Azione 47 del 22 novembre 2021

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Anno LXXXIV 22 novembre 2021

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A.  Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

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SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Che cosa ci rivelano i sogni? Ce lo spiega lo psicoterapeuta Alfio Maggiolini

«Il Cubo è un’imitazione della vita» disse Rubik, un gioco del mondo pari al rompicapo letterario Ada:39

In Germania è lotta tra Friedrich Merz, Norbert Röttgen ed Helge Braun per la presidenza della Cdu

Il popolo dei sami al centro di una disputa attorno alla restituzione di un tamburo sciamanico

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Pagina 41 Alessandra Ostini Sutto Pagina 6

Shutterstock

Nipoti si diventa

Che l’unicorno ci aiuti

Alessandro Zanoli

Capita andando avanti con l’età che ci si ritrovi svegli di notte a guardare il soffitto con un turbine di pensieri nella testa. Allora sorge spontaneo un desiderio di fare ordine, calmare le idee e magari riagganciare il sonno con tranquillità. Ma il sonno non è detto che arrivi. Il film che passa sul soffitto non è di quelli concilianti. E questo da vari mesi ormai. Si avrebbe voglia di tornare a un «prima», un ipotetico prima fatto di serenità e spensieratezza, un «prima» felice tra l’altro che non è mai esistito. Ma vorremmo tornarci comunque. Siamo gente così, ci piace raccontarcela. Forse per questo Luigi, superando varie preoccupazioni e timori pandemici, ha deciso un giorno che era il caso di iscriversi a un corso sugli unicorni. Il corso era tenuto in una bella cittadina della Svizzera centrale e consisteva in una giornata di studio in cui una serissima e simpatica ricercatrice si proponeva di guidare un gruppo di rispettabili adulti, perlopiù di formazione accademica, sulle tracce dell’animale che non

esiste ma che, ignorandolo, sta godendo un momento di enorme popolarità. Qualunque nonna minimamente edotta delle passioni de* su* piccol* nipotin*, oggi, sa che l’unicorno è un elemento insostituibile nelle loro fantasie e nella loro realtà quotidiana. Come la studiosa ha spiegato, il catalogo degli oggetti in vendita sul web a tema unicorno è ricchissimo e va dal pupazzetto di peluche alle pantofole, dagli occhiali griffati agli spazzolini da denti. Questa presenza fantastica risponde a un ben profondo radicamento in miti e leggende appartenenti alle più antiche culture. Luigi è affascinato dalle fiabe, eppure non può non tener conto della molto meno fiabesca situazione che lo circonda. A dire il vero lo preoccupa l’apparente insuccesso della campagna di sensibilizzazione sul tema di salute pubblica messa in opera dalle Autorità nelle scorse settimane. Luigi si gira sul fianco destro, quello delle decisioni impulsive e risolutive e prende il coraggio a due mani: basta, domani scriverà una lettera a Gesù Bambino, di quelle che mettono a posto tutto.

Poche righe: «Caro GB, è quasi Natale, la festa dell’armonia e della rinascita. Fai in modo per favore che tutti smettano di litigare e trovino il modo di ragionare insieme in modo maturo e calmo, per arrivare a una soluzione ragionevole. Distinti saluti, eccetera». Sarà utile? Sarà il personaggio giusto? E se provassi con un nume più moderno, più pop, uno di quelli che hanno maggior richiamo ecumenico, si dice Luigi? «Caro Babbo Natale, sai bene cosa desidero. Tu che sei una persona pratica porta nelle case di tutti noi un kit per il buon senso. Anzi lasciane tre o quattro di scorta. Non fa niente se aumenteranno i premi della Cassa malati, ma abbiamo bisogno di sicurezze e di concretezza. Ho lasciato la calza appesa alla Playstation, grazie». Luigi si gira sull’altro lato, quello più conciliante, dalla parte di sua moglie. Qui ci vuole qualcosa di collettivo, di armonioso, anche di tradizionale: «Cari Re Magi. Mi ricordo bene gli anni in cui attraversavate il Paese con la vostra bella processione, in mezzo a quegli angioletti vestiti di raso colorato e con le aureole di stagnola, penzolan-

ti. I vostri regali erano semplici ma interculturali: spagnolette, mandarini, cioccolata, torrone, panpepato… c’era tutto il mondo racchiuso in un sacchetto. E voi stessi eravate arrivati da ogni parte del mondo, bell’esempio di rispetto reciproco e tolleranza. Vedete per favore se potete diffondere un po’ di quel senso di armonia e condecisione su questa terra divisa, dove tutti sono convinti di aver ragione e intanto succede che in nome della ragionevolezza si litiga. Grazie. PS: Sale, paglia e acqua per i cammelli sono sul davanzale della cucina». Luigi si addormenta con l’immagine nella testa di quelle aureole ondeggianti, così ridicole e così vere. Al mattino avrà completamente dimenticato i suoi propositi risolutivi. Ma poco male. Continuerà a convivere con gente molto propensa a studiare e dibattere l’esistenza degli unicorni mentre nel mondo altre persone daranno ascolto ad altre narrazioni e ad altre fiabe, in nome della loro libertà di pensiero. In fondo che differenza fa? Ma presto sarà Natale, chissà che le lettere non siano arrivate a destinazione…


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azione – Cooperativa Migros Ticino

MONDO MIGROS ●

Il mulino è pronto a risorgere

Solidarietà ◆ A un anno dall’incendio che l’ha colpita, l’azienda di Maroggia si prepara a rinascere, accompagnata dal sostegno della popolazione, delle autorità... e dei clienti di Migros Ticino

Passando col treno a fianco del mulino di Maroggia, quello che spicca oggi è l’enorme murales in cui campeggiano le figure giganti di due bambini con mazzi di spighe e di fiori. È un’immagine benaugurante, un segnale che vale come buon auspicio per la rinascita della costruzione. È passato un anno da quella sera di fuoco del  novembre , e l’immagine di quelle fiamme così potenti, quasi cinematografiche, ha lasciato una traccia molto forte nel ricordo di tutti i ticinesi. Oggi visitiamo il sito dell’incendio insieme a uno dei proprietari del mulino di Maroggia, Alessandro Fontana. Le macerie sono state rimosse da tempo e lo spazio rimasto è ormai chiaramente quello di un cantiere, con le modine che svettano sul terreno liberato e che lasciano immaginare la futura dimensione dello stabile. Una parte della vecchia costruzione è ancora in piedi e mostra le ferite lasciate da quella notte, ma le putrelle di acciaio piegate e le mura scrostate sono ora un tranquillo rifugio per gli uccelli: ancora per poco, però. Alessandro Fontana ci ricorda brevemente quella sera: «L’incendio si era sviluppato in modo velocissimo, molto più veloce di quanto avessimo mai potuto prevedere. Per fortuna tutto si è limitato al perimetro del nostro stabilimento. Il vento soffiava dalla parte giusta e non c’è stato pericolo di propagazione del fuoco alle case circostanti. I ricordi di quella serata e poi delle giornate successive, con tutte le difficoltà e le incognite che l’incendio aveva lasciato dietro di sé, sono ancora ben vive, ma da allora ad oggi sono successe davvero molte cose». Già dalle prime dichiarazioni che i proprietari avevano rilasciato dopo l’incendio era infatti chiaro che l’attività del mulino sarebbe sicuramente continuata: «Ci siamo mossi immediatamente per capire come procedere con la ricostruzione. Il nostro incendio anzi, vista la sua rilevanza e unicità, è diventato quasi un caso esemplare in cui i nostri assicuratori ci hanno sostenuto con grande impegno. Un incidente di queste dimensioni infatti può diventare per tutti un esempio utile da molti punti di vista. E alla fine abbiamo potuto godere di una collaborazione davvero puntuale e costruttiva». «Uno tra i molti esempi dei problemi da affrontare» ci racconta Alessandro Fontana «era quello legato allo spostamento delle macerie prodotte dall’incendio. C’erano materiali inerti, legname bruciato, grano, da trasportare e smaltire. All’inizio non avevamo proprio idea di come affrontarli. Poi, ricorrendo ad aiuti anche imprevisti, siamo riusciti a trovare una soluzione a questa difficoltà».

Si è lavorato molto, in questo anno, al mulino di Maroggia e i piani per la ricostruzione dello stabilimento sono già pronti da mesi in tutti i dettagli. La nuova struttura che sorgerà è già stata disegnata e delineata, e potrà far capo alle tecnologie di macinazione e di trattamento più moderne. Mentre ci mostra i piani del nuovo stabile, Alessandro Fontana sottolinea come la situazione critica causata dall’incendio abbia d’altro canto attirato verso il mulino l’attenzione molto positiva e persino affettuosa da parte della popolazione. Le manifestazioni di stima e di incoraggiamento, e a volte anche le iniziative per una raccolta di aiuti economici concreti, sono state molte e molto apprezzate. Ciò ha dimostrato l’attaccamento delle persone a un’industria la cui importanza per il nostro territorio è sicuramente fondamentale. In questo contesto, occorre dire che si sono attivati in modo importante anche i clienti di Migros Ticino che hanno offerto un loro contributo concreto alla ricostruzione (si veda il riquadro qui sotto). Alessandro Fontanta rileva, d’altro canto, come le autorità cantonali siano state molto presenti al fianco dei proprietari e abbiano formulato proposte concrete per dare al mulino un ruolo ancora più centrale nel sistema di gestione e stoccaggio dei cereali in Ticino. «Il nostro stabilimento

azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)

Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89

Alessandro Fontana illustra il progetto del nuovo mulino di Maroggia: l’obiettivo per la riapertura è nei primi mesi del 2023. (S. Spinelli)

ha oggi la possibilità di inserirsi attivamente nella filiera per l’approvvigionamento alimentare cantonale. Il mulino diventerà un centro collettore, tassello importante e fino ad oggi non presente nella strategia cantonale che collega la produzione agricola al settore della vendita. Compito del centro collettore sarà ricevere e smi-

stare i cereali, rendere conservabile il raccolto e stoccarne sia la parte destinata al commercio, sia quella destinata alle riserve alimentari della Confederazione». Alessandro Fontana proietta per noi su uno schermo le immagini che mostrano il progetto del nuovo stabilimento: «La nuova fisionomia del

Un appoggio concreto da Migros Ticino Intervista a Raffaella Barelli, responsabile marketing settore Food, panificati e near non food di Migros Ticino. Signora Barelli, il rapporto tra Migros Ticino e il mulino di Maroggia è in corso da tempo... È iniziato nel , partendo con la farina bianca proposta nella linea dei Nostrani del Ticino, seguita poi nel  con quella per la pizza ed infine nel  con la farina di segale. In parallelo sono stati sviluppati anche altri prodotti contenenti farine del mulino Maroggia, questo in collaborazione con il panificio Jowa di S. Antonino e altri produttori locali. Dopo l’incendio del mulino Migros Ticino si è attivata per manifestare solidarietà e partecipare concretamente alla ricostruzione: come? Siamo stati molto dispiaciuti per l’accaduto. Sapendo dell’importanza di questa realtà ci siamo subito attivati per capire la situazione e sostenere la ricostruzione del mulino. Visto che i pani appartenenti alla linea dei

re ca. ’ franchi. La Cooperativa ha poi deciso di raddoppiare questa somma con l’intervento del Percento culturale di Migros Ticino. Tengo anche a ringraziare il panificio Jowa di S. Antonino, in quanto ha contribuito in modo fondamentale al buon esito di questa attività.

Nostrani dopo la chiusura del mulino sarebbero stati prodotti con farine svizzere, insieme a Jowa abbiamo pensato di donare la differenza del costo delle farine quale sostegno economico all’azienda. Per comunicare questa iniziativa alla clientela avevamo fra l’altro usato un’etichetta speciale, applicata sui prodotti coinvolti, i pani Morobbia, Passione, Ciabatta e sulle ciabattine. Da dicembre  a febbraio , grazie alla clientela che ha continuato ad acquistare i prodotti, siamo riusciti a raccoglie-

Come proseguirà la collaborazione tra Migros Ticino e il mulino di Maroggia? La collaborazione non è mai stata interrotta e siamo fiduciosi anche in futuro di poter sviluppare nuovi prodotti con loro. Dall’inizio di marzo di quest’anno siamo potuti tornare ad avere la farina bianca da kg dei Nostrani sugli scaffali, grazie alla collaborazione del mulino di Maroggia con un mulino in Svizzera tedesca, dove è stato possibile lavorare il grano ticinese. Per la farina di segale purtroppo abbiamo dovuto aspettare il nuovo raccolto, ma proprio in queste settimane sarà di nuovo disponibile. Per la farina per pizza invece dovremo attendere la ricostruzione dello stabilimento.

mulino di Maroggia sarà segnata dalla ricostruzione del silos, cioè il centro collettore vero e proprio, e poi del blocco produttivo. È previsto inoltre il mantenimento e la ristrutturazione delle parti destinate alla produzione, che si sono conservate, e anche la creazione di un “comparto storico”. Tutti i processi produttivi saranno caratterizzati dal ricorso al più moderno standard tecnologico, che permetterà di monitorare dall’inizio la qualità della materia prima. Ogni chicco di grano, potremmo dire, sarà controllato e selezionato con sensori ottici per garantirne la massima qualità. Le macchine che si occuperanno della macinazione sono di produzione di una ditta svizzera, la Bühler di Uzwil (SG). È una delle più importanti aziende al mondo, con la direzione della quale siamo legati, tra l’altro, da molte generazioni. La collaborazione con loro quindi è stata ottimale in tutti i sensi, con incontri regolari in cui sono state prese in considerazione le nostre necessità». Volendo guardare le cose con il senno di poi, potremmo dire che, in definitiva, la situazione critica per il mulino di Maroggia si è trasformata nel giro di un anno in un’occasione di rinnovamento e un’opportunità di miglioramento della propria attività che apre nuove prospettive per il suo futuro. Seppur la strada verso la ripartenza è ancora in salita, e tutta da percorrere, al futuro oggi si guarda con positività. Da parte nostra non possiamo quindi che augurare all’impresa ticinese di ripartire con dinamismo e ottimismo, per continuare con successo un’attività tanto importante per il nostro cantone / Red.

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Nipoti si diventa Un progetto di solidarietà intergenerazionale che si prefigge di esaudire i desideri degli anziani

Violenza contro le donne Intervista a Cristina Oddone autrice del libro Uomini normali. Maschilità e violenza nell’intimità

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Familiari curanti, una risorsa In Ticino sono più di 50mila, lo scorso 30 ottobre si è svolta la Giornata annuale a loro dedicata

Tempismo e prevenzione Siamo gli unici a poterci evitare una malattia cardiovascolare con vita sana e controlli regolari

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I messaggi dei sogni

Intervista ◆ I sogni ci rivelano quali sono le nostre paure, i punti deboli e le strade per risolvere i problemi, come spiega lo psicoterapeuta Alfio Maggiolini nel suo ultimo libro

Stefania Prandi

I sogni ci parlano, anche se spesso fatichiamo a capirli e certe volte vorremmo soltanto dimenticarli. Ci rivelano, attraverso un linguaggio fatto di immagini perturbanti, diverso da quello diurno, come stiamo, quali sono le nostre paure, i punti deboli e le strade per risolvere i problemi. Nel saggio I sogni tipici: metafore affettive della notte, appena pubblicato da Franco Angeli, Alfio Maggiolini, psicoterapeuta e docente di Psicologia all’Università di Milano-Bicocca, esplora il significato dei sogni più comuni, diffusi nelle popolazioni di tutto il mondo, indipendentemente dalle culture: volare o cadere; essere nudi; venire inseguiti; sostenere un esame; tentare ripetutamente di fare qualcosa senza successo. Questi sogni non sono ricordi delle nostre esperienze, ma «metafore universali», «immagini pronte nell’inconscio», e ci aiutano a dare un senso emotivo a ciò che viviamo. Professor Alfio Maggiolini, cosa significa sognare di cadere? Ci sono state decine di interpretazioni a questo sogno. Sigmund Freud lo riferiva alla sessualità mentre altri autori a memorie dell’infanzia, a quando si è bambini e si ha paura di cadere dalle braccia degli adulti. Esistono, addirittura, ipotesi di tipo etnologico o antropologico: lo si fa risalire a memorie ancestrali, ai nostri antenati primati che vivevano sugli alberi e quindi dovevano stare attenti a non finire per terra. Secondo alcuni, rappresenta semplicemente il fatto che quando dormiamo siamo in uno stato di atonia muscolare, cioè siamo completamente rilassati fisicamente, con una mancanza di controllo che preluderebbe a una caduta. Secondo me, i sogni di caduta si possono interpretare con il loro valore metaforico, quindi con l’idea di perdita di equilibrio e di controllo su di sé. Si tratta di un messaggio figurato, da collocare in relazione alle situazioni che viviamo e da combinare con gli altri elementi presenti nel sogno. Se, ad esempio, sogniamo di trovarci in una circostanza lavorativa o sentimentale con un collega o un partner che cade, oppure siamo noi a cadere, possiamo intenderlo come un segnale del timore di perdere il controllo rispetto alla nostra vita professionale oppure amorosa. E quando sogniamo di andare in giro scalzi oppure nudi? Alcuni autori hanno spiegato i sogni di nudità come se fossero la registrazione del fatto che a letto siamo meno vestiti rispetto al giorno oppure

nella relazione, di preoccupante, che si manifesta con un linguaggio estremo e metaforico. Il fatto che segnalino soprattutto problemi e non soluzioni immediate fa parte della loro funzione. Ci avvisano, ci allertano, ci mettono in guardia: un’idea non lontana da quella degli antichi che pensavano che, nel sonno, arrivassero gli dèi o i defunti a dare indicazioni o avvisi. Quindi è normale che ci turbino? Sì, è la loro funzione per aiutarci a rielaborare la realtà. Difficilmente sogniamo azioni quotidiane e ripetitive, come lavorare al computer oppure fare la spesa. I sogni sono per loro natura drammatici perché ci confrontano con contesti difficili e, facendo così, attivano certe emozioni. Non sono un ripasso degli eventi diurni quotidiani, servono per riesaminare qualcosa che ci ha colpito. Fa parte della nostra natura umana prestare più attenzione agli avvenimenti eccezionali che non a quelli routinari. Dovremmo sforzarci di interpretarli? Il sogno è un fenomeno prevalentemente involontario, inconscio, inconsapevole; possiamo dire che avviene al di fuori della nostra coscienza. Ne dimentichiamo molti, ma quando li ricordiamo ci interroghiamo sul loro significato. Nell’antichità, l’interpretazione dei sogni serviva a decodificare un messaggio con valore profetico. In alcuni tipi di psicoterapia, viene usata come strumento terapeutico. Oggi, diversi studi dimostrano che riflettere sui propri sogni, capirli, condividerli e raccontarli ha un’utilità.

Felice Casorati, Il sogno del melograno, 1912.

che tendiamo a toglierci le coperte. Io, invece, propendo per un significato metaforico. Secondo me, indicano imbarazzo nelle situazioni di tipo sociale: simulando contesti privati (intimi) e pubblici (il nostro essere in relazione con gli altri) mostrano un confine in pericolo. Ad esempio, certi psicanalisti raccontano che quando i pazienti svelano qualcosa di molto personale in una seduta, fanno poi sogni in cui si ritrovano nudi.

Ci sono anche sogni apparentemente piacevoli con ostacoli continui che impediscono il lieto fine. Cosa ci rivelano? In generale, i sogni usano il linguaggio dell’impossibilità. Sembra quasi paradossale perché c’è proprio il modo di dire «questo è un sogno», come se ci trovassimo nel regno della realizzazione dei desideri. Invece, spesso nei sogni si incontra un impedimento, un intoppo, un imprevisto

oppure un problema. Anche quando c’è un’impronta piacevole, ad esempio se sogniamo un incontro sessuale con qualcuno da cui siamo attratti, è frequente che alla fine non si realizzi. Questi scenari onirici ci indicano dei timori o delle difficoltà in un rapporto amoroso oppure in un desiderio erotico. Ad esempio, nel sogno possono arrivare degli animali feroci a interrompere l’intimità: rappresentano la spia di qualcosa di minaccioso

I sogni sono premonitori? I sogni non hanno una funzione di premonizione in senso stretto, cioè non predicono il futuro, come pensavano gli antichi; già Aristotele, come sappiamo, era molto scettico rispetto a questo. È sensato, però, credere nella loro funzione prospettica, perché ci preparano ad affrontare la vita e ci dicono qualcosa rispetto a ciò che ci succederà non tanto sui fatti, ma su come noi vivremo le situazioni. Quindi sono profezie su noi stessi. Ci servono a capire la realtà emotivamente, facendoci rielaborare le nostre esperienze negative, ma anche le sorprese positive, inquadrandole in modo che si integrino nella continuità di chi siamo e di come viviamo. Contribuiscono alla costruzione dei ricordi e in parte ci aiutano per il futuro.


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MONDO MIGROS

Giornata di colletta alimentare Attualità

Sabato 27 novembre in 11 filiali Migros avrà luogo la colletta alimentare a sostegno del Tavolino Magico

Anche quest’anno torna la tradizionale colletta alimentare natalizia in favore del Tavolino Magico a sostegno delle persone più bisognose, organizzata dai volontari degli «Amici della colletta» con la partecipazione del Lions Club Lugano. Durante la giornata di sabato  novembre, nelle filiali Migros di Locarno, Giubiasco, S. Antonino, Taverne, Agno, Radio, Lugano Centro, Pregassona, Molino Nuovo, Cassarate e Mendrisio, oltre  volontari saranno presenti per sensibilizzare i clienti sull’iniziativa e per raccogliere prodotti a lunga conservazione e in ottimo stato, tra cui per esempio pasta e riso, farine, caffè, succhi di frutta, latte, pelati, conserve, cereali per la colazione, carne e tonno in scatola, legumi secchi, marmellate e miele, condimenti, ecc. La colletta avverrà nel pieno rispetto delle normative sanitarie vigenti. Condividere i bisogni per condividere il senso della vita

Anche a causa della situazione pandemica, sono sempre di più coloro che nella nostra regione si ritrovano in difficoltà finanziaria e faticano a sbarcare il lunario. Sono infatti oltre  le persone bisognose che settimanalmente vengono aiutate da Tavolino Magico attraverso la distribuzione di cibo in perfette con-

dizioni in uno dei suoi  centri e in diverse mense sparse in tutto il cantone. L’associazione senza scopo di lucro nel  ha raccolto e distribuito qualcosa come  tonnellate di generi alimentari. La giornata della

colletta vuole essere un ulteriore segnale di solidarietà verso chi è meno fortunato, un richiamo alla condivisione e alla giustizia, soprattutto in un momento carico di difficoltà, smarrimento e timore.

Pasta fresca ticinese

Attualità ◆ Le cicche del nonno Di Lella per piatti sfiziosi nella migliore tradizione mediterranea

Impossibile resistere agli gnocchi «cicche del nonno» del Pastificio Di Lella di Sementina. Sono prodotti artigianalmente con il solo utilizzo di ingredienti freschi e di ottima qualità, in gran parte locali. Questi gnocchi di spinaci sono una sfiziosa variante dei tradizionali gnocchi di patate e rappresentano un gran-

de classico dell’azienda bellinzonese a conduzione familiare, fondata nel lontano  e oggi gestita dai fratelli Jeremy e Yaël. Al fine di ottenere una consistenza soffice e un gusto delicato che si mantengano bene anche dopo la cottura, le «cicche del nonno» vengono lavorate delicatamente a caldo. Al

15 anni di solidarietà

Il Tavolino Magico è un’associazione umanitaria no profit costituita a Zurigo nel  e attiva da  anni anche nella Svizzera italiana, che opera a favore delle persone in difficoltà finan-

Il digestivo effervescente

Novità ◆ Il noto effervescente Crastan è ora disponibile alla Migros

% naturale e vegana, questa specialità è presente da molti anni sugli scaffali dei refrigerati dei supermercati Migros, sempre pronta a deliziare il palato dei grandi e piccoli buongustai ticinesi. Le «cicche del nonno» sono ottime con un condimento a base di crema di formaggio d’alpe, noci tostate e spinacini freschi appena saltati nel burro; oppure, per chi preferisce i sapori più semplici, anche solo con della panna e dadini di prosciutto cotto. Infine, segnaliamo che il prodotto è venduto in una confezione particolarmente ecologica, che permette di risparmiare fino al % di plastica.

Azione 25% Gnocchi Cicche del Nonno Di Lella 500 g Fr. 3.15 invece di 4.25 dal 23 al 29.11.2021

ziaria e contro lo spreco alimentare. In collaborazione con dettaglianti, grossisti, supermercati e produttori, raccoglie e distribuisce generi alimentari in ottimo stato alle persone più bisognose grazie al sostegno di  volontari.

