Anno LXXXV 7 novembre 2022
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
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MONDO MIGROS
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SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
L’Associazione dei castanicoltori della Svizzera italiana premiata da Patrimonio svizzero
I cataloghi dei giocattoli, lo strumento perfetto per rievocare l’infanzia e giochi dimenticati
Nelle elezioni americane di metà mandato i democratici rischiano di perdere il controllo del Congresso
Mara Folini racconta i cento anni del Museo d’Arte Moderna e la sua predilezione per Louise Nevelson
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Simona Dalla Valle
Vienna, dall’impero al futuro
Simona Dalla Valle
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Sommaruga, una politica ben temperata Peter Schiesser
E così, dopo Ueli Maurer il governo federale perde quest’anno un altro membro: Simonetta Sommaruga. Non se ne va perché è stanca della politica federale, lascia perché suo marito, lo scrittore Lukas Hartmann, 16 anni più anziano di lei, ha avuto un ictus e la loro vita non è più quella di prima. Questo fatto improvviso e incisivo le ha cambiato la scala di valori, la politica ha ceduto il posto alla persona, al proprio essere interiore. Ora conta la vita che resta, la carriera si può concludere. Una carriera di tutto rispetto, di una politica nata pianista e che in quanto tale ha padroneggiato con tenacia e tocco perfezionistico la tecnica dell’azione politica, approfondendo fin nei dettagli i dossier di cui si occupava, dapprima come direttrice della Fondazione per la protezione dei consumatori, poi come consigliera nazionale e agli Stati, infine come consigliera federale per 12 anni. Chi l’ha seguita sottolinea il suo pieno controllo delle emozioni, la capacità di non lasciarsi provocare, di affrontare con distacco le critiche, lei stessa dice che chi non sa accettare le critiche
non dovrebbe entrare in politica. La sua estrema riservatezza su questioni personali l’hanno resa però in apparenza umanamente un po’ distante, distaccata (chi ha avuto a fare con lei lo contesta e sottolinea la sua capacità di ascolto e la sua empatia). Le poche volte che ha rivelato qualcosa di sé – il fatto di vivere separati, lei e suo marito, in due case a Berna, di aver acquistato un pianoforte elettrico per poter suonare il Clavicembalo ben temperato di Bach la sera tardi con le cuffie senza disturbare i vicini – ha destato sorpresa, e nei suoi avversari il sospetto che fossero dichiarazioni ben calcolate. Il suo carattere, la disciplina personale appresa da pianista sono stati solo degli ottimi strumenti, la sua grande forza politica è stata un’attitudine al compromesso e una capacità di persuasione in nome di obiettivi comuni. Il fatto che riuscisse a creare consenso al di là degli steccati politici l’ha resa particolarmente invisa all’Udc, per la quale la sua capacità di dialogare con l’economia e con gli ambienti borghesi di centro rappresentava una minaccia. Ma anche all’interno
del Partito socialista non è sempre stata amata. Assieme ad altri esponenti dell’ala destra del partito, nel 2001 aveva firmato il Manifesto del Gurten, che metteva in discussione molti tabù della sinistra e invocava fra le altre cose un freno all’immigrazione. In risposta il gruppo PS in parlamento l’aveva isolata. Poi però 9 anni dopo è comunque riuscita a farsi eleggere in Consiglio federale. E qui ha raccolto (come tutti o quasi) vittorie e sconfitte. La legge sul CO2, il referendum sulla revisione della legge sulla caccia, gli aiuti ai media sono state le ultime e più severe sconfitte, proprio nel suo Dipartimento preferito, ma in precedenza le è riuscita una revisione della legge sull’asilo in cui venivano anche garantiti maggiormente i diritti dei richiedenti l’asilo, ha ottenuto misure contro la discriminazione salariale delle donne, ha introdotto quote femminili nei consigli d’amministrazione delle grandi aziende. Soprattutto, da quando si è profilata una crisi energetica senza precedenti, è riuscita a creare un consenso fra politici, aziende elettriche, associazioni ambien-
taliste per la costruzione di nuove dighe idroelettriche, la creazione di una riserva di energia idrica per l’inverno e la costruzione di una centrale a gas di riserva a Birr, infine ha contribuito al salvataggio di Axpo e ha fatto passare in parlamento il principio di un ombrello finanziario per altre società elettriche che dovessero trovarsi in difficoltà, tutto in pochissimo tempo. Ora questa politica ben temperata esce di scena e lascia un vuoto. Di stile e politico. Simonetta Sommaruga ha ricordato che le piace girare per la città come una normale cittadina, ma ha ammonito che sempre più spesso ha dovuto farsi accompagnare da guardie del corpo: se il clima politico si fa più ruvido, questo si riflette nella società, ha commentato. Lo stile del politico conta, perché diventa sostanza nel paese. Con lei se ne va una convinta sostenitrice dell’arte del compromesso. Vedremo con chi la sostituirà il parlamento federale. Per ora il Partito socialista (il cui secondo seggio non è ancora contestato) si concentra a presentare in breve tempo un doppio ticket femminile.
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azione – Cooperativa Migros Ticino
MONDO MIGROS
Immensi Jethro Tull
Un ritratto di Giuseppe Verdi (18131901) a opera di Giovanni Boldini. (Wikipedia)
Band storiche ◆ Horang Music invita a un’imperdibile concerto al Palazzo dei Congressi a Lugano il 27 novembre
Verdi lirico
Concerti ◆ Al LAC di Lugano una serata di grande musica
I Jethro Tull dal vivo come non li avete mai visti: l’appuntamento con una delle band più importanti e influenti di tutti i tempi è domenica 27 novembre 2022 (ore 21.00) al Palazzo dei Congressi di Lugano. La formazione britannica vanta un catalogo immen-
so e variegato, comprendente folk, blues, musica classica ed heavy rock, trenta album, 60 milioni di copie vendute in tutto il mondo e oltre tremila concerti in più di 50 Paesi. La band, guidata da Ian Anderson, è stata definita per la prima volta «Progressive Rock Band» nel 1969. Il costante sviluppo della musica dei Jethro Tull attraverso i concept album dei primi anni ’70 ha lasciato il posto a quello che potrebbe essere chiamato «Progressive Folk». Sin da allora, la musica ha continuato a trarre influenze eclettiche da molteplici generi musicali e, 5 decadi dopo l’Era del Prog, le canzoni di Ian Anderson richiamano ancora oggi la continua tradizione dei Prog Years. Un viaggio incredibile e senza tempo con musiche tratte da Thick as a Brick, A Passion Play, Aqualung, Stand Up
e Songs from the Wood. Jethro Tull in concerto: imperdibile. Informazioni horangmusic.com
Concorso «Azione» mette in palio 5x2 biglietti per il Concerto luganese dei Jethro Tull del 27 novembre 2022. Per partecipare all’estrazione inviare una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Jethro Tull») indicando i propri dati personali entro domenica 13 novembre 2022.
Ogni giorno, la vita
Per festeggiare il 15esimo dalla propria Fondazione, il 20 novembre 2022 il Coro Lirico di Lugano invita a una serata di gala in onore di Giuseppe Verdi. L’appuntamento sarà l’occasione ideale per ascoltare i grandi cori verdiani, da quelli più noti come «Va’, pensiero», «Tacea la notte placida» e «O Signore, dal tetto natio», fino a proposte meno conosciute con i solisti del coro, Minji Kim, Luana Pangallo, Fabio Valsangiacomo, e Guillermo Bussolini. Il momento più atteso della serata sarà quando Marco Berti, tenore, e Massimo Cavalletti, baritono, canteranno in duetto e singolarmente. Anche per le orecchie più esigenti e raffinate, questo
sarà un momento di grande qualità interpretativa.
Concorso «Azione» mette in palio 5x2 biglietti per il Concerto lirico di gala «Verdi al LAC» del 20 novembre 2022 (ore 17.00). Per partecipare all’estrazione inviare una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Verdi lirico») indicando i propri dati personali entro domenica 13 novembre 2022.
Un trasparente rinnovato
Migros Ticino ◆ Un sostegno alle Processioni storiche di Mendrisio dalla Commissione culturale del Consiglio di Cooperativa
Danza ◆ Nuova creazione della Compagnia Tiziana Arnaboldi
Un omaggio a Rainer Maria Rilke, quello che andrà in scena domenica 13 novembre al Teatro San Materno di Ascona (ore 17.00). Sulla scena un pianista, due danzatrici, un attore. Il motivo per cui si porta in scena teatrale l’uomo Rainer Maria Rilke è la sua amicizia con la coreografa e danzatrice Charlotte Bara e la sua famiglia, che lo portavano a recarsi spesso ad Ascona. Charlotte Bara è stata una figura conosciuta e importante nel Locarnese: fu lei ad aver voluto co-
struire il Teatro San Materno un secolo fa per creare una scuola di danza. «La vita comincia ogni giorno» è uno spettacolo che catapultano nel mondo visibile, fatto di rapporti umani. Un modo per parlare di vita, di morte, di esistenza e di immaginazione, con le danzatrici Francesca Zaccaria e Marta Ciappina.
azione
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)
Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Simona Sala, Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Natascha Fioretti Ivan Leoni
Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89
La Presidente della Commissione culturale del Consiglio di cooperativa Gaby Malacrida e il responsabile del Percento culturale di Migros Ticino Luca Corti, consegnano al Presidente del Consiglio della Fondazione delle Processioni storiche di Mendri-
sio Gabriele Ponti un contributo di CHF 5000 per il restauro completo di un trasparente.
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11
Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch
Concorso «Azione» mette in palio 5x2 biglietti per La vita comincia ogni giorno di Tiziana Arnaboldi (13 nov., ore 17.00). Per partecipare all’estrazione inviare una mail a giochi@azione. ch (oggetto: «Arnaboldi») indicando i propri dati personali entro mercoledì 9 novembre 2022. ●
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938
Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano
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SOCIETÀ
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Iscrizioni nelle pietre Casagrande ha da poco pubblicato lo studio di Romeo Dell’Era sulle iscrizioni romane del Ticino
Giovani inattivi Non studiano e non lavorano, come aiutare i giovani NEET a costruire un proprio progetto formativo
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Castanicoltori da premio
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Medicina Il coordinamento delle cure permette di implementarne l’efficacia e contenere i costi
Calore solare Lo studio SolTherm2050 analizza i futuri campi di applicazione dei collettori solari
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Territorio ◆ L’Associazione dei castanicoltori della Svizzera italiana si è aggiudicata il Premio Schultess per i giardini 2022 attribuito da Patrimonio svizzero Stefania Hubmann
Con il riconoscimento conferito lo scorso ottobre all’Associazione dei castanicoltori della Svizzera italiana il Premio Schulthess per i giardini, attribuito ogni anno dall’organizzazione Patrimonio svizzero, è giunto per la prima volta in Ticino. Più conosciuta nella nostra regione per altre iniziative come il Premio Wakker, il Tallero d’oro e le Vacanze in edifici storici, l’organizzazione attiva nell’ambito della cultura architettonica ha voluto lanciare un chiaro segnale al sud delle Alpi, riconoscendo l’impegno profuso sull’arco di più decenni nel nostro cantone e nel Grigioni italiano a favore della cultura del castagno, recuperata e valorizzata. Il premio, consegnato nel mese della raccolta, funge inoltre da incentivo per nuovi progetti in un settore sviluppatosi grazie alla collaborazione di più enti, l’Associazione dei castanicoltori da un lato, i proprietari, i produttori e l’ente pubblico dall’altro, come sottolineato anche nelle motivazioni del Premio Schulthess per i giardini. Il nome del premio potrebbe trarre in inganno. Istituito nel 1998 grazie al lascito dei coniugi Georg e Marianne Schulthess-Schweizer di Rheinfelden (AG), ha ricompensato negli anni la cura e la manutenzione di giardini e parchi storici, ampliando poi il concetto ad altri interventi dell’uomo volti a preservare la natura. Ne è un esempio recente la Fondazione ProSpecieRara (2021), come pure nel 2020 le rive dei fiumi e del lago della Città e del Canton Zurigo. Anche nella Svizzera italiana viene premiata un’iniziativa di questo genere, risalente addirittura agli anni Ottanta, in anticipo quindi sulla costituzione dell’Associazione dei castanicoltori. Le persone implicate sono però le medesime, primo fra tutti il presidente del sodalizio Giorgio Moretti. Ingegnere forestale allora attivo presso la Sezione forestale del Cantone, assieme ad altre persone sensibili al tema collaborò all’avvio in quegli anni di progetti specifici per contrastare l’inselvatichirsi delle selve. Giorgio Moretti è quindi una delle memorie storiche del ripristino della cultura del castagno, albero che a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, perdendo la sua funzione di sussistenza, era stato abbandonato a se stesso. «Uno dei primi compiti dell’Associazione – ricorda Giorgio Moretti –
è stato quello di identificare e conservare le numerose varietà di castagne. Informazioni raccolte dapprima dai ricercatori grazie alle testimonianze delle persone anziane di allora. Primaticce, tardive, piccole, grandi, di alta quota e via dicendo, se ne contano circa una cinquantina. Questa ricchezza era essenziale per rispondere alle esigenze dei diversi usi e diversificare il rischio. Oggi, grazie alle selve di Cademario e Biasca, le più note e antiche varietà ticinesi sono riunite e tutelate come patrimonio genetico futuro. Questi luoghi sono anche apprezzate aree di svago». Precisa al riguardo il presidente: «Abbiamo collaborato sin da subito con i patriziati (proprietari dei terreni), l’ente pubblico che ha fornito ai proprietari i sussidi disponibili, i produttori e non da ultimo i rappresentanti del settore turistico. Grazie a questi ultimi, ad esempio, è oggi possibile percorrere il Sentiero del castagno nel Malcantone. Non abbiamo inoltre voluto interferire con attività già consolidate come la ricerca sulle malattie o lo studio degli alberi monumentali di cui si occupava e si occupa tuttora l’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio WSL». Fra i progetti chiave dell’Associazione figura la raccolta. Gestiti inizialmente dai suoi membri, i quattro centri di raccolta cantonali sono oggi affidati a un professionista che si occupa della rivendita del prodotto fresco come pure di alcuni suoi derivati. La castagna è quindi ritornata a essere un prodotto ricercato e di conseguenza una fonte di guadagno. «Effettivamente constatiamo una riscoperta a tutto tondo del castagno», precisa il nostro interlocutore. «Viene apprezzato per il suo valore paesaggistico, ecologico e direi persino emozionale. Abbiamo assistito pure alla ripresa di tradizioni quali il carico della grà che si svolge con successo in varie località, oltre a promuovere iniziative concrete come la pubblicazione annuale del bollettino “il Castagno” e la vendita di grembiuli per la raccolta delle castagne. Con il Grigioni italiano i rapporti sono incentrati sullo scambio di esperienze essendo le gestioni simili, anche se la Val Bregaglia può vantare maggiore continuità nella preservazione delle selve, mai del tutto abbandonate». Quali le prospettive dopo l’attribuzione del Premio Schulthess per i giardini dotato di 25mila franchi? Ri-
La selva castanile di Cademario, dove le più note e antiche varietà ticinesi sono tutelate come patrimonio genetico futuro. (Giorgio Moretti/Associazione dei castanicoltori della Svizzera italiana)
sponde Giorgio Moretti: «Il premio conferitoci da Patrimonio svizzero è per noi motivo di gratificazione, soprattutto perché riconosce il valore di un progetto regionale di valenza nazionale che ha reso possibile ridare al castagno la sua dignità, preservando un patrimonio ambientale, storico e culturale. Oggi sembra quasi scontato passeggiare in una bella selva castanile, raccogliere le castagne in autunno, partecipare a feste legate a questo frutto, ma quarant’anni fa non è stato evidente avviare questo percorso costruendo dal nulla una preziosa rete di collaborazioni. Per i Cantoni Ticino e Grigioni rappresentiamo una piattaforma che permette di condividere il sapere che ruota attorno alla cultura del castagno. Uno dei nostri prossimi obiettivi è di portare questo sapere nelle scuole. Grazie al Premio potremo sviluppare il progetto Scuola in selva sul modello della Scuola in fattoria promossa dall’Unione Contadini Ticinesi». Altro ambito nel quale i castanicoltori desiderano muoversi è quello della formazione, intesa quale preparazione semiprofessionale in grado di fornire basi teoriche e prati-
che su operazioni quali la potatura o la messa a dimora. Da oltre San Gottardo, in particolare dal segretariato generale di Patrimonio Svizzero a Zurigo, c’è pure gratitudine, in questo caso per il lungo e intenso lavoro svolto dall’Associazione dei castanicoltori della Svizzera italiana. «Lo spirito e la devozione delle persone che animano l’associazione hanno colpito la Commissione Premio Schulthess per i giardini», spiega Stefania Boggian, responsabile di progetto Cultura architettonica presso Patrimonio Svizzero. «L’Associazione è riuscita a inglobare un insieme di azioni, persone e luoghi assicurando un impatto su larga scala. Inoltre il sapere raccolto attraverso la rete realizzata partendo dalla Svizzera italiana va anche a beneficio delle organizzazioni che promuovono la castanicoltura in altri cantoni». Riguardo al meccanismo di attribuzione del Premio, la rappresentante dell’organizzazione nazionale precisa: «La Conferenza dei presidenti di Patrimonio Svizzero decide su proposta del Comitato al quale è sottoposta la scelta effettuata dalla Commissione.
Quest’ultima lavora sull’arco di più mesi, selezionando i progetti, incontrando i loro rappresentanti, visitando i luoghi e impregnandosi dell’atmosfera e dell’energia delle persone che ruotano attorno alle iniziative prescelte. Questo aspetto ha giocato un ruolo nell’attribuzione del Premio Schulthess per i giardini 2022». Per l’occasione, come avviene dal 2013, è stato pubblicato un volumetto – quest’anno bilingue italiano e tedesco – con informazioni, curiosità, testimonianze e illustrazioni su passato e presente della cultura del castagno nella nostra regione. L’opuscolo (ottenibile sul sito www.heimatschutz. ch/shop), racchiude il prezioso lavoro svolto dall’Associazione dei castanicoltori della Svizzera italiana, portandolo nel contempo all’attenzione nazionale, così come il Premio Schulthess per i giardini costituisce da parte sua sia un riconoscimento sia un incentivo per il futuro. Informazioni www.castanicoltori.ch www.patrimoniosvizzero.ch/ premioschulthess2022
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Cesto regalo dei Nostrani del Ticino
Attualità ◆ Un’idea azzeccata per tutti i buongustai che amano i prodotti a km zero. Ordinalo online cliccando sul sito nostranidelticino.ch
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Il Natale si avvicina e per molti è tempo di cominciare a pensare ai doni di Natale. Perché non regalare ai propri amici e parenti qualcosa di originale proveniente rigorosamente dalla nostra regione? Dopo l’enorme successo fatto registrare nel 2021, ecco riproposto anche quest’anno il cesto regalo dei Nostrani del Ticino da comporre e per-
sonalizzare a piacere online. Dalle bevande ai biscotti, dalle farine agli aceti, dal miele alle tisane fino – come novità – ai salumi, sono oltre una cinquantina le specialità ticinesi sopraffine che regaleranno ad ogni palato sensazioni uniche. Le modalità di funzionamento del servizio sono assolutamente semplici e intuitive: è sufficiente accedere al sito nostra-
nidelticino.ch, selezionare il tasto «Cesti regalo», scegliere il cesto desiderato e iniziare a comporlo con i prodotti preferiti. Il cesto regalo, lo ricordiamo, è disponibile in 3 grandezze diverse: piccolo, per 5 prodotti; medio; per 10 prodotti e grande, da riempire con 15 prodotti. Una volta concluso l’ordine, potrai selezionare la filiale Migros in cui desideri ritirarlo e pagare comodamente tramite carta di credito. I cesti saranno disponibili per il ritiro in negozio nel giro di qualche giorno. Per
La spesa Migros in un click Attualità
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comprendere meglio come funziona il servizio, abbiamo creato un simpatico video tutorial animato che puoi visionare collegandoti tramite codice QR al link sopra indicato. Infine, ma non meno importante, i cesti sono confezionati in collaborazione con gli utenti della Fondazione Diamante, istituzione attiva da oltre 40 anni nell’inclusione di persone in situazione di handicap che gestisce un laboratorio all’interno della centrale di distribuzione Migros di S. Antonino. Clicca,
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Salumi d’eccellenza dal 1878 Attualità ◆ Citterio è disponibile alla Migros con diverse specialità per soddisfare ogni gusto e piacere. Avete già provato le prelibatezze della linea Riserva?
Nato nel 1878 nei pressi di Milano grazie all’intraprendenza di Giuseppe Citterio, il salumificio si afferma subito sul mercato grazie al suo storico salame di Milano. Oggi Citterio è a livello internazionale uno dei marchi più noti e affermati della migliore tradizione salumiera italiana, proponendo ai consumatori una
ricca selezione di squisite specialità. Tutti i prodotti Citterio venduti alla Migros sono elaborati nel rispetto degli standard svizzeri sulla protezione degli animali. Tra le delizie a firma Citterio presenti sugli scaffali Migros, lasciatevi per esempio tentare dal Salame Riserva 1878, realizzato secondo l’antica ricetta del
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SOCIETÀ
Messaggi di pietra verso il futuro Territorio
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Esce per le Edizioni Casagrande un approfondito studio sulle iscrizioni romane ritrovate in Ticino
Alessandro Zanoli
Sono arrivate fino a noi attraverso i millenni, ci parlano in una lingua difficilmente comprensibile, messaggi di una civiltà, di un mondo lontano che riusciamo appena a immaginare. Sono state per secoli tenute in luoghi improbabili, usate magari come soglia di un pollaio, più spesso come materiale da costruzione pregiato ma a buon mercato: a volte integrate in una parete o in un pavimento, capovolte o semisepolte, tanto da consumare e rendere illeggibile il loro testo. Eppure sono messaggi lanciati attraverso i secoli, fissati su supporti che si volevano eterni per eternare, appunto, un voto riconoscente alle divinità oppure per tramandare il ricordo di una persona amata, o la figura di un notabile stimato dalla comunità in cui viveva. E il loro scopo lo hanno raggiunto, anche se oggi spesso possiamo capirle solo con difficoltà. Le trentaquattro iscrizioni latine che si contano ad oggi, sparse sul territorio ticinese, sono veramente poca cosa rispetto a quanto avrà verosimilmente prodotto la nostra regione durante l’epoca romana. Però ci dicono qualcosa del modo in cui era organizzato il nostro territorio, qualcosa che i libri non hanno lasciato e che quasi solo grazie a questi frammenti di pietra quasi indecifrabili possiamo ricostruire. Il lavoro di collazione e interpretazione che è stato compiuto da Romeo Dell’Era, giovane studioso ticinese
in forze all’Università di Losanna, è tanto più meritevole, quindi, perché ci restituisce con perizia scientifica un puzzle di informazioni di vario genere. Come lui stesso ama sottolineare, l’epigrafia, per quanto sia poco conosciuta dal «cittadino medio», è un campo di studio interdisciplinare, in cui convergono competenze tecniche (studio dei materiali, geologia, geografia, studio delle tecniche artigianali, architettura), linguistica (decrittazione e interpretazione del testo) e poi naturalmente storia, sociologia e antropologia. Un bagaglio importante di metodi e nozioni, messo in campo per far luce su piccoli grandi enigmi che i nostri simili di duemila anni fa ci hanno lasciato in eredità. Il volume che raccoglie il frutto del lavoro di Dell’Era, pure nella sua inevitabilmente rigorosa formulazione, possiede agli occhi del lettore curioso di questioni storiche il fascino di un giallo in trentaquattro puntate: chi sarà stato «Frontone, figlio di Quinto», che nel primo secolo dopo Cristo scioglieva il suo voto a Giove e Mercurio nei paraggi di Monte Carasso? E perché solo a quelle due divinità, quando la storia dell’epigrafia romana non si è mai trovato un accostamento simile? Forse a causa dell’interpolazione con una tradizione celtica, cultura viva e fortemente presente nei nostri territo-
Iscrizione romana a Muralto.
ri già dall’epoca protostorica? E chi poteva essere, da dove veniva il ricco e stimato «Gaio Petronio Gemello» che ha lasciato ricordo di sé e di sua moglie «Lucilia», di suo padre «Ga-
io Petronio Primigenio» di sua madre «Sammonia Lutulla» e di suo fratello «Petronio Marziale» a Ligornetto, in una raffinatissima ara scolpita, così bella da spingere un famoso
studioso come Theodor Mommsen, nel 1871, a baciarla con commozione quale preziosissimo reperto dell’antichità romana? E poi, da un punto di vista più ampio: com’era inserito il Ticino nel contesto sociopolitico dell’epoca romana? Perché le lapidi riportano ora il probabile profilo di un notabile comasco, ora quello di un milanese? Da dove venivano questi uomini così importanti da potersi permettere simili monumenti? Chi reggeva allora le nostre terre, a quale autorità «facevamo capo» ai tempi dei romani? Insomma, quando la ricerca scientifica si avventura in questa disciplina il campo delle ipotesi apre scenari suggestivi, romanzeschi, che difficilmente lasciano indifferenti. Per questo il bel volume, pubblicato con la necessaria cura editoriale da Casagrande, agli occhi di molti lettori potrà forse risultare più appassionante di un noir storico, di quelli che ci capita sempre più spesso di trovare nelle nostre librerie. E di fatto qualche risposta alle questioni di cui sopra il libro di Dell’Era cerca di darle, formulando ipotesi solide, corroborate dal suo rigore scientifico, a disposizione della curiosità di tutti noi. Bibliografia Romeo Dell’Era, Le iscrizioni romane del Canton Ticino, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2022. Annuncio pubblicitario
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SOCIETÀ
Tra le cause che portano i giovani a non studiare e non lavorare vi è un disorientamento rispetto alle ipotesi future. (Shutterstock)
Non studia, non lavora, non si forma
Giovani ◆ Il fenomeno dei NEET (Not in Education, Employment or Training): ragazzi tra i 15 e i 29 anni disoccupati transitori o inattivi per scelta che rischiano l’esclusione sociale Fabio Dozio
Chiamateli, se volete, sfaccendati, nullafacenti, sdraiati. Con questi termini in possiamo tradurre NEET (Not in Education, Employment or Training), ossia giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano più, non lavorano ancora e vivono in un limbo in eterna attesa. Un dolce far niente che può avere accenti amari. Perché c’è una differenza di fondo tra chi sceglie questo stato di ignavia e coloro che lo subiscono; tra chi si gode il divano e chi soffre per non riuscire a entrare nei mondi dello studio o del lavoro. Il termine NEET è stato usato per la prima volta nel 1999 in uno studio sull’esclusione sociale del governo del Regno Unito. In questi vent’anni il fenomeno è monitorato nel mondo intero. In Europa i dati più recenti vedono l’Italia con tassi di NEET che sfiorano il 30%. In Svizzera, nel 2020, 90 mila persone tra i 15 e i 29 anni erano NEET, il 6,3% della popolazione di questa fascia d’età. Si tratta, spiega l’Ufficio federale di statistica – di una percentuale in calo rispetto al 2010, quando si attestava all’8,1%. Un po’ meno della metà (il 2,8%) era composta da persone disoccupate ai sensi dell’ILO (secondo la definizione dell’Ufficio internazionale del lavoro) e quindi attivamente in cerca di un impiego: NEET loro malgrado, perché alla ricerca di un’occupazione. «Caritas Ticino – ci dice il vicedirettore Stefano Frisoli – non ha uno specifico osservatorio, ma incontra sicuramente nei suoi servizi persone che potrebbero ricadere in questa definizione, sia all’interno delle misure d’inserimento socio-professionali che attraverso il servizio sociale. La definizione di NEET comprende le persone a partire da una considerazione, ossia cosa non fanno: non studiano, non lavorano e non completano una formazione. Su questi tre aspetti potremmo anche riaprire una serie di altre considerazioni. Ma ce n’è una che sta a monte: quando definiamo qualcosa concettualmente è scorretto partire dicendo cosa non è. Nello specifico, ci rimane da capire non solo cosa fanno ma anche chi sono queste persone e come si posizionano rispetto alla società, alle famiglie di appartenenza, al contesto di riferimento. La domanda quindi rimane aperta e richiama sicuramente a una comples-
sità non facilmente comprimibile in una sigla. In sintesi, se la sigla ben delinea alcuni elementi per comunanza, sicuramente non definisce gli appartenenti. Possono esserci percorsi formativi interrotti o anche addirittura assenti, ma ogni persona fa emergere un mondo a parte». In Ticino si quantificano circa 5 mila giovani che non lavorano, non studiano e non si formano. Una parte di loro si nasconde fra le pieghe dei percorsi formativi, in particolare tra giovani che concludono le scuole medie, con o senza licenza.
