Azione 46 del 15 novembre 2021

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Anno LXXXIV 15 novembre 2021

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A.  Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

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SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Malaria: un farmaco di prevenzione contro una delle più antiche e pericolose malattie infettive

Un fotografo amatoriale alle prime armi deve anzitutto capire quale attrezzatura acquistare

Un primo provvisorio bilancio degli effetti geopolitici della pandemia da Covid 19

Due registe sudamericane, Arami Ullòn e Marí Alessandrini, alla ricerca di nuovi temi inclusivi

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Cinico Lukashenko, L’arte che viaggia impotente Europa sulla ferrovia Peter Schiesser

Hanno dell’inverosimile le immagini di centinaia di migranti mediorientali bloccati davanti al filo spinato che divide Polonia e Bielorussia, alle loro spalle forze dell’ordine e militari bielorussi a impedir loro di tornare indietro, davanti file di soldati polacchi decisi a non farli entrare (la Polonia ha schierato mila soldati). Si stima che siano tre-quattromila persone, senza cibo o altri aiuti, all’addiaccio con temperature che la notte scendono sotto lo zero. Una decina sono già morte. Loro malgrado, questi migranti sono la testa d’ariete del presidente bielorusso Lukashenko. In una telefonata al presidente russo Putin, la cancelliera tedesca Merkel ha definito inaccettabile e disumana la strumentalizzazione dei migranti da parte di Lukashenko, chiedendogli di intervenire presso il presidente bielorusso. Putin ha invitato Merkel e l’Unione europea a trattare direttamente con Lukashenko, che è ciò a cui mira quest’ultimo. Come si è arrivati a questo punto? Dopo che l’Unione europea ha imposto sanzioni contro il suo regime e entourage, in aprile Lukashenko ha cominciato ad offrire visti d’entrata con facilità, facendo accordi con determinate compagnie aeree, per portare migliaia di migranti dal Medio Oriente, dall’Irak in particolare, e spingerli verso la frontiera con l’Unione europea (negando loro alloggio e aiuti, una volta arrivati a Minsk). Il ragionamento di Lukashenko è semplice: se nel  il presidente turco Erdogan è riuscito a farsi pagare miliardi di euro ed ottenere altre concessioni per fermare il flusso di migranti dalla Turchia alla Grecia, posso provarci anch’io. Il cinismo con cui Lukashenko gioca con la vita di migliaia di persone per ottenere un ammorbidimento politico da parte dell’Unione europea è inqualificabile. Di fatto, con il suo comportamento aggiunge a quella senza fine nel Mediterraneo una nuova crisi umanitaria in Europa e oltre a ciò crea una delicata crisi politica al confine orientale dell’Unione. Bisogna riconoscere che il tema migrazioni è complesso e nessuno ha mai trovato il modo di regolarne i flussi. La storia ci ricorda numerose ondate migratorie, nel passato molto più sanguinarie e devastanti, oggi perlomeno pacifiche e semmai pericolose per chi lascia il proprio paese. Allo stesso tempo va riconosciuto che la politica migratoria europea non ha

Alessia Brughera – Pagina 37

fatto passi avanti in questi anni, neppure nei sei seguiti alla grande ondata del . Ancora non c’è un meccanismo di distribuzione dei migranti fra i paesi membri (Ungheria, Polonia e altri paesi si oppongono), per cui Italia e Grecia devono sopportare più di altri l’impatto dei tanti arrivi, mentre l’Europa orientale si blinda erigendo barriere di filo spinato alle frontiere nazionali (una sorta di nuova cortina di ferro europea). In questi anni è stata soprattutto rafforzata la difesa dei confini esterni. Da anni esperti di migrazione segnalano che l’Unione europea e i singoli Stati devono invece dotarsi di meccanismi per regolare l’afflusso di migranti, in particolare introducendo un sistema di visti anche per persone che vengono dall’Africa e dal Medio Oriente, oggi escluse da qualsiasi possibilità di ottenere un permesso regolare nel proprio paese d’origine. La pressione migratoria esiste e non c’è legge che la fermi, ma si può tentare di incanalarla in un sistema che permetta un certo afflusso, regolando in modo meno restrittivo i visti d’ingresso. In questo modo si toglierebbe potere anche alle organizzazioni criminali che gestiscono i traffici di esseri umani. Ma questo appello è finora caduto nel vuoto. E poi c’è la crisi politica con il presidente bielorusso Lukashenko. L’ultimo dittatore d’Europa, come viene denominato, si aggrappa al potere reprimendo la popolazione e perseguendo gli oppositori politici, senza fermarsi di fronte a nulla. L’Unione europea assiste impotente, rispettivamente ha come sole armi le sanzioni economiche. Ma di fronte alla mossa di Lukashenko, che manda migliaia di migranti alle frontiere disposto a lasciarli morire d’inedia e di freddo (dicendo che vogliono andare in Germania, che è l’Ue che non vuole accoglierli), potrà rifiutare un gesto umanitario e assistere alla morte dei migranti? A ciò si aggiungono le tensioni militari fra Polonia e Bielorussia: entrambi i paesi schierano militari a ridosso delle frontiere, una provocazione fa presto a nascere, con il rischio di innescare uno scontro militare. Ma alle spalle di Lukashenko c’è comunque la Russia, che aspira a controllare sempre più la Bielorussia, con l’obiettivo di avvicinarsi al confine con l’Unione europea. Una situazione pericolosa, che si prospettava dalla primavera scorsa, ma ha colto di sorpresa gli europei.


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MONDO MIGROS ●

La questione alcol va al prossimo round

Federazione Cooperative Migros ◆ Dopo un dibattito appassionato, l’Assemblea dei delegati della FCM ha deciso di sottoporre la domanda se vendere o meno alcolici nei supermercati Migros alle cooperative regionali

I  delegati hanno tenuto in serbo la scottante trattanda per la fine della seduta. Alle . precise la presidente dell’Assemblea dei delegati Marianne Meyer ha aperto il dibattito sulla questione se la Migros deve stralciare dagli statuti il divieto di vendere alcolici nei suoi supermercati. Più precisamente, se i , milioni di cooperatrici e cooperatori devono esprimere il loro giudizio in una votazione generale. Marianne Meyer ha sottolineato inizialmente ancora una volta i contenuti della votazione: vogliono i delegati dare la possibilità agli organi delle cooperative regionali di trattare la questione dell’abolizione del divieto di vendere alcolici nei supermercati Migros? Solo di questo si tratta, ha rimarcato Marianne Meyer sabato a Zurigo, la posizione personale dei delegati sulla questione «alcol» non deve invece entrare in gioco. La prima oratrice è stata Ursula Nold, presidente della Federazione delle Cooperative Migros: «Devo confessarvi che, quando ho sentito la prima volta che è stata avanzata questa proposta, ho dovuto deglutire a vuoto», ha detto. Ma molto rapidamente al Consiglio d’Amministrazione è divenuto chiaro che il dibattito attorno a questo tema scottante può rappresentare anche una chance: «Ora possiamo chiarire una volta per tutte questa ricorrente questione», ha detto. L’importante è che questo avvenga democraticamente nella forma di una votazione generale fra i soci con un risultato vincolante. A questo avrebbe acconsentito anche

Un momento dei lavori, durante la sessione della scorsa settimana.

Gottlieb Duttweiler, ha aggiunto. Questa è stata la prima ma non l’ultima volta che il nome del fondatore della Migros, e padre del divieto di vendere alcolici alla Migros, è stato citato durante il dibattito. Ursula Nold ha sottolineato inoltre che il divieto di vendere alcolici nel secondo dopoguerra era stato introdotto per motivi di salute pubblica e in ragione della responsabilità sociale della Migros: «con il suo volontario impegno sociale la Migros è molto attiva in diversi campi». Dopodiché si è aperto il dibattito

fra i delegati. Una dei firmatari della proposta ha perorato un sì alla votazione nelle cooperative regionali, motivando la sua scelta di sottoporla assieme ad altri quattro delegati: è un fatto che secondo alcuni la richiesta rappresenta un «tradimento a Dutti», altri invece ritengono che oggi il comportamento della Migros non è credibile, poiché attraverso altri canali, come Migros-online e Denner, vengono già venduti alcolici. Ha inoltre fatto riflettere sul fatto che quando si parla di salute pubblica quasi nessuno pensa più all’alcol, i temi più

urgenti sono gli zuccheri nei cibi, il diabete, l’isolamento sociale. Ovviamente, l’alcol può dare dipendenza, ma la stragrande maggioranza delle persone lo consuma per piacere – come faceva anche Gottlieb Duttweiler. Al contrario, un delegato della Cooperativa Aare è stato dell’avviso che l’Assemblea dei delegati non deve passare ad altri questa patata bollente, bensì decidere oggi se il divieto di vendere alcolici dev’essere mantenuto: i delegati sono eletti per decidere, non per delegare ad altri, ha detto. A suo tempo la Migros aveva deciso

volontariamente di rinunciare agli incassi derivanti dalla vendita di alcolici e questo la rende unica. Rinunciare senza necessità a questa caratteristica unica nel mondo del commercio al dettaglio svizzero, a questo valore riconosciuto, non ha senso, ha detto, e indebolirebbe la Migros. Dopo una replica da parte di un altro dei cinque proponenti – «anche la democrazia è un valore della Migros» –, il dibattito, durato un’ora, si è chiuso e la presidente Marianne Meyer ha dato avvio alle operazioni di voto. Per essere accettata, la proposta richiedeva una maggioranza di almeno due terzi dei delegati presenti, quindi  voti su . La votazione è avvenuta in forma elettronica e segreta, dopo due minuti è apparso il risultato:  voti a favore,  contrari e  astensioni. Fra gli applausi dei presenti Marianne Meyer ha dichiarato accettata la proposta. «Per me questa è una prova forte della nostra democrazia nella Migros; come nessun’altra impresa disponiamo di strutture democratiche che mostrano come prendiamo sul serio il fatto di decidere insieme», ha detto. In conclusione, Ursula Nold ha illustrato le prossime tappe: entro inizio dicembre gli organi delle cooperative regionali decideranno se sottoporre ai propri soci la proposta di abolire il divieto di vendere alcolici nei supermercati Migros. In caso affermativo, la votazione si terrebbe a inizio giugno del . Per la Comunità Migros potrebbe dunque prospettarsi un  movimentato.

Un ponte digitale verso il futuro Scuola Club Migros Ticino

Gli avvenimenti degli ultimi due anni hanno cambiato profondamente la vita di tutti noi, in tutto il mondo. A seguito dell’ormai nota pandemia COVID-, ognuno di noi si è dovuto adattare ad un nuovo stile di vita, privato e professionale, catapultato improvvisamente in una realtà contrassegnata da termini fino a quel momento poco diffusi come lockdown e smart working. In questo clima di grande incertezza, l’informatica ha avuto un ruolo cardine nell’aiutare a mantenere relazioni e legami, permettendo ad aziende, scuole e molti altri di continuare le proprie attività, seppur modificate nell’anima. Nel periodo di chiusura totale, lezioni online, chat e videochiamate hanno letteralmente dato il via ad un nuovo modo di socializzare. Non solo, l’intero mondo lavorativo è cambiato accelerando di fatto quella che era una trasformazione annunciata da tempo: nel breve e medio periodo si delinea già un aumento degli investimenti, anche in ambito formativo, per aggiornare risorse e infrastrutture allineandole alle nuove richieste tecnologiche. La Scuola Club di Migros Ticino non si è fatta cogliere impreparata e ha provveduto a rinnovare il suo portfo-

Una nuova proposta in ambito IT

lio nel settore informatico per essere pronta a rispondere alle sfide più urgenti che ci attendono. Che cosa prevede la nuova offerta? Il catalogo - spazia dai corsi orientati alle competenze di base – con un accompagnamento puntuale per gli utenti che hanno la necessità di acquisire le nozioni indispensabili per l’utilizzo dei più comuni applicativi informatici – fino a quelli più avanzati di grafica, programmazione, disegno tecnico e software per videoconferenze. Tutto ciò inserito in una cornice di certificazione più ampia che permet-

te di attestare le competenze acquisite per un (re)inserimento professionale più veloce ed efficace. Alla voce percorsi formativi si ritrovano moduli compatti per una gestione agile dell’ufficio, come ad esempio l’Operatore Office, per acquisire le competenze di base del pacchetto MS Office, o il Web Marketing Design, che consente di realizzare diversi supporti pubblicitari. Particolarmente intrigante la nuova formazione con diploma Tecnico PC, un percorso formativo fortemente orientato alla pratica per il quale la

sede di Lugano ha allestito un’officina laboratorio ad hoc in cui poter letteralmente «mettere le mani in pasta» e dove si formeranno figure professionali in grado di intervenire e risolvere i più comuni problemi e guasti al computer, sia in ambito aziendale che privato. Le novità però non finiscono qui. Nell’epoca dominata da smartphone e tablet non potevano mancare moduli dedicati a questi dispositivi, destinati a tutti: sia per chi è ancora alle prima armi e vuole rendersi più autonomo nelle attività quotidiane o per stare semplicemente vicino ai propri cari, sia per chi è sempre in giro per lavoro e vuole crearsi un proprio ufficio «in tasca». All’ampia offerta di formazione a catalogo, la scuola ha affiancato un servizio che consente di costruire percorsi di apprendimento ritagliati sulle caratteristiche specifiche di singole situazioni aziendali. L’esperienza e la professionalità acquisite in questo ambito consentono di progettare e realizzare interventi formativi su misura per grandi aziende, piccole e medie imprese e istituzioni pubbliche. Nel solco della tradizione, la Scuola Club di Migros Ticino continua con rinnovata energia a costruire ponti – per tutti!

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SOCIETÀ

azione – Cooperativa Migros Ticino 3

Donne e politica Un libro di tre giornaliste racconta le esperienze e la carriera di 21 donne svizzere attive politicamente

Come ricordano i bambini Il professor Tomaso Vecchi spiega come funziona la memoria dei bambini

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Il pastore degli yak Nicola Toscano ci racconta la sua vita da pastore tosatore tra l’Alpe Cadlimo e il Vallese

I cetacei sono simili ai primati La struttura sociale dei mammiferi marini è straordinariamente simile a quella degli esseri umani

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Una svolta storica contro la malaria Salute

L’OMS approva il vaccino che potrebbe salvare ogni anno decine di migliaia di bambini in Africa

Maria Grazia Buletti

«È un momento storico: il tanto atteso vaccino contro la malaria per i bambini è una realtà ed è un passo avanti per la scienza, la salute dell’infanzia e il controllo della malaria stessa». Questo il commento del direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus, in merito all’approvazione del primo vaccino contro la malaria. «Potrebbe salvare ogni anno decine di migliaia di bambini in Africa, dove questa malattia uccide annualmente circa mezzo milione di persone (la metà sono bambini sotto i cinque anni), soprattutto nell’Africa sub-sahariana». A parlare è Carlo Chizzolini, immunologo, ricercatore e professore al Centre Médical Universitaire a Ginevra, il quale sottolinea come la malaria sia «una delle più antiche e pericolose malattie infettive».

Ci sono voluti oltre quarant’anni di ricerca e di sperimentazione per riuscire infine a produrre il Mosquirix Il nuovo vaccino, prodotto da GlaxoSmithKline che ha donato dieci milioni di dosi, attiva il sistema immunitario dei bambini contro il Plasmodium falciparum. «Si tratta del più letale fra i cinque patogeni della malaria, nonché quello prevalente in Africa», spiega Chizzolini che auspica comunque un prosieguo della ricerca nel perfezionamento di questo importantissimo vaccino: «La sua scoperta segna un traguardo atteso da decenni ed è l’unico per cui sia stata dimostrata una certa efficacia». Ad oggi, questo vaccino si sta testando in un programma pilota in Ghana, Kenya e Malawi dove dal  sono state inoculate oltre , milioni di dosi. Secondo l’Oms, «l’analisi dei risultati mostra che il vaccino, oltre a essere sicuro, riduce del  per cento i decorsi gravi di malaria». Il nostro interlocutore è cosciente del fatto che esso non rappresenti «uno scudo infallibile» e non riuscirà a eradicare la malaria. Tuttavia, spiega: «Potrà cambiarne drasticamente il corso e aiutare a proteggere i tanti piccoli che non vengono tutelati in altro modo, per esempio con l’uso corretto delle zanzariere attorno al letto». Inoltre, osserva il professore: «Se il vaccino viene utilizzato assieme a cicli di antimalarici dati in profilassi, il rischio di ricovero e morte dei bimbi si riduce del  per cento negli studi più recenti». Un risultato che accende la speranza, mentre lo studio pilota nei tre Paesi prosegue per valutare l’impatto del vaccino sulla mortalità nel lungo

periodo. Così il nostro interlocutore spiega l’origine della malaria: «Com’è noto, questa malattia infettiva è causata dai parassiti del genere Plasmodium che si trasmettono all’uomo per la puntura della Zanzara anopheles (suo malgrado) infetta. Gli effetti variano secondo la specie di Plasmodium coinvolta, mentre i sintomi più noti e tipici della malaria sono brividi e febbre che tendono a ripetersi ciclicamente. Nel fegato, dove restano circa una settimana, i cosiddetti sporozoiti danno origine ai merozoiti che si dirigono nei globuli rossi facendoli scoppiare e causando la febbre. Se l’infezione raggiunge il cervello, specialmente nei bambini, può causare danni cerebrali irreversibili, disturbi cognitivi, coma e morte». Ciò che rende questo vaccino «un dono di Dio» (così lo ha definito il direttore generale dell’Oms) è il fatto che la malaria severa può progredire in modo estremamente veloce e causare la morte in poche ore o qualche giorno. Il professor Chizzolini così sottolinea natura e decorso della malaria: «Stiamo parlando di una malattia a cui sono esposti cronicamente gli abitanti nelle zone endemiche. I primi incontri con il parassita inducono nei neonati o bambini piccoli forme gravissime, vedi mortali. Per quelli che sopravvivono si genera col tempo una forma di immunità che permette di ridurre i sintomi e di convivere con il parassita senza che questo sia completamente eliminato, se non viene adottata nessuna terapia. Oltre a febbre e brividi, i sintomi nelle forme più gravi comprendono cefalee importanti, dolori muscolari, ittero e anemia, tachicardia fino al delirio e al coma. Se ne muore per il fatto che i parassiti entrano nei vasi cerebrali dove formano tappi e reazione infiammatoria immune, mentre i globuli rossi infetti sono responsabili di micro-trombi». Ad oggi, profilassi e cura della malaria da falciparum, abbandonati il chinino e la storica clorochina, comprendono varie sostanze come l’artemisina, l’atovacone, la meflochina e altre. Ma Chizzolini spiega che bisogna tener conto «del fatto che ciò che era efficace un tempo potrebbe non esserlo più oggi a causa delle resistenze che questi parassiti sviluppano. Questo perché il parassita è sempre un po’ più avanti, alla ricerca di una “coevoluzione” nella quale persegue un equilibrio con il suo ospite umano, rendendolo malato e cercando di non ucciderlo per sopravvivere a sua volta». Un mondo da scoprire, quello dell’interazione fra esseri viventi, che in questo caso è sfociato nella scoperta di un vaccino contro la malaria: «Ci sono voluti oltre quarant’anni di ricerca e di sperimentazione perché l’azienda farmaceutica britannica

Carlo Chizzolini, immunologo, ricercatore e professore al Centre Médical Universitaire a Ginevra. (Jorge Stamatio)

GlaxoSmithKline (che in Italia è impegnata fra l’altro sul fronte degli anticorpi monoclonali contro il Covid) producesse il Mosquirix», questo il nome di battesimo del vaccino, che è «una proteina ricombinata dalla proteina superficiale del Plasmodium falciparum e da adiuvanti (particelle di lipidi ed estratti di piante che attivano la risposta immuno-infiammatoria)». Un vaccino che lascia già ben sperare, anche se merita di essere perfezionato, come indicano i dati di uno studio che ha coinvolto oltre mila bambini in sette Paesi africani: «Do-

po il primo ciclo di dosi, il numero di bambini che ha contratto la malaria è stato inferiore del  per cento tra quelli di età compresa fra  e  settimane di vita, e del  per cento per quelli fra  e  mesi. Si è visto che Mosquirix fornisce una protezione che può salvare migliaia di vite nelle fasce più a rischio di malaria: per ora il margine di efficacia resta basso ( per cento), ma è già un risultato molto importante e consolante, pur tenendo conto che la protezione offerta dal vaccino è di breve durata, riducendosi nel tempo dopo la terza dose

e necessitando una quarta iniezione a  mesi dalle prime tre. Gli studi fino al  non sembravano essere troppo confortanti, con un’efficacia del  per cento nel primo anno; le , milioni di dosi somministrate nell’ultima sperimentazione hanno dimostrato una riduzione media del  per cento della sintomatologia grave, rendendo decisamente conveniente, per quanto non ancora risolutivo, l’utilizzo del vaccino contro la malaria che, non dimentichiamolo, salverà tantissimi bambini dalla morte dovuta a un decorso severo», conclude Chizzolini.


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MONDO MIGROS

Il minestrone al 100% ticinese

Attualità ◆ Anche i fagioli borlotti che compongono la miscela di verdure per il minestrone nostrano sono ora coltivati in Ticino. Ne abbiamo parlato con Roberto Buzzi, direttore dell’azienda Quarta Gamma di Riazzino, produttrice di questo apprezzato prodotto per Migros Ticino

po essere stati mondati, grossolanamente puliti e parzialmente tagliati, dovranno essere ancora lavati e cucinati dal consumatore. Quest’ultimi sono definiti «prodotti di terza gamma». Quali sono i prodotti che fornite a Migros Ticino? Forniamo due tipi di prodotti. In primo luogo, i prodotti di quarta gamma che sono tutte le insalate in busta con la coccarda Nostrani del Ticino e il caratteristico nome in dialetto ticinese, assortimento composto da cicorietta, insalata filante, iceberg, rucola, insalata saporita, spinacino e formentino. Novità di quest’anno dall’ottimo successo sono state le verdure preparate e tagliate finemente alla julienne, ossia carote, cabis rosso e cabis bianco. Ci sono poi alcune miscele di insalate stagionali e festive lavorate da noi, ma con ortaggi non provenienti dai nostri campi. Queste sono proposte nei periodi in cui in Ticino a causa del clima non si possono coltivare determinate verdure. Infine, proponiamo alcuni prodotti di terza gamma: oltre appunto al minestrone ticinese, anche il minestrone leggero, il misto per brodo, la zucca a cubetti e a fette e il porro tagliato.

Roberto Buzzi, direttore dell’azienda Quarta Gamma SA di Riazzino.

Signor Buzzi, cos’ha di nuovo il minestrone ticinese? Rispetto al passato siamo riusciti a realizzare il progetto di produrre anche i fagioli borlotti in Ticino, cosa che fino all’anno scorso nessuno coltivava. Ciò è stato possibile grazie alla collaborazione con un’azienda agricola ticinese situata sul Piano di Magadino, con la quale abbiamo dato avvio ad un progetto sperimentale di coltivazione di questi legumi che ha dato ottimi risultati. Prima questa miscela di verdure non era nostrana? Certamente. Riuscivamo a farla nostrana con la deroga di Alpinavera, poiché più dell’% della materia prima era comunque di origine ticinese. Alpinavera è l’associazione intercantonale che controlla e certifica le aziende che producono prodotti regionali. Quali sono le altre verdure che compongono il mix per minestrone? Le altre verdure sono le carote, le verze, i porri e il sedano; tutte materie prime coltivate in modo sostenibile per un lungo periodo dell’anno in Ticino da agricoltori locali.

Di cosa si occupa la vostra azienda? Lo scopo principale dell’azienda è di valorizzare i prodotti dell’agricoltura ticinese e prepararli adeguatamente alla distribuzione sul mercato. Il tutto a km . Siamo infatti un’azienda che lavora verdu-

re e ortaggi prevalentemente locali per proporli ai consumatori pronti al consumo. Questi prodotti vengono chiamati «di quarta gamma» e sono per esempio composti da insalate e verdure mondate, tagliate, accuratamente lavate e confezionate. Inoltre, realizziamo anche prodotti che, do-

Minestrone Nostrano al kg Fr. 7.80

Come si cucina un minestrone perfetto con la vostra miscela? Dopo essere stato lavato, versare il contenuto della confezione in una pentola grande, aggiungere  litro di acqua fredda, portare ad ebollizione e cuocere a fuoco lento per almeno  minuti. Si può aggiungere una patata tagliata a dadini e, per insaporire, un dado di verdure, una cipolla tagliata sottile e uno spicchio d’aglio. A fine cottura aggiungere a piacere olio, sale e pepe.

Un dolce di qualità

Attualità ◆ Il tradizionale panettone firmato San Antonio è un prodotto genuino dall’ottimo rapporto qualità-prezzo, realizzato interamente in Ticino

Ampia varietà

Sono oltre dieci le tipologie di panettone e pandoro prodotte dai pasticceri della Jowa di S. Antonino per tutti i negozi Migros della Svizzera. Accanto ai classici panettoni in diversi formati, la gamma include anche il panettone artigianale e quello Sélection, entrambi particolarmente ricchi di canditi e uvetta, il pandoro tradizionale e quello con finissime gocce di cioccolato, come anche una stellina alla cannella. Lavorazione accurata

Per ottenere un panettone di qualità ci vogliono almeno  ore di lavoro, considerando i tempi di lavorazione e di lievitazione naturale. Gli ingredienti includono farina di frumento svizzera, uva sultanina, frutta candita, burro, tuorlo d’uovo e lievito madre di frumento curato e custodito dalla Jowa stessa. Quest’ultimo permette di ottenere un prodotto aromatico, profumato e più facilmente digeribile.

Qualità certificata

Tutte le fasi del processo di produzione delle specialità firmate Jowa sottostanno ai più severi criteri di qualità e igiene. La qualità delle materie prime è definita con precisione e la composizione dei prodotti finiti, come pure i valori nutritivi, la durata e i possibili allergeni sono dichiarati dettagliatamente sulla confezione. Un’efficiente logistica assicura che tutte le filiali siano rifornite quotidianamente con prodotti freschissimi.

Panettone San Antonio 1 kg Fr. 11.–

Caratteristiche e consigli di consumo

I panettoni e pandori della Jowa si mantengono morbidi a lungo e posseggono un aroma delicato e un’alveolatura ben sviluppata, indice dell’utilizzo del pregiato lievito madre e di una lunga lievitazione. Per apprezzarne appieno le sfumature gustative, si consiglia di portarli a temperatura ambiente qualche ora prima del consumo.


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MONDO MIGROS

Ordina la tua carne preferita in pochi clic Attualità

Componi la tua fondue di carne fresca online e ritirala presso la filiale Migros più vicina

Con l’arrivo della stagione fredda cresce anche la voglia di pietanze ricche e gustose da assaporare in buona compagnia, senza tuttavia dover spendere troppo tempo a spadellare tra i fornelli. Uno di questi piatti è certamente la fondue di carne. Che si tratti di chinoise o bourguignonne, ti diamo la possibilità di creare comodamente online il tuo vassoio con le carni fresche preferite e di ritirarle nella filiale Migros più vicina. Puoi per esempio scegliere tra tagli quali il filetto o scamone di manzo e vitello, il filetto o la lonza di maiale, il petto di pollo o ancora la lombatina di agnello. Sul nostro sito trovi inoltre molti suggerimenti e idee per una preparazione pienamente riuscita, come le quantità ideali per persona, gli ingredienti per l’olio e per un brodo saporito, le salse d’accompagnamento e i contorni più adatti per valorizzare queste pietanze amate da grandi e piccoli. A proposito, sul medesimo sito è anche possibile farsi preparare la carne per una grigliata da tavola oppure, per variare i gusti, perché non optare per una deliziosa fondue di pesce? A te la scelta e buon appetito. Informazioni e ordinazioni Migros.ch/bancone

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Anno LXXXIV 15 novembre 2021

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Donne, fare politica si può Pubblicazioni

Tre giornaliste raccontano le esperienze personali e la carriera di 21 donne svizzere attive in politica

Natascha Fioretti

Quest’anno c’è di che stare allegri. Festeggiamo mezzo secolo di voto alle donne e la prima volta di un Parlamento cantonale a maggioranza femminile con  donne e  uomini. Proprio dalla rivoluzione di Neuchâtel, da questa prima Svizzera, espressione di una tendenza positiva complessiva che con le ultime elezioni federali del  ha visto un numero inedito di donne entrare in Parlamento a Berna, inizia il viaggio delle tre giornaliste Nathalie Christen, Linda Bourget e Simona Cereghetti. Un viaggio che racconta profili, esperienze, storie di ventuno donne svizzere attive in politica. Schweizer Politfrauen:  Portraits, die inspirieren, è il titolo del libro che mette a fuoco i diversi percorsi intrapresi, le difficoltà incontrate, le insicurezze e le paure che più d’una volta hanno fatto tentennare ma mai mollare le protagoniste. Se è vero che l’ambito della politica, come del resto molti altri (forse tutti?) non è a misura di donna, dall’altra è vero, e queste storie lo dimostrano, che un modo per farcela c’è. Superare le proprie resistenze interiori, dunque la scarsa fiducia nelle proprie capacità, la paura di esporsi ai media, il timore che non vengano riconosciute le proprie competenze, le riserve a candidarsi per le prossime elezioni, è possibile. Petra Gössi (Partito Liberale Radicale), Céline Amaudruz (Unione

Democratica di Centro), Marianne Maret (Membro del Consiglio degli Stati), Diana Gutjahr (Membro del Consiglio Nazionale), Susan von Sury-Thomas (Membro del Gran Consiglio di Soletta) o Ada Marra (Membro del Consiglio Nazionale) non avrebbero mai varcato la porta della politica se i loro compagni di partito non le avessero spinte ad entrare in lista. Delle resistenze esteriori fanno parte l’atteggiamento maschilista in certi circoli politici, i pregiudizi, i commenti impietosi pubblicati dai media, gli hate speech sui social media, ritmi quotidiani che difficilmente si incastrano con la vita famigliare.