Effervescente al limone Crastan 250 g Fr. 2.80 In vendita nelle maggiori filiali Migros

Dopo un pasto abbondante, non c’è niente di meglio di un digestivo che ci aiuti ad alleviare quel senso di pesantezza allo stomaco. In questo caso la soluzione ideale è quella di bere un bel bicchiere di effervescente Crastan. Disponibile in granuli nel pratico vasetto di vetro richiudibile, consente di ottenere non

solo una bevanda dall’ottimo potere digestivo, ma al contempo dissetante e rinfrescante grazie al suo gradevole gusto di limone. Senza glutine e coloranti, si prepara in pochi istanti versando due cucchiaini di preparato granulare in mezzo bicchiere di acqua fredda e bere durante l’effervescenza.


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MONDO MIGROS

Delizie da sgranocchiare

Attualità ◆ Con le paste pronte per biscotti di Anna’s Best la cucina si trasforma in un perfetto laboratorio di pasticceria natalizia

Nuovo pane senza glutine

biscotti. Prodotte con ingredienti di qualità, sono pronte in poco tempo e permettono di accontentare i gusti di tutti i golosi. Basta stendere la pasta, ritagliarla con le formine preferite e infornare per qualche minuto per ottenere delle vere delizie. La gamma comprende per esempio le paste per i classici Milanesini, i biscotti natalizi più amati dagli svizzeri, i Cuori di limone, i Cornettini alla vaniglia, o che dire degli intramontabili Biscotti alla cannella, Discoletti o Panpepato? Naturalmente non possono mancare le paste per i Biscotti al cioccolato, i Brunsli, e perché non provare le golose varianti Triple Chocolate e Salted Caramel? A voi la scelta più stuzzicante.

aha! Pane di campagna al mais 200 g Fr. 3.50 In vendita nelle maggiori filiali Migros

Il nuovo pane di campagna al mais aha! è una delizia non solo per le persone con intolleranze o allergie alimentari, ma anche per coloro che amano assaporare cose nuove o seguono una dieta vegana o vegetariana. Pronto al consumo, senza glutine, frumento e lattosio, questo pane possiede una consistenza e un sapore simili a quelli del pane convenzionale. È l’accompagnamento ideale per insalate, zuppe di verdura, secondi piat-

Non c’è niente di più bello del preparare i biscotti di Natale per i propri cari, meglio ancora se con l’aiuto dei bambini. Per coloro che non hanno troppo tempo a disposizione o semplicemente desiderano provare qualcosa di nuovo, Anna’s Best propone oltre dieci varietà di paste fresche per

ti a base carne, pesce o tofu; ma è una bontà anche a colazione con confettura, miele e frutta fresca. Il pane reca la certificazione del marchio di qualità aha! del Centro Allergie Svizzera. Ciò significa che è stato prodotto seguendo rigide linee guida relative alle problematiche legate a intolleranze alimentari e allergie. Queste prescrizioni superano quelle stabilite dalla legge e tutti i prodotti sono controllati da organi indipendenti. Annuncio pubblicitario

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SOCIETÀ

I desideri degli anziani

Notizie in breve

Solidarietà ◆ Esaudire i desideri degli ospiti delle case per anziani, alleviare la solitudine e creare scambi tra generazioni: arriva in Ticino il progetto «Nipoti si diventa»

Redazione

Due pubblicazioni della Società ticinese di scienze naturali

Alessandra Ostini Sutto

Ha origini nella Repubblica Ceca e sta per essere lanciato in Ticino, in un periodo particolare e «magico» come quello del Natale. Si chiama «Nipoti si diventa» ed è una bella iniziativa che si prefigge di donare felicità agli ospiti delle case per anziani del nostro Cantone, ma pure agli «artefici» di questa felicità – i «nipoti» appunto – come insegnano le esperienze fatte in altre nazioni. «Il progetto è nato nel  a Praga dall’idea di una presentatrice dalla Radio Nazionale. Nello specifico, esso consiste nel dare la possibilità di esaudire il desiderio di un anziano ospite in una delle case di riposo, allietandone così il periodo natalizio. Il progetto continua tuttora con entusiasmo, tanto che ogni Natale vengono esauditi oltre ’ desideri», spiega Katerina Neumann, architetto che oggi vive in Ticino, ma che è originaria proprio della Repubblica Ceca. «Ho partecipato alla prima edizione e l’esperienza di donatrice mi ha a tal punto entusiasmata che successivamente ho cercato un’associazione in Italia, dove allora vivevo, per dare vita ad un’analoga iniziativa», continua. L’esito positivo delle tre edizioni svolte nella vicina penisola ha portato Katerina a decidere di proporre quest’iniziativa di volontariato anche nel nostro Cantone, dove si era nel frattempo trasferita. «Concretamente, offriamo la possibilità a tutte le case di riposo del Cantone di acquisire dei nuovi «nipoti» per i propri ospiti; aderire alla nostra iniziativa è molto semplice e quindi invitiamo le case che non l’avessero ancora fatto e fossero interessate a scrivere all’indirizzo mail che trovano sul sito www.nipotisidiventa.ch, così che potremo prendere contatto con loro», afferma la promotrice del progetto, che gode del sostegno dell’Ente regionale per lo sviluppo del Mendrisiotto e Basso Ceresio e della Fondazione Sasso Corbaro. «La nostra priorità per il mese di novembre è, infatti, proprio quella di coinvolgere le strutture presenti sul territorio. In Italia, due ore dopo la messa in onda di un servizio sull’iniziativa al telegiornale, i  desideri che allora erano stati espressi risultavano tutti prenotati. Abbiamo quindi bisogno che le Case partecipino perché non vorremmo trovarci con più potenziali nipoti che desideri». Sempre nel corso del mese di novembre, le case per anziani aderenti possono cominciare la raccolta dei desideri, che potranno poi inserire direttamente sul sito. «Dall’ dicembre il sito sarà attivo cosicché chiunque potrà diventare un “nipote” e regalare un’esperienza o un oggetto a un “nonno” durante il periodo natalizio; occasione dalla quale ci auguriamo possa germogliare un legame tra ospite e donatore che diventi col tempo duraturo», spiega Laura Chiesa, grafica e web designer, che affianca Katerina in questa avventura, occupandosi proprio della parte tecnica. Il trio è completato da un’altra giovane del Mendrisiotto, Lalitha Delparente, violinista di professione, che invece curerà la visibilità sui social. L’idea delle tre giovani è stata recepita bene nel nostro Cantone. «Fin da quando abbiamo cominciato a concretizzare il progetto, nel mese di maggio, le reazioni sono state molto positive. Numerose persone, di diverse età, ci hanno contattato per sapere in che modo potessero aiutare – racconta Laura – abbiamo così avuto modo

Il progetto vuole offrire la possibilità a tutte le Case per anziani di acquisire nuovi «nipoti» per i propri ospiti. (Shutterstock)

di osservare una volontà ben presente non solo di contribuire con un oggetto fisico, ma anche donando o condividendo il proprio tempo». Le esperienze dei progetti analoghi svolte all’estero testimoniano infatti che spesso gli anziani non chiedono regali materiali, ma cercano piuttosto compagnia, per fare semplicemente due chiacchiere, oppure condivisione, per vivere un’esperienza. Per avere un’idea più chiara di come funziona il progetto, sul relativo sito vengono riportati degli esempi di desideri esauditi in Italia. Lucia,  anni scrive: «Vorrei tanto poter mangiare di nuovo polenta e coniglio in umido, tipico delle zone di Rovigo, da dove provengo, in ricordo della mia gioventù, con un po’ di compagnia!». Miriam risponde: «Ciao Lucia, io sono vegetariana ma della buona polenta e un bicchiere di vino lo bevo più che volentieri in tua compagnia (mentre tu ci abbini anche il coniglio!)». Il  dicembre Lucia conosce Miriam e decidono quando andare a pranzo insieme. Vi sono poi casi in cui il «nipote» non riesce ad esaudire fisicamente il desiderio, magari per una questione di lontananza, e trova quindi una sorta di compromesso come nel caso di Angelo,  anni, che desiderava volare con un aereo. A lui risponde Charlotte, dall’Australia: «Caro Angelo, vorrei realizzare il tuo desiderio. Dove vorresti volare? Io purtroppo non abito in Italia e non potrò accompagnarti in questo viaggio, te la senti di volare da solo? Un abbraccio». In primavera Angelo sorvolerà il Lago di Como grazie a Charlotte. «La cosa bella è proprio il fatto che ogni persona, o organizzazione, possa scegliere di realizzare un desiderio in base alle

proprie disponibilità e pure specialità – commenta Katerina – gli esempi potrebbero essere tanti; cito quello di un signore in sedia a rotelle che teneva molto a fare una passeggiata nel bosco. Gli hanno risposto degli alpinisti, che si sono messi a disposizione per realizzare una carrozzina che rendesse il suo desiderio possibile». Un po’ diversa, almeno in parte, la situazione nella Repubblica Ceca: «In alcune zone le case di riposo non hanno grandi disponibilità economiche e quindi le persone che non hanno più familiari possono aver bisogno di beni di prima necessità, come una coperta o delle ciabatte, ed è davvero toccante vedere come un oggetto di questo tipo, scontato per molti, ad alcuni possa far piacere – ricorda Katerina – io stessa ho partecipato a questo progetto con un regalo fisico, nel caso specifico un orologio, anche perché ero all’estero, e mi è piaciuto proprio il fatto di esaudire il desiderio concreto di una persona altrettanto concreta, che vive una situazione di solitudine e che tramite un’idea così semplice si possa sentire considerata». Come si legge sul sito di «Nipoti si diventa», capita infatti che le persone anziane si chiudano in loro stesse e perdano così la capacità di sentire i propri bisogni oppure non trovino il modo per esprimerli. Grazie a questo genere di progetti, essi hanno la possibilità di dar voce ai propri desideri e vederli realizzati. Sapere che qualcuno ha pensato a loro, ha dedicato del tempo e delle risorse per regalare loro un momento di felicità, li fa sentire più integrati e meno soli. I donatori, dal canto loro, sperimentano la gioia di poter realizzare qualcosa di speciale per qualcuno. Ma cosa succede una volta realiz-

Il team che ha dato vita al progetto nel nostro cantone: da sinistra, Lalitha Delparente, Katerina Neumann e Laura Chiesa.

zato il desiderio? «Come dicevamo in precedenza, quello che ci piacerebbe è che ogni desiderio realizzato in occasione di questo Natale diventasse un’opportunità per creare dei rapporti che con il tempo possano assomigliare a quelli, appunto, tra nipoti e nonni; questa, secondo noi, è la bellezza e la forza del progetto», afferma Katerina. Durante l’arco dell’anno le case di riposo avranno inoltre la possibilità di accogliere nuovi volontari disposti a trascorrere del tempo in compagnia degli anziani. «Quello su cui puntiamo è l’intergenerazionalità; siamo convinte dell’importanza di avere e mantenere anche in futuro uno scambio tra le generazioni. Scambio, anche di racconti ed esperienze, che non è solo a favore dell’anziano. Un rapporto intergenerazionale è arricchente e può dare tanto, anche in termini di felicità, pure a un ragazzo giovane. Questo riteniamo essere un altro punto di forza dell’esperienza che proponiamo anche attraverso dei mezzi che sono propri dei giovani, come internet e i social», racconta Laura. Da quello che le nostre interlocutrici hanno avuto modo di osservare, nell’attuale società c’è calore nei confronti degli anziani: «Tendiamo a pensare di vivere in una società egoista, ma da quello che abbiamo potuto vedere noi la situazione è completamente diversa. Quando ci troviamo confrontati con la possibilità di aiutare, emerge un grande altruismo», commenta Laura. E per il nuovo anno, le promotrici di questa promettente iniziativa cosa si augurano? «Come desiderio per il  vorremmo estendere questa idea iniziale per farla diventare una piattaforma da poter usare durante tutto l’arco dell’anno. Se vedremo che ce ne sarà la possibilità, vorremmo creare la «parte inversa» del progetto, di modo che dei volontari si possano mettere a disposizione per dedicare del tempo agli anziani. Sulla piattaforma si potrebbero così trovare sia le richieste delle strutture per la terza età che le offerte dei volontari – spiega Laura – sul nostro territorio ci sono infatti delle persone che vorrebbero rendersi utili ma non sanno come poterlo fare, seppur vi siano tante organizzazioni che si occupano di volontariato. Una piattaforma semplice ed intuitiva potrebbe a nostro avviso essere un aiuto ad entrambe le parti».

La Società ticinese di scienze naturali (STSN), sezione dell’Accademia svizzera di Scienze naturali (SCNAT), ha da poco pubblicato il volume  del suo «Bollettino» e il nuovo volume delle «Memorie della Società ticinese di scienze naturali e del Museo cantonale di storia naturale». Promotrice della diffusione della cultura scientifica nella Svizzera italiana, la STSN pubblica periodicamente, fin dall’inizio del Novecento, il «Bollettino della Società ticinese di scienze naturali» arrivato ormai al ° numero. La pubblicazione offre una vasta gamma di comunicazioni scientifiche, che coprono quasi tutte le discipline delle scienze naturali, dalla mineralogia alla botanica, passando da speleologia, microbiologia, zoologia ed ecologia. Raccoglie inoltre gli atti del ° Congresso internazionale di Botanica Sudalpina e i contributi dei giovani ricercatori ticinesi che sono stati premiati nel  al concorso nazionale di Scienza e gioventù. Considerata l’importanza di una corretta analisi dei dati statistici nelle scienze naturali, gli ospiti dell’anno del «Bollettino» sono Pau Origoni e Francesco Giudici, rispettivamente capoufficio e collaboratore scientifico dell’Ufficio di Statistica del Cantone Ticino (Ustat), che presentano alcuni elementi di riflessione da parte della statistica pubblica in merito ai dati e alle statistiche concernenti la pandemia di Covid-. Le «Memorie» offrono in questa nuova pubblicazione intitolata Selve castanili nella Svizzera italiana, tra storia, cultura, biodiversità e gestione, a cura di Marco Moretti, Giorgio Moretti e Marco Conedera, un’ampia panoramica sulle Selve castanili della Svizzera italiana, partendo dagli aspetti storici, culturali e paesaggistici, affrontando quelli legati all’ecologia e alla biodiversità, per terminare con le malattie e la gestione con uno sguardo verso il futuro. Le pubblicazioni possono essere richieste direttamente alla STSN (info@stsn.ch) o si possono acquistare presso il Museo cantonale di storia naturale a Lugano. I numeri precedenti sono consultabili sul sito www.stsn. ch e saranno a breve disponibili anche nella collezione online di riviste scientifiche e-periodica della Biblioteca della Scuola politecnica federale di Zurigo (www.e-periodica.ch/). Informazioni: marco.moretti@wsl.ch

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SOCIETÀ

La violenza dell’uomo normale

Reati contro le donne 1 ◆ In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del 25 novembre abbiamo intervistato Cristina Oddone autrice del libro Uomini normali. Maschilità e violenza nell’intimità Guido Grilli

Shutterstock

È stata a tu per tu con gli uomini violenti, ha raccolto e analizzato le loro narrazioni, ha assistito agli incontri di gruppo degli aggressori ospitati nel Centro di ascolto per uomini maltrattanti (Cam) di Firenze. E infine ha condensato la propria indagine in un’ampia ricerca etnografica. Se negli ultimi anni il femminicidio e la violenza contro le donne hanno ottenuto crescente visibilità, rimangono invece in gran parte inesplorati molti aspetti riguardanti gli autori di questi reati. Uomini normali. Maschilità e violenza nell’intimità è il titolo del libro di Cristina Oddone, ricercatrice in sociologia, docente affiliata al Laboratorio Dyname dell’Università di Strasburgo e già collaboratrice della Violence against Women Division del Consiglio d’Europa per il monitoraggio dell’applicazione della Convenzione di Istanbul. L’autrice genovese sarà ospite della conferenza pubblica in programma lunedì  novembre alle  alla Biblioteca cantonale di Bellinzona, dove esporrà i contenuti della sua indagine. Interverranno Norman Gobbi, direttore del Dipartimento delle istituzioni, Siva Steiner e Marlene Masino, rispettivamente capoufficio e caposervizio dell’Ufficio dell’assistenza riabilitativa, attivo da tempo nella presa a carico di autori di violenza domestica. Chi sono, dunque, gli autori di violenza contro le donne? «Il titolo del mio libro – dichiara Cristina Oddone, da noi raggiunta telefonicamente a Strasburgo – vuole proprio rispondere a questa domanda. Gli autori di violenza noi ce li immaginiamo come delle figure mostruose, persone con problemi psichiatrici, come delle persone marginali. In realtà sono uomini normali. Sono uomini di tutti i tipi, di diversi strati sociali, diverse professioni, con diversi livelli culturali. Le persone che io ho osservato al Cam di Firenze, che è un centro di ascolto per uomini maltrattanti a partecipazione volontaria, cioè che intendono compiere un percorso psicoeducativo, sono uomini ordinari, comuni, che legittimano le proprie pratiche attraverso una precisa visione dei rapporti di genere. Mantengono come pilastro fondamentale l’idea che un uomo ha

la legittimità per esercitare una forma di controllo e di potere sulla propria partner». Nel suo libro emerge fra l’altro come la violenza degli uomini nelle relazioni di intimità sia una condotta maschile finalizzata a mantenere o a ristabilire potere e controllo sulla «propria» donna e sulle donne in generale. «Mi rifaccio qui alla tradizione di studi femministi che ha elaborato questo concetto. A partire dagli anni Settanta-Ottanta sia le operatrici dei primi centri di anti-violenza e di auto-aiuto, sia ricercatrici, sociologhe e antropologhe hanno studiato gli aspetti del potere e del controllo. La violenza sulla propria compagna non è solo una pratica individuale tesa al controllo della propria partner, ma anche volta a disciplinare le donne come gruppo sociale. Questo diventa exemplum di ciò che si può o non si può fare, di quali sono i limiti della libertà di azione per le donne. La violenza diventa una forma di sanzione, volta a imporre i confini della sovranità femminile. Un esempio? Quando, durante un litigio, la donna si dimostra assertiva, ribatte, decide sull’educazione dei figli: gli “uomi-

ni normali” che ho potuto osservare al Cam non accettano questo tipo di scavalcamento. È ancora molto diffuso il retaggio della figura del capo famiglia. E quindi la violenza diventa una “risorsa” non solo per controllare le donne, ma anche perché essa serve agli uomini per essere uomini. La violenza è una “performance di genere”, per usare le parole di Judith Butler, una messinscena quotidiana, ritualizzata, quasi un automatismo, che più legittima la maschilità di chi la pratica. Quindi, in qualche modo, un’identità maschile minacciata, che ha la necessità di affermarsi, ricorre alla violenza proprio per ristabilirsi: gli uomini fanno violenza anche per confermare la propria identità di uomini (adulti ed eterosessuali) rispetto a una comunità immaginata di uomini. Già, perché l’antagonismo tra uomini e donne è solo una parte del problema. Gli uomini sono in costante competizione con la comunità di uomini». Lei sostiene che la violenza sulle donne è di tipo strutturale e non emergenziale. Cosa significa? «In Italia nel  si è cominciato a parlare di femminicidio, il termine co-

mincia ad essere utilizzato dai media e le cronache su questi fatti di violenza hanno iniziato a moltiplicarsi. Sui giornali se ne riferisce in termini emergenziali: nel senso che se all’inizio non se ne parlava per niente – ho proprio svolto, su questo, un confronto tra i titoli del “Corriere della Sera” negli anni Settanta, quando l’omicidio di una donna era considerato un omicidio come gli altri e non veniva messa in evidenza la dimensione di genere – e poi nel , quando finalmente se ne parla, si sottolineano alcuni aspetti in particolare, per esempio quando questo tipo di omicidio viene perpetrato da un migrante, da un disoccupato o da persone considerate “asociali”, per connotarne l’aspetto eccezionale. In realtà la violenza sulle donne è strutturale, perché riguarda i rapporti di potere tra uomini e donne in tutta la società». Tra i numerosi episodi di violenza da lei raccolti al Centro di ascolto di Firenze e riportati nel suo libro, c’è quello di un uomo che sostiene di aver preso coscienza della violenza inferta sulla propria compagna solo dopo aver percepito lo sguardo dei medici dell’ospedale in cui ha accompagnato la sua vittima. «Fino a quel momento l’autore non ne era consapevole. Nel libro riunisco diverse testimonianze in cui i maltrattanti raccontano di aver preso atto di aver superato un limite (nelle loro narrazioni è frequente un “prima” e un “dopo) purtroppo solo quando vedono le conseguenze materiali dei loro atti – una frattura, un referto medico. Solo allora avvertono la necessità di rivolgersi a uno specialista. Un’ulteriore presa di coscienza sopraggiunge quando prendono consapevolezza del danno sui figli. Altrimenti, rimangono convinti che è la loro compagna a provocare in loro la violenza, si sentono vittime. Per questi uomini assumere la responsabilità dei propri atti è molto difficile, tendono a non riconoscere la propria soggettività e attribuiscono alle donne l’esito di determinate situazioni di violenza». Qual è, secondo quanto ha potuto constatare al Cam, la via di uscita dalla violenza? «La trasformazione avviene quando gli uomini abbando-

nano le pratiche violente e i discorsi che le legittimano. È a quel punto che si arrestano le violenze più eclatanti, soprattutto fisiche e sessuali. Quello che è più difficile da scardinare sono invece le forme di manipolazione e violenza psicologica, le gerarchie tra uomini e donne all’interno della coppia. L’aspetto importante è che al Cam, al termine del percorso psicoeducativo, gli uomini violenti acquisiscono nuove competenze sul proprio comportamento. In alcuni casi imparano ad ascoltare e risolvere i conflitti in maniera non violenta. In altri, invece, gli uomini acquisiscono nuove competenze per ristabilire di nuovo una gerarchia tra loro e la partner. E quindi è importante verificare che questa non diventi una nuova forma di potere e di controllo. A molti livelli la società legittima la violenza maschile e i rapporti di potere e patriarcali: nella televisione, nelle industrie culturali, al cinema viene celebrata continuamente una maschilità attiva, aggressiva, prevaricatrice. Le asimmetrie tra uomini e donne sono persistenti». Quali soluzioni occorre intraprendere? «Oggi abbiamo diversi strumenti, come la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa, alla quale la Svizzera ha pure aderito, che insiste sulla protezione delle vittime, sulla prevenzione della violenza, sulla persecuzione dei reati e sulla necessità di mettere in pratica politiche integrate in risposta alla violenza. Dal profilo più culturale e sociale è invece importante l’educazione che trasmettiamo ai bambini fin dalla loro prima infanzia: lavorare sulla parità di genere, sin dalla scuola materna, sulle pari opportunità. Parlare di “uomini normali” non vuole dire che tutti gli uomini fanno violenza ma che ancora la violenza nelle relazioni intime è per lo più esercitata dagli uomini contro le donne. Non vuole essere un’accusa contro i maschi o la volontà di trovare capri espiatori. Nemmeno bisogna pensare che una società sempre più femminista sarà “vendicativa” nei confronti degli uomini. Diversamente, occorre mettere sul tavolo la questione dei rapporti di potere e affrontarla apertamente».