Con il progetto GO95 la Divisione della formazione professionale contatta i giovani fra i 15 e i 18 anni che non seguono nessuna attività formativa Una riforma importante, entrata in vigore nel cantone nel settembre dello scorso anno, riguarda l’introduzione dell’obbligo formativo fino a 18 anni. Non si tratta di un obbligo scolastico stretto e non comporta necessariamente la frequenza di una scuola – afferma il Dipartimento Educazione Cultura e Sport (Decs) – ma prevede che ogni giovane abbia un progetto formativo concreto, adeguato alle sue capacità e interessi. Oggi l’88% dei venticinquenni consegue un simile diploma, la sfida è di raggiungere il 95%, come indicato dalla Confederazione. Per realizzare «Obiettivo 95» è stato lanciato il progetto GO95, coordinato dalla Divisione della formazione professionale, che si occupa di contattare i giovani fra i 15 e i 18 anni che risultano non seguire nessuna attività formativa per aiutarli a costruire il proprio progetto. «Il bilancio è sicuramente positivo, – spiega Tatiana Lurati Grassi, capa dell’Ufficio della formazione continua e dell’innovazione – abbiamo contattato circa 1700 giovani in un anno, 204 hanno beneficiato di un accompagnamento da parte del servizio GO95 nell’anno scolastico scorso e ad oggi 81 di loro hanno trovato una collocazione per questo anno scolastico. In generale abbiamo rilevato che tre quarti delle persone contattate aveva un progetto forma-
tivo in corso. Positiva è anche la collaborazione con i genitori dei giovani seguiti dal servizio, i quali sono invitati al primo colloquio e con i quali si rimane in contatto. Sono principalmente persone che hanno bisogno di rivalutare il loro progetto formativo o che necessitano di un supporto, per inserirsi nuovamente in un percorso di formazione duale o a tempo pieno. Ai nostri occhi, coloro che collaborano attivamente con il servizio GO95 e stanno intraprendendo gli sforzi necessari per trovare una soluzione non rientrano nella categoria NEET. Parliamo piuttosto di giovani che attraversano un periodo di transizione ma che si stanno adoperando per raggiungere il loro obiettivo di rientrare nel mondo della formazione». Dal vostro punto di vista, chiediamo al vicedirettore di Caritas, quali sono le cause che portano i giovani a non studiare e a non lavorare? «Uno è il disorientamento rispetto alle ipotesi future, alle attese proprie e altrui, alle attese di una società che preimposta in modo forse rigido le traiettorie professionali, performanti e competitive, e anche personali fin dai primi momenti formativi. Chi fa fatica, chi non si ritrova o chi mette in dubbio un percorso dato, quando va bene non viene semplicemente capito, altrimenti viene additato come un elemento problematico. Questo però possiamo tranquillamente allargarlo anche a tante altre persone di altre età e magari inserite nel mondo del lavoro, che faticano altrettanto a capire i momenti di transizione professionale o personale e che “rallentano”, e per forza centrifuga vengono allontanati. Quali “marginalità” si aprono così, quali e quante “periferie” dove smarrimento e solitudine diventano i compagni del quotidiano?». Il progetto GO95 ha un impatto positivo soprattutto per i giovani che si perdono per strada dopo la scuola media o che faticano a scegliere un posto di lavoro o di formazione. C’è però una parte non indifferente di giovani disillusi che non riesce a dare uno scopo al proprio futuro. «Infatti, – ci dice Tatiana Lurati Grassi – una piccola parte delle persone seguite presenta delle problematiche multiple che interferiscono nelle sfere della vita privata, sociale, familiare, scolastica e che
rendono difficile l’elaborazione di un progetto a carattere formativo. Cerchiamo dunque di sostenere i giovani nel mettersi in contatto con figure professionali specializzate che possano aiutarli nel superare queste difficoltà personali, le quali rappresentano un ostacolo verso l’inserimento nella formazione. A ogni modo, non c’è un profilo unico per tutti i giovani seguiti dal servizio». Come si può contrastare il fenomeno dei NEET? «Viste le premesse, rimane difficile ipotizzare una ricetta che sia efficiente e adeguata. – sottolinea Stefano Frisoli – Si può però aprire una riflessione che cominci a tratteggiare un percorso possibile. L’incontro come primo passo. Luoghi e tempi si possono discutere, ma penso sia necessario che questi ragazzi vadano incontrati e forse anche cercati. In questa direzione molto interessante va il lavoro del Decs con il progetto GO95. Quindi l’incontro inteso come spazio di ascolto anche attraverso strumenti che possano parlare il linguaggio dei NEET. Molti di loro sono nativi digitali. Questo aspetto attraversa spesso le loro vite. Come Caritas Ticino abbiamo lavorato con un progetto formativo nell’ambito digitale puntando sulle competenze web e video con un gruppo di giovani under 30 con molte attinenze a questa tipologia di persone. Il percorso utilizzava la tecnica del video, come primo elemento di aggancio. Ma poi? Probabilmente l’ascolto genera ipotesi e progettualità, magari accompagnando il percorso. È chiaro che non si può immaginare per queste persone un modo parallelo disegnato a loro misura, non vale per loro come per tutti noi, ma le istanze e i desideri raccontano anche di immaginari personali che possono cambiare gli immaginari collettivi». La galassia dei NEET è fatta di tante storie diverse e quindi è bene non semplificare e generalizzare. Negli ultimi venti anni in Svizzera il tasso di NEET rilevato dalle statistiche (sempre indicative) si aggira costantemente attorno al 7% della popolazione giovanile. Un dato che rivela un probabile aspetto fisiologico. Però, attenzione, in Ticino, 900 giovani tra i 18 e i 25 anni – un ragazzo su trenta – beneficiano dell’assistenza sociale.
Sonno, sogni e film Rassegna ◆ La seconda edizione di «NotturnaMente», grandi film presentati da chi studia il cervello
Il cinema è un’arte privilegiata per sondare la coscienza umana, indagare la nostra mente, suscitare emozioni, paure, riflessioni, domande, sempre in bilico tra la finzione e la realtà. Ma non solo, i film si prestano anche all’esplorazione di temi centrali del nostro essere quali il sonno e i sogni. Ed è quello che ci propone NotturnaMente, la rassegna Cervello&Cinema con la sua seconda edizione in programma il 7-14-21 novembre alla Lux Art House di Massagno. Tre serate, tre film e altrettanti ospiti che li commentano creando un ponte tra cinema e neuroscienze. La rassegna è organizzata da BrainCircle Lugano, associazione creata nel 2019 per divulgare le neuroscienze rendendole accessibili al grande pubblico senza rinunciare al rigore scientifico. Tra i suoi altri scopi troviamo anche quello di avvicinare i giovani alla ricerca promuovendo un approccio multidisciplinare oltre che presentare ricerche innovative stimolando riflessioni sul loro impatto etico nella vita quotidiana. In questa seconda edizione NotturnaMente esplorerà i confini fra sonno e veglia, cercando di capire che cosa succede quando dormiamo. Questa sera, 7 novembre, Luigi Ferini Stram-
Ben Stiller interprete e regista de I sogni segreti di Walter Mitty.
bi, direttore del Centro dei disturbi del sonno dell’Ospedale San Raffaele di Milano, spiegherà perché dormiamo, a che cosa serve il sonno e come curare i disturbi dell’insonnia, temi affrontati attraverso la proiezione del film I sogni segreti di Walter Mitty. Settimana prossima, il 14 novembre, si parlerà di sogni: perché sogniamo? Cosa ci dicono i sogni? Cosa possono dirci sulla coscienza? Con la proiezione del film di David Lynch Mulloholand drive lo psicanalista junghiano David Gerbi ci condurrà lungo la storia che dalla Bibbia arriva alla psicoanalisi e poi alle neuroscienze. Nell’ultima serata, il 21 novembre, la proiezione di Dragonfly, il segno della libellula offrirà lo spunto per parlare con il fisico Massimiliano Sassoli De’ Bianchi, direttore del Laboratorio di Autoricerca di Base a Lugano, di fenomeni al confine tra sonno e veglia, come i sogni premonitori e le esperienze di premorte. Dove e quando Cervello & Cinema NotturnaMente. Sonno, sogni e coscienza, Lux Art House, Massagno, 7-14-21 novembre, ore 19.00 www.braicirclelugano.ch
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Anno LXXXV 7 novembre 2022
Settimanale di informazione e cultura
azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ
Tutti per uno, uno per tutti
Il dottor Andreas Cerny e l’infermiera Jessica. (Stefano Spinelli)
Medicina ◆ Il coordinamento delle cure: aspetto prioritario di Sanità 20-30 per implementarne l’efficacia e contenere i costi Maria Grazia Buletti
Pazienti sempre più informati che richiedono terapie, esami diagnostici e pareri alternativi; modelli assicurativi che allentano la centralità del medico di famiglia; invecchiamento della popolazione che rischia di guidare i pazienti attraverso percorsi terapeutici articolati e spesso poco efficaci, con sprechi e costi inutili: è questo il tema che affronta nell’edizione 2022 la Piattaforma Epatocentro di discussione dell’eccellenza e della sostenibilità del sistema sanitario. «Cure coordinate: una via per una medicina più efficace e sostenibile?» è l’assunto dell’evento, e relativa tavola rotonda, promosso da Fondazione Epatocentro Ticino, USI ed EOC presso l’Aula polivalente del Campus Est USI-SUPSI il 15 novembre dalle 17.00. «È un appuntamento importante aperto agli addetti ai lavori come pure a tutta la popolazione, che potrà incontrare e interagire con i diversi relatori protagonisti della sanità ticinese chiamati a portare il proprio punto di vista su questo argomento più che attuale». A parlare è il direttore dell’Epatocentro Ticino Andreas Cerny, con il quale approfondiamo gli aspetti salienti di quella che è una delle priorità della strategia di politica sanitaria 2020-2030 del Consiglio federale: la ricerca di modelli di cura incentrati sulle esigenze del paziente e sugli specialisti in grado di prendersene cura
lungo un percorso terapeutico razionalizzato, tanto efficace quanto privo di sprechi economici e in termini di tempo – poiché, come dice Cerny, «un paziente curato adeguatamente potrà rientrare in famiglia, al lavoro e in società in tempi più brevi, con una migliore qualità di vita che, anch’essa, non andrà a pesare sulla sanità». Tutto ruota attorno a un ventaglio di concetti di cui si sentirà parlare sempre di più, così riassunti dal professor Cerny: «Bisogna rivalutare l’importanza del ruolo del medico di famiglia e favorire quella fiducia reciproca col paziente che in tal modo si affida alle sue competenze e alla coordinazione condivisa delle cure; è importante migliorare l’interfaccia tra i due elementi importanti della sanità come l’assicurazione malattia e l’accesso alle cure ragionato e coordinato, a fronte di un freno ai costi; non va trascurata la tendenza all’invecchiamento della popolazione che ci mette di fronte a una presa a carico interdisciplinare che necessita anch’essa una coordinazione individualizzata, a beneficio del paziente stesso. Anche in questo caso, il ruolo del medico di famiglia rimane quello del regista che conosce bene il proprio paziente e collabora con il geriatra e altre figure sanitarie per i problemi specifici dell’anziano». Per quanto attiene alla terza età, un esempio concreto è dato da Pro Se-
nectute Zurigo con CareNet+, progetto del Centro zurighese di coordinamento per la salute e per gli affari sociali che così lo illustra: «Unico nel suo genere in Svizzera, esso si rivolge a persone con oltre 60 anni che si trovano in situazioni complesse attraverso il coordinamento mirato e le misure definite con tutti gli attori coinvolti nel caso individuale, in modo da fornire le giuste cure evitando duplicazioni nella fornitura di servizi e riducendo gli oneri amministrativi». Secondo il professor Cerny, in buona sostanza, «la chiave del successo delle “cure coordinate” risiede nella cooperazione tra tutti gli attori del sistema sanitario, con il paziente al centro e attorno a lui tutti gli attori sanitari fornitori di prestazioni. Medici, Spitex, ospedali, case di cura, terapeuti, infermieri indipendenti, farmacisti e sostenitori dei costi (autorità, assicurazioni malattia) devono adoperarsi per garantire il coordinamento ottimale del trattamento e dell’assistenza del paziente lungo tutto il suo percorso terapeutico». Con questo approccio interdisciplinare e ragionato, i principali vantaggi per il paziente sono molteplici e il nostro interlocutore ce li mostra con l’esempio di un modello ticinese di «cure coordinate» che, spiega, non esiste in altri cantoni e riguarda la collaborazione fra INGRADO e l’Epatocentro Ticino, uniti per individuare e prende-
re a carico le persone con problemi di dipendenze da sostanze o alcol la cui presa a carico risultava per lo più frammentata e incompleta: «Fino ad oggi non erano sempre seguite dal medico di famiglia perché non vi si recavano; qualche volta arrivavano al Pronto Soccorso in una situazione acuta; qualcuno veniva segnalato dalla polizia per un’infrazione automobilistica, problemi di aggressività in famiglia e via dicendo». Il riferimento è a persone con problemi di salute che possono aggravarsi fino alla cirrosi epatica o necessitare di un trapianto di fegato. In buona sostanza: «Parliamo di persone che spesso non venivano individuate e, di conseguenza, non erano prese adeguatamente a carico in modo personalizzato e completo, mentre oggi esse ci sono segnalate direttamente da INGRADO con l’ausilio di un nostro medico specialista in dipendenze, il dottor Alberto Moriggia, che coordina i rapporti tra l’assistenza sanitaria, psichiatrica, gli assistenti sociali e le strutture sul territorio per una presa a carico efficace e corretta dei pazienti
con dipendenze da oppiacei, farmaci, alcol e via dicendo». La collaborazione fra INGRADO ed Epatocentro Ticino fa sì che siano individuate precocemente anche quelle persone che non andrebbero a farsi curare dal proprio medico di famiglia: «Sono persone che in tal modo possono essere assistite anche per la parte somatica, pazienti che spesso hanno problemi di epatite B e C dovuta all’uso di droghe, o di fegato a causa dell’alcol». Infatti, dal 2014 questo sistema di cure coordinate ha dimostrato la propria efficacia nella cura dell’epatite C nell’ambito della cura delle dipendenze: «Si è dimostrata all’avanguardia nella cura dell’epatite C grazie a questa medicalizzazione della presa a carico delle dipendenze». Oggi, questo modello di cure coordinate si è consolidato grazie alle antenne di INGRADO e a quelle dell’Epatocentro Ticino: «Siamo come sensori sul territorio dove captiamo i pazienti con problemi di dipendenze seguiti in prima regia da diversi medici attivi sulla doppia interfaccia Epatocentro o INGRADO». Annuncio pubblicitario
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SOCIETÀ
Il potenziale inutilizzato del calore solare Energia
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Lo studio SolTherm2050 indica i futuri campi di applicazione dei collettori solari nel nostro Paese
Benedikt Vogel
La produzione diretta di acqua calda dall’energia solare (calore solare o solare termico) potrebbe essere molto più diffusa in Svizzera di quanto non sia oggi. Invece, il calore solare sta lottando duramente per competere con la produzione di energia solare (fotovoltaico) che sta vivendo un vero e proprio boom. Uno studio condotto da diversi istituti di ricerca svizzeri ha ora evidenziato quale ruolo potrebbe avere in futuro il solare termico e in che modo sarebbe possibile promuoverne l’espansione. Secondo la «Statistica dell’energia solare» per il 2021, i nuovi impianti fotovoltaici sono aumentati del 43% rispetto all’anno precedente, raggiungendo un nuovo record. Le cose vanno diversamente nel settore del calore solare, che registra da dieci anni un calo delle vendite di nuovi collettori solari. Secondo l’associazione di categoria Swissolar, «i motivi per questo calo sono, tra l’altro, la predominanza delle pompe di calore nei nuovi edifici e nelle ristrutturazioni, solitamente abbinate a un impianto fotovoltaico». Il solare termico ha pertanto ancora un enorme potenziale in Svizzera. Nel 2019, meno dell’1% del fabbisogno di calore era soddisfatto dal calore solare. Secondo le stime degli esperti, i collettori solari potrebbero coprire circa il 20% della domanda di calore.
La rete di riscaldamento di Schüpfen (BE) è una delle poche in Svizzera che sfrutta il calore solare per una rete di riscaldamento. (Wärmeverbund Lyssbach Schüpfen AG)
Nel 2019 meno dell’1% del fabbisogno di calore era soddisfatto dal calore solare, secondo gli esperti si potrebbe arrivare al 20% In questo contesto, uno studio commissionato dall’Ufficio federale dell’Energia ha esaminato le prospettive del solare termico e si è chiesto quali ostacoli dovrebbero essere rimossi per dare nuovo slancio a questa forma di produzione di energia in Svizzera. Nello studio, dal nome abbreviato «SolTherm2050», sono state coinvolte le scuole universitarie professionali HSLU di Horw (LU) e OST di Rapperswil (SG), inoltre hanno partecipato il Politecnico federale di Zurigo (ETHZ), la società di consulenza EBP e l’associazione di categoria Swissolar. Gli scienziati che hanno lavorato a questo studio sono convinti che il calore solare abbia un futuro: «Il calore solare rientra in un concetto di sistema energetico decarbonizzato che in Svizzera rappresenta una scelta conveniente sul piano dei costi. Può contribuire ogni anno con 5-10 TWh all’approvvigionamento di calore del Paese», affermano gli autori nella relazione finale sul progetto. Il vantaggio del calore solare deriva già da una considerazione puramente economica, come hanno dimostrato i calcoli nell’ambito della ricerca. Nello studio SolTherm2050 è stato utilizzato il modello di sistema energetico «Swiss Energyscope» del Politecnico di Zurigo. Il modello presenta i costi complessivi d’investimento e di gestione del sistema energetico svizzero in base alle fonti energetiche utilizzate. I ricercatori hanno dimostrato che i costi di sistema su base annua aumentano di una cifra compresa tra 200 e 400 milioni di franchi se non viene usato il calore solare. In questo contesto, è opportuno puntare sul solare termico per quei campi di applicazione particolarmente redditizi, sottolinea il team di autori di «SolTherm2050».
Il calore industriale è un campo di applicazione dell’energia solare termica che presenta un grande potenziale di sviluppo. Figura: Emmi è un’azienda svizzera di trasformazione del latte che utilizza l’acqua industriale riscaldata da energia solare termica per pulire le macchine di produzione. (Emmi)
Attualmente, il solare termico viene utilizzato in Svizzera principalmente negli edifici residenziali, di solito per l’acqua calda, a volte anche per il riscaldamento. Secondo gli autori, il calore solare perderà terreno nel medio termine proprio in que-
ste due aree: «Acquisteranno sempre più importanza impianti solari termici in abbinamento a un sistema di accumulo stagionale, ma anche impianti a supporto di reti di riscaldamento o per la generazione di calore industriale (temperature comprese tra 80 e
150 °C) e, nel lungo termine, per applicazioni abbinate all’aria condizionata». Nei prossimi decenni, questa tecnologia svolgerà il ruolo di «tecnologia-ponte» verso l’obiettivo delle emissioni nette pari a zero entro il 2050, quando la Svizzera non dovrà
Le raccomandazioni dello studio Con costi di produzione compresi tra 5 e 20 ct./kWh, il solare termico può competere a pieno titolo con altre tecnologie per la produzione di acqua calda e riscaldamento. Ciò nonostante, il calore solare si trova attualmente in una posizione difficile. Lo studio SolTherm2050 ha formulato una serie di raccomandazioni per aumentare l’utilizzo del solare termico. Segue un elenco in forma abbreviata di tali raccomandazioni: • Formazione e informazioni su sistemi combinati con pompe di calore, in cui il solare termico viene utilizzato per rigenerare le sonde geotermiche o accumulatori di ghiaccio • Impiego di sistemi di riscaldamento standardizzati basati su calore solare/ legno o calore solare/biogas, ad esempio all’interno di edifici esistenti per i quali l’utilizzo di una pompa di calore sarebbe complicato
• Promozione decisa e consolidamento all’interno del settore del riscaldamento di sistemi per utilizzare il calore solare per generare calore industriale. • Promozione di sistemi per l’utilizzo del calore solare nelle reti di riscaldamento attraverso esempi best practice • Corsi di formazione e aggiornamento professionale, ad esempio per progettisti nei nuovi segmenti di mercato Calore industriale e Reti di riscaldamento, ma anche per installatori di impianti solari termici, per rimediare alla carenza di personale qualificato • Supporto alla digitalizzazione del solare termico a livello di pianificazione e gestione, anche attraverso la formazione continua • Ricerca e sviluppo devono fornire gli strumenti affinché il solare termico possa progredire sul piano tecnologico e diventare più conveniente sul piano dei costi; le aree di sviluppo
comprendono la tecnologia dei collettori (in particolare i moduli PVT per la generazione combinata di acqua calda ed elettricità), accumulatori termici (inclusi accumulatori di ghiaccio), la rigenerazione delle sonde geotermiche e soluzioni di sistema per il calore industriale • Realizzazione di progetti di dimostrazione con impianti solari termici su larga scala per reti di riscaldamento • Promozione del solare termico attraverso adeguate disposizioni di legge e adeguati finanziamenti: ad esempio, l’obbligo di utilizzare energie rinnovabili nelle nuove costruzioni deve prevedere soluzioni equiparate per il solare termico e il fotovoltaico. Devono essere inoltre fornite norme comuni relative alla rigenerazione delle sonde geotermiche. L’uso dell’energia solare al di fuori delle zone edificabili deve essere consentito.