Marina Carobbio: «Non dobbiamo vergognarci di volere il potere. Se gli uomini possono averlo, anche le donne lo possono avere» Tutto è superabile di questi tempi e a dimostrarlo ci sono i numeri delle statistiche elettorali che dal , anno dello sciopero femminista, registrano una tendenza in crescita della rappresentazione delle donne in politica. «Uno slancio che non dobbiamo perdere» dice Simona Cereghetti, corrispondente da Berna per la RSI da ormai quasi sette anni. «Occuparsi di politica è molto appassionante, ri-

tengo una grande fortuna fare questo lavoro, seguire ciò che viene deciso a Palazzo Federale e poterlo raccontare agli altri. Mi piace incontrare la gente, i protagonisti di ciò che si racconta». Parliamo della rivoluzione delle elezioni federali del , della bellezza di poter vivere questo momento storico importante per le donne in Svizzera. «Quest’anno le elezioni so-

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no state entusiasmanti così come entusiasmante è stato lo sciopero nel . È stato intenso vivere il momento in cui sono state elette insieme Karin Keller Sutter e Viola Amherd. C’era anche Marina Carobbio, Presidente del Consiglio la nazionale, è stato un tripudio di femminilità all’interno di un Parlamento che comunque resta maschile. Pensiamo al Consiglio degli Stati, vi siedono più donne rispetto al passato ma sono comunque una minoranza». I ventuno ritratti ripercorrono la carriera politica e la storia personale delle protagoniste della politica svizzera: «il nostro obiettivo era quello di farci raccontare le difficoltà e le esperienze negative vissute per dimostrare, a chi leggerà il libro, che sono superabili». Durante uno dei primi giorni in Gran Consiglio di Greta Gysin un rappresentante della Lega, oggi non più in carica, le avrebbe detto «sei stata eletta perché sei bella». In fatto di ostilità maschile non è certo un’eccezione, Simona Cereghetti racconta di Claudia Boschetti Straub, sindaca del comune di Blenio «quando è stata eletta si è ritrovata a lavorare in municipio con tutti quelli che si erano candidati per lo stesso posto e la collaborazione sin da subito è stata tutt’altro che scontata». Un’altra storia particolare è sicuramente quella di Manuela Weichelt che il  settembre del  fu vittima dell’attentato al Parlamento di Zugo da parte di Friedrich Leibacher in cui rimasero uccise  persone. Lei sopravvisse ma alla fine dell’anno si ritirò dalla politica. Attualmente Consigliera nazionale per il Canton Zugo, la sua carriera è iniziata nel lontano  quando a soli  anni è stata eletta granconsigliera. A proposito di giovani conquiste, c’è Mattea Meyer che a soli trentatré anni insieme a Cédric Wermuth guida il Partito socialista svizzero. Trentatré sono anche gli anni di Lisa Mazzone del Partito ecologista svizzero, eletta membro del Consiglio degli Stati nel . Trentaquattro sono quelli di Corina Gredig del Partito verde liberale eletta nello stesso anno al Consiglio nazionale. Giovani e meno giovani, rappresentanti di diversi partiti politici che siedono in diverse Camere politiche in questo libro vanno a braccetto. C’è la storia di Anna Giacometti che dopo la tragica frana del Pizzo Cengalo nel  si è trovata a guidare l’unità di crisi. «La sua figura mi è piaciuta molto. È

una donna concreta e molto schietta, al tempo della frana è stata molto esposta e quando è dovuta subentrare alla cellula di crisi nessuno credeva in lei. Non si è mai imposta, ha sempre cercato di coinvolgere i collaboratori, ha imparato con umiltà dal suo predecessore per poi decidere la sua linea strategica». Il bello di questo libro sono proprio gli aneddoti, i piccoli e grandi incidenti di percorso che nella loro eclatante concretezza ci consegnano un messaggio importante: si può fare. Una giovane Marina Carobbio si era preparata per un dibattito televisivo. Qualcuno all’ultimo minuto tentò di sostituirla con un esponente più anziano quindi più esperto. Lei però si impose con coraggio e fece il suo dibattito. Anche la giovane Viola Amherd non si lasciò intimidire dall’allora sindaco che durante una seduta l’apostrofò con «antipatica strega!». Ci sono cambiamenti importanti in atto, non si discute ma la politica resta un ambito maschile, «dobbiamo approfittare di quel movimento nato nel , di quella forza esterna perché è con quella, con l’appoggio di associazioni apartitiche come Alliance F e FaftPlus, che possiamo modificare ciò che c’è dentro Palazzo federale» sostiene Simona Cereghetti. «Come dice Marina Carobbio non dobbiamo vergognarci di volere il potere. Se lo possono avere gli uomini, anche le donne lo possono avere». Con più donne nei vari consessi politici cambierebbero le decisioni su questioni come il pensionamento anticipato delle donne o la mozione sull’omicidio passionale. Mentre ci salutiamo Simona Cereghetti mi ricorda che anche dopo la sessione delle donne del  e  ottobre scorso «continueremo a parlare di donne perché è importante farlo, è importante che quella consapevolezza del  si ripeta nel , non solo alle urne ma in generale tra la gente. Non possiamo fermarci, dobbiamo cavalcare l’onda». In quest’ottica, perché non tradurre il libro nelle altre lingue nazionali? Si cercano editori! Bibliografia Nathalie Christen, Linda Bourget, Simona Cereghetti, Schweizer Politfrauen: 21 Portraits, die inspirieren, Schweizer Illustrierte – Ringier Axel Springer Schweiz, Zürich 2021.


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I ricordi del bambino

Il caffè delle mamme ◆ Come e cosa ricordano i bambini? Lo spiega Tomaso Vecchi, professore di Psicologia cognitiva e sperimentale all’Università di Pavia

Simona Ravizza

Gabriel Garcia Marquez, scrittore colombiano premio Nobel per la Letteratura, lo sintetizza in modo magistrale: «La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla». A Il caffè delle mamme la domanda è ricorrente: da grandi cosa ricorderanno i bambini del tempo passato insieme a noi? Le fiabe della buonanotte, i giochi sul lettone, le ore dedicate a fare e disfare costruzioni di Lego e di legnetti Kapla oppure a inventarsi storie di castelli e principesse, saranno custoditi almeno un po’ nella mente e nei cuori dei nostri figli? Come genitori che ricordi riusciamo a formare? L’interrogativo affiora spesso anche nelle chiacchierate notturne con mio marito Riccardo: resterà qualcosa – ci chiediamo – delle serate trascorse a giocare a Taboo, Cluedo e Risiko, delle estati a viaggiare alla scoperta di luoghi d’arte, dei menu studiati con l’amore di chi spera di lasciare traccia dei sapori dell’infanzia e dell’adolescenza? L’occasione per rispondere ai mille interrogativi su come e cosa ricordano i bambini arriva da una lectio magistralis di Tomaso Vecchi, professore ordinario di Psicologia cognitiva e sperimentale e vicerettore dell’Università di Pavia, autore di saggi come Che cos’è la memoria e Memoria (ed. Carocci). L’ha tenuta durante il webinar del ciclo «Frontiere in medicina dell’età evolutiva», organizzato a metà ottobre da Gian Luigi Marseglia, direttore della clinica pediatrica al San Matteo di Pavia, e al quale ho partecipato come moderatrice. Di seguito i cinque punti essenziali della lezione di Vecchi. Uno. Generalmente è impossibile rievocare episodi precedenti ai tre-cinque anni di età. Lo possiamo sperimentare anche a Il caffè delle mamme. Ciascuno può farlo. È quella che brutalmente viene definita amnesia infantile. Un po’ ciò può essere determinato dal fatto che le strutture neurali legate al ricordo – soprattutto le aree frontali – si sviluppa-

no progressivamente solo durante la crescita. Un po’ può dipendere dal doppio filo che lega la memoria al linguaggio, ancora in fase di apprendimento a quell’età: «È possibile che ciò che accade prima dei tre-cinque anni venga perduto – sintetizza Vecchi – a causa dello sviluppo del linguaggio stesso». Ciò, però, vale per gli adulti. Perché? Due. Il principio generale è che la memoria dipende dal passato, ma riguarda il futuro: le informazioni che da grandi teniamo a mente sono soprattutto quelle utili per il nostro futuro. È il motivo per cui modifichiamo in continuazione le conoscenze in funzione di quello che ci può servire. «I nostri ricordi si sono formati sulla base di conoscenze passate. Invece il loro utilizzo, ossia la finalità evolutiva, non riguarda il ricordo in sé – scrive Vecchi in Che cos’è la memoria –, ma piuttosto l’uso di queste informazioni per prevedere il futuro». Anche ciò, però, vale sempre per gli adulti. Tre. Come funziona, invece, per un bimbo? Qui arriviamo ad affrontare quella che, almeno in apparenza, può sembrare una contraddizione: se chiediamo a nostro figlio di tre anni cos’ha fatto ieri o la scorsa estate, lui riuscirà a raccontarcelo per filo e per segno. Infatti, di per sé i bambini riescono a trattenere informazioni di vario tipo già da un anno di età. Ma com’è possibile, allora, che memorie estremamente accurate durante i primi anni vengano cancellate nell’età adulta? Il motivo è che, al contrario degli adulti, la memoria di un bambino non serve per aggiornare delle conoscenze utili nel futuro. Quattro. Questo punto è il cuore della questione: «La memoria di un bambino serve – sottolinea Vecchi – per comprendere il mondo, trovare regolarità nelle esperienze vissute, acquisire il significato delle cose». In gergo tecnico, è quella che viene definita come «costruzione di una seman-

Una delle scommesse più importanti per i genitori è quella che li lega alla memoria dei propri figli. (Shutterstock)

tica». Da piccolo mi ricordo nei dettagli cosa ho fatto al mare nell’estate A, B e C; poi mi dimentico i particolari e acquisisco il significato di che cosa si fa al mare, e dunque cosa vuole dire. «Prima la memoria dei bambini si basa su ciò che hanno a disposizione, ovvero i ricordi così come sono – dice Vecchi –. A seguito di ripetute esposizioni ai medesimi eventi, si arriva alla costruzione di una conoscenza concettuale. Così la necessità di mantenere accuratamente le singole informazioni cessa». Per Il Caffè delle mamme questa è l’argomentazione che inchioda chiunque sia scettico sull’importanza di formare ricordi nei bambini (marito Riccardo compreso). Da grandi non si ricorderanno più il trullo della Puglia circondato da ulivi, le chiese inerpicate sulla roccia di Modica (Sicilia) e nemmeno

i Fori imperiali di Roma illuminati la notte: ma, c’è da sperare, si porteranno con sé il ricordo della bellezza di viaggiare. La storia della Guerra degli scoiattoli letta in un lungo viaggio in treno sicuramente la scorderanno, ma forse qualcosa rimarrà della dolcezza del tempo insieme. Le nostre ore in cucina a preparare a mano il pesto ligure o gli gnocchi certamente andranno perse, ma magari il sapore del cibo buono lo porteranno con sé. Ne Alla ricerca del tempo perduto, Proust descrive bene il funzionamento associativo della memoria: dopo aver mangiato un pezzo di madeleine, il suo sapore lo riporta mentalmente alla prima volta in cui l’ha provata e alle sensazioni che aveva provato allora: «Avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi… All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto

era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio». Del resto, quello che ci lega alla memoria dei nostri figli per Il caffè delle mamme è una delle scommesse più importanti che dobbiamo affrontare come genitori: dare solidi basi di un tempo felice insieme per potere affrontare poi da soli (senza sentirsi tali) le difficoltà della vita. Cinque. Questo è il punto dolente. I bambini, come anche gli adulti, hanno una memoria flash-bulb, traducibile con memoria a lampadina: in mente restano più facilmente impresse le sorprese e i traumi. Le prime sono impegnative da fare, i secondi purtroppo sono facili da creare.

Viale dei ciliegi Laura Magni e Giulia Orecchia I Fantastimici e la tempesta sul fiume ADV Junior Laura Magni e Giulia Orecchia I Fantastimici e l’avventura della luna piena ADV Junior Laura Magni e Giulia Orecchia I Fantastimici e la marmellata arrosto ADV Junior. Da 5 anni

Nella frenetica rincorsa alle novità, soprattutto nell’ambito dell’editoria per l’infanzia, si rischia di trascurare libri che invece meriterebbero adeguate segnalazioni, com’è il caso delle vivaci storie dei «Fantastimici», tre volumi pubblicati tre anni fa dalla casa editrice ticinese ADV Publishing House, nella collana ADV Junior. Ottimamente valorizzate dalle illustrazioni di Giulia Orecchia, una delle più amate illustratrici italiane per l’infanzia, queste storie ci portano, con il ritmo che Laura Magni infonde alla sua scrittura accurata, a vivere avventure fantastiche (da «fan-

di Letizia Bolzani

tastimici» appunto!) con sette gatti e una bambina. È la bambina l’io narrante della storia, chiamata «Lei» dai gatti: bella quest’idea di usare la prospettiva felina per identificare la piccola protagonista, utilizzando il pronome e non un nome specifico («non quello con cui mi chiamavano a scuola, ma quello che usavano per me i Fantastimici»), e quindi permettendo ancor più l’identificazione di ogni piccola lettrice o lettore. «Lei», dunque, ci racconta le avventure di questi mici che aveva conosciuto nel cortile di casa sua, prima che l’intolleranza dei condomini e il pericolo dei feroci CatBuster – una sorta di lupi accalappiagatti – incombessero su di loro.

Per sfuggire a tutto ciò, i Fantastimici vanno a vivere in una vecchia barca da pesca che rimettono a nuovo, dipingendola con i colori dell’arcobaleno, e chiamandola, in omaggio alla loro amica umana, anch’essa «Lei». Ma le avventure sono solo iniziate, i CatBuster sono sempre in agguato, e bisognerà sconfiggerli con coraggio e acume. Molto adatti alla lettura ad alta voce, anche per lo stile della Magni, che interpella e coinvolge chi ascolta, e per l’impianto narrativo ben montato: gli incipit, ad esempio, riprendono ogni volta un pregiudizio sui gatti da smontare: c’è chi dice che i gatti odiano l’acqua, c’è chi dice che i gatti sono pigri, c’è chi dice che i gatti sono egoisti...; inoltre i sette fantastimici sono caratterizzati uno per uno, con un nome, una personalità, e naturalmente con un aspetto gioiosamente definito da Giulia Orecchia. Martina Wildner Sonnambuli, maledizioni e lumache Pelledoca. Da 11 anni

Da fuori si pensa alla Germania come a un paese «unico», invece le sue culture sono multiformi. Se un

bambino traslocasse di colpo, ad esempio, dalla Sicilia all’Alto Adige, avrebbe, almeno all’inizio, un’impressione di straniamento; e così accade al tredicenne Hendrick e al suo fratellino Eddi, che dalla Sassonia si trasferiscono in un paesino della Baviera. Il dialetto parlato lì è diverso dal loro, la comunità del villaggio è piuttosto chiusa, loro sono quelli «dell’Est», in fondo un po’ stranieri. Ma quel che è peggio – ed è questo il focus del romanzo, il cui titolo originale è appunto Das Schaurige Haus – è che la casa in cui sono andati ad abitare, ha un’aria, e una reputazione, molto inquietante. Riprendendo dunque il classico tema della casa

infestata, questo romanzo si sviluppa come un thriller, mantenendo alta la tensione, e l’ambiguità, tra una storia di fantasmi e di bambini «posseduti» e una storia di indagine più realistica in cui le tessere del mistero possono andare a posto anche senza scomodare l’oltretomba. Certo è che in questa tensione tra horror e thriller il romanzo rientra nei canoni da «pelledoca» dell’omonima casa editrice. Il titolo italiano allude sia alle crisi di sonnambulismo del piccolo Eddi, in cui egli sembra entrare in contatto con i bambini che avevano precedentemente vissuto in quella casa; sia a una sorta di maledizione che sembra gravare sui bambini del paese; sia alle repellenti lumache senza guscio da cui egli è ossessionato e a cui allude il cognome dei vecchi proprietari della casa, Schneckmann. Come si può intuire, il lavoro di traduzione (e di adattamento) di un romanzo così giocato su terminologie e cultura tedesca è notevole, ed è stato molto ben svolto da Anna Patrucco Becchi, che di Martina Wildner aveva già tradotto La regina del trampolino. Da questo Schaurige Haus è stato tratto un film, The Scary House.


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Un libro che è un condominio

Gli edifici della Cooperativa di Costruzioni Domus a Chiasso erano stati progettati dall’architetto Augusto Jäggli.

Editoria ◆ Pubblicato Domus. Via Pasquale Lucchini 3/5/7-Chiasso, libro che racconta la storia e le storie di un’originale esperienza abitativa popolare

Alessandro Zanoli

Ne parlavamo proprio qualche tempo fa su queste pagine. Bisognerebbe che qualche appassionato di microstoria locale si mettesse a raccogliere documentazione biografica e antropologica sulla «civiltà dei casoni», quell’epoca degli anni  e  in cui in Ticino sono sorti i grandi palazzi alla periferia dei nostri agglomerati urbani. Venuti su a tempo di record in quegli anni, pompati dal boom economico postbellico, hanno dato modo di crescere a una generazione di bambini inizialmente un po’ estranei, guardati magari con diffidenza dagli autoctoni dei quartieri più centrali. Del resto in quegli insediamenti di edilizia popolare gli inquilini appartenevano alle classi sociali proletarie, ma è indubbio che molti figli di quella lower middle class abbiano poi potuto approfittare della positiva contingenza economica, studiare e farsi largo nel mondo. Docenti, funzionari bancari, imprenditori, artigiani specializzati sono cresciuti nei «casoni» e da lì hanno potuto spiccare un balzo occupando posti di prestigio. Un libro pubblicato di recente si occupa di ricostruire un’esperienza di questo tipo. È stato realizzato da un gruppo di ex giovani residenti (coordinati da Yolanda Moser e Giuseppe Valli) cresciuti in alcuni palazzi sulla via Lucchini di Chiasso. Si tratta di

una raccolta di ricordi e di immagini di un’esperienza sicuramente originale: così rare sono in Ticino le iniziative di edilizia cooperativa (ce ne siamo occupati su «Azione» non molto tempo fa...) che il vissuto di chi ha avuto l’opportunità di crescere nelle case della Cooperativa di Costruzioni Domus a Chiasso merita di essere conosciuto e ricordato. Importante in particolare sapere che la sua progettazione si doveva a un importante firma d’architetto ticinese, quella di Augusto Jäggli. Un particolare che oggi stupisce gli stessi curatori della pubblicazione, i quali ignoravano di essere inquilini di un progetto, in un certo senso, avveniristico. Caratteristica molto piacevole di questo libro è che appare esso stesso come una sorta di condominio, occupato com’è dai ricordi e dalle voci in prima persona di molti dei protagonisti di quella convivenza. E attraverso questo discorso corale si restituisce al lettore un ritratto umano e ottimista. Il gusto di rievocare il passato (soprattutto di quel periodo economicamente positivo in cui pareva che ognuno potesse concretizzare i propri sogni e in cui tutte le opportunità sembravano a portata di mano) tinge i vari racconti di una tonalità affettiva forse un po’ troppo benevola. Si sa, la nostalgia è difficile da tenere sotto con-

trollo: il piccolo mondo dei ricordi è spesso più rosa di quello reale, ma non importa. Importante è che queste voci si siano conservate e contribuiscano a restituirci un tassello di vita sociale attiva e comunitaria, che finisce per irradiare un po’ del suo sentimento positivo anche sull’oggi. In fondo abbiamo bisogno di sapere che veniamo da un luogo carico di bei ricordi, sui quali modellare l’esperienza del luogo in cui viviamo ogni giorno. Perciò, viene da pensare che sarebbe bello se ogni palazzo del nostro cantone potesse scrivere un libro come questo. Si creerebbe una biblioteca di storie importante e preziosa, in cui ognuno degli abitanti potrebbe trovare un suo posto e un suo senso, nella costruzione della storia del nostro paese. Una storia concreta di convivenza e solidarietà, di nascite e di morti, di drammi e commedie. Ci avevano provato, tanti anni fa quelli del teatro Trickster, che giravano le case di Chiasso con una pièce pensata per essere messa in scena in vari appartamenti privati. Era una pièce che raccontava la storia di un palazzo: la nostra idea va proprio in quella direzione. Ogni palazzo dovrebbe davvero poter scrivere la propria. Per chiudere: un amico, vicino di casa in un «casone» proprio a fianco di quello in cui è cresciuto chi scrive,

è riuscito a intraprendere gli studi e a diventare avvocato. Avviata una brillante carriera si è poi trasferito in una bella villetta nella parte residenziale del paese. Ha messo su famiglia e ha, come si dice, fatto fortuna. Un giorno, passando attraverso il suo vecchio quartiere, ha detto ai suoi figli adolescenti, con un po’ di nostalgia e un po’ di fierezza: «Ecco, io sono cresciuto qui». I due ragazzi l’hanno guardato con sufficienza e hanno replicato «Dai papà, cosa dici, non scherzare». Insomma, non ci credevano. Raccon-

tandomi la cosa, l’amico sorrideva e mi guardava negli occhi, un po’ triste e un po’ allegro. I libri come questo servono proprio a non far dimenticare da dove veniamo, e quanto valore ci sia, in fondo, nelle storie di vicinanza con gli altri che abbiamo vissuto. Bibliografia Giuseppe Valli, Yolanda Moser, Domus, Via Pasquale Lucchini 3/5/7 – Chiasso, Ed. Progetto Stampa, Chiasso, 2021. Annuncio pubblicitario

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La mia vita da pastore buddista. Di pecore, non di anime

Matrimoni forzati, se ne parla

Mauro Giacometti

Donne ◆ Il 27 novembre Soroptimist International Switzerland organizza un evento in tre città

Incontri ◆ Il mesolcinese Nicola Toscano si racconta tra gli yak sorvegliati all’Alpe Cadlimo, la capanna trasformata in un tempio tibetano e la transumanza invernale in Vallese

NicolaToscano durante la tradizionale transumanza della mandria diYak sul Passo dell’uomo. (Ti-Press)

Il mio maestro buddista Sakya Trizin dice: «Devi guardare questo mondo come una prigione e devi pensare a come evadere». Per Nicola Toscano,  anni, da Mesocco, buddista praticante, pastore e tosatore di pecore a tempo pieno, l’evasione dalla prigione del mondo sono i  metri dell’Alpe Cadlimo, tra il Passo del Lucomagno e la regione di Piora, alle sorgenti del Reno di Medel, affluente del Reno le cui acque sfociano dopo oltre  km nel Mare del Nord. Lì, in un paesaggio aspro e battuto dai venti che spazzano le Alpi da nord a sud, da una ventina d’anni, da giugno a ottobre, Nicola si rifugia con duecento yak, i tipici bufali tibetani con il pelo folto e le lunghe corna, che accudisce e sorveglia insieme ai suoi quattro cani pastore: «Lassù tra pietraie assolate vi si svolge uno strano mercato. Puoi barattare i vortici della vita per una felicità senza limiti». «Questo è il pensiero di Milarepa, uno dei più grandi religiosi e poeti tibetani. Una visione della vita che condivido pienamente», ci dice il pastore mesolcinese per spiegarci perché una ventina d’anni fa ha raccolto e vinto una sfida: far integrare i bufali tibetani nelle Alpi svizzere. «Uno zoo austriaco aveva un paio di yak, ma questi animali, che vivono prevalentemente nella regione nepalese, facevano fatica ad adattarsi. Così li trasferirono ad Andermatt e mi chiesero di occuparmene. Sapevano dei miei trascorsi in Nepal e della mia passione per la pastorizia e il bestiame, che avevo trasformato in lavoro. Così d’estate li portai all’Alpe Cadlimo, che ricorda molto da vicino il paesaggio tibetano: ci sono i pendii, le vallate e c’è anche l’acqua corrente e i laghetti dove ai bufali piace sguazzare. E da due esemplari, nel corso degli anni, gli yak sono diventati duecento», racconta. La stagione estiva a quota  per Nicola Toscano non è proprio all’acqua di rose: «Finché c’è bel tem-

po questo posto è un paradiso, ma in certe giornate, quando soffia il vento da nord, piove o nevica, non riesci nemmeno ad uscire dalla capanna per andare in bagno. Gli yak invece se la godono: un clima così rigido per loro è un toccasana». Attrezzando la capanna che gli fa da rifugio e centro di preghiera e meditazione, Nicola è riuscito a ricreare un piccolo Tibet nell’alta valle di Blenio. Quando arriva pianta una bandierona blu che, spiega, «oltre che segnalare la mia presenza serve a far capire agli Yak che sono a casa loro». Poi sistema gli altari dentro la capanna, anch’essa circondata dalle tipiche bandierine tibetane di preghiera usate per promuovere la pace, la compassione, la forza e la saggezza. E non è raro per chi d’estate frequenta questi sassosi sentieri per un’escursione, sentire il pastore di Mesocco che recita il Nam Myoho Renge Kyo, la preghiera buddista per antonomasia, piuttosto che intonare alcuni dei mantra imparati in Nepal, nella regione di Kathmandu, dove all’inizio degli anni  si trasferì per qualche mese all’anno. «Allora c’erano i figli dei fiori che partivano per l’India e il Nepal a cercare pace, meditazione e anche qualche droga per sfuggire dalla realtà. Io ci tornavo ogni anno perché ero affascinato da quel mondo, povero, contadino, semplice ma così ricco di umanità e di tradizioni millenarie. Mi sembrava di fare un salto nel Medioevo, lontano da macchine e inquinamento, dallo stress di una società che stava cambiando in peggio. E stavo bene con quel popolo e con me stesso», racconta, sottolineando come fu in Nepal che incontrò la filosofia e la religione buddista che continua ancora oggi a riempire la solitudine delle lunghe giornate del suo lavoro di pastore. Nicola «svernava» in Nepal, imparava a conoscere gli yak e si manteneva facendo da guida ai turisti alla ricerca di un mondo diverso, ma poi

tornava sempre in Svizzera a fare il pastore «transumante». «Fu mio padre che a  anni mi spinse verso questo lavoro. Vedeva che stavo “sbandando” e prendendo una brutta piega, quindi mi propose di andare su un’alpe ad allevare capre e a fare formaggio. Mi trovai bene e da allora fare il pastore è la mia vita». Pastore nel senso che governa e guida le pecore, non di allevatore o proprietario di bestiame. «A parte qualche capra che tengo nella mia casa di Mesocco, non ho mai posseduto un animale. Gli allevatori mi chiamano, sanno che possono fidarsi, e io gli riconsegno il bestiame dopo la transumanza invernale». Già perché «governare» la mandria di yak sull’Alpe Cadlimo per Nicola è una vacanza. Il suo vero la-

A scuola per imparare a sorvegliare le greggi In Svizzera ci sono mezzo milione di pecore. La legge sulla protezione degli animali stabilisce che devono essere tosate almeno una volta all’anno per motivi igienici. Nel sistema di formazione agraria svizzera, però, pecore e pastori non hanno una posizione rilevante. La maggior parte dei pastori lavora nei pascoli alpini durante l’estate; alcuni lavorano anche d’inverno con greggi di pecore transumanti, com’è il caso di Nicola Toscano. Attualmente esistono circa 200 pastori che lavorano nelle fattorie alpine d’estate e da 25 a 30 pastori transumanti con greggi che si spostano in inverno sui monti Plateau, in Vallese e nel Giura. Da qualche anno, nelle Scuole agrarie di Landquart e Visp (in lingua tedesca) e di Châteauneuf (in francese) si svolgono corsi teorici e pratici riservati ad allievi di oltre 18 anni per ottenere un attestato ufficiale di pastore qualificato.

voro è accompagnare e sorvegliare le greggi. È da quarant’anni che ogni inverno Nicola Toscano parte per il Vallese dove gli allevatori locali gli affidano le loro pecore. «Sono animali rimasti invenduti nei mercati autunnali e che devono svernare per essere riproposti in primavera. Io li raduno, quindi con il permesso degli agricoltori li porto a pascolare nei prati e nei boschi della campagna vallesana». Pascolare e camminare: in genere Nicola percorre decine e decine di chilometri con il suo gregge, aiutato negli ultimi anni da Remo, un giovane pastore basco che probabilmente sarà il suo erede. «Ho superato i  anni e il mio fisico comincia a risentire di questa vita passata all’addiaccio. Presto smetterò e mi ritirerò nella mia casa di Mesocco, con mia moglie, Amalia, l’unico essere umano capace di sopportarmi e stare al fianco di un tipo un po’ balordo come me». Amalia, originaria della Val Colla e trapiantata per amore di Nicola in Mesolcina, si sente in sottofondo che ride: «È lei il mio vero maestro, la mia guida», ci dice il pastore buddista che nella sua travagliata e avventurosa esistenza non ha mai perso il senso della realtà. Nella sua casa di Mesocco, però, Nicola non starà con le mani in mano. Dalla Mesolcina al Ticino, infatti, gli allevatori continueranno a chiamarlo quando c’è da tosare il bestiame. Le pecore, soprattutto, che Nicola «maneggia» con perizia da autodidatta per toglier loro di dosso la lana superflua. «È una tosatura igienica, non da reddito. La produzione di lana in Svizzera non è un affare. Da qualche anno, però, anche nel nostro paese ci sono un paio di scuole di formazione per pastori e tosatori, quindi ci sono sempre più giovani svizzeri che si stanno avvicinando al mestiere. È una consolazione sapere che non sarò l’ultimo dei pastori tosatori».