Femminicidio, come vive chi resta Reati contro le donne 2

Il libro della giornalista Stefania Prandi raccoglie le testimonianze dei familiari delle vittime

Barbara Manzoni

In Italia dall’inizio dell’anno si sono registrati più di  femminicidi, in Svizzera siamo già a ,  quelli tentati (un numero in aumento rispetto al ). La maggior parte avvengono in ambito familiare, le donne sono uccise dal compagno o ex-compagno. Siamo abituati a parlare in questi termini dei femminicidi: statistiche (drammatiche) e tristi articoli di cronaca. La realtà è molto più complessa. Il femminicidio non è la conclusione di una relazione violenta finita drammaticamente. Il femminicidio è l’inizio di una storia, la storia di chi resta. Traumi, dolori e angosce che figli, madri, padri, sorelle, fratelli, zii, nipoti, amiche, amici affrontano quotidianamente e per il resto della

loro esistenza. Sono queste le storie che la giornalista e nostra collaboratrice Stefania Prandi racconta nel suo libro Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta (ed. Settenove). Le interviste alle famiglie delle vittime sono state raccolte dal  al  in tutte le regioni d’Italia dal Nord al Sud. Un lavoro difficile e delicato che si è spesso scontrato come scrive l’autrice con «la diffidenza – a volte accompagnata da disprezzo e rabbia – verso la categoria dei giornalisti». Varrebbe la pena di riferirle tutte le storie raccolte da Stefania Prandi e raccontate senza il voyeurismo e la spettacolarizzazione che ingombrano tanto giornalismo italiano. «La violenza agisce come disgregatore di un tessuto non solo

privato ma sociale, lacerando le comunità», scrive Chiara Cretella nella Prefazione e poi: «Voi che leggete queste pagine, soffermatevi ad osservare le conseguenze della violenza. Ricordatevi di ricordarle». Proprio in questa missione di testimonianza e sensibilizzazione molti dei familiari hanno trovato una loro via per sopravvivere al dopo. Testimoni dell’indicibile lo raccontano perché sia di aiuto e di monito. Sono madri e padri che non si danno pace, figli che convivono con gravi traumi, «orfani speciali» cresciuti da nonni o zii. Tutti hanno subito un’immensa ingiustizia aggravata dal fatto che in Italia lo Stato è latitante nell’aiuto alle vittime. Non solo, molti di loro rivivono con al-

trettanta sofferenza il momento del processo, una giustizia che non ha curato le ferite ma ne ha aperte di nuove, una cronaca giornalistica che non ha lenito i traumi, ne ha creati di più profondi. Sono preziose e straordinarie le testimonianze che i familiari delle vittime condividono con i lettori, impongono una riflessione e una presa di coscienza di un fenomeno ancora troppo spesso sottovalutato e anche sottostimato: nelle statistiche non sono computate le donne «scomparse» e neanche quelle che muoiono per problemi di salute legati alle violenze subite. Oltre che un libro da leggere assolutamente Le conseguenze è anche un’esposizione fotografica che sta viaggiando attraverso l’Italia e l’Europa.


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SOCIETÀ

All’ascolto dei familiari curanti

Socialità ◆ In Ticino i familiari curanti sono oltre 50mila, di cui circa il 60 per cento professionalmente attivi per lo più a tempo pieno, la conciliabilità è dunque una questione essenziale ma non è l’unica

Stefania Hubmann

Novità legislative, maggiore informazione, ascolto dei bisogni, dialogo sul piano nazionale e intercantonale. Sono tutti elementi centrali per sostenere al meglio i familiari curanti. Emersi nel corso della Giornata annuale a loro dedicata lo scorso  ottobre e negli altri eventi in calendario per l’occasione, questi aspetti riguardano una fetta crescente della popolazione in considerazione del suo invecchiamento. La necessità di assistere donne e uomini anziani al domicilio aumenta, così come non vanno dimenticati i bisogni delle famiglie confrontate con bambini malati o persone con disabilità. Conciliare l’impegno della cura con l’attività professionale e la vita privata è tutt’altro che semplice. Se nel nostro cantone gli strumenti di sostegno ai familiari curanti sono già considerevoli e in continuo sviluppo, quest’ultimo passa anche dallo scambio con altre realtà del Paese. Fra queste, l’associazione nazionale Comunità di interesse Familiari curanti (CIFC) che si è confrontata con la realtà ticinese in un pomeriggio di studio promosso da Pro Infirmis Ticino e Moesano in collaborazione con la Piattaforma cantonale familiari curanti coordinata dal Dipartimento della sanità e della socialità. Fu proprio su spinta di Pro Infirmis che nel  venne costituito un primo gruppo informale per riflettere sulla figura del familiare curante, sempre esistita nella società, ma priva di un’identità istituzionale. «Prima di allora, pur avendo riservato costante attenzione a questo ruolo – ricorda Danilo Forini, direttore di Pro Infirmis Ticino e Moesano – mancava un concetto attorno al quale sviluppare i progetti di sostegno e valorizzazione. Il gruppo, composto da diverse associazioni, si è impegnato a capire i bisogni, a fornire informazioni e risposte concrete, favorendo il dialogo attraverso l’organizzazione di diversi convegni».

Nel 2013 Pro Infirmis costituì un primo gruppo informale per riflettere sulla figura del familiare curante, nel 2019 il Cantone ne assunse il coordinamento Nel  il Cantone, sollecitato dal gruppo informale, ne ha assunto il coordinamento dando vita alla Piattaforma familiari curanti, una peculiarità che il Ticino condivide con pochi altri cantoni svizzeri. «Il  – precisa Forini – ha costituito un punto di svolta per il sostegno ai familiari curanti in Ticino, poiché le misure previste con la riforma fiscale e sociale di due anni fa hanno messo a disposizione fondi da destinare a questo scopo. Il Cantone assicurava inoltre già un sussidio parziale, ma importante per il mantenimento al domicilio delle persone bisognose di cure». Tornando alla Piattaforma, oggi essa riunisce venticinque enti che operano in gruppi di lavoro per promuovere azioni concrete in ambito di informazione, formazione e sostegno, partendo dalle esigenze dei diretti interessati. Questo strumento di dialogo e riflessione assicura uno stretto legame fra la realtà del territorio e le istituzioni politiche. Istituzioni che da parte loro agiscono in più direzioni, soprattutto

I familiari curanti svolgono un ruolo fondamentale a favore dei loro cari e della società intera, le loro difficoltà e le loro esigenze vanno ascoltate per promuovere forme di sostegno adeguate. (Shutterstock)

a favore di una maggiore informazione (vedi box) e attraverso un aumento delle prestazioni. Riguardo a queste ultime la giornata annuale ha evidenziato i congedi pagati introdotti quest’anno con la nuova Legge federale concernente il miglioramento della conciliabilità tra attività lucrativa e assistenza ai familiari. La conciliabilità è una questione essenziale, considerato che in Ticino i familiari curanti sono oltre mila, di cui circa il  per cento professionalmente attivo per lo più a tempo pieno. L’evento cantonale previsto durante la settimana di fine ottobre è stato quindi dedicato ai partner indispensabili per favorirla: i datori di lavoro. Chi opera al fronte guarda però anche oltre, accorgendosi della necessità di incrementare l’accoglienza. Danilo Forini: «I familiari curanti hanno bisogno di essere ascoltati e accompagnati. Numerosi familiari non sono in grado di identificare il problema, di capire che è necessario chiedere aiuto nell’interesse sia del curato che del curante. Quest’ultimo deve riuscire a salvaguardare il proprio benessere fisico e psicologico. Solo in salute potrà infatti continuare ad assistere la persona malata. In quest’ottica un contributo importante lo fornirebbe lo sviluppo ulteriore dei servizi sociali comunali, perché gli enti at-

Un nuovo opuscolo informativo Familiari curanti, un sostegno alla vostra quotidianità è il titolo del nuovo opuscolo che il Dipartimento della sanità e della socialità ha pubblicato in occasione della giornata dei familiari curanti di quest’anno. Uno strumento con numerose informazioni, consigli pratici e contatti per facilitare lo svolgimento di questo compito. La pubblicazione può essere richiesta gratuitamente all’indirizzo e-mail familiaricuranti@ti.ch o al numero 091 814 70 11. Chiare indicazioni sono fornite anche nelle pagine internet del Cantone dedicate al «Sostegno ai familiari curanti».

tivi sul territorio faticano a soddisfare tutte le richieste in tempi ragionevoli soprattutto se, come è previsto, queste sollecitazioni tenderanno ad aumentare». Rispetto ad altri cantoni, in Ticino il supporto assicurato ai familiari curanti è già ben sviluppato. La Piattaforma cantonale svolge, come visto, un ruolo essenziale. Uno strumento analogo è presente in cantoni romandi all’avanguardia quali Ginevra e Vaud. Danilo Forini precisa che il cantone faro sul piano nazionale è proprio Vaud, in grado di assicurare importanti mezzi finanziari all’intero settore della socialità. I familiari curanti svolgono un ruolo fondamentale a favore non solo dei loro cari, ma dell’intera società. La Giornata annuale è un’iniziativa per riconoscerne il valore e promuoverne gli interessi. Uno scopo, il secondo, assunto a livello nazionale dalla Comunità di interesse Familiari curanti (CIFC). L’associazione è stata fondata a Berna nel  da cinque enti (Croce Rossa Svizzera, Lega contro il cancro, Pro Infirmis, Pro Senectute, Travail.Suisse) ai quali si sono aggiunti nuovi aderenti. Oggi la CIFC (www.cipa-igab.ch) raggruppa una ventina di organizzazioni che ritengono necessario ed importante far sentire uniti la voce dei familiari curanti a livello della politica federale e della relativa amministrazione. Valérie Borioli Sandoz, direttrice del segretariato della CIFC e membro di direzione di Travail. Suisse, durante il pomeriggio di studio a Bellinzona ha potuto illustrare finalità e priorità dell’associazione stabilendo un contatto diretto con la Piattaforma ticinese. «È stato un incontro molto interessante» spiega ad «Azione» la rappresentante della CIFC «per capire come agisce il Canton Ticino in rapporto agli altri Cantoni, quali spazi ci possono essere per un’organizzazione come la CIFC a livello cantonale, ma soprattutto per valutare come collaborare in futuro. Da parte nostra rifletteremo su possibili forme di cooperazione con le piattaforme cantonali, coordinate dai Cantoni ma dove sono presenti anche le associazioni locali. Le piattaforme regionali e la CIFC hanno una fun-

zione simile nel constatare bisogni e lacune, mentre il modo di trovare e proporre soluzioni è diverso. Da un lato c’è un organismo che dipende dal Cantone, dall’altro un’organizzazione indipendente che agisce a livello nazionale». L’ultima rilevante azione della CIFC è la risoluzione inviata al Consiglio Federale lo scorso giugno affinché istituisca un gruppo di lavoro per definire uno statuto giuridico del familiare curante sul piano nazionale. La presenza a diversi titoli nella legislazione vigente può infatti creare difficoltà nel coordinamento delle prestazioni di sostegno. Precisa Valérie Borioli Sandoz: «Per la CIFC è importante che questo gruppo di lavoro integri le posizioni delle associazioni a diretto contatto con i familiari curanti. Desideriamo una procedura che agisca dal basso verso l’alto per poi tornare verso il basso con soluzioni adeguate. Altri Paesi hanno già introdotto questa definizione e quelli pionieristici, come Austria, Belgio o Germania, sono per noi fonte di ispirazione». La collaborazione con la CIFC è auspicata anche sul piano cantonale, perché – afferma Danilo Forini – «lo scambio di esperienze, le buone pratiche di altri Cantoni e le iniziative nazionali della Comunità di interesse Familiari curanti consentono a tutti di migliorarsi con un unico intento: permettere ai familiari curanti di sentirsi bene in questo ruolo. Ruolo che rappresenta comunque anche un’esperienza di vita arricchente e gratificante, soprattutto dal punto di vista delle relazioni personali». I familiari curanti rappresentano una risorsa preziosa per non dire indispensabile della società. Le forme di sostegno a loro favore sono in piena evoluzione. Punto centrale per coloro che promuovono questo supporto – come hanno evidenziato entrambi i nostri interlocutori – è attuare soluzioni elaborate partendo dall’ascolto dei familiari curanti medesimi e dalle constatazioni dei loro bisogni. Chiaramente queste difficoltà vanno manifestate. Chi è alla faticosa ricerca di un equilibrio fra le esigenze personali e la cura dei propri cari non deve quindi esitare a farsi avanti.

Successo in Vetta Monte Generoso ◆ I risultati del 2021 sono estremamente soddisfacenti

«Il  è stato un anno record sotto molti aspetti», conferma Monica Besomi, responsabile Sales & Marketing della Ferrovia Monte Generoso. «I passeggeri della ferrovia dal  maggio al  novembre sono stati ’. Nel campeggio i pernottamenti sono stati ’ (quasi raddoppiati rispetto al ), con una durata media di soggiorno di . notti (+ %)». Anche il budget per le attività di Ferrovia Monte Generoso e Fiore di pietra è stato superato di oltre il %. E questo nonostante il fatto che siano venuti meno ospiti rispetto al , per la pandemia e la sospensione forzata dei servizi ferroviari a causa del maltempo. «Possiamo dire che la FMG e il suo campeggio sono stati pionieri in diverse attività», continua Monica Besomi, «aderendo, per esempio, all’iniziativa myclimate per la compensazione di CO. I primi  franchi dei contributi volontari degli ospiti coinvolti e raddoppiati dall’azienda, stanno già confluendo in progetti green nel territorio. Anche il -Top Pass, un biglietto unico per tre ferrovie a cremagliera panoramiche, in tre diverse regioni linguistiche e culturali della Svizzera – Rigi, MOB e Monte Generoso – è stata un’idea di successo: sono stati venduti  pass. Un’offerta che sarà replicata anche l’anno prossimo». Tanti anche i riconoscimenti e le conferme ottenuti quest’anno, come lo Swiss Mice Location Award assegnato al Fiore di pietra quale una delle più belle location MICE di tutta la Svizzera. E da Svizzera Turismo, grazie ai requisiti riscontrati in fatto di sostenibilità, la FMG ha ricevuto il marchio Swisstainable.

«La parola chiave di tanto successo è il legame con il nostro territorio e il desiderio di agire sempre in modo rispettoso e sostenibile», conclude Monica Besomi, «e siamo totalmente impegnati in questo anche per il prossimo futuro. Un esempio è il posizionamento di  mq di pannelli solari sul tetto degli uffici di Capolago che hanno permesso alla Ferrovia Monte Generoso, da maggio ad oggi, di compensare l’emissione di CO pari alla piantumazione di ben  alberi. Stiamo inoltre portando avanti il processo di digitalizzazione che investirà tutti i dipartimenti e il cui obiettivo finale è quello di rendere unica e indimenticabile l’esperienza del cliente».


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SOCIETÀ

Mantenere il cuore in salute Medicina

Nelle malattie cardiovascolari sono fondamentali il fattore tempo e la prevenzione in tutte le sue declinazioni

Prevenire è meglio che curare, a maggior ragione se parliamo delle malattie cardiovascolari: prima causa di morte a livello mondiale e fattore di rischio importante per l’insorgenza di alcune patologie che, a loro volta, portano a danni anche gravi. Un esempio su tutti è l’ischemia, ovvero la riduzione dell’afflusso di sangue a un organo che, se prolungato nel tempo, ne può determinare la morte cellulare. «Oggi è riconosciuto che il - per cento delle malattie si potrebbe evitare; ciò vale anche per quelle cardiovascolari per prevenire le quali sono fondamentali una sana igiene di vita e l’individuare tempestivamente i sintomi che, per una buona prognosi, vanno indagati immediatamente». A parlare è il cardiologo Marco Valgimigli (nella foto), vice primario all’Istituto Cardiocentro Ticino EOC, il quale sottolinea che il problema principale per gli operatori sanitari, e per la comunità in generale, è quello di diffondere efficacemente il messaggio sull’importanza della medicina preventiva, riducendo così l’onere della malattia sia per l’individuo sia per la società: «Avere cura del nostro corpo e fare attenzione ai segnali che ci manda è uno strumento per prevenire molte patologie che potrebbero minacciare seriamente la nostra salute».

«Mi colpisce che in Ticino le persone sottovalutino i sintomi per ore, giorni, settimane prima di recarsi all’ospedale, rendendo poi estremamente vano il trattamento nella fase acuta della malattia» Il dottor Valgimigli sottolinea come oggi, rispetto a un tempo, «la mortalità nell’infarto del miocardio è ridotta dell’ per cento». Malgrado ciò, «la maggioranza di chi ancora ne muore è rappresentata da coloro che non arrivano in ospedale o ci arrivano troppo tardi». La sua impressione è condivisa da altri colleghi: «Mi col-

pisce in modo drammatico come in Ticino le persone sottovalutino i sintomi per ore, giorni o settimane prima di recarsi all’ospedale, rendendo poi estremamente vano il trattamento nella fase acuta». Bisogna agire al momento della comparsa dei sintomi: «Si dice che il tempo è muscolo ed è cervello, ed è determinante per salvarsi da un evento cardiovascolare». Eppure, confermano il problema due studi (Euroaspire e un altro pubblicato da «Lancet») in cui sono stati intervistati quei pazienti con meno di  anni, dimessi dopo un ricovero ospedaliero per infarto acuto, ischemia, bypass aortocoronarico o angioplastica: «I malati intervistati sei mesi dopo la loro dimissione hanno dimostrato che troppo pochi di loro seguono con il dovuto scrupolo le norme prescritte». Il limite rimane dunque la persona stessa, anche se il capitolo prevenzione è saliente e si sa che per preservare la salute cardiovascolare si può fare molto, a cominciare dalla prevenzione primordiale: «È necessario affrontare il problema ricorrente di malattie prevedibili che colpiscono seriamente l’essere umano: parliamo di un individuo sano, senza fattori di rischio per sviluppare una malattia cardiovascolare facilmente prevenibile, grazie a una visita annua (o semestrale) nella quale il medico valuta pressione arteriosa, colesterolo e glicemia: escludo così di essere ammalato ma so bene che per evitare l’insorgenza di fattori di rischio ne devo prevenire lo sviluppo». Ciò anticipa la prevenzione primaria, di cui parleremo, «e riguarda lo stile di vita senza alcun approccio farmacologico: una sorta di modus vivendi del cittadino sano, dunque non sedentario, che cura l’alimentazione, non fuma e poco altro ancora». Valgimigli ricorda che migliorare la prevenzione primordiale, attraverso uno stile di vita sano, permette di diminuire la percentuale di popolazione con problemi cardiovascolari; agendo dunque «sui fattori di rischio modificabili e non modificabili». Tra quel-

Stefano Spinelli

Maria Grazia Buletti

li non modificabili rientrano età, sesso, razza e familiarità per la malattia stessa: «Nell’anamnesi si indaga se famigliari al di sotto dei  anni abbiano avuto infarto miocardico, angioplastica coronarica, bypass, stroke: in caso di risposta affermativa questo diventa un fattore di rischio del quale dobbiamo prendere atto perché non lo possiamo cambiare». Fra i fattori di rischio modificabili riconosciamo stile e igiene di vita: ipertensione arteriosa, alterazione di colesterolo e trigliceridi, diabete, fumo, obesità, vita sedentaria e pochi altri fattori come stress e quelli psico-sociali: «Tanto più precocemente li identifichiamo e li controlliamo, maggiore sarà il beneficio vitale». Il professore osserva però che «purtroppo è difficile trasmettere questo messaggio alla popolazione che si sente sana e non vuole avere la sensazione di essere un paziente». Giungiamo alla prevenzione secondaria che consta «in una diagnosi

precoce della condizione patologica, che porta a una cura rapida ed efficace per garantire la quale è fondamentale riconoscere i sintomi di queste patologie molto frequenti, in modo da non ritardare l’attivazione del servizio di emergenza, l’arrivo del paziente in pronto soccorso e quindi l’intervento medico necessario. A questo stadio bisogna curare in modo più incisivo». Infine, la prevenzione terziaria ha lo scopo di diagnosticare precocemente il decorso e l’evoluzione delle principali cause patogene: «Mira a fermare o ritardare lo sviluppo di una malattia esistente e delle sue conseguenze tramite la diagnosi precoce: un infarto e mai più un altro, un ictus e mai più un secondo, ricordando che chi ha avuto una manifestazione della malattia aterosclerotica (infarto) è a rischio per ictus e manifestazioni periferiche». La riabilitazione è fondamentale e significa ritorno alla normalità: «Induce uno stile di vita normale attraverso programmi a lungo termi-

ne, con l’accettazione dell’evento e la serenità del ritorno alla quotidianità. Così si limitano il più possibile le conseguenze negative e si vuole migliorare al massimo la qualità di vita del paziente». L’aderenza terapeutica è l’anello debole, ed è laddove la medicina cardiovascolare procede per evitare la cronicità: «Miriamo al raggiungimento dell’aderenza terapeutica da parte del paziente stesso col quale instaurare un colloquio basato sulla fiducia, in cui individuare la sua costanza nell’assunzione farmacologica». Di fatto: «Le malattie croniche hanno aderenza terapeutica decadente in modo esponenziale nel tempo; perciò il futuro sarà nei farmaci da somministrare semestralmente, o in specifiche terapie non farmacologiche». Il cardiologo invita a riflettere sulla guarigione, la quale non significa che il danno non sia mai esistito, ma ci sprona a renderci responsabili del fatto che questo danno, presto, non dovrà più controllare le nostre vite.

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SOCIETÀ

Un’ottima alternativa all’elettrico Motori

I veicoli con propulsione a biogas emettono fino al 78 per cento in meno di anidride carbonica

Web ◆ Continuano le avventure di Ellie

Mario Alberto Cucchi

Ma come funzionano le auto alimentate a gas? La modalità è sovrapponibile a quella classica dei mezzi alimentati a benzina o a gasolio. Il motore è a combustione e in quest’ultimo viene bruciato GNC – Gas Naturale Compresso – e aria. Si tratta di veicoli ibridi che possono funzionare sia a gas sia con i carburanti tradi-

gazenergie.ch

Quando si parla di mobilità sostenibile si pensa quasi subito all’elettrico. In realtà ha delle buone alternative, a volte sottovalutate o addirittura penalizzate da pregiudizi spesso immotivati. Facciamo chiarezza sulle automobili alimentate a gas e biogas. Sono soluzioni alternative ambientalmente sostenibili? Certamente sì. Basti pensare che, secondo il TCS, i veicoli con propulsione a gas naturale emettono dal  al  per cento in meno di anidride carbonica (CO) rispetto ai mezzi alimentati esclusivamente a benzina. Con il biogas le emissioni di CO si riducono addirittura del  per cento.

Il rifornimento di biogas produce un risparmio economico di circa un quarto rispetto alla benzina, sebbene il prezzo delle auto a gas sia leggermente maggiore

Fumetti matematici

zionali. Ecco allora che la capillarità della rete di rifornimento del gas passa in secondo piano dato che non si rischia mai di rimanere a piedi come con le auto solo elettriche. Certo è che le stazioni dedicate al rifornimento di gas non sono poche. Secondo il sito www.cng-mobility.ch esistono sul territorio elvetico oltre  distributori dedicati al CNG e al biogas. A distinguere questi due propellenti è solo la loro origine. Il gas naturale è una fonte di energia fossile che si è formata nell’arco di milioni di anni e quindi, come il petrolio, si po-

trebbe un giorno esaurire. Il biogas è invece una vera e propria energia rinnovabile che viene prodotta attraverso la lavorazione di rifiuti biogeni. Un termine che designa i rifiuti di origine vegetale, animale o microbica. Derivanti da agricoltura ma anche industria agroalimentare e artigianato. Tra questi, i resti della fermentazione, le trebbie di birra o fecce di frutta derivanti dalla produzione di alcol, il siero, il latte scremato nonché la melassa o l’acqua zuccherata derivante dalla produzione di zucchero e dalla trasformazione della frut-

ta. Ma non solo. Dall’industria arriva anche la glicerina, i fanghi da cartiera e i fanghi di origine vegetale provenienti dalla produzione di derrate alimentari. In Svizzera, dal , il Consiglio federale ha stabilito che la percentuale biogena riconosciuta nella miscela dei carburanti GNC deve essere almeno del  per cento. Come si fa a fare il pieno di gas? La principale differenza sta nel fatto che il gas naturale non è un combustibile liquido come la benzina, ma è bensì gassoso. La durata del rifornimento è pressoché equivalente, viene però erogato in chilogrammi dove un KG di GNC fornisce l’energia di circa , litri di benzina. Il risparmio economico è di circa un quarto, sebbene il prezzo delle auto a gas a parità di caratteristiche sia leggermente maggiore. Va però detto che spesso le auto a gas godono di incentivi fiscali variabili a seconda del Cantone di residenza. Insomma, vanno fatti bene i conti. E la sicurezza? Si tratta di una tipologia di alimentazione decisamente collaudata. I serbatoi dei mezzi a gas naturale sono tecnologicamente avanzati e in grado di resistere a pressioni di esercizio decisamente superiori rispetto a quelle prestabilite. In altre parole, non c’è davvero nessuna ragione per non dover valutare di viaggiare a «tutto gas».

È online da oggi la nuova puntata dei fumetti creati nell’ambito del progetto Matematicando del Centro competenze didattica della matematica del DFA della Supsi. Si tratta dei viaggi nel tempo che la giovane Ellie compie grazie agli occhiali virtuali costruiti dal geniale zio Angelo alla scoperta dei personaggi che hanno fatto la storia della matematica. Questa nuova puntata è dedicata a Galileo. I fumetti si trovano sul sito www. azione.ch/societa, sezione «Vivere oggi» (oppure inserendo la parola «matematicando» nel campo di ricerca).