emettere gas serra in quantità maggiori rispetto a quelle assorbibili da sistemi di stoccaggio naturali e tecnici. Il team dello studio SolTherm2050 considera il calore solare come una tecnologia preziosa nel momento in cui consente di risparmiare risorse scarsamente disponibili come il legno, l’elettricità invernale o il calore delle sonde geotermiche: il legno è un ottimo accumulatore di energia. Bruciarlo in estate riduce le scorte già esigue e ne fa aumentare il prezzo. Se le sonde geotermiche sono eccessivamente sfruttate, perdono efficienza durante l’inverno con un conseguente aumento dei consumi elettrici. Secondo gli scienziati coinvolti nello studio, le ottime rese estive del calore solare aiutano a contenere i prezzi dell’energia intorno a 5-10 centesimi per kilowattora (in base alle dimensioni dell’impianto). Il solare termico riduce il rischio di costo per i proprietari degli impianti e la pressione dei prezzi nel settore energetico, a condizione che il volume del mercato sia sostanziale. Lo studio individua un interessante ambito di applicazione per il calore solare nella rigenerazione delle sonde geotermiche. La forte espansione delle pompe di calore determina in molti casi un’estrazione consistente di calore dal terreno in cui sono installate le sonde geotermiche. Nel medio termine, ciò determina un raffreddamento della temperatura del suolo e riduce la resa termica disponibile o aumenta il consumo di energia delle pompe di calore, che hanno bisogno di più elettricità quanto più la temperatura della sorgente è bassa. Tali effetti sono particolarmente negativi in inverno, in quanto aggravano la carenza di energia elettrica invernale più volte lamentata. Per contrastare questo fenomeno, il terreno può essere rigenerato aggiungendo calore, ad esempio riscaldando il terreno attorno alle sonde geotermiche in estate con collettori solari. Oltre al preriscaldamento dell’acqua, il solare termico si dimostra vantaggioso in diversi campi di applicazione grazie a elevati rendimenti annuali (a volte oltre 800 kWh/ m 2). Per sfruttare al meglio questa fonte di ricchezza energetica rinnovabile, gli autori dello studio SolTherm2050 hanno elaborato delle raccomandazioni per l’industria del riscaldamento, la ricerca e la politica (v. riquadro). Informazioni La relazione finale del progetto «SolTherm2050 – Chancen durch Solarwärme und thermische Energiespeicher für das Energiesystem Schweiz 2050» è disponibile all’indirizzo: https://www.aramis.admin. ch/Texte/?ProjectID=45277 Per informazioni sul progetto è possibile rivolgersi al Dr. Stephan A. Mathez (stephan.a.mathez[at] solarcampus.ch), responsabile esterno del programma di ricerca Calore solare e accumulo di calore dell’UFE. Altri articoli specialistici su progetti di ricerca, progetti pilota, di dimostrazione e faro in materia di Calore solare e accumulo di calore sono disponibili all’indirizzo https://www.bfe.admin.ch/bfe/ it/home/ricerca-e-cleantech/ programmi-di-ricerca/caloresolare-e-accumulo-di-calore.html
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 7 novembre 2022
TEMPO LIBERO Un tuffo nella storia di Vienna Ognuno dei suoi 23 distretti ha origini e particolarità diverse, costruite nei secoli
Il vino ai tempi di Flagstaff Persa la Guascogna nella guerra dei 100 anni, l’Inghilterra importò vino dalla Spagna e dal Portogallo
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Quel che piace e come piace Allan Bay ci parla delle sue preferenze in cucina, che ammiccano alla modernità
Crea con noi Un calendario dell’Avvento ispirato alla casetta di panpepato per aspettare il Natale
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La poesia dei giocattoli senza tempo Passatempi
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Questa settimana torniamo a parlare di oggetti ludici, più precisamente di cataloghi a loro dedicati
Sebastiano Caroni
Un tempo, quando Amazon non c’era ancora, per ammazzare il tempo gli adulti potevano prendere in mano uno di quei voluminosi cataloghi dei grandi magazzini, anche solo per sfogliarlo distrattamente. E se eravamo bambini, potevamo esercitare la nostra attenzione sui meno voluminosi, ma non meno accattivanti, cataloghi dei giocattoli. Per molti, ancora oggi, il catalogo dei giocattoli evoca l’infanzia. Quel catalogo era, allora, risorsa preziosissima sotto più punti di vista. Ci permetteva di rivivere le emozioni sperimentate quanto, girando fra gli scaffali del negozio, potevamo osservare i giochi che meglio rispondevano ai nostri desideri, e ai limiti finanziari imposti dai genitori. I cataloghi dei giocattoli ci permettevano poi di ritrovare in modo ordinato e puntuale proprio quegli articoli che, durante la nostra visita, avevano solleticato il nostro interesse; e magari ne scoprivamo altri che inizialmente ci erano sfuggiti. Perché in fondo che cos’è un catalogo, se non un modo per rappresentare sulla pagina l’ordine che gli oggetti occupano nello spazio? Ecco
che allora, grazie al prezioso libricino, valutavamo in tutta tranquillità i pregi e difetti delle nostre scelte future. Da bambini, giochi e giocattoli abitavano in modo significativo il nostro tempo libero. Spesso si accompagnavano al piacere di stare all’aria aperta, e si accordavano alle lunghe giornate di sole. Altre volte, invece, erano più consoni alle giornate invernali e al tepore di un salotto o di una cameretta. In un caso come nell’altro, i giochi ci permettevano di imprimere delle geometrie alla nostra quotidianità, di creare delle oasi di libertà in cui rincorrere la fantasia. Poi, fatalmente, con il passare degli anni, le attività ludiche si sono trasformate. Alcuni giochi si sono mantenuti; altri, invece, mentre ci facevamo grandi si sono ritirati nello spazio ombreggiato del ricordo. Forse è proprio per questo che, ancora oggi, alcuni giochi conservano intatto, nella nostra memoria, il sapore indelebile dell’infanzia, di quel tempo sospeso fatto di sfide e di scoperte, di avventure e di condivisioni. Ci sono giocattoli che, mai vera-
mente dimenticati, restano in attesa di essere rispolverati da uno sguardo a ritroso. Come quando, dopo anni, ci ritroviamo nella penombra di una polverosa soffitta. A questo proposito, Il catalogo dei giocattoli di Sandra Petrignani, libro pubblicato nel 1988, evoca il nesso fra lo spirito dell’infanzia e la popolarità di certi giochi, e produce esattamente lo stesso effetto di una visita in soffitta: permette cioè di riconquistare un po’ di quella magia dell’infanzia, risvegliando dal sonno i giocattoli che meglio rappresentano quel periodo della nostra vita. Ma attenzione: quello della Petrignano non è solo un semplice catalogo. È un vero e proprio abbecedario dei giocattoli, dalle cui pagine trasuda una sensibilità ben diversa rispetto a quella del catalogo di cui si diceva sopra. Lontana da intenti commerciali, con il linguaggio tanto semplice e evocativo tipico della buona letteratura, l’autrice piacentina ci restituisce la poesia di alcuni giochi che resistono al trascorrere del tempo, e al succedersi delle generazioni. Ad aprire il volume è l’altalena, di
cui la Petrignani fornisce una descrizione precisa e coinvolgente. Si noti pure, nei passi finali, il ritmo delle parole, che ripropone il movimento caratteristico dell’altalena: «Una tavoletta di legno liscio che accarezzava tiepida le cosce. Una corda spessa che attraversava i due fori laterali e si legava al ramo del fico o a un’asse della pergola. Le mani strette alle due cime alla fine dolevano da doverle tenere aperte e soffiarci su. Più forte, per vedere avvicinarsi il cielo. Più in alto, lontani dalla terra. In avanti: cielo. Indietro: terra». Inoltrandoci fra le pagine dell’appassionante volumetto, scopriamo come anche una lavagna nera, oggetto scolastico per antonomasia, poteva diventare un gioco dopo avere subito una trasformazione che la consegna a degli usi, diciamo così, poco ortodossi: «Sulla lavagna di casa si facevano disegni osceni da cancellare subito dopo averli mostrati alle sorelle e ai fratelli piccoli». Tanto che, quasi a sottolineare la valenza di rottura e opposizione rispetto alla scuola, la scrittrice conclude: «Mai che una di queste lavagne fosse servita a studia-
re. Troppo anguste per le operazioni, troppo labili per i pensieri». Nel libro della Petrignani troviamo anche giochi, come il monopattino, che proprio in tempi recenti hanno vissuto una seconda vita, e oggi godono di una popolarità mai conosciuta prima. E scopriamo che per padroneggiare il mezzo bisognava vincere la paura iniziale, al fine di superare una vera e propria prova di coraggio: «Instabilità. Il piede timidamente s’appoggia all’asse orizzontale, mentre le mani stringono il manubrio. L’altra gamba dovrebbe spingere, ma non ce la fa. Trema, s’increspa, inciampa. (…) È un momento di coraggio, iniziale, e poi la paura diventa ridicola, la gamba che pesava leggera, il corpo tutt’uno con lo slancio della velocità». Il volumetto della Petrignani, di cui consigliamo la lettura, è un gradito viaggio a ritroso nel tempo, dal quale però si torna con un po’ di quella saggezza infantile che, troppo spesso, manca a noi adulti. Bibliografia Sandra Petrignani, Il catalogo dei giocattoli (Neri Pozza, Vicenza).
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Disturbi del sonno? Ecco cosa aiuta davvero
In Svizzera, una buona parte della popolazione soffre di disturbi del sonno. Sono molti i medicinali che promettono una soluzione, ma è importante scegliere quello giusto. Per contrastare il problema sul lungo periodo, infatti, le persone affette da disturbi del sonno devono affidarsi a un farmaco adatto e ben tollerato. A tale scopo, sono disponibili in commercio farmaci a base di sostanze vegetali come Baldriparan – Per la notte. E questo è solo uno dei motivi per cui già diverse persone in farmacia chiedono di Baldriparan, disponibile senza ricetta.
Aiuto comprovato in caso di disturbi del sonno
Da lungo tempo, ai farmaci fitoterapeutici a base di valeriana è stato
attribuito un effetto positivo contro i disturbi del sonno. In simili medicinali è la quantità di questo principio attivo a fare la differenza. Baldriparan contiene un pregiato estratto di radice di valeriana, il cui supporto in caso di disturbi del sonno è stato comprovato. Questo estratto favorisce inoltre il sonno.
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Un riposo rigenerante è alla base di buone capacità fisiche e mentali. Chi dorme bene, il giorno dopo si sente più in forma e riposato. Per raggiungere questa condizione è necessario che la fase di sonno profondo sia lunga a sufficienza. La par-
ticolarità di Baldriparan consiste nel mantenere il ciclo naturale del sonno e nel preservare la fase di sonno
profondo. In questo modo, questo farmaco a base di sostanze vegetali permette di iniziare la giornata ben riposati. Un altro consiglio: la calma e il rilassamento aiutano il tuo corpo a prepararsi al sonno.
L'estratto di valeriana contenuto in Baldriparan favorisce il sonno preserva la fase di sonno profondo Biglietto per la farmacia:
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TEMPO LIBERO
Vienna, tra storia e curiosità
Reportage
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La capitale dell’Austria conta 23 distretti, ognuno con le sue particolarità e la sua storia
Simona Dalla Valle, testo e foto
Freud, Klimt, la Belle Époque, Hofburg e Schönbrunn… Se si pensa a Vienna, le prime cose che vengono in mente sono le bellezze artistiche e architettoniche della città, così come l’avvento della psicoanalisi. Ma cosa si può dire della Vienna del ventunesimo secolo? Innanzitutto bisogna prestare attenzione ai numeri: la capitale austriaca occupa oggi una superficie di 415 kmq ed è suddivisa in 23 distretti, ognuno con una propria storia, i propri dialetti e i propri, immancabili, stereotipi. I viennesi si riferiscono ai quartieri, detti Bezirk, con i loro nomi o i numeri che li contraddistinguono.
A lato, la Michaelerplatz, con le tradizionali carrozze di cavalli. In verticale, la galleria nell’ex palazzo OrsiniRosenberg, primo distretto. Sotto, a sinistra un edificio storico nel 22. distretto oggi adibito a co-working, a destra il moderno quartiere residenziale dietro la stazione ferroviaria centrale.
La Ringstrasse racchiude il nucleo originario di Vienna, nel Medio Evo con una cinta muraria, oggi con commerci e hotel di lusso Il primo distretto è la parte originaria di Vienna, in epoca medievale racchiusa da una cinta muraria e oggi da una cinta commerciale di negozi e hotel di lusso: la Ringstrasse. Ancora oggi, quando i viennesi parlano di andare in città, intendono soprattutto il 1. distretto. Si mormora tuttavia che di viennesi, qui, non ne esistano: ci sono solo turisti. A partire dal XV secolo si formarono insediamenti anche al di fuori delle mura. All’irrompere dei turchi nel 1529, i sobborghi medievali furono bruciati per non dare copertura al nemico e nel 1704, nella zona dell’attuale Gürtel – la cintura, l’arteria stradale più trafficata della capitale austriaca – fu costruito un Linienwall, un muro di protezione il cui nome indica sia una fortificazione militare, sia un confine economico e fiscale. Nel XVII secolo, la totalità degli ebrei fu espulsa dalla Judenplatz e segregata nel Karmeliterviertel. Di conseguenza il secondo distretto, Leopoldstadt, chiamato così in omaggio all’imperatore Leopoldo I, e specialmente il Karmeliterviertel, divennero il cuore della comunità ebraica, con panetterie e negozi di cibo kosher. Il muro del ghetto ebraico, di cui si possono ancora osservare alcuni resti all’altezza di Tandelmarktgasse 8, lo separava dall’ex monastero carmelitano ed è tuttora segnalato come monumento storico. Che cosa c’è nel terzo Bezirk? Ambasciate, palazzi, il Belvedere e la Hundertwasserhaus, progettata dal controverso architetto viennese Hundertwasser, che curò anche il design dell’inceneritore di Spittelau, nel nono distretto. Il politecnico (Technische Universität), Karlsplatz e Naschmarkt si trovano alle estremità del quarto, il distretto di Wieden, e sono responsabili di una grande e vivace vita studentesca. A proposito, per non risultare irrimediabilmente Zuagroster (slang locale per straniero) non si deve mai dire di vivere in Wieden, ma auf der, e dunque sulla Wieden! Il quinto Bezirk è il multiculturale Margareten. Ricco di ristoranti turchi e supermercati asiatici, il distretto, delimitato a nord dalla Gürtel, è ricco di sorgenti sotterranee. La corte imperiale nel 1562 fu la prima a ricevere il proprio approvvigionamento idrico attraverso la Siebenbrunner Hofwasserleitung, costruita per ordine dell’imperatore Ferdinando I. L’acqua era raccolta in sette pozzi e convogliata in tubi di ghisa in un serbatoio sotto l’Augusti-
nerbastei, e da qui era convogliata fino a Hofburg. A partire dal 1829, l’uso dell’acqua fu condiviso con i cittadini e oggi le Siebenbrunnen (sette sorgenti) sono rappresentate in una fontana al centro della Siebenbrunnenplatz.
Mariahilf e Neubau, rispettivamente 6. e 7. Bezirk, sono i nuovi quartieri creativi e bohémien di Vienna. L’area intorno a Neubaugasse, Zollergasse e Kirchengasse è ricca di negozi di seconda mano, botteghe di artigianato e locali alla moda. Di fronte al Parlamento è possibile ammirare un esemplare di pesapersone a gettoni, ma a Vienna ce ne sono 150, ormai considerate parte del paesaggio urbano e tutte ancora in funzione. Nel 1888, in una mostra in occasione del 40° anniversario di regno dell’imperatore Francesco Giuseppe, furono presentate insieme agli ultimi prodotti dell’industria austriaca, un progresso impressionante per l’epoca. La pesapersone di Schember und Söhne era una delle prime macchine a moneta in Europa, costituita da un piedistallo collegato a un corpo metallico, con una fessura per le monete e un display con una scala in kg. La pesatura costava tre Kreuzer, poi dieci Groschen, poi uno Schilling, fino a quando il costo fu fissato a 20 centesimi di Euro.
Il numero di bilance pubbliche crebbe a dismisura nel periodo tra le guerre, ma presto la pesatura in pubblico iniziò a essere considerata un tabù e le aziende produttrici interruppero la produzione negli anni Settanta. L’8. e il 9. sono invece i quartieri borghesi della città vecchia, con i negozi tradizionali di Josefstädterstraße, l’appartamento di Sigmund Freud e la Strudelhofstiege, un’impressionante scala Art Nouveau. In autunno, molte insegne invitano a provare lo Sturm, che non ha nulla a che fare con una tempesta al contrario di quanto suggerito dal nome, ma è un vino novello tipico della zona, ancora in fermentazione e dunque con un contenuto di alcool tra 1 e 4%. I quartieri a due cifre si trovano al di là della Gürtel e comprendono quelli che anticamente erano villaggi separati, poi inghiottiti da Vienna nel corso della sua espansione. Il decimo è tradizionalmente un distretto di lavoratori e, se fosse una città separata, sarebbe la terza più popolata dell’Au-
stria. Con la costruzione della nuova Hauptbahnhof si è generata un’area residenziale e professionale interessante per gli appassionati di design moderno e architettura. I Balcani di Vienna, questo il soprannome del sedicesimo, sono un distretto multiculturale sempre più popolare fra studenti, artisti e giovani. Con bancarelle di cibo etnico e articoli da tutto il mondo, il Brunnenmarkt è diventato una zona trendy. Negli archi sotto la metropolitana lungo il Gürtel sono stati realizzati pub e locali, al centro della vita notturna di Vienna. Il 21. e 22. sono scherzosamente chiamati Transdanubien e da alcuni nemmeno considerati una parte di Vienna. In particolare, il ventiduesimo è un distretto eterogeneo, che comprende una parte residenziale, un centro finanziario ricco di grattacieli che ricorda quello di Canary Wharf a Londra e una zona boschiva al confine con la Niederösterreich, lo Stato federato che circonda la capitale.
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TEMPO LIBERO
Il vino nell’Inghilterra di Shakespeare Il vino nella storia
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Dopo la perdita della Guascogna nella Guerra dei 100 anni, gli inglesi andarono a rifornirsi in Spagna
Davide Comoli
Durante il regno di Elisabetta I (15581603), regina lungimirante che aveva tra l’altro promulgato lo Statuto degli Artigiani, primo contratto nominativo e salariale dei lavoratori, il vino nell’Inghilterra di quel tempo era un bene accessibile a tutti e lo si poteva trovare in grande quantità. Ma quali erano i vini prediletti dagli Inglesi? La perdita della Guascogna passata alla Francia al termine della lunga guerra dei Cent’anni nel 1453, (agli Inglesi rimane solo Calais) e la crescente predilezione dei figli d’Albione per i vini dolci, portò tra il XV e il XVI secolo un notevole squilibrio delle importazioni a favore dei vini provenienti dalla Spagna e dal Portogallo. Si dice che nel lontano inverno del 1587 non ci fosse taverna inglese dove non si vendesse vino proveniente da Cadice. Quell’anno, con un fulmineo attacco, Francis Drake (1542-1596) era piombato come un falco nel porto andaluso di Cadice, cogliendo di sorpresa gli esterrefatti spagnoli; aveva messo a ferro e fuoco la città prima di fuggire con più di 2900 botti di Sack (antenato del moderno Sherry), trovate sulla banchina, pronte per essere stivate sulle navi dell’Invincibile Armada, infatti così era chiamata la flotta spagnola che s’apprestava, in quel periodo di conflitto tra Elisabetta I e Filippo II re di Spagna, ad invadere l’Inghilterra. Ma quell’invasione non avvenne mai, infatti culminò in un grosso di-
sastro causato da una forte tempesta scatenatasi di fronte le coste normanne; fu un vero disastro, delle 420 navi spagnole solo 76 fecero ritorno in patria, correva l’anno 1588. Questo naturalmente portò una recessione del commercio fra i due paesi, ma senza alcun dubbio i secoli XVI e XVII portarono un grande incremento delle esportazioni di vino tra Spagna e Inghilterra. Un grande contributo alla conoscenza dei nomi dei vini che venivano allora bevuti nelle taverne londinesi emerge chiaramente dalla letteratura inglese di quel periodo e in particolare dalle opere teatrali del drammaturgo e poeta William Shakespeare (1564-1616). Nelle sue «sicure» 37 opere, il vino sorregge l’intelligenza e il coraggio, è considerato sorgente di conoscenza e sapere, è spesso associato al sangue e al fuoco ed il suo potere è rapido, è inoltre fonte di loquacità e suscita allegria. Alle volte il vino è usato male da personaggi non molto positivi come Lady Macbeth o Iago nell’Otello, oppure Claudio nell’Amleto, ma non è il vino che possiede caratteristiche infauste. Al posto d’onore tra i vini importati dalla Spagna, c’era appunto il Sack proveniente da Sanlúcar alla foce del Guadalquivir, dove gli inglesi avevano creato una piccola base commerciale, era da lì che il Sack prodotto nella vicina Jerez de la Frontera veniva imbarcato per l’Inghilterra. Oltre a questo vino sec-
co, ambrato e alle volte addolcito con il miele, venivano importati il Charneco proveniente da Colares in Portogallo nonché il Bastardo sempre portoghese e il Malmsey (Malvasia) proveniente dalle Canarie, descritto da Mistress Quickly in Le allegre comari di Windsor come «un vino meravigliosamente penetrante che profuma il sangue in un baleno». Nelle opere del grande drammaturgo, il bevitore per eccellenza è Sir John Falstaff, per questo personaggio il vino è ciò che rende il cervello tempestivo in ogni situazione, riempie il cuore di coraggio e dà un senso alla conoscenza delle cose e nell’Enrico IV dice: «Il sapere non è che un semplice mucchio d’oro tenuto da un diavolo finché una coppa di Sack non lo inaugura e gli dà vita e impiego». Ma a parer nostro la miglior definizione di questo vino la dà alla Garter Inn (locanda della Giarettiera) intorno alla quale ruota la commedia Le allegre comari di Windsor, ecco ciò che dice Falstaff: «Un buon bicchiere di vin di Spagna è sempre a doppio effetto: primo che mi sale al cervello, e lì prosciuga tutti i vapori, acri e grevi, della scemenza, e me lo rende appercettivo, pronto, sagace, vivo, forgiativo, pieno d’aereo fuoco e di estri dilettevoli: i quali, consegnati alla voce della lingua che gli dà l’aíre, diventano battute di spirito eccellenti. L’altro effetto del nostro prodigioso vin di Spagna è di scaldare il sangue: il quale prima infred-
Sir John Falstaff, in un dipinto di Eduard von Grützner del 1873. (Keystone)
dolito e stagno, lasciava pallidissimo il fegato: segno questo di meschinità e vigliaccheria. Riscaldato dal vino invece, il sangue prende la foga dall’interno alla periferia; illumina la faccia che come un fanale di segnalazione trasmette a tutto il resto del piccolo reame – l’uomo – l’ordine di armarsi; e allora la balda borghesia degli spiritelli interiori mi si schierano intorno al loro bravo capitano – il cuore –; il quale, gonfiato e lievitato da questo gran codazzo compie prodigi di prodezza; e tutto a gloria di quel vin di Spagna». E dopo aver citato le gagliarde bevute di intere cantine di Sack, che hanno fatto del Principe Righetto un
uomo valoroso, Falstaff conclude dicendo: «Se avessi un migliaio di figli il primo principio di buona umanità che, a uno a uno, vorrei ficcare a loro in testa, sarebbe quello di rifiutare le pozioni insulse per attaccarsi forte al vin di Spagna». L’immagine positiva di cui godeva il vino nelle opere di Shakespeare sotto il regno di Elisabetta I, assunse tinte fosche alla sua morte. Gli avvenimenti storici che sconvolsero il regno con il suo successore Giacomo I (figlio di M. Stuarda), portarono a drastici provvedimenti, aumentando tra l’altro il prezzo d’importazione del vino con la conseguente diminuzione del consumo. Annuncio pubblicitario
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TEMPO LIBERO
In cucina fra tradizione e modernità Gastronomia
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Ognuno ha piatti e preparazioni che considera simpatici o antipatici – L’autore ci parla delle sue preferenze
diavolerie che la scienza e la tecnica ci hanno messo a disposizione. Mentre l’arrostire, che nasce con la preda cotta allo spiedo dagli antenati, è una delle cottura più arcaiche che ci sono – il brasare viene dopo, dato che serve una pentola, uno strumento più «moderno». Però definiamolo esattamente. Arrostire vuol dire cuocere ad alto calore diretto, cioè è l’aria scaldata da un fuoco, una brace o quant’altro che cuoce l’ingrediente – quindi niente liquidi, ma al massimo pennellate di grassi, meglio se fuoriusciti dall’ingrediente che sta cuocendo – ma chi lo fa più? Può avvenire in un forno o allo spiedo, mentre se la cottura avviene in una casseruola sul fuoco, rosolando la carne, cosa che cambia molto, la rosolatura è importante, e poi aggiungendo grassi e poco altro, quella tecnica si chiama, brasare o più precisamente, cuocere in casseruola. Sia chiaro, a livello di gusto il risultato è simile, però in linea di massima la carne arrostita resterà comunque più stopposa rispetto a quella cotta in casseruola – e meno saporita, che in una casseruola metti quello che vuoi. Ovviamente si può arrostire qualunque cosa, però se diciamo «arrosto» intendiamo un pezzo di carne arrostito – già un pollo è un’altra cosa, per non parlare di un pesce: ma con gli altri ingredienti bisogna sempre anteporre ad arrosto un sostantivo come pollo, pesce ecc. E fra tutti i tagli, il più «arrostibile» è il controfiletto bovino, meglio se di bue rispetto a manzo o vitello. Il filetto, più nobile e caro, è troppo magro, mentre il controfiletto ha dei grassi interni che lo esaltano nella cottura arrosto. Ma se è comunque troppo magro, si può bardare con lardo e pancetta, oltre che i classici odori, e financo rosolarlo all’inizio… Alla faccia della tradizione!
Come si fa?
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Tutti noi abbiamo dei piatti e delle preparazioni che reputiamo «simpatici» mentre altri non ci piacciono, a prescindere. È solo un esempio, che reputo peraltro molto significativo, esemplarmente significativo. Tantissime persone, anche amici, anche cari, mi dicono: non mi piacciono le frattaglie. Io rispondo: ma quali non ti piacciono, quali hai assaggiato e non sono state di tuo gradimento? Le risposte sono sempre un po’ imbarazzate, ma sostanzialmente dicono: non le ho mai assaggiate. Quindi sarebbe più corretto dire: non le mangio perché mi sono antipatiche. È molto più onesto. Comunque simpatie e antipatie esistono per tutti, dato che siamo tutti umani e quindi fallibili. Io che dico sempre: a me piacciono tutti i piatti purché siano buoni, cosa verissima peraltro (ho assaggiato di tutto in vita mia, ma lamentandomi, a volte, solo per la cottura sbagliata, mai per l’ingrediente in sé), e da onnivoro poi mi intrigano più che mai cose nuove e «strane» perché sono curiosissimo. Comunque ho le mie preferenze, a parità di qualità. Che so, un riso per me batte qualunque altro cereale, un bue, ovvero un bovino di oltre 4 anni, batte qualsiasi tipo di carne, il black cod (carbonaro dell’Alaska) peraltro scoperto da pochi anni batte qualsiasi pesce e le ostriche battono pressoché tutto. Questo per gli ingredienti. Per le cotture ho un occhio di riguardo per quelle arrosto, ovvero cotte solo con pochi profumi; sia per quelle brasate, ovvero rosolate in una casseruola e poi cotte con un liquido e aromi vari. Il perché di questa mia passione non lo so, visto che in linea di massima un modernista come me non ama, fra moltissime virgolette, la cucina «di ieri», quella che io definisco senza frigorifero, mentre ama tutte le
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Allan Bay
Vediamo come si fa a cuocere l’arrosto di controfiletto in casa. Per 4 persone. Prendete 1 kg di controfiletto di bue (o di manzo, ma meglio il bue), tenetelo fuori dal frigorifero per alcune anzi molte ore.