La violenza contro le donne è una realtà in tutti i Paesi del mondo, anche in Svizzera. Lo ha ribadito un’indagine condotta dall’istituto di ricerca Sotomo commissionata dalla DAO (organizzazione mantello delle case delle donne) e reso pubblico settimana scorsa: il % delle donne in Svizzera ha già subito violenza nell’ambito di una relazione di coppia. Meno frequente è nel nostro Paese parlare di matrimoni forzati, ma è proprio a questa forma di violenza nei confronti di donne a volte giovanissime e spesso minorenni, che Soroptimist International Unione Svizzera dedica un evento che si svolgerà in contemporanea a Lugano, Lucerna e Ginevra. L’occasione è data dalla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne che si celebra ogni  novembre, ma anche dall’anniversario dei  anni d’esistenza del Soroptimist International, associazione di donne attive professionalmente con al centro d’interesse la condizione femminile nella società (in Svizzera il primo club è stato fondato nel  a Ginevra). Per quanto riguarda il Ticino i Soroptimist International Club del Mendrisiotto, Lugano e Locarno organizzano la proiezione del film Ala Kachuu – Take and Run della regista Maria Brendle. Il film girato interamente in Kirghizistan è stato sostenuto dall’Unione Svizzera delle soroptimiste per mezzo del progetto «Cinepresa in pugno» che intende promuovere cineaste impegnate nella causa delle donne. La storia della giovane Sezim rapita da un gruppo di uomini per essere data in sposa a uno straniero racconta come i matrimoni forzati siano una «tradizione» ancora largamente praticata nel Kirghizistan. L’appuntamento è per sabato  novembre, alle . nell’Aula A del campus Ovest (Casa rossa) dell’USI di Lugano. Al termine del film seguirà una discussione nella quale interverranno Gloria Dagnino (Responsabile Pari opportunità dell’USI), Emanuela Epinay-Colombo (avvocata, ex giudice, specializzata in diritto della famiglia), Giorgio Carrara (Capo servizio violenza domestica della Polizia cantonale), Catherine Schuppli (Psicologa dell’infanzia e dell’adolescenza) e Jolanta Jozefoski (ginecologa e soroptimista). L’evento è aperto al pubblico, previa iscrizione allo     oppure scrivendo a matrimoniforzati@hotmail.com, è richiesto il certificato Covid.


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SOCIETÀ

Cetacei, non solo bellezza e maestosità Mondo sommerso

L’evoluzione del cervello, la ricchezza dei comportamenti e la struttura sociale complessa dei mammiferi marini

Sabrina Belloni

Le innovazioni tecnologiche, le condizioni economiche e una maggiore sensibilità ambientale oggi permettono ai ricercatori di studiare il mondo animale meglio che in passato. In particolare, è migliorato sensibilmente il monitoraggio dei mammiferi marini, i quali raramente potevano essere indagati perché vivono in ambienti inaccessibili alla maggioranza delle persone fino a poche decine di anni or sono. Studiare balene e delfini liberi, nei loro ecosistemi naturali, è evidentemente difficile e costoso, tuttavia, importante per capire le dinamiche del pianeta Terra, considerato che la vita sulla terraferma dipende in larga misura da mari e oceani, dalla fissazione dell’anidride carbonica al rilascio di ossigeno, alla mitigazione del clima e dell’atmosfera, eccetera. Alcuni ricercatori, affascinati dai comportamenti dei cetacei, hanno scoperto aspetti delle loro strutture sociali che erroneamente si pensavano essere esclusivi dei mammiferi terrestri. I mammiferi marini sono molto intelligenti e possono essere addestrati a svolgere compiti che richiedono precisione e determinazione. Sin dai tempi delle guerre mondiali, tursiopi e beluga sono stati istruiti a compiere incursioni in luoghi inaccessibili ai soldati e ai mezzi militari. Alcuni sono stati addestrati a cercare e identificare mine nascoste nei fondali oppure fissate a boe galleggianti. La loro capacità di trovare oggetti in acque profonde o con poca visibilità non può ancora oggi essere sostituita dalla tecnologia. «Le società di delfini e balene sono complesse almeno quanto quelle osservate nei primati» sostiene Susanne Shultz, biologa dell’evoluzione dell’Università di Manchester. Non sorprende pertanto che i mammiferi marini – così come i nostri bimbi – imparino nozioni insegnate di proposito (non per caso) dalle proprie madri, nonne, zie (prevalentemente in linea matriarcale) e che sviluppino culture diverse a dipendenza dei gruppi nei quali vivono. Proprio come le persone, alcuni vivono in aggregazioni, altri preferiscono la solitudine; scelgono individualmente di socializzare oppure nuotare da soli, e questi comportamenti cambiano di giorno in giorno. Ci sono individui dall’indole indisponente, alcuni più curiosi e intraprendenti, altri più timidi e riservati. Non si tratta di umanizzare ciò che è osservato, bensì si tratta di una presa d’atto di realtà studiate da ricercatori indipendenti di tutto il mondo, che hanno potuto monitorare gli animali sin nelle azioni più intime. I delfini (, le specie viventi) so-

Sopra, la balena grigia (Eschrichtius robustus), si avvicina alla barca e consente alle persone di accarezzarla, a Magdalena Bay, Baja California, Messico. Qui, un’orca, Orcinus orca, alle Isole Lofoten in Norvegia, Oceano Atlantico. Sotto a sinistra, un coppia di delfini di fiume rosa o Boto, geoffrensis Inia, Lago Acajatuba, fiume Negro, Amazzonia, Brasile. (Franco Banfi)

no mammiferi molto comunicativi, vivono in gruppi in cui le stimolazioni sociali sono la normalità. Il loro cervello è da sempre considerato uno dei più complessi e, come quello delle persone, è composto da due emisferi, dei quali uno rimane sempre sveglio, in modo alternato. Ciò consente loro di avere uno stato di coscienza sufficiente per la respirazione, che è volontaria. I membri di ogni aggregazione comunicano fra loro e con individui esterni tramite fischi, squittii e clicks.

È evidente che interagiscono continuamente. E talvolta anche con violenza gratuita, a discapito di individui più piccoli o più deboli. I delfini non sono propriamente quel concentrato di tenerezza che permane nell’immaginario collettivo, bensì creature senzienti e opportuniste. Sono predatori naturali: non esitano a ricorrere alla violenza sessuale per imporsi sui maschi provenienti da altri gruppi e agli infanticidi, che sono commessi da esemplari pasciuti e forti, pertanto non specificamente

per fame. La vita sociale dei delfini maschi è intensa. C’è un’alleanza di base, nella quale due o tre maschi cooperano lo stretto necessario per accoppiarsi con una femmina. Questa può evolvere in un’alleanza di secondo grado, in cui alcuni esemplari formano una gang e compiono attacchi per tenere lontani i maschi di altri gruppi dalle proprie femmine, cercando tuttavia anche di conquistare le femmine degli avversari. Talvolta degenerano in azioni che coinvolgono oltre venti delfini che si Balena Franca Australe, Eubalaena australis, Golfo Nuevo, in Patagonia, Argentina, Oceano Atlantico. (Franco Banfi)

mordono e colpiscono l’un l’altro per il dominio su una femmina. Un terzo livello prevede coalizioni con maschi di altri raggruppamenti in assalti in cui spesso le femmine soccombono, costrette a subire stupri di gruppo senza poter riemergere per respirare finché annegano. Società complesse, con legami culturali forti, sono svelate anche dai riti funebri. Come riportato nel reportage focalizzato sui globicefali (v. «Azione» dell’ febbraio), essi formano unità molto coese in cui trascorrono quasi interamente la propria vita, dalla nascita alla morte, partecipando alla vita di tutti i membri. È stato sorprendente documentare il comportamento solidale di un intero gruppo, nel quale due femmine trasportavano i corpi dei propri cuccioli morti alla nascita, riluttanti a lasciarli sprofondare negli abissi. I capodogli, dotati anch’essi di cervelli molto grandi in proporzione alla dimensione del corpo, vivono in gruppi in cui le matriarche guidano gli altri membri (come gli elefanti). Solamente i maschi adulti sono solitari e si riuniscono alle femmine nel periodo strettamente necessario al corteggiamento e accoppiamento. Le femmine madri dei capodogli si alternano nelle mansioni di baby-sitting dei cuccioli, coinvolgendo anche le femmine e i maschi immaturi delle loro unità familiari, per proteggere i piccoli mentre sono a caccia di prede nelle profondità oceaniche. I cuccioli vengono allattati da tutte le femmine madri, non specificatamente dalla propria. Le orche vivono in tutti gli oceani e hanno delle preferenze alimentari legate alla cultura e al luogo in cui si trovano, ma tutte cacciano in gruppo, aiutandosi a vicenda. Alcune aggregazioni si nutrono di merluzzi nel Mare del Nord, altre di salmoni in Canada, altre di foche in Argentina e Antartide, altre dei cuccioli di balena che risalgono con le madri lungo la costa orientale dell’Oceano Pacifico (balene grigie) durante le migrazioni verso l’Artico, oppure che nuotano nell’Oceano Indiano occidentale (balene megattere) verso l’Antartide. Gli attacchi delle orche sono premeditati e orchestrati. Come i membri di una squadra sportiva, ognuna ha il proprio ruolo e il successo dell’azione è determinato dalla coesione e dalla compartecipazione. Non di rado sono stati documentati attacchi in cui gli esemplari adulti insegnano agli adolescenti immaturi come cacciare e quale ruolo assumere. Alcuni tursiopi afferrano con i denti e le labbra le spugne di mare, servendosene come rudimentali bendaggi per proteggere i loro rostri mentre scovano le prede nella sabbia. «L’evoluzione di cervelli, la ricchezza dei comportamenti e la struttura sociale evoluta dei mammiferi marini è straordinariamente simile alla socialità degli esseri umani e di altri primati sulla terraferma» conclude Luke Rendell, biologo dell’Università di St. Andrews, anche senza cadere nell’eccesso di antropomorfizzare gli animali e di farli apparire simili a noi. Fortunatamente mantengono unicità, varietà e ricchezza di interazioni che ci sorprendono costantemente. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica


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SOCIETÀ

L’altropologo

di Cesare Poppi

Prima che le balene cantino ◆

Quando il  novembre  la casa editrice newyorkese Harper & Brothers, famosa per quella che sarebbe diventata la «Harper’s Magazine», pubblicò The Whale, romanzo destinato a passare alla storia come Moby-Dick, la caccia alla balena era una delle industrie più fiorenti del Nuovo Mondo. La produzione di olio di balena per l’illuminazione pubblica allora in piena espansione e la domanda di olii industriali raggiunse il massimo della crescita attorno al  per poi declinare rapidamente attorno al  con lo sviluppo dell’industria petrolifera che forniva kerosene e lubrificanti a prezzi concorrenziali. La pubblicazione di The Whale negli Stati Uniti era stata peraltro preceduta, il  ottobre dello stesso anno, dall’edizione inglese della storica Casa Editrice Richard Bentley (quelli di Dickens, Cooper e Stevenson, per intenderci). Herman Melville aveva cominciato a

scrivere la storia nel , ispirandosi al successo di una serie di reportage ed opere letterarie di vario merito relative ad uno storico capodoglio maschio albino che frequentava le acque cilene noto ai balenieri come Mocha Dick, dall’isola lungo le coste dell’Araucania presso la quale avrebbe sostenuto parecchi ed infruttuosi scontri con le baleniere prima di essere ucciso. Mocha Dick era famoso per un suo modo personale di sfiatare con un potente getto verticale che produceva, nelle agghiaccianti descrizioni che ne costruirono la leggenda, «un ruggito udibile da lontano come lo sfiato di una potentissima macchina a vapore». Il suo colpo di coda era micidiale, di una potenza da mandare in frantumi le baleniere che tentavano di avvicinarlo per il colpo mortale. L’anomalia albina, la vulcanica sfiatata, la scaltrezza con la quale Mocha Dick aveva sconfitto più volte i suoi aguzzini, assieme al-

La stanza del dialogo

la memoria dell’affondamento della baleniera di Nantucket Essex il  novembre  da parte di un capodoglio inferocito – con la conseguente storia di naufragio e cannibalismo (che certo i lettori dell’Altropologo ancora ricorderanno nei loro incubi notturni) – ispirarono Melville a scrivere quel grande affresco che sarebbe diventato Moby-Dick. Ma affresco di cosa, di preciso? Di quella che viene unanimemente descritta come l’atto fondante di una letteratura finalmente «americana» e dunque non ancillare alla cultura europea è stato scritto di tutto e di più nel tentativo di capirne – posto che esista – il messaggio incluso nella lettera, lo spirito implicito nella narrativa. Il tono biblico della narrativa di Ishmael – un «Tutti Noi Narrante» protagonista che dalla Scrittura si ritrova sul ponte del fatale Pequod; l’ossessione di Ahab contro un fato implacabile che nel-

la furia designa come oggetto della vendetta chi diventerà suo apocalittico carnefice; Queequeg, il boia arpioniere alieno ed innocente – eppure designato e condannato – che peraltro intravede per primo la fine – tutto, è stato detto, può essere letto come metafora di… Ognuno ci metta del suo, in quanto le attente, quasi etnografiche annotazioni tecniche sulla caccia alla balena e la sua storia naturale si intrecciano nella narrativa con l’apertura di istantanei spiragli metafisici che colpiscono il lettore con la stessa potenza evocativa del lampo di un faro ritmato da fasi sconosciute per il navigante che scruti ansioso un approdo troppo vicino a terra… The Whale è forse il primo, vero romanzo «moderno» che scruta oltre sé stesso. Perduta l’autorevolezza della Parola Scritta all’ombra della quale era comunque cresciuta la letteratura occidentale sicura che nella Paro-

la fosse contenuta la Verità, solo che l’Autore tentasse comunque di iscriversi a quel programma sia pure come suo sottoprodotto, Moby-Dick evoca la Scrittura per farne metafora di qualunque contenuto il singolo lettore voglia leggerci dentro. Il risultato è una sfida alla «razionalità del testo», ad una sua lettura «a lieto fine» nel caso che per questo si intenda la scoperta di un senso interpretativo definito – che non c’è. Non è un caso che le prime edizioni di The Whale furono un fiasco tanto editoriale quanto di critica. Accolto meno peggio in Inghilterra (dove ci fu per la verità anche chi ne vide le qualità di capolavoro) fu ampiamente cassato negli States poiché, per dirla in breve, non si capiva bene dove l’Autore volesse andare a parare. Oggi che abbiamo imparato che le balene cantano, anche il ruggito di Moby Dick ha tutt’altro, inquietante suono.

di Silvia Vegetti Finzi

Sorelle, un rapporto difficile ◆

Cara Silvia, attendo da tempo di leggere nella «Stanza» un quesito che riguardi due sorelle ma, in tanti anni, non è mai stato affrontato. Ora lo pongo io, traumatizzata da uno scontro con mia sorella che non riesco a comprendere e superare. Siamo nate in una città di provincia particolarmente tranquilla, in una famiglia senza conflitti, almeno apparentemente. Ma mi sto rendendo conto che non esistono famiglie che non abbiano tensioni, magari nascoste. Cominciando dalla fine, la mia storia è questa. Un mese fa, dopo aver acquistato un soprabito che mi stava particolarmente bene, sono passata da mia sorella, che vive con la sua famiglia non lontana dalla nostra, per condividere la mia soddisfazione. Intenta a «stimarmi», non mi sono accorta della sua ostilità: taceva e diventava sempre più pallida finché d’un tratto, indicandomi la porta, mi ha sbattuto fuori di casa. Da allora non l’ho più sentita.

Invitata al compleanno della mia figlia minore non ha mai risposto. Ma io non mi rassegno. Morti i nostri genitori, non abbiamo più parenti d’origine, nessuno con cui condividere ricordi e ora sento che, benché entrambe sposate con figli, siamo rimaste sole. Mi può capire? Evelina Certo che ti capisco, tanto più che tra mia madre e sua sorella avvenne, tanti anni fa, una rottura simile, che non si ricompose più. Mi auguro invece che il vostro screzio sia superato, anche se non è superficiale come potrebbe sembrare. Nella tua lettera racconti di essere la primogenita e che tua sorella, nata due anni dopo, è sempre stata gelosa di te, tanto che talvolta ti morsicava, nascosta sotto la tavola. La gelosia riguarda di solito il primogenito, detronizzato da un usurpatore. Ma, come vedi, è possibile anche il contrario. Molto dipen-

Mode e modi

de dall’atteggiamento della madre, non sempre equanime. In ogni caso il rapporto tra sorelle non è facile perché la costruzione dell’identità si svolge, almeno inizialmente, per contrapposizione. Se il primo obiettivo è la madre (non essere come lei), il secondo è la sorella (essere meglio di lei). Accade così che la persona che più ci somiglia sia anche quella che sentiamo più diversa. Se la madre valorizza la differenza e controlla le preferenze, le due sorelle crescono unite e solidali. Questo non deve essere accaduto nel vostro caso e, da quanto mi sembra di capire, sei sempre stata la prediletta mentre tua sorella ha cercato invano di eguagliarti: dopo il tuo matrimonio con un ingegnere, ha sposato un ingegnere, ha voluto vivere in una villetta simile alla tua e avere due figli come te. Il soprabito nuovo è il pretesto che ha messo in moto un’in-

vidia remota, mai riconosciuta, mai moralmente condannata. Chissà quante volte tua sorella si sarà sentita meno bella, meno corteggiata, meno riuscita di te! E non importa se i dati obiettivi possono smentirlo, le passioni sono cieche. E si rivelano tali perché, al contrario dei sentimenti, coinvolgono il corpo, come rivela il pallore e il mutismo che hanno preceduto lo scoppio di collera che ti ha travolto. Anche per i vostri ragazzi non sarà facile perdere i cugini con i quali sono cresciuti e che hanno rappresentato i primi amici-nemici. Purtroppo la psicoanalisi, tanto attenta al legame genitori-figli, ha trascurato la sorellanza, che pure influenza i rapporti con le altre donne. Fortunatamente però è appena uscito un libro che colma questa lacuna. Scritto dalla psicoterapeuta Laura Pigozzi, s’intitola appunto Sorelle ed è edito da Rizzoli, Milano.

Ora, cara Evelina, ti chiedi come rimediare a una catastrofe affettiva che coinvolge anche mariti e figli. Meglio lasciar tempo al tempo, che può essere un grande terapeuta e poi, alla prima occasione, trovare una mediazione, evitando il confronto diretto, «faccia a faccia». Se i rispettivi mariti hanno buoni rapporti, lascia a loro il compito di ricucire la ferita quando avrà finito di sanguinare. E se questo avverrà, come spero, cercate di ricominciare in modo nuovo, declinando insieme eguaglianza e differenza. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

di Luciana Caglio

Convivere con il rischio si può, anzi si deve ◆

Una coincidenza fortuita, ma indicativa, ha affiancato due fatti di cronaca recenti. Il  ottobre scorso Norbert Bolz, professore di scienze mediatiche all’università di Berlino, invitato dalla NZZ, affrontava il tema del rischio da un versante insolito: come una possibile, anzi necessaria presenza, nella nostra quotidianità, un imprevisto da accettare. Mentre tradizionalmente, da noi, rappresenta uno spauracchio da cui proteggersi preventivamente. Non a caso, proprio in Svizzera, stipulare con un’adeguata polizza assicurativa la copertura contro ogni imprevisto, è diventato uno sport nazionale, su cui si sprecano persino le ironie. Per il turista elvetico, un classico del repertorio è il pericolo pioggia che potrebbe guastargli le vacanze e relativi passatempi, previsti e già pagati contrattualmen-

te. Tutto ciò per dire che la paura del rischio denuncia l’incapacità di sfruttare in modo positivo un fuori programma, indizio di fantasia bloccata. Secondo Bolz, occorre, più che mai, sviluppare una «cultura del rischio», in grado di fare di necessità virtù. Lo esige l’epoca che sta moltiplicando strumenti tecnologici e mezzi di comunicazione e di trasporto, persino voli spaziali prodigiosi ma incomprensibili al cittadino comune, e quindi fantasmi sinonimo di rischi. «Un volo cieco nel futuro»: così s’intitola la relazione di Bolz, apparsa poi sulle pagine del quotidiano zurighese, dove allusione inevitabile, si parla della paura provocata da una pandemia, addirittura del vaccino, pericolo inverosimile nell’era delle garanzie, affidate a una polizza di cassa malati. Tuttavia Bolz, al pa-

ri di altri studiosi, quali Gerd Gigerenzer, direttore del prestigioso Max Planck Institut berlinese, illustra gli obiettivi della «Risikokompetenz», una branca specifica in fieri, rivolta alla conoscenza del «rischio compagno di vita». Ora, mentre un pubblico, evidentemente ristretto, ascoltava o leggeva (non senza fatica, come nel mio caso) quest’invito alla riflessione sul rischio nuovo impegno culturale, un pubblico di dimensioni mondiali, vip politici compresi (basta citare il nome di Obama), ha partecipato, di persona o seguito virtualmente, il Climate Summit COP  di Glasgow dedicato ai pericoli che incombono sul futuro prossimo venturo del nostro pianeta. Proposti e illustrati per forza di cose, in ben altri termini, sia all’interno della sede congressuale sia all’esterno,

sulle piazze: obiettivo sollecitare l’intervento dei responsabili, in alto loco, di guai ambientali che insidiano il futuro del mondo di cui siamo ospiti e non padroni. Tutto ciò, ricorrendo anche a parole forti e comportamenti vivaci e spettacolari, sfruttando l’effetto Greta e lo scontro generazionale. Da un lato, ragazzi che si mobilitano per il verde, bene comune, dall’altro adulti, tipo industriali e banchieri rapaci che difendono le loro tasche. Al di là delle rispettive forzature autocelebrative, sta di fatto che il rischio è reale. Appartiene, paradossalmente, ai progressi e ai vantaggi prodotti dall’era industriale e oggi digitale. «Siamo usciti dall’era comfort»: l’espressione, anzi un bello slogan, spetta a Charlie Chaplin, che personalmente ha vissuto quest’espe-

rienza. Mentre prima, da ragazzo della periferia inglese aveva tutto a portata di mano e sotto controllo, dopo compiendo la scalata sociale verso la ricchezza e la notorietà, ha provato smarrimento, alle prese con rischi frastornanti. Ora, debite proporzioni a parte, l’era del comfort è una conquista per molti, se non per tutti. Le mete esotiche, le connessioni immediate con l’universo delle informazioni, gli acquisti, l’apprendimento, l’istruzione per via elettronica, e via dicendo, hanno, come giustamente si sente dire, allargato il nostro orizzonte. Non è più il cortile sotto casa, la piazza del paese, il bar dell’angolo, il quotidiano di provincia. È uno spazio incontrollabile: persino per Charlot, figurarsi per noi. Riuscire a convivere con i rischi, che ciò comporta, non sarà uno scherzo.


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Anno LXXXIV 15 novembre 2021

TEMPO LIBERO Case sperdute nei boschi Il villaggio La Prèsa si trova in Valle Bavona: è abbandonato ma oggi accoglie i visitatori

La Grecia che non ti aspetti Non solo spiagge rinomate e borghi pittoreschi; il Peloponneso nasconde anche perle nere

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azione – Cooperativa Migros Ticino 15

Più ricca e saporita Una carbonara sorprendente, grazie a castagne, coppa, salvia, uova e sbrinz

Un memory anagrammatico Torna Verba Volant in versione internazionale e a firmare il gioco è l’enigmista Ennio Peres

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Uno strumento rivoluzionario

Fotografia ◆ L’attrezzatura perfetta non esiste: dall’equipaggiamento essenziale agli accessori, dev’essere di volta in volta adattata alle esigenze

Come per ogni arte, intesa in senso largo, anche la fotografia è dotata di specifici strumenti necessari per la sua pratica. Abbiamo visto nell’articolo precedente come questi strumenti, pur perfezionando il loro funzionamento, siano rimasti nei primi decenni essenzialmente gli stessi. Con l’adozione della tecnologia digitale ha avuto luogo invece un profondo cambiamento: il supporto materico, tangibile, che era la pellicola, è stato sostituito da una placchetta fotosensibile, il sensore. Quest’ultimo cattura e traduce l’informazione luminosa in dati numerici. Notevoli sono state le ricadute legate a questa trasformazione, tali da modificare la natura stessa della fotografia e le modalità sociali e individuali della sua pratica. Non seguiremo qui l’approccio storico-sociologico del fenomeno, per lanciarci invece in una riflessione sugli strumenti oggi a disposizione di chi vuole fare fotografia. L’attrezzatura – chiamata anche corredo – è composta idealmente da una notevole quantità di strumenti, alcuni dei quali essenziali per poter fotografare, e molti altri solo accessori. Ma non per questo meno importanti, secondo il tipo di fotografia che uno aspira a fare.