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A R T S O M I D A Z N E C S O N O C A U IZ T U Q LA O R T N E L N OS 1. Di quante proteine ha bisogno un adulto in media al giorno? L) Peso del corpo: 2 in grammi B) Peso del corpo × 2 in grammi N) Peso del corpo in grammi

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SOCIETÀ / RUBRICHE

Approdi e derive

di Lina Bertola

Cambiare le parole per cambiare il mondo? ◆

È senz’altro apprezzabile la sensibilità di chi chiede di esprimere, laddove sia possibile, anche il femminile delle parole con cui ci si rivolge alle persone. «Tutte e tutti», «ascoltatrici e ascoltatori», avvocata, architetta, e via dicendo. L’uso di queste forme linguistiche significherebbe, per le donne, una migliore accoglienza dentro forme di comunicazione declinate perlopiù al maschile. Si tratta di un’esigenza comprensibile, perfettamente in linea con un processo di riconoscimento della presenza paritaria delle donne nella società. Un processo lento e per certi versi difficoltoso e tormentato. Basti pensare alle inaccettabili differenze salariali tra uomini e donne ancora presenti in troppi ambiti professionali. Rinnovare il linguaggio, dunque; arricchirlo con espressioni più rispettose del nostro comune «stare al mondo» di uomini e donne. Ma è davvero solo il linguaggio, o soprattutto il

linguaggio, il luogo in cui mettere in atto queste necessarie forme di riconoscimento? È vero che le parole sono la nostra dimora comune, la casa in cui abitiamo; ed è anche vero che noi viviamo dentro i nostri racconti e dentro infiniti intrecci con i racconti degli altri. Dunque sì, dare parole alla realtà significa renderla vivibile e vissuta in una comune condivisione. D’altra parte, è altrettanto vero che qualche sospetto non trascurabile sul potere delle parole ha attraversato tutta la nostra cultura. Benché la storia del pensiero sia un grande e continuo racconto del desiderio di ricercare la verità, di riuscire ad esprimerla e di poterla condividere in un linguaggio comune, dubbi e critiche sono stati a più riprese pronunciati a proposito del legame tra le nostre parole e la verità. È una storia antichissima: la prima critica nei confronti del linguaggio come veicolo di verità la incontriamo

La società connessa

già ad Atene, nella cultura dei sofisti e nel loro duro confrontarsi con Socrate che riteneva invece la parola non solo il mezzo, bensì il luogo stesso della verità. Contro il dialogo socratico, teso alla ricerca della verità, i sofisti si proponevano come maestri di retorica, capaci di far vincere il discorso più forte, più utile a chi lo pronunciava, senza alcuna preoccupazione per il suo contenuto di verità. Un possibile e inquietante approdo di quella che è stata una lunga e complessa storia di sospetti lo possiamo leggere nelle taglienti parole di Nietzsche: il linguaggio, secondo il filosofo, ha tra i suoi scopi principali quello di rendere possibile la costruzione della finzione. Ma come detto le parole sono pur sempre la nostra casa comune e allora si può anche continuare a credere che il linguaggio sia davvero il luogo indicato anche per il riconoscimento e per l’accoglienza delle donne. Si può continuare ad avere fidu-

cia nella capacità delle nostre parole di avere presa su ciò che raccontano. In realtà, però, le cose sembrano un po’ più complicate. Mettiamo pure, correttamente, un po’ di parole al femminile per rispetto verso la donna. Ma poi chiediamoci: quale legame unisce i significati che nutrono la parola «donna» con lo spirito del nostro tempo? Qual è il rapporto tra il significato di questa parola, sedimentato nella sua storia, e il clima culturale in cui viviamo? Uno sguardo sul contenuto delle parole può permetterci di cogliere la potenza espressiva del linguaggio e di riconoscere il compito etico della comunicazione. Ma può anche permetterci di capire se sia davvero possibile cambiare il nostro modo di percepire la vita e i suoi valori solo, o soprattutto, attraverso le parole. Altrimenti il rischio è quello di consegnare il linguaggio, con i suoi racconti, alle sue espressioni formali, di facciata. Il ri-

schio è quello di accontentarci di una correttezza linguistica di superficie, sempre più apprezzata nella società dell’immagine e dell’esibizione, ma spesso anche suscettibile di improprie forzature. Se, ad esempio, decidiamo di dire «architetta», mettendo al femminile la professione per meglio accogliere la donna che la esercita, non dovremmo trascurare il fatto che la parola «donna» è sempre ancora la parola pensata dagli uomini per raccontare il suo essere diversa, mancante, e spesso anche inferiore. E nemmeno dovremmo dimenticare che il «femminile» a cui si desidera dare più voce è sempre ancora quel «femminile» che è stato identificato con la donna e privato del suo valore originario. Insomma, le parole possono anche diventare una prigione simbolica. E così, nonostante le buone intenzioni, possono involontariamente ribadire ciò che invece si vorrebbe superare.

di Natascha Fioretti

La mela intelligente ◆

È strano che con i progressi fatti nel campo dell’intelligenza artificiale per dare i comandi al computer oggi usiamo ancora la tastiera e non la voce, ha detto Alessandro Curioni, direttore del laboratorio IBM e ricerca a Zurigo durante la tavola rotonda organizzata da USI, SUPSI e SATW nella nuova aula polivalente del Campus Est USI-SUPSI. Il tema era quello della ricerca e dell’innovazione con uno sguardo alle opportunità da cogliere per le aziende ticinesi. Premetto che è stato un incontro per addetti al settore, dunque linguaggio tecnico e ambiti di competenza non sempre chiari per chi non mastica tutti i giorni termini come additive manufacturing o tecnologia fotonica. Resta però il fatto che se come società e come individui vogliamo essere pronti ad abitare e vivere il mondo di domani è necessario conoscere le tecno-

logie oggi già in uso, tecnologie che con i prossimi sviluppi e le prossime integrazioni cambieranno il nostro stile di vita, le nostre relazioni e le nostre professioni più di quanto non abbiano già fatto. Dal pubblico qualcuno chiedeva come le potenzialità delle nuove tecnologie e l’integrazione delle stesse possano essere spiegate ai collaboratori di una piccola-media impresa. Monica Duca Widmer, presidente del Consiglio USI, ha subito posto l’accento sulla grande collaborazione tra università, accademia e mondo dell’impresa attraverso corsi di formazione SUPSI o attività di sostegno della Fondazione Agire che presto si trasferirà all’Innovation Park Ticino di Bellinzona dove si creerà una piattaforma unica per la collaborazione tra ricercatori, aziende tecnologiche e start up. Cesare Alippi, professore di scienze informatiche all’U-

Le parole dei figli

SI, ha spiegato che a volte ci vuole poco per cambiare il destino di una piccola azienda. Il proprietario di un’impresa che produce martelli è disperato per la concorrenza cinese. Nell’intento di dare al martello una marcia in più si decide di inserire all’interno del manico dei sensori di accelerazione per ottenere una maggiore energia d’urto e un alleggerimento della fatica del polso. Una bella differenza per un muratore che il martello lo usa spesso e a lungo. Se si può dare ad un martello l’intelligenza si può dare anche a una mela, ha commentato Alippi che tra gli scenari applicativi dell’IA ha menzionato anche l’agricoltura di precisione. Altri elementi emersi che voglio condividere con voi sono i seguenti: con la pandemia l’adozione dell’IA è cresciuta dal % al %; l’IA e il machine learning acquistano importanza se unite ad al-

tre tecnologie; è importante acquisire nuove competenze per imparare cosa possiamo fare con l’IA ma anche per capire come cambiare i nostri strumenti e le nostre modalità di lavoro per sfruttarne appieno le potenzialità; nel  il % della nostra forza lavoro dovrà cambiare modo di lavorare, ci sarà dunque un re-skilling. Detto questo, a delineare il frame di discussione dell’incontro è stato il Technology Outlook , il report stilato dall’Accademia svizzera delle scienze tecniche con l’intento di fotografare, mappare quali sono le tecnologie più significative nel nostro Paese e quali tendenze si delineano per i prossimi anni. Più significative dal punto di vista del mercato e dello sviluppo tecnologico. Tra queste ci sono le tecnologie fotovoltaiche, il machine learning, l’internet delle cose, il G, l’analisi

dei big data, i droni, e la produzione alimentare sostenibile. Da notare – nel report – la comparazione con gli altri paesi europei delle tecnologie più discusse in Svizzera. I risultati sono stati estrapolati dalla raccolta e analisi dei post sui social media di università, accademie e istituti d’insegnamento superiore. Da qui si evince che le tecnologie più discusse sono realtà aumentata, blockchain, fotovoltaico, machine learning e additive manufacturing. Se volete saperne di più andate su satw.ch. Io posso dirvi che sono atterrita dall’idea di dover parlare con il mio computer ma trovo affascinante quanto sta accadendo in ambito tecnologico e penso che informarmi e capire sia necessario per potermi orientare al meglio e poter fare le scelte giuste senza venire meno ai miei principi o ideali di vita. E per poter cogliere nuove opportunità.

di Simona Ravizza

Like ◆

Il like per la Generazione Z è il buonumore che torna se l’influencer di turno a cui è dedicata la fanpage sui social mette il cuoricino sul post («L’ha visto!»), il sorriso sul viso quando il proprio account è menzionato nelle storie Instagram degli amici («Mi hanno taggata!»), il compiacimento che cresce all’aumentare dei follower («Mi seguono!»). È importante essere nel gruppo WhatsApp giusto per organizzare le uscite e riuscire a postare su TikTok, dopo un pomeriggio di tentativi, dieci secondi di video che riscuotano successo con le mosse del momento. A  anni c’è già chi mette il proprio nome e foto su Tinder, l’app per gli incontri, non per fare sesso ma per misurare il consenso che ottiene a colpi di «Mi piace». L’adolescenza da sempre è il periodo della vita dove il riconoscimento sociale è più importante che mai. Il proble-

ma è che con la Generazione Like, come avevamo titolato già tre anni fa un Caffè delle mamme, la popolarità non fa i conti solo con la vita reale, ma anche con il consenso virtuale. Così i sentimenti di inclusione o esclusione sociale si amplificano. Come ben sottolinea ne Il secolo della solitudine l’economista britannica Noreena Hertz, collaboratrice di «The Washington Post», «The Observer» e «The Guardian» e ospite abituale della Cnn e della Bbc, i social media ingigantiscono il continuo processo di doversi vendere e la paura che nessuno voglia comprare. Proprio per evitare la like-dipendenza su volere di Adam Mosseri, la mente di Instagram e già tra i dirigenti di Facebook, per un anno e mezzo in alcuni Paesi, tra cui l’Italia, su Instagram è stato soppresso il conteggio pubblico dei «Mi piace»: io posso vedere il numero di quanti cuoricini vengono messi ai miei

post, ma non conosco il tuo ed evito confronti che possono distruggere l’autostima. Dallo scorso maggio, invece, ciascuno può scegliere se attivare il conteggio pubblico o meno. In ogni caso, per un giovanissimo resta il confronto con il proprio io. Difficile. Nel suo saggio Noreena Hertz riporta numerose esperienze di vita vissuta. C’è la figlia che mette maniacalmente «Mi piace» a ogni post che appare sulla propria bacheca per cercare di ottenere una risposta reciproca quando posta lei qualcosa. C’è il senso di agonia provato dallo studente londinese di terza media Peter nel pubblicare un post, aspettare e sperare, con nessuno che risponde e lui che si chiede continuamente: «Perché non piaccio a nessuno?». C’è Jamie che va in panico solo all’idea che una streak su Snapchat possa finire (qui il riferimento è alla moda tra i giovanissimi di fare a gara per tenere

vive il più a lungo possibile le conversazioni con i propri contatti più stretti su Snapchat: caratteristica del social è che dopo  ore il messaggio inviato o ricevuto viene cancellato automaticamente, ma se per tre giorni consecutivi si scambia almeno un messaggio con la stessa persona, a destra del suo nome nella rubrica compare un fuocherello e un numero che indica da quanti giorni va avanti la conversazione). È quello che, parafrasando il giornalista Massimo Gramellini, possiamo definire l’auditel esistenziale dei nostri figli. Che può scatenare il «Fomo», dall’inglese Fear Of Missing Out, la paura di essere tagliati fuori e il «Bomp», da Belief That Other Are More Popular, la convinzione che gli altri siano più popolari. Io sono convinta che da genitori scandalizzarsi per la ricerca dei like dei nostri figli è un po’ ipocrita: il bisogno di

popolarità c’era anche ai nostri tempi, e non possiamo dimenticarcene adesso che siamo mamme e papà, peraltro spesso noi stessi impegnati sui social (a guardarli o a postare). Noi dovevamo essere accettati dai compagni di classe, avere come amici quelli che ci sembravano i più «fighi», ottenere un ruolo di tutto rispetto nella squadra di pallavolo o di calcio. Tutto ciò a  o  anni già ci sembrava faticoso. Per gli adolescenti di oggi probabilmente lo è ancora di più. E anche per noi studiare le contromisure da prendere sta diventando sempre più complicato: quando i nostri genitori dovevano capire se qualcosa non andava lo potevano vedere nella vita reale. Noi non avevamo avatar che vivevano una vita parallela. Ma se davvero vogliamo tentare di capire almeno un po’ i nostri figli, innanzitutto non dobbiamo ignorare il fenomeno.


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Anno LXXXIV 22 novembre 2021

TEMPO LIBERO Una città fortunata Reportage da Berat, Albania, città delle finestre sovrapposte, l’unica riuscita a preservare la sua storia

Il vino nel Medioevo «Beve quello, beve quella, beve il servo con l’ancella», cantavano i clerici erranti nelle taverne

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Il sogno dei golosi Il sartù è un piatto napoletano colorato, pieno di profumi e di sapori, che è una meraviglia

Le passeggiatrici di oggi È tempo di cambiare il significato di certe espressioni maschiliste, sui Cammini comandano le donne

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Il gioco del mondo in un’opera combinatoria Rompicapo

Cosimo Lupo in Ada:39 mette a sistema eventi semplici della vita ispirandosi al rivoluzionario Cubo di Rubik

Manuela Mazzi

Un gioco che si fa libro, un libro-gioco, giochi di parole, semantica algebrica… Sono tutti sistemi per organizzare complessità utili a rendere il mondo più leggibile: «Il Cubo è un’imitazione della vita stessa, ma anche uno stimolo nella vita» così affermò Erno Rubik, parlando della sua invenzione, che dagli anni Ottanta a oggi (milioni, i cubi venduti) ha entusiasmato molti e frustrato altrettanti, ma soprattutto ha ispirato molteplici progetti creativi in ambiti svariati, diventando dapprima un passatempo, poi una moda, per trasformarsi infine in un ordigno con il quale mettersi alla prova sempre di più (così simboleggiato nell’immagine di copertina di Ada:, vedi foto). In campo letterario il paragone più ricorrente è quello con i romanzi cosiddetti combinatori, la cui creazione è tuttavia antecedente all’intuizione rivoluzionaria dell’ungherese: uno dei libri a struttura combinatoria più noti e studiati a scuola è infatti quello di Italo Calvino, Le città invisibili, pubblicato nel  (mentre il primissimo prototipo in legno del Cubo fu realizzato nel ); libro che prendeva a modello nientemeno che Il Milione (, circa) di

Marco Polo. Potremmo poi citare Il gioco del mondo. Rayuela () di Julio Cortázar oppure Il Giuoco dell’Oca () di Edoardo Sanguineti – dei quali ci riserviamo di parlare in modo più approfondito in altri articoli – ma qui si vuole rimanere concentrati su un’opera d’ispirazione rubikiana fresca di stampa. Sei, le facce del rompicapo tra i più famosi al mondo. Sei, le stanze del libro-gioco Ada: (Laurana editore) di Cosimo Lupo. «Per risolvere il cubo di Rubik bendati ci sono tre possibilità: il metodo matematico, quello che ho scelto; il metodo semantico, molto complesso, che richiede una enorme cultura, e io non la ho; in fine il metodo ontologico», che nessuno è mai riuscito ad applicare con successo come spiega il narratore nel suo libro. Cosimo Lupo ha però giocato non solo con le regole del cubo stesso, ma anche con la realtà e con le parole ricercando un’esattezza commovente. D’altro canto, già Italo Calvino era convinto che l’universo linguistico avesse ormai soppiantato la realtà; per lui il romanzo era un meccanismo artificiale che metteva in gioco varie possibili combinazioni di parole.

Abbiamo parlato di stanze: così erano normalmente dette nell’italiano antico (cioè ai tempi di Petrarca), quelle che oggi chiamiamo strofe; sei sono di fatto le stanze della struttura metrica di una sestina lirica (antico componimento poetico). Il romanzo di Lupo non è però un libro di poesie sebbene combini questa struttura per modulare i suoi «capitoli-stanza». La combinatorietà è proprio un concetto che ha ricadute sulla forma più che sul contenuto, dove tuttavia gli elementi della prima sono messi in relazione agli eventi della seconda, vale a dire nel nostro caso a quelli della vita. Le storie esplorate in Ada: sono per l’appunto sei, sei parti narrative, sei punti di vista sul mondo, sei vite appassionate, quelle di un Atleta, un Attore, un Bibliofilo, uno Scultore, un Viaggiatore, e un Compositore. Ciascuna delle sei stanze contiene sei episodi, uno per ciascuna delle sei storie. Gli episodi si alternano per l’appunto secondo lo schema metrico della sestina lirica: in ogni stanza il primo episodio si lega all’ultimo della stanza precedente, il secondo al primo, il terzo al penultimo, il quarto al secondo, il quinto al terz’ultimo, il sesto al terzo: la sequenza , , , ,

,  diventa , , , , , , e così via di stanza in stanza. Da qui l’evidente gioco combinatorio. Sei storie, si diceva, che si rincorrono orizzontalmente. Allo stesso tempo vi è però contenuta anche una narrazione che si sviluppa invece verticalmente (come nel Cubo, dove gli snodi seguono le due direzioni): l’autore che qui si fa narratore salirà con un pallone sonda fino all’altezza di mila metri per guardare il mondo da molto lontano e dire: «Che sciocchezza». A quel punto abbandonerà il pallone e «la caduta libera […] durerà, ad una velocità transonica,  minuti esatti. Poi, a  metri da terra aprirò il paracadute e veleggerò per altri  minuti non esatti prima di toccare terra, ma in quella fase non potrò più toccare il cubo; dovrò già averlo risolto». In Ada: esplode il principio della sfida umana che tende a voler sempre superare sé stessa, a oltrepassare il muro saltando più in alto, a superare la velocità della luce e del suono, a riconsiderare il valore della morte. L’autore riflette infatti sulla vita, sull’arte, sulle relazioni, sul trapasso, sul come tutti gli elementi anche i più insignificanti, se presi singolarmente, possano essere riorganizzati, o «messi

a sistema» (come direbbe l’autore stesso) per permetterne una lettura globale. I vari microcontesti si traducono così in un libro-mondo. E per far questo era necessario trovare una pertinenza semantica tra loro come ha fatto molto bene Cosimo Lupo, che ha messo a sistema (dando loro una forma strutturale) elementi semplici della vita per renderli osservabili, ovvero per trovare un senso alla vita stessa, all’insieme delle cose, restituendo loro una universalità, non senza divertirsi nel farlo. Sebbene per natura tutto tenda verso il caos, organizzare significa proprio definire un perimetro dove il caos possa esistere, e il modo qui impiegato per farlo è stato quello di avvalersi di una possibilità narrativa assunta come il risultato di un gioco combinatorio. Un gioco che pur apparendo complesso, non ha nulla di enigmistico, bensì ispira una risoluzione: visti dall’alto, da molto lontano, il bello e il brutto, ovvero tutti i problemi del mondo vengono relativizzati. Bibliografia Cosimo Lupo, Ada:39, Laurana editore, Milano, 2021.


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La Città dalle mille finestre

Reportage ◆ Berat, dichiarata patrimonio dell’Unesco nel 2008, è riuscita a preservare negli anni le sue architetture storiche che altrove in Albania non sono state invece risparmiate dall’ex dittatura Luigi Baldelli, testo e foto

Berat è una città fortunata. La cittadina albanese si trova a circa due ore di auto da Tirana, nel sud del Paese. Fortunata, perché è uno dei pochi posti dove la storia non è stata distrutta dalla folle idea di modernizzazione portata avanti durante i quarant’anni della dittatura di Enver Hoxha. Un progetto che prevedeva l’abbattimento di edifici antichi e storici per costruire nuovi palazzi popolari. Fondata nel IV secolo a.C. dagli Illiri, Berat si espanse nei secoli successivi, passando di mano in mano, dalle legioni romane fino a quelle bizantine. Nel  si ritrovò sotto l’Impero Ottomano, e da allora si arricchì di monumenti e nuove costruzioni. Dichiarata patrimonio dell’Unesco nel , è chiamata anche la Città dalle mille finestre o delle finestre sovrapposte. È attraversata dal fiume Osum, che vanta il famoso ponte ottomano di Gorica, ricostruito nel . Il ponte è il luogo perfetto per capire da dove prende il soprannome questo luogo vetrato. Da qui si vede la città abbarbicata sulle due colline ai lati del fiume, con le sue case basse e un’infinità di piccole finestre come migliaia di occhi che si scrutano a vicenda e che sorvegliano le vie e le genti. «Lo sai che a questo ponte è legata anche una storia triste?» mi dice un venditore di souvenir, con grandi occhiali spessi, seduto dietro alla sua bancarella all’inizio del ponte. «Si racconta che dentro a questa colonna che sorregge il ponte ci fosse una cavità dove veniva rinchiusa una ragazza e fatta morire di fame. Ti starai chiedendo il perché? Per tenere lontani gli spiriti malvagi. Vuoi comprare un souvenir?».