Poi eliminate con grande cura tutte le parti nervose. In una pesante casseruola, molto meglio se di ghisa, sciogliete 1 abbondante noce di burro con 1 spicchio di aglio mondato e leggermente schiacciato e con 2 rametti di rosmarino. Unite il controfiletto, coprite con un coperchio molto pesante per impedire al meglio la fuoruscita del vapore, e cuocete in forno a 180° per 30 minuti, senza girarlo, senza togliere il coperchio. Togliete la casseruola dal forno, lasciate aperta la porta del forno perché si raffreddi parzialmente, levate l’arrosto e tenetelo in caldo: quando, a fine cottura, si dice, levate e tenete in caldo, normalmente
si intende mettetelo in una teglia o quant’altro e coprite con un coperchio a cloche; in questo caso invece si mette in forno a 60° circa, arrotolando la carne in alluminio, cosa che favorisce una redistribuzione ottimale dei succhi. Mettete la casseruola sul fuoco, togliete il rosmarino e deglassate con 1 bicchiere di vino bianco secco: cioè mentre il vino incomincia a evaporare, aiutandovi con un cucchiaio di legno staccate tutte le saporitissime crosticine che saranno rimaste attaccate sul fondo della casseruola. Frullate il fondo, regolate di sale e di pepe ed emulsionate con poco burro. Servite la carne a fette, nappata con il fondo.
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Ballando coi gusti
Oggi, due ricette a base di cozze e di patate: un connubio più che vincente.
Cozze in tortiera
Riso, patate e cozze
Ingredienti per 4 persone: cozze 1,5 kg – patate 400 g – 2 cipolle – 2 zucchine – pomodori datterini – salsa di pomodoro – grana – prezzemolo – olio di oliva – sale e pepe.
Ingredienti per 4 persone: cozze 1 kg – riso 250 g – 2 patate – grana – prezzemolo – 2 bustine di zafferano – olio – sale – peperoncino.
Fate aprire le cozze in una padella a fuoco vivo con poca acqua, sgusciatele e filtrate il fondo, poi fatelo ridurre fino ad averne 1 dl circa. Sbucciate le patate, affettatele sottilmente e sbollentatele per 2 minuti. Mondate e tagliate a velo le cipolle e sbollentatele per 1 minuto. Disponete sul fondo di una teglia antiaderente, pennellata di olio, 1 strato di patate, 1 di cipolle, metà delle cozze e 4 cucchiaiate di salsa di pomodoro. Cospargete con pepe e 1 cucchiaiata di formaggio grattugiato e coprite con 1 strato di zucchine a fette. Disponete gli ingredienti rimasti ripetendo la sequenza degli strati e bagnate con il fondo delle cozze. Sopra a tutto mettete qualche pomodorino datterino diviso a metà e prezzemolo tritato. Irrorate con poco olio e cuocete in forno a 160° per circa 30 minuti. Regolate di sale. Lasciate riposare per 10 minuti e servite.
Fate aprire le cozze a fuoco vivace con poca acqua, scolatele man mano che si aprono e mettetele in una terrina; sgusciatele e filtratene il fondo di cottura. Sbucciate le patate e riducetele e tocchetti. Mettete 1 dito di fondo in una casseruola, unite le patate e il riso e portate il riso a cottura unendo il resto del fondo e, quando finisce, brodo bollente, mestolo dopo mestolo. 2 minuti prima che sia pronto unite lo zafferano e le cozze e regolate di sale e di peperoncino. Fuori dal fuoco profumate con prezzemolo tritato, mantecate con poco olio, arricchite col formaggio e servite.
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MONDO MIGROS
DOLCE AVVENTO
Dietro ogni porticina del calendario dell’Avvento della Frey si nasconde una delle classiche palline di cioccolato Mocca, Hazel Crunch, Hazel Cream o Hazel Chips. E per entrare sin da subito nell’atmosfera natalizia, sono disponibili anche le nuove palline Freylini al gusto di cannella
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TEMPO LIBERO
La casetta dell’Avvento Crea con noi
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Nella casetta dell’omino di Pan di Zenzero basta tirare un nastro per scoprire una piccola sorpresa
Giovanna Grimaldi Leoni
Il calendario dell’Avvento è sicuramente una delle tradizioni più rappresentative del Natale e aiuta piccoli di casa a gestire e dare importanza al tempo dell’attesa. Per questo tutorial ho attinto ai miei ricordi di bambina, quando nella fiera di paese trovavo un grande scatolone pieno di nastri colorati. Si comprava un biglietto e si poteva tirare uno di quei nastri e se la fortuna ti assisteva, alla fine del nastro era legato un premio. In questa casetta, che si rifà a quelle di panpepato delle fiabe, decorata di dolcetti e abitata dall’omino Pan di Zenzero, tutti i 24 nastri sono fortunati e ogni giorno porterà con sé una piccola sorpresa. Inoltre se ospitate per l’Avvento un Elfo natalizio potrà essere per lui una comoda dimora per il tempo che soggiornerà da voi.
Procedimento Seguendo le indicazioni riportate sul cartamodello (che trovate su www. azione.ch) ritagliate dal vostro scatolone le parti della casetta. Ritagliate le finestre della facciata, mentre per la porta dovrete tagliare la parte superiore e quella centrale per poi andare a incidere le parti laterali in modo da poterla aprire e chiudere. Ritagliate dal feltro bianco la neve del tetto e del comignolo. Appoggiate la casetta sul feltro, segnate le linee del tetto e quindi create una bordura a onde irregolari larga circa 4cm. Con il pennarello effetto 3D utilizzando la punta fine decorate la vostra casa. Potete naturalmente aggiungere elementi a piacere e personalizzare la vostra casetta come preferite.
Riportate dal cartamodello su feltro i tre elementi classici del Natale. L’omino pan di Zenzero, la Candy cane e la stella. Decorate anche loro con il pennarello facendo attenzione a utilizzare poco prodotto e lasciate asciugare. Nel frattempo potete inserire le lucine intorno alla decorazione della faccia-
Giochi e passatempi Cruciverba
Sai come si chiama e dove si trova la piramide più grande del mondo? Scoprilo risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 7, 7)
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Materiale
• Cartone da scatoloni di riciclo (superficie almeno 50cm) • Un pennarello Acrylic 3D Edding • Taglierino, matita • Colla a caldo • Feltro o panno 3mm in rosso, marrone e bianco • Una ghirlanda con 20luci led a batteria • Spago naturale • Stampante per il cartamodello (I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
verso la parete laterale della casetta per poi essere agganciato al pacchetto. Non vi resta che legare ogni pacchetto al suo spago e prepararvi per il periodo più magico dell’anno. Buon Avvento! Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku 6
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ta. Per questo progetto è stata utilizzata una ghirlanda con 20 luci distribuite equidistanti tra loro. Segnate la posizione delle luci sulla facciata con una matita, bucate con un ago grosso e dal retro inserite le luci. Fissate con del biadesivo la scatoletta con le batterie in maniera che resti accessibile per poterla accendere/spegnere. Ora bisogna assemblare le pareti di casa, se avete usato un cartone spesso vi basterà incollare le parti tra loro, ma se volete un maggior sostegno in modo che duri nel tempo potete rinforzare gli spigoli con delle squadrette ritagliate dal cartone. Incollate prima le pareti laterali, poi la parte posteriore inferiore con il semicerchio ritagliato per poter estrarre i doni, quindi potrete procedere con il tetto. La parte posteriore superiore va ricavata dal cartone utilizzando il cartamodello della facciata ma tagliandolo all’altezza del sottotetto. Infine incollate la base della vostra casa su di un cartone un po’ più grande della stessa in modo che tutt’attorno ci siano alcuni centimetri di terreno. Sempre dal cartone ricavate 24 quadrati 3x3cm e scrivete su ognuno un numero da 1 a 24 del Calendario d’Avvento. Bucateli nell’angolo superiore destro e con un ago grosso fate passare 50cm di spago che da un lato annoderete in modo non possa fuoriuscire dal cartellino e dall’altro lo farete passare attra-
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Sudoku
Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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Soluzione della settimana precedente
ORIZZONTALI 1. I parallelogrammi del prisma 6. Il «pronto» inglese 11. Costellazione equatoriale 13. Niente a Parigi 14. Si dice a «Sette e mezzo» 15. Poema epico 17. Preposizione 18. Possono essere anche atmosferici 20. Oggi... ieri 21. Con «tare», vale... trasformare 22. La matrigna di Elle
23. Elettroencefalogramma 24. Iniziali dell’attore Accorsi 25. Involucro esterno del globo terrestre 26. Sicuri 27. Simbolo di robustezza VERTICALI 1. Scavi nel terreno 2. Ginevra era sua moglie 3. Pronome dimostrativo 4. Due di cuori 5. Chi ha creato questo cruciverba
7. Terreni dissodati 8. Coste basse e sabbiose 9. Un Bruce attore 10. Rendono idonee le idee 12. Nome femminile 16. Un canto solenne 18. Sono uguali nel catalogo 19. Un mese 21. Stretti orifizi 23. Gatto selvatico 25. Un quinto di trenta 26. Le iniziali dell’attrice Capotondi
SINGOLARI DEPOSITI – Le gobbe del cammello, depositi di cibo ed acqua gli consentono di… Resto della frase: …NON BERE E NON MANGIARE PER VENTI GIORNI.
N O O M
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N U B E T E A R N G N O L G I P E R C I E E N A D A G I O N A S E L L
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 7 novembre 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
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TEMPO LIBERO / RUBRICHE ●
Viaggiatori d’Occidente
di Claudio Visentin
Si riparte, con nuove idee ◆
Si riparte; in tutto il mondo cadono, una dopo l’altra, le restrizioni ai viaggi, nella speranza che vaccini e benevole mutazioni del morbo facciano la loro parte. Il Giappone ha imitato sin qui il drastico modello cinese, ma il prezzo da pagare è stato elevato. Per esempio Kyoto ha scoperto di non poter fare a meno dei turisti e, dopo la chiusura delle frontiere nella primavera 2020, l’antica capitale del Giappone si è ritrovata sull’orlo della bancarotta (il 13% delle sue entrate dipendeva dalle tasse pagate dai turisti). E tuttavia ora che i turisti sono tornati al sollievo si mescola la preoccupazione. Prima della pandemia infatti Instagram la faceva da padrone. Appena scesi alla stazione di Kyoto, gli stranieri si dirigevano senza incertezze verso le tappe obbligate per un selfie: il bosco di bambù di Arashiyama, i cancelli
arancioni che si arrampicano sulla montagna dietro il santuario di Fushimi Inari e tempio zen Kinkakuji (padiglione d’oro). Mentre si recavano al lavoro, le apprendiste geisha (maiko) venivano fermate per strada da occidentali decisi a estorcere una fotografia. Folla, caos, confusione, traffico… Conseguenze inevitabili di arrivi triplicati nell’ultimo decennio. Come ottenere un turismo diverso, più educato e rispettoso? Per ora, in una cultura poco incline ad alzare la voce, ci si limita agli appelli: «Non siamo un parco a tema! Tornate, ma con educazione». Fino a qualche tempo fa anche Hong Kong seguiva le rigide regole della politica «zero Covid» d’ispirazione cinese, con tanto di quarantene obbligatorie in albergo all’arrivo. Ma i 56 milioni di turisti del 2019 si sono ridotti a neanche duecentomila e nel frattempo Singapo-
re ne ha approfittato per soffiarle il posto di primo mercato finanziario asiatico. Per questo ora Hong Kong vuole dare un segnale di svolta. Già da qualche mese il Peak Tram, la più antica funicolare d’Asia (1888), rimessa a nuovo, ha ricominciato a portare i turisti sul Victoria Peak, il celebre punto di vista panoramico sulla città; in passato trasportava oltre sei milioni di visitatori l’anno. Inoltre l’ex colonia britannica, cancellate tutte le restrizioni, ha promesso di regalare ai turisti mezzo milione di biglietti aerei (del valore di 250 milioni di dollari). Ma in un mondo complicato le buone intenzioni potrebbero non bastare: per esempio l’invasione dell’Ucraina ha indotto diverse compagnie aeree a sospendere i voli per Hong Kong o a prendere rotte più lunghe per evitare di sorvolare l’area di guerra. Anche la lotta al cambiamento cli-
matico è stata ritardata dall’epidemia. Certo questa estate infinita è piaciuta a molti… La prova? Parecchie famiglie in tutta Europa sono partite con i figli nonostante la scuola fosse iniziata da un pezzo. Secondo un recente sondaggio, due terzi dei genitori ci hanno fatto un pensiero. I vantaggi sono evidenti: pochi turisti in giro, tariffe aeree anche cinque volte più convenienti e così via. Molti però hanno scoperto sulla loro pelle che le leggi possono essere severissime per chi ostacola l’obbligo scolastico dei figli: multe salate, intervento dei servizi sociali e in alcuni casi il carcere. In questo campo ovviamente – fedeli allo stereotipo – si distinguono i tedeschi: la polizia pattuglia gli aeroporti alla ricerca di famiglie in partenza, chiedendo alle scuole se l’assenza è stata autorizzata. Proprio perché la transizione clima-
tica dovrebbe essere il nostro primo pensiero, la Spagna ha fatto meglio di Hong Kong, offrendo biglietti ferroviari gratuiti per tutto il 2023 (con la sola eccezione dell’alta velocità). L’investimento previsto è di settecento milioni, ricavato da tasse su banche e aziende dell’energia. L’aspetto più interessante è che i biglietti saranno gratuiti per i turisti ma anche per i pendolari spagnoli, in difficoltà per la crisi economica. In questo modo si cerca di rilanciare il turismo e al tempo stesso incoraggiare il trasporto pubblico, in particolare il passaggio dall’aereo alla rotaia, riducendo la pressione sull’ambiente. Altri Paesi, a cominciare da Germania e Austria, hanno seguito l’esempio; e nel Regno Unito i viaggi con autobus a lunga percorrenza non potranno costare più di due sterline. Ottime idee, non vi pare?
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Passeggiate svizzere
di Oliver Scharpf
La quercia millenaria di Châtillon ◆
A Châtillon, villaggio di quattrocentottantaquattro anime a cinque chilometri da Délemont con il buon odore di letame nell’aria pomeridiana d’autunno, una bambina passeggia con il suo border collie di nome Charlie. Secondo il Guinness dei primati qui si trova «la più vecchia e grande quercia d’Europa». A undici minuti di cammino sconcentrato dalla fermata del bus Haut du village, in un pascolo ondeggiante non lontano dal limitare dei boschi, immersa nell’ultimo sole dell’ultimo giovedì di ottobre, più maestosa del previsto, si mostra la quercia millenaria di Châtillon (566 m). Conosciuta anche come «Chêne des Bosses», per via del suo tronco bitorzoluto il cui diametro è di tre metri e la circonferenza, misurata a petto d’uomo, quasi di nove. Alta una ventina di metri, mi perdo – naso all’insù – nella sua magnifica corona di rami e fronde. La sua chioma
di foglie lobate è ancora sul verde con riflessi marroncini-giallini come se fosse avvolta in un pulviscolo d’oro. Non si stenta a credere che «il culto della quercia o del dio della quercia sia stato osservato da tutti i popoli in Europa» come si legge nel Ramo d’oro (1922) di James G. Frazer. Protetta da un recinto come i boschetti sacri antichi, avvicinandomi mi verrebbe da abbracciarla ma è impossibile da abbracciare talmente è grande il tronco e poi mica ci conosciamo così bene da lasciarsi andare. Mi limito a qualche pacca sulla corteccia. La rugosità e nodosità è impressionante ma dopo tutti questi anni non ha cedimenti, ripensamenti o dubbi, si eleva magistrale. Una Quercus robur, «di millequarantasette anni» secondo la bambina in giro con il Charlie, ha trovato il suo habitat ideale. Pascolo protetto dal vento grazie alla mon-
tagna di Moutier, ruscelli, aria di campagna giurassiana corroborante. Qua e là, in lontananza, si vedono altre vecchie querce. Era usanza, un tempo, per ogni matrimonio nel villaggio, piantare una quercia. Come per certi quadri al museo, per ammirare come si deve la quercia da record, bisogna indietreggiare un po’. E anche così, non è facile abbracciarla tutta con lo sguardo. Il tragitto di certi rami mi lascia a bocca aperta. A Dodona, nell’Epiro, in Grecia nordoccidentale, c’era una quercia oracolare il cui stormire delle fronde e fruscìo delle foglie veniva interpretato attraverso l’arte divinatoria. Chissà se anche qui da queste parti, qualcuno pratichi ancora la dendromanzia. Si sa solo che un dendrologo di Neuchâtel si era fatto vivo per contestare la venerabile età della quercia, bollato come guasta-feste dagli abitanti del villaggio è stato mandato a quel paese.
Del resto, un carotaggio, per questa quercia, classificata come monumento storico dal 1950, sarebbe inutile visto che l’interno, come altre querce secolari, è cavo. Di sicuro, sotto la corteccia, vivono le driadi: le ninfe delle querce. Se la sono vista brutta, mezzo secolo fa, quando un maldestro distruttore di nidi di vespe, ha quasi incendiato la quercia. C’è ancora traccia ben visibile di quell’accaduto: la parte ferita è riparata da una curiosa superficie a scandole. Pierre-Alain Seuret, presidente della bourgeoisie de Châtillon, alla quale appartiene il pascolo dove vive la quercia millenaria come pure altri trecento ettari di questo piccolo comune del Giura, anni fa, intervistato per un articoletto apparso su «La Liberté» che avevo letto nel fosco e intrigante buffet de la gare di Porrentruy, affermava che la quercia (come il mondo in un titolo di Elsa Morante) era stata sal-
vata dai ragazzini. Senza tregua, di corsa, andavano e venivano dal ruscello con secchi d’acqua. Sopravvissuta anche a diversi fulmini, mi siedo sulle sue radici. Appoggio la schiena al tronco, maculato, in alcune zone, dal muschio. Consacrata a Giove, non c’è giorno migliore del giovedì per far visita a una vecchia quercia e il giovedì è anche il mio giorno preferito. Rifugiato sotto la quercia, capisco la signora lussemburghese che qualche anno fa è venuta qui ai suoi piedi a dormire per tre giorni di fila. «Le ha fatto bene» mi ha detto prima il guidatore del bus. Tentato da una siesta, mi accontento di far merenda: torta di Linz che divoro, avendo saltato il pranzo, in un batter d’occhio. Sento un rumore, saranno mica le driadi che si lamentano di non averne ricevuto neanche un pezzettino? È uno scoiattolo, veloce come un fulmine.
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Sport in Azione
di Giancarlo Dionisio
Quando la bici rafforza l’identità ◆
In Afghanistan lo sport femminile è bandito. Figurarsi poi per una attività come il ciclismo, da praticare in maglietta e pantaloncini corti. Dal 15 agosto dello scorso anno, da quando i Talebani, approfittando dell’uscita di scena del contingente USA, hanno instaurato il loro regime fondamentalista, per le donne afghane si sono aperte le porte dell’inferno. In molte (e in molti), hanno beneficiato dei corridoi umanitari per abbandonare il paese. Hanno trovato asilo in più parti del globo. Alcune anche in Svizzera. Molte donne hanno quindi potuto riappropriarsi dei diritti fondamentali, di cui erano state private con violenza disumana e spietata, da parte dei guardiani della morale, talvolta fino alle estreme conseguenze. Fra questi, il diritto di praticare lo sport. Alcune di loro, il climax della ritro-
vata libertà lo hanno assaporato domenica 23 ottobre a Aigle, al Centro Mondiale di ciclismo dell’Unione ciclistica internazionale (UCI). Sulla località vodese aleggiava lo spirito di Hein Verbruggen, dal 1991 al 2005 controverso presidente federale. Ma se il ciclismo, a partire dagli anni ’90, ha vissuto un costante processo di mondializzazione, lo si deve soprattutto a lui. Da quegli anni sono atterrati sul pianeta-bici corridori dell’est europeo, americani, canadesi, australiani, colombiani. Quindi, con cauta lentezza, è stato il turno di asiatici e africani. Fu proprio Verbruggen a volere il Centro di formazione e di prestazione, dove dal 2002 sono transitati i potenziali campioni provenienti dai paesi più poveri e meno attrezzati. Fra questi, in quanto keniano, anche un fenomeno come Chris Froome, capace di vincere
4 Tour de France, 2 Vuelte di Spagna e 1 Giro d’Italia. Aigle il 23 ottobre è stata la sede neutrale dei Campionati afghani femminili di ciclismo. Una giornata di festa, di emozioni e di solidarietà. Sulla linea di partenza si sono presentate 49 ragazze, esuli in Canada, Germania, Italia, Albania e Svizzera. Alcune di loro, fino a un anno fa, non avevano mai gareggiato. Altre, che non avevano i mezzi per procurarsi una bicicletta, hanno potuto partecipare alla competizione grazie a tangibili aiuti che sono partiti anche dal Ticino. Le 19 «italiane», che vivono a L’Aquila in uno stabile lasciato libero dalla popolazione terremotata, erano reduci dal pieno di emozioni vissute da ospiti d’onore alla recente presentazione dell’edizione 2023 del Giro d’Italia. Per loro fortuna, le partecipanti al Cam-
pionato nazionale non hanno dovuto affrontare mostri come il Mortirolo o lo Zoncolan. Solo 57 km di corsa, con un dislivello tutt’altro che massacrante. L’importante era esserci. Lanciare un segnale, un appello alla comunità internazionale. Ha vinto la 19enne Fariba Hashimi. Gareggia sotto le insegne della Valcar – Travel & Service, che proverà a dare continuità alla sua carriera, e a quella di altre sue giovani connazionali. Due settimane prima era giunta 33.esima nel Mondiale di Gravel, a 37’ dalla vincitrice, l’étoile francese Pauline Ferrand-Prevot. Sua sorella maggiore Yulduz, 39.esima e ultima nella gara iridata con un ritardo di oltre 1 ora e mezza, è salita sul secondo gradino del podio. Il bronzo è finito al collo di Zahara Rezayee. Qualcuno mormora che la vittoria avrebbe potuto arridere a Masomah
Alizada, che lo scorso anno giunse 25.esima nella crono olimpica di Tokyo, disputata sotto le insegne degli atleti rifugiati del CIO. Qualcun altro sostiene che l’esperta 26enne abbia voluto restare tranquilla nella pancia del gruppo, affinché altre ragazze potessero raccogliere soddisfazioni e stimoli per proseguire. Se così è, chapeau! Emozioni, abbracci, sorrisi, cadute, lacrime di gioia e di dolore non sono mancate. Lo sport, per fortuna, sa anche disegnare storie che regalano speranza. Come quella delle sorelle Najla, rifugiata in Canada, e Karima, che ha trovato asilo in Abruzzo. Non si vedevano dai tempi della loro rocambolesca fuga dall’Afghanistan, avvenuta più di un anno fa. Si sono riabbracciate a Aigle, in Svizzera, in quello splendente e per loro memorabile 23 ottobre 2022.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 7 novembre 2022
ATTUALITÀ
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Brasile, si torna a sognare L’elezione di Lula fa ben sperare sia per il futuro dell’Amazzonia, sia per i diritti dei popoli nativi
Israele, aperto e tollerante? Intervista a Avraham Burg, fautore di uno Stato ebraico che non discrimini popoli e religioni
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Joe Biden: un’anatra zoppa in un Paese diviso
azione – Cooperativa Migros Ticino 25
Bandierine russe sull’Africa La Russia di Putin persegue relazioni sempre più intense con il Continente africano, ecco perché
Credit Suisse al bivio L’ennesimo piano di ristrutturazione è l’ultima chance per la seconda banca svizzera
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Stati Uniti ◆ Le elezioni di metà mandato sono destinate a cambiare gli equilibri al Congresso, con quali conseguenze?