Sta a chi fotografa capire, con la pratica, quali sono gli strumenti che dovranno per forza far parte del suo personale corredo Un esempio tra i tanti è il cavalletto: è fondamentale per certa fotografia di studio, o per quella d’architettura, ma è importante anche per il paesaggio, mentre diventa perlopiù solo un ingombro per chi fa street photography, reportages, cerimonie, o altri tipi di fotografia in movimento. Naturalmente, non vige una regola assoluta: qualcuno potrebbe decidere di appostarsi per strada con un cavalletto e scattare una sequenza di foto a partire dal medesimo punto di vista, magari mantenendo persino la stessa identica inquadratura, così da produrre una serie di scatti che ci parlerà della varia umanità che vive o magari semplicemente attraversa quello specifico luogo. Allo stesso modo, la scelta del cavalletto in quel contesto per qualcun altro sarà dettata dall’uso di un potente teleobiettivo, per evitare vibrazioni e ottenere immagini bene a fuoco, se è questo ciò a cui mira. O ancora, potrebbe servire per compensare la poca luce disponibile in quel momento, circostanza che necessiterebbe tempi lunghi di posa, magari così

lunghi da poter addirittura andare a bersi un caffè lasciando la macchina a lavorare… Già solo da questi pochi esempi si può capire quale infinità di motivi – soggettivi, estetici o contestuali – incidono sulla scelta di un dato accessorio: il cavalletto, nel caso in questione. Sta quindi a chi fotografa capire, man mano che avanza con la pratica, quali sono gli strumenti che dovranno per forza far parte del suo personale corredo. E di quali invece potrà fare a meno. Con l’avanzare della pratica, si diceva, perché la fotografia è fondamentalmente esplorazione della realtà, ma è anche un mondo che, quando si comincia, non si finisce più di esplorare. Col risultato di ritrovarci spesso di fronte a situazioni inaspettate che richiedono prontezza di riflessi, ingegno e talvolta, appunto, anche nuovi strumenti da adottare. Si sarà compreso che non esiste il corredo perfetto, ma solo quello più adatto per affrontare specifiche situazioni a partire da proprie previsioni o dalle aspettative dettate da un eventuale committente. E se l’amore per la fotografia vivrà oltre la curiosità di una mattina qualsiasi, e col tempo si consolida, vedrete che la vostra attrezzatura si modificherà – in qualità e in dimensioni – sulla base dei vari bisogni che incontrerete. Quanto detto per gli accessori si applica pari pari al corredo di base. Di cui appunto necessitiamo per poter fotografare ovvero: macchina fotografica e obiettivi. Un argomento quest'ultimo che non può tuttavia essere affrontato seriamente in un semplice articolo a causa del fatto che esistono troppe tipologie di apparecchi, suddivisi per altrettante gamme di prezzo e di qualità. Ma non per questo non si possono dare alcuni piccoli consigli. Innanzitutto va detto che per la scelta di una macchina fotografica è buona cosa passare un po’ di tempo in rete, dove troverete tante utilissime informazioni in merito. Qui potrete anche fare confronti tra vari modelli, valutando le loro caratteristiche tecniche. Inoltre alcuni siti contengono recensioni utili, ma attenzione a quelle che pur presentandosi come tali sono invece pubblicità indiretta. Insomma, l’esplorazione inizia sul web per farvi un bel giro d’orizzonte a partire dalle vostre specifiche necessità. Al di là dei vostri desideri, se siete alle prime armi, forse sarebbe il caso di scegliervi comunque dei modelli non eccessivamente costosi – questo discorso vale sia per le macchine fotografiche sia per gli obiettivi. Propenderei per una macchina con obiettivi intercambiabili – spesso offerte già in abbinamento con uno zoom suffi-

Pxhere.com

Stefano Spinelli

cientemente esteso (dal grandangolo al medio teleobiettivo) per poter affrontare tante diverse situazioni, dal ritratto, al paesaggio, allo still life… –, non per forza dotata di un sensore full frame (risultano assai costose) ma neppure con un sensore troppo piccolo (scade in qualità). Possibilmente reflex – vi permetterà di inquadrare con precisione e comodamente in quasi tutte le situazioni – e se per di più ha l’ausilio di un display snodabile, tanto meglio. E infine, sceglietela se possibile con la possibilità di regolare l’espo-

sizione direttamente dal corpo macchina nei vari classici modi: manuale, semi-automatico e automatico. Questo perché è particolarmente scomodo e limitante regolare l’esposizione passando attraverso i menù. Anche se non per forza è d’obbligo, la possibilità di regolare da voi i parametri di esposizione per ottenere una «corretta» fotografia – corretta sulla base di ciò che vogliamo soggettivamente ottenere – rimane un punto di partenza imprescindibile per chi vuole approfondire la pratica fotografica. Per quanto riguarda gli obiettivi,

oltre allo zoom che vi consigliavo per praticità – con un solo obiettivo coprirete più situazioni, e andrete in giro felicemente leggeri – in un secondo tempo si aggiungeranno quasi di sicuro alcune ottiche fisse, che normalmente implicano una migliore resa rispetto agli zoom. Quali lunghezze focali adottare? Di nuovo, molto dipenderà dal tipo di fotografia che andrete perlopiù a fare, dunque principalmente dalle vostre propensioni o necessità personali. Vedremo di affrontare più in esteso questo tema in un prossimo articolo.


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Abbandonato ma non dimenticato

Itinerari

La Prèsa, un nucleo oggi disabitato in cima alla valle Bavona

Elia Stampanoni, testo e foto

Pensando a un paese abbandonato si potrebbe immaginare un ammasso di ruderi minacciati dall’avanzata del bosco, a qualche muro e a tanti sassi caduti qua e là. Ma il villaggio a La Prèsa, seppur da tempo disabitato, è molto più di questo, con un territorio curato e alcuni edifici restaurati. A ciò s’aggiunge una sensazione di calma e di serenità, emozioni che si possono vivere anche in altre località della valle Bavona, dove sorge questo nucleo.

Il campanile, sopraelevato nel 1638 come indica la data incisa, è di certo più antico dato che le sue travi risalgono al 1345 e al 1412 Per arrivarci bisogna innanzitutto raggiungere la valle e risalire lungo le sue dodici terre (undici in territorio di Cavergno e una di Bignasco). La carreggiata, così come il sentiero, salgono dolcemente per arrivare a San Carlo, a quota  metri di altitudine. Da qui in cinque-dieci minuti si giunge a piedi in quello che era in passato un borgo abitato, per l’appunto al villaggio La Prèsa ( mslm). Abbandonata definitivamente attorno al , la frazione non è stata dimenticata e ha trovato un nuovo interesse storico e culturale grazie a un intervento di valorizzazione avvenuto a partire dagli anni  (dopo alcuni precedenti provvedimenti risalenti al  e ). Oggi, del villaggio rimangono ben visibili molte strutture, alcune delle quali ancora integre. Spiccano di certo il campanile con l’annessa cappella all’entrata del borgo e due case-torri in parte restaurate. L’Associazione per la protezione del Patrimonio artistico e architettonico di Valmaggia (APAV) è stata promotrice degli interventi e nel  ha pure pubblicato un opuscolo che aiuta a capire meglio la storia della Prèsa, dove il primo insediamento, grazie alle ricerche e alle analisi effettuate, si può far risalire al XIII secolo.

Le analisi dendrocronologiche effettuate su delle travi ritrovate – messe a confronto con la struttura degli edifici, con alcune date scolpite e con dei riferimenti storici rinvenuti da Luigi Martini – hanno di fatto permesso di formulare una serie d’ipotesi sulla successione dei fatti, dalla

costruzione delle prime strutture fino all’abbandono. Come leggiamo nel fascicolo dell’APAV, nel  vi fu la costruzione della cappella, i cui affreschi presenti all’interno sono stati staccati dopo uno straripamento del riale e sono ora esposti, al sicuro, nell’oratorio

di San Carlo. L’adiacente campanile, sopraelevato nel  come indica la data incisa, è certamente più antico, dato che le travi risalgono al  e al . La costruzione delle case a torre risale invece al periodo tra il  e il , così che il nucleo doveva essere composto da nove abitazioni, a cui si aggiungevano due stalle, cinque costruzioni sotto roccia, gli splüi, e altri edifici la cui funzione non ha sempre potuto essere stabilita con certezza. È il quadro di un piccolo borgo che sapeva vivere con le risorse naturali presenti sul territorio, a conferma dell’abilità manuale degli abitanti e delle loro capacità d’adattamento. Le costruzioni sono per esempio state erette a ridosso di grossi macigni, i quali hanno così protetto il villaggio da valanghe, frane o alluvioni. La superficie antistante, più pianeggiante e accessibile, era invece destinata alla coltivazione, grazie alla formazione d’ingegnosi terrazzamenti. Alle spalle del nucleo si notano tuttora dei grandi castagni che dovevano essere una delle risorse per la so-

pravvivenza di questa popolazione. Le cause dell’abbandono si fanno risalire a un probabile evento catastrofico naturale, che spinse gli abitanti verso un luogo meno pericoloso, individuato alla Sgrüscia, l’attuale San Carlo. La Prèsa rimase così, a partire dal  circa, una località primaverile e autunnale della transumanza, per poi essere abbandonata definitivamente solo attorno al . Il paesello non è però stato dimenticato e oggi una visita permette di immaginare come doveva essere la vita in questo luogo ameno della valle Bavona, dominata da grossi massi, pareti rocciose, boschi impervi e poche zone pianeggianti. Diverse erano le case a torre che, con una struttura simile, permettevano di non «sprecare» il prezioso territorio grazie ai locali, due o tre, sovrapposti in verticale. Una strategia che permetteva anche di sfruttare al meglio il calore del focolare, il quale veniva acceso all’interno, dove si trovavano solo delle piccole aperture per la fuoriuscita del fumo. Due di queste case a torre, con pianta quadrata o rettangolare, possono essere visitate anche all’interno, perché aperte al pubblico: casa Togni e casa Del Ponte (dal nome dei precedenti proprietari), attualmente di proprietà dell’APAV assieme ad altri edifici ora diroccati. Un’altra costruzione interessante è la casa doppia, un’abitazione a tre piani costruita tra il  e il , di cui oggi rimangono solo le fondamenta e alcuni muri, ma che è però stata fotografata nel , prima del suo crollo avvenuto verso il . Una sua immagine si trova all’interno dell’opuscolo, assieme ad altre informazioni, approfondimenti e spunti su questo nucleo abbandonato ma non dimenticato. Gli interventi di salvataggio e valorizzazione sono stati possibili grazie alla generosità dei proprietari, all’intervento dell’APAV e della Fondazione Bavona e al contributo di altri finanziatori, tra i quali anche Migros Ticino. Annuncio pubblicitario

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Il terzo personaggio del Peloponneso Reportage

In esplorazione dietro le quinte della Grecia delle spiagge da sogno

Simona Dalla Valle, testo e foto

Città e luoghi abbandonati hanno colpito a lungo l’immaginazione umana. Il fenomeno del turismo Urbex (urban exploration – esplorazione urbana), che in anni recenti ha registrato una vera e propria esplosione in tutto il mondo, ha portato una curiosità crescente per decadenza e degrado. Pochi passi al di là delle spiagge più rinomate e dei borghi pittoreschi del Peloponneso, la penisola separata dal resto dello stato ellenico dal canale artificiale di Corinto, accanto alla Storia ufficiale dei grandi condottieri vi sono le storie sussurrate delle persone comuni. Storie che si annidano tra le pieghe di tende ormai distrutte, nei chiodi arrugginiti di un relitto, nelle travi di legno di un soffitto sfondato. Gythio era l’antico porto di Sparta, la porta d’accesso alla penisola del Mani. Il paese fu distrutto dagli ateniesi nel  a.C. e ricostruito da cima a fondo dagli spartani. Nel  d.C. cadde sotto l’occupazione dei Romani. Al largo, connesso alla terraferma da un lungo e stretto molo, si trova l’isolotto di Marathonisi, dove Paride gettò l’àncora dopo aver rapito Elena dal palazzo di Menelao a Sparta, e dove i due trascorsero insieme la notte che diede inizio alla Guerra di Troia.

Gythio, spiaggia di Valtaki, relitto della nave Dimitrios. Al centro, Gythio, una delle scalinate che portano alle case dei locali. Sullo sfondo l’isolotto di Marathonisi. In basso a sin., Nafplio, Nea Kios,Yaz Music Hall, ex locale da ballo. In basso a des., Gythio, il balcone di una casa abbandonata.

Affacciata sul Golfo Argolico, la città di Nafplio, che vanta una splendida architettura veneziana e strutture ottomane, assiste al crollo di decine di edifici sotto il peso dell’abbandono Capitale ufficiale del Mani, Gythio è un paese grazioso, la cui lunga passeggiata sul lungomare è affollata di taverne, bar e negozi in edifici neoclassici dai colori pastello. Qui, all’ombra della catena montuosa del Taigeto, i Fenici commerciavano la tintura di porpora di Tiro estratta dalle lumache marine che catturavano in mare; questa colorazione veniva poi utilizzata per tingere gli abiti reali. Per osservare gli edifici abbandonati di Gythio basta salire una delle grandi scalinate che dal lungomare portano al cuore del paese. Qui, fra alberi di fico e viste mozzafiato sul golfo, le modeste case dei locali si alternano a edifici dai tetti sfondati e hotel abbandonati che esibiscono dettagli inquietanti, da alcune bucalettere spunta posta vecchia di chissà quanti anni. Per ritrovarsi faccia a faccia con qualcosa di ancora più insolito si può prendere l’auto e seguire la Eparchiaki Odos Skala-Gythiou lungo una manciata di km in direzione nord: quella di Valtaki non è solo una bella spiaggia di sabbia, ma ospita anche il relitto della nave Dimitrios. Secondo il testo Ta Navagia stis Ellinikes thalasses («I naufragi dei mari greci»), la nave da carico – utilizzata probabilmente per il trasporto di sigarette illegali tra la Turchia e l’Italia – attraccò in emergenza nel porto di Gythio perché il capitano necessitava di cure mediche. A causa di problemi finanziari, la nave fu lasciata alla deriva nel porto e, dichiarata pericolante nel , fu in seguito sospinta nella posizione attuale dal mare in tempesta. Affacciata sul Golfo Argolico si trova invece la fascinosa città di Nafplio, capitale del Regno di Grecia fra il  e il , che vanta una

splendida architettura veneziana e strutture ottomane. Come nel caso di Gythio, anche qui decine di edifici storici stanno per crollare a causa dello stato di abbandono e per la negligenza delle autorità, che provocano le lamentele dei residenti. Tra questi edifici vi è la storica caffetteria-gelateria lungo la spiaggia di Arvanitia,

ora ridotta a una carcassa abbandonata in mezzo alla pineta. Al km quattro della strada costiera che da Nafplio conduce a Nea Kios, costellata da night-club che hanno vissuto tempi migliori, si trovano i capannoni della vecchia Εργοστάσιο Πελαργος (Fabbrica Pelargos). La storia della Pelargos è di notevole inte-

resse. Fondata nel 1930 da Gerasimos Karamelis, rifugiato giunto a Nafplio dall’Asia Minore alla fine del 1922, nei primi anni fu adibita principalmente all’inscatolamento di okra, fagioli e piselli sgusciati a mano. Dopo qualche anno, la produzione si espanse alle foglie di vite di Vrachati, zucchine della vicina Argos, dolmades, mar-

mellate e composte. Le merci erano inviate a destinazione in treno dalla stazione di Argo o in barca dal porto di Nafplio. Poco prima della Seconda guerra mondiale, iniziò la produzione del concentrato di pomodoro, che fece decollare la fabbrica. Ma Karamelis morì poco dopo, all’età di  anni, forse per lo stress di due spedizioni andate perse. La moglie Marika e il figlio Tassos portarono avanti l’attività, con mille difficoltà a causa dell’occupazione tedesca. Negli anni Sessanta la fabbrica si specializzò nella produzione di concentrato di pomodoro e si affermò sul mercato alle spalle della moderna Kyknos, tuttora esistente. Oggi, gli impianti appartengono all’Unione delle Cooperative Agricole dell’Argolide e tra il  e il  sono stati utilizzati per un festival musicale estivo. Nel , la superficie delle mura esterne è stata presa di mira dal gruppo di conservazione della vicina zona palustre di Nea Kios, che le hanno decorate con graffiti. Molti edifici abbandonati del Peloponneso hanno a che fare però con infrastrutture ferroviarie. La società ferroviaria greca SPAP, fondata nel , gestiva una linea a scartamento ridotto che collegava Atene al Peloponneso. La rete collegava città come Corinto, Argo, Nafplio, Tripoli, Megalopoli, Patrasso, Kalamata, Kyparissia e Pyrgos. La stazione di Myloi, sul lato ovest della baia di Nafplio, era uno snodo importante in questa rete. Nel  la crisi economica ha portato alla sospensione di tutti i servizi passeggeri e merci sul sistema ferroviario del Peloponneso. La stazione di Myloi appare oggi invasa dai resti arrugginiti di treni e locomotive a vapore che giacciono sui vicini binari di manovra. A Kalamata, invece, la stazione è stata trasformata in un parco ferroviario municipale, l’unico museo all’aperto del suo genere in Grecia. Completato nel  a ridosso della vecchia stazione Kalamata – Limin, il parco include quattro binari, una torre dell’acqua, tre locomotive con rimorchio e una passerella di  metri oltre a sette locomotive a vapore e una carrozza diesel, un verricello a manovella del , due draisine (una a pedale e una manuale), tre veicoli passeggeri di prima classe e cinque di prima-seconda classe risalenti al . Il parco si trova a pochi minuti dalla piazza centrale di Kalamata, seguendo la via Aristomenous verso il porto. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica


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TEMPO LIBERO

Ricetta della settimana - Carbonara con salvia e castagne ●

Ingredienti per 4 persone 120 g di coppa 1 mazzetto di salvia 1 c di burro per arrostire 1spicchio d’aglio 200 g di castagne o marroni cotti 500 g di linguine o spaghetti sale 4 uova 50 g di sbrinz

Preparazione

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1. Tritate grossolanamente la coppa e le foglie di salvia. Scaldate il burro. Rosolatevi brevemente la salvia a fuoco medio. Aggiungete la coppa e l’aglio schiacciato.

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2. Sbriciolate le castagne, aggiungetele e fatele rosolare per circa 2 minuti. Mettete il condimento da parte. 3. Lessate le linguine in abbondante acqua salata. Scolatele e versatele nuovamente in padella. Allontanate la pentola dal fuoco. 4. Sbattete le uova e versatele con la metà del condimento sulla pasta bollente. Mescolate bene, servite e guarnite con il condimento rimasto e lo sbrinz grattugiato. Preparazione: circa 40 minuti. Per persona: circa 38 g di proteine, 22 g di grassi, 105 g di carboidrati, 790 kcal/3300 kJ.

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Sorbi: belli e utili Mondoverde

Un albero amato da api e uccelli molto diffuso nell’Europa centro settentrionale

Anita Negretti

Qualche anno fa, durante una vacanza in campeggio in Svizzera centrale, mi sono fermata ad ammirare una pianta di sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia): era fine estate e la pianta era carica di grappoli di frutti rossi e arancioni. Le foglie verde brillante incominciavano a cambiar colore, diventando rosse e giallognole così da annunciare la loro imminente caduta. Rientrata dalla vacanza mi sono ripromessa di piantarne un esemplare in giardino, non solo per la sua bellezza, ma anche per quello che ho scoperto su questi arbusti: uccelli, api e molti insetti, infatti, legano la loro sopravvivenza proprio a questa pianta. In primavera-estate, per dire, quando sbocciano i piccoli fiori bianco crema riuniti in pannocchie, questi ultimi deliziano noi per il loro profumo ma allo stesso tempo alimentano le api; in autunno e fino ai primi freddi di dicembre diventa invece un’utile dispensa per l’avifauna. Quest’ultima caratteristica è così marcata da avergli regalato il nome comune di sorbo degli uccellatori, proprio perché quest’albero veniva piantato nei roccoli di caccia per attrarre passeri, merli e tordi con lo scopo, ahinoi, di intrappolarli nelle reti di cattura. Alti fino a dieci metri, di Sorbus aucuparia ne esistono varietà selezionate con crescita e sviluppo molto più ridotto, da poter coltivare anche in giardini dalle dimensioni medio-piccole o

addirittura in vaso. In questa fase è necessario tenere a mente che il nostro albero non ama terreni calcarei, preferisce quelli neutri o leggermente acidi, sciolti e fertili, prediligendo per il suo quieto vivere zone umide e semiombrose, come il limitare dei boschi.

Le bacche rosse del Sorbus aucuparia compaiono già a fine estate. (Marc Ryckaert)

Il Sorbus aucuparia ha svolto, in passato, un ruolo importante nella vita dell’uomo che lo impiegava in diversi rituali Dal fusto grigiastro, porta in alto una chioma densa e arrotondata, formata da foglie composte e pinnate, leggermente pelose nella parte inferiore, che spoglieranno l’albero a inizio autunno, ma senza dimenticarsi di regalargli un tocco di colore. Anche durante i mesi freddi, infatti, questo bell’albero non lascia indifferenti: tra i rami spogli si possono trovare interi mazzi di bacche rosso vermiglio, con polpa succosa e saporita. Molto diffuso nell’Europa centro settentrionale, grazie all’ampia disseminazione naturale data dai tre piccoli semi contenuti nelle bacche e indigeribili dagli stomaci degli animali e degli uccelli, il Sorbus aucuparia ha svolto nel passato un ruolo molto importante nella vita dell’uomo per quanto riguarda i rituali. Se i Celti li associavano alla rina-

scita primaverile, altri popoli recitavano formule propiziatorie bruciando il loro legno prima di una battaglia; inoltre, fino a qualche decennio fa, si appendevano rami di sorbo sulle porte delle stalle per scongiurare che gli animali allevati si ammalassero. Di questa famiglia, a parte il sorbo degli uccellatori, si trovano in vendita e in natura anche altre specie: Sorbo domestico, Sorbo montano (il cui

nome botanico è Sorbus aria) e Sorbo Ciavardello. Il primo di questi, cioè Sorbus domestica, produce le sorbe, frutti teneri e dolci che maturano tra agosto e ottobre, ma – attenzione – per poterli gustare devono prima esser posti in luoghi bui e asciutti, per poter diventare maggiormente dolci e appetibili (tecnica dell’ammezzimento). Il sorbo montano raggiunge un’al-

tezza di sei metri circa, ha foglie grandi, ovali o lanceolate e con margine dentellato, con una peluria argentea sul lato inferiore. I suoi fiori bianchi e appariscenti sbocciano a grappoli da fine maggio, dando origine ai frutti sferici verdi che poi nel corso di tutta l’estate coloreranno di arancio e rosso il nostro giardino, o i boschi che li accolgono: anch’essi sono molto graditi agli uccelli. Annuncio pubblicitario

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2. Con del filo floreale attaccate all’anello dei rametti di abete, eucalipto o bacche. Con un po’ di colla a caldo incollate all’anello delle palline di Frey Freylini. Procedete allo stesso modo con altri elementi decorativi come pigne o piccole figure. Inserite nella corona una ghirlanda luminosa a batteria.

20x

Foto:Yves Roth; Styling: Mirjam Käser

Cumulus *

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3. Incartate dei piccoli regali e numerateli. Incollatevi sopra dei Frey Yummy Napolitains. Attaccate i pacchetti all’anello con uno spago. Infine, decorate il calendario con dei cioccolatini da appendere Frey.

* 20x Punti Cumulus sui FreyYummy Napolitains, fino al 22 novembre * 40 percento di ribasso sui Frey Freylini Palline Classic Mix, fino al 22 novembre


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Memoria, fortuna e abilità

Giochi di parole ◆ A oltre vent’anni dalla prima uscita, torna Verba Volant in un’edizione Intenational grazie all’ingegno del giocologo italiano Ennio Peres Manuela Mazzi

Tanto semplice quanto divertente, ma soprattutto utile. Verba Volant International è certamente uno dei giochi1 di parole tra i più universali 2 3 che 4 5 6 7 siano mai stati ideati. Il suo creatore 8è Ennio Peres, matematico, inse9 10 gnante, enigmista italiano, giocologo e, non da ultimo, collaboratore di 11 12anni. 13 «Azione» da tanti Si è detto utile, e non solo dunque per divertirsi, bensì per passare 15 14 16 il tempo in modo costruttivo, per allenare la memoria sulla quale è18basa17 19 20 to l’intero gioco, e per aumentare la capacità di concentrazione dei par23 24 tecipanti grazie alla necessaria21 abili- 22 tà anagrammatica. Potrebbe, infine, aiutarci persino a migliorare la 25 nostra 26 scrittura di una lingua estera. La vera novità, di fatto, è 27 che la 28 medesima confezione del «prodotto» offre la possibilità di aprire una parti29 ta addirittura in ben sette diverse lingue europee (italiano, inglese, fran- alla prima edizione del , che era cese, tedesco, spagnolo, portoghese, per l’appunto destinata solo a un pubolandese) – e chissà per quante altre blico italofono. All’epoca, il successo lingue si potrebbe adattare. Lingue, che riscontrò Verba Volant fu comundelle quali è tuttavia opportuno avere que di grande portata, tanto che, di là una buona conoscenza lessicale, o al- delle ristampe, il gioco fu aggiornato meno avere intenzione di migliorar- e riproposto più volte, tra le ultime: 2 5 6 la1armandosi di 3un buon4 vocabolario. in italiano nel  (e poi nel  in Da pochi mesi in vendita, Verba inglese). E proprio dal , questo Volant International è una riedizione gioco è distribuito anche dall’asso7 pubblicata da Oliphante (su licenza ciazione italiana «Giovani nel Temdella Studiogiochi di Venezia), che po» (www.giovanineltempo.it), la 8 però alcune modifiche rispetto 9 quale si propone di divulgare provanta

Ma.Ma.

Giochi per “Azione” - Novembre 2021 Sargentini Stefania G I U L A I R O D N P A E

A T E O A G E R N I A C A K I E S E A C N O T I F I O I A N dotti in grado di allenare e manteO C O nere le individuali capacità psicologi-

che e cognitive (memoria, attenzione, linguaggio, pensiero astratto eccetera), destinando una parte dei proventi ricavati da tali attività, alla ricerca sull’invecchiamento condotta dal Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna. Non da ultimo, questo gioco, in passato, è stato spesso utilizzato nelle gare del Campionato Italiano di Giochi di Parole. È a tutti gli effetti uno di quei gio-

(N 45 - Pesce vela, per la pinna dorsale)

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chi la cui intelligenza si evince dall’estrema semplificazione delle istruzioni oltre che dalla sua espansione. Ma ancora non vi abbiamo parlato del vero e proprio gioco da tavolo. Anzitutto va detto che non pone limiti di giocatori tant’è che, lasciando perdere la conta dei punti, è possibile giocarci anche in solitaria: non ci saranno vincitori e vinti, ma avremmo esercitato il nostro cervello a mantenersi giovane e allenato. La confezione – che è grande come due pacchetti di sigarette e può dunque essere portata anche in vacanza senza che ingombri troppo – contiene un mazzo di carte, o tessere che dir si voglia. Su un lato di ogni tessera è posta al centro una lettera alfabetica, in quantità e varietà miste e appartenenti ai vari alfabeti delle lingue citate. Tra le carte, vi sono quelle che spiegano il gioco, una per nazione. L’iniziale invito rivolto al mazziere è di togliere una ventina di lettere (diverse per lingua) prima di dare il via al gioco. Dopo aver selezionato le  tessere letterali, più  jolly, occorre mescolarle e disporne  a faccia in giù su un tavolo, formando un quadrato x. Le rimanenti  (tenute coperte) costituiscono la riserva. Seguono le istruzioni: «Prima di iniziare la partita ogni giocatore guarda segretamente tre delle car-

M A L I T E R A V R E R E N N A O A T I P I A

te sul tavolo». Si introduce così anche la variabile fortuna, e una volta deciso chi avvia il gioco, si procederà a turno: ogni giocatore deve girare una quantità di tessere a propria scelta (ma non meno di quattro) per tentare di formare una parola di senso compiuto, anagrammando tutte le lettere scoperte. Una situazione di gioco da risolvere potrebbe essere ad esempio questa: avete girato le tessere: A E E G P R R e ora, utilizzando tutte le lettere scoperte, dovrete cercare di comporre almeno una parola di senso compiuto. Fatto? Ebbene: se il concorrente riesce nell’intento, conserva le carte scoperte e conquista un punteggio proporzionale alla loro quantità, sostituendo poi le carte tolte dal tavolo con altrettante tessere prese dalla riserva, quindi passa il turno; se non ci riesce, prima di passare il turno, deve ricoprirle. Ovviamente ognuno dovrà cercare di tenere a mente le posizioni delle relative lettere. Si procede così fino all’esaurimento delle riserve. Il gioco termina quando non sarà più possibile formare delle parole di senso compiuto con le lettere rimaste. Vince chi ha totalizzato il punteggio più alto.