All’interno delle mura, nel momento di massimo splendore, si contavano più di quindici chiese cristiane, e diverse moschee Scaccio dalla mente la scena crudele e alzo lo sguardo: sulla collina alla sinistra del ponte si vedono le mura del castello che sovrasta e domina la città. Ed è dentro questa fortezza che si può cogliere al meglio la storia di Berat. Mi incammino sulla strada ripida che attraversa il quartiere storico di Magalemi e arriva fino alla porta del castello dove un suonatore di tamburi in abito locale accoglie i turisti: pochi euro per farsi una foto insieme. Il castello di Berat è sicuramente l’attrattiva principale di questo luogo sospeso nel tempo: l’agglomerato di stradine e case in pietra ancora oggi ospita un centinaio di persone che qui vivono circondate da antiche rovine, monumenti, ristoranti. È grande la cittadella di Berat e le mura che difendevano la fortezza ancora oggi danno la loro idea di essere imponenti e impenetrabili. Un ragazzino, dai capelli rossi e le lentiggini mi corre incontro: «Dai, per pochi euro ti faccio da guida» mi dice in un italiano stentato. Scelgo di incamminarmi da solo, senza meta, tra le strade del Castello. Dove, nel momento di massimo splendore, al suo interno si potevano contare più di quindici chiese cristiane, ma anche diverse moschee. Proprio su uno spiazzo erboso si trovano le mura della famosa Moschea Bianca usata dai soldati turchi durante il periodo in cui la città

era sotto l’Impero Ottomano, mentre se ci si affaccia dalle stesse mura, là sotto, più in basso, si scorgono le cupole della chiesa più importante, quella medievale della Santissima Trinità. Un luogo di convivenza di diverse religioni. Appese sui muri di sassi bianchi che affiancano le strade con il loro pavé di pietre, ogni tanto sventolano tovaglie e lenzuola ricamate a mano, esposte per essere vendute. Voci allegre si alzano da dietro un cancello, dove una famiglia è intenta a raccogliere grappoli d’uva dal pergolato. «Certo che si vive bene qui», mi dice il più anziano del gruppo, un uomo sui  anni, la barba incolta e lo sguardo lucido. «Ci vivo da tanto, tanto tempo. E no, non ho mai pensato di andare a vivere giù in città». Ma qui non è scomodo vivere? Tutti questi turisti, nessun negozio, la ripida salita per arrivare? «Quando ero giovane ci mettevo cinque minuti a piedi per fare la salita e se ero stanco salivo in groppa al mulo. Oggi se proprio devo scendere in città, mi porta in macchina mio nipote. Ma sai

cos’è il bello di qui? Che quando vanno tutti via, posso passeggiare nel silenzio più assoluto sulle mura del castello e ammirare le colline, il fiume, le mille finestre giù in basso». Allora seguo il suo consiglio e faccio una passeggiata sulle mura. Si vede tutto il panorama, le colline che circondano Berat, i tetti di tegole delle case all’interno delle mura e una vista sui vicoli dove sciamano gruppi di turisti. I ragazzi di un gruppo in gita si scattano dei selfie su una delle torri del castello. Ce n’erano più di ventiquattro. Nuvole grigie intanto si avvicinano. Ci si perde per gli stretti vicoli dove porte di legno incise con disegni di animali si spalancano all’interno di case con muri bianchi e pavimenti in terra battuta. In alcuni momenti sembra davvero che il tempo non sia passato. Ti riportano al presente le automobili parcheggiate qua e là nelle piazzette. Alla fine, riesco ad arrivare nello spiazzo panoramico. Eccole lì sotto le case bianche con le loro mille finestre, bellissime, occhi aperti sulla città in pieno contrasto con la collina che le

sovrasta e le nuvole scure cariche di pioggia. Si alza il vento, la signora che vende le tovaglie ricamate raccoglie in fretta i suoi tessuti. Dopo cinque minuti di cammino sono di nuovo alla porta principale. «Ti è piaciuto il castello?» riconosco la voce, è la piccola guida dai capelli

rossi. «Si, bello» gli rispondo. «È bellissimo» dice lui. E dopo un breve silenzio aggiunge: «Questo è il posto più bello dell’Albania». Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica


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I clerici vagantes delle taverne

Vino nella storia ◆ Il Medioevo? Un mondo in cui «Beve il papa, beve il re, bevon tutti senza regola, beve quello, beve quella, beve il servo con l’ancella»

Davide Comoli

La Chiesa, dopo la distruzione apportata dall’epoca barbarica alle scuole laiche di origine romana, diventa l’esclusiva divulgatrice dell’istruzione. Siamo nel Medioevo. Ogni studente è quindi un clericus, e viene a far parte «dell’ordo clericalis», cioè degli uomini di chiesa, distinguendosi tuttavia dai sacerdoti e dai veri e propri monaci per aver ricevuto solo i cosiddetti «ordini minori», ragion per cui hanno garantito il godimento di parecchi privilegi che vanno dall’esenzione dei pagamenti dei tributi dovuti al potere civile, all’esonero dal voto di castità (peraltro molto elastico in questo periodo storico). Sono poi «vaganti», perché si spostano da un ateneo all’altro, per frequentare le lezioni più rinomate nelle varie branche del sapere. L’Abate di Froidmont, Elinando (- circa), scrive di loro con una certa stizza: «Percorrono il mondo intero e studiano le arti liberali a Parigi, gli autori classici a Orleans, la giurisprudenza a Bologna, la medicina a Salerno, la magia a Toledo e non imparano i buoni costumi in nessun luogo». Questi sono i «clerici vagantes», la loro casa è «todus mundus», un mondo invero costellato da traversie, pericoli e fatiche. Delusi in molte aspettative, la posizione dei «clerici vagantes» è particolare all’interno della società, quasi non si sentono di appartenere alla Chiesa e criticano lo Stato. Alcuni di loro mettono in versi la propria visione del mondo in cui stanno vivendo, dando vita a Canzoni da intonare (meglio se in coro), non sotto le vertiginose architetture delle nuove cattedrali gotiche o nelle sale di qualche Rathaus, ma nella dissacrante e allegra atmosfera di una taverna. Dai loro carmi disinibiti, tra il tintinnio dei boccali e il vociare degli avventori avvinazzati, affiorano tre grandi passioni, i dadi, la taverna e l’amore, uniti tra loro da un unico denominatore: il vino. Sono appunto questi «clerici va-

Un monaco cantiniere che assaggia il vino da una botte mentre riempie una brocca. Immagine tratta da Li Livres dou Santé. (Conservato e digitalizzato dalla British Library)

ganti», i goliardi a reintrodurre il vino in poesia dopo secoli di silenzio. Ancora oggi gli eruditi disputano intorno all’etimologia dell’aggettivo «goliardo»: alcuni sostengono che abbia radici in «galam» (cantare) o in «gualiar» (ingannare), ma altre ipotesi rimandano la radice a «Golia», il soprannome dispregiativo dato ad Abelardo dai suoi avversari, ma anche uno dei Maestri più amati dai «clerici vaganti». Circa trecento composizioni poetiche ci sono state tramandate in un manoscritto conservato nella biblioteca dell’abbazia di Benediktbeuern, l’antica Bura Sancti Benedicti, fondata nel VIII sec. da San Bonificio nelle Alpi Bavaresi, ed è appunto dal nome dell’abbazia che questi canti sono noti come Carmina Burana. Ed ecco allora il canto scritto in lode al vino, tradotto così: «Salve colore del vino scintillante, salve sapore senza eguali, degnati di inebriarci con la tua for-

za… Beato lo stomaco nel quale entrerai, beata la gola che solcherai, beata la bocca e le labbra che laverai. E dunque lodiamo il vino, esaltiamo i bevitori, sprofondiamo nell’inferno gli astemi». La taverna, per tutto il Medioevo rappresenta un particolare microcosmo al cui interno vige una scala di valori diversa da quella espressa dalle società del tempo. È un mondo in cui regna l’uguaglianza, non esistono classi sociali e dove si venera l’unico dio pagano sopravvissuto allo spietato «repulisti» attuato dagli Ordini Religiosi: Bacco. In taverna, il povero e il ricco siedono allo stesso tavolo, dove tutti possono esprimersi in piena libertà, perché il vino è artefice dell’uguaglianza, perché è il medesimo per tutti e i goliardi ne sottolineano l’aspetto liberatorio e gioioso: «Questo vino buono, vino generoso, rende l’uomo più gioviale, probo e animoso», fra i suoi benefici, anche l’oblio

degli affanni, «vino sors lenitur dura», col vino si lenisce la dura sorte. Il professore Bartoli, nel suo libro I precursori del rinascimento, descrive in modo magistrale la fisonomia di questi scapigliati e liberissimi poeti erranti e ipotizza l’imbattersi nelle taverne con le prime squadre di costruttori di cattedrali che, a quel tempo, come i «clerici vaganti» vagavano, loro a innalzare le meravigliose opere che ancora oggi possiamo ammirare in tutta Europa. A giudicare da molte somiglianze che si rilevano nelle pur diverse opere, l’ipotesi non è poi così azzardata. Le sculture e gli intagli che raffigurano sconce e ridicole pose di frati, monache e scimmie ritratte, forse sono satire ispirate nelle menti di quegli scalpellini dalle gaudenti strofe di quei cervelli libertini. «Quando Bacco irrompe nella mente del poeta, compie cose mirabili, il vino non ispira solo la mente, ma anche il cuore, Bacco oltrepassa il petto dell’uomo e lo induce all’amore, blandisce la mente delle fanciulle, anche quelle più severe e le rende gentili […] chi non beve vino puro, non è capace di separare il vero dal falso, maestri e ministri astemi mancano di senso». In un tempo dove imperversano lotte e divisioni, questi poeti offrono un mondo che accogli tutti i bevitori in un ebbro e giocoso girotondo dove… «Beve il papa, beve il re, bevon tutti senza regola, beve il signore, beve la dama, beve il soldato, beve il chierico, beve quello, beve quella, beve il servo con l’ancella, beve il lesto, beve il pigro, beve il bianco, beve il negro, beve il povero e il malato, beve l’esule e l’ignoto, beve questa, beve quello, bevon cento, bevon mille». Concludiamo con un verso tratto dai ventiquattro poemi del Carmina Burana, che tutti gli amanti del vino, più o meno consapevolmente, hanno scelto come loro motto: «O potores exquisiti, licet sitis sine siti» e cioè «Illustri bevitori, sappiate che per bere non è necessario avere sete».

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Autentico tesoro del Vallese l’Humagne Rouge è un vitigno originario di questo Cantone, orgoglio della Maison Gilliard che dal lontano  è leader indiscussa tra i produttori vallesani. L’Humagne che questa settimana vi raccomandiamo seduce per il suo carattere; i suoi profumi selvatici si mischiano a fragranze di landa e bacche di bosco. Ottimamente vinificato, l’Humagne possiede morbidezza e corpo: è molto piacevole in bocca con tannini presenti, ma leggeri, e in finale, i frutti lasciano una piacevole scia sul palato, dando l’impressione di un vino di straordinaria adattabilità ai vari abbinamenti che vanno dalle carni bianche alle carni rosse cucinate in modi diversi; ottimo con un plateau di formaggi. Noi lo abbiamo apprezzato molto nell’indovinato abbinamento con «Scaloppine di capriolo con spugnole». / DC

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Una grande gloria napoletana Gastronomia

Si chiama sartù ed è un piatto così ricco e complesso che riempie anche solo guardandolo

e metà del frullato di cipolla. Regolate di sale e pepe e, con le mani leggermente inumidite, formate polpette della grandezza di una noce. Rotolate le polpette nella farina, eliminate quella in eccesso e fatele rosolare in una padella con poco olio fino a che siano uniformemente dorate. Ponete in ammollo funghi in acqua tiepida per  minuti, quindi scolateli, strizzateli e tritateli. Sgranate e lavate i pisellini freschi o sciacquate quelli surgelati. Tagliate a dadini le mozzarelle e fatele scolare del siero in un colino, per  minuti. Lavate i fegatini di pollo, affettateli e rosolateli in poco olio per  minuti, salateli a fine cottura. In una casseruola cuocete i piselli con il resto del frullato di cipolle, i funghi ammollati e  cucchiai di concentrato di pomodoro stemperato in poca acqua per circa  minuti. Regolate di sale e di pepe. Preparate un risotto alla piemontese, cioè in bianco, con il riso, senza aggiungere soffritto e con brodo di vitello, tenendolo al dente. Lasciatelo intiepidire e amalgamateci le uova rimaste leggermente sbattute e metà del sugo. Unite al sugo rimasto le polpette e i dadini di mozzarella. Ungete con abbondante burro uno stampo da timballi della capacità di circa  litri, spolverizzatelo con pangrattato e riempitelo con  quarti del risotto. Con un cucchiaio di legno spingete bene il risotto verso le pareti in modo da creare un vuoto al centro e riempitelo con le polpette. Spolverizzate con abbondante grana grattugiato e ricoprite con il risotto rimasto. Livellate bene la superficie, cospargetela con pan grattato e qualche fiocchetto di burro e cuocete in forno a ° per  minuti. Fate riposare il sartù per qualche minuto, sformatelo su un piatto di portata e servitelo subito.

Come si fa?

T.Tseng

Esistono piatti che «si mangiano con gli occhi». Ovvero che sono così complessi che mettersi a prepararli, anche no. In genere sono sontuosi piatti della festa, nel senso che si fanno per un numero prefissato di persone, in un banchetto: non sono adatti a essere cucinati in un ristorante, che ha tempi e problematiche diverse, dato che anche a metterli in carta non sai quanti ne vendi. Uno di questi piatti è il sartù, grande gloria napoletana. Nasce nel Settecento come sortù, forse dal francese sourtout (sopra a tutto) che indicherebbe l’involucro ideato per contenere il «tutto»: in quel secolo, la nobiltà napoletana utilizzava volentieri cuochi francesi. Diventa presto onnipresente nei ricettari: noi che scriviamo di cucina amiamo le ricette complesse, quelle appunto da mangiare con gli occhi. Il sartù è quanto può sognare un goloso: piatto colorato, pieno di profumi e di sapori, che meraviglia. Qui vi offro una versione un po’ semplificata, ma neanche tanto. Ingredienti per otto persone:  g di riso da risotti,  g di pisellini freschi (ma vanno bene anche quelli surgelati),  g di polpa di vitello macinata,  g di fegatini di pollo,  g di funghi secchi,  g di prosciutto o mortadella tritati,  mozzarelle,  uova,  tuorlo, concentrato di pomodoro, cipolle, farina bianca, burro, olio extravergine di oliva leggero (per rosolare, tutti usano l’olio extravergine di oliva, che non è tradizionale, essendo stato messo a punto nel , quindi mi adeguo: questo detto se usate l’olio di vinacciolo, meno intrusivo, perfetto per rosolature e fritture, va anche meglio), sale, pepe. Stufate con poca acqua  cipolle pelate e spezzettate per  minuti, poi frullatele. Amalgamate in una ciotola la polpa di vitello con il prosciutto cotto o la mortadella,  uovo, il tuorlo

Pxhere.com

Allan Bay

La coppa di testa è una preparazione «barbarica» che di più non si può. Consiste in una testa di maiale, cotta in acqua, scolata, lasciata intiepidire e poi disossata a mano con santa pazienza. Alla fine, viene messa in un budello o in uno stampo. La quota barbarica è data dall’im-

piego della testa: basta dirlo e la gente si spaventa. Ma anche perché quest’ultima è piena di grasso e di tessuti connettivali, che spaventano anche più del grasso. È barbarica perché si usano anche gli occhi del maiale, molto gustosi. E, infine, è da considerarsi barbarica soprattutto perché arcaica. Ma è buonissima! Vediamo come si fa: in effetti è più facile da fare di quanto sembri. Comprate la testa di un (ottimo) maiale ed eliminate le setole, bruciandole. Lavatela, poi mettetela a bollire in abbondante acqua per  ore. A cottura ultimata, scolate, lasciate intiepidire e quando è tiepida spolpatela con le mani e con l’aiu-

to di un coltellino, facendo attenzione agli ossi piccoli, che rischiano di sfuggire, e alla cartilagine delle orecchie, che va eliminata dato che è amara: tenete invece tutto il resto. Mettete in una ciotola la polpa ottenuta, regolate di sale e di pepe (volendo si possono aggiungere anche agrumi a fettine, molto interessanti), unite un mestolo scarso dell’acqua di cottura ricca di collagene, mescolate bene e imbudellate o mettetela in uno stampo. Lasciatela raffreddare per almeno  giorni. Sottovuoto si conserva a lungo. La coppa di testa va tagliata a fette non troppo sottili e gustata fra  fette di pane tostato o come si vuole, spezzettata.

Ballando coi gusti

Oggi due proposte a base di scampi, e più precisamente a base di code sgusciate di scampi. Fresche o surgelate è lo stesso, anche se io preferisco il surgelato.

Curry di scampi

Chirashi di scampi

Ingredienti per 4 persone: 16 code di scampi – 8 cucchiai di soffritto di cipolle – 150 g di yogurt meglio se greco – 1 spicchio di aglio – prezzemolo – 2 cucchiaini di curry in pasta – olio di oliva o di semi – sale.

Ingredienti per 4 persone: 16 code di scampi – 240 g di riso tondo orientale – vino bianco meglio se aromatico – salsa di soia – lime – sale.

Scaldate in una padella un filo di olio con l’aglio e rosolate le code per  minuto, levatele e tenetele in caldo. Aggiungete il soffritto e cuocete per qualche minuto, poi stemperate con il curry in pasta. Profumate con prezzemolo, mescolate e regolate di sale. Unite le code e fate insaporire per  minuto. Fuori dal fuoco legate con lo yogurt. Impiattate accompagnando con riso pilaf.

Lavate il riso in acqua fredda, ovvero: versatelo in una bacinella piena di acqua fredda, mescolate bene, poi scolatelo in un colino. Ripetete l’operazione più volte finché l’acqua non risulti limpida, alla fine lasciatelo nel colino per  ora. Versate il riso in una casseruola che abbia un coperchio pesante e copritelo d’acqua fredda fino a  cm oltre il filo, salate con un pizzico di sale. Mettete la casseruola scoperta su fuoco medio finché l’acqua non raggiunge il bollore, abbassate la fiamma, chiudete con carta da forno, coprite con il coperchio e cuocete per  minuti senza mai mescolare né aprire il coperchio. Spegnete il fuoco e lasciate riposare per altri  minuti. Intanto fate la ponzu: emulsionate ½ bicchiere di vino con altrettanta salsa di soia e  cucchiai di succo di lime. Tagliate a fettine le code di scampo. Quando il riso si è intiepidito, mettetelo in  ciotole, adagiate sopra le fettine di code, spruzzate con la ponzu e servite.


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Un esercizio creativo con i colori dell’autunno per sperimentare tecniche diverse

Giovanna Grimaldi Leoni

La stagione autunnale con le giornate che si fanno più corte, invitandoci ad entrare prima in casa, e i suoi colori che esplodono prima del letargo invernale si presta benissimo per dei bricolage creativi da fare con i bambini. Questa settimana la proposta più che un tutorial è un esercizio creativo. La base di partenza è un albero, semplicemente ritagliato dal cartoncino seguendo il cartamodello, da decorare sperimentando tecniche diverse. Qui ne vengono proposte tre, ma l’invito è quello di sperimentare con i vari materiali che avete a disposizione in casa. Procedimento Idea . Albero con foglioline attacca e stacca Ritagliate dal cartamodello che trovate sul sito www.azione.ch la sagoma dell’albero e incollatela con la colla stick allo sfondo scelto. Scegliete degli scampoli di stoffa in colori autunnali, fate aderire bene al biadesivo quindi ritagliate tante foglioline variando il colore del tessuto. Con il taglierino fate un’incisione sul retro della fogliolina in modo che sia più semplice poi togliere la pellicola. Idea . Albero con foglioline disegnate Infilate il vostro albero in una mappetta trasparente quindi iniziate a posizionare le foglie. Lavorando sulla mappetta vi sarà sempre possibile togliere e rimette-

Materiale

• Cartoncini colorati (marrone per la sagoma dell’albero in colori a scelta per lo sfondo) • Matita, forbici e taglierino • Mappette trasparenti • Colla stick Idea 1. Albero con foglioline attacca e stacca • Resti di stoffa e biadesivo

re le foglioline proprio come per gli adesivi «attacca e stacca». Alla fine potete decidere di togliere le foglioline per esempio e posizionarle su un rettangolino trasparente ricavato da una vecchia mappetta e creare così alberi sempre diversi. Una volta infilato l’albero nella mappetta semplicemente disegnate con i pennarelli le foglie. Preparate dei piccoli rettangoli ricavandoli dai panni da cucina multiuso che vi serviranno come cancellino. L’effetto sarà un po’ quello della lavagna magica che potrete disegnare e cancellare all’infinito.

Idea . Albero con foglioline stampate Per creare il timbro unite con la colla a caldo il tappo di sughero a quello di una bottiglia in pet, quindi ritagliate (tenendo la gomma crepla doppia per avere maggior spessore) una fogliolina delle dimensioni desiderate e incollatela sulla sommità del vostro timbro. Ecco creato un perfetto e velocissimo timbro fai da te. Su di una tavolozza (la mia è ricavata da un tetrapak dei succhi di frutta) mettete un po’ di tempera nei vari colori. Con un pennello piatto prelevate un po’ di pittu-

Giochi e passatempi Cruciverba

Tra amici: «Sai Sergio ieri in libreria ho visto un libro intitolato: Come risolvere il 50% dei tuoi problemi…» Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 2, 7, 1, 2, 2, 5, 3) ORIZZONTALI 1. Striscia di cuoio munita di fibbia 6. Mammifero roditore 10. Negazione tedesca 11. Un genere teatrale 12. Pronome personale 14. Le iniziali del maestro Laurenti 15. Il nome dell’attore Hanks 16. Le iniziali dell’attore Scarpati 17. Rischia di andare dentro... 19. Sporchissimo 22. Prefisso che indica opposizione 24. Possono essere di piacere o d’affari 26. Noto monte biblico 28. Il principe di Borodin 31. Mitologico paradiso 33. Infossatura del polmone 34. Simbolo chimico dell’olmio 36. Posti in basso 37. Le iniziali del conduttore Ruffini

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(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

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39. Creò il personaggio Sandokan (iniz.) 40. La cantante Grandi 42. Caro in Inghilterra 44. Figura geometrica 45. Veicoli da montagna VERTICALI 1. Antico strumento a corde 2. Le iniziali dell’attore Nolte 3. Prodotto per parrucchieri 4. Il famoso Terence 5. Preposizione 6. Bagna Oxford 7. Le iniziali del pittore Rosai 8. Paris Saint-Germain 9. Lungo gli uadi 11. Teme l’orso bianco 13. Mammifero africano

Idea 3. Albero con foglioline stampate • Un tappo di sughero e uno di una bottiglia • Un minuscolo pezzo di gomma crepla • Tempere e pennello piatto

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Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Idea 2. Albero con foglioline disegnate • Pennarelli e panni da cucina

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

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ra e passatela sul timbro. Quindi iniziate a imprimere le vostre foglie sull’albero. Non preoccupatevi se un colore si «sporca» con gli altri. Anzi il risultato sarà ancora più interessante. Ecco  delle infinite possibilità che avete per decorare un albero, celebrare l’autunno e passare dei momenti creativi con i bambini utilizzando materiale comune che già avete in casa. Buon divertimento!

5 15. Sminuzzati 18. Morbida borraccia 20. Un anagramma di savie 21. Il domani di ieri 23. Trasparente come il vetro 25. Nome femminile 27. Le cerca il verseggiatore 29. Le rose di Massimo Ranieri... 30. Elegante, raffinato 32. Scritta su molti dispositivi 35. Letto al contrario non cambia 38. Sigla di emittente televisiva italiana 41. Preposizione francese 42. Due di due 43. Le iniziali del cantautore Vecchioni

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Soluzione della settimana precedente Nel Mar Adriatico, di fronte alla Croazia, si trova l’isola Galesnjak che viene anche chiamata isola… Resto della frase: ... DELL’AMORE PER LA SUA FORMA A CUORE. T R I N O

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D E P A I F A R

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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TEMPO LIBERO / RUBRICHE

Viaggiatori d’Occidente

di Claudio Visentin

Donne di strada? ◆

All’inizio di quest’anno la versione online del prestigioso dizionario Treccani è stata criticata perché tra i sinonimi di «donna» includeva termini apertamente offensivi come «cagna» o «serva». Del resto un semplice confronto tra equivalenti maschili e femminili rivela quanto il nostro linguaggio sia ancora intriso di misoginia: pensate soltanto alla differenza tra «buon uomo» e «buona donna», «ometto» e «donnetta», «uomo di mondo» e «donna di mondo» (anche nelle varianti «mondano» e «mondana»). L’osservazione è giusta e diversi dizionari (da Oxford a Zanichelli) l’hanno accolta, per esempio spostando quei termini a sinonimo di «prostituta». Bene ha fatto peraltro anche la Treccani a ricordare che il vocabolario non ha una funzione pedagogica quanto piuttosto notarile; registra i cambiamenti della realtà una volta

che questi sono avvenuti, ma non li promuove. Anche perché continue richieste in tal senso provengono da gruppi poco rappresentativi della società nel suo insieme ma molto efficaci sul piano della pressione politica e della comunicazione. Curiosamente alcuni dei termini incriminati hanno a che fare col viaggio e col cammino. Ancora sino a qualche decennio fa gli spazi pubblici – compresa la strada – erano riservati quasi per intero ai maschi e la presenza di una donna era stigmatizzata con termini come «passeggiatrice» (naturalmente «passeggiatore» non ha lo stesso significato), «donna perduta» o appunto «donna di strada». Da qualche tempo però, soprattutto dopo il lockdown, le «donne di strada» sembrano moltiplicarsi lungo i sentieri dei più importanti cammini. Non ci sono ancora dati sicuri ma tutti gli indicatori vanno nella stessa direzio-

Passeggiate svizzere

ne. Basta sfogliare le foto di gruppo di qualche organizzatore di viaggi a piedi, come la Compagnia dei cammini, per contare sei donne ogni quattro uomini. Anche sul cammino di Oropa, dove hanno tentato qualche primo calcolo più sistematico, il  per cento dei camminatori sono donne. Le stesse indicazioni emergono dal libro degli ospiti di un qualunque ostello lungo la via di Santiago o la via Francigena. Alcuni percorsi poi hanno preso una decisa coloritura al femminile, come la via degli dei, tra Firenze e Bologna lungo l’Appennino, sempre più spesso ribattezzata via delle dee da quando viene percorsa da gruppi di sole donne. E la rete nazionale Donne in cammino (fondata solo nel marzo ) ha già superato sessantamila iscrizioni nel suo gruppo Facebook «Ragazze in gamba». Tutte queste camminatrici hanno di-

verse età, diverse nazionalità. Spesso viaggiano da sole, con qualche cautela ma senza farsi spaventare troppo da pericoli reali e immaginari; dopo tutto, un bosco può essere sorprendentemente sicuro rispetto a una giungla urbana. Sui cammini poi nascono facilmente amicizie di un’ora o di un giorno e si può dunque scegliere tra compagnia e solitudine. Rispetto agli uomini, nelle donne in cammino il desiderio di nuove esperienze sembra prevalere sul risultato e sulla competizione. Per il resto le motivazioni sono diverse: c’è chi scava nella propria fede lungo le vie dei santi, chi vuole soltanto recuperare la forma fisica, chi matura importanti decisioni personali o familiari eccetera. A tutte il cammino compiuto regala consapevolezza, autostima e una maggiore fiducia in sé stessi e nei propri mezzi. È un cambiamento rapido e sorprendente. Sino a po-

chi anni fa, per millenaria tradizione, i viaggi più avventurosi erano riservati agli uomini (bianchi e occidentali, aggiungerebbe qualcuno), con poche seppur notevoli eccezioni femminili. Maschi erano quasi tutti i principali scrittori di viaggio per esempio. Poi le donne hanno cominciato a viaggiare (sempre più, sempre più lontano) e da qualche tempo anche a raccontare i loro viaggi. Solo i lunghi e faticosi viaggi a piedi erano rimasti in larga misura una riserva maschile. Poi anche in questo campo gli stereotipi sono stati messi in discussione, le barriere di genere aggirate o ignorate. Nessuna richiesta di incentivi o quote rosa, nessun desiderio di distinguersi dai compagni di viaggio, nessuna richiesta di attenzioni particolari, niente polemiche sul patriarcato, distinzioni, raffinate analisi: è bastato mettersi lo zaino in spalla e partire.