Che America sarà, dopo l’8 novembre? Le elezioni legislative di midterm sono probabilmente destinate a cambiare la maggioranza al Congresso, mettendo in minoranza il partito del presidente. Non è una novità, che un presidente USA venga penalizzato dagli elettori dopo il primo biennio del suo mandato. Anzi, è la regola. Da questo punto di vista Joe Biden (nella foto) può consolarsi. Molti suoi predecessori hanno avuto solo due anni a disposizione per realizzare le loro priorità, poi sono stati costretti a negoziare con un Congresso ostile. Questa situazione, per quanto «normale», non depone a favore della governabilità degli Stati Uniti. Inoltre è peggiorata negli ultimi anni perché la polarizzazione ha reso più difficile trovare delle intese bipartisan, raggiungere dei compromessi col partito avverso. Ancora ai tempi di Ronald Reagan (anni ’80) e perfino di Bill Clinton (anni ’90) il dialogo tra democratici e repubblicani talvolta sfociava su convergenze. È almeno dai tempi di Barack Obama e della sua riforma sanitaria che i rapporti fra i due partiti sono così tesi da rendere difficili e rare le intese. Biden dal gennaio prossimo – quando si sarà insediato il nuovo Congresso eletto l’8 novembre – rischia di essere una «anatra zoppa», più zoppa di tanti suoi predecessori, con uno spazio di manovra ridotto. Quali sono stati i temi dominanti in questa campagna elettorale? Anzitutto ciascun partito ha cercato di trasformare il voto in un referendum sul leader avversario, anche se la Casa Bianca non è in gioco. I democratici hanno sottolineato il ruolo di Donald Trump nel sostenere candidati repubblicani alla Camera e al Senato; anche per mettere in evidenza quanti di quei parlamentari sono dei «negazionisti» che sostengono la bugia trumpiana sull’elezione «rubata» nel 2020. Trasformare le elezioni di metà mandato in un referendum su Trump significava dare a questo voto il valore di un referendum sulla democrazia, messa in pericolo dalle bugie di Trump e dall’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. I repubblicani, specularmente, hanno cercato di trasformare l’8 novembre in un referendum su Biden,
perché questo presidente ha toccato gli abissi dell’impopolarità. Quali sono le ragioni? Al primo posto figura l’economia: gli Stati Uniti non sono ancora in una vera recessione però molti indicatori sono in peggioramento. L’inflazione genera insicurezza. Inoltre molti rimproverano a Biden di aver ceduto alla sua ala ambientalista, penalizzando l’estrazione di energie fossili e quindi aggravando la crisi energetica. L’immigrazione è un altro tasto dolente. Molti accusano Biden e la sua vice Kamala Harris di aver creato aspettative di un allentamento nei controlli alle frontiere. L’afflusso di immigrati clandestini aggrava l’insicurezza. Infine c’è l’aumento della criminalità, associata alle campagne della sinistra contro la polizia accusata di razzismo. Se i repubblicani conquistano la maggioranza alla Camera, e forse anche al Senato, come la utilizzeranno? Uno scenario è quello della battaglia giudiziaria a fronti rovesciati. L’ala trumpiana del Grand Old Party non vede l’ora di «restituire» alla sinistra i due impeachment tentati contro l’ex presidente. Potrebbero quindi aprire una serie di inchieste parlamentari finalizzate all’impeachment di Biden e di alcuni suoi collaboratori. La pista più gettonata è quella che parte dagli affari di Hunter Biden, il figlio del presidente, in Ucraina e in Cina. Però se la nuova maggioranza repubblicana dovesse trasformare il prossimo Congresso in un tribunale permanente, rischierebbe di perdere una parte del consenso che ha conquistato alle urne. Gli elettori, per quanto arrabbiati e faziosi possano essere, vogliono un Congresso che lavori per risolvere i problemi della vita quotidiana. Ai repubblicani converrebbe mettersi al lavoro sulla riduzione della pressione fiscale, per esempio, che è un loro punto di forza; e sullo smantellamento delle restrizioni eccessive sulle energie fossili, di cui l’America e il mondo non potranno fare a meno per molti anni. Potrebbero anche cercare di ricostruire le risorse e la fiducia verso le forze di polizia, per invertire la tendenza all’aumento della criminalità (anche se buona parte delle competenze in materia sono a livello loca-
Keystone
Federico Rampini
li: sindaci, sceriffi, procuratori). Lavorando su temi concreti, anziché sull’impeachment, i repubblicani forse riuscirebbero a creare condizioni più favorevoli alla vittoria di un loro candidato nel 2024. Meno tasse e più ordine pubblico sono anche temi sui quali i repubblicani raccolgono consensi tra le minoranze etniche – ispanici e afroamericani – dove il monopolio dei democratici si sta riducendo. Conseguenze sull’Ucraina? Le questioni internazionali hanno raramente un peso nelle campagne elettorali. Tantomeno se si vota per il Congresso. Dopotutto è il presidente che fa la politica estera. Il Congresso viene chiamato in causa solo quando si tratta di finanziarla, e sugli aiuti all’Ucraina avrà effettivamente l’ultima parola. Per questo devono preoccupare Kiev le ultime uscite di esponenti repubblicani. Non solo certi trumpiani di ferro, fedeli al-
la vena isolazionista del loro capo, ma anche un notabile del vecchio establishment repubblicano, il capogruppo alla Camera Kevin McCarthy, ha detto di recente che la guerra in Ucraina comincia a costare troppo al contribuente americano. Lo ha subito rintuzzato Mitch McConnell, capogruppo repubblicano al Senato. Anche un trumpiano come Mike Pompeo è favorevole ad aiutare l’esercito ucraino a oltranza. Ma tant’è, la linea non fa l’unanimità in campo repubblicano. In campo democratico è successo un incidente increscioso quando è uscito un appello rivolto da trenta parlamentari dell’estrema sinistra del partito, in cui in buona sostanza si chiedeva a Biden di indicare un endgame in Ucraina, di favorire un negoziato, anche premendo su Zelensky. Al di là dei dettagli, per il suo tono quel testo è stato subito interpretato come un «rompete le righe», una
dissociazione dalla linea Biden. L’allarme è rientrato quando i firmatari hanno sconfessato l’appello, spiegando che lo avevano redatto a giugno, quando la situazione in Ucraina era molto diversa. Per ora la disciplina di partito è stata ricostruita, ma il segnale rimane. Biden non esclude di sottoporre una maxi-manovra di aiuti pluriennali all’Ucraina al «vecchio» Congresso cioè prima di Natale. Ma poi? Quando usciranno allo scoperto i candidati per la nomination presidenziale in campo repubblicano, potrebbe esserci Trump o qualche altro isolazionista come lui, meno favorevole a prolungare a oltranza il sostegno agli ucraini. L’imprevedibilità della politica Usa avrà i suoi riflessi tra altri alleati Nato. Chi in Europa finora ha represso le proprie obiezioni, potrebbe uscire allo scoperto via via che sorgeranno dubbi sulla leadership americana.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 7 novembre 2022
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azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
Tra grandi sfide
Prospettive ◆ La vittoria di Lula ha una valenza enorme per tutta l’America Latina e non solo Angela Nocioni
C’è speranza per l’Amazzonia Brasile ◆ Il neoeletto Lula promette di azzerare la deforestazione – esplosa durante il Governo Bolsonaro – e di tutelare l’esistenza dei popoli nativi Angelo Ferracuti
Nelle ultime ore del voto di domenica 31 ottobre ci arrivavano messaggi da amici brasiliani: Bolsonaro stava cercando di ribaltare il risultato giocando d’azzardo e usando tutti i mezzi illegali a sua disposizione. Dalle fake news diffuse da mesi dal suo ufficio elettorale – che dipingevano l’avversario del Partito dos trabalhadores (Pt) come comunista e satanista – agli abusi di potere delle forze dell’ordine, come quelli della polizia stradale federale intervenuta con blitz sugli autobus diretti verso i seggi, per non parlare della violenza scatenata in diversi Stati dai bolsonaristi. «Nel nord-est del Paese, dove Lula va molto bene, la polizia sta bloccando le strade rendendo difficile l’accesso al voto», scriveva da Boa Vista in un messaggio WhatsApp Carlo Zaquini, missionario e storico, esperto della questione indigena, che da mezzo secolo ha abbracciato la causa del popolo Yanomami. «Ci sono reazioni anche del Superiore tribunale elettorale per fermare la chiara azione di boicottaggio». Però alla fine Luiz Ignacio Lula Da Silva, dato in vantaggio da mesi nei sondaggi, ha vinto il ballottaggio ed è stato eletto presidente del Brasile per la terza volta, seppure di misura, battendo Jair Bolsonaro e ottenendo il 50,83 per cento dei voti contro il 49,17 per cento del suo avversario. La prima buona notizia dopo la vittoria di Lula arriva dalla parte opposta del globo, dalla fredda Norvegia, una nazione da sempre molto sensibile alle questioni ambientali. Non appena i voti sono stati conteggiati, il ministro del clima e dell’ambiente Espen Barth Eide ha annunciato che la cooperazione con il Brasile nella foresta pluviale, interrotta durante il mandato Bolsonaro, riprenderà dopo che l’ex presidente socialista ha vinto le elezioni. D’altronde Lula nel suo discorso della vittoria è stato chiaro: «Il Brasile e il pianeta hanno bisogno di una Amazzonia viva». E ha promesso in primo luogo di azzerare la deforestazione che durante il Governo del «Trump dei Tropici» è aumentata del 75 per cento, un’area di 24,1 mila chilometri quadrati spazzata via dai faccendieri dell’agrobusiness, e in secondo luogo di istituire un Ministero per gli affari indigeni per proteggere le loro terre dalle attività minerarie o di taglio del legno. Un altro impegno preso
dall’ex elettricista e sindacalista leader del Pt è di riattivare l’attività della Funai (Fondazione nazionale dell’indio) praticamente smantellata dal suo predecessore. I primi a capire l’importanza di queste elezioni per il destino del polmone verde del mondo sono stati i suoi popoli custodi, i rappresentanti delle tribù indigene raddoppiati nelle liste rispetto alle ultime presidenziali, un atto di autodifesa, tanto che entreranno nel Parlamento federale Sônia Guajajara e Célia Xakriabá che militano entrambe per il Partito socialismo e libertà (Psol), la sinistra radicale. Sono le prime indigene della storia a essere elette negli Stati di San Paolo e Minais Gerais.
Bolsonaro stava cercando di ribaltare il risultato giocando d’azzardo e usando tutti i mezzi illegali a sua disposizione Anche Vanda Witoto, che abbiamo seguito al primo turno elettorale nella sua campagna nello Stato di Amazonas – campagna incentrata su bioma, diritti delle donne e situazione dei popoli indigeni – che non è stata eletta pur ricevendo un ampio consenso, coglie il senso di questa vittoria straordinaria e problematica insieme: «Abbiamo battuto il fascismo e l’amore ha vinto. La democrazia ha prevalso e la speranza scalda il cuore per un futuro di grandi sfide». Infermiera, viene dalla periferia della città, dal Parque das tribos, una terra occupata dove vivono 3000 persone di 35 etnie diverse, tra cui Apurinã, Baré, Mura, Kokama, Tikuna, Miranha, Tukano, che parlano 20 lingue, dove si è fatta conoscere durante la pandemia salvando molte vite, quando è diventata un simbolo della lotta al Covid-19 e prima indigena a ricevere il vaccino Coronavac. «La vittoria di Lula alle elezioni presidenziali brasiliane è un momento cruciale per i popoli indigeni e le loro terre», sostiene Survival International, movimento internazionale per i diritti dei nativi. «Negli ultimi 4 anni i popoli indigeni del Brasile hanno dovuto affrontare il peggior Governo anti-nativi dai tempi della dittatura militare. Lula ha promesso che ribalterà la situazione e che garantirà la protezione dei loro territori, met-
tendo così fine alla guerra scatenata contro di essi dal Governo Bolsonaro. Lula si è impegnato a intraprendere azioni concrete per contrastare i livelli di deforestazione senza precedenti e l’impennata di omicidi di indigeni e di attacchi alle loro comunità. Accogliamo con favore gli impegni presi da Lula ma non ci aspettiamo una svolta immediata». Intanto, mentre i bolsonariani hanno organizzato oltre 200 blocchi stradali in tutto il Paese, soprattutto alimentati dai camionisti, categoria sociale fedele al leader dell’ultradestra Jair Bolsonaro, quest’ultimo fatica a riconoscere la sconfitta e in un suo criptico discorso parla di «ingiustizia», legittima le proteste ma autorizza la transizione. Questo è il nodo che si dovrà sciogliere nei prossimi mesi, capire se il leader dell’ultradestra stia puntando sul caos o, invece, su una sorta di «golpe bianco», usando la forza che ha conquistato in Parlamento, dove Lula non può contare su una maggioranza stabile. Invece il neoeletto presidente parla al Paese con speranza: «Affrontare con forza il razzismo, l’intolleranza, la discriminazione, affinché bianchi, neri e indigeni abbiano gli stessi diritti e le stesse opportunità. A nessuno interessa vivere in una famiglia piena di discordie. È giunto il momento di unire la famiglia divisa dalla diffusione di odio». Don Luiz Ceppi, religioso cattolico che vive nella regione dell’Acre, segnata dall’esperienza politica dei seringueiros (operai che estraggono il lattice per la fabbricazione della gomma), compagno di lotte dell’attivista Chico Mendes, è lapidario: «Siamo riusciti a togliere di mezzo chi voleva distruggere l’Amazzonia»; «all’inizio del suo mandato ha liberalizzato l’uso delle armi, venti milioni di famiglie ne hanno una in casa; ha assunto 12’000 militari nella macchina statale». Secondo lui Lula può farcela: «La classe colta, non necessariamente di sinistra, è con lui, anche i settori più importanti dell’economia con i quali ha riattivato un rapporto. Ho fiducia nella sua abilità e pazienza, con Bolsonaro il Brasile è precipitato. Ci sono 40 milioni di famiglie che non hanno da mangiare. Siamo i più grandi esportatori di bovini, petrolio e soia ma i poveri aumentano... Non c’è futuro senza sogni. Bisogna scoprire nuovi cammini».
Keystone
Famiglia nella terra indigena Arariboia, in Brasile. (Ferracuti)
In Brasile torna al Governo il riformismo progressista. Torna Luiz Inácio Lula da Silva (nella foto) e con lui la politica intesa come disponibilità all’accordo, alla mediazione, all’inclusione. Ed è importante, perché le elezioni presidenziali brasiliane fanno da faro di solito per l’intera America latina e hanno una ripercussione immediata sui Paesi vicini. Ma quello di Lula non sarà un compito facile. Il Brasile è un Paese di 214 milioni di persone, il più grande del Continente e la prima economia latinoamericana. Trentatré milioni di brasiliani vivono sotto il livello di povertà; dal primo gennaio del 2023 sarà il neopresidente ad avere il compito di toglierli dalla fame. Senza contare lo stato disperante in cui versa la foresta amazzonica e la necessità impellente di trovare un compromesso tra le pressioni dell’agrobusiness e la sopravvivenza della selva (leggi articolo a lato). Comunque alla presidenza della Repubblica torna uno statista con un capitale politico personale consistente. Torna la negazione di quell’anti-politica che va di moda anche in America latina e che lì più che altrove ha sempre spalancato le porte del potere alla destra estrema. Torna il vecchio sindacalista che nel lontano 2009 fece sobbalzare Barack Obama in un corridoio londinese a margine di una riunione del G20. «Io adoro quest’uomo! È il politico più popolare del mondo», disse l’ex presidente Usa. Allora Lula era alla fine del suo secondo mandato (2003-2010) e si apprestava a lasciare il Governo con l’80% del consenso popolare. Ora la situazione è ben diversa. La crisi economica morde e il Paese è sfasciato da quattro anni di non governo. Jair Bolsonaro ha infatti trasformato gli slogan anti-politici con cui vinse le elezioni del 2018 (dopo che l’arresto illegale di Lula, allora candidato favorito al primo turno, gli spianò la strada per la presidenza) in uno stile di esercizio del potere. Ha delegato tutto l’hardware del Governo ai militari piazzandoli ovunque nell’ossatura dello Stato e poi s’è messo a diffondere notizie false, per lui assai redditizie, attraverso i social network. La sua sconfitta ha una valenza enorme per l’Argentina – sempre in bilico tra populismo peronista e rivincita ultrareazionaria – e per il Governo di sinistra cileno, fragilissimo, esposto alle richieste della sua ala radicale e alle mitragliate della destra pinochetista, sempre viva. E per tutto il Continente attraversato da ondate che di solito durano una decina d’anni e che sono sempre precedute da un cambiamento di clima politico
in Brasile. Lula, al suo terzo mandato e alla sua sesta campagna elettorale dopo la prima persa 40 anni fa, si ritrova con un Brasile fascistizzato e in armi. Un altro Paese rispetto a quello del 2003. Il presidente dell’authority elettorale, odiato e insultato da Bolsonaro, il giudice Alexandre de Moraes, è andato in tv subito dopo la proclamazione del risultato a dire che tutto è andato bene, le elezioni sono state pulite, il risultato è fuori discussione e comincia la transizione. Fino al primo gennaio, giorno del passaggio della fascia verde-oro. Bolsonaro, non avuta al momento – come invece mostrava di sperare – la sponda dagli alti gradi militari per una prova di forza, fomenta l’esercito dei camionisti attivisti di estrema destra per bloccare le autostrade e sogna di poter organizzare una guerriglia alla Donald Trump. Anche lui ha tempo un paio di mesi, come quelli che hanno separato la sconfitta per mano di Biden all’assalto a Capitol Hill. Il suo forte risultato elettorale gli darebbe, volendo, la forza di poter sostenere un conveniente negoziato segreto con l’odiato avversario. Per un salvacondotto di impunità. Caduta l’immunità da presidente, Bolsonaro rischia infatti di finire sotto processo per mille capi d’accusa possibili: dai reati commessi nella pandemia negata, per l’inquinamento dell’informazione con immense bugie, per gli attacchi alle istituzioni e per numerose magagne commesse nella sua vita precedente di deputato. La stessa cosa vale per i tre suoi figli maschi, tutti in politica, tutti sospettati di arricchimento illecito e attività sospette. Intanto l’America latina non reazionaria festeggia per ora la resurrezione di Lula sopravvissuto a sei processi penali e alla fucilazione per via giudiziaria del Partido dos trabalhadores da lui fondato nel 1980. L’ex sindacalista appena rieletto ha cominciato a tessere la trama della sua sesta campagna elettorale appena uscito di galera, (un anno e mezzo) dopo un arresto illegale avvenuto in mondovisione con gli elicotteri delle tv a volteggiare sopra la carovana di auto andata a prelevarlo a casa. Quel mandato d’arresto arrivò quasi alla fine di una vicenda giudiziaria fatta di mitragliate di accuse cominciate nel 2005, ossia nemmeno due anni dopo il debutto del suo primo Governo, quando il Brasile era osannato da «The Economist» per l’incredibile boom economico che aveva tolto milioni di persone dalla povertà. Boom dovuto all’aumento dei prezzi delle materie prime di cui il Brasile è grande esportatore e durato meno di un decennio. Ma in quel decennio il Brasile è risorto. Quegli incredibili profitti, qualcuno li ha saputi ridistribuire in politiche sociali imitate poi in molti Paesi del mondo, dall’Argentina al Sud Africa. E quel qualcuno era Lula. Il Governo Lula dovrà ora inventarsi un modo per rendere inoffensiva la destra estrema che rappresenta la quasi metà dei votanti al ballottaggio e che è la prima forza al Congresso. E che s’è presa San Paolo, il cuore economico del Brasile. Governato spesso dalla destra, ma stavolta lì ha vinto la destra estrema. A San Paolo Bolsonaro ha visto la sua piccola rivincita perché è stato eletto governatore Tarcisio de Freitas, militare, suo ex ministro e per di più nemmeno nato a Rio de Janeiro.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 7 novembre 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
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ATTUALITÀ
«Mi sento un ebreo protestante»
Israele ◆ Intervista a Avraham Burg, già direttore dell’Agenzia Ebraica, fautore di uno Stato ebraico aperto e tollerante verso ogni popolo e religione
Il primo novembre gli israeliani sono stati chiamati alle urne per la quinta volta in quattro anni. Le elezioni si sono concluse con una vittoria schiacciante della coalizione di destra guidata dall’ex premier Benjamin Netanyahu e con il fallimento totale della sinistra. Particolare preoccupazione suscita la legittimazione popolare ottenuta dal partito sionista religioso di estrema destra che si è conquistato il terzo posto, mentre partiti di sinistra come Meretz e Balad, giovedì mattina non avevano ancora superato la soglia di sbarramento. È ancora possibile essere ottimisti sul futuro di Israele? Ne parliamo con Avraham Burg all’Istituto Van Leer di Gerusalemme. Nato nel 1955 in una famiglia aristocratica vicina al movimento religioso sionista, Burg ha iniziato la propria carriera politica negli anni ’80 tra l’altro come consigliere del Primo Ministro Shimon Peres, prima di venire eletto alla Knesset nelle liste del Partito Laburista. Nel 1995 ha preso le redini dell’Agenzia Ebraica, l’organizzazione sionista responsabile dell’immigrazione ebraica in Israele, poi è tornato in Parlamento, di cui è stato presidente dal 1999 al 2003. In questa veste, nel 2000, ha ricoperto anche la carica di presidente ad interim dello Stato. Lei proviene da una famiglia molto nota, è da sempre attivo in politica e ha ricoperto cariche prestigiose. Tuttavia le sue posizioni di oggi si discostano molto da quelle dell’ambiente in cui è cresciuto e si è formato. Sono nato qui, nel quartiere più privilegiato di Israele, in una famiglia per metà di origine tedesca e per metà originaria di Hebron in Palestina. Non lontano da questo edificio c’era il campo da calcio di quando eravamo bambini.
Prima del ’67 Gerusalemme era una città molto interessante dove si respiravano pluralismo e universalismo: camminando per le strade incontravi intellettuali del calibro di Martin Buber, Yaakov Yehoshua (il padre di Avraham B. Yehoshua), il premio Nobel per la letteratura S.Y. Agnon o lo studioso Joseph Klausner (lo zio di Amos Oz). Dopo la guerra dei Sei Giorni ci siamo ritrovati con un’infinità di luoghi santi di tutte le fedi, e anche quelle figure emblematiche per la realtà ebraica sono andate lentamente scomparendo dal panorama. In qualche modo il cambiamento di Gerusalemme, una città sempre più omogenea e meno tollerante, rispecchia quello di tutto il paese, da allora sempre più chiuso, conservatore, ebraico, religioso, fondamentalista, nazionalista e colonialista. Spesso mi vengono poste domande sulla metamorfosi che ho subito dal momento che, cresciuto in una casa sionista religiosa del main stream israeliano, oggi mi ritrovo politicamente in una posizione completamente diversa. La verità è che io non sono cambiato per nulla, né mi sono spostato di un millimetro da quelle che erano le mie opinioni all’inizio degli anni ’80, quando mi ero accostato ad un movimento di soldati che si opponevano alla Prima Guerra del Libano. È trascorso moltissimo tempo e tante cose sono successe, ma io perseguo sempre i medesimi due obiettivi: mettere fine all’occupazione e dividere Stato e nazione, posizioni ereditate dal mio maestro, il prof. Yeshayahu Leibowitz. Quando intervisto le persone, fanno tutte riferimento al ’67 come ad un punto di svolta critico per le coscienze. Davvero prima non avete percepito niente di «anomalo»? Se lo chiedi a me il risveglio vero e proprio delle coscienze politiche nel-
la forma attuale risale a tempi molto più recenti, intorno all’inizio del 2000. Prima eravamo impegnati ad agire: il susseguirsi dell’eccitazione per la fondazione dello Stato, l’arrivo dei superstiti della Shoah con il numero tatuato, il ritorno dei prigionieri, le grandi guerre e i cambiamenti demografici dovuti alle immigrazioni di massa non ci davano nemmeno il tempo di pensare. Persino rispetto alla regione la percezione era positiva, i sette eserciti che avevano combattuto contro di noi nel ’48, già nel ’73 si erano ridotti a due e, negli anni ’90, al tempo degli Accordi di Oslo, l’atmosfera era di speranza e ottimismo anche rispetto alla questione palestinese. Poi all’inizio del Duemila improvvisamente qualcosa di complesso è avvenuto a livello mondiale che si è riflesso su di noi. In generale la mia teoria è che tutto quello che avviene qui in micro si è rivelato altrove in macro. Posso fornirti molti esempi anche per il secolo scorso, fatto sta che dopo gli attentati alle Torri Gemelle, a Madrid, a Tokio e a Londra, Barak è rientrato da Camp David con la percezione di aver perso un partner palestinese e la grammatica interiore si è spostata da sentimenti di fiducia e speranza a emozioni traumatiche. Come definirebbe la sua appartenenza all’ebraismo oggi? In cosa si identifica? Io sono un ebreo per caso perché lo spermatozoo di mio padre ha incontrato l’ovulo di mia madre a Gerusalemme. Se fossi stato figlio del Dalai Lama, ti assicuro che l’ottavo giorno non mi sarei fatto circoncidere, né, se fossi nato dal Papa, a 13 anni mi sarei offerto di indossare i tefillìn (i filatteri per la cerimonia della maggior età religiosa). L’ebraismo è la cultura nella quale sono nato, scrivo nella sua lingua, conosco una parte delle sue fonti, è la mia culla e il mio laboratorio.