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Giochi e passatempi

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Cruciverba

Nel Mar 17 Adriatico, di fronte alle 18 coste della Croazia, si trova l’isola 20 21 Galesnjak che viene anche chiamata isola… Scopri il resto della frase 22 23 risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 4, 5, 3, 2, 3, 5, 1, 5)

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22. Rischiare 24. Stretto parente di però 25. Le iniziali dell’attrice Foglietta 26. Pronome dimostrativo 28. Lì in poesia 29. Le iniziali dell’attore Orsini 30. Ha due code 31. Non è sempre legale 32. Preposizione articolata 33. Due vocali VERTICALI 1. Un attributo di Dio 3. Le iniziali del conduttore Papi 4. Articolo francese 6. Cassetta con telai mobili 7. Un verso con le fusa... 8. Produce… prodotti vari 9. Frantoio 11. Essi in portoghese 13. Pronome personale 16. Spiazzo per polli 18. Albero d’alto fusto 20. Le iniziali del cantante Renga 23. Regina del 21 orizzontale 25. La nonna di una volta 27. La mitica giovenca 28. Infiamma ma non brucia 30. Il Galdino... de’ I Promessi Sposi 31. Centro d’ascolano

(N 46 - ... dell’amore per la su forma a cuore) 1 10

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3 L L’ A M P O 7 4 3 E L R 9I E L S Soluzione U O della Nsettimana A Rprecedente E Per la sua velocità viene chiamato: PESCE VELA. L’altro motivo per il quale I viene L chiamato I Ocosì è: PER LAI PINNA DORSALE. 2 5 8 4 3 1 7 9 6 S C A R E E AP EV M A A F 1 9 7 5 6 8 3 4 2 E R E L R I P EI C RI A O V I 4 6 3 9 2 7 8 1 5 5 8 9 6 1 2 4 7 3 O S I R U T 3 2 6 7 8 4 1 5 9 L A P F I E R T A A N Z C A U O 7 4 1 3 5 9 2 6 8 A N U O R A E D B 8 1 5 2 7 6 9 3 4 T O O N R N O A O P R EI 6 7 4 8 9 3 5 2 1 S A L T I G R A A L A EL R OL E A O M E E O 9 3 2 1 4 5 6 8 7 L I E

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata 1 2 3 4 5 6 7 8 9 esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

(N 47 - ... ci ho pensato e ne ho presi due) 10 12

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C I N G H I A T O P O E N E I N F A R S A

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Nessuna Greta in Cina Quali sono le ragioni per cui l’ambientalismo non si fa strada nella Repubblica popolare

La demodernizzazione russa Vladimir Putin si aggrappa al passato mentre la pandemia dilaga, la gente muore e le foreste bruciano

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L’Etiopia e i suoi fantasmi La storia di un Paese sempre scosso da drammatici confronti armati fra il centro e la periferia

No al Covid pass Il 28 novembre si vota sulla revisione della legge Covid 19, contestato il certificato sanitario

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Keystone

La mappa geopolitica del Coronavirus L’analisi

Sugli europei la pandemia ha avuto un effetto divisivo mentre Usa e Cina l’hanno usata nella sfida per il primato globale

Lucio Caracciolo

Il Coronavirus non è solo una tragedia sanitaria, di riflesso anche sociale ed economica. È un tornante geopolitico, di cui è presto per stabilire la traiettoria. Ma gli effetti del Covid- sulle competizioni di potere fra i maggiori soggetti geopolitici sono già manifesti. In via di costante mutamento. Premessa: in geopolitica non esiste pandemia. Termine approssimativo, da burocrazia sanitaria. Borderline semantics, nella notazione del dottor Anthony Fauci, il guru americano della virologia diventato celebrità mondiale. Letteralmente pandemia significa qualcosa che tocca tutto il popolo. Ora, abbiamo avuto enormi quantità di infettati (numero imprecisabile) e già oltre cinque milioni di morti in giro per il pianeta, cifra peraltro molto approssimativa per difetto. Ma la maggioranza dell’umanità non ne è stata colpita. Soprattutto – e questo è decisivo per il nostro ragionamento – l’impatto del Coronavirus è stato e resta assai differenziato nel tempo e negli spazi. Gli esperti tracceranno un giorno nei dettagli quella che potremmo già ora

chiamare la mappa del virus lag, ovvero i fusi virali che descrivono come la malattia abbia colpito in intensità e modi diversi i vari Paesi. Comprese le massime potenze. Tracciando una sequenza d’infernali giri di giostra virale che infieriscono selettivamente sulle diverse aree del pianeta. Prendiamo il caso della Cina. Per consenso quasi generale – in Occidente, non a Pechino – l’origine del virus è da rintracciare a Wuhan, probabilmente in un laboratorio cui sarebbe sfuggito per caso. O nel quale, osservano i maliziosi, potrebbe essere stato prodotto nell’ambito di programmi di guerra biologica, salvo finire fuori controllo. I primi mesi del , quando il Covid- assurse alla cronaca, furono quindi segnati da una perdita d’immagine della Repubblica popolare, al suo interno stesso (con grave preoccupazione del regime) e nel resto del mondo. Specie in America. Impegnata nella sfida del secolo con la Cina per il primato globale, Washington non si lasciò sfuggire l’opportunità di denunciare il China virus, per bocca dello stesso presidente Trump.

In primavera i ruoli erano invertiti. I cinesi parevano essere riusciti a tenere sotto controllo l’espansione del morbo, con metodi para-militari: controllo capillare del territorio, addirittura dei singoli caseggiati, con largo impiego di forze di sicurezza e di volontari. Super-quarantena organizzata con lo stile del regime. Così rassicurando la popolazione e sedando le sacche di insofferenza e di protesta emerse variamente, alcune persino sui media locali. Contemporaneamente Pechino sfruttava il quasi monopolio delle mascherine per regalarle (o quasi) a mezzo mondo, con notevoli vantaggi di propaganda e di influenza. Specie in Europa. Quanto agli americani, erano nel marzo  già pesantemente investiti dalla tempesta virale, bagatellizzata da Trump come fosse influenza stagionale. Lo spettacolo tragico della massima potenza mondiale investita dall’epidemia di massa ne esponeva i deficit nel sistema sanitario e assistenziale. Mentre svelava le faglie interne alla federazione a stelle e strisce, ulteriormente scavando la distanza fra le coste libe-

ral e relativamente ricche e la fly over America, cuore diseredato del Paese (almeno nella percezione dei trumpiani, lì dominanti), dove ci si rifiutava sistematicamente all’impiego delle mascherine. Su noi europei l’offensiva del Covid ha avuto un effetto geopolitico divisivo. Fra i singoli Stati e al loro interno. La regola è stata ciascuno per sé, nessuno per tutti. Con la Commissione di Bruxelles che rivelava al mondo la sua impotenza. Negli Stati federali, poi, la differenza fra le reazioni delle singole entità federate era spesso dissonante, specie nel caso tedesco. Si è però riscoperta, in questa occasione, l’acqua calda della geopolitica: quando la minaccia è grave e generalizzata, le singole comunità reclamano dallo Stato – anche quando ordinariamente vituperato – quella protezione e quelle rassicurazioni che consentono loro di non disgregarsi. Di non precipitare nell’anarchia. Il virus è anche un rivelatore delle faglie antropologiche all’interno della stessa Unione europea, in particolare fra i Paesi dell’Est – dove il

negazionismo sul Coronavirus è più diffuso – e quelli dell’Ovest, di tono generalmente opposto. Molto significativa sotto questo profilo anche la disponibilità a vaccinarsi: ad esempio, le Germanie si confermano due, con  dei  Laender della ex DDR fra i più refrattari a questa forma di prevenzione, molto più accettata nei Laender occidentali Infine, la geopolitica degli aiuti. Fin dall’inizio della crisi si è scatenata una competizione fra chi disponeva di risorse utili a combattere l’epidemia per affiliare a sé con questi mezzi Paesi in difficoltà. Qui gli Stati uniti hanno recuperato posizioni, anche per la scarsa affidabilità del vaccino cinese (Sinovac) e per la modesta disponibilità di quello russo (curiosamente monopolista a San Marino, gratificata da una visita del ministro degli Esteri Lavrov, inviato da Putin). Il criterio è semplice: offrendosi di aiutare un altro soggetto il Paese capace di farlo cerca di includerlo nella sua zona di influenza. La «guerra» continua. L’imprevedibilità del virus lascia aperti tutti gli scenari.


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MONDO MIGROS

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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

Perché non c’è una Greta a Pechino L’analisi

Nessuno spazio per la sensibilità ambientale in Cina e non solo a causa della subordinazione della società civile al potere

Federico Rampini

È stata salutata come una sorpresa positiva della Cop, la dichiarazione congiunta che Cina e Stati uniti hanno firmato al summit di Glasgow. In quell’accordo le due superpotenze – che sono anche le due maggiori inquinatrici del pianeta – hanno annunciato la loro «ambizione rafforzata» di cooperare per ridurre le emissioni carboniche. La Cina in quell’occasione si è anche impegnata per la prima volta a tagliare il metano. Visto lo stato delle relazioni tra Washington e Pechino, la loro contrapposizione su quasi ogni altro tema, si capisce che sia stato accolto con sollievo il linguaggio cooperativo sull’ambiente. La creazione di una task force congiunta sino-americana per lavorare sul clima è stata giudicata dai più ottimisti come un segnale che le relazioni bilaterali, dopo aver toccato il fondo, stanno registrando il primo miglioramento da anni. Nel comunicato voluto da John Kerry e Xie Zhenhua, i due ambasciatori per il clima che rappresentavano i rispettivi Governi alla conferenza di Glasgow, mancava però qualsiasi impegno preciso: nessun numero vincolante sulle riduzioni, nessuna scadenza nuova. Greta Thunberg applicherebbe a quel testo la sua consueta critica: blabla. Ma le critiche di Greta e dei suoi giovani seguaci, riprese puntualmente e con enfasi da tutti i media occidentali, non hanno alcuna visibilità a Pechino.

Le critiche di Greta e dei suoi giovani seguaci, riprese con enfasi dai media occidentali, non hanno visibilità a Pechino Quali conseguenze ha l’assenza di una Greta a Pechino? La superpotenza più inquinante del pianeta è governata da un regime che lascia pochi spazi di autonomia alla società civile. Xi Jinping proprio di questi tempi in occasione del sesto Plenum del partito comunista sta rafforzando il proprio potere e il culto della personalità incentrato su se stesso. Da sempre la nomenclatura comunista diffida delle ong e negli ultimi anni gli spazi per i movimenti ambientalisti cinesi si sono ristretti ancor più. Questo significa che nel perseguire la lotta al cambiamento climatico Xi può proclamare le sue buone intenzioni davanti alla comunità internazionale,

GretaThunberg e altri giovani attivisti protestano a Glasgow in occasione della Cop26. (Shutterstock)

ma ha pochi conti da rendere in casa propria. Non esistono né i Verdi né una stampa libera, le proteste dal basso in occasione di catastrofi ambientali vengono represse o incanalate rigidamente dentro le strutture del partito. Questa mancanza di una vigilanza diffusa contribuisce a spiegare, tra l’altro, il fatto che il Governo di Pechino ha pubblicato il suo ultimo rapporto esaustivo sulle emissioni cinesi di CO nel lontano , poi basta. Il resto del mondo deve usare metodi indipendenti come le foto satellitari per colmare le lacune di trasparenza della Repubblica popolare.

Nella cultura cinese sono gli anziani che vanno ascoltati e rispettati, la loro saggezza è un valore. L’età è un fattore significativo Il primato assoluto del partito comunista e la subordinazione della società civile non sono le uniche ragioni per cui non c’è una Greta a Pechino. Un leader come Xi, comunista e confuciano al tempo stesso, deve osservare il fenomeno Greta come una delle perversioni occidentali, una confer-

ma del nostro declino. L’autorevolezza che i media occidentali riconoscono a Greta e ad altri suoi coetanei è inaccettabile in un Paese di tradizioni confuciane: nella cultura cinese sono gli anziani che vanno ascoltati e rispettati, la loro saggezza è un valore, nei rapporti gerarchici l’età è un fattore significativo (tanto più ora che Xi abolisce ogni limite alla durata del proprio mandato e si appresta a guidare il Paese ben oltre la soglia dei suoi settant’anni). In un’ottica cinese «il mondo salvato dai ragazzini» non è solo un miraggio del giovanilismo occidentale: peggio, è una pericolosa allucinazione. Perché nella storia della Cina stessa le rivoluzioni animate dai giovani sono associate al caos, alla violenza, allo spargimento di sangue. L’ultimo esempio fa parte della storia del partito comunista: nella Rivoluzione culturale Mao Zedong, per consolidare il proprio potere, aizzò i giovanissimi contro i loro insegnanti e genitori. Le Guardie rosse furono un fenomeno generazionale, contemporaneo al Maggio del ’ parigino ma molto più violento, una vera guerra civile. Lasciò traumi così terribili nel post-maoismo un’altra rivoluzione giovanile, la protesta

di Piazza Tienanmen, fu soffocata nel sangue proprio paragonando quei giovani alle Guardie rosse. Che i giovani vengano idolatrati in Occidente per Xi è un segno sicuro che la nostra civiltà è in una decadenza terminale e irreversibile. L’allergia di Xi al giovanilismo occidentale misura anche l’immensa distanza fra il pragmatismo di chi deve gestire la transizione energetica di , miliardi di persone e le fughe in avanti delle utopie ambientaliste nei paesi ricchi. Xi crede davvero nelle energie rinnovabili, al punto che i suoi sostegni all’industria dei pannelli fotovoltaici hanno fatto piazza pulita di molti concorrenti occidentali e hanno consentito alla Cina di dominare questo settore. È numero uno anche nelle pale eoliche. Ambisce a conquistare un dominio globale sull’auto elettrica, le batterie, i componenti essenziali della loro produzione inclusi i minerali rari. Ha il parco centrali nucleari più vasto del mondo e lo considera a pieno titolo fra le fonti rinnovabili. Ha stravolto i fiumi che nascono sulle montagne del Tibet per generare energia idroelettrica. Tutto questo non basta ancora, però. Messo alle strette nei mesi

scorsi, con una forte ripresa economica e un boom delle esportazioni cinesi verso il resto del mondo, Xi ha dovuto prendere atto che la chiusura di tante miniere di carbone era stata prematura. Di fronte all’alternativa secca tra la disoccupazione e l’inquinamento, nell’immediato ha scelto di riaprire le miniere di carbone per far funzionare le fabbriche minacciate dai blackout elettrici. Xi non accetterebbe il rimprovero di una immaginaria Greta cinese. Il suo impegno per l’ambiente lui non lo considera certo blabla. Deve bilanciarlo con la realtà energetica di oggi, con le tecnologie esistenti. La Cina è sempre meno una Nazione emergente e sempre più una Nazione avanzata, ma non ha dimenticato che di fame si muore più che di inquinamento. Tutto il Sud del pianeta guarda al modello cinese e si dice che bruciare le tappe nella messa al bando del carbone avrebbe costi umani insopportabili.

Un’intesa inconfessata fra Biden e Xi ha portato a un boom di esportazioni di gas naturale liquefatto dagli Stati uniti alla Cina Joe Biden in questo approccio realista non è molto diverso da Xi. Anche l’America è alle prese con uno shock energetico, uno dei motori dell’inflazione che intacca il tenore di vita delle famiglie. La bolletta media del gas naturale da riscaldamento per gli americani è rincarata del % quest’anno. Mentre da un lato si proclama come un sincero ambientalista, Biden lancia ripetuti appelli all’Opec (il cartello dei Paesi produttori di petrolio) perché aumenti la produzione di greggio in modo da calmierare l’aumento dei prezzi. Un’intesa inconfessata e poco pubblicizzata fra Biden e Xi ha portato a un boom di esportazioni di gas naturale liquefatto dagli Stati uniti alla Cina: in un anno sono più che triplicate. Il gas è un carburante fossile che emette Co, ma in misura molto minore rispetto al carbone. È quindi una tappa intermedia, per ridurre le emissioni, in attesa che fonti pulite siano pronte a sostituirsi. In questo senso sia Xi che Biden sono sulla stessa barca: devono governare il mondo reale, scendere a compromessi, bilanciare le priorità. Il loro ruolo non si addice alla logica del «tutto e subito». Annuncio pubblicitario

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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

Quel rifiuto della modernità

Russia ◆ Energie fossili e Covid imperversano: lo sguardo al passato di Putin ha costi elevati sia a livello ambientale sia in termini di vite umane

«Gli brucia la tundra, letteralmente», il commento sferzante di Joe Biden sull’assenza di Vladimir Putin alla conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici a Glasgow probabilmente verrà aggiunto dal Cremlino alla lista delle offese provenienti dall’America, insieme allo sprezzante downgrade a «potenza regionale» dichiarato a suo tempo da Barack Obama. Secondo il presidente americano, la decisione di Putin e del suo collega cinese XI Jinping di disertare la Cop è un segno di scarsa serietà. «Come possono pretendere di essere dei leader globali?», si è interrogato, ricordando i pesanti problemi del clima e l’inquinamento di Cina e Russia. Mosca ha replicato nel suo solito stile polemico, ricordando per bocca del portavoce del Cremlino i roghi forestali in California. Ma la battuta di Biden sembra aver colpito un punto dolente, anche perché i roghi forestali in Siberia hanno messo in dubbio proprio la strategia sulla quale Putin, nel suo collegamento video con Glasgow, ha dichiarato di voler scommettere per ridurre le emissioni: fare affidamento sulle immense foreste russe che dovrebbero assorbire il biossido di carbonio in eccesso. Gli incendi dell’estate scorsa hanno distrutto le foreste per una superficie pari all’intero Regno unito, e a colpire molti osservatori, in Russia come all’estero, è stata l’inefficienza con la quale il Governo ha affrontato il disastro. In Jacuzia le autorità sono arrivate a chiedere donazioni ai cittadini, mentre Mosca annunciava di inviare aerei e aiuti per combattere gli incendi in Grecia, ma non in Siberia. Un comportamento simile a quello assunto in precedenza con il Coronavirus, quando il Cremlino aveva schierato tutta la potenza della sua diplomazia per la diffusione del vaccino Sputnik all’estero invece di intensificare la campagna vaccinale in patria. Una scommessa «geopolitica» il cui prezzo viene pagato in queste settimane. La Russia infatti batte giorno dopo giorno i record di contagi e morti di Covid, e perfino le statistiche ufficiali segnalano una situazione catastrofica, mentre le stime di esperti indipendenti pubblicate sul «Financial Times» parlano di  mila decessi nella pandemia, un numero secondo soltanto agli Usa (che però hanno più del doppio degli abitanti). Il Cremlino è stato costretto a introdurre un lockdown parziale di una settimana, ma siccome i «giorni non lavorativi», come vengono definiti, sono a carico dei datori di lavoro e non vengono praticamente risarciti dallo Stato, sono durati troppo poco per interrompere le catene di contagio. L’utilizzo dei Qr code che attestano l’avventura vaccinazione/guarigione/test varia da regione a regione, mentre infuria l’epidemia di certificati falsi, comprati su siti truffaldini oppure addirittura emessi da medici

corrotti che in cambio di qualche decina di euro hanno «vaccinato il lavandino» iscrivendo i loro pazienti nel registro degli immunizzati. Un fallimento clamoroso che ha mostrato sia i limiti dell’efficienza della macchina del regime – che, contrariamente alle sue tendenze di accentramento, ha preferito delegare la gestione dell’epidemia alle regioni per non assumersi responsabilità né per le carenze sanitarie, né per lo scontento delle vittime economiche del lockdown – che quelli della fiducia dei russi nei suoi confronti. Putin si è espresso più volte contro l’obbligo vaccinale, che intanto viene introdotto di fatto nelle zone più colpite come San Pietroburgo, dove la responsabile della sanità locale ha intimato agli over  di vaccinarsi con due dosi entro il  dicembre. Ma la fretta nella produzione dello Sputnik (per non parlare degli altri due vaccini meno noti, uno dei quali, l’Epivacorona, pare avere un’efficacia pari a zero), lo zelo della propaganda nel pubblicizzarlo all’estero unito a una pioggia di fake news sulla pessima qualità dei vaccini occidentali, hanno convinto la maggioranza dei russi che la campagna di immunizzazione è un ennesimo tentativo del Governo di guadagnare ai loro danni. Secondo una ricerca dell’agenzia Gxp news, che ha analizzato i tassi vaccinali in una serie di Paesi, negli Stati ex sovietici il rifiuto dell’immunizzazione è direttamente correlato con la quantità di cittadini che ritengono la società in cui vivono profondamente corrotta. In un clima di sfiducia verso chi li governa, la campagna vaccinale si trasforma da una causa di bene comune in un gioco a guardie e ladri, e riuscire a ingannare il regime diventa un titolo di merito. La sconcertante trasformazione di un Paese con altissimi tassi di urbanizzazione, industrializzazione e istruzione come la Russia nella Nazione europea con la più elevata mortalità da Covid è uno dei prezzi più elevati pagati per la demodernizzazione putiniana. Mentre Putin decanta il «conservatorismo ottimista» che

azione

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Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

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eleva a ideologia ufficiale russa, proponendo un ritorno al passato anche nelle relazioni sociali, gli esperti in vari settori denunciano un’emergenza nelle infrastrutture sempre più obsolete ereditate dall’Unione sovietica. Una situazione aggravata dal cambiamento climatico, come dimostrano anche i sempre più numerosi incidenti industriali con gravissime conseguenze ambientali nelle zone artiche, dovuti spesso allo scioglimento del permafrost. La strategia green russa però rimane in buona parte sulla carta, e perfino molti esperti del settore si mostrano estremamente scettici verso il progetto di abbandonare le fonti di origine fossile. Lo stesso Putin è stato di recente molto sarcastico riguardo all’aumento della domanda di gas in Europa, scherzando sui «calcoli sbagliati sul vento che non soffia». Il conflitto di interessi di un Paese che continua a ricavare metà delle sue entrate dalle esportazioni di petrolio e gas è evidente, e di conseguenza anche gli investimenti nella transizione verde sono irrisori: Mosca ha aderito alla Cop e inviato le sue proposte praticamente all’ultimo momento, e chiaramente valutando più l’opportunità per Putin di partecipare a un evento per big internazionali che l’occasione di affrontare problemi reali. I commentatori più conservatori arrivano perfino a sostenere che la transizione green proposta dai Paesi occidentali sia un’invenzione propagandistica a danni della Russia, la «superpotenza energetica» come teorizzava l’ex consigliere di Putin Vladislav Surkov negli anni Duemila. La tentazione di scommettere sul fallimento delle iniziative internazionali per frenare il cambiamento climatico è determinata anche da un ragionamento meramente politico. Il nucleare russo suscita nel mondo una comprensibile diffidenza dopo Chernobyl, e sulle tecnologie pulite il gap tecnologico della Russia con il mondo occidentale (ma anche con la Cina e il Giappone) potrebbe rivelarsi incolmabile, soprattutto se si continua a rinviare la modernizzazione, non soltanto quella tecnologica. Vladimir Putin non è andato alla Cop26 a Glasgow. (Shutterstock)

Keystone

Anna Zafesova

Donne brutalizzate e spose bambine Afghanistan ◆ L’assassinio di Frozan Safi nel regno dei talebani e altre terribili tragedie Luisa Betti Dakli

Aveva  anni ed è – secondo «The Guardian» – la prima attivista per i diritti delle donne uccisa sotto il nuovo regime talebano in Afghanistan. Si chiamava Frozan Safi, era docente di economia e voleva lasciare il Paese a tutti i costi, ma è rimasta vittima di un’imboscata. «L’abbiamo riconosciuta dai suoi vestiti, i proiettili le avevano distrutto la faccia», ha detto la sorella dopo aver identificato il corpo in un obitorio nella città di Mazar-i-Sharif. «C’erano ferite da arma da fuoco dappertutto, troppe da contare. Sulla testa, sul cuore, sul petto, sui reni e sulle gambe». Insieme a lei, scomparsa da casa il  ottobre, sono state trovate altre  donne morte, rese irriconoscibili e ancora non identificate. Frozan Safi, prima di sparire, aveva ricevuto una telefonata da un numero anonimo. «Raccogli i documenti e preparati a partire», le avevano detto, e lei ci aveva creduto, dato che aveva fatto richiesta di asilo politico in Germania. Così è andata all’appuntamento. Una chiamata che ha raggiunto diverse attiviste che speravano di imbarcarsi su un volo umanitario e che invece sono sparite nel nulla. «Frozan Safi era conosciuta in città», racconta sotto anonimato la dipendente di un’organizzazione internazionale a Kabul, e «tre settimane fa anch’io ho ricevuto una serie di strane telefonate in cui un uomo diceva di essere stato incaricato di occuparsi del mio espatrio. Però mi sono insospettita e ho bloccato il numero». Per il padre di Frozan, Abdul Rahman Safi: «Tutti sappiamo chi è stato a uccidere mia figlia ma nessuno può dirlo pubblicamente, altrimenti fa la stessa fine». Mentre per Zahra, un’altra attivista afghana che ha marciato con Frozan durante l’ultima protesta a Mazar-i-Sharif contro i talebani, la paura è troppo forte: «Il mio profilo Whatsapp è stato hackerato e ora non oso più andare sui social». Le donne che hanno manifestato per i loro diritti sono terrorizzate perché sanno di correre un grosso pericolo. «Da settimane i talebani ci danno la caccia», dice una di loro. «La polizia è arrivata in posti che avevamo nominato solo nelle chat riservate e abbiamo capito che alcune donne si sono

infiltrate presentandosi come giornaliste, mentre invece raccoglievano informazioni». «Sapevamo che stavano rintracciando le donne dopo le proteste per intimidirle», ha confermato Heather Barr, co-direttore della Women’s rights division di Human rights watch. Talebani che hanno picchiato le donne con manganelli elettrici durante le manifestazioni e torturato i giornalisti che seguivano le proteste. Ma il nuovo regime talebano ha un disegno molto più ampio. Oltre a bandire le ragazze dalla scuola, dallo sport e le donne dal lavoro, sta vietando alla maggior parte delle operatrici umanitarie di lavorare nel Paese, accelerando un disastro già in atto. In Afghanistan oggi più di  famiglie su  non hanno abbastanza cibo e un terzo soffre la fame in quanto la maggior parte degli aiuti esteri sono stati sospesi. «I talebani dovrebbero consentire a tutti gli operatori umanitari, donne e uomini, di svolgere il proprio lavoro o metteranno a rischio ancora più persone», ha detto Barr. Ma solo in tre delle  province le autorità hanno autorizzato le collaboratrici umanitarie a svolgere il proprio lavoro, mentre in  è stato loro vietato di lasciare l’ufficio senza un accompagnatore maschile. Tante operatrici non possono dunque più svolgere alcune delle attività necessarie come la distribuzione di cibo, acqua e servizi igienico-sanitari ma soprattutto non possono operare nel contesto della protezione delle donne dalla violenza. Attualmente fare qualcosa in questo ambito è praticamente impossibile, ha affermato Barr, anche perché le donne sono inavvicinabili e i talebani, da quando hanno riconquistato l’Afghanistan, stanno sistematicamente chiudendo i centri anti-violenza considerati dei bordelli. E la miseria dilagante rende l’incubo una realtà: le famiglie vendono per poco denaro le figlie più giovani, come è successo a Parwana Malik, una bambina di  anni, che è stata comprata da un uomo di  nella provincia di Badghis (vicenda raccontata dalla «Bbc» all’inizio di novembre). Sposa bambina. Matrimoni forzati che con il regime talebano stanno diventando una prassi dato che se un militante ti vuole, tu non ti puoi opporre.

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L’Etiopia e il suo antico male

Corsi e ricorsi ◆ Il Paese soffre da sempre di un’instabilità di fondo nei rapporti fra il centro e la periferia. Dalla leggenda del prete Gianni all’insurrezione del Tigré contro il Nobel per la pace che promette di seppellire nel sangue i suoi nemici Alfredo Venturi

«Li seppelliremo nel sangue», dice il primo ministro d’Etiopia Abiy Ahmed Ali. L’espressione è piuttosto sorprendente da parte di un premio Nobel per la pace. Abiy Ahmed, che ricevette il Nobel nel  per essere riuscito a terminare la lunga e cruenta guerra con l’Eritrea, si riferisce ai nemici di un nuovo conflitto, che contrappone al potere centrale di Addis Abeba i ribelli della provincia settentrionale del Tigré. Il fatto che il primo ministro abbia smarrito l’aplomb che si conviene a chi è ufficialmente connotato come uomo di pace si deve al fatto che i ribelli sono ormai in marcia verso la capitale. Il capo del Governo sente scricchiolare il suo potere e chiama a raccolta chiunque sia in grado di maneggiare le armi. La provincia ribelle confina con l’Eritrea, e fu proprio l’avversione all’accordo di pace a scatenare la rivolta del Fronte popolare di liberazione del Tigré. Attacchi a sorpresa, offensive, stragi di miliziani e civili: le due parti hanno riproposto l’orrendo campionario delle guerre africane e non soltanto africane. L’Etiopia non è certo nuova ai confronti armati fra il centro e la periferia. Ne è stata sconvolta da sempre, fin da quando nel Quattrocento una missione diplomatica portoghese salì sull’altopiano per verificare la leggenda del prete Gianni. Da tempo si favoleggiava di un sovrano cristiano a capo di un impero vasto e potente, ebbene proprio lassù l’enigma sembrò risolto: da quelle parti c’era davvero un regno cristiano, un forte potere alle prese con una pletora di irrequieti vassalli. Da tempo convertito ai Vangeli, aveva dovuto difendersi non soltanto dagli irrequieti Ras delle province ma anche dall’assalto dei vicini di fede islamica. La chiesa etiopica praticava come i copti d’Egitto la teologia miafisita che nega la doppia natura umana e divina di Cristo ma considera indivisi i due elementi. Dichiarava di custodire la biblica Arca

dell’alleanza e faceva risalire la fondazione del regno a un leggendario Menelik, il primo imperatore dell’acrocoro, figlio di Salomone e della regina di Saba. Così era nato, fra storia e mito, l’impero delle alte terre destinato a sopravvivere nei secoli. Era un crogiolo di popoli e di tradizioni. Parlavano lingue diverse e professavano diverse religioni: cristiani prima di tutto, ma anche musulmani, animisti, persino israeliti. C’era infatti una piccola minoranza, i falascia o ebrei neri, fra i quali circolava una leggendaria profezia: un giorno grandi uccelli dalle ali d’argento li avrebbero riportati nella Terra promessa. E così puntualmente accadrà nel Novecento, quando con un ponte aereo il Governo israeliano trasferirà a Gerusalemme la maggior parte di quei fratelli perduti. Proprio per appoggiare il suo potere sulla tradizione biblica, a fine Ottocento l’ambizioso signore dello Scioa, Sahle Mariàm, si fece incoronare Negus Neghesti, re dei re, con il nome di Menelik II. In quegli anni minacciava l’impero un’insidia proveniente dall’Europa: mossa da appetiti colonialistici, l’Italia aveva messo piede sulla costa eritrea e guardava con interesse al vicino saliente dell’altopiano etiopico, o abissino come si diceva allora. L’accesso al trono di Menelik II era stato il frutto di una lunga lotta fra i potentati locali, e proprio su questa litigiosità interna puntò la diplomazia italiana per estendere il dominio. Non proprio con gli effetti sperati, si sa come andò a finire: la disfatta di Adua del  fu la prima sconfitta di un esercito europeo, dopo le guerre puniche, da parte di una potenza africana. Una quarantina di anni più tardi, con un nuovo Negus, il riformatore Hailé Selassié, sul trono di Menelik, l’Italia di Mussolini motivata dalla volontà di resuscitare l’impero romano tornò alla carica incurante del fatto che l’Etiopia era membro della Società delle nazioni. Gli invasori non

Ad Addis Abeba, a inizio novembre, una donna piange durante un evento per ricordare la crisi nelTigré. (Keystone)

esitarono a impiegare armi chimiche venendo meno al Protocollo di Ginevra che dal  li impegnava a non farne uso. Furono bombardati con i gas non soltanto equipaggiamenti e reparti militari, ma anche indifesi villaggi colpevoli di appoggiare l’esercito nazionale. Ancora una volta si sfruttarono le rivalità interne, non a caso diversi notabili tigrini si schierarono con le forze italiane, così come fecero gli oromo, o galla, l’etnia più numerosa (oggi costituisce quasi un terzo della popolazione). Più tardi, quando il Paese si sollevò contro la brutalità dell’occupazione militare, anche molti tigrini e oromo presero parte alla resistenza. Cacciati gli italiani con l’aiuto dei britannici, Hailé Selassié poté riprendere il suo posto nel palazzo imperiale di Addis Abeba. L’Etiopia restituita nella sua indipendenza soffriva come sempre di un’instabilità di fondo nei rapporti fra il centro e le province, quella stessa che alcuni secoli prima indu-

ceva gli imperatori a non isolarsi in una capitale. Preferivano esercitare il potere a capo di una corte itinerante, che visitava a turno i capi locali e riscuoteva i tributi. Più tardi la corte imperiale si fermò in una città: prima Gondar, Magdala, Ankober, e finalmente Addis Abeba, «nuovo fiore» in lingua oromo, fondata da Menelik II. Proprio qui il vecchio Negus che aveva resistito all’aggressione coloniale vide progressivamente vacillare il suo potere fra spinte centrifughe, rivolte, rabbiose manifestazioni di piazza. Fino al colpo di stato del , quando un gruppo di ufficiali riuniti nel Derg (comitato) trasformò il millenario impero in una repubblica ispirata al marxismo-leninismo, foraggiata dall’Unione sovietica e armata dalla Germania orientale. Quando tre anni più tardi uno degli uomini del Derg, Menghistu Hailé Mariàm, s’installò solitario al potere, si aprì una stagione di lotte intestine. Ancora una volta il Governo

centrale dovette vedersela con le insofferenze periferiche e le volontà separatiste, molte province scatenarono la resistenza armata. Seguirono offensive e controffensive, rappresaglie, stragi. Mezzo milione di morti, secondo una stima giudicata attendibile. Come se non bastassero la siccità e le carestie che periodicamente affliggono il Paese. Il regime comunista giunse al capolinea nei primi anni Novanta, quando Mosca ormai non più sovietica chiuse il rubinetto degli aiuti. I Governi che seguirono dovettero affrontare fra i tanti problemi quello dell’Eritrea: le Nazioni unite ne avevano fatto una provincia autonoma dell’Etiopia, ma Addis Abeba l’aveva annessa eliminando l’autonomia. Nel  l’Eritrea si era resa indipendente, ma il contenzioso era destinato a durare. Fino al nuovo conflitto terminato da Abiy Ahmed, e all’insurrezione del Tigré contro il Nobel per la pace che promette di seppellire nel sangue i suoi nemici. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

Si rivota sulla legge COVID-19

Votazioni federali ◆ Dopo l’appuntamento alle urne del 13 giugno, in cui è stata approvata la versione votata dalle Camere federali il 25 settembre 2020, il 28 novembre si vota sulle modifiche decise il 19 marzo 2021 – Contestato in particolare il certificato Covid Alessandro Carli

In ossequio alle regole della democrazia, il  novembre prossimo, il popolo svizzero dovrà tornare a pronunciarsi sulla legge COVID-, già approvata lo scorso  giugno con il ,% dei voti. Ma come giustificare questo ritorno alle urne a così breve distanza? Semplicemente perché la legge COVID- evolve al ritmo del coronavirus. Di conseguenza, in giugno è stata accettata la versione del  settembre  della legge federale in questione, combattuta dal referendum, mentre alla fine di novembre dovremo pronunciarci sugli adeguamenti della legge apportati dalle Camere federali il  marzo , essendo a loro volta combattuti dal referendum. Al centro di questa nuova votazione vi sono vari aspetti legati alla gestione della pandemia, in particolare l’utilizzo del certificato COVID. Il Consiglio federale non dovrebbe comunque trovarsi confrontato a un voto di sfiducia il  novembre. Infatti, almeno stando ai sondaggi, vi sarebbe un chiaro sostegno alla linea governativa: i favorevoli si attestano al % e i contrari al %. L’obiettivo iniziale della legge era di aiutare finanziariamente le imprese e le persone duramente colpite dalle misure di lotta alla pandemia. Nel corso dei vari passaggi in parlamento, la legge è stata rimpolpata: i settori sostenuti sono più numerosi e il suo campo d’applicazione più vasto. Il secondo referendum prende ora dunque di mira gli emendamenti alla legge adottati dal parlamento durante la sessione primaverile di marzo. Gli oppositori alla legge COVID- contestano in particolare l’introduzione del certificato sanitario e il sostegno federale al tracciamento dei contatti. A loro parere, la normativa attribuisce troppo potere al Consiglio federale e discriminerebbe le persone non immunizzate. Va sottolineato che con questa seconda votazione sono presi di mira unicamente i citati adeguamenti legislativi dello scorso marzo, mentre le disposizioni della legge COVID- approvate in giugno restano in vigore, indipendentemente dall’esito dello scrutinio. Se dalle urne dovesse emergere un «no», le modifiche in questione cesserebbero di applicarsi un anno dopo l’adozione da parte del parlamento, ossia il  marzo , conformemente all’art.  della Costituzione federale. Tra i provvedimenti che verrebbero a cadere figurano l’aumento del numero delle indennità giornaliere per le persone disoccupate, l’estensione a  mesi delle indennità per lavoro ridotto o l’indennizzo per gli organizzatori di eventi. Inoltre, in caso di bocciatura, non sarà più possibile rilasciare certificati COVID, nemmeno per i viaggi e i soggiorni all’estero, né organizzare programmi per la promozione dell’approvvigionamento di materiale medico importante. Difendendo la necessità di approvare gli adeguamenti, il ministro della sanità Alain Berset ha sottolineato che «è il certificato COVID a permetterci di ritrovare una vita sociale quasi normale». Grazie al certificato è possibile organizzare manifestazioni ed eventi che altrimenti sarebbero chiusi o bloccati. Questo strumento «ci consente di ritornare al ristorante, al museo, al cinema o alle sedute d’allenamento». Il suo obiettivo è di «limitare i rischi d’infezione e l’esplosione dei casi». Secondo il Consigliere federale, «bocciare il certificato significa mette-

Certificato Covid: per alcuni una limitazione della libertà, per altri la libertà ritrovata. (Keystone) Nella foto sotto: i Freiheitstrychler sono diventati il simbolo della protesta contro la revisione della legge COVID-19. (Keystone)

re a repentaglio il comprovato sistema di gestione della crisi». Per gli oppositori, ossia gli Amici della Costituzione, la Rete scelta vaccinale (Réseau choix vaccinal), l’Alleanza d’azione dei cantoni primitivi, il certificato introduce una «apartheid sanitaria». Discrimina le persone non immunizzate da quelle vaccinate, guarite o testate negativamente. I non vaccinati sono esclusi dalla vita sociale, dalla formazione e dal mondo del lavoro e sono quindi costretti a farsi vaccinare. Secondo gli avversari degli adeguamenti dello scorso marzo, far dipendere la partecipazione alla società dall’avvenuta vaccinazione è «anticostituzionale». Inoltre, non vi sono minacce tali da richiedere di compiere un passo del genere. Per taluni oppositori, la Svizzera è addirittura diventata un «regime autoritario» o una «dittatura fascista». Altri sono preoccupati da una «sorveglianza elettronica di massa», come si può riscontrare in Cina. Dando vita a numerose manifestazioni di protesta in molte località della Svizzera, gli oppositori, denunciando il modo di agire di Berna, chiedono soprattutto la fine delle restrizioni, sebbene gran parte di quest’ultime, come l’obbligo di indossare la mascherina sui trasporti pubblici, la chiusura di determinate strutture o il divieto di organizzare eventi, siano regolate da un’altra legge, quella sulle epidemie, approvata dal % dei votanti nel .

Dunque, un no il  novembre non si tradurrebbe nella fine di queste misure di lotta sanitaria che potranno essere mantenute, prorogate, reintrodotte, estese a nuovi settori o soppresse. Il porto della mascherina sarebbe sempre obbligatorio nei trasporti pubblici, nei negozi e nelle aree chiuse dei ristoranti. Continuerebbe anche il tracciamento dei contatti, già oggi di competenza dei Cantoni, dato che tutti questi provvedimenti dipendono dalla citata legge sulle epidemie. Comunque sia, per i comitati referendari, le leggi vigenti sono sufficienti per proteggersi dal coronavirus e da altre malattie. La modifica legislativa in votazione creerebbe una frattura della Svizzera. Le loro argomentazioni sembrano convincere una crescente fetta della popolazione. Le manifestazioni «anti-pass» si moltiplicano in tutta la Svizzera, anche con risvolti violenti. Gli Amici della Costituzione annunciano di disporre di ’ membri e godono dell’appoggio dell’UDC. Questa formazione politica aveva lasciato libertà di voto in occasione del primo referendum contro la legge COVID. I sostenitori degli emendamenti approvati dalle Camere potrebbero invece trovarsi in affanno a causa di una collegialità governativa talvolta a «geometria variabile». In merito, basti ricordare che il consigliere federale Ueli Maurer ha preso parte a un evento dell’UDC, indossando una t-shirt

dei Freiheitstrychler, un gruppo svittese di suonatori di campanacci, fortemente contrario alle misure contro il coronavirus, gruppo che ha partecipato a diverse manifestazioni, alcune delle quali non autorizzate. Le immagini del ministro delle finanze hanno provocato forti critiche sulle reti sociali e Ueli Maurer è stato accusato di aver violato il principio della collegialità. Perdono smalto anche le argomentazioni governative concernenti gli aiuti finanziari, previsti dalla legge COVID- per far fronte alle conseguenze socio-economiche della pandemia. Infatti, con la normalizzazione della situazione, si è attenuato anche il numero delle persone che richiedono questi aiuti finanziari. Va tuttavia precisato che la parte economica delle misure decise dal parlamento in marzo è poco contestata. Nello specifico, si tratta, tra l’altro, di aumentare gli aiuti finanziari, di estendere le indennità per perdita di guadagno ai lavoratori indipendenti e le indennità per lavoro ridotto, di concedere indennità giornaliere supplementari all’assicurazione contro la disoccupazione per le persone senza lavoro, nonché di intervenire in altri ambiti. Nel settore sanitario, grazie alle modifiche della legge COVID-, il Consiglio federale può acquistare e far produrre materiale medico, come, per esempio, apparecchi respiratori, medicamenti, vaccini, strumenti per i test, disinfettanti, mascherine, guanti e altro materiale protettivo. Gli adeguamenti della legge offrono alcune agevolazioni alle persone vaccinate o guarite, in quanto il pericolo di trasmissione è molto più contenuto. Non sarà quindi necessario che si sottopongano a una quarantena dopo essere entrate in contatto con una persona risultata positiva al test. A far discutere è l’utilità del certificato sanitario, grazie al quale – ricorda il Consiglio federale con il sostegno di quasi tutti i partiti e i cantoni – la popolazione ha potuto riassaporare i piaceri della vita di tutti i giorni. Orbene, l’introduzione di questo certificato

che consente di documentare in modo uniforme e non falsificabile l’avvenuta vaccinazione anti-COVID-, la guarigione dalla malattia o l’esito negativo di un test, resta l’ostacolo principale tra fautori e contrari. Mentre si fa sempre più concreta la terza inoculazione di vaccino, il Consiglio federale – come ha annunciato Alain Berset – sta valutando l’opportunità di estendere di  mesi la validità del certificato. Attualmente, il pass sanitario ha una durata di  mesi. Ciò significa che, per le persone che sono state vaccinate per prime in Svizzera, la validità del certificato COVID scadrà nei prossimi mesi. Si tratta ora di sapere se la proroga sarà accettata anche dagli altri Paesi. Riconosciuto a livello internazionale, volontario e accessibile a tutti, questo pass sanitario, è sicuramente uno strumento importante nella lotta al coronavirus, nonostante le critiche e le manifestazioni di piazza di coloro che chiedono «più libertà». Eppure, è proprio il certificato a offrire maggiore libertà: facilita non soltanto i viaggi all’estero, ma anche le attività sul posto. Nel nostro Paese, il pass riduce il rischio epidemiologico di determinati eventi, permettendone lo svolgimento. L’utilizzo del certificato, nel caso in cui la situazione sanitaria dovesse nuovamente peggiorare, potrebbe evitare di dover imporre nuove chiusure, sostengono ancora i suoi fautori. Oltre il % degli adulti è completamente vaccinato. Stando al Consiglio federale, fino all’estate scorsa erano stati rilasciati circa , milioni di certificati. Come detto, se in votazione una maggioranza popolare dovesse bocciare la modifica della legge, a partire dal  marzo prossimo non verrebbe più rilasciato alcun certificato, che sarà però utilizzato al di là di questa data nel resto del mondo. Si tratterebbe di una situazione problematica per i viaggi all’estero, ciò che potrebbe convincere i cittadini ad accettare il testo in votazione, anche perché il popolo sembra condividere l’attuale gestione della crisi da parte del governo federale.


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ATTUALITÀ

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

I frontalieri e l’emigrazione ◆

Sono stati pubblicati i dati sull’occupazione dei frontalieri in Ticino nel terzo trimestre di quest’anno. Segnano un nuovo passo in avanti di questo effettivo che è aumentato di  unità. Così i frontalieri oggi rappresentano quasi un terzo degli occupati nell’economia ticinese. Di conseguenza quasi un terzo del Pil prodotto da questa economia lo si deve agli sforzi di questa componente della nostra manodopera. Togliete i frontalieri dalle aziende, dagli studi e dalle amministrazioni ticinesi e, non solo l’occupazione, ma anche il prodotto interno lordo pro-capite del Cantone, diminuirà più o meno di un terzo rispetto al livello raggiunto sin qui. Continueranno ad esserci ricchi e poveri nel nostro Cantone ma la remunerazione media potrebbe ridursi più o meno del %. E nella stessa proporzione si ridurrebbe il gettito delle imposte sul reddito di Cantone e Comuni. Se l’effet-

tivo dei frontalieri aumenta è chiaro invece che il loro contributo all’occupazione, al prodotto interno lordo globale e per abitante, e al gettito delle imposte sul reddito continuerà a crescere. Questa, descritta in modo succinto, è la faccia positiva della medaglia. Ma il continuo aumento dell’effettivo di frontalieri occupati nell’economia ticinese ha anche aspetti negativi. Si tratta dei costi sociali generati dalle code di automobili che si formano in settimana sull’A negli orari di punta. Si tratta del possibile effetto calmierante che questa riserva di manodopera con basse esigenze remunerative esercita sull’evoluzione dei salari del Cantone. A questi effetti occorre aggiungere ora la possibilità che l’afflusso di frontalieri, in questo straordinario ordine di grandezza, possa avere effetti sostitutivi nei confronti di altri gruppi di manodopera. In questo senso si

Affari Esteri

è espressa, per esempio, recentemente, Amalia Mirante, economista della Supsi. La sua presa di posizione è stata pubblicata dal «Corriere del Ticino». Si tratta di un’opinione originale perché mette in relazione il recente spopolamento del Cantone, argomento oramai approdato sul tavolo del Consiglio di Stato, con l’aumento dell’occupazione di frontalieri. Mirante opina, in particolare, che le partenze dei giovani ticinesi siano determinate da un’evoluzione distorta della struttura degli impieghi che favorisce la creazione di posti di lavoro per frontalieri – ossia per persone a bassa remunerazione – piuttosto che occupazioni per persone con formazione di livello accademico che dovrebbero ricevere stipendi superiori alla media. Abbiamo cercato di provare il fondamento della tesi di Mirante. Per misurare la fuga dei cervelli possediamo solo la statistica delle partenze intercantonali degli svizze-

ri. Ora in questo contingente di emigrati sono compresi anche i confederati che lasciano il Ticino e rientrano ai loro domicili non necessariamente per cause collegate con il rapporto di impiego. Comunque se indicizziamo le due serie, ossia quella che misura l’evoluzione dell’effettivo dei frontalieri e quella relativa alle partenze degli svizzeri otteniamo due curve molto simili. Ciò nonostante la correlazione tra le variazioni annuali di queste due variabili è negativa e quasi insignificante. L’evoluzione dei frontalieri è invece molto correlata con l’evoluzione delle partenze internazionali. Maggiore è l’aumento dell’effettivo dei frontalieri e maggiore diventa anche il contingente delle partenze internazionali. Nel periodo - l’effettivo medio annuale delle partenze internazionali è praticamente uguale al doppio dell’effettivo medio annuale delle partenze intercantonali. L’aumento annuale

medio del numero dei frontalieri nel medesimo periodo è però venti volte superiore all’effettivo medio delle partenze internazionali e quaranta volta superiore all’effettivo medio delle partenze intercantonali. Che cosa ci dicono infine queste cifre e questi rapporti? Tenendo conto degli stessi ci sembra che si possa affermare che la continua espansione dell’effettivo dei frontalieri occupati in Ticino non è accompagnata da effetti sostitutivi di grande importanza né nei confronti della popolazione attiva svizzera, né nei confronti di quella straniera residente nel Cantone. Tuttavia questi possibili effetti sostitutivi sono probabilmente stati tali da determinare, nel corso degli ultimi anni, un’inversione del segno del saldo migratorio che da positivo è diventato negativo. Soprattutto per l’aumento delle partenze degli stranieri. La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso!

di Paola Peduzzi

Kamala Harris, una vicepresidente ammaccata ◆

Kamala Harris, vicepresidente degli Stati uniti, è arrivata in Francia la settimana scorsa con un carico pesante, uno dei tanti che le sono stati affidati: aggiustare le relazioni con Emmanuel Macron. Sorridente e calorosa come è lei, Harris ha incontrato leader politici e imprenditori, ha discusso della pandemia – in America la politica dell’obbligatorietà dei vaccini incontra una resistenza maggiore che in Europa – e della difesa europea, ma soprattutto ha cercato di rassicurare i partner francesi sull’alleanza transatlantica. Prima di lei lo aveva fatto anche lo stesso presidente, Joe Biden, ma sullo sfondo resta il grande strappo di Aukus, l’alleanza tra America, Australia e Regno unito per la vendita di sottomarini in chiave anti-cinese a Canberra che ha scalzato la Francia. Parigi è ancora furiosa per quello sgarbo, si sente una enorme insofferenza nei palazzi francesi rispetto alla volontà americana di collaborare e soprattutto di coordinar-

si con gli europei nelle sue azioni internazionali. Pesa ancora, e molto, il ritiro caotico dall’Afghanistan del mese d’agosto, che nella sua disorganizzazione ha segnato anche l’inizio del crollo della popolarità dell’Amministrazione americana. Harris porta il peso di questa tendenza. Alcuni sondaggi che la danno al di sotto del trenta per cento della popolarità – più bassa persino di Dick Cheney, il vicepresidente forse meno amato della storia, di certo da questa parte dell’Atlantico – hanno fatto il giro del mondo. Numeri a parte, è una questione di credibilità: ci si fida dell’autorità di Kamala Harris? Se si pensa che questi sondaggi sono stati pubblicati mentre circolavano anche le nuove agende della vicepresidente e del presidente, la credibilità diventa ancora più un problema: secondo questi retroscena, Harris e Biden, che all’inizio del mandato a gennaio erano sempre insieme, sempre abbracciati, sorriden-

ti e in sintonia, ora si vedono di meno, soltanto in alcune occasioni, non nella gestione quotidiana degli affari nazionali e internazionali. Che cosa è successo? I pettegolezzi si moltiplicano, c’è chi dice che i due fingevano, quando si facevano fotografare complici e affettuosi, e che in realtà non sono mai andati d’accordo. C’è chi dice che il presidente è rimasto molto deluso dalla sua numero due: si aspettava grandi cose però lei non regge bene la scena. Ogni diceria è alimentata da altre dicerie. Le televisioni conservatrici attaccano moltissimo Harris, non soltanto per il suo ruolo ma anche per quel che rappresenta, cioè l’America multiculturale: se fallisce lei, fallisce anche un’idea di America che i repubblicani contrastano nella sua vera essenza. Per di più durante l’estate erano filtrate indiscrezioni invero malevole nei confronti di Kamala Harris. Fonti anonime ma interne ritraevano una leader in difficoltà, ripiegata sul picco-

lo circolo di consiglieri e anche molto nervosa, o addirittura aggressiva nei confronti del proprio staff. Tutto male, insomma. A Kamala Harris è toccato, appunto, un carico pesante e dopo quasi un anno di questo percorso accidentato viene da chiedersi se dietro a queste deleghe ingombranti non ci fosse anche un calcolo personale e politico di Biden. Harris deve occuparsi dell’immigrazione e dei rapporti con il Sud America, uno dei compiti più ingrati e complicati che ci siano, perché si tratta di curare al contempo le relazioni diplomatiche, gli accessi all’America e più in generale la posizione americana nei confronti dei migranti: è un Paese aperto agli ingressi (venite e trovate il vostro sogno) o è un Paese che deve comunque fare affidamento su un muro? Harris si è trovata incastrata in questo dilemma, che a volte viene risolto retoricamente ma che poi si scontra con la pressione al confine sud,

che non si allenta. In più ci ha messo qualche imprecisione di troppo, qualche promessa poi smentita, una politica dei visti che viene modificata strada facendo: il bilancio è piuttosto negativo. E la vicepresidente ne è uscita ammaccata e questo si riverbera su ogni cosa che la riguarda. Anche la delega sulla gestione della campagna di vaccinazione e dell’esitazione vaccinale si è rivelata oltremodo pesante. Nonostante i tanti mezzi a disposizione, nonostante la collaborazione tra pubblico e privato, indispensabile in un Paese che non può mettere un green pass nazionale, la resistenza è alta e non si riesce ad andare oltre nemmeno alla polarizzazione politica: vaccinarsi è di sinistra, in America, e questo è uno scoglio che pare insormontabile. Per tutti e ancor più per Kamala Harris che, sorpresa e delusione, ha una storia di enorme competenza e determinazione ma oggi sembra non attrezzata e confusa.

Zig-Zag

di Ovidio Biffi

Qualcuno corregga gli oroscopi ◆

Se torno a parlare in questo spazio di un mondo che non mi ha mai interessato, la colpa è di una e-mail con cui un caro amico mi ha annunciato che presto andrà in pensione. La notizia mi ha spinto a riesaminare il contenuto di una busta in cui da oltre  anni conservo gli scritti augurali ricevuti alla fine del mio rapporto con il lavoro e ho così ritrovato anche la fotocopia di una pagina di un settimanale («Internazionale», con cui «Azione» ha sempre avuto un rapporto di simpatia) sulla quale figura l’oroscopo previsto per il mio segno zodiacale. Diceva: «Cancerino, il lavoro deve esserti sembrato a volte lento da impazzire. La bella notizia è che sei agli ultimi mesi di moviola di questo lungo progetto. Se mantieni la concentrazione, dovresti finire intorno al tuo compleanno». Ebbene quella è stata l’unica volta in cui

ho dovuto ammettere che l’oroscopo – firmato da un brillante Rob Brezsny – era perfettamente azzeccato: stavo proprio «girando» le ultime settimane di moviola in redazione e, grazie a Migros, mi accingevo ad andare in pensione in coincidenza con il mio compleanno a  anni (bei tempi eh!). Comunque torno a ribadirlo: non ho mai avuto alcuna attrazione o curiosità per le influenze astrali. Al massimo arrivo a credere che ci sia un po’ di sostanza in quelle che la tradizione e le credenze popolari collegano con la Luna, non perché consentono di individuare o etichettare i lunatici, ma in particolare per il fascino delle maree o per le meno affascinanti influenze legate alla meteo e ai disturbi che tecnicamente ricadono sotto la meteoropatia. Sopravvive in me una sorta di avviso dialettale forse ereditato dal-

le origini contadine: «La Lüna cas fa prima du sees, l’è mia lüna da quel mees» (e in novembre, guarda caso, arrivava al !). La «Lüna cas fa» è la Luna nera, detta anche Luna nuova poiché da quella notte in poi inizia a farsi luminosa. La si vede sui calendari di una volta, quelli che sopravvivono a stento e perdono continuamente brandelli (oltre alle Lune, hanno perso anche le feste cattoliche, i santi...). Per oroscopi e astrologi le influenze della Luna sono minime, contano le posizioni delle dodici costellazioni zodiacali che da millenni stanno alla base dell’astrologia e sopravvivono nonostante questa disciplina abbia uno spessore scientifico nullo (la spiegazione più bella di questa differenza è quella fornita da Voltaire: «La superstizione sta alla religione come l’astrologia all’astronomia, la figlia folle di una madre mol-

to saggia»). Io però ho sempre pensato che la Luna nera «prima du sees» sia troppo in anticipo e che di conseguenza anche il tempo meteorologico, come pure gli appuntamenti con la natura – cioè medie stagionali e periodi favorevoli per semine, potature, raccolti ecc. – non potevano ubbidire a credenze e consuetudini. Ma tutto questo non ha niente a che fare con l’astrologia. A rafforzare il mio scetticismo per l’astrologia ha contribuito anche il collega Stefano Di Michele qualche anno fa quando, volendo stigmatizzare il carosello televisivo degli oroscopi di fine anno, scrisse: «Per tagliare la testa al toro, non in senso zodiacale, basta fare così: invece di leggere l’oroscopo dell’anno che verrà leggiamo quello dell’anno passato, così si vede dove c’hanno preso e dove invece c’hanno preso per il culo». Del resto,

sia gli astrologi sia il vasto esercito di chi crede negli oroscopi, non sanno o preferiscono fingere di ignorare che ai giorni nostri, secondo chi studia scientificamente l’universo stellare, cioè gli astronomi, la presenza del Sole in corrispondenza alle costellazioni è differita di circa un mese rispetto ai segni zodiacali tramandati da millenni di superstiziose credenze. Ma c’è di più: gli astrologi che oggi declamano congiunzioni di stelle, costellazioni e varianti degli ascendenti, tutte certezze ereditate dagli antichi babilonesi o generate dalle superstizioni di popolazioni antiche, non hanno mai tenuto conto di una verità scientifica: la luce stellare arriva a noi con secoli di ritardo e quindi gli oroscopi seguono segni zodiacali astronomicamente sballati. Domanda: qualcuno correggerà gli oroscopi?