di Oliver Scharpf

La confiserie Wodey-Suchard a Neuchâtel ◆

L’arte di guardare il paesaggio dal treno è come una specie rara, va protetta. E allenata, con metodo e abbandono totale. Stamattina catturo un gatto in un prato, il movimento della bruma che si leva adagio dai boschi, la prima neve sulle montagne, pecore ouessant, uno sprazzo di pace lacustre che serve a ricapitolare in un batter d’occhio la propria vita, la salvezza selvaggia dei boschi scuri di conifere infreddolite appena appena. Inizia la stagione per rintanarsi, in certi tearoom lontani, a sorseggiare cioccolate calde. Anche se la vera ragione del viaggio oggi sono le truffes: il punto forte della confiserie Wodey-Suchard a Neuchâtel (  m) la cui vecchia insegna – avvistata ora, un mattino di metà novembre – in verde scuro e lettere d’oro, con lo stemma cittadino che raffigura l’aquila prussiana, è indizio di luogo serio e invoglia già. Il nome, poi, evo-

ca i risvegli della mia infanzia legati all’apertura del barattolo di Suchard Express. Ma è la lastra commemorativa, accanto alla porta d’entrata, a impressionare. «Il  novembre , Philippe Suchard, fondatore delle fabbriche di cioccolato Suchard, aprì un negozio in questo immobile dove fabbricò il suo primo cioccolato» si legge scolpito nella pietra. Della posa di questa iscrizione – prequel fulmineo del cacao in polvere nato nel  che allietava le mie colazioni di un tempo – sulla facciata in pietra arenaria color burro, al cinque della rue du Seyon, ne dà notizia il «Feuille d’Avis de Neuchâtel» il diciassette novembre . È da settantadue anni dunque che i passanti non troppo disattenti si ritrovano d’un tratto, davanti al naso, l’inizio della storia di Philippe Suchard (-). Chocolatier la cui gloria è stata esposta, in parte, al Musée d’art et d’histoire

Sport in Azione

– dieci minuti neanche a piedi da qui – dall’aprile  al gennaio , con il titolo Le monde selon Suchard. Il nome Wodey invece, viene dal genero, Edouard Wodey (-) che sposa la figlia Louise Suchard (): la coppia, dal  via, prende in mano questa confiserie oggi anche pasticceria e tea-room. Wodey-Suchard è la graziosa scritta rétro che si dispiega in corsivo, sotto la tenda, appena sopra la vetrina. Dove in bella mostra ci sono, oltre a diverse pigne decorative in fila indiana, millefoglie, puits d’amour, tartelette al limone meringate, tartellette chocolat-framboise, japonais, babà, mousse centenaire, passion, mandarine, torta intera di mele, fette di torta alle nocciole ricoperta di glassa, carac, e altro ancora. Entro e vado, concentrato, a sedermi nel tea-room. Il latte caldo viene servito a parte, così uno dosa, a sentimento, la sua quantità di

latte che incontra il cioccolato, fondendosi: una specie di crema scura, miscela di tre tipi, in fondo alla tazza. Niente male. Peccato solo che il tea-room sia rinnovato e perda quel gusto demodé che amo molto nei tea-room, bar, ristoranti, hotel, tutto. All’antica però, grazie al cielo, sono ancora fatte – arrotolate a mano – le truffes, il prodotto faro di questa chocolaterie storica ripresa nel  da due giovani in gamba: Jöel Cuche e Cédric Chammartin. Centocinquanta grammi, in prevalenza double crème e centenaire – la loro grande specialità – in un bel sacchetto color rame lucido, e via. Sul bus centodue, verso Serrières, un angolo di Neuchâtel dove in un vallone urbanizzato, dal  fino al , c’erano le fabbriche Suchard. E così, nel bel mezzo dell’autunno, mi gusto, a go go, senza nessunissimo senso di colpa, le truffes Wodey-Suchard. Quel-

le al caramello e cioccolato fondente ottime, le double crème magnifiche, ma con le centenaire non c’è gara: si sciolgono in bocca in un attimo, aeree, volatili, sublimi. E non sono un fan estremo delle truffes, perciò ho detto tutto. Eppure di princisbecco rimango solo quando vedo di colpo, dal finestrino, luccicare la più ambita preda di questo détour Suchard. Il minareto, costruito come un belvedere, in cima alla casa, vicina alle fabbriche, di Philippe Suchard. Scendo al volo e imbocco la rue Farel. E lassù in cima, ecco, in tutto il suo splendore disorientante, con cupole assortite e vetrate, il miniminareto di Suchard. Una follia architettonica, creata da Louis-Daniel Perrier verso il , un mix, miniaturizzato come torretta-mirador, tra il palazzo Topkapi di Istanbul e qualcosa del pavillon orientaleggiante di Brighton.

di Giancarlo Dionisio

Lewis Hamilton, the Greatest? ◆

 Pole Position,  Gran Premi vinti,  caschi iridati… ma attenzione a Max. Le cifre dicono che il pilota britannico è quello che ha vinto di più nella storia della Formula . Oltre a quanto già enumerato, Lewis Hamilton vanta il maggior numero di presenze sul podio:  su  Gran Premi disputati. Si tratta di una cifra da capogiro, anche alla luce dello scarso numero di corse in cui non ha conquistato punti o addirittura non è giunto alla fine. Gli altri primati sono solo delle spezie, che danno ancora più sapore al suo palmares da urlo: maggior numero assoluto di punti conquistati (,), maggior numero di punti in una stagione ( nel ), record di Gran premi in cui consecutivamente è andato a punti (). Più altri spiccioli che fanno godere solo i bulimici delle statistiche. Perché celebriamo oggi il pilota di

origini caraibiche, e non fra qualche settimana, a stagione conclusa? Semplicemente perché, dopo anni di dominio, potrebbe non conquistare il casco iridato. I record sono fatti per essere superati. Così come i campioni, che però resteranno «ad vitam aeternam» nel cuore degli appassionati. Nel mondo della Formula , c’è il nuovo che avanza. Si chiama Verstappen, Max Verstappen. Un ragazzo col Killer Instinct. A  anni e  giorni è stato il pilota più giovane a salire sul podio. Tuttavia, in quell’occasione, sul circuito catalano di Montmelò, non si è limitato, timidamente, a porre i suoi piedi sul terzo o sul secondo gradino. No, è salito su quello più alto. Superando il record di precocità che apparteneva proprio a Lewis Hamilton. A quattro gare dalla fine, il giovane pilota olandese ha un vantaggio di  punti sul rivale britannico. Anche chi, come me, ha disertato

per anni le dirette di Formula , sente profumo di epos e di pathos. Lo confesso, mi entusiasmava la Formula dell’era Stewart-Fittipaldi, così come quella di Lauda e Regazzoni, e pure i duelli vibranti fra Prost e Senna. Ma durante l’era Schumacher-Alonso-Vettel, ho fatto fatica a esaltarmi. Per contro, il duello Hamilton-Verstappen mi intriga. Da un lato, l’irruenza trasformata in esperienza, e in sagacia tattica. Dall’altro, la spavalderia e la sfrontatezza condite, a detta degli esperti, da capacità di guida straordinarie. Ingredienti che ci faranno vivere un finale di stagione vibrante. Mi chiedo se Max riuscirà ad aprire un ciclo simile a quello di Lewis. Ce lo dirà la storia. Storia che invece ci ha già raccontato molto su Lewis Hamilton. Ci ha regalato uno dei piloti più grandi di sempre. Forse il più

grande. Ci ha pure fatto conoscere un uomo capace di essere protagonista non solo nell’abitacolo della sua monoposto. Sin dal suo debutto, il colore della sua carnagione, lo ha portato ad essere paladino delle diversità. Già nel , in occasione di una serie di test in Spagna, i tifosi del suo compagno di squadra Fernando Alonso, con il quale non correva buon sangue, lo schernirono con striscioni e magliette dai toni razzisti. La Federazione Internazionale di Automobilismo diede il via a una campagna di sensibilizzazione intitolata «Racing against Racism». Un’azione che Lewis fece sua, e che lo indusse, in più di un’occasione, durante le interviste, a prendere posizione contro ogni forma di discriminazione. Alcuni mesi fa, ad esempio, Hamilton si è schierato dalla parte della tennista giapponese Naomi Osaka, espulsa

dal torneo parigino del Roland Garros, per essersi sottratta al rituale delle interviste del dopo-partita. Naomi si era giustificata, scrivendo una mail agli organizzatori nella quale menzionava il suo particolare stato di fragilità emotiva, provocata da stress e ansia da prestazione, con la conseguente difficoltà nel presentarsi davanti a telecamere e giornalisti. Dal canto suo, il pilota aveva solidarizzato con lei, puntando il dito contro un sistema spietato, incapace di rispettare l’individuo. Non è che un esempio della volontà di Lewis Carl Davidson Hamilton di fare leva sulla sua popolarità, e di essere protagonista a ° della sua era. Predestinato al successo, certo, non a caso la McLaren lo aveva messo sotto contratto già quando aveva  anni. Ricco, anzi ricchissimo, ma non per questo rinchiuso nel suo sfavillante mondo dorato. Anzi!


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ATTUALITÀ

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Scintille nel Pacifico Gli Usa cercano di contenere l’espansionismo cinese mentre si susseguono gli incidenti

Non solo in Bielorussia Aleksandr Lukashenko strumentalizza la vita dei migranti come altri hanno fatto prima di lui

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Se le idee restano confuse Il Consiglio federale elvetico non ha ancora definito una strategia chiara nei confronti dell’Ue

Infermieri da valorizzare Il 28 novembre il popolo svizzero dovrà esprimersi sull’iniziativa «Per cure infermieristiche forti»

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Da sinistra: Norbert Röttgen, Friedrich Merz e Armin Laschet. (AFP)

In lotta per la successione di Merkel Germania

Chi sarà a guidare i cristiano-democratici dai duri banchi dell’opposizione? La corsa di Merz, Röttgen e Braun

Stefano Vastano

Jens Spahn ha già gettato la spugna. Il enne ministro della Salute tedesco ha rinunciato anche questa volta a candidarsi per il trono – sempre più traballante – di presidente della Cdu. Quel trono che fu del potentissimo Helmut Kohl e poi, per  lunghi anni, di Angela Merkel. E che oggi invece, dopo il breve interregno di Annegret Kramp-Karrenbauer, è ancora per poco nelle mani dello sfortunato Armin Laschet. L’ex premier del Nordreno-Vestfalia che, alle elezioni del  settembre, ha ottenuto il peggior risultato mai riscosso dalla Cdu dai tempi di Adenauer: uno sconsolante , per cento (dopo il , spuntato dalla Merkel alle politiche del ). Già, ma chi sarà il nuovo presidente che, nel primo anno dopo l’era Merkel, guiderà i cristiano-democratici sui duri banchi dell’opposizione? Ha sorpreso molti la candidatura del enne Helge Braun: in Germania non tutti sanno che lui, ancora per poco, è a capo del Kanzleramt, la Cancelleria della Merkel. Ciò che lo distingue dai suoi due rivali – ossia da Friedrich Merz e Norbert Röttgen – è prima di tutto la laurea: Braun è un medico, specialista in terapia intensiva. E il fatto che viene dall’Assia, non

dal Nordreno come Merz, Röttgen e anche Laschet. Origini a parte, il fatto di essere un fedelissimo di Angela Merkel non gioca certo a vantaggio di Braun; e ancor meno di non aver ricoperto nessun incarico all’interno della Cdu. In pubblico o nei talk show non è poi che il dottor Braun brilli di verve retorica. C’è chi pensa pertanto che la sua candidatura più che al vertice della Cdu punti in realtà alla successione di Volker Bouffier, il premier della Cdu a Wiesbaden, il capoluogo dell’Assia. L’unica domanda allora è: toccherà al più posato Röttgen o al più sanguigno Merz prendere il testimone dal più pallido Laschet? Già lo scorso gennaio, in corsa per la presidenza del partito contro Merz e Laschet, Röttgen saltò al primo turno. Questa volta il enne esperto di politica estera ed ex-ministro dell’Ambiente riprova la scalata al trono della Cdu con due precisi obiettivi. «Il partito ha bisogno di un rinnovamento nei contenuti», ripete l’ex-pupillo di Merkel. I lunghi anni del «merkelismo» – è il sottotesto del messaggio – hanno eroso l’identità del partito. «Il centro, insiste Röttgen, è il vero luogo della Cdu. E questo luogo deve esprimer-

si nella persona del presidente». Con i suoi capelli bianchi, gli occhialini e il suo linguaggio forbito Röttgen si presenta come l’uomo giusto per riportare la Cdu «a riprendersi – dice lui – i voti al centro della società». Alle politiche di settembre la Cdu ne ha persi tanti, oltre un milione, a vantaggio della Spd e dei Verdi.

Norbert Röttgen intende riconquistare i voti al centro della società mentre Friedrich Merz guarda a destra Al convegno che si terrà ad Hannover, il  e  gennaio, i delegati dovranno scegliere dunque se incoronare Röttgen, il quale vuole che la Cdu «torni ad essere un Volkspartei», un partito popolare. O piuttosto fidarsi del febbrile e a volte persino reazionario Friedrich Merz. Che ha compiuto  anni, ed è stato l’ex capo frazione parlamentare della Cdu prima di diventare manager del gruppo finanziario Blackrock (e di altre imprese). Ora ci riprova per la terza volta a conquistare l’ambito incarico nella Cdu. Nel partito tutti sanno che è

lui – non Röttgen e tantomeno Braun – l’anti-Merkel per antonomasia. Di posizioni liberali o progressiste in Merz non c’è nemmeno l’ombra. Eppure non pochi, specie in un passaggio della Cdu all’opposizione, vedono in questo coriaceo politico-manager il perfetto traghettatore in una delle fasi più critiche della Cdu. Perché lui, come ha titolato «Der Spiegel» «è il contrario di Scholz e veleno per la Fdp». Il terrore della prossima «coalizione semaforo» al Governo di Berlino, la coalizione di Spd, verdi e liberali, e in particolare del futuro ministro delle Finanze Christian Lindner, il capo dei liberali, è lui, il conservatore Merz. Che di sicuro è il più facoltoso deputato della Cdu, ed uno dei pochi nel partito ad avere non solo il dono della favella sciolta ma anche il gusto della provocazione, con le sue acri battute sugli omosessuali o contro la parità dei sessi ai vertici della Cdu. Più che ripescare voti al centro della società il mirino di Merz è puntato contro l’Afd, la forza d’estrema destra che alle politiche di settembre ha risucchiato il  per cento dei voti. «Abbiamo sottovalutato il problema dell’estremismo di destra», dice Merz. L’altro leitmotiv su cui torna spesso e

volentieri è che «abbiamo sottovalutato anche il problema dell’immigrazione illegale». Alle donne del partito il suo stile da macho piace poco. Ma con quel suo fare brachiale è il beniamino della Junge union, l’associazione giovanile del partito. Con un Friedrich Merz al timone della Cdu poi anche Markus Söder, l’altro coriaceo presidente bavarese della Csu, sempre così mordace contro il debole Laschet, avrebbe qualche difficoltà. Come vedono dunque i tedeschi questo braccio di ferro fra Röttgen e Merz? Chi dei due spunterà la carica di presidente? Dipende. Sondaggi dicono che circa il  per cento dei tedeschi preferisce l’anima liberale del più posato Röttgen. E solo il  per cento si dichiara a favore del più brusco Merz. All’interno della Cdu, al contrario, il  per cento è più propenso ad affidarsi a Merz, e solo il  per cento vuole lasciarsi guidare da Röttgen. Come detto solo a fine gennaio, ad Hannover, sapremo chi salirà sul trono. Per ora un’unica cosa è sicura: se tra qualche giorno i tedeschi tornassero a votare ridarebbero alla Spd di Scholz il  per cento dei voti. E alla Cdu che fu di Angela Merkel appena il  per cento.


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ATTUALITÀ

Dove scoppierà la terza guerra mondiale? Il punto

Gli Stati uniti reclutano gli alleati per contenere l’espansionismo cinese; nel Pacifico intanto si susseguono gli incidenti

Quando la vicepresidente americana Kamala Harris è atterrata a Parigi, due settimane fa, tutti sapevano quale fosse il reale obiettivo di quella missione Oltreoceano: l’Amministrazione di Joe Biden sta facendo di tutto per fare pace con il Governo di Emmanuel Macron dopo l’affare dei sottomarini. A metà settembre – lo ricordiamo – America, Australia e Regno unito hanno annunciato a sorpresa uno storico accordo, un patto di difesa chiamato dalla stampa Aukus (A sta per Australia, insieme con Uk e Us) grazie al quale Canberra potrà acquisire la tecnologia dei sommergibili a propulsione nucleare – un club finora riservato a pochissimi Paesi eletti. La prima conseguenza dell’accordo è stata che l’Australia ha annullato la commessa di sottomarini che aveva con la Francia, per un valore stimato attorno ai  miliardi di euro. Macron, in pieno assetto da campagna elettorale, ha accusato i tre Paesi alleati di aver complottato contro la Francia in segreto. Da Canberra, il Governo guidato da Scott Morrison ha giustificato la scelta spiegando che la propulsione dei sottomarini francesi è a diesel, ed è considerata superata a livello strategico: i sommergibili a propulsione nucleare costano di più ma possono restare sott’acqua molto più tempo degli altri e trasportare carichi più pesanti. Dal punto di vista della diplomazia internazionale la situazione tra Parigi, Canberra e Washington è rimasta tesa, nonostante le conversazioni tra Macron, Morrison e Biden durante il G che si è svolto a Roma a fine ottobre. Dal punto di vista pratico tutti i Governi dell’Alleanza atlantica riconoscono che nell’area del Pacifico c’è un problema, che la situazione è in veloce evoluzione e la prima effettiva conseguenza è una corsa al riarmo. Qualche giorno dopo l’annuncio dell’accordo Aukus, un episodio di cronaca si è trasformato in uno spot pubblicitario controproducente. In un breve comunicato, il comando delle Forze armate americane nel Pacifico

Keystone

Giulia Pompili

ha fatto sapere che uno dei suoi sommergibili di punta, un natante proprio a propulsione nucleare, lo Uss Connecticut, aveva avuto «una collisione con un oggetto non identificato». «Il sottomarino è in condizioni sicure e stabili. L’entità del danno alla struttura è in fase di valutazione». Nel giro di poche ore sono iniziate a circolare teorie del complotto più o meno credibili, dagli alieni all’incidente a bordo fino all’attacco nemico. Una settimana dopo la Marina americana ha pubblicato i risultati di un’inchiesta sull’incidente e ha spiegato che lo Uss Connecticut, durante un passaggio nel Mar cinese meridionale, aveva urtato accidentalmente una montagna sottomarina che non era stata inclusa nelle mappe. Niente di strano, insomma, ma l’evento ha suscitato diverse riflessioni sulla militarizzazione di un’area del Pacifico dove aumenta ogni giorno di più la possibilità di incidenti, e ha inoltre scatenato la propaganda cinese anti-Usa. «L’America deve dirci la verità sulla collisione dello Uss Con-

necticut», ha scritto il tabloid cinese «Global Times», «il suo non era affatto un passaggio innocente». E poi: «Il Mar cinese meridionale non è il Mar dei caraibi dove l’esercito americano va e viene a piacimento». E il problema è proprio questo: il Mar cinese meridionale è da più di un decennio reclamato da Pechino, che ha costruito attorno alla sovranità di quell’area non solo una potente propaganda, ma anche delle claudicanti motivazioni storiche e giuridiche, smentite perfino da una storica sentenza del  da parte di un tribunale arbitrale sotto l’egida dell’Onu. Da anni le Forze armate occidentali aumentano l’attenzione su quell’area del Pacifico, proprio per garantire il passaggio e la libertà di navigazione: si tratta della porta dei commerci tra Oriente e Occidente. Ma per la Cina è una violazione della sovranità. Aumentano la tensione, le provocazioni e qualcuno, anche da Occidente, comincia a dire che tutti questi sottomarini invisibili e velocissimi, tutte queste navi da guerra in forma-

zione, fanno aumentare pure la possibilità di un confronto armato. In  – Il romanzo della prossima guerra mondiale, gli autori Elliot Ackerman e l’ammiraglio James Stavridis raccontano con dovizia di particolari – tutti reali – quello che potrebbe succedere, in un genere letterario molto convincente che ha avuto parecchio successo: il romanzo distopico geopolitico. «La sua flottiglia si trovava a dodici miglia nautiche dal Mischief reef, un atollo delle isole Spratly al centro di un’annosa disputa, per una missione di pattugliamento denominata eufemisticamente Libertà di navigazione», si legge nel primo capitolo. «Lei odiava quel nome che, come tanti altri aspetti della vita militare, era stato pensato per nascondere la vera natura dell’operazione: nient’altro che una pura e semplice provocazione. Quelle erano innegabilmente acque internazionali, almeno in base alle norme del diritto marittimo, ma la Repubblica popolare cinese le considerava acque territoriali. Navigare attorno alle Spratly era

un po’ come sgommare sul prezioso prato del vicino di casa perché aveva spostato lo steccato invadendo la tua proprietà. Ormai erano decenni che i cinesi spostavano lo steccato sempre un po’ più in là, e poi un altro po’. Di questo passo, avrebbero rivendicato l’intero Pacifico meridionale. Dunque... era tempo di sgommare nel loro giardino». L’America ha reclutato i suoi alleati più fedeli, tra cui Regno unito, Australia, Giappone, per contenere l’espansionismo cinese. Ma anche la Cina sta iniziando sempre più frequentemente a mostrare i muscoli con manovre militari impensabili fino a qualche anno fa. Ad agosto e a ottobre di quest’anno Pechino ha svolto nel Pacifico due diverse esercitazioni militari congiunte con la Russia per dimostrare al resto del mondo l’allineamento delle due potenze non solo politico ma anche sul piano della difesa. In un decennio le Forze armate cinesi hanno incrementato le capacità belliche e per la prima volta, il mese scorso, hanno inviato all’estero aerei da guerra anti-sommergibili e cacciatorpediniere da oltre  mila tonnellate. Il  ottobre, durante una delle missioni, dieci navi da guerra – cinque cinesi e cinque russe – hanno per la prima volta fatto due passaggi negli stretti più cruciali dell’arcipelago giapponese con un chiaro messaggio provocatorio. La formazione sinorussa ha attraversato lo stretto di Tsugaru, quello che divide l’isola principale del Giappone, l’Honshu, dall’isola del nord, l’Hokkaido, che nel suo punto più impervio è largo soltanto  chilometri e mezzo. Anziché i dodici chilometri standard per il diritto internazionale, lì le acque territoriali giapponesi si estendono soltanto per poco più di cinque chilometri, un’eccezione che serviva nel Dopoguerra a far transitare le navi da guerra americane. Pechino e Mosca hanno sfruttato una norma favorevole all’America per mandare un messaggio al Giappone e ai suoi alleati più stretti: anche noi siamo qui. Annuncio pubblicitario

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXIV 22 novembre 2021

29

azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

Sulla pelle dei più deboli L’analisi

La vecchia storia della strumentalizzazione delle vite dei migranti

La settimana scorsa l’Ue ha concordato nuove sanzioni – le quinte – contro la Bielorussia, misure che prendono di mira le istituzioni e gli individui ritenuti coinvolti nei processi che hanno facilitato l’arrivo di migliaia di persone ammassate da settimane lungo il confine con la Polonia, nonostante le temperature rigide dell’Europa orientale (vedi foto). La decisione di applicare una nuova lista di sanzioni al regime di Alexander Lukashenko è la risposta dell’Europa a quello che è stato definito dai più alti vertici dell’Ue come un «attacco ibrido» sulla pelle dei migranti, cioè un modo di minacciare la stabilità europea aiutando persone provenienti dal Medio Oriente a raggiungere la Polonia e dunque l’Europa volando su Minsk. Ecco perché le sanzioni saranno dirette a «persone, compagnie aeree, agenzie di viaggio» e in generale a tutti coloro che risultino coinvolti nella spinta illegale verso i confini europei, come sottolineato dal capo della politica estera Ue Joseph Borrell, che ha chiosato sulla decisione dei  ministri degli Esteri affermando che l’Ue è determinata «a resistere alla strumentalizzazione dei migranti per scopi politici». La storia della strumentalizzazione delle vite dei migranti parte da lontano ed è una lezione che non è stata imparata. Guardiamo al recente passato, cioè al , anno della grande migrazione attraverso quella che allora fu battezzata la rotta balcanica e che esasperò, in Europa, la politicizzazione del fenomeno migratorio. Nel  la rotta del Mediterraneo orientale tra la Turchia e la Grecia registrò il numero record di quasi  mila persone in movimento verso l’Ue. Nella maggior parte dei casi si trattava di rifugiati siriani in fuga dalla guerra, poi afgani e somali. Arrivati in Grecia questi proseguivano il loro viaggio verso la Macedonia e i Balcani occidentali. L’Europa, terrorizzata, rispose a quell’emergenza tornando a costruire muri, bloccando le frontiere e chiedendosi come fare ad arginare l’arrivo di tanti disperati. La soluzione allora arrivò dalla stessa Turchia che si propose per trattenere e rimpatriare i migranti che cercavano di entrare in Europa in cambio di sei miliardi di euro. L’Europa acconsentì. Il risultato fu un calo netto e radicale del numero di arrivi irregolari nel Vecchio continente,

Il profilo

Chi è Javier Milei di Libertad Avanza

Angela Nocioni

Shutterstock

Francesca Mannocchi

Il Trump argentino

seguito dalla costruzione tre hotspot sulle isole greche di Samos, Ios e Lesbos, nel Mar Egeo, dove i migranti aspettano che venga valutata la loro richiesta di assistenza e protezione umanitaria. Se la domanda viene rifiutata, vengono riportati in Turchia. In conseguenza dell’attuazione dell’accordo, nel  l’arrivo delle persone in Europa attraverso il Mediterraneo orientale, lungo quindi la rotta balcanica, subì un calo del % secondo i dati dell’Onu. Il patto Europa-Turchia funzionava. Ma ebbe costi altissimi: uno economico,  miliardi di euro versati dall’Europa alla Turchia, uno umanitario, migliaia di persone bloccate per mesi negli hotspot in condizioni disperate. Infine uno diplomatico: l’accordo con la Turchia, infatti, ha rappresentato la pietra angolare di tutti gli accordi successivi con Paesi a cui l’Europa ha subappaltato la protezione dei propri confini. Denaro a Governi autoritari in cambio dell’esternalizzazione delle frontiere. Paesi governati da regimi poco democratici – Turchia e Libia, per citare gli esempi più recenti – che finiscono per usare i migranti come il fronte di una nuova guerra che si combatte sui corpi di chi scappa da conflitti e miseria.

La Turchia si propose per trattenere e rimpatriare i migranti che cercavano di entrare in Europa in cambio di sei miliardi di euro Lo stesso accade oggi al confine tra Bielorussia e Polonia. E anche qui la storia parte da più lontano, dalle elezioni presidenziali del  in Bielorussia, di cui Lukashenko si è intestato la vittoria nonostante le denunce di brogli. Dopo le proteste degli elettori il regime ha risposto brutalmente, con una drastica repressione del dissenso e un’ondata di arresti che non cessa di spaventare. La politica repressiva di Lukashenko ha costretto alla fuga una moltitudine di attivisti e l’Europa ha con fermezza rivendicato il rispetto dei diritti civili. Lukashenko ha risposto provocando: prima dirottando un aereo che trasportava cittadini europei, ora usando la migrazione come arma per esercitare pressioni diplomatiche. Sono aumentati i voli dal Medio Oriente alla Bielorussia con l’ausilio di compagnie turistiche

che preparavano pacchetti speciali diretti al confine polacco e lituano. Lukashenko ha «armato» un fenomeno drammatico, quello della fuga dai conflitti, progettando un percorso migratorio finora inedito, garantendo a molti l’arrivo a Minsk via aereo senza necessità di un visto e agevolando il loro cammino verso il confine polacco. Lukashenko vuole provocare l’Europa sul suo nervo più scoperto: i diritti umani, i diritti civili, la tradizione su cui l’Europa si fonda. Una guerra esterna e interna, perché la mossa bielorussa rappresenta anche una frattura nella frattura, quella dei difficili rapporti tra la Polonia – Paese verso cui mirano i migranti – e il resto degli Stati membri. Lukashenko vuole il riconoscimento dei Governi del Vecchio continente, vuole che i Governi europei considerino la sua elezione legittima, e non si fa scrupoli nell’usare le vite migranti e nell’approfittare di una debolezza tutta interna all’Europa che precede questa crisi. Sullo sfondo, infatti, c’è l’intensificarsi della battaglia di Varsavia con le istituzioni dell’Ue sullo stato di diritto. La Polonia fu uno dei pochi Paesi europei a rifiutarsi di accogliere i migranti durante l’emergenza del  e da allora ha sempre rifiutato le quote di ricollocamenti di rifugiati che le sono state assegnate. Oggi, in piena crisi sul confine bielorusso, Varsavia, che ha stanziato i suoi soldati al confine, per uscire dall’emergenza dovrebbe chiedere aiuto a Frontex, l’agenzia di frontiera Ue, ma farlo significherebbe indebolire le posizioni contro l’immigrazione del Governo di Varsavia. Dunque, un cul de sac tutto interno all’Europa che Lukashenko è riuscito mettere in luce. Mentre si combatte la guerra diplomatica sulla pelle dei più deboli, i flussi migratori sono già cambiati: da agosto gli arrivi nella sola Germania attraverso la Bielorussia sono più che quadruplicati. L’Europa ora è in un vicolo cieco dal quale deve uscire con saggezza, dimostrando che non può tollerare l’uso strumentale delle vite dei vulnerabili, e che non delegherà a Lukashenko il controllo delle frontiere, come ha fatto in passato (e continua a fare) con Turchia e Libia. L’Europa non può e non deve cedere ai ricatti, né quelli esterni né quelli interni, ne va dei valori europei e del futuro delle vite in cammino.

Per la prima volta dalla fine della dittatura () l’estrema destra dichiarata entra nel Congresso argentino, con tre scranni. Non che siano mai mancati gli estremisti di destra a Buenos Aires, dentro e fuori dal Parlamento. Anzi. Il Paese è molto polarizzato e per una buona metà schierato a destra. Finora, però, anche i candidati nostalgici della giunta militare al momento di presentarsi alle elezioni hanno di solito evitato di sbandierare l’estremismo di appartenenza per timore di perdere consenso tra i moderati, si sono limitati a strizzare l’occhio con discrezione ai vecchi camerati. Questa volta no. Nelle elezioni del  novembre, nelle quali si è rinnovata la metà della Camera dei deputati e un terzo del Senato, c’è stato l’exploit di Libertad avanza, sigla promossa da Javier Milei,  anni, tentativo australe di imitazione di Trump (o Bolsonaro), con meno soldi e un ciuffo scuro che giura di far pettinare «dalla mano invisibile del vento a finestrini aperti» mentre guida.

Nel voto del 14 novembre Libertad avanza ha ottenuto il 17 per cento delle preferenze nella capitale Buenos Aires Milei si presenta come un aggressivo messia, un anti-sistema dalle frasi brevi, buone per i titoli ad effetto dei telegiornali: «le zecche di sinistra abbiano paura», «libertà, armi e proprietà privata», «le tasse sono per gli schiavi». Con questi slogan, un seguito di under  e una candidata in lista subito dietro di lui, Victoria Villaruel, la quale nega che in Argentina sia esistito il terrorismo di Stato (considera pertanto illegittime le condanne giudiziarie pronunciate dai tribunali contro mille militari per i reati di lesa umanità) ha ottenuto un  per cento dei voti a Buenos Aires. Ora bisognerà vedere cosa saprà farci con tre soli eletti in un Congresso di  scranni, se affogherà o saprà trincerarsi per costruirsi una rendita politica buona per le prossime politiche. Fatto sta che è entrato in Parlamento. Ed è entrato in una tornata elettorale nella quale il Governo peronista ha perso per la prima volta il controllo del Senato e l’opposizione di centrodestra ha guadagnato terreno sì, ma senza stravincere. «Non votate la destra classica, si tratta di socialisti mascherati», dice Milei. «Non vi fidate della destra, è

serva del sindacato. Votate me che sono per la potenza argentina». La sua irruzione nella scena politica non è solo simbolica perché può servire da amplificatore dell’estremismo in un Paese in cui gli indicatori più bassi della povertà, quelli governativi (Indec), danno il % della popolazione sotto la soglia dell’indigenza. Le stime della Chiesa cattolica parlano di una percentuale intorno al %. La particolarità argentina è che nel momento in cui il resto del Continente latinoamericano registra una frammentazione estrema del voto (un’ondata di eletti sconosciuti in liste indipendenti nell’Assemblea costituente cilena, uno sconosciuto maestro rurale diventato presidente del Perù sono gli ultimi due casi), a Buenos Aires invece la protesta viene quasi completamente assorbita dai due grandi schieramenti: peronista da un lato e di centrodestra dall’altro. Con l’inflazione che cresce del % all’anno e la povertà in aumento però, la forza agglomeratrice del peronismo, la Chiesa e soprattutto il sindacato – i tre grandi argini locali alla deflagrazione del sistema politico – potrebbero non funzionare in eterno contro l’esplosione della protesta. Un sintomo di tutto ciò può essere proprio la frenata peronista. Il peronismo ha storicamente contenuto in sé e saputo assorbire vari estremismi, anche opposti, togliendo ossigeno agli outsider possibili. Un suo momento di flessione potrebbe servire per offrire a personaggi come Javier Milei un’opportunità. È di certo presto per lui per cantar vittoria. La caratteristica fondamentale del peronismo è da sempre la capacità di trasformarsi e risorgere. Ma un decennio di kirchnerismo ha spostato nella percezione popolare il cuore identitario del peronismo verso un radicalismo di sinistra – si tratta di illusione ottica, ma la percezione è questa – e uno spazio a destra s’è aperto. Milei ha oggi la possibilità di occuparlo. Per questo quando parla della destra riunita attorno all’ex presidente liberista Mauricio Macri – l’imprenditore ex presidente del Boca juniors che caldi benvenuti ricevette a Davos e a Washington – lo definisce «il kirchnerismo delle buone maniere» o «il populismo cool». E quando nelle interviste tentano di metterlo in difficoltà rispetto al suo elettorato di giovanissimi con domande sulle politiche contro la droga lui risponde: «Sono per liberalizzare, per me se ti vuoi suicidare non c’è problema». «Non votate la destra classica, si tratta di socialisti mascherati», dice Javier Milei. (Shutterstock)


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Anno LXXXIV 22 novembre 2021

31

azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

Svizzera-Ue, ancora nessuna strategia

Diplomazia

L’unico risultato dell’incontro tra Cassis e il vicepresidente della Commissione europea è la promessa di rivedersi

Marzio Rigonalli

È stato compiuto un piccolo passo, ma la strada rimane lunga e insidiosa. L’incontro avvenuto a Bruxelles tra il ministro degli Esteri elvetico Ignazio Cassis e il vicepresidente della Commissione europea Maros Sefcovic ha segnato la riapertura del dialogo bilaterale, che era stato interrotto lo scorso  maggio, dopo la decisione del Consiglio federale di interrompere il negoziato sull’accordo istituzionale. Ma al di là del riavvio dei contatti ad alto livello diplomatico, quali sono i risultati concreti emersi dall’incontro? Sono risultati molto fragili e in realtà riconducibili ad uno solo: l’impegno di rivedersi a metà gennaio, a Davos, durante il Forum economico mondiale, per fare un primo bilancio del dialogo politico richiesto dalla Svizzera e dei risultati che si otterranno nei prossimi due mesi.

Ignazio Cassis si è presentato a Bruxelles sperando di trovare una certa comprensione per la posizione elvetica. (Shutterstock)

L’Ue chiede alla Svizzera di manifestare la sua volontà politica di risolvere i problemi strutturali che ostacolano la via bilaterale Sefcovic ha espresso chiaramente la posizione della Commissione europea. L’Ue chiede alla Svizzera di manifestare la sua volontà politica di risolvere i problemi strutturali che ostacolano la via bilaterale, come l’adozione del diritto comunitario o la risoluzione delle controversie, nonché un regolare contributo finanziario alla politica di coesione dell’Unione. Un contributo nel quale Bruxelles vede una sorta di dazio che la Svizzera deve pagare per poter far parte del mercato unico europeo. Il tutto seguendo una tabella di marcia realistica, ossia entro tempi ragionevoli, senza rinviare la discussione a dopo le elezioni federali del , come alcune voci avrebbero già ipotizzato in Svizzera.

Cassis si è presentato a Bruxelles sperando di trovare una certa comprensione per la posizione elvetica. Ha portato con sé due elementi concreti, due segnali che testimoniano la buona volontà della Svizzera. Il primo è il miliardo di coesione che il Parlamento federale ha liberato alla fine di settembre. Sono soldi destinati principalmente a finanziare progetti d’investimento nei Paesi più poveri dell’Unione. Il secondo è la decisione presa dal Consiglio federale nel corso del mese di ottobre, di estendere la libera circolazione completa ai cittadini croati a partire dal primo gennaio . I due segnali non

sembrano però aver impressionato la Commissione europea e non hanno mosso niente in quei settori dove la Svizzera ha molti interessi in gioco. Per esempio nella ricerca: la Svizzera chiede di essere associata a Horizon Europe, il programma di ricerca di  miliardi di euro, spalmati su sette anni, importante per la ricerca elvetica e per la forza di attrazione dei nostri atenei. Oppure nel settore della formazione, con il programma di mobilità studentesca Erasmus, al quale la Svizzera, per ovvie ragioni, vorrebbe partecipare. Oppure ancora nel settore dell’elettricità, tornato in primo piano con i problemi energetici sorti

negli ultimi tempi, un settore nel quale la Svizzera avrebbe molto interesse a concludere un accordo con l’Unione europea. Il vicepresidente della Commissione ha lasciato intendere che le soluzioni a questi problemi potranno essere prese in considerazione soltanto quando saranno stati compiuti progressi nella ricerca di un accordo sui problemi strutturali. Oltre alla carenza di risultati concreti, ha colpito anche l’atmosfera tiepida, per non dire fredda, che ha caratterizzato l’incontro bilaterale. Di solito simili incontri si concludono con una conferenza stampa comune. Questa volta non è stato così: Cassis

e Sefcovic si sono rivolti ai giornalisti separatamente. Ciò dimostra che la ferita causata a Bruxelles dalla decisione del Consiglio federale di rinunciare al progetto di accordo istituzionale, e dal modo in cui questa rinuncia è avvenuta, non si è ancora rimarginata. Una ferita che ha portato i dirigenti dell’Unione europea a diffidare delle autorità elvetiche e a attendere da loro iniziative concrete prima di riallacciare una qualsiasi trattativa. Il Consiglio federale ha ora a disposizione due mesi per preparare alcune proposte. Quali? È difficile fare previsioni. In un discorso tenuto lo scorso primo agosto l’ex consigliera federale Doris Leuthard ha dichiarato: «Si possono interrompere i negoziati ma soltanto quando si sa come si continuerà». La frase confermò allora quanto già si sapeva, ossia l’assenza di una vera strategia da parte del Consiglio federale. Oggi la situazione non è cambiata. Per questo numerose sono le proposte sorte dal mondo politico e dalla società civile negli ultimi mesi. Dalla ricerca di accordi separati nei singoli settori a un accordo bilaterale III, dall’adesione allo Spazio economico europeo all’adesione all’Ue, al lancio di un’iniziativa costituzionale per costringere il Consiglio federale a trovare un compromesso con l’Unione. Sono singole proposte che insieme, però, non costituiscono una strategia. La via bilaterale ha portato molti vantaggi alla nostra economia e al nostro Paese. È la via che molti difendono e che vorrebbero proseguire per caratterizzare i nostri rapporti con l’Ue. L’obiettivo, però, può essere raggiunto soltanto se si accetterà di fare le concessioni necessarie per raggiungere un compromesso accettabile dalle due parti, e se si riuscirà rapidamente a costituire un fronte interno compatto e maggioritario.

Il richiamo per tutti? L’economia ringrazia Coronavirus

Per la terza dose di vaccino è bene essere rapidi, anche per il consolidamento delle prospettive di crescita

Edoardo Beretta

Per comprendere gli effetti economici infausti che la pandemia continua a dispiegare a livello globale nel periodo -, non vi è un unico indicatore, sebbene il crollo del Pil medio su base mondiale nel  (–,% ) sia più che emblematico. Il punto di partenza deve essere un altro: la crisi del  così come la prospettiva di ripresa economica nel periodo - dipendono da un fattore non economico quale la pandemia. Evidentemente, ciò è in contrasto con la crisi economico-finanziaria globale (-) contrassegnatasi nel  da un decremento del Pil medio su base mondiale pari a –,%: nemmeno la crisi fra il  e  caratterizzatasi per stagflazione (cioè la contemporanea presenza di rialzi dei prezzi al consumo e tendenze recessive oltre che crescente disoccupazione) riuscì a far meglio di –,% nel . Pertanto le attuali caratteristiche (non economiche) pongono un problema di gestibilità per policy pubbliche in quanto iniezioni di liquidità e provvedimenti fiscali espansivi risultano essere poco efficaci nel contrastare la crisi economica causata

Previsioni di (de)crescita del PIL mondiale (2020-2021) del Fondo Monetario Internazionale a seconda del mese/anno di rilevazione2 01/2020

04/2020

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10/2021

2020 2021 2020 2021 2020 2021 2020 2021 2020 2021 Mondo

+3,3 +3,4 –3,0 +5,8 –4,4 +5,2 –3,5 +5,5 –3,1 +5,9

Paesi avanzati

+1,6 +1,6 –6,1 +4,5 –5,8 +3,9 –4,9 +4,3 –4,5 +5,2

Paesi +4,4 +4,6 –1,0 +6,6 –3,3 +6,0 –2,4 +6,3 –2,1 +6,4 emergenti ed in via di sviluppo

dal Coronavirus rispetto a quanto sarebbe stato per cause bancario-finanziarie. L’aspetto positivo è che (superata la pandemia) i margini di recupero risultino strutturalmente meno compromessi rispetto al periodo successivo alla crisi dei mutui subprime (-), da cui il sistema economico-finanziario globale uscì profondamente e durevolmente segnato. Ne deriva una conclusione semplice ma fondamentale: se la pandemia è la causa della crisi eco-

nomica, lo strumento di contrasto è altrettanto non a carattere economico ed è rappresentato dai vaccini contro il Covid-. Si sarebbe potuto fare meglio − in Svizzera così come altre Nazioni occidentali − per percentuali di vaccinati? Decisamente, sì. Ancor più, trattandosi di società avanzate, da cui ci si sarebbe aspettati una più convinta consapevolezza del privilegio di disporre di vaccini ad alta efficacia e sicurezza sebbene sviluppati

e commercializzati in tempi da record e avervi accesso gratuitamente con tempistiche ragionevoli. Nel contempo sono molti gli Stati che hanno fatto o fanno scarso uso del certificato Covid, cioè di uno strumento di convincimento − beninteso, temporaneo, eccezionale e per tempi altrettanto fuori del comune − laddove non sia prevista l’obbligatorietà della vaccinazione. Allo stesso modo, le tempistiche con cui sono si sono aperte le somministrazioni delle prime e seconde dosi per la popolazione in generale hanno concorso a far trovare il Vecchio continente scarsamente preparato all’autunno senza avere sfruttato appieno i mesi estivi per accelerare e convincere milioni di reticenti. Il «combinato disposto» di quanto sopra insieme ad un virus che si diffonde senza sosta si riflette, quindi, in tassi di vaccinazione non ancora sufficienti, somministrazioni stagnanti di prime dosi, ripresa dei contagi e rinnovati rischi di crisi economica. È altresì sufficiente osservare le previsioni di (de)crescita del Pil mondiale per il periodo - per rendersi conto che − oltre a rap-

presentare un precario equilibrio − esse hanno subito una correzione al rialzo agli inizi del  (cfr. colonne evidenziate in tabella), cioè in concomitanza dell’approvazione dei primi vaccini, mentre un «tonfo» nel mese di ottobre  quando l’Europa tornava in lockdown. L’apertura della dose di richiamo «per tutti» − la Svizzera ha annunciato di prevederla  presto in linea con i risultati scientifici nei Paesi in cui già si somministra, rinunciando così a complicate suddivisioni in categorie che hanno caratterizzato il ciclo vaccinale di base − va nella direzione giusta, anche per il consolidamento delle prospettive di crescita, da cui dipende in ultima istanza il benessere collettivo. Note 1. https://data.worldbank.org/ indicator/NY.GDP.MKTP.KD.ZG 2. Elaborazione propria di: https://www.imf.org/ en/Publications/WEO 3. https://www.cdt.ch/ svizzera/la-dose-di-richiamosara-presto-aperta-a-tuttiBJ4865157?_sid=4zKbkP9J


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Anno LXXXIV 22 novembre 2021

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ATTUALITÀ

Se l’Onu si inginocchia davanti al Dragone

Il caso

Licenziata dopo aver denunciato la pratica del Consiglio per i diritti umani di suggerire il nome dei dissidenti alla Cina

Francesca Marino

«La cosa che più mi sconvolge è che, dopo tutti questi anni, sono rimasta l’unica a denunciare i metodi adoperati dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite (Unhrc). Mi addolora che le persone facciano affidamento sull’Onu, mentre le Nazioni unite forniscono alla Cina nomi e identità di dissidenti e attivisti». A parlare è Emma Reilly, avvocata per i diritti umani che ha lavorato fino a poco tempo fa per l’Unhrc a Ginevra. Fino a poco tempo fa perchè Reilly è stata licenziata dopo che il quotidiano francese «Le Monde» ha pubblicato un articolo su di lei e dopo essere apparsa su un canale televisivo inglese. La storia di Emma Reilly è, francamente, scioccante. Assunta nel  dal Consiglio per i diritti umani dell’Onu, dopo poco più di un anno riceve la mail di un diplomatico cinese con sede a Ginevra in cui si sollecita il «favore» di confermare nomi e identità dei «separatisti cinesi anti-governativi» che avrebbero partecipato al Consiglio di marzo della Commissione. La pratica, espressamente vietata dal regolamento delle Nazioni unite, è chiaramente lesiva dei diritti degli individui ed espone i dissidenti, un certo numero dei quali è attualmente cittadino di Paesi europei, a ritorsioni e minacce nei loro confronti e delle loro famiglie rimaste in patria. E tuttavia il diretto superiore dell’avvocata Reilly, Eric Tistou-

net, non si dimostra affatto sorpreso. Anzi. Impartisce direttive al suo staff perché i nomi in questione siano condivisi con i diplomatici cinesi per «non esacerbare la sfiducia della Cina nei nostri confronti». Effettuando un controllo sulla passata corrispondenza, Reilly scopre che il «favore» richiesto dal diplomatico cinese è in realtà un fatto di routine. Seguendo quanto prescritto dal regolamento interno dello staff Onu, Reilly stila un rapporto denunciando a chi di dovere i fatti di cui era venuta a conoscenza. Ma nulla è cambiato. Anzi. Anche se, le stesse Nazioni unite hanno confermato due volte, nel  e poi nel , la veridicità delle accuse di Reilly. All’inizio Emma è stata riconosciuta come «whistleblower», uno status per il quale le Nazioni unite prevedono speciali protezioni. E, in una lettera del , il capo di gabinetto del segretario generale Antonio Guterres, Maria Luiza Ribeiro Viotti, esortava a «risolvere informalmente» questa controversia, a cercare «mediazione» con Emma Reilly e «trovarle una collocazione appropriata il più rapidamente possibile». Niente di tutto ciò è stato fatto. Reilly ha continuato a percepire uno stipendio ma non le è stata più attribuita, di fatto, alcuna mansione. Una specie di raffinato mobbing, che pone la persona che lo subisce in una situazione altamente logorante.

Dopo l’intervista a «Le Monde», Reilly è stata licenziata con il pretesto formale di aver violato le direttive impartitele dai suoi datori di lavoro: non parlare con la stampa o a mezzo social media. E, secondo Reilly, si tratta in ultima analisi di una scusa migliore di quella adoperata in genere per licenziare le persone che denunciano, i cosiddetti «whistleblower»: accuse di cattiva condotta sessuale per gli uomini e di essere mentalmente instabili per le donne. La cosa peggiore di tutta questa storia è che il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite, istituito per proteggere i diritti fondamentali degli individui, si pieghi a minacce e lusinghe della Cina. Non c’è nulla di strano difatti che Pechino cerchi di coprire il genocidio degli uighuri, il genocidio culturale dei tibetani o le minacce, le violenze e l’uccisione di dissidenti e attivisti. Che però l’Unhrc permetta alla Cina, come ha fatto nel marzo del , di installare nei corridoi del Palazzo delle Nazioni una spregevole mostra fotografica in cui si vedono uighuri patriottici e felici mentre fuori dal Palazzo e nelle stanze interne gli attivisti denunciano torture e campi di concentramento, è francamente desolante. Da qualche anno ormai Pechino sta cercando di riscrivere, a proprio beneficio, la definizione di diritti umani cancellando dai parametri di valutazione la libertà di espressione

La sala del Consiglio per i diritti umani dell’Onu. (Shutterstock)

a favore dello sviluppo economico. Il che copre, a guardare da vicino, tutte le violazioni dei diritti umani che potrebbero essere eccepite lungo la Belt and road initiative. In soldoni: va bene il genocidio dei beluci lungo il China Pakistan economic corridor, va bene il genocidio degli uighuri se sono compiuti in nome dell’aumento del reddito pro-capite. Molti funzionari dell’Onu e molti funzionari dell’Ue a Bruxelles dichiarano, in privato, di aver subito pressioni cinesi, pressioni che rasentano a volte il ricatto. Ma una cosa è essere «pragmatici» come

sostengono e fare piccole concessioni. Una cosa è, come sta accadendo nel caso di Reilly, cercare di insabbiare una pratica sanzionata dalle stesse Nazioni unite e ridurre l’Unhrc a un patetico fantoccio. Le Nazioni unite dichiarano che questa consuetudine è stata interrotta, ma non forniscono alcuna prova. Reilly ha fornito prove delle sue denunce e domanda un’indagine indipendente. Un’indagine assolutamente necessaria, se il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite vuole conservare uno straccio di reputazione. Annuncio pubblicitario

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Il settore infermieristico va potenziato

Al voto il 28 novembre ◆ I fautori di «Per cure infermieristiche forti» chiedono una rivalorizzazione del ruolo del personale curante per sostenere un settore in crisi da tempo e che la pandemia ha ulteriormente messo in difficoltà Alessandro Carli

Spinti dal coronavirus, i cittadini potrebbero sostenere l’iniziativa «Per cure infermieristiche forti», in votazione il  novembre prossimo. Il testo invita la Confederazione a emanare disposizioni concernenti il miglioramento delle condizioni di lavoro, la rimunerazione, lo sviluppo professionale e la fatturazione nel settore infermieristico. A poche settimane dalla votazione, proprio in segno di gratitudine per l’abnegazione e il grande lavoro svolto durante la pandemia, l’iniziativa è sostenuta dai tre quarti della popolazione.

sempre sufficiente di infermieri, impiegati a condizioni corrette, per una buona qualità delle cure. Un numero adeguato di infermieri diplomati consente di ridurre il rischio di complicazioni e di decesso dei pazienti.

Anche il controprogetto indiretto offre agli infermieri la possibilità di fatturare determinate prestazioni, senza ricetta medica, direttamente a carico dell’assicurazione obbligatoria delle cure medico sanitarie. Per i suoi sostenitori, «chi dice no all’iniziativa, non dice no al rafforzamento del settore infermieristico». Il controprogetto obbliga infatti le istituzioni sanitarie a formare personale. Gli studenti in formazione otterranno sussidi più importanti. Come detto, nella campagna di formazione, Confederazione e cantoni dovrebbero iniettare quasi un miliardo di franchi. Per il ministro della sanità Alain Berset, ciò «costituisce una vera offensiva in questo settore». Gli avversari dell’iniziativa sottolineano che, per rispondere alle necessità urgenti, il controprogetto è la soluzione migliore, dato che potrà entrare in vigore più rapidamente. Per i sostenitori, invece, il controprogetto si concentra sugli investimenti nella formazione, ma dimentica le misure per evitare che gli infermieri cambino rapidamente professione. L’assistenza sanitaria in Svizzera è fornita anche dal contributo importante degli infermieri provenienti dall’estero. Perciò, attraverso un miglioramento della formazione e del profilo professionale del personale curante, la Confederazione deve mettere a disposizione un numero sufficiente di infermieri formati nel nostro paese. Tutti riconoscono l’urgenza di intervenire. L’iniziativa, anche se richiede più tempo per il raggiungimento dei propri obiettivi, suscita molte simpatie, già per gli indiscussi meriti che infermiere e infermieri hanno raccolto in questi difficili tempi di coronavirus.

ha durevolmente perso la capacità di esercitare le funzioni. Gli oppositori a questo cambiamento ritengono invece che il sistema in vigore sia valido e cristallino. L’elezione dei giudici da parte dell’Assemblea federale dà una «legittimità democratica al Tribunale federale». Il parlamento prende in considerazione la forza elettorale dei partiti, rappresentati al Tribunale federale in modo equilibrato. Diversamente dal sorteggio, tiene conto anche di criteri supplementari quali il genere, l’età o la regione d’origine. L’estrazione a sorte per la designazione dei giudici del Tribunale federale è sconosciuta sia a livello federale che cantonale. La ministra della giustizia Karin Keller-Sutter ricorda che in Svizzera, tutte le autorità sono scelte dal popolo o dal parlamento. La sorte non sceglie sempre le persone più competenti, ma quelle che hanno fortuna, ricordano gli avversari dell’iniziativa. Il testo dell’iniziativa resta vago su certi aspetti, come la questione della rappresentanza dei sessi. Inoltre, l’Assemblea federale continuerebbe a eleggere i giudici del Tribunale amministrativo federale, del Tribunale penale federale e del Tribunale federale dei brevetti. Non sarebbe il caso allora di affidare anche queste procedure alla «dea bendata»? Una buona fetta dell’elettorato, almeno stando ai sondaggi, è ancora in-

decisa sul da farsi. Ci si chiede se il sorteggio di candidati scelti da esperti potrebbe davvero migliorare la situazione. In caso di poco probabile successo dell’iniziativa, la sua applicazione potrebbe anche rivelarsi complicata, a causa del suo testo impreciso. Per esempio, non si sa quante persone al minimo dovrebbero far parte del gruppo di candidati, selezionati dalla commissione di esperti del Consiglio federale. In caso di numero ridotto di candidati, la commissione di esperti potrebbe trasformarsi essa stessa in un’istanza di selezione, ha dichiarato all’agenzia Keystone-ATS, Antoine Chollet, professore all’Istituto di studi politici dell’Università di Losanna. Egli ha precisato che, a sua conoscenza, non vi è alcun grande paese e alcuna democrazia occidentale che conoscono un sistema di estrazione a sorte per la designazione dei membri del potere giudiziario. In Svizzera, il sorteggio esiste, a livello federale e in certi cantoni, soltanto in caso di spareggio tra candidati che hanno ottenuto lo stesso numero di voti. È stato il caso in Ticino, nel , quando Marco Romano (allora PPD, ora Alleanza del centro) poté accedere al Consiglio nazionale con l’estrazione a sorte, a scapito della candidata dello stesso partito Monica Duca Widmer, che aveva ottenuto gli stessi ’ suffragi. Ma questo è un altro discorso. /AC

La simpatia di cui godono i sanitari in tempo di pandemia sembra far pendere l’ago della bilancia verso un successo dell’iniziativa. (Keystone)

Consiglio Federale e Parlamento propongono un controprogetto che entrerebbe in vigore più velocemente Anche nel caso di una sua bocciatura, la professione verrebbe comunque rivalorizzata. Per rafforzare rapidamente il settore infermieristico, Consiglio federale e Parlamento hanno infatti elaborato un controprogetto indiretto che riprende le richieste essenziali dei fautori dell’iniziativa. Per quest’ultimi, il controprogetto è però insufficiente, sebbene preveda che Confederazione e cantoni stanzino circa un miliardo di franchi, nei prossimi  anni, allo scopo di creare posti di formazione per gli infermieri, urgentemente necessari, dando loro un sostegno finanziario. Se l’iniziativa fosse respinta, il controprogetto entrerebbe in vigore. Nel caso contrario, il controprogetto sarà accantonato e si dovrà elaborare una nuova legge d’applicazione, con conseguenti ritardi. La qualità delle cure in Svizzera è a rischio. Attualmente, ’ posti di lavoro nelle cure infermieristiche non sono occupati. Stando al comitato «sì alle cure infermieristiche»,  infermieri su  abbandonano prematuramente la professione. Un terzo lo fa dopo la fine della formazione, ossia tra i  e i  anni. Sono troppi coloro che, esausti, lasciano il settore. Dall’inizio della pandemia, il % del personale ha rassegnato le dimissioni, secondo la presidente dell’Associazione svizzera degli infermieri, Sophie Ley. La penuria di personale nel settore sanitario non è di oggi e l’iniziativa per rafforzare le cure infermieristiche è stata depositata già nel . La pandemia ha poi puntato i riflettori sulla difficile situazione del personale curante, che ha raccolto lodi unanimi. Il Covid- ha messo in luce il malessere degli addetti alle cure, i problemi d’orario, nonché il fatto di poter conciliare vita familiare e professionale. La mancanza di personale incide negativamente sulla qualità delle cure, proprio quando i bisogni si moltiplicano: la popolazione invecchia, con crescente necessità di cure, mentre le malattie croniche sono in costante aumento. Questa situazione preoccupa il settore infermieristico. Per invertire la rotta, secondo i fautori dell’iniziativa occorre una rivalorizzazione delle condizioni di lavoro del personale curante. Con più posti di formazione e migliori salari durante il periodo di formazione, è possibile aumentare il numero di nuovi iscritti alla professione. Per gli oppositori all’iniziativa, non spetta alla Confederazione fissare i salari. La politica salariale è di competenza dei cantoni, delle impre-

se e dei partner sociali. Per il comitato degli oppositori (PLR, UDC e il Centro), l’iniziativa è un «veleno per il nostro sistema». «Se si accettano le rivendicazioni degli infermieri – si chiedono gli oppositori – perché non

lo si fa anche per tutte le professioni che si sentono troppo poco pagate?». Come l’iniziativa, pure il controprogetto indiretto propone un’offensiva sul fronte della formazione, onde garantire in tutti i reparti un numero

Giustizia federale affidata alla sorte? Per garantirne l’indipendenza, i giudici del Tribunale federale dovrebbero essere designati mediante sorteggio e non più eletti dal parlamento. È quanto chiede l’iniziativa sulla giustizia, in votazione il  novembre prossimo. Si tratta di una proposta respinta da tutti i grandi partiti, dal governo e da praticamente l’unanimità del parlamento, dato che una procedura del genere è «azzardata» e indebolisce la legittimità dei magistrati. Anche secondo i sondaggi, l’iniziativa non avrebbe possibilità di successo, sebbene il sistema attuale – sostengono i fautori dell’iniziativa – politicizzi l’amministrazione della giustizia. È in gioco l’indipendenza della magistratura svizzera. L’iniziativa popolare «Per la designazione dei giudici federali mediante sorteggio» è stata lanciata da un comitato di cittadini che fanno capo all’imprenditore turgoviese Adrian Gasser, uno dei più facoltosi uomini d’affari in Svizzera, che ha già avuto modo di confrontarsi con il sistema giudiziario elvetico. Il progetto vuole sconvolgere il sistema che prevede l’elezione, ogni sei anni, dei giudici federali da parte del parlamento. Ora, il mandato di giudice federale può essere rinnovato fino a  anni. Per accedere a questa carica, i candidati devono essere affiliati a un partito. Sono proposti all’Assemblea federale dalla commissione giudiziaria che fa in modo di garantire l’equilibrio tra le diverse forze politiche, le lingue e i

generi. Per i promotori dell’iniziativa questa procedura di elezione mina l’indipendenza dei giudici, tanto che Gasser accusa il parlamento svizzero di «clientelismo». Per loro, l’attuale sistema di elezione – che secondo il Consiglio federale si è dimostrato valido – compromette la separazione dei poteri. Un candidato senza partito, anche se altamente qualificato, non ha alcuna possibilità di diventare giudice federale. Con l’attuale sistema – sottolineano i sostenitori dell’iniziativa – la minaccia della non rielezione consente ai partiti di ottenere in anticipo l’obbedienza dei giudici e di mantenere la loro influenza sulla giustizia. Perciò, l’iniziativa propone che i candidati a giudice federale, prima di essere designati per sorteggio, siano valutati sulla base delle loro qualifiche da una commissione di esperti, nominata dal Consiglio federale per un mandato non rinnovabile di  anni. I candidati che non sono stati scelti potranno ripresentarsi. Inoltre, le lingue nazionali sarebbero prese in considerazione dalla commissione per preservare la diversità culturale della Svizzera. Il mandato dei giudici del Tribunale federale estratti a sorte cessa cinque anni dopo il raggiungimento dell’età ordinaria di pensionamento. Potranno dunque restare in carica fino a  anni. Su proposta del Governo, l’Assemblea federale può destituire un giudice del Tribunale federale in caso di violazione grave dei suoi doveri d’ufficio o se


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Il franco rafforzato dai cali dell’euro e del dollaro Politica monetaria

Non ha ancora assunto il ruolo di bene rifugio però il suo potere d’acquisto è migliorato sensibilmente

Da qualche settimana il franco svizzero ha subito qualche spinta al rialzo, soprattutto nei confronti dell’euro, ma anche del dollaro, in misura più contenuta. Questi movimenti hanno sorpreso gli esperti del ramo, che faticano a trovare una spiegazione. Spesso le pressioni al rialzo sul franco sono dovute alla ricerca del tradizionale bene rifugio, di solito all’approssimarsi di una crisi. Non è però quanto si sta constatando di questi tempi. Le maggiori economie mondiali stanno uscendo, forse meglio del previsto, dalla pandemia che ha colpito il mondo intero in fasi successive. I molti provvedimenti adottati in questo ambito hanno ottenuto risultati significativi e le previsioni di crescita per questo e per il prossimo anno sono generalmente positive. Qualche difficoltà si sta comunque affacciando, da un lato a causa dell’aumento dei prezzi del petrolio, dall’altro dall’insufficiente fornitura di materie prime e di semilavorati, che rallentano la produzione industriale. In questo contesto si verifica inevitabilmente un aumento dei prezzi, che però – per il momento – non si riflette ancora sui tassi di inflazione dei singoli Paesi. In Svizzera uno degli effetti favorevoli del rialzo del franco è proprio quello di creare un ostacolo all’importazione di inflazione. Anche le variazioni del tasso di

Ti-Press

Ignazio Bonoli

cambio non sono ancora tali da creare forti preoccupazioni. Tuttavia in un mercato molto liquido come quello svizzero si fanno comunque notare. Ma, come detto, anche per gli esperti riesce difficile scoprirne le cause. L’economia non ha problemi difficili da risolvere, la borsa veleggia da tempo sui livelli massimi, le aziende pubblicano buoni risultati trimestrali e la stessa economia mondiale – globalmente – non dà segni di debolezza. La situazione del franco svizzero presenta qualcosa di eccezionale. Infatti, di solito, il franco si rinforza in periodi di crisi (economica o an-

che politica) o in caso di stagnazione dell’economia in generale o in Paesi importanti. C’è comunque chi pensa che la situazione sia passeggera e non al riparo da eventuali turbolenze, soprattutto in Europa. Un fattore però attira gli sguardi del mondo intero sul franco ed è il basso tasso di inflazione in Svizzera, rispetto a molti altri Paesi. Negli ultimi tempi i prezzi sono aumentati in parecchi Paesi in modo superiore a quelli svizzeri. Nel mese di ottobre, in Europa, l’aumento era del ,% e negli Stati uniti del ,%. In Svizzera l’aumento era limitato all’,%. Eu-

ro e dollaro hanno quindi perso potere d’acquisto in misura ben superiore al franco. Il concetto di potere d’acquisto viene spesso utilizzato nei confronti fra le monete delle varie aree valutarie. In sostanza il tasso di cambio riflette quindi le differenze nei tassi di inflazione. La moneta dei Paesi con inflazione alta perde valore, mentre quella dei Paesi con inflazione bassa ne guadagna. L’investitore tiene però conto anche del potere d’acquisto reale. Il tasso di interesse nominale viene infatti ridotto dall’effetto del tasso di inflazione. Anche in questo caso il

franco svizzero gode di una posizione privilegiata. Gli economisti dell’Ubs hanno valutato quale sia stata la perdita del potere d’acquisto dalla fine del  e hanno constatato per l’euro un calo da franchi , a franchi ,. La perdita di potere d’acquisto è quindi inferiore alle quotazioni di mercato del franco (, sull’euro). Quindi anche la rivalutazione del franco è inferiore a quella di mercato. Queste considerazioni potrebbero indurre la Banca nazionale a ridurre il limite di intervento sull’euro, che è attualmente di , franchi. Ma anche queste valutazioni non portano a concludere un rafforzamento del franco, ma piuttosto un indebolimento dell’euro. Cosa che però non preoccupa la Banca centrale europea, che tende ancora a praticare una politica espansiva, con bassi tassi di interesse. Questo limita comunque le possibilità di intervento della Banca nazionale svizzera che deve tollerare un alto tasso di cambio del franco, pur procedendo ad acquisti selettivi di euro. Non ci saranno più acquisti di divise per  miliardi, come l’anno scorso. Cosa che i dati trimestrali dovrebbero confermare. Del resto anche l’industria svizzera d’esportazione è oggi meno preoccupata del tasso di cambio del franco piuttosto che delle difficoltà nella produzione e nella catena di rifornimenti. Annuncio pubblicitario

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TEMPO LIBERO / RUBRICHE ●

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Formazioni e differenze salariali ◆

Un paio di settimane fa il «Corriere del Ticino» ha pubblicato una notizia che deve aver fatto l’effetto di una bomba nelle famiglie ticinesi con figli agli studi. Stando alla stessa infatti, nel corso degli ultimi vent’anni, lo scarto salariale (misurato con il salario medio) tra occupati con formazione universitaria e occupati che hanno seguito solo un tirocinio si è più che dimezzato. Mentre nel  i primi guadagnavano  franchi in più dei secondi, nel  la differenza non era più che di  franchi. Le spiegazioni affrettate di questa evoluzione non mancano. I più la attribuiscono a un fenomeno di mercato. Stando a questa spiegazione l’offerta di lavoro da parte di laureati sarebbe diventata sempre più abbondante, mentre quella da parte di lavoratori con certificato professionale tenderebbe a rarefarsi. Di qui la diversa evoluzione, nel tempo, della media dei salari dei due gruppi. Alcu-

ni commentatori – pochi per la verità – opinano che la riduzione dello scarto tra i due tipi di formazione sia positiva, soprattutto perché potrebbe incentivare, in futuro, la via dell’apprendistato che, in Ticino, è sempre stata trascurata e dai genitori, e dagli allievi che terminavano la scuola dell’obbligo. Altri invece, più in chiave critica, insistono nell’attribuire questa evoluzione alla democratizzazione degli studi, ossia al fatto che l’accesso alle università, oggi, apparentemente è molto meno selettivo di quanto non fosse  e più anni fa. Tutto sommato queste reazioni danno l’impressione che chi le ha emesse sia stato sorpreso dalla notizia e non abbia avuto il tempo di approfondire l’analisi del fenomeno. Lo avesse potuto fare avrebbe di sicuro rilevato come l’aumento della remunerazione di chi ha seguito una formazione professionale, nel corso degli ultimi due decenni sia stato irrilevante. Il salario medio

mensile di questi lavoratori è salito da fr.  nel  a fr. , nel . Il tasso annuale di aumento di questo salario è stato quindi pari allo ,%. Nello stesso periodo di tempo la remunerazione mensile dei lavoratori con laurea è diminuita da fr.  a fr.  il che corrisponde a un tasso annuale di diminuzione dello ,%. La diminuzione dello scarto salariale è quindi stata determinata soprattutto dal calo delle retribuzioni dei lavoratori laureati. Quali potrebbero essere i fattori responsabili del calo? Sicuramente l’aumento del numero dei laureati ha contribuito alla riduzione, ma altrettanto importanti sono state due altre modifiche intervenute negli ultimi decenni. In primo luogo il forte aumento della quota di donne nella popolazione universitaria ticinese. Negli ultimi  anni, ossia dal  al , la quota delle universitarie ticinesi è passata dal ,%, del totale degli studenti, nel

, al % di oggi. Ora le donne, anche se laureate, come impiegate sono normalmente pagate meno degli uomini. L’aumentata quota di laureate ha quindi potuto incidere negativamente sull’evoluzione del salario medio dell’insieme dei laureati. In termini di salario, poi, una laurea non è equivalente a un’altra. Da questo profilo una laurea in medicina, farmacia, economia o diritto, vale senz’altro di più che una laurea in lettere o in scienze sociali o, almeno nel caso del Ticino, in scienze esatte e naturali, o in scienze tecniche. Ora, se è vero che, nel corso degli ultimi  anni, la ripartizione della popolazione universitaria ticinese per grandi gruppi di facoltà è rimasta abbastanza costante è anche vero che le variazioni che si sono manifestate in questa struttura hanno potuto contribuire alla diminuzione del salario mediano dei laureati occupati in Ticino. In particolare la riduzione alla metà

della quota dei laureati in medicina e farmacia, che sono quelli pagati bene, ma anche gli aumenti, varianti tra il  e il % delle quota degli studenti in scienze esatte e di quella degli studenti di lettere e scienze sociali: questo perché questi tre ultimi tipi di lauree non hanno molti sbocchi in Ticino e sono quindi remunerate meno che nel resto della Svizzera. Se le nostre stime sono fondate i due fattori che abbiamo appena ricordato, cioè l’aumento della quota di laureate, e le variazioni nella struttura dei laureati per tipo di laurea, basterebbero a spiegare la totalità della diminuzione del salario mediano dei laureati ticinesi. Se così fosse, la democratizzazione degli studi universitari non porterebbe probabilmente nessuna colpa per la riduzione dei salari dei laureati. Maggiore responsabilità la porterebbero invece ostacoli all’entrata nella professione come il numero chiuso presso i medici.

In&Outlet

di Aldo Cazzullo

Gli innumerevoli grattacapi di Biden ◆

Joe Biden aveva avuto un esordio prodigioso, ma a un anno dalla sua elezione è già in grande difficoltà. All’inizio un po’ tutti abbiamo guardato a Biden come a un vecchio arnese. Un attempato gaffeur, buono per battere un divisivo Trump, non certo per fondare una nuova stagione. Un personaggio di passaggio: per otto anni all’ombra della star Obama, poi magari destinato nel  a cedere il posto a Kamala Harris. Nonostante questo – o forse proprio per questo – Biden aveva avuto un inizio folgorante. Il grande piano di rilancio dell’economia, sia a sostegno delle famiglie povere o impoverite dal Covid, sia per la costruzione di nuove infrastrutture. Lo sprint della campagna vaccinale. I toni duri con la Turchia di Erdogan, con la Cina di Xi, con la Russia di Putin, definito addirittura «assassino». E ancora: la proposta di un livello minimo di tassazione sulle imprese in tutti

i Paesi dell’Ocse, per cancellare i paradisi fiscali, o almeno renderli meno accessibili. L’aumento delle imposte ai ricchi. Poi è arrivata la tragedia di Kabul. L’addio inglorioso, nel sangue e nel caos. La ritirata americana che ha ricordato quella da Saigon nel . Così l’immagine di Biden si è appannata, in particolare all’estero. Negli Usa si è parlato delle difficoltà del presidente in politica interna. A cominciare proprio dall’ambizioso piano di investimenti pubblici, fortemente ridimensionato dal Congresso, anche a causa della fronda democratica guidata dal senatore Joe Manchin. Il problema è certo la personalità del presidente che non convince né l’ala sinistra del partito democratico, né tantomeno i repubblicani su cui ha ancora una forte presa Trump, con la sua leggenda nera della «vittoria rubata». Ma il problema è anche il sistema americano, che premia l’alternan-

za più della stabilità. Il ciclo politico dei presidenti è breve. Vengono eletