sistema solare è ottimo, se fosse un treno nessuno si lamenterebbe, meno che mai i pendolari. Ma lo stesso convoglio per percorrere da un capo all’altro la Galassia, che in un certo senso è la nostra metropoli, impiega centomila anni, il che è ridicolo, impossibile. Non dovrebbero le galassie espandersi tanto, avendo al giorno d’oggi mezzi di comunicazione inadeguati. Ma non c’è
niente da fare, l’universo si espande, tutto si espande, irresponsabilmente, senza adeguare i mezzi, neppure il più veloce, la luce; la gente finirà per stancarsi, protestare, ci sarà una disaffezione alle urne; chi regola tutto, chi permette questa espansione selvaggia e non investe nella velocità, prima o poi sarà estromesso, a meno che sia la solita lobby affaristica. Le estreme regioni della Galassia arriveranno presto al degrado, tagliate fuori, poco servite; e la loro popolazione di extraterrestri, che è fitta, di questo sono sicuro, che è ovunque, sempre più impossibilitata a comunicare, scivolerà nella piccola delinquenza, nel vandalismo fine a sé stesso, se non confluirà per pura ignoranza nelle organizzazioni di terroristi. Quindi, è un appello, non mettiamo più limiti alla velocità della luce, almeno nei tragitti a lunga percorrenza.
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Voti d’aria
di Paolo Di Stefano
Tutti gli altri cioè noi ◆
Sapete cos’è il Manterrupting? È la tendenza dei maschi a interrompere le donne nel corso dei dialoghi pubblici (e non solo). Una prevaricazione di genere. C’è poi il Mansplaining, che è la tendenza dei maschi a spiegare alle donne (dopo averle interrotte) come vanno esattamente le cose e come in generale va il mondo. Ebbene, di recente la Corte Suprema degli Stati Uniti (½) si è data una regola ferrea: lasciar finire l’arringa dell’avvocata o dell’avvocato prima di porre eventuali domande senza parlarsi addosso. A pensarci bene è la regoletta che adottavano anni fa anche le maestre e i maestri delle scuole elementari con le alunne e gli alunni troppo esuberanti per evitare il chiasso: uno dei primissimi princìpi era il rispetto dell’altro, con la minaccia di una punizione o di una nota di biasimo. Nonostante l’ovvietà, pare che i risultati per la Corte Suprema siano stati im-
mediatamente visibili. Il che fa pensare che per tante cose sarebbe utile ripartire dai fondamentali, cioè in qualche modo tornare a frequentare le scuole elementari o recuperare quelli che fino a non molto tempo fa erano considerati gli insegnamenti-base della buona educazione, tipo non-parlare-con-la-bocca-piena o non-ficcarsi-le-dita-nel-naso. Insomma, quelle ragionevoli norme del decoro quotidiano impartite sin dalla nascita ai propri pargoli da genitori anche molto alla buona. Per esempio, il Mansplaining: a spiegare dovrebbe essere autorizzato l’interlocutore che ne sa di più, cioè quello che vanta una maggiore conoscenza in virtù degli studi fatti e dell’esperienza vissuta: il professore riguardo all’allievo, il dottore riguardo al paziente, lo specialista riguardo all’incompetente, il professionista riguardo al dilettante. Banale? Non proprio, visto che il ri-
spetto sembra un’attitudine in declino e in odore di muffa, così come il riconoscimento dell’autorevolezza e della competenza. L’altro giorno ho ricevuto un messaggio WhatsApp da una mia amica, una bravissima impiegata, che in relazione ai vaccini anti-Covid mi rimproverava di non conoscere i meccanismi dell’informazione, per questo sarei complice del pensiero unico e «succube della Matrix di regime». Lavoro da quarant’anni circa dentro il mondo dei giornali, e confesso che nel sentirmi dare dell’incompetente da una persona che non è mai entrata in una redazione, che frequenta solo i social senza aver mai aver sfogliato non dico «Le Monde» o il «New York Times», ma neppure il «Corriere della Sera», ho faticato a trattenermi dal poco elegante automatismo del vaffa. Pontificare su tutto è uno sport molto praticato dagli ignoranti (in senso etimologico
e senza offesa). Per provarmi l’attendibilità delle sue tesi complottiste, mi ha riempito il telefono di frasi frammentate, lievemente isteriche e piene di puntini di sospensione, che contrapponevano il fiero «noi» a un imprecisato «voi» («c’è in ballo una guerra… voi non volete conoscere e capire»). L’amica mi ha poi inviato, a riprova delle sue convinzioni, un video con un discorsetto-invettiva di uno psichiatra, psicologo, psicoterapeuta, criminologo specialista in tuttologia, Alessandro Meluzzi (–), che leggeva a suo modo l’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità sostenendo: che non mila in Italia, come divulgato dai «giornaloni», ma sarebbero i morti per Covid e che «tutti gli altri sarebbero morti perché avevano tumori, malattie vascolari o neurologiche…». In realtà, non serve scomodare i virologi per sapere che «tutti gli altri» avevano magari delle patologie
non mortali per le quali il virus è stato fatale. Ai turgidi negazionisti basterebbe rispondere proponendo loro di risolvere un problemino aritmetico facile facile quanto spietato: se in media nei cinque anni precedenti i morti sono stati mila e nel , anno del Covid, sono saliti a mila, quante sono state le persone uccise dal Covid? Un bambino di seconda elementare non avrebbe difficoltà a fare la sottrazione, ma i negazionisti-complottisti risponderanno che i dati sono falsati, così come sono falsati da Big Pharma e dalle dittature occidentali i numeri del calo dei decessi conseguente alle vaccinazioni. Fatto sta che se prima, guardandoli a distanza, per lo più in tv, rimanevo diviso, nel giudizio, tra la stupidità e la follia, da vicino purtroppo il beneficio della stupidità è scomparso, lasciando la nuda certezza, malinconica e allarmata, della follia.
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