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Anno LXXXIV 15 novembre 2021

CULTURA

Tre amici in un romanzo Valérie Perrin, autrice francese di successo, arriva in Italia con il suo nuovo libro Tre, edito da E/O

Per un cinema più inclusivo Due registe sudamericane sono impegnate ad ampliare il repertorio dei temi su problematiche sociali

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Tutti in carrozza! Mostre

azione – Cooperativa Migros Ticino 37

L’immoralità della guerra Nelle pagine di Alexander Starritt una riflessione sull’operato delle truppe tedesche in Russia nel 1945

Poesia di Luigia Sorrentino Una lirica che parla di esperienze giovanili, con le fragilità e inquietudini degli anni Settanta

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A Chiasso il m.a.x. museo celebra il treno fra arte, grafica e design

Alessia Brughera

Quando due secoli fa il treno ha fatto il suo ingresso nel mondo, pochi avrebbero potuto prevedere la sorprendente diffusione di questo mezzo di trasporto nonché l’enorme rivoluzione che avrebbe portato con sé. Dopo il grande stupore iniziale suscitato, accompagnato da qualche perplessità, il «mostro metallico» è diventato ben presto agli occhi di tutti l’icona del progresso, capace non soltanto di aumentare la velocità e la sicurezza degli spostamenti, contribuendo così allo sviluppo della società e dell’economia industriale, ma di porsi altresì come spazio privilegiato di incontro e di conoscenza. Nondimeno, fin dalla sua apparizione, il treno ha prodotto profondi effetti emozionali sull’umanità, influenzando fortemente le arti visive, dalla pittura alla scrittura, dal cinema alla fotografia. In ambito pittorico sono stati tanti gli artisti che hanno subìto la sua attrattiva, da William Turner, che per primo lo rappresenta in uno splendido dipinto del  tutto colore e luminosità, ai futuristi, che si impossessano con maggior foga dell’iconografia legata alla strada ferrata vedendo in essa la piena espressione di quell’irruenza che invocavano a gran voce nel loro manifesto del . L’avvento del treno ha sollevato anche l’esigenza di trasmetterne visivamente il fascino su carta, con pubblicità concepite ad hoc per diffondere le informazioni sulle nuove opportunità offerte da questo veicolo. È così che i più celebri tra gli artisti della réclame di inizio Novecento non si sono sottratti all’allettante compito di realizzare manifesti di grande impatto, dando vita a un prolifico rapporto tra il mondo della ferrovia e quello della progettazione grafica. Il treno, che ancora oggi non vede scalfita la sua immagine connessa all’evoluzione e alla modernità, è protagonista di una rassegna allestita al m.a.x. museo di Chiasso come ideale prosieguo dell’esposizione del  Auto, che passione! con l’intento di approfondire i mezzi di trasporto proprio attraverso l’arte, la grafica e il design. D’altro canto una mostra su questo tema non poteva trovare una sede più consona di Chiasso, cittadina dalla marcata identità di luogo di confine dove, nel lontano , viene inaugurata la stazione internazionale che ha contribuito a fare del Canton Ticino un territorio-ponte tra Nord e Sud Europa. In un percorso che dall’Ottocento arriva sino ai giorni nostri, accanto a opere artistiche e manifesti storici originali, che rappresentano il nucleo più corposo della rassegna, sono presenti cartoline, fotografie vintage, dépliant nonché oggetti di design e manufatti inerenti al treno, alcuni dei quali hanno una grande forza evocatrice di quell’universo, quasi magico, fatto di

fumo e di velocità, dove il tragitto da una località all’altra era un viaggio del corpo e della mente, un’esperienza talvolta indimenticabile. Accolgono il visitatore a inizio mostra le «parole in libertà» dei già citati futuristi (Fortunato Depero su tutti), in cui «le locomotive dall’ampio petto che scalpitano sulle rotaie», come scriveva Marinetti, vengono omaggiate attraverso testi svincolati da regole sintattiche e popolati da onomatopee che riproducono i suoni e i rumori appartenenti alla ferrovia. Tra i primi e più efficaci manifesti sul treno spicca nella rassegna chiassese quello di Leopoldo Metlicovitz realizzato nel  per celebrare la Galleria del Sempione nell’ambito dell’Esposizione Universale di Milano (foto a destra). Utilizzando la tecnica cromolitografica che già dalla fine dell’Ottocento ha un notevole sviluppo, l’artista triestino, uno dei padri del moderno cartellonismo italiano, crea una composizione di grande incisività ponendo alla guida di una locomotiva un giovane Mercurio di spalle, affiancato dalla figura allegorica della Scienza, mentre sta uscendo dal buio del tunnel verso una pianura assolata. Con la Belle Époque anche la comunicazione legata al treno, seguendo appieno la visione raffinata e galante del periodo, esalta la bellezza femminile mettendola senza riserve in primo piano, come fa ad esempio Fausto

Bernasconi nel manifesto che promuove la funicolare del Monte Brè a Lugano. In questi primi anni del Novecento il treno incarna il viaggio della conoscenza, occasione insostituibile per ammirare le meraviglie dei diversi paesi (si veda l’opera del grafico francese Frédéric Hugo d’Alési dal titolo L’Italie par le St-Gotthard, con il Vesuvio sullo sfondo a solleticare la voglia di visitare luoghi incantevoli), ma anche il viaggio dell’amore, come ci fanno intendere i due novelli sposini immortalati nel manifesto della Ferrovia Elettrica di Valle Brembana o la signorile coppia all’interno di una carrozza nell’opera di Marcello Dudovich, piccolo ma sorprendente compendio di come questo mezzo di trasporto possa diventare lo spazio ideale per il corteggiamento e la seduzione. E non è un caso che proprio con la Belle Époque si assista all’ampliamento del concetto estetico di design anche negli interni dei convogli ferroviari, dall’arredo all’oggettistica, affinché ricercatezza e comfort possano essere un segno distintivo dei lunghi tragitti sui binari; si pensi ad esempio al leggendario Orient Express, il treno messo in servizio dalla Compagnie Internationale des Wagons-Lits. Questa estrema cura per ogni dettaglio si sviluppa ulteriormente negli anni Venti e Trenta del Novecento con l’opulento stile dell’Art Déco. Bella in mostra la ricostruzione dell’interno di

una carrozza con i pregevoli pannelli decorativi degli artisti francesi René Lalique e René Prou. Tra i manifesti del periodo, dove il lettering fa il suo ingresso, troviamo i lavori del grafico Cassandre e di William Spencer Bagdatopoulos, quest’ultimo autore di una stampa che promuove La Flèche d’Or dandoci un suggestivo assaggio dell’atmosfera che si respirava attorno a questo lussuoso mezzo. Nel secondo dopoguerra l’idea del piacere del viaggio si fa ancora più forte. Emblematica, in esposizione, la divertente opera del grafico elvetico Paul Gusset in cui un gruppo di giovani sciatori viene trainato da un treno. Di particolare interesse, poi, sono alcuni manifesti d’autore tra cui troviamo quello realizzato nel  per le FFS da Augusto Giacometti: per pubblicizzare un’effervescente estate nella bella Svizzera l’artista colloca al centro della scena una grande farfalla delineata con ampie pennellate di colori accesi, a simboleggiare, secondo un concetto molto attuale, l’amore per la natura. Sempre per le FFS, in un momento in cui molte compagnie ferroviarie si avventurano nella rielaborazione di tutta la loro identità visiva per essere quanto più riconoscibili, lavora un altro importante grafico svizzero, Josef Müller-Brockmann, che con la sua ricerca di un nuovo logo per la società raggiunge esiti di estrema efficacia.

I tanti oggetti riguardanti il treno che si incontrano in ogni sala della rassegna, dall’obliteratrice per biglietti ai menù scritti a mano, dalle lanterne per scambi alle targhe di segnaletica, solo per citarne alcuni, contribuiscono a farci viaggiare con la mente sugli affascinanti binari del mondo ferroviario, ancora oggi in piena evoluzione e sempre pronto a stupirci. Mike Robinson, poliedrico e visionario designer californiano, autore di un saggio nel catalogo della mostra, parla di treni verticali e a lievitazione magnetica come avanzatissime soluzioni che entreranno a far parte delle nostre vite molto prima di quanto si possa pensare. Treni che ci porteranno ovunque, probabilmente anche nello spazio. E la storia continua... Dove e quando Treni fra arte, grafica e design. m.a.x. museo, Chiasso. Fino al 24 aprile 2022. La mostra è curata da Oreste Orvitti e Nicoletta Ossanna Cavadini ed è un progetto integrato con il Museo Nazionale Ferroviario di Pietrarsa, Napoli-Portici. Orari: martedì-domenica 10.00-12.00/14.00-18.00. Il percorso espositivo prosegue anche all’esterno del museo, per informazioni si invita a visitare il sito www.centroculturalechiasso.ch


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azione – Cooperativa Migros Ticino

CULTURA

Tre amici in una sola storia Editoria/1

Le voci vanno sullo schermo

Tre, un libro di successo di Valérie Perrin

Laura Marzi

Valérie Perrin è uno dei casi editoriali dell’anno: sceneggiatrice, fotografa di scena, approda tardi alla scrittura di romanzi e nel  con il suo Cambiare l’acqua ai fiori, edito in italiano da E/O, raggiunge un successo internazionale. L’estate appena trascorsa il successo si ripete con il romanzo Tre, che scala le classifiche e rimane in vetta per mesi. I tre di cui racconta Perrin sono Adrien, Étienne e Nina, che si incontrano nel cortile delle scuole elementari e si ritrovano per caso nella stessa classe. Nel romanzo, ritorna più volte l’immagine di Nina, che senza conoscerli, prende gli altri due per mano e insieme entrano a scuola. Da allora, fino alla fine del liceo, non ci sarà un momento della vita che i tre non condivideranno. Adrien vive solo con la madre, è figlio di una relazione illegittima e seppur il padre abbia deciso di riconoscerlo e di occuparsi di lui dal punto di vista materiale, non esiste tra di loro nessun rapporto e i loro incontri si limitano a qualche pranzo al ristorante, in cui Adrien si sforza di fare conversazione. Nina vive col nonno: la madre l’ha abbandonata, quando era solo una neonata e non sa nulla di suo padre, si vocifera addirittura che la ragazzina sia stata concepita durante uno stupro. Étienne è l’unico ad avere una famiglia tradizionale, un ottimo rapporto con la madre e un legame stretto con la sorella, anche lui, però, seppure vivano sotto lo stesso tetto, non ha nessuna relazione col padre, che sembra ignorarlo. Il romanzo di Perrin è la storia di tre vite che si intrecciano, attraverso flashback di epoche diverse: il presente del romanzo è raccontato dalla voce di Virginie, di cui sappiamo so-

È nata in Francia nel 1967; il suo libro Cambiare l’acqua ai fiori è stato uno dei più venduti in Italia nel 2020. (europaeditions. com)

lo che ha frequentato a La Comelle, nella provincia francese, le stesse scuole di Adrien, Étienne e Nina. Nel presente della narrazione Nina vive a La Comelle e dirige un rifugio per animali, mentre Étienne sta a Lione, ha un cancro all’ultimo stadio e ha deciso di non farsi operare. Accanto a questo tempo, Perrin inserisce il racconto dei diversi passati dei protagonisti. I tre, infatti, per una serie di eventi concatenati, dopo aver trascorso insieme tutta la prima parte della loro vita, iniziano tragicamente a separarsi, a partire dai vent’anni, per ritrovarsi, finalmente capaci di raccontarsi la verità, a quarantun anni compiuti. «È la fortuna della mia vita. Quan-

ti possono vantare anche un solo amico che dica sempre sì?» si domanda Adrien, verso la fine del romanzo, istigando le lettrici e i lettori a porsi la stessa domanda. Indubbiamente, il testo di Perrin è incentrato sull’amicizia e si caratterizza, almeno nella prima parte, per una visione idilliaca del rapporto fra Adrien, Étienne e Nina. I tre non litigano mai, i due ragazzi riescono per anni a nascondersi a vicenda le proprie gelosie e Nina ha un carattere talmente dolce, che riesce sempre ad assolvere al ruolo di ago della bilancia, che i due le affidano. A un certo punto, però, con l’avvento della giovinezza, le cose cambiano drasticamente. È interessante che a far precipitare tutto sia la mor-

te del nonno di Nina, l’unica figura maschile presente nelle vite della ragazzina e di Adrien e l’unico uomo da cui Étienne si sentisse amato. Paradossalmente, con tre personaggi protagonisti che in qualche modo non hanno un padre, Perrin ha scritto un romanzo sulla morte del padre, sulle sue conseguenze disastrose e sugli sforzi necessari e salvifici, che vanno fatti per ritrovare un equilibrio, dopo la scomparsa della figura maschile di riferimento. Ciò che colpisce nel romanzo è la trama, la capacità dell’autrice di tenere insieme vicende, personaggi, tempi, e di incastrarli, mantenendo una certa suspense, lungo le varie centinaia di pagine di cui il romanzo si compone. Infatti, intorno ai tre, ruotano Clotilde, ossessionata dall’amore per Étienne al liceo e misteriosamente scomparsa a  anni; Emmanuel, il marito violento di Nina, che la ragazza sposerà, sentendosi perduta dopo la morte del nonno, e Louise, innamorata di Adrien o forse di Virginie… Non stupisce, insomma, che il testo di Perrin abbia raggiunto tali record di vendite: è uno di quei romanzi da gustarsi in poltrona, quelle narrazioni un po’ d’altri tempi, in cui non c’è spazio per la visione del mondo dell’autrice, né scivolamenti nelle sue vicende autobiografiche. Nel romanzo, esistono solo le personagge e i personaggi: i loro lutti, drammi, le paure, tutto ciò che compone la vita di umanità uniche, quali sono sempre quelle degli uomini e delle donne, che esistono solo per chi legge, solo sulla carta. Bibliografia Valérie Perrin, Tre, Edizioni E/O, pp. 624.

Un giovane Bene

Editoria/2 ◆ A quasi vent’anni dalla morte, per Bompiani appare in libreria un’inedita raccolta di versi dell’attore Daniele Bernardi

Era il  quando l’editore Bompiani dava alle stampe – non senza reazioni polemiche da parte di una certa intelligencjia, la cui ostilità oggi appare più misera di quanto già non avvenisse allora – l’impressionante volume Opere, con l’Autografia di un ritratto di Carmelo Bene (Lecce,  – Roma, ). Summa di un percorso assolutamente unico, che davvero non trova eguali in teatro così come in letteratura, il libro era (ed è) un viaggio nel quale la poesia rivestiva un ruolo centrale: nel teatro senza spettacolo di CB – come Gilles Deleuze «non-definiva» l’autore – il «non capire» poetico era il punto chiave di una pratica tesa a scavalcare la comunicazione in nome del sentire, dell’essere nell’abbandono. Solo cinque anni più tardi, sempre tramite Bompiani, Bene pubblicava un altrettanto stravolgente testo: il poema ’L Mal dÈ Fiori, uno degli esperimenti più estremi che la poesia di lingua italiana abbia dato nell’ultimo ventennio. «Materiale proibito» (e come poteva essere diversamente) per il «famigerato lettore comune», il libro confermava la grandezza di CB poeta attraverso il continuo sforzo di infondere la barbaricità dell’orale nello scritto (un costante rimescolarsi di lingue «minori»

assediava le pagine: dialetti, arcaismi, idiomi lontani); scritto la cui ossessività era imperniata sulla visione dell’esistenza come fatto essenzialmente biologico e sull’impossibilità, per la vita umana, di avere luogo nel tempo. Oggi, ad anni di distanza da questi eventi, e dopo la ripubblicazione, in versione tascabile, di altre opere fuori catalogo (Nostra Signora dei Turchi, Sono apparso alla Madonna, Pinocchio) Bompiani torna su Bene offrendo al lettore un curioso reperto: Ho sognato di vivere! Poesie giovanili. Breve libro in cui sono riuniti poco più di una sessantina di componimenti scritti fra i  e  anni, il volume attinge ai docu-

menti di famiglia; in particolare a una serie di carte consegnate, a suo tempo, da Bene alla madre e successivamente custodite dalla sorella Maria Luisa (in una lontana estate pugliese, a Parabita, ebbi l’occasione di sentirne alcuni durante una lettura pubblica da parte di quest’ultima). Naturalmente acerbe – ma non per questo non interessanti – rispetto alle spericolate operazioni che presto seguiranno, le liriche adolescenziali di CB toccano per la loro nuda semplicità: scritte in una grafia in cui, ogni tanto, si ravvisa un che di vagamente infantile (alcuni manoscritti sono riprodotti a fianco), in esse sono immortalati scorci di un’epoca da sempre perduta: «Io non so dove tu sarai / nella stagione / delle ciliegie. / So che il sole / berrà l’acqua del fiume; / che i campi saranno / d’oro e i camosci / cercheranno le tane: / piangerò ancora; / ma non so dove tu sarai / nella stagione / delle ciliegie!». Al contempo, a più riprese già ritroviamo tratti che saranno peculiari per il futuro attore. Come non sorridere nel leggere i versi: «Io cerco un nome / per poter dire: io esisto!» O, ancora, altri in cui è scritto: «Ho sognato di vivere: / era bello! / Seguì un risveglio brusco: / pensai alla

morte / e mi misi a ridere!». Oppure, nuovamente: «Come chi torni / a luogo che non ha mai / lasciato, eccomi a te: / no! Non aprir le braccia». Ma ci sono almeno due altre considerazioni da fare, di fronte alla pubblicazione di questo materiale. Per la prima volta – e non credo di sbagliarmi – una parte dell’opera di Bene viene presentata senza il peculiare supporto saggistico che, sovente, l’ha accompagnata (al di là della frequentazione dei grandi filosofi francesi, come non dimenticare il ruolo centrale degli studiosi nel percorso di CB?). Ecco che oggi, invece, Ho sognato di vivere! è introdotto da una nota del nipote Stefano De Mattia, custode del materiale pubblicato, e da un breve scritto dell’attore Filippo Timi. Tale inquadramento risulta poco consono, o comunque anomalo, da parte di una casa editrice a cui l’autore, a suo tempo, affidò nientemeno che l’opera omnia. Non da ultimo, per la prima volta qui appaiono degli scritti dei quali, che si sappia, Carmelo Bene non aveva voluto la pubblicazione. C’è da chiedersi se, per un artista che pianificò rigorosamente i criteri della propria posterità, questa iniziativa sia adeguata e in linea col suo pensiero.

Media ◆ Radio Ticino si mette in mostra e diventa un canale televisivo Giorgio Thoeni

I cambiamenti possono generare disorientamento. Il progresso tecnologico porta spesso a ridefinire mercato, competenze, obiettivi e profili professionali con accelerazioni sorprendenti. Assistiamo così a piccole e grandi rivoluzioni che sostituiscono abitudini e rimodellano la quotidianità. Ne è un esempio anche il mondo radiofonico con l’avvento della cosiddetta visual radio, la radio che si vede. In alcune fasce orarie certi canali televisivi mostrano infatti conduttori ripresi in azione fra momenti informativi e intrattenimento finché non parte il palinsesto tv, talvolta con brusche cesure o con l’inserimento di sigle. In altre situazioni ecco che può aiutare un cambiamento vero e proprio. Come nel caso di Radio Ticino, emittente privata con sede a Locarno, fondata nel  da Oscar Acciari, Marcello Tonini e Fabio Bacchetta Cattori. Dallo scorso  ottobre ha optato per una versione televisiva (radioticino.com). Un cambiamento per certi versi storico e unico nel panorama svizzero. L’emittente ora si chiama Radio Ticino Channel (RTC) e oltre a mostrare i conduttori in azione propone video musicali /. Ma com’è stato vissuto il cambiamento all’interno? Risponde Matteo Vanetti,  anni, il direttore: «All’inizio molti erano preoccupati e non sapevano come affrontarlo. Ma già dal giorno successivo i conduttori hanno iniziato a guardare in camera e a parlare come se il pubblico fosse davanti a loro». Alla radio da  anni, Vanetti ha iniziato da ragazzino pulendo i mixer, ascoltando, coltivando la passione fino ad arrivare alla direzione artistica: «Siamo una radio piccola, con  persone che lavorano e che oltre ad andare al microfono si occupano di altri aspetti, come il marketing, la vendita. Non è una televisione vera e propria ma nell’ambito delle automazioni abbiamo adottato soluzioni originali come ad esempio i cambi-camera, dettagli che sono stati molto apprezzati». La radio a chi appartiene? «Al % alla fondazione di Diario e/o Tazebao ma nel consiglio di amministrazione ci sono anche La Regione, Tio, MediaTi e altri minori». Qual è il vostro target? «È il pubblico adulto dai  in su per un’offerta musicale a rotazione con più brani del passato, canzoni conosciute e qualche novità in meno.  titoli che ho montato personalmente: un video sincronizzato con il brano originale».

Matteo Vanetti.


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CULTURA

Per un cinema più inclusivo Personaggi

Arami Ullòn e Marí Alessandrini, due registe che parlano della loro terra natale senza peli sulla lingua

Giorgia Del Don

Arami Ullòn e Marí Alessandrini condividono ben di più dello sradicamento da una terra natale che continua a vivere nei loro film. Ciò che davvero le accomuna è la capacità di stabilire con questa stessa terra un rapporto fecondo e sincero, ritrascrivendo attraverso la settima arte una storia che da ufficiale diventa personale e multipla, formata da differenti punti di vista che si incontrano e scontrano, a volte in modo anche violento. La distanza geografica si trasforma per entrambe in distanza critica, in occasione per osservare la loro storia, con tutte le sue ricche e dolorose contraddizioni, con un necessario distacco. Senza dare mai niente per scontato, le due cineaste sudamericane che hanno scelto la Svizzera come osservatorio privilegiato d’un mondo in costante mutamento non hanno paura di affrontare temi «scomodi», come quello dei popoli autoctoni del continente sudamericano ancora oggi relegati ai margini della società come qualcosa di accessorio. Che sia attraverso la forma documentaria o la finzione, Arami e Marí decostruiscono un mondo falsamente semplice, ridanno alla realtà la sua necessaria complessità con lo scopo di interrogarsi sulle ragioni dell’esclusione. Che sia a causa di problemi mentali insidiosi, di credenze ancestrali che non si amalgamano con un dogmatismo feroce ed opportunista o di origini e imposizioni di genere incompatibili con le proprie aspirazioni, i film delle due cineaste danno voce e corpo agli esclusi di una società impietosamente binaria. Praticamente coetanee, Arami e Marì nascono rispettivamente in Paraguay e in Argentina e si trasferiscono poi, per questioni personali e motivi di studio, in Svizzera: la prima a Basilea, la seconda a Ginevra. Senza conoscersi, le due portano con sé un bagaglio culturale che rappresenta la loro ricchezza e da cui non si separano mai. Ben lontane dai clichés legati all’America latina, le due registe si nutrono delle contraddizioni che abitano

Un fotogramma da El tiempo nublado di Arami Ullòn.

la loro terra natale costruendo narrazioni complesse e libere che ci svelano aspetti delle loro culture troppo spesso sotterrati sotto discorsi egemonici molto ben orchestrati. La prima a lanciarsi nell’arena cinematografica è Arami Ullòn, con il suo potente e toccante primo film documentario El tiempo nublado, presentato in prima mondiale a Visions du réel di Nyon nel . Allo stesso tempo formata alla regia (ha beneficiato di una borsa di studio della Boston Film and Video Foundation), ma anche produttrice dei suoi propri film, insieme all’immancabile Pascal Trächslin di Cineworx, Arami sa parlare del suo lavoro con una precisione e un coinvolgimento che non possono che interpellarci. A partire dal suo primo lavoro, la regista paraguaiana ha dimostrato un coraggio che è diventato caratteristico del suo cinema. Se El tiempo nublado indaga nell’inti-

mità di un rapporto doloroso e contraddittorio, quello fra una madre da molto tempo malata e di sua figlia (la regista stessa) divisa fra responsabilità e sopravvivenza, il suo secondo film del  Apenas el sol che rappresenterà il Paraguay nella corsa all’Oscar  per il miglior film in lingua straniera, amplia la prospettiva, che da intima diventa collettiva, occupandosi del popolo ayoreo, autoctono del Chaco paraguaiano, scacciato dalle sue terre ancestrali con il pretesto di essere «civilizzato». Benché la regista sposti il suo sguardo verso una realtà esteriore, ciò che accomuna i due suoi primi due film è il concetto di sradicamento: quello scelto dalla regista che si è trasferita in Svizzera allontanandosi dalla madre e dalla sua malattia e quello imposto ad un intero popolo privato della sua identità. La regista, così come Mateo, il protagonista del

suo secondo film che cerca di custodire i ricordi del suo popolo su fragili audiocassette, è alla ricerca della sua propria verità. Una verità che giace al di là delle parole e dei discorsi, troppo spesso costruiti ed insidiosi, che rimane iscritta nel corpo malgrado tutto e che affiora nei piccoli gesti quotidiani: in una carezza, nel gesticolare, nel tessere o cucire, attività che ricordano un mondo ormai scomparso di cui Arami e Mateo sono i custodi. Questa volta attraverso la finzione, Marì Alessandrini sembra rispondere ad Arami interessandosi anche lei, con il suo intrigante primo lungometraggio Zahorí () a quanti sono stati relegati ai margini della società in cui è cresciuta: gli abitanti, autoctoni ma anche idealisti frutto della controcultura degli anni sessanta, della steppa patagonica al confine fra Argentina e Chile. Un mondo a parte che la regista

ha percepito sin da bambina come qualcosa di vicino (da un punto di vista geografico) ma allo stesso tempo di irraggiungibile, un luogo misterioso e pericoloso dove è meglio non avventurarsi. Ricche di un doppio punto di vista sulla società latinoamericana: quello europeo e quello ufficiale promulgato dai paesi stessi da cui provengono, le due registe si lanciano nella decostruzione di un discorso egemonico in bilico fra «esotismo» e idealismo romantico e la discriminazione vera e propria che porta con sé la negazione dell’eredità culturale dei popoli autoctoni del continente sudamericano. Le due registe ci mostrano, ciascuna a modo suo, come la visione colonialistica sia tuttora una realtà palpabile che fa parte di un meccanismo di esclusione più vasto, quello di una parte della popolazione giudicata come «scomoda», che si tratti dei popoli autoctoni che invadono foreste dal potenziale economico sconfinato, dei poveri ma anche delle donne o della comunità LGBTIQ+. Mora, la giovane protagonista di Zahorí che sogna di diventare un gaucho malgrado sia considerata come «bianca», incarna molto bene queste contraddizioni che risente come qualcosa di estraneo, di costruito, barriere apparentemente infrangibili che imprigionano la sua vera natura: né femmina né maschio, né indigena né straniera, né essere umano né animale ma tutte queste cose insieme. Attraverso un dialogo intenso e poetico con la natura che domina tutto il film, Marí Alessandrini ricerca una verità che va ben oltre i discorsi preconfezionati, una verità che nasce dal dialogo fecondo con «l’altro», che si nutre di contraddizioni senza mai pretendere l’esaustività. Con intelligenza e una rinfrescante dose di faccia tosta, Arami e Marì spostano lo sguardo ai margini per dare voce a un continente Sudamericano che speriamo riesca a guardare al futuro con più inclusività.

Il violino formidabile di Krylov Concerti

Il solista russo sarà ospite dell’OSI il prossimo 25 novembre sotto la direzione di François Leleux

Enrico Parola

Come Liszt per il pianoforte, Paganini è la quintessenza del virtuosismo violinistico; un virtuosismo che non si sostanzia solo di funambolismi tecnici, di pirotecnie d’archetto e dita: i Concerti, ancor più dei Capricci, mostrano come il musicista genovese ricercasse sul suo strumento anche una mimesi totale con la voce umana, spingendo la cantabilità del violino a limiti prima di lui inesplorati e scandagliando effetti timbrici inauditi. Leggere nel programma che l’Orchestra della Svizzera Italiana affronterà giovedì prossimo il suo Quinto Concerto in la minore è garanzia di spettacolo e divertimento, considerando che a interpretarlo è atteso Sergej Krylov. Talento precocissimo – a sei anni il primo recital in pubblico, a dieci la prima esibizione con orchestra, accompagnato nel Concerto in la minore di Bach – il violinista moscovita che compirà  anni il  dicembre ha inciso i  Capricci per la Deutsche Grammophon, la mitica etichetta gialla che editava le regi-

Suona uno strumento costruito da suo padre.

strazioni di Karajan, Bernstein, Michelangeli, Abbado. Krylov imbraccerà un… Krylov.

Già, perché se i migliori violinisti possono avere il privilegio di suonare degli Stradivari, dei Guarneri del

Gesù o degli Amati, Sergej utilizza i violini creati da suo padre. «Nel  fu il primo liutaio sovietico ad ottenere il permesso di perfezionarsi a Cremona, patria di Stradivari e della liuteria mondiale; quando tornò in Russia era visto come una star. Negli anni Ottanta ci trasferimmo tutti: sono cresciuto a Cremona, suonando i migliori violini, ma non penso di peccare di partigianeria domestica dicendo che quelli di papà sono davvero ottimi. Sto usando uno degli ultimi che costruì, purtroppo morì nel pieno della sua maturità artigiana: ha un suono ricco, pieno, lo trovo splendido». Splendida per ricchezza melodica e piena di atmosfere romantiche è la Terza sinfonia di Brahms affidata alla direzione di François Leleux. Francese nato a Croix nel , ha imboccato la via del podio dopo una brillante carriera come oboista, sia come solista sia come membro di orchestre prestigiose quali la Bayerisches Rundfunks guidata da Maazel e Jan-

sons; ha un legame col violino molto personale: è sposato con la georgiana Lisa Batiashvili, grande interprete del principe tra gli strumenti ad arco. In apertura un’altra pagina fascinosa: l’ouverture dal Freischütz di Weber, considerata la prima opera romantica.

Concorso «Azione» mette in palio alcuni biglietti omaggio per il concerto dell’Orchestra della Svizzera italiana diretta da François Leleux che si terrà al LAC di Lugano il 25 novembre 2021. Per partecipare al concorso inviare una email all’indirizzo giochi@azione.ch con i propri dati (nome, cognome, indirizzo, no. di telefono) e con oggetto «OSI e Krylov», entro le 24.00 di giovedì 18 novembre 2021. Buona fortuna!




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Anno LXXXIV 15 novembre 2021

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CULTURA

L’immoralità della guerra

Libri ◆ Nel romanzo di Alexander Starritt La ritirata si narra l’esperienza di un uomo che ha vissuto le atrocità dell’invasione tedesca della Russia Stefano Vastano

All’inizio c’è lo sguardo candido del bambino. Che guarda al nonno e alla sua farmacia in un paesino presso Heidelberg. Quella Germania che, grazie agli americani, è rinata economicamente nel dopoguerra e – a differenza dell’altra Germania, di là del Muro – si è stabilizzata al centro d’Europa. «Noi inglesi guardiamo ancora i tedeschi con una rete di pregiudizi – inizia a dirci Alexander Starritt – e un senso di inferiorità per la loro economia. Noi abbiano vinto la guerra. Ma la Germania, dopo la catastrofe del nazismo, si è ripresa e ci ha superato dal punto di vista economico». È forse questa dei pregiudizi fra le nazioni e le generazioni la lente migliore per leggere La ritirata, il romanzo di Starritt appena pubblicato dalle edizioni Guanda. Il titolo originale del romanzo di Starritt – che è di madre tedesca, ma è cresciuto in Inghilterra – è We, Germans: un gioiello di  pagine che si leggono di un fiato. «Con il titolo originale giocavo un po’ con i pregiudizi inglesi contro i tedeschi, ma in parte corrispondono – ricorda l’autore – al carattere di mio nonno». Da bambino lui era spesso lì ad Heidelberg: «di domenica nonno era sempre in giacca e cravatta – spiega Starritt – e ai compleanni t’invitava al ristorante perché così si fa». Solo crescendo Alexander intuisce quello che il nonno – che voleva studiare chimica all’università – ha vissuto dal settembre , l’inizio della guerra, al crollo del nazismo nel ’: e cioè l’inferno. Un’apocalisse che per lui e molti altri prigionieri tedeschi in Russia, è durata ancora anni. Provocato dalle domande del nipote, il nonno – sull’orlo dei  anni – risponde al nipote con una lettera. In cui ricostruisce ciò che ha visto nei sei anni di guerra. E poi nei gulag. «Quella scatenata da Hitler in Polonia e in Russia, sintetizza Starritt, è stata una cruentissima guerra di

In Polonia e in Russia le truppe tedesche si sono macchiate di crimini efferati. (zweiterweltkrieg.eu)

stampo coloniale, che l’esercito tedesco ha combattuto senza pietà contro soldati e civili per lo sterminio dei popoli slavi». Ma come è possibile che dei ventenni abbiano potuto compiere, per anni, massacri contro i civili, e l’orrore dell’olocausto, il crimine più efferato mai compiuto da mano umana? «Da anni leggo analisi sulla guerra e misfatti della Wehrmacht e delle SS, spiega Starritt, e ora che anche mia madre è morta volevo lasciare un segno per ricordare la vita di mio nonno». Nelle prime pagine del romanzo, all’inizio del Blitz sferrato dai nazisti in Polonia, lo vediamo ancora orgoglioso «il nonno», a cavalcioni del suo obice. Ma via via racconta al nipote fasi sempre più orripilanti di una guerra infernale. Starritt si è soffermato solo su un paio di scene crudeli che, dall’avanzata sino a Stalingrado si sono verificate a migliaia, specie nella ritirata della Wehrmacht dall’Est. E davanti a cui non puoi fare a meno di porti la domanda-chiave del romanzo: come si può arrivare

ad impiccare a un albero gli abitanti di un intero villaggio? «Probabilmente, spiega Starritt, per un malinteso senso del dovere, per l’educazione tutta tedesca al rigore, che ha spinto soldati come mio nonno a compiere orrori e a continuare a combattere sapendo che, dopo Stalingrado, la guerra era perduta». Nel romanzo rivediamo Meißner – è il nome del nonno – che vestito di stracci vaga con altri quattro disperati nelle campagne ucraine cercando cibo. E assistendo appunto agli scempi della Wehrmacht. Anche il nonno e il suo gruppo, le barbe lunghe, le mantelle dei rumeni addosso, ai piedi stivali dei russi, sono ormai una soldateska allucinata dalla fame. «Giunto in Austria, mio nonno è stato acciuffato dai partigiani e gettato nei Gulag». Quando nel ’ tornerà in Germania, quel ragazzo che voleva studiare chimica era pelle e ossa. Ma nel lazzaretto c’è un’infermiera che gli ridà la forza di continuare a vivere: la nonna di Alexander. La ritirata non vuole rispondere a tutte le angoscian-

ti domande sul perché l’uomo compie eccidi come quelli. Ma ci consente di leggere,  anni dopo quei crimini, come i nipoti guardano a quegli anni oscuri. «La mia generazione, dice Starritt, non guarda più a quegli orrori con le categorie dei nostri genitori nel ’. Allora si cercava di capire le violenze estreme analizzando la mente di Hitler, la follia di Himmler, o gli atti di eroismo di coraggiosi ufficiali come von Stauffenberg e il suo attentato contro Hitler». Ma le armate scatenate da Hitler contro Stalin erano formate da soldati come quelli che incontriamo nel romanzo. «Oggi guardiamo alla singola persona, e non certo per empatia per quei soldati come mio nonno. Che per tutta la sua vita sentì vergogna per gli atti compiuti in guerra». Categorie come la «colpa collettiva» dei tedeschi, di un’intera nazione «sono falsanti, una malintesa nozione religiosa», conclude Starritt. Più che la «colpa» è la moralità del singolo che conta, e se prova vergogna per ciò di cui lui, e solo lui è responsabile.

La lirica del dolore Poesia

Luigia Sorrentino nel suo Piazzale senza nome scava nella tragedia delle sofferenze quotidiane

Guido Monti

Luigia Sorrentino con la nuova raccolta dal titolo Piazzale senza nome, (Pordenonelegge – Samuele Editore, ) scende come una antropologa della psiche, nei tremendi abissi che ognuno di noi potrebbe toccare per sofferenze proprie o altrui. Oggi si cammina, si sorride e discute amabilmente, domani chissà. Ogni verso di questo libro vuol ricordarci, in qualche modo, di rimanere sempre coscienti alla propria fragilità e ci suggerisce forse indirettamente, di non abbracciare troppo fortemente i cosiddetti strumenti di distrazione di massa, che quella coscienza sin dai tempi del boom economico del secolo scorso, hanno sempre ammansito ed intorpidito, creando la prima vera grande lontananza all’interno delle comunità. E Le morti parallele uno dei titoli iniziali, riassumono certamente il tempo polimorfo del dolore, che scandisce questo racconto in versi, di chi soffre gli ultimi istanti ma anche di chi li veglia e Sorrentino annota tutto con la crudezza di una parola metaforica, pronta a cogliere il cambiamento fisico che subisce il morente ma anche quello psicologico di

chi guarda. E nell’asciutta descrizione della fine di un corpo, la poetessa si invola in quadri metafisici davvero nitidi: «…Poi il respiro sprofonda nella gola carsica risucchiando via, a uno a uno, i nostri volti prima di approdare alla riva, ai cupi occhi della grande notte. // …».

Nata a Napoli, vive a Roma. (poesiafestival.it)

Cosa c’è per chi resta dopo l’evento irreversibile? Forse una nuova prospettiva del sentire ed essere al mondo. Ecco allora che questo scritto, potremmo chiamarlo il libro delle sparizioni silenziose; i ragazzi che qui passano non hanno mai nome, semmai sono ricordati anche per un gesto amoroso ma sempre dentro la corolla funerea dell’ago e l’astinenza da ebbrezza li circuisce, cinge, ordina ogni loro azione. Ma anche l’ebbrezza da velocità, porta il giovane motociclista a misurarsi col rischio della fine che è lì ad un passo già sull’asfalto; e poi l’orrore del femminicidio perpetrato su una giovane donna, delinea in maniera definitiva, il comune denominatore di tutte queste vite: la morte repentina, che scancella ogni giovane identità chiamata dal destino a bruciarsi velocemente: «Il volto della ragazza è scoperto. Spalancati gli occhi. Sotto il mento, la linea violacea dell’orizzonte. Alla tempia scintille di fuoco. Forse il vento aveva portato nel suo orecchio schegge di ruggine, granelli di polvere mentre aveva strisciato bocconi sul bordo della strada…».

Ecco sicuramente il tragico, si affaccia su tutti i corpi, che potremmo avvicinarli, specialmente quelli disfatti dalle droghe degli ultimi decenni del novecento, alle pagine oscure e fallimentari di una società, che non volle prendere coscienza di quella piaga. Ma Luigia Sorrentino, sottotraccia a queste figure dell’effimero, ne fa camminare un’altra silenziosa, che quasi si nasconde dietro il verso; talvolta cerca di far capolino dietro una parola sempre più criptica, simbolica e con la piccola mano sembra salutarci. Forse solo un uomo, colui che è come dice la poetessa, nella lirica che chiude il libro, non al cimitero ma negli utensili del giardino, tra tutte queste vite addolorate fu fortunato, poiché ebbe vicinanza nel momento della fine. Ecco Luigia Sorrentino è qui a ricordarci, nell’èra delle molteplici identità rafforzate e potenziate dagli strumenti digitali, che in verità il suo piazzale senza nome, è sempre lì a guardarci e sospirare dallo slargo di ogni via, di ogni tempo.

Un talk show intelligente TV ◆ Corrado Augias e Giorgio Zanchini nel nuovo programma Rebus, su Rai 3 Marco Züblin

Non sono un estimatore incondizionato di Corrado Augias: intellettuale laico, polemista cortese, a tratti apodittico e asseverativo, con un po’ di quella sottile arroganza da wannabe «venerabile maestro» (cit. Arbasino). Nel nuovo talk di Rai, Rebus (domenica, .), Augias continua il dialogo con Giorgio Zanchini, meno deferente di quanto fosse quando Augias lo accompagnava in Quante storie, accampandosi un po’ come imprevedibile e maestrino genius loci. Per inciso: quest’ultima trasmissione (Rai, ., quotidiana) è uno dei pochi tentativi riusciti di «invito alla lettura», un tema (ci tornerò) sul quale i media audiovisivi si sono spesso rotti denti e corna, ma che non per questo deve essere abbandonato – almeno dal servizio pubblico – se non si vuole fallire in uno dei suoi ruoli fondamentali, cioè quello di luogo di mediazione culturale.

Diversamente da altri programmi durante la trasmissione i vari interlocutori si ascoltano e si rispettano La strada è lunga e la china è ripida, tuttavia… Tornando a Rebus, si tratta di un raro esempio di talk show intelligente. Un risultato che nasce da una scelta precisa, quella di non fare appunto quello che fanno gli altri, cioè mettere decine di persone nell’arena e guardarle scannarsi su temi diversi, con il coordinatore un po’ a dirigere il traffico, un po’ ad accendere i fuochi e un po’ a spegnerli. Con pochi o punti risultati per la comprensione del tema. Qui invece un dibattito a due-tre con una bella riscoperta della capacità degli interlocutori di ascoltarsi a vicenda, di rispettarsi; roba d’altri tempi, di bei tempi. Qualche simpatico siparietto tra Zanchini e Augias, baruffe innocue tra persone che (credo) si stimino. Con l’aiuto di ospiti di livello va in scena un dialogo profondo, ma anche ironico, su fatti e temi della settimana. «Un punto di vista diverso dalla stretta cronaca, per leggere l’attualità con le lenti della storia, della cultura e della politica. Una bussola settimanale per orientarsi nel confuso tempo presente» dice la presentazione, ed è anche così che succede. In queste prime puntate si è parlato (due temi a puntata) di eutanasia legale e di limiti alla satira politica, di cambiamento climatico e di criminalità organizzata, di razzismo e di qualità della classe politica, di omofobia e di aborto e obiezione di coscienza, di nuove famiglie e di robotica. Il dibattito in studio viene arricchito da filmati, ma piace soprattutto l’intervento e i contributi dei corrispondenti esteri, in una bella trasversalità dove tutti sembrano dare il meglio approfittando del passo e del respiro lento, profondo senza piaggeria, ironico e auto-ironico di una trasmissione che ci riconcilia un po’, dopo tante delusioni da palinsesto, con l’arte del colloquio, dell’ascolto e del confronto di idee.


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CULTURA / RUBRICHE

In fin della fiera

di Bruno Gambarotta

Drammi lessicali ◆

Nonno Learco Beccuti avverte l’arrivo di un temporale; suo nipote Alex, nove anni, l’ha avvisato: «Mamma ti cerca. Vuole parlarti. Non aveva una bella faccia». Per un intero pomeriggio Learco Beccuti riesce a evitare sua nuora, una toscana battagliera. Quando pensa di averla fatta franca se la trova davanti: «Finalmente!», esclama lui, «È tutto il giorno che ti cerco. Ale mi ha detto che volevi parlarmi». «Veramente», fa notare mamma Federica, «avevi l’aria di uno che cercava di evitarmi. Tuo nipote si chiama Alex, non Ale». «Lo so, ma per noi piemontesi la X in fondo alle parole non si pronuncia. È la famosa X muta». «Ah sì? A proposito del piemontese, è proprio di questo che volevo parlarti. Ieri Alex meritava una punizione e io gli ho negato i soldi per comprarsi le figurine. Lui ha tirato fuori un biglietto da cinque euro dicendo che gliel’avevi dato tu. È vero?». «Sì, che male c’è?».

«Non sarà mica per quella storia che lo paghi perché impari a memoria delle vecchie parole in piemontese?». «Beh, gli insegno parole e modi di dire che rischiano di scomparire». «Una delle sue maestre ha chiesto di parlarmi. Dice che quando gli ha consegnato il quaderno con un “Buono” anziché con “Ottimo”, l’ha sentito mormorare “bruta cianporgna”. Lei non conosce il piemontese ma ha il sospetto che non sia esattamente in termine elogiativo». «Strano. Cianporgna non mi pare di avergliela mai insegnata. Comunque non devi preoccuparti, perché Cianporgna significa “donna saggia e avveduta che sa farsi amare da tutti”. Basta controllare su uno dei tanti dizionari piemontese – italiano». «È quello che ho fatto. Ho controllato sul Vittorio di Sant’Albino. Dice: Cianporgna: “berghinella, ciammengola, cianghella, pettegola”». Nonno Learco è sinceramente stupito: «Ah, sì? Dice

Quaderno a quadretti

così? Il Sant’Albino non è più quello di una volta. Bisogna capirlo, è del , avrà un po’ di Alzheimer. Tutti quei significati non vanno presi in senso letterale, ma scherzoso. Quando voi di Pienza dite a una donna che è una ciammengola, una berghinella o una cianghella le fate idealmente un ganascino». «Bene. Sai che ti dico? A fare un ganascino alla maestra di Alex ci vai tu». Ecco dunque nonno Learco alle prese con la maestra di suo nipote. Lei parte all’attacco appena lo vede: «Belle parole che insegna a suo nipote!». «Permetta che le spieghi. Io ho l’hobby del bricolage, riparo le cose che si rompono in casa». Alex è stupito, non ha mai visto suo nonno cambiare neanche una lampadina. «L’altro giorno imprecavo contro una ghiera arrugginita che non riuscivo a svitare dandole della cianporgna. Alex mi ha chiesto il significato di quella parola e io gli ho detto, per rispettare

la sua innocenza, che cianporgna si dice di donna assennata e saggia che sa farsi voler bene da tutti. Si vede subito che lei signora maestra merita quest’elogio». «Davvero lei coltiva l’hobby del bricolage? Io ho in casa un vecchio ferro da stiro che ha smesso di funzionare. Tutti mi dicono di buttarlo ma io mi affeziono alle vecchie cose. Chissà se lei...» «Ma certo. Lo dia a mio nipote. Vedrà. Lo faremo tornare come nuovo». «L’abbiamo scampata bella», dice nonno Learco. «Ma un’altra volta stai attento». «E col ferro da stiro come la metti?» «Lo terremo per un po’ di giorni e poi le diremo che è impossibile ripararlo. Accidenti a quella cianporgna e al suo ferro da stiro!». Il giorno dopo, all’uscita da scuola Alex rifila a suo nonno lo zaino. È pesantissimo: «C’è dentro il ferro da stiro della maestra». Cosa ci vuole per riparare un ferro? Basta procedere con metodo. Disporre sul tavolo di cuci-

na tutti i pezzi nella sequenza con la quale si smontano. Poi la mamma di Alex ha bisogno del tavolo, bisogna spostare il tutto. Addio. Facciamo un bel pacchetto di tutti i pezzi e li buttiamo nella spazzatura. Domani diciamo alla maestra che non c’era niente da fare, l’abbiamo rottamato. Alex, il giorno dopo: «La maestra vuole indietro il suo ferro. Ha un nipote antiquario, conosce un collezionista di ferri antichi, disposto a pagarlo a peso d’oro». La mamma di Alex incontra una coinquilina: «Ha visto la foto di suo suocero con Alex sul giornale? Non c’è il nome ma si capisce benissimo che sono loro». La foto è bella grande, si vedono nonno Learco con la testa che sbuca da un cassonetto mentre porge un sacchetto al nipote. La didascalia: «Si allarga in città la fascia dei nuovi poveri, persone dignitose costrette a frugare nella spazzatura nella speranza di trovare qualcosa».

di Lidia Ravera

Le nuove povertà (25) ◆

Erano le quattro del mattino, e Betta non riusciva a dormire. Von Arnim era stato impeccabile con lei: l’aveva ascoltata mentre se la prendeva con la sua bellezza, mentre malediceva maternità e matrimonio, mentre esaminava, scartandolo, ogni possibile, dicibile, narrabile senso della vita: dall’esercizio della carità come pratica per dimenticare se stessi alla sfrenata ambizione che coltiva il proprio talento come un grimaldello per aprire la cassaforte dove si cela l’ammirazione degli altri. Era stata confusa ma raffinata. Aveva offerto al vecchio uno degli spettacoli migliori di quello show, più volte rappresentato, che lei e Tom chiamavano «l’intelligenza della disperazione». Le era parso che lui seguisse i suoi gesti e le sue parole con quella dolcezza venata di preoccupazione che scatena la prima forma di erotismo femminile, la passione edipica. Era tardi quando l’aveva in-

vitata a seguirlo in direzione di «un bagno caldo e una bella notte di sonno». La camera che le aveva assegnato conteneva un letto matrimoniale, un divano, due poltroncine, una toeletta, un terrazzino affacciato sulla via e una piccola scrivania con una sedia imbottita. Le era parso di sprofondare nei primi decenni del novecento come per un sogno di eleganza, aveva abbracciato con lo sguardo quella geometria essenziale, rigorosa. Vagamente cubista. Il bagno in marmo nero e un armadio a muro in cui era appeso, unico, un abito da sera di raso rosso lacca, completavano l’ospitalità. Era stato un colpo basso, offrirle quel rifugio costoso, quegli spazi generosi. La camera da letto, aveva calcolato a occhio, era più grande di tutto il suo appartamento compresa la stanza di Sara. Rivoltandosi fra le lenzuola, in attesa di quel cedimento del discorso logico che precede il sonno, Betta si

A video spento

chiese perché Von Arnim, non avesse approfittato di lei. Niente. Nemmeno una carezza, uno sguardo arrapato, un lampo di libidine repressa ad arte. Qualcosa da cui trasparisse il suo desiderio. Le aveva augurato la buona notte e si era ritirato. Lasciandola sola con l’angoscia. Mentre ne parlava con il vecchio si era convinta che quel litigio doveva essere l’ultimo. «Questa volta lo mollo, “fanculo e tanti saluti”», aveva detto, gustando l’effetto-verità del registro basso che avrebbe usato con un’amica. «Non ho più pazienza. La sua è una gelosia infantile, da bambino viziato. Sua madre gli ha instillato, goccia dopo goccia, la autopercezione del genio. Tu sei bello, tu hai talento, hai il dono e sa Dio se siete in pochi. Dovrai adattarti a questo mondo di mediocri , ti faranno la guerra, l’invidia ti perseguiterà come capita ai beniamini dell’Olimpo, ma alla fine vincerai perché sei il

migliore». Mentre faceva il verso a sua suocera, le era parso, all’improvviso, di avere ragione. Di essere una persona migliore, più pulita, più etica di Tom. Non aveva avuto niente dalla sua famiglia lei, e si vergognava di loro, di sua madre e suo padre. Soprattutto di sua madre, questo campione di normalità devastata dagli stereotipi. Tom le aveva fatto vedere il capolavoro di Douglas Sirk, Imitation of life, quello dove la figlia bianca della Tata di colore finge con tutto il mondo che sua madre sia la sua cameriera perché riconoscerla vorrebbe dire essere vissuta, anche lei, come una «negra». Mentre raccontava il film a Von Arnim si era sentita umile e nobile, come chi viene dal basso e si fa strada nella vita. Lui la guardava comprensivo. Non aveva detto molto. L’attenzione con cui seguiva le sue parole, i gesti delle sue mani dalle dita lunghe, la comparsa e la scomparsa repentina

delle lacrime, aveva qualcosa di teatrale, ma Betta l’aveva trovato rassicurante, tanto da stingere in un passato remoto tutto l’incidente. Soltanto con una frase, prima di accomiatarsi, il vecchio l’aveva riportata alla realtà. «Al momento Tom sa che sei viva, abbastanza viva da dedicargli un messaggio antipatico. Domani, con l’equanimità del mattino, prenderai una decisione» Betta decise che erano quelle parole a impedirle il sonno. Si alzò. Il vecchio le aveva prestato una t-shirt lunga, bianca, leggermente profumata. Insieme ad una borsetta per l’igiene di quelle che ti regalano in business class sui voli intercontinentali. Si guardò nello specchio lungo approvando il risultato del bagno caldo, dello shampoo. Della stanchezza e delle lacrime. Pensò che quella nudità notturna avrebbe abbrevviato la distanza fra lei e il vecchio. E andò a cercarlo.

di Aldo Grasso

Le ipocrisie salutiste ◆

È ipotizzabile un mondo senza Internet? «Nessuno aveva Internet, da nessuna parte. E non sapevamo perché. Quella sera andammo a dormire senza ricevere e-mail, senza che gli status fossero aggiornati. E milioni di uomini in tutto il mondo controllarono quello scompartimento segreto nella parete per vedere se i loro vecchi dvd di Jenna Jameson fossero ancora lì per la buonanotte». Il romanzo Internet apocalypse di Wayne Gladstone ci regala uno scenario inedito: il World Wide Web è scomparso. Nessuno, nemmeno il Presidente degli Stati Uniti, è in grado di trovare un segnale Wi-Fi e accedere alla Rete. La gente va nel panico, l’economia si paralizza e il mondo scivola lentamente nel caos. L’apocalisse di Internet ha avuto inizio. Ma la vita va avanti, e i cittadini di New York trovano presto nuovi, bizzarri metodi per passare il tempo offline e senza social network. Girano

comunque voci che, da qualche parte, tra i grattacieli della Grande Mela, si nasconda Internet… Uno dei più grandi timori del nostro millennio è l’assenza di una connessione Internet. Ogni locale o luogo pubblico possiede una propria rete wifi e i ripetitori di segnale stanno raggiungendo i posti più impensabili pur di servire chiunque. C’è sempre l’urgenza di consultare la propria casella e-mail, di navigare sui social, di condividere cosa stiamo facendo. Senza Internet, infatti, non ci sarebbero più i social, niente più foto su Instagram, niente messaggi su Twitter. Per spedire una lettera occorrerebbe tornare a fare la fila all’ufficio postale. E per un bonifico bisognerebbe recarsi necessariamente in banca. Nessun acquisto online: né su Amazon né su altri siti, perché i siti non esisterebbero più. Secondo Nekeshia Hammond, psicologa, presidente della Florida Psychological

Association, Internet comporta non pochi impatti negativi. Lo si potrebbe paragonare a una specie di «nicotina digitale» o di «caffeina .». Qualunque sia il motivo dell’utilizzo, con il passare del tempo il cervello inizia a bramare una dilagante e snaturata curiosità per ciò che accade sulle piattaforme digitali. Hammond sostiene che i livelli di dopamina aumentano la smania di «soddisfazione mentale». Una volta che abbiamo il naso incollato allo schermo dello smartphone, entra in atto una sorta di comportamento inconscio che ci astrae dalla realtà. Sprechiamo troppo tempo per rimanere aggiornati sulle ultime informazioni che riguardano la rete dei nostri contatti. Spendere troppo tempo online senza rendersene conto, a guardare tutte quelle cose apparentemente meravigliose che tutti gli altri postano, può avere un impatto profondo sul nostro livello di soddisfazione per-

sonale, sulla percezione della realtà. Senza contare tutte le sciocchezze che veicolano i social e che noi prendiamo come notizie vere (tutte le fake apparse sul Covid dovrebbero essere d’insegnamento). Fatta la tara dei pericoli che Internet comporta, è ipotizzabile un mondo senza Internet? La comunicazione non ha più vincoli dato che tutto il mondo è connesso in una rete unica; tutte le barriere una volta esistenti sulle telecomunicazioni sono state abbattute; la comunicazione internazionale è diventata praticamente gratuita. Questa rivoluzione è avvenuta in pochi decenni e ha stravolto l'intero modo di vivere delle persone di tutto il mondo. Ormai è impossibile rinunciare a Internet, ciò che si perde è di gran lunga superiore a ciò che si guadagna. Come scrive Francesco Costa sul «Post», immaginare il nostro futuro senza il Web è un esercizio ludico: «Ho pensato che i corruccia-

ti esercizi intellettuali sulla vita senza Internet, i bar che credendo di fare una cosa molto furba e colta si vantano di non offrire il wifi, gli articoloni sul fatto che Google ci renda stupidi, assomigliano all’elogio del mangiare poco fatto da chi è abituato a mangiare molto, che una volta trovai descritto così in un bel libro». E conclude citando un passo di La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa di Massimo Montanari: «Solo la fantasia, o l’interesse, dei pochi privilegiati ha potuto partorire immagini di povertà felice, di una frugalità (quella dei più) lietamente contenta di sé. E sarà anche vero che mangiar poco fa bene; ma solo a chi mangia molto (o almeno, può mangiare molto) è consentito pensarlo. Solo una lunga esperienza di pancia piena può giustificare il brivido di un appetito tenuto a freno. Gli affamati, quelli veri, hanno sempre desiderato riempirsi a crepapelle».


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