Keystone
Sarah Parenzo
Tuttavia, così come sono contrario al monopolio commerciale, lo sono anche a quello delle religioni e in questo affare di un Dio che dice di essere l’unico, non ci sto. Io sono favorevole al pluralismo più completo. L’intero monoteismo è un grosso fallimento, non so se abbia ucciso di più l’amore per Dio o la scienza, ma entrambi sono molto distruttivi. Inoltre io non mi sento automaticamente della stessa patria di un ebreo solo perché come me è nato da madre ebrea, bensì di chi ha il mio stesso sistema di valori e le mie stesse opinioni. Può essere palestinese, musulmano, cristiano, israeliano, americano o italiano. Per il resto tutto ciò che è universale nell’ebraismo non lo considero estraneo, ma mi oppongo al particolarismo. Quando mi chiedono se sono un ebreo ortodosso, laico, riformato o conservativo rispondo di essere un ebreo protestante! Solo io posso definire me stesso e non m’importa cosa pensano gli altri. Il testo è sotto la mia responsabilità, sono l’unico interprete e non ho bisogno della mediazione di una chiesa con due papi, uno ashkenazita e l’altro sefardita, sono autonomo. Nella storia ebraica ci sono stati meravigliosi momenti iconici di vita mitologica e altri orribili. Se già il treno deve andare a ritroso io preferisco scendere dove c’era luce. Ci sono quelli che scelgono di fermarsi alla stazione di Giosuè per sterminare popoli, mentre io voglio scendere a quella di Abramo e potermi sposare con le donne locali. Anche il movimento sionista, come tra l’altro molti altri movimenti nazionalisti, è un treno che viaggia a ritroso: torna indietro ai territori del passato, ai nomi, alla lingua, ai testi. Ma secondo me ci so-
no aspetti su cui non si può transigere: la pace, la vita umana, la conservazione del pianeta, la responsabilità che ci è stata data nei confronti della creazione devono essere qualcosa di sacro, un «must». Ciascuno deve usare gli strumenti soggettivi che possiede per il bene del mondo, contribuendo a questo caleidoscopio con la cultura che ha ricevuto, come ebreo per caso, come buddista per caso, come musulmano accidentale. Che messaggio vorrebbe trasmettere ai lettori europei? Il mondo consente all’unico paese occidentale, Israele, di condurre una vita che nega diritti democratici fondamentali a milioni di persone solo per via della speciale posizione che si è acquistata riuscendo, tra le altre, a trasformare l’Olocausto in un’arma politica e governativa. Non durerà in eterno. Tra due generazioni Hitler, Barbarossa o Carlo Martello saranno assimilabili, troppo lontani nel tempo. Se Israele vorrà far parte del sistema occidentale dovrà rispettare delle regole, altrimenti riceverà lo stesso trattamento di Pakistan e Iran. Stiamo prendendo tempo. È vero che, finché gli Usa si ergeranno univocamente a fianco di Israele, non potranno fungere da mediatore onesto e non ci sarà una politica occidentale in Medio Oriente. Inoltre i partiti di destra hanno bisogno della benedizione di Israele per perseguitare i musulmani. Siamo di fronte a una giudeofilia mossa dalla islamofobia. Purtroppo l’Israele di destra e conservatrice, pro-Bibi e populista, collabora a questa modalità razzista. (L’intervista completa su www.azione.ch) Annuncio pubblicitario
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MONDO MIGROS
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ATTUALITÀ
L’ombra del Cremlino sull’Africa Longa manus
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I mercenari del Gruppo Wagner si sono sostituiti ai francesi in Mali e nella Repubblica Centrafricana
Pietro Veronese
C’è un filo sotterraneo, o meglio una rete, che lega l’Africa alla Russia. Una rete di legami che ha come prima motivazione la ricerca di sicurezza di alcuni degli Stati più fragili del Continente e che è parsa rafforzarsi nei lunghi mesi della guerra combattuta dalla Russia in Ucraina. Come se l’Africa fosse una retrovia lontana ma importante di quel conflitto europeo. L’interesse russo nel perseguire relazioni sempre più intense appare duplice. Il primo è quello di assicurarsi un retroterra di simpatie, consensi e compiacenze che può tornare utile sul fronte diplomatico. Come si è visto in occasione della votazione dell’Assemblea generale dell’Onu all’indomani dell’aggressione dell’Ucraina. La mozione di condanna della Russia ottenne una vasta maggioranza. Tra i soli 5 voti contrari (uno dei quali della stessa Federazione russa) c’era, inaspettatamente, quello di un paese africano, l’Eritrea. E nel nutrito pacchetto composto dagli astenuti e da coloro che si erano allontanati dall’aula al momento della votazione, l’Africa era il Continente più rappresentato.
La presenza russa sembra avere l’obiettivo di condurre anche in Africa una campagna anti-occidentale In secondo luogo, la presenza russa sembra avere l’obiettivo di condurre anche in Africa una campagna anti-occidentale e in particolare anti-europea (il Cremlino e la sua propaganda dipingono la guerra in Ucraina come uno scontro tra i valori della Russia e quelli dell’Occidente). Da questo punto di vista, la penetrazione russa appare fin qui coronata dal successo, perché in almeno due Paesi, il Mali e la Repubblica Cen-
Una bandiera russa sventolata a Ouagadougou, Burkina Faso, a inizio ottobre, durante una manifestazione in sostegno del colpo di stato. (Keystone)
trafricana, è riuscita a sostituirsi alla storica egemonia militare, diplomatica ed economica francese. A questi potrebbe essersi aggiunto adesso il Burkina Faso. I tre Paesi in questione, tutti ex colonie francesi, hanno storie, contesti, composizione etnica e sociale assai diversi tra di loro. Tuttavia, con tempi e dinamiche anch’essi molto differenziati, hanno dovuto affrontare negli ultimi anni l’analogo problema di una crescente presenza armata di matrice islamista, che è riuscita a destabilizzarli, creando una situazione di guerra civile, di diffuse e incontrollate violenze ed enormi sofferenze per la popolazione. Sia in Mali che in Centrafrica, con il consenso internazionale o addirittura in stretta collabora-
zione con contingenti di altri paesi, la Francia è intervenuta militarmente in difesa dei legittimi governi. Il sostanziale fallimento di queste operazioni militari, e in Mali un paio di successivi colpi di Stato, hanno però finito per guastare i rapporti con Parigi. I militari al potere a Bamako e il presidente in carica a Bangui si sono rivolti al Gruppo Wagner, l’assai discusso esercito privato russo che ha forti legami con il Cremlino, ottenendone immediata disponibilità. Centinaia di combattenti e istruttori militari russi sono subito affluiti nei due Paesi. I mercenari del Gruppo Wagner, impegnati in prima linea anche in Ucraina, non devono rispondere a un governo democraticamente eletto né a un Parlamento. Hanno sostan-
zialmente carta bianca nel condurre le loro operazioni militari. Per questo sono sospettati e spesso accusati di gravi violazioni dei diritti umani. Il che non ha impedito loro di sostituirsi in tutto e per tutto ai francesi. Parigi ha chiuso le operazioni in Mali e mantiene a stento relazioni diplomatiche con una giunta militare decisamente ostile. Quanto alla Repubblica Centrafricana, dove erano presenti fino a 1600 suoi militari pesantemente equipaggiati, ne restano ora appena 130, destinati a partire entro la fine dell’anno. Dal punto di vista geopolitico, è una vistosa ritirata per la Francia e un altrettanto rilevante successo per la Russia. In divenire, ma a quanto pare avviata nella stessa direzione, è la situa-
zione in Burkina Faso. A inizio ottobre c’è stato un nuovo colpo di stato a Ouagadougou, la capitale, otto mesi dopo il precedente. Si è trattato per la verità di un «colpo di stato nel colpo di stato», in cui una fazione ne ha sostituita un’altra. All’origine dell’instabilità politica c’è anche qui la penetrazione armata di formazioni jihadiste che mettono a ferro e fuoco le poverissime campagne e terrorizzano, costringendoli alla fuga, gli abitanti dei villaggi. Ogni nuovo regime accusa il precedente di incapacità nel fare fronte a questa minaccia mortale, mentre il numero delle vittime non fa che crescere. Nelle prime ore dell’ultimo colpo di stato, quando il suo esito appariva ancora incerto, centinaia di manifestanti hanno preso d’assalto i luoghi simbolo della presenza francese, dall’ambasciata al centro culturale, alla scuola francese, alla caserma che ospita le forze speciali di Parigi impegnate nelle operazioni anti-terrorismo. Molti di loro, come si è visto nelle immagini, portavano in corteo bandiere russe. Gli osservatori francesi vedono dietro questi episodi un’attiva regia occulta, in particolare sistematiche campagne propagandistiche sui social network locali. Qui si apre un capitolo importante e misconosciuto, perché pochissimo sappiamo della disinformazione e propagazione di fake news sui social africani, i cui utenti sono molto meno attrezzati di noi a vagliare criticamente queste fonti. È presto per dire se quest’ultimo sommovimento politico in Burkina Faso provocherà anche qui un allontanamento francese e l’avvento di una presenza militare russa. Resta il fatto che il Cremlino di Vladimir Putin continua a piantare bandierine sul continente africano: difficile non vedere una strategia all’opera dietro il succedersi di questi accadimenti.
È sempre il Paese più pericoloso del mondo Prospettive
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Il Pakistan reprime il dissenso interno e sponsorizza gruppi terroristici ma l’Occidente continua a farci affari
Francesca Marino
«Questo è un uomo (Xi Jinping) che sa ciò che vuole, ma che ha un’enorme, enorme serie di problemi. Come lo gestiamo? Come lo gestiamo rispetto a ciò che sta accadendo in Russia? E a quella che ritengo sia forse una delle Nazioni più pericolose al mondo: il Pakistan. Armi nucleari senza alcuna coesione». Così il presidente americano Joe Biden, durante una conferenza stampa, scatenava l’ennesima polemica mediatico-diplomatica tra Usa e Pakistan. L’ultima di una lunga serie. Coniata all’inizio della «guerra al terrorismo» in Afghanistan, la definizione di «Paese più pericoloso del mondo» ritorna difatti ciclicamente e non senza motivo. Il Pakistan sponsorizza i tre quarti o poco più dei gruppi terroristici che operano nella regione con un’agenda però globale; il Pakistan manovra il Governo oscurantista dei talebani che siede a Kabul; connessioni con il Pakistan si ritrovano in ogni singolo attentato avvenuto in Occidente negli ultimi 20 anni. Ma non solo. Secondo l’ultimo rapporto di Human Rights Watch, «nel 2021 il Governo pakistano ha intensificato gli sforzi per controllare i media e limitare il dissenso. Le autorità hanno perseguitato, e talvolta arrestato,
giornalisti e altri membri della società civile per aver criticato i funzionari e le politiche del Governo. Sono continuati anche gli attacchi violenti contro i membri dei media. Le autorità hanno esteso l’uso di leggi draconiane sulla sedizione e sull’antiterrorismo per soffocare il dissenso e hanno regolamentato severamente i gruppi della società civile che criticano le azioni o le politiche del Governo. Le autorità hanno anche preso provvedimenti contro i membri e i sostenitori dei partiti politici di op-
posizione. Le donne, le minoranze religiose e i transgender continuano a subire violenze, discriminazioni e persecuzioni (…). Il Governo continua a fare poco per colpire le forze dell’ordine responsabili di tortura e altri gravi abusi (…). Le forze dell’ordine pakistane sono state responsabili di numerose violazioni dei diritti umani, tra cui detenzioni arbitrarie e omicidi extragiudiziali». L’ultimo a essere ammazzato, in Kenya, è stato il giornalista Arshad Sharif. Critico dell’attuale Governo,
Veglia a Karachi in onore del giornalista pakistano Arshad Sharif ucciso in Kenya. (Keystone)
aveva lasciato il Pakistan in agosto per recarsi a Dubai, da dove era scappato in Kenya perché minacciato. Secondo l’ex-premier Imran Khan e secondo la maggioranza nel Paese, Sharif è stato ammazzato ad opera dei servizi segreti pakistani. Che all’estero hanno già fatto fuori negli ultimi tre anni il giornalista Sajjid Hussain in Svezia e l’attivista per i diritti umani Karima Baloch in Canada. Avevano cercato anche di ammazzare il blogger dissidente Ahmad Waqas Goraya in Olanda, ma il complotto è stato sventato dall’intelligence inglese. D’altra parte, con una mossa a sorpresa senza precedenti nella storia del Paese, il capo dell’Isi (l’intelligence pakistana) Nadeem Ahmed Anjum si è preso il disturbo di incontrare i giornalisti per smentire le voci di un coinvolgimento dell’esercito nell’omicidio Sharif. Nessuno gli crede, ovviamente. E la situazione nel Paese diventa sempre più critica. Talmente critica che le voci dell’ennesimo colpo di stato militare cominciano a circolare sempre più insistentemente. L’ex-premier Imran Khan, sfiduciato lo scorso marzo per aver alimentato quella che si sussurra sia una spaccatura senza precedenti tra i vertici delle forze armate (che per inciso lo
avevano messo a capo del Paese), grida da allora al complotto internazionale. Denunciando episodi di tortura e omicidi extragiudiziali da parte dei servizi segreti e dell’esercito ai danni dei suoi seguaci. E guidando una «lunga marcia» verso Islamabad alla testa di migliaia di persone, pronto a chiedere un cambiamento «attraverso le urne o con un bagno di sangue». Vale la pena di notare che Imran, negli anni del suo Governo, non ha mai fatto caso ai giornalisti ammazzati o scomparsi, e ha sempre passato sotto silenzio le torture e la scomparsa di migliaia e migliaia di cittadini. È poi il caso di chiedersi come mai gli USA abbiano di recente venduto al «Paese più pericoloso del mondo» equipaggiamenti militari per 450 milioni di dollari e come mai l’Occidente tutto continui a vendere armi a un Paese che dispone di «nucleare senza coesione». L’Isi è stata più volte definita «l’organizzazione terroristica più potente del mondo» ed è quella che, di fatto, controlla il nucleare nel Paese e che, assieme all’esercito, gestisce la politica. Un minimo di coerenza da parte dei Governi occidentali sarebbe forse, a questo punto, auspicabile per non ritrovarsi alle prese con un altro 11 settembre.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 7 novembre 2022
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azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
Credit Suisse: sarà la volta buona?
Finanza ◆ La seconda banca svizzera ha probabilmente toccato il fondo nei suoi 166 anni di esistenza. Ora deve risalire la china, correndo qualche rischio, anche politico Ignazio Bonoli
Il 10 maggio 2021 scrivevamo della nomina di un nuovo presidente della direzione del Credit Suisse (CS) nella persona di Antonio Horta-Osorio proveniente dalla Banca Lloyds. Avrebbe dovuto rimediare alla situazione creata dalle perdite e anche dalle multe che andavano accumulandosi. Si valutava allora che queste perdite erano già salite oltre i 13 miliardi di franchi. Non solo, ma si cominciavano a vedere i disastri che erano stati combinati soprattutto dalla Investment Bank (del CS) negli Stati Uniti. Si iniziava allora a fare i conti sulle perdite provocate dal fallimento di due fondi di investimento: l’Archeos e il Greensill, per un totale di perdite che il «Financial Times» valutava già allora in circa 7 miliardi di franchi. Ma proprio il pesante investimento in questi due fondi aveva sollevato la speranza di porre riparo alle precedenti perdite. Così il CS, presentando il bilancio del primo semestre 2021, dovette dichiarare un calo dell’utile netto del 78%, che si attestava però ancora a 253 milioni di franchi. Nel contempo il CS pubblicava anche il rapporto dello studio legale americano Paul Weiss, che constatava chiare mancanze nella gestione dei rischi, nonché nel controllo del superamento dei limiti e della responsabilità di sorveglianza, accompagnati da mancate misure di attenuazione del rischio. Già allora ci si chiedeva come mai una banca dalla reputazione e dall’importanza del Credit Suisse potesse essere caduta così in basso e si prevedevano conseguenze pesanti anche nei mesi a venire. Puntualmente, con la pubblicazione dei dati del secondo trimestre 2022, il CS ha dovuto ammettere perdite d’esercizio di 4 miliardi di franchi, dovute ancora una volta alla banca di investimento. Inoltre ha constatato un’importante fuga di clienti, che è proseguita anche all’inizio di ottobre, toccando anche la gestione patrimoniale e la banca svizzera. Evoluzione che ha forse anticipato un po’ i tempi della presentazione di un piano di risanamento, che va molto in profondità e dovrebbe finalmente segnare una svolta netta nell’attività della banca.
Prima di vedere brevemente questo piano di «rinascita» andiamo a vedere come si è giunti a questa situazione. Intanto dobbiamo dire che la crisi finanziaria del 2008 ha colpito pesantemente tutti gli istituti di credito. Nel settembre di quell’anno erano caduti grossi nomi come Lehman Brothers, Bear Stearns, e, in Svizzera, anche la grande UBS era in difficoltà a seguito delle operazioni sui prime rate in America e si salvò anche grazie all’aiuto della Confederazione. Il CS poté invece cavarsela con le proprie forze, nonostante le gravi perdite. L’«Economist» lo definì allora l’istituto che aveva meglio saputo gestire la crisi finanziaria. In realtà beneficiava dei successi della banca d’investimento, che però agiva fuori da ogni controllo, realizzando grossi guadagni, ma anche subendo ingenti perdite. Ma proprio qui il Credit Suisse compie il primo grande errore: mentre tutte le altre banche riducono le attività rischiose dell’investment banking, si appoggia sempre più su queste attività «all’americana». Alla sua testa vi era allora un americano: Brady Dougan. Chiamato nel 2007 per risolvere alcune situazioni pericolose, vi rimane otto anni. Forte dei guadagni realizzati in America ottiene nel 2009 uno stipendio di 19 milioni e un bonifico di 71 milioni di franchi. Il che suscita preoccupazioni anche a livello politico. Il CS dovette pagare più tardi le conseguenze di questi atteggiamenti, con assemblee generali turbolente e perdita di consenso popolare. La banca ne soffre ancora oggi, come testimonia la perdita delle sue azioni in borsa, scese da 80 franchi all’inizio del 2008 a meno di 4 franchi oggi. Allora Dougan continuò a far crescere l’«investment» e con lui i guadagni. Tuttavia già nel 2011, con la crisi dell’euro e il franco sempre più forte, si videro le prime crepe nel grande edificio, ma soprattutto non giunsero più i guadagni dagli Stati Uniti. Il CS decise i primi risparmi per 2 miliardi di franchi, sopprimendo anche 2000 posti di lavoro e indirizzando la propria attività soprattutto verso la gestione patrimoniale.
La sede del Credit Suisse alla Paradeplatz di Zurigo: dietro una facciata luminosa si sono accumulati errori e scandali per oltre un decennio. (Keystone)
Ma le condizioni erano e stanno tuttora cambiando. Così la quotazione del titolo del CS comincia a scendere. Questo significa una minore capitalizzazione in borsa, il che per una banca «sistemica» diventa pericoloso. Non solo, ma proprio dagli Stati Uniti giungono accuse di aver favorito la sottrazione fiscale, con le relative pesanti multe. Così la banca deve pagare una multa tre volte superiore a quella dell’UBS. Gli accantonamenti fatti per questi casi non sono sufficienti e la gestione della banca deve assumersene l’onere. I suoi dirigenti devono perfino comparire davanti alla Commissione del Senato americano e scusarsi. La presidenza della banca passa a Urs Rohner, ma la reputazione della banca continua a peggiorare. Solo nel 2015 Dougan viene sostituito da Tidjane Thiam, che adotta una strategia simile a quella di UBS del 2011. Per il cambiamento la banca ha bisogno di 6 miliardi di franchi, ma le perdite si accumulano. Nel 2017 sembrano nascere nuove speranze, subito però sabotate da un nuovo scandalo: in un clima già sfiduciato, la direzione fa sorvegliare da detective privati il capo del settore della gestione patrimoniale. Più tardi si saprà che questo metodo era stato applicato in almeno sette casi. Thiam lascia la banca all’i-
nizio del 2020. Gli succede Thomas Gottstein, proprio alla vigilia dello scoppio dell’epidemia di Covid, di cui soffrono anche gli istituti finanziari. Comunque: nuova strategia e nuove ristrutturazioni. Nel marzo 2021 scoppia il caso dei due fondi d’investimento, di cui abbiamo detto, che all’UBS costano 800 milioni di franchi, ma al CS (che ha reagito più tardi) 5 miliardi di franchi. In aprile Rohner lascia la presidenza del CdA e solo al termine dell’ultima assemblea riconosce di aver commesso, con i vari direttori generali, alcuni errori, di cui si scusa. Si apre così una nuova era, appunto con Horta-Osorio alla presidenza e Gottstein alla direzione. Nuova strategia, drastici risparmi e nuovi cali del titolo in borsa. La coppia dura poco, perché già nell’estate del 2022 alla direzione arriva Ulrich Körner, con alla presidenza Axel Lehman. Körner viene da UBS ed è noto per i suoi tagli decisi, che nell’UBS provocarono una massiccia riduzione dell’Investment Bank. Ma il titolo CS perde ancora quota. Questa nuova coppia presenta una strategia che, finalmente, scorpora la Investment Bank (si torna alla CS Boston First, che comprende soprattutto la precedente società di consu-
lenza, mentre una «bad bank» si occuperà dei prodotti cartolarizzati del CS), rilancia il settore della gestione patrimoniale e quello della banca svizzera. Tutta l’operazione – dopo i disastri precedenti – abbisogna di ingenti capitali. La ricerca si rivolge ai migliori clienti ed ecco apparire la Saudi National Bank, che garantisce 1,5 miliardi di franchi e il 9,9% delle azioni CS. È di proprietà del fondo statale, gestito dal principe ereditario. Si aggiunge ad altri due fondi di paesi del Golfo (il gruppo Olayan e il fondo statale del Qatar) che raggiungono così il 20% del capitale. L’aumento di 4 miliardi di franchi del capitale azionario verrà proposto a un prezzo di riferimento di 4,07 franchi per azione e dovrà essere approvato dall’Assemblea generale convocata per il 23 novembre. Il tutto viene accompagnato da riduzione dei costi per 2,5 miliardi di franchi all’anno nei prossimi tre anni. Sono quindi previste anche riduzioni di personale di 9’000 unità sulle attuali 52’000 a livello mondiale. In Svizzera gli attuali 16’000 posti verranno ridotti di 2’000. La banca applica buone condizioni di ricollocamento e pensionamento, ma le riduzioni di personale e l’entrata nel capitale del fondo saudita non sono state accolte bene in Svizzera. Ora una delle cose di cui ha urgentemente bisogno il Credit Suisse è proprio un ricupero di fiducia, non solo negli investitori, ma anche nel pubblico. Per quanto attiene al fondo saudita, va notato che il CS ha già una licenza bancaria in Arabia Saudita, dove il principe ereditario sta rilanciando l’economia, diversificando le fonti di reddito. Ma proprio il petrolio sta diventando una fonte molto copiosa di denaro e tutte le maggiori banche mondiali stanno accorrendo nella regione. Ovviamente anche il momento politico ed economico in Europa non è dei migliori, ma è proprio in questi momenti che bisogna dare prova di resistenza e resilienza. Difficilissimo fare previsioni, ma ci si può almeno chiedere, viste le premesse, se per il Credit Suisse sarà la volta buona.
«Come posso risparmiare sulle tasse a fine anno?» La consulenza della Banca Migros
Il mio collega sostiene che ancora adesso, con la fine dell’anno già in vista, posso ottimizzare le tasse per il 2022. Quali possibilità ci sono? Sì, il collega ha ragione. Prima della fine dell’anno è possibile adottare alcune misure per migliorare la propria posizione fiscale. Fondamentalmente si tratta di detrarre al massimo le spese e ridurre al minimo le entrate. E per i proprietari di casa le possibilità sono ancora maggiori. Ecco una panoramica non esaustiva con consigli concreti. Ambito previdenza: versare l’importo massimo nel pilastro 3a entro la fine dell’anno. A chi svolge un’attività lavorativa conviene versare l’importo massimo di 6883 franchi entro la metà di dicembre, così da poterlo detrarre dalle tasse. Presso la Banca Migros è possibile
◆
Fondamentalmente si tratta di detrarre al massimo le spese e ridurre al minimo le entrate
effettuare pagamenti online fino al 29 dicembre. Anche i contributi ai fondi pensione possono essere dedotti dal reddito imponibile. A seconda della pianificazione è possibile assegnarli a diversi periodi d’imposta. Al riguardo è tuttavia necessario tenere conto di alcuni punti, perciò conviene rivolgersi prima a un consulente. Anche la modalità di prelievo del capitale gioca un ruolo importante: chi sta per andare in pensione, ad esempio, dovrebbe scaglionare i prelievi dal pilastro 3a, dalla cassa pensione e dalla prestazione di libero passaggio e suddividerli su più periodi d’imposta. Inoltre, già solo richiedendo tutte le detrazioni si può approfittare di un grosso potenziale di ottimizzazione. Attenzione, però: per ogni detrazio-
Daniel Discianni, Consulente clienti Banca Migros.
ne richiesta bisogna essere in possesso della corrispondente pezza giustificativa. Per ottimizzare le imposte a breve termine si può anche prendere in considerazione l’opportunità di effettuare una donazione a un’organizzazione di rilievo o di pagare anticipatamente un corso di formazione. Anche le spese sanitarie non coperte dall’assicurazione sanitaria sono deducibili, a condizione (vale per la maggior parte dei cantoni) che queste superino il cinque per cento del reddito netto (inteso come reddito netto meno deduzioni). L’ostacolo non è da poco, ma chi nel 2022 ha già sostenuto spese sanitarie elevate potrebbe, ad esempio, considerare l’acquisto di un nuovo paio d’occhiali o sottoporsi a una cura dentistica a lungo rimandata. Casa di proprietà. Nella gestione degli immobili residenziali, i costi di
manutenzione possono essere anticipati o posticipati a seconda della situazione. Molti cantoni consentono di scegliere, ogni anno, tra deduzione forfettaria e costi effettivi per immobile. In molti cantoni è prevista anche la possibilità di detrazione per sottoutilizzo nel caso i figli si siano trasferiti o il partner sia deceduto. Da buon ultimo, gli investimenti nel risparmio energetico sono attualmente convenienti non solo a causa dell’aumento dei prezzi dell’energia, ma anche perché possono essere dedotti dal reddito imponibile, nella maggior parte dei cantoni, se determinano un aumento di valore. Suggerimento Rivolgetevi al vostro consulente bancario per conoscere nel dettaglio i fattori da considerare.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 7 novembre 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
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ATTUALITÀ / RUBRICHE ●
Il Mercato e la Piazza
di Angelo Rossi
Siamo il paese più bello del mondo ◆
Siamo oramai in piena pre-campagna elettorale e, nel dibattito, la situazione economica è un tema di attualità. Di recente, con i contributi di specialisti e del consigliere di stato Vitta si è discusso, davanti alle cineprese di una delle nostre televisioni, dei problemi economici del Ticino. Io questa discussione non l’ho vista. È il commento un po’ troppo compiaciuto del «Corriere del Ticino» che mi ha fatto saltare la mosca al naso. Non è che il nostro Cantone sia, in questo momento, la sola economia che soffra qualche disagio. È tuttavia tra quelle che, in Svizzera, conoscono le maggiori difficoltà. Nel 2020, il Pil ticinese è diminuito del 5,4%. Solo il Canton Neuchâtel ha conosciuto una diminuzione maggiore. I problemi si accumulano. Accanto al rincaro, in particolare quello dei vettori energetici, e alla caduta dei listini di borsa, che sta erodendo i piccoli portafogli azionari della classe media, la nostra economia
patisce i costi dell’invecchiamento della popolazione. La popolazione attiva del Cantone diminuisce e l’effettivo di frontalieri continua a crescere creando, tra l’altro, incredibili disagi al traffico interno. Se estendiamo l’esame ai singoli rami troviamo un settore industriale in piena riconversione, attività commerciali che lottano per sopravvivere comprimendo i costi, un turismo che vive purtroppo solo delle visite giornaliere dei confederati, un’edilizia che stenta, ma molto, a liquidare l’eccedenza di offerta accumulata negli anni in cui le ipoteche si potevano avere praticamente a tasso zero, un settore bancario che si ristruttura in continuazione e un settore logistico e della moda che sembra orientarsi verso altri porti. Nel 2020 l’economia ticinese occupava 163’300 persone residenti nel Cantone, vale a dire 1900 in meno che nel 2010. Un’altra tendenza che dovrebbe preoccupare chi si in-
teressa alle sue sorti è che mentre nel 2010 le sue attività occupavano un lavoratore (o lavoratrice) non residente su 4, oggi ne occupano quasi uno su tre. In effetti per la popolazione attiva residente nel Cantone gli unici rami in cui l’occupazione sta crescendo in modo sostenuto sono quelli della sanità e dell’assistenza sociale, ossia i rami del parapubblico. Questi sono i problemi e le difficoltà di medio termine che preoccupano la popolazione attiva residente. Si tratta, in buona parte, della popolazione che, nella prossima primavera, esprimerà le sue scelte nelle elezioni cantonali. E la lista dei problemi di natura economica non è terminata. A quelli già evocati si deve aggiungere il surplace del potere di acquisto. Tra il 2010 e il 2018 il salario mensile in Ticino – in termini nominali – è restato praticamente costante. Nel 2010 i lavoratori ricevevano, in media, 5076 franchi mensili. Otto an-
ni dopo il loro salario medio era salito a 5163 franchi. Questo significa che in otto anni il salario nominale mensile è aumentato dell’1,7%: un’inezia. Anche a livello nazionale i salari non sono cresciuti di molto: tuttavia tra il 2010 e il 2018 l’aumento è stato pari al 4,5%. A Zurigo, poi, l’aumento ha raggiunto il 6,2%. E il potere di acquisto? Il periodo considerato è stato caratterizzato da una leggera diminuzione dell’indice generale dei prezzi al consumo. Di conseguenza il potere di acquisto dei lavoratori è aumentato in misura superiore all’aumento dei salari nominali. Nel caso specifico l’aumento del potere di acquisto è stato pari al 2,5% su otto anni: un aumento pari a due inezie, insomma. Quel che si constata, poi, è che, fino al 2021, il potere di acquisto dei lavoratori ticinesi si è mantenuto in particolare grazie al fatto che i prezzi dei beni al consumo sono restati praticamente
costanti. Quest’anno, però, i prezzi aumenteranno di almeno il 3% e quindi il potere di acquisto diminuirà. Poiché l’aumento dei prezzi è influenzato particolarmente dal rincaro dell’energia, esso colpisce particolarmente chi lavora e deve spostarsi giornalmente per i bisogni della sua attività. L’insieme di queste difficoltà pare non abbia ricevuto molta attenzione nel dibattito televisivo al quale accennavamo iniziando l’articolo. Sembrerebbe che la maggioranza dei presenti abbia speso molte parole per relativizzare la situazione negativa, mettendo in evidenza le poche iniziative valide, e soprattutto insistendo sul fatto che il nostro Cantone continua ad essere economicamente attrattivo. Vi ricordate la «bandella del Carletto»? «Questo è il nostro paese, il più bello del mondo, dove il sole e l’amore non tramonteranno mai». Speriamo che il cambiamento climatico non ci giochi contro!
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Affari Esteri
di Paola Peduzzi
Il dilemma cinese del cancelliere ◆
Il cancelliere tedesco Olaf Scholz è arrivato in Cina con un gruppo di imprenditori per la prima visita ufficiale dopo gli anni del Covid e dopo che l’invasione di Vladimir Putin dell’Ucraina ha costretto l’Occidente a rivedere le relazioni con il resto del mondo, ancor più con il regime di Xi Jinping, appena riconfermato per un terzo, inusuale mandato. La decisione di Scholz è stata molto criticata, non soltanto dai partner europei e americani, ma anche dalla sua stessa ministra degli Esteri, Annalena Baerbock, che gli ha ricordato che va scritta «una nuova strategia» con Pechino che consideri certamente le relazioni commerciali in corso ma anche la «rivalità sistemica» messa in campo dalla Cina nei confronti dell’Occidente. La Baerbock non ha fatto un riferimento esplicito alla decisione del governo di Berlino di concedere alla cinese Cosco l’acquisto di una quota nel porto di Ambur-
go, ma la sua critica al cancelliere nasce esattamente dalle tensioni che ci sono state dentro la coalizione proprio per questa quota e che Scholz ha infine deciso di ignorare. Secondo alcuni, nella decisione del cancelliere pesano le sue esperienze con la Cina. La saga di Cosco dimostra che l’approccio di Scholz è ancora troppo influenzato dalle sue due esperienze formative sulla Cina, come ha scritto la rivista «Foreign Policy». La prima è stata quando Scholz era sindaco di Amburgo, tra il 2011 e il 2018, e aveva investito sulla necessità di espandere i legami commerciali con la Cina. In un’intervista del 2017 a un’emittente statale cinese, Scholz aveva definito Amburgo «il più grande porto cinese in Germania e in Europa», segnalando il sostegno alla Belt and Road Initiative di Pechino. La seconda è stata quando, da ministro delle Finanze, Scholz ha interagito con i «pragmatici» dell’appa-
rato cinese, ottenendo garanzie commerciali che lo avevano rassicurato. La Germania è il principale partner commerciale europeo della Cina e spinge per continuare gli scambi tra l’Ue e Pechino, ultimamente irrigiditi anche perché il regime cinese vìola i diritti civili, in particolare quelli degli uiguri. Scholz ha sì criticato il Consiglio dei diritti umani dell’Onu che ha votato contro l’apertura del dibattito sul report sempre dell’Onu che documenta le violazioni sistematiche dei diritti nello Xinjiang, ma è anche contrario alla cosiddetta strategia del «decoupling», il disaccoppiamento, introdotta dagli Stati Uniti e che mira a non creare troppe dipendenze con il regime cinese. In una conferenza di imprenditori a Berlino Scholz aveva detto: «La globalizzazione è una storia di successo che ha portato benessere a molte persone. Dobbiamo difenderla. Il decoupling è la risposta sbaglia-
ta». Scholz in realtà agisce in continuità rispetto al passato della Germania, visto che era stata l’ex cancelliera Angela Merkel a definire una strategia di apertura commerciale nei confronti della Cina. Ma ora il mondo è cambiato, la premessa sottostante alla visione merkeliana (e di buona parte dei leader occidentali) è crollata nel momento in cui Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina: si pensava che il coinvolgimento commerciale potesse garantire la pace, ma Mosca ha dimostrato che non è vero. Anzi, ogni dipendenza commerciale è diventata pericolosa, come stiamo vedendo con il gas e il petrolio russo. È per questo che l’America di Joe Biden ha avviato una politica molto decisa nei confronti di Pechino, che si fonda sulla definizione della Cina come di una minaccia. Anche il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, solitamente molto cauto, è stato molto deciso: «Stiamo soffrendo
le conseguenze di un processo durato anni in cui noi europei abbiamo disaccoppiato le fonti della nostra prosperità da quelle della nostra sicurezza», affidandoci all’energia russa e al mercato cinese per la prosperità e agli Stati Uniti per la sicurezza. Secondo alcune fonti, Emmanuel Macron, il presidente francese, aveva offerto a Scholz di andare insieme a Pechino in modo da presentarsi come un fronte unito, dialogante ma non ingenuo. Sembra che il cancelliere tedesco abbia declinato l’invito, confermando le tensioni all’interno del motore franco-tedesco tanto rilevante per l’Ue, ma anche la volontà di Berlino di muoversi in modo tanto autonomo da sembrare a tratti ostile nei confronti dei propri alleati. Ancor più ora che la lezione russa dovrebbe essere appresa: ci vuole unità per trattare con i regimi, muovendosi in modo disordinato si finisce per agevolarli.
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Zig-Zag
di Ovidio Biffi
Meglio i videogiochi dei lavandini ◆
Il mese scorso una strana convergenza di notizie ha riportato a galla la complessa crisi in atto nell’ambito dei mass-media. Sono decenni che un po’ in tutto il mondo si cercano soluzioni: a esperimenti, fallimenti e illusioni si è ora aggiunta la constatazione che anche i nuovi mezzi di informazione digitali, sviluppati con investimenti miliardari sperando di poter sfruttare l’onda del successo di internet, non saranno in grado di sostituire editoria, radio e televisione o perlomeno i grandi gruppi che controllano queste vie di comunicazione. Tanto più che, mentre l’editoria cerca di cavalcare il digitale con edizioni online per rubare pubblicità ai social media, i big media fanno lo stesso gioco innestando sempre più informazioni e orientamenti politici nei loro flussi digitali. Questo stallo, o circolo vizioso, lo aveva già previsto lo scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger agli albori del ven-
tunesimo secolo. In un suo saggio ci avvertiva che i giganti delle moderne tecnologie, interessati solo «a migliorare le caratteristiche dei loro giocattoli», non avrebbero mai saputo risolvere i problemi che informazione ed editoria stavano già affrontando. Enzensberger aggiungeva un’altra curiosa premonizione: più che sui «fratelli massoni della tecnologia» le nostre speranze dovrebbero essere orientate sui ragazzini che, senza curarsi degli inservibili manuali, «iniziano a trafficare per proprio conto per scoprire a cosa possa servire tutta quella nuovissima ferraglia». Esagerato? Dall’ottobrata di notizie dedicate ai media tolgo due ricerche e un’operazione di borsa. A suggerirmi un collegamento con le speranze di Enzensberger appena citate è stato il rendiconto dell’Annuario sulla qualità dei media elvetici che quest’anno, oltre ai soliti e scontati dati su penetrazione e affida-
bilità di giornali, televisioni e radio, si è sentito in dovere di annunciare che l’astinenza da informazione ha raggiunto in Svizzera nuovi primati e che i cellulari, ecco il dato che maggiormente allarma, risultano l’unica fonte di notizie per la maggioranza dei giovani. Deduzione veloce pensando a Enzensberger: forse è giunto il momento per editori e autorità politiche di preoccuparsi, più che di marketing, abbonamenti, canone e sussidi indiretti, delle ripercussioni che questa astinenza informativa dei giovani causerà sul piano culturale e delle libertà democratiche. La seconda notizia riguarda i risultati di uno studio dell’Adolescent Brain Cognitive Development Study dell’Università del Vermont (Usa) che mandano in soffitta un’immagine stereotipata e negativa collegata alle giovanissime generazioni: i videogiochi non sono soltanto un divertimento o una perdita di tempo; al contrario,
fanno bene al cervello in via di sviluppo dei giovanissimi. È quanto emerso da ricerche che hanno coinvolto quasi 2000 bambini: nei test sulle capacità cognitive quelli di loro che hanno ammesso di stare per tre ore o più al giorno ai videogiochi hanno ottenuto risultati nettamente migliori rispetto a coetanei che non si erano mai avvicinati ai videogame. Addirittura, esaminando il comportamento impulsivo e la memorizzazione delle informazioni, nonché la loro attività cerebrale, si è visto che gli appassionati di videogiochi hanno mostrato un’attività più elevata nelle regioni del cervello associate ad attenzione e memoria. La notizia più eclatante, per finire: l’acquisizione di Twitter realizzata dal miliardario Elon Musk. Cifre e rischi pazzeschi (oltre 43 miliardi di dollari; secondo maggior azionista: l’Arabia Saudita!), se teniamo conto che l’azienda californiana, come tutto il settore
dei social, si muove su un piano inclinato. Musk si è presentato a dirigenti (poi licenziati in tronco), critici e denigratori giungendo al quartier generale dell’azienda con un lavandino tra le mani e scandendo l’idioma «Let that sink in» che può avere diversi significati: indicare «Fatevene una ragione, rassegnatevi», oppure «Bisogna sturarlo», ma anche «Permettete che entri nelle vostre menti». Quest’ultima estensione suggerisce un cruciale interrogativo: è proprio consigliabile lasciare che un personaggio abilissimo ad abbinare un valore aggiunto politico ai prezzi delle cose che inventa, crea o compra metta le mani su un social media dicendosi paladino della libertà di espressione invece che della libertà di concorrenza (contro Apple e Facebook)? «Il vero evangelista della rete è il capitale» avvertiva Enzensberger nel citato saggio. Non esagerava: vent’anni dopo, Musk ne è la conferma.
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Anno LXXXV 7 novembre 2022
CULTURA
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Alla scoperta delle Flâneuses Dalla signora Dalloway, la più grande flâneuse della storia, una riflessione sull’arte del passeggio declinata al femminile nel saggio di Lauren Elkin
Figli e amanti di D.H. Lawrence Quanto può cambiare la nostra vita la frase di un romanzo quando, leggendola erroneamente, le attribuiamo un senso per un altro
Ursula Meier e le altre La parità è ancora lontana, ma aumentano le registe che, come la francese Ursula Meier, si fanno strada nel mondo del cinema
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L’eredità di Werefkin e le donne protagoniste Mostra
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La Direttrice Mara Folini ci racconta i primi 100 anni del «museo degli artisti» e il suo amore per Louise Nevelson
Alessia Brughera
Nell’anno in cui ricorre il centenario del Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona ripercorriamo l’affascinante e distintiva storia della sua nascita, legata soprattutto all’energia propositiva di Marianne Werefkin, pittrice di origine russa che con il borgo aveva instaurato un profondo rapporto tanto che gli asconesi l’avevano affettuosamente soprannominata «la nonna». Figura carismatica come lei è Louise Nevelson, a cui il Museo dedica in questi mesi un’importante antologica. Artista lontana dagli stereotipi, la Nevelson ha saputo affermarsi come donna libera, portatrice di un’esperienza pienamente femminile nel panorama artistico del Novecento. Ne parliamo con Mara Folini, Direttrice del Museo. Quest’anno ricorre il centenario del Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona. La sua storia è molto particolare, ce la vuole raccontare? La sua eccezionalità è che nasce nel 1922 come un museo autogestito e autoalimentato dagli artisti. La promotrice è Marianne Werefkin, che, grazie alla sua formazione, alla sua forte personalità e al suo modo di intendere l’arte come missione, riesce a dare concretezza a questo progetto. Il proposito di creare un museo con le opere donate dagli artisti si deve in particolare allo svizzero Ernst Kempter, il quale, venuto a sapere che a Cassis, nel sud della Francia, alcuni pittori e scultori avevano regalato al municipio i propri lavori per avere in cambio uno spazio dove poter esporre, lancia la stessa idea anche ad Ascona. Dobbiamo pensare che tra le due guerre il borgo ticinese è un luogo di rifugio sia per molti outsider, provenienti soprattutto dalla Svizzera tedesca, sia per coloro che fuggono dalle dittature. Qui si respira un clima generale di grande solidarietà grazie anche all’esperienza di Monte Verità che crea un humus favorevole ai pensieri più all’avanguardia. Ad Ascona si forma così una vera e propria colonia di artisti caratterizzata dal mutuo soccorso e dalla proficua convivenza con la popolazione del luogo. In questo contesto, la proposta della Werefkin e di Kempter viene accettata con molto entusiasmo e vengono raccolte così tante opere da donare alla città che il Municipio non può fare a meno di dar seguito alla stipula di una convenzione per la fondazione di un museo. La stessa Werefkin, che, pur provenendo da una famiglia nobile russa, in questo momento si trova in condizioni economiche non facili, regala non soltanto alcuni suoi lavori ma anche tre dipinti di suoi amici
molto piacere. Considerando poi che la figura eccezionale della Werefkin è il patrimonio più alto del nostro museo, abbiamo deciso di proseguire su questa strada tanto che fino al 2024 promuoveremo rassegne femminili. L’antologica della Nevelson è nata quasi per caso, grazie alla collaborazione con Allegra Ravizza e la Fondazione Marconi di Milano. Per me ospitare ad Ascona questa artista era una specie di sogno nel cassetto. Negli anni Novanta avevo visto al Whitney Museum di New York i suoi environment e lavoravo a Roma a Palazzo delle Esposizioni quando Germano Celant vi ha organizzato la mostra a lei dedicata: ne custodisco ancora il catalogo come una sorta di reliquia. Siamo anche riusciti a impreziosire e a personalizzare la nostra rassegna asconese con alcune opere provenienti dal Cantone. C’è per esempio un bel disegno della Nevelson degli anni Trenta che ci è stato prestato da un collezionista ticinese. Questo disegno era stato acquistato alla Galleria Nova di Ronco sopra Ascona, che in passato aveva ospitato proprio una mostra della Nevelson. Dalla figlia del titolare di quello spazio espositivo attivo anni fa ci sono state prestate alcune fotografie dell’artista. Così anche in questa occasione siamo riusciti a stringere un legame con il territorio.
Louise Nevelson, 1973. (Enrico Cattaneo)
pittori, tra cui La casa rossa di Paul Klee, che, se venduto, avrebbe potuto farle guadagnare parecchi soldi e toglierla dalle difficoltà. Le idee della Werefkin sul ruolo dell’artista e del museo erano estremamente moderne… Assolutamente sì. Abbiamo approfondito questo aspetto proprio in occasione del centenario con la mostra allestita durante l’estate. È stata una rassegna incentrata sulla corrispondenza intercorsa tra la Werefkin e il pittore Willy Fries negli anni in cui il museo di Ascona stava nascendo. Dal carteggio emerge chiaramente la straordinaria concezione della Werefkin di un museo inteso come luogo di scambio culturale collettivo, dove ogni artista fa la sua parte in nome di un bene superiore. Quella della Werefkin era una
visione molto attuale in cui l’estetica si univa all’etica: la pittrice credeva fermamente nel potere educativo dell’arte per curare l’umanità e considerava fondamentale l’autenticità d’intenti e il senso di responsabilità di ogni artista. Il museo ospita adesso una mostra di Louise Nevelson, scultrice ucraina naturalizzata americana. Questa rassegna è la prima grande antologica dell’artista realizzata in Svizzera. Perché la Nevelson? Nel 2019, da un sondaggio effettuato dall’Ufficio federale della cultura, il Museo di Ascona è risultato essere tra le prime istituzioni espositive elvetiche con la più alta percentuale di mostre dedicate a donne artiste. In realtà questa scelta non era stata fatta intenzionalmente ma l’essere stati segnalati per tale ragione ci ha fatto
Trova affinità tra Marianne Werefkin e Louise Nevelson? Entambe sono state donne molto carismatiche e molto consapevoli del loro ruolo. Credo però che la caratteristica che le accomuni di più sia stata la mancanza di etichetta. «Io sono io», diceva la Werefkin, cercando di rimarcare la sua individualità al di là delle appartenenze di genere. Proprio come avrebbe fatto più tardi anche la Nevelson. Louise Nevelson ha saputo imporsi come protagonista femminile in un momento in cui l’arte americana, dominata dall’Espressionismo astratto, era appannaggio degli uomini. Oltretutto realizzava opere di grandi dimensioni che per una scultrice era piuttosto insolito… «Mi sono sempre sentita donna… molto donna… il mio lavoro può sembrare vigoroso ma è delicato. In esso c’è tutta la mia vita, e tutta la mia vita è femminile», diceva la Nevelson. Trovo che nel suo approccio all’arte ci sia sempre stata molta ironia. Le sue opere iconiche realizzate con elementi di recupero reinterpretati sulla base del proprio pensiero e del proprio linguaggio distintivo arrivano a mostrare sarcasticamente la capacità della donna di fare tutto quello che fanno gli uomini.
Mi piace dire che la Nevelson fosse un’artista che voleva solidificare l’aria, esprimendosi al meglio della propria femminilità e della propria specificità. Negli anni Cinquanta, mentre molti artisti aggrediscono la materia per distruggerla, la Nevelson ha nei suoi confronti un atteggiamento procreativo. Cosa significa questo per l’artista? La Nevelson lavora cercando di mettere insieme i frammenti di una società disgregata. Alla base delle sue opere c’è l’idea, molto femminile, del rigenerare, del far rinascere, del ricostruire il mondo smembrato in una nuova armonia. Nel fare questo è anche molto ermetica, simbolista. In lei non c’è più distinzione tra arte e vita. Lei è la donna che esce nel mondo e che manifesta nelle proprie creazioni la piena consapevolezza di sé. Qual è, secondo lei, la modernità di Louise Nevelson? Credo che sia stata la capacità di esprimere con straordinaria potenza tutto il suo dolore. La sua intera esistenza è stata un dramma, un conflitto unico tra la rinuncia e l’affermazione della propria identità di donna e di artista. Figlia di ebrei tedeschi che scappano dai pogrom staliniani, si ritrova nel Maine e qui si sposa giovanissima per ottenere la cittadinanza americana. Rimasta subito incinta si trova a vivere una maternità sofferta perchè è nel pieno della sua evoluzione di artista. Il suo riconoscimento è tardivo, arrivato all’età di sessant’anni, e anche quando raggiunge il successo a livello internazionale (nel 1962 è alla Biennale di Venezia a rappresentare gli Stati Uniti) viene criticata, considerata da molti quasi una malata di mente, una compulsiva. La Nevelson ha dato forma a un linguaggio che ha vissuto di un rapporto dinamico con le varie correnti ma che è stato sempre teso ad approfondire i suoi moti spirituali, nel tentativo di mettere ordine tra i pezzi di una vita tormentata e trovare un’armonia in senso totalitario. Al pari della Werefkin la Nevelson è anedottica ma riesce a far confluire nell’opera quell’emotività che giunge a noi con grande potenza e che è capace di rivitalizzarci, quasi fosse una scossa di energia. Dove e quando Louise Nevelson. Assembling Thoughts. Museo Comunale d’Arte Moderna, Ascona. Fino all’8 gennaio 2023. Orari: ma-sa 10.00-12.00/14.00-17.00, do e festivi 10.30-12.30/14.00-16.00, lu chiuso. www.museoascona.ch
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Il patrimonio botanico di Carl Schell Personaggio
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Storia dell’attore tedesco che interpretò La caduta delle aquile (1966) e a Brissago trovò il suo «luogo dell’anima»
Sebbene tutti siano d’accordo nell’affermare come il clima favorevole possa definirsi la principale attrattiva che rende il Ticino una delle destinazioni preferite da viaggiatori provenienti dai ben più rigidi panorami della Svizzera interna, spesso si tende a dimenticare quali incredibili opportunità tale clima possa offrire, non solo in termini turistici; e una delle meno conosciute meraviglie naturali che il clima del Ticino abbia prodotto la si deve nientemeno che a Carl Schell (nella foto), figura in realtà nota principalmente per i suoi exploit artistici.
Dal momento del trasferimento a Casa Esperanza, Schell cominciò a collezionare piante esotiche da ogni angolo del mondo Carl apparteneva infatti a una famiglia i cui membri erano tutti destinati a carriere di successo nel mondo del cinema: fratello dei più noti Maximilian (due volte nominato per il premio Oscar) e Maria, nonché della più giovane Immy, il secondogenito degli Schell era nato nel 1927 a Wolfsberg (Austria). Come molti artisti appartenenti a quella gloriosa stagione del cinema germanico bruscamente interrotta dall’ascesa del nazismo, gli Schell lasciarono il loro Paese per il porto sicuro rappresentato dalla neutrale Svizzera già dopo l’Anschluss del 1938; una volta stabilitosi a Zurigo con il resto della famiglia, Carl avrebbe intrapreso una lunga carriera come attore e regista teatrale, sebbene siano stati i film e le serie televisive a cui prese parte tra gli anni ’50 e ’60 a renderlo noto al grande pubblico. Fu proprio poco dopo, nei primi anni ’70, che Schell si ritrovò infine
in Ticino, per la precisione nel Locarnese. E non fu il solo: sarà stato il clima accattivante, o magari l’attrattiva rappresentata da un Paese parzialmente germanofono situato nel cuore dell’Europa, ma diversi colleghi e connazionali di Carl avrebbero presto popolato la medesima zona – tanto che Gustav Fröhlich, indimenticato protagonista del capolavoro di Fritz Lang Metropolis, fu per decenni suo vicino di casa a Brissago. Eppure, il Ticino portò Schell a scoprire qualcosa destinata a divenire per lui ben più importante di qualsiasi traguardo o successo artistico: si trattava della natura, per la precisione dell’arte di nutrire e crescere pazientemente fiori e piante. La sua non era semplicemente una passione per il cosiddetto hobby del «pollice verde»: Carl puntava molto più in alto, ed ebbe il coraggio di andare fino in fondo nella realizzazione del suo grande sogno, dando vita a ciò che lui stesso avrebbe definito come il proprio «capolavoro». Dal momento del trasferimento a Casa Esperanza, la sua villa di Brissago, Schell cominciò infatti a collezionare piante esotiche da ogni angolo del mondo, per poi piantare gli esemplari da lui prescelti nel grande giardino di oltre 4 km quadrati che circondava l’abitazione; nell’arco di un trentennio, avrebbe così accumulato un patrimonio botanico che sarebbe valso a Casa Esperanza una meritata fama internazionale, principalmente grazie a quella che è a tutt’oggi considerata la più grande collezione di palme di tutta Europa, con oltre cento varietà diverse (negli anni ’80, Schell riuscì a procurarsi perfino diverse sottospecie di Ceroxylon Quindiuense, originaria della Colombia e comunemente nota come «palma della cera»). In questo
Keystone
Benedicta Froelich
lussureggiante paradiso, l’attore visse per oltre quarant’anni insieme alla moglie Stella, sposata nel 1970; e qui la coppia crebbe i suoi due figli, Marco e Caroline. Non solo: immortalato da un documentario realizzato dalla TSI nel 1982 (Il giardino meraviglioso), il capolavoro di Schell fu da egli stesso illustrato in un libro auto-
biografico, Die ganze Welt in meinem Garten (2002), a dimostrare quanto importante fosse per lui questo «luogo dell’anima». Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere Carl Schell proprio poco tempo dopo la pubblicazione di questo volume, quando l’attore, ormai ritiratosi dalle scene, si dedicava esclu-
sivamente al suo «Palmengarten», che mi fu permesso di visitare in un assolato pomeriggio di primavera. L’angolo di paradiso di Carl era un luogo per molti versi onirico, in quanto slegato e disgiunto da qualsiasi concetto di tempo o spazio: una volta usciti sulla terrazza della villa, a prima vista nascosta dal fianco della collina, ci si trovava davanti il lussureggiante giardino che, in puro stile ticinese, risultava solo in parte pianeggiante, essendo strutturato a gradoni progressivamente digradanti verso la riva del lago Maggiore – del quale si godeva una vista mozzafiato. Qui, in un tripudio di colori vividissimi, convivono a tutt’oggi fiori e piante provenienti dai quattro angoli del mondo, molte delle quali non appartenenti alle nostre latitudini: proprio come in un orto botanico ottocentesco, circondano ancora le decine di palme che si innalzano rigogliose da ogni angolo. «Non ho paura della morte: non si muore, ci si trasforma soltanto», disse Carl Schell nel 2016, poco dopo essere scampato a una grave setticemia; e poiché quando se ne andò (nel 2019, a 91 anni suonati), la villa e il giardino erano ormai divenuti troppo impegnativi da gestire e venivano già ceduti in affitto a turisti danarosi, è probabile che il pensiero di dover lasciare il suo Palmengarten sia stato uno dei pochi rimpianti al termine di una vita davvero piena e felice. Oggi, di quel lungo pomeriggio trascorso nel giardino-capolavoro di Carl Schell rimane nella mia memoria una frase in particolare pronunciata dall’artista, e che vale più di mille discorsi: «non so proprio come le persone possano appassionarsi alle rockstar o ai divi del cinema, e non rimanere piuttosto catturati dalla bellezza di una cosa di gran lunga più meravigliosa: un fiore che sbocci».
«Lo spazio è una questione femminista» Pubblicazione
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Il saggio di Lauren Elkin è una flânerie letteraria che racconta la conquista degli spazi pubblici da parte delle donne
Il termine flâneur non indica soltanto una persona che bighellona nella strada e che ha il tempo per farlo, ma anche uno stato d’animo, un privilegio, si direbbe una certa andatura disinvolta ed elegante che automaticamente associamo alla città di Parigi. Lauren Elkin, studiosa statunitense, emigrata a Parigi, in: Flâneuse. Donne che camminano a Parigi, New York, Tokio, Venezia e Londra, edito da Einaudi con la traduzione di Katia Bagnoli, si domanda che cosa significhi flâner nel momento in cui a permettersi la libertà di muoversi nello spazio pubblico sono le donne. La sua prospettiva è molto chiara: «lo spazio è una questione femminista» dichiara, ma questo testo non si esaurisce affatto in un pamphlet di un’attivista politica: si tratta invece di un saggio ricchissimo, che racconta le esperienze di diverse artiste nelle città elencate e anche quelle dell’autrice che, come le donne di cui scrive, ha avuto la fortuna e il destino di vivere in molti luoghi. Nata a Long Island Elkin scrive dei sobborghi delle città statunitensi, di come essi siano stati costruiti a partire dall’illusione della sicurezza, come se – scrive – quel tipo di contesto abitativo fatto di villette a schiera e viali che
si ripetono tutti uguali rappresentasse un tentativo di restare alla condizione dell’infanzia: «i sobborghi presentano il mondo come se fosse ovattato». Da questa condizione di iperprotezione l’autrice si trasferisce a New York e poi a Parigi per un soggiorno di studi. È qui che per la prima volta comprende che il suo destino non è quello di rimanere là dove la trattengono le sue radici, bensì quello di bighellonare, di flâner. Ed è a questo punto del suo testo che inizia a condurre i lettori attraverso delle passeggiate letterarie nelle vite delle sue scrittrici di riferimento, prima di tutto Jean Rhys. Scopriamo, allora, non solo le varie tappe dell’esistenza di questa donna eccentrica e geniale, ma anche i luoghi di Parigi fondamentali per Rhys, nonché l’importanza che i suoi romanzi hanno avuto nel percorso di formazione di Elkin. Poi, è la volta di Virginia Woolf: Elkin ci fa notare come: «la signora Dalloway fosse la più grande flâneuse della storia» e riporta l’incipit del romanzo Mrs Dalloway del 1925: «mi piace passeggiare per Londra». Ci accompagna quindi in un tour a Bloomsbury, nonché attraverso le diverse fasi della vita della grande autrice londine-
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Laura Marzi
se, che scrisse Una stanza tutta per sé. A Venezia, invece, insegue le tracce dell’artista Sophie Calle, mentre a Tokyo, dove Elkin si trasferisce per ragioni sentimentali, cerca di essere fedele all’insegnamento di Roland Barthes, che tanto si era appassionato alla cultura giapponese: «Barthes aveva avuto il mio stesso problema, però era più disposto ad adattarsi». Trovarsi in una città in cui non riesce a imparare la lingua e soprattutto a sottostare alle regole culturali imposte alle donne, come quella di non accavallare le gambe in pubblico – quando lo fa uno
sconosciuto le dà uno schiaffo nell’interno coscia per correggerle la postura – le toglie il desiderio di attraversarla. Per Elkin, flâner presuppone un’attitudine all’incontro, un desiderio di conoscere e di diventare parte della città che si percorre, anche se non è quella in cui siamo nate o in cui abitiamo regolarmente: «cammino perché, in un certo senso, camminare è come leggere […] Sei sempre in compagnia. Non sei solo. Attraversi la città fianco a fianco con i vivi e i morti». Da sempre questa libertà di potersi sentire in compagnia con degli sco-
nosciuti, in luoghi pubblici, è un lusso che si sono potuti permettere solo gli uomini, non a caso Elkin dedica due capitoli alla storia di George Sand, la scrittrice nata all’anagrafe come Amandine Lucile Aurore Dupin, che decise di adottare un nome maschile quando, abbandonando la sua vita coniugale, si trasferì a Parigi, dove assistette e partecipò a diversi moti rivoluzionari. Così, nello stesso capitolo, Elkin ci racconta della comune di Parigi, ma anche della manifestazione a cui lei stessa ha partecipato dopo l’attacco terroristico a Charlie Hebdo. Attraversare Parigi significa, in effetti, solcare le tracce della rivoluzione. Il libro intero, per come è strutturato, attraverso dei passages tra le esperienze delle artiste e quelle dell’autrice stessa, è una flânerie letteraria, decisamente originale e da cui si impara molto: «la flâneuse esiste ogni qualvolta deviamo dalla strada che è stata tracciata per noi, partendo alla ricerca di un territorio nostro». Bibliografia Lauren Elkin, Flâneuse. Donne che camminano a Parigi, New York, Tokio, Venezia e Londra, Einaudi, Torino, 2022
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L’attrice Sylvia Kristel nei panni di Lady Chatterley nel film L'amante di Lady Chatterley del 1981. (Keystone)
L’intramontabile fascino delle marionette
Teatro ◆ Quarant’anni e non sentirli. Si è concluso ieri a Lugano il Festival di Michel Poletti Giorgio Thoeni
Un gioco che riesce ancora a emozionare il pubblico senza forzature, preconcetti e manierismi ma con un’audace giostra di linguaggi, allusioni e colorati personaggi
Che cos’è la felicità?
Feuilleton ◆ L’importanza della traduzione letteraria e di come una domanda possa cambiarti la vita. Anche se sbagliata Luca Pascoletti
La prima volta che lessi Figli e amanti di D.H. Lawrence non avevo grandi aspettative. Avevo 17 anni e, dopo una deludente lettura de L’amante di Lady Chatterley, non sapevo cosa dovevo attendermi da un autore talvolta giustamente considerato un minore del primo Novecento inglese.
«Ma può davvero una frase letta in un romanzo cambiarti la vita? A quanto pare sì. Devo ringraziare D.H Lawrence per questo? A quanto pare no. Perché…» La trama tuttavia era intrigante per uno studente che era affascinato dal decadentismo, dalle vite irrisolte di personaggi adulti incapaci di stare al mondo, forse migliori della società in cui si trovano, ma inabili a starne al gioco: come qualunque adolescente di ogni epoca, insomma. In questo romanzo, nello specifico, Paul (o meglio, Paolo, come riportato nell’edizione Dall’Oglio che avevo in mano) si ritrova per buona parte della storia a rinunciare a vivere fino in fondo la sua vita e i suoi amori a causa di un rapporto di morbosa dipendenza da una madre troppo egoista e attaccata, con la quale Paolo ha delle lunghe conversazioni degne del lettino di Freud. Ed è nel bel mezzo di uno di questi dialoghi accesi e densi di significato che Paolo ad un certo punto pronuncia la frase che mi ha cambiato l’esistenza. Quando la madre, con bonaria ironia, gli dice: «Ragazzo mio, non mi pare che con tutta la tua intelligenza e la tua ribellione verso le
vecchie cose e l’energia con cui ti costruisci una esistenza, tu sia poi molto felice», Paolo si inalbera e risponde con una serie di domande degne di Seneca: «Che cos’è la felicità? Nulla, per me! Perché debbo essere felice?». Voilà. E quel corsivo! Sembra difficile da credere, ma furono proprio queste domande, annotate nel mio quaderno di allora, a condurmi attaverso un cammino di studi personali e pensieri che dal buddhismo chan allo zen giapponese, e poi allo stoicismo classico mi portarono a essere oggi la persona che sono, nel bene e nel male con i miei pregi e i miei (tanti) difetti. Ma può davvero una frase letta in un romanzo cambiarti la vita? A quanto pare sì. Devo ringraziare D.H Lawrence per questo? A quanto pare no. Perché… Una quindicina di anni dopo, sono un libraio alla Feltrinelli di Roma. Un cliente mi chiede dubbioso se valga la pena leggere L’amante di Lady Chatterley e io, con fare sicuro, afferro invece dallo scaffale il libro al suo fianco, l’edizione Garzanti di quel Figli e amanti per me così importante, descrivendone per sommi capi la trama mentre lo apro poco dopo metà libro, cercando quella frase, quelle domande, per leggerle ad alta voce al mio cliente. Figuratevi la mia sorpresa quando trovo il passo in questione e leggo: «E che cos’è la felicità? Non significa niente per me! Come posso, io, essere felice?». Rimango senza parole. Il significato della frase è totalmente differente da come io lo conoscevo! Balbetto qualche parola poco convincente diretta al cliente che adesso non sa più se leggere questo polpettone del 1913 e chiedo al mio collega del settore in-
ternazionale se abbiamo una copia di Sons and Lovers in inglese. Puntualmente Riccardo me la porge con un sorriso. Cerco febbrilmente il dialogo tra Paul (perché adesso è finalmente Paul) e sua madre. Leggo: «What is happiness! It’s nothing to me! How am I to be happy?». Esattamente come si poteva leggere in italiano nella versione Garzanti di Paola Francioli. Fu allora che ebbi la consapevolezza di aver basato la mia filosofia di vita (la felicità come medium e non come fine dell’esistenza) su di una domanda tradotta erroneamente, trovata per caso in un romanzo che era finito chissà come nella libreria di casa dei miei. Ecco perché la persona che mi ha cambiato la vita con una semplice domanda non è Paolo, non è neanche D.H. Lawrence, bensì la traduttrice Alessandra Scalero che, con un personalissimo corsivo e un cambio di significato che anticipa concetti che verranno comunque ripresi più avanti nel libro, mi colpì dritto al cuore in quel pomeriggio estivo. A onor del vero Alessandra Scalero fu un’ottima traduttrice attiva tra gli anni ’30 e ’40 del secolo scorso. Donna intelligente e colta, scomparsa prematuramente nell’Italia occupata dai nazisti nel ’4 4, aveva già collaborato alla prestigiosa collana della Medusa, aveva tradotto romanzi e racconti di Virginia Woolf, Alfred Döblin, Karen Blixen e Jacob Wassermann, portando in Italia una sensibilità letteraria internazionale proprio negli anni in cui ce n’era maggiormente bisogno. Una intellettuale sicuramente da riscoprire e ricordare. E questo a prescindere dal fatto che ha cambiato la mia vita.
Quella di Michel Poletti, ideatore e continuatore di una eroica e duratura tradizione, è la storia di un’ammirevole e colta dedizione al teatro di figura, denominazione non accettata da tutti preferendo quello di teatro delle marionette. Si potrebbe disquisire a lungo sulla distinzione legata a un termine che vorrebbe raggruppare un’arte teatrale sostanzialmente povera che riunisce burattini, marionette, pupazzi, ombre e oggetti manipolati e protagonisti di uno spettacolo teatrale. Eppure, a ben vedere, le risposte ci arrivano dalla storia della cultura, dalle tracce di un passato antico in cui la marionetta fa le apparizioni collegandosi a riti sacri precedenti all’entrata in scena dell’attore. Dall’India all’antico Egitto fino alla tradizione ellenica. Aristotele definiva le marionette dei prodigi semoventi e gli elleni già le chiamavano immagini mosse per mezzo di nervi. Le chiamavano neurospaston per indicare oggetti mossi dall’alto da fili, oggetti che potevano essere di cera, in osso, d’argilla o di legno. Altra faccenda è il burattino, appare molto più tardi. è animato prevalentemente dal basso o dai suoi lati. Anche se pochissime sono le testimonianze attendibili, di una cosa si può essere certi, il teatro di figura è
sempre stato considerato parte della cultura bassa, una dimensione che è stata a lungo marginalizzata. In realtà è stata una realtà testimone e vettore di una comunicazione popolare fortemente efficace e trasgressiva. Addirittura pericolosa per la sua presa sulle emozioni della platea grazie all’abilità e ai virtuosismi dei suoi interpreti. Tornando al Festival delle Marionette, l’impatto con il pubblico luganese ha sempre qualcosa di magico. È un’evidenza che premia il sostegno lungimirante del Percento culturale per la continuità del lavoro pluridecennale e spesso faticoso di Poletti, oggi affiancato dalla musicista e collaboratrice Lucia Bassetti, ambasciatori di spettacoli per curiosi e sognatori di ogni età. È lo slogan della rassegna che per l’occasione ha riunito diverse tipologie di spettacolo, diverse fra loro ma ideali per il racconto di un’arte antica. Una narrazione che il Festival ha ripercorso attraverso personaggi famigliari e tradizionali come Pulcinella e Pinocchio, con piccole e grandi storie in un mondo che ha vissuto un cambio di registro: dal pubblico dell’infanzia a una platea più adulta e smaliziata. Potremmo elencare tutti gli spettacoli, dai più rappresentativi ai più caratteristici del repertorio. Anche se questa edizione ha voluto sottolineare la forza di una tradizione attraverso una panoramica su alcuni grandi maestri e sulla loro diversità. Dall’argentina Valeria Guglietti con le sue ombre cinesi, alla Compagnie Blin, storica compagnia francese, dai ginevrini Pannalal’s Puppets al funambolico catalano Jordi Bertran, ai burattini del Teatro Glug di Enzo Cozzolino. A nostro avviso l’esempio migliore della potenzialità trasgressiva del genere l’ha mostrato Claudio Cinelli, maestro toscano riproponendo, a distanza di quarant’anni, l’antologico Skretch e Kabarett 13, uno spettacolo che unisce lirica, musica in una galleria di stili di teatro di animazione, raccontato con umore nero lungo un percorso a sorpresa. Un gioco che riesce ancora a emozionare il pubblico senza forzature, preconcetti e manierismi ma con un’audace giostra di linguaggi, allusioni e colorati personaggi.
©The Fifth Wheel
Si è lasciato alle spalle una quindicina di spettacoli e una gran voglia di tornare ad affascinare il pubblico di grandi e piccini con i suoi pochi artifici in scena, quelli da sempre sostituiti dal valore dell’esperienza, dalla bravura e da fiumi di fantasia. In un certo senso è così riassumibile l’eredità che ci consegna anche quest’anno il Festival Internazionale delle Marionette dopo essersi congedato dalla platea luganese del Teatro Foce celebrando la sua 40esima edizione che ha tenuto banco per quasi un mese con un sorprendente e ricco cartellone.
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L’ascesa delle registe Cinema
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Con questo articolo su Ursula Meier iniziamo una serie dedicata alle registe che si stanno affermando nella settima arte
Nicola Mazzi
La Francia ha uno dei tassi più elevati di registe. È emerso durante l’ultimo Festival di Cannes. Siamo attorno al 24%, un quarto del totale. E soprattutto, da qualche anno, la cifra è in continua ascesa. Percentuale più alta se prendiamo in considerazione tutta la filiera cinematografica con un tasso di donne occupate del 42%. Un mondo che quindi sta perdendo la classica connotazione maschile, ciononostante ancora significativa nelle statistiche complessive: basti ricordare che solo il 7% dei 250 film di maggior successo economico di tutti i tempi è stato diretto da una donna e che solo tre donne, nella storia, hanno vinto un Oscar per la miglior regia: Kathryn Bigelow con The Hurt Locker (2010), Chloe Zaho per Nomadland (2021) e Jane Campion per Il potere del cane (2022).
Partendo da queste brevi considerazioni iniziamo una serie dedicata alle registe che hanno un approccio particolare e che si stanno facendo strada nella settima arte. Autrici di tutto il mondo che hanno qualcosa da dire e soprattutto da mostrare al pubblico e che noi cercheremo di presentare attraverso le loro opere. Ad avviare questa nuova rassegna è Ursula Meier (nella foto), realizzatrice franco-svizzera tra le più apprezzate. Attiva, con i primi cortometrag-
© Raphael Zubler
In tutte le opere di Ursula Meier il passato resta oscuro, il presente è un percorso da effettuare per salvarsi e il futuro è una speranza di ripartenza gi già dalla fine degli anni 90 è nel 2008 che si fa conoscere dalla critica e dal grande pubblico grazie a Home (presentato a Cannes nella Semaine de la critique) con Isabelle Huppert. Un film sorprendente dove i corpi e l’asfalto si mescolano a tappeti sonori diegetici (il continuo passaggio dei veicoli e la musica che ascoltano i protagonisti), per creare paesaggi originali e inaspettati. La storia di una famiglia che vive vicino a un’autostrada e che si isola sempre di più in un cli-
max claustrofobico, violento e senza ritorno è descritta da vicino (la camera raramente osa abbandonarli). Un’opera chiaramente metaforica sul posto del mondo che ognuno di noi deve trovare, dove il difficile passato della famiglia e in particolare della madre non viene esplicitato ma si intuisce. E dove il futuro è tutto da costruire, mattone dopo mattone. E dove solo il presente sfugge, cambia, sconvolge. Un presente che è lotta per la sopravvivenza in Sister, il secondo lavo-
ro di Ursula Meier (2012 e vincitore dell’Orso d’argento a Berlino) con una giovanissima Léa Seydoux. Protagonisti due fratelli che, appunto, cercano di sopravvivere tra piccole espedienti, furtarelli e furbizie tra le innevate montagne vallesane. Anche qui si parla di legami famigliari difficili e con un passato mai palesato. Anche qui il corpo (molto coperto dagli indumenti da sci o scoperto quando si lavano i panni) torna prepotente al centro della scena.
E come in Home il luogo non è mai solo una location, ma ha anche una sua forza narrativa, un senso all’interno della storia raccontata. L’importanza del legame tra l’uomo e il paesaggio e la dimensione verticale di questo film (la montagna e la pianura) si relaziona e si contrappone a quella orizzontale del film precedente. Il ragazzino cerca di elevarsi socialmente, economicamente e fisicamente in uno spazio incontaminato bello e ricco, da una pianura desolata, morta e fangosa. Dopo dieci anni, ecco il nuovo lavoro: La Ligne (2022), presentato quest’anno a Berlino. La regista approfondisce i «suoi» temi legati ai difficili rapporti famigliari, al corpo come luogo su cui avviene il conflitto e, in definitiva, al posto nel mondo da trovare. Questa volta il conflitto è tra la figlia e la madre, ex cantante che ha abbandonato la carriera per i figli. Ambientato ancora nella pianura vallesana, il riavvicinamento tra madre e figlia (come sempre non si conoscono i fatti scatenanti) avviene dopo un lungo percorso nel quale, la linea (i cento metri di distanza a cui deve stare la figlia violenta) è disegnata in terra dalla sorella minore. Un limite che viene prima accettato malvolentieri, poi compreso e che servirà alla riconciliazione. In tutte le opere di Ursula Meier il passato resta oscuro, il presente è un percorso da effettuare per salvarsi e il futuro è una speranza di ripartenza. Un viaggio che i protagonisti effettuano in un luogo preciso, funzionale e nel quale il corpo è il veicolo sul quale il tempo mostra i segni delle varie stagioni della vita.
L’ombra spaventosa nei saloni di Brightcliffe Netflix
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In The Midnight Club Mike Flanagan riesce ancora una volta a combinare il sovrannaturale con una profonda umanità
Fabrizio Coli
Si riuniscono a mezzanotte per raccontarsi storie da brivido. Per sapere come vanno a finire occorre vivere ancora un altro giorno, cosa che per i giovani ospiti del Brightcliffe Hospice è tutto fuorché scontata. Ognuno di loro ha una malattia terminale e sa che la fine incombe. Ma c’è un patto che li lega, forse ispirato dalle inquietanti presenze che albergano nella struttura dove passeranno i loro ultimi momenti, forse dalla paura dell’ignoto: il primo ad andarsene dovrà dare un segnale agli altri dall’al di là.
Al cinema ha firmato film come Doctor Sleep, tratto da Stephen King. Ma è sul piccolo schermo che sta dando il meglio di sé a partire dalla folgorante serie The Haunting of Hill House Con The Midnight Club, Mike Flanagan si riconferma uno degli autori horror più personali e riconoscibili dell’ultimo decennio. Il di volta in volta regista, sceneggiatore e/o showrunner statunitense non è l’unico del mazzo, basti pensare a gente come Ryan Murphy, Jordan Peele o Ari Aster. Lui però è quello maggiormente capace di combinare la dimen-
sione del sovrannaturale con una profonda umanità, di usare il terrificante come schermo sul quale proiettare e amplificare angosce e drammi che più naturali non si può: il senso di colpa, l’inadeguatezza, la volontà di espiare, la debolezza, la fragilità e tutte le ferite che si portano dietro. Al cinema ha firmato film come Doctor Sleep, tratto da Stephen King. Ma è sul piccolo schermo che sta dando il meglio di sé a partire dalla folgorante serie The Haunting of Hill House dal romanzo di Shirley Jackson, pietra miliare della letteratura horror. Atmosfere gotiche calate ai giorni nostri, una
passione per le sinistre e imponenti magioni, quasi sempre protagoniste a pari merito degli attori – The Fall of The House of Usher da Edgar Allan Poe è in lavorazione – la sensibilità nella messa in scena dei personaggi, l’uso di volti ricorrenti…. Tanti sono gli elementi che hanno creato il suo stile. Adesso c’è pure un termine specifico, trovata di marketing che però rende l’idea: Flanaverse, l’universo di Mike Flanagan. Dopo le successive The Haunting of Bly Manor da Giro di vite di Henry James (finora il suo unico passo falso a livello seriale) e l’intensa Midni-
ght Mass, eccolo ora alla quarta serie per Netflix dal 2018. Creata insieme a Leah Fong, anche The Midnight Club – che probabilmente avrà più stagioni – è tratta da opere letterarie preesistenti, quelle di Christopher Pike, autore di fortunati horror-thriller per ragazzi (oggi si dice young adult, pardon). È uno degli scrittori che hanno acceso in Flanagan la passione per l’horror. Anche stavolta il racconto è corale, toccante, capace sia di spaventare che di commuovere. E se ha per protagonisti degli adolescenti è tanto adulto quanto deve esserlo una sto-
ria la cui premessa è la certezza della morte nel fiore della vita. È questa l’ombra più spaventosa che aleggia nei corridoi e nei cavernosi saloni di Brightcliffe, più oscura dei terrificanti spettri che li infestano e del groviglio di segreti (che ruotano intorno a una setta) che l’edificio custodisce. Con questi segreti si dovrà confrontare la giovane Ilonka, l’ultima arrivata, affetta da un cancro alla tiroide. A interpretarla Iman Benson, punta di diamante di un azzeccatissimo cast in cui c’è spazio anche per la veterana Heather Langenkamp della saga di Nightmare nel ruolo dell’enigmatica dottoressa che gestisce l’hospice. Mentre attorno a Ilonka e ai suoi compagni – come l’arrabbiata e fragile Anya, la bravissima Ruth Codd – i misteri si infittiscono, le storie raccontate dai ragazzi nel loro rito serale che caratterizza ogni episodio, s’intrecciano fino a confondersi con la vicenda reale. Storie che sono molto più di un supporto per salti sulla sedia. Qui sono centrali perché tengono letteralmente in vita i protagonisti e raccontano di loro, perché, per dirla col creatore della serie, noi tutti siamo storie e alla fine le storie sono ciò che rimarrà di noi. Un concetto questo caro a molti scrittori – da Gaiman al King dell’ultimo Fairy Tale – che Flanagan cavalca con ormai indiscutibile maestria.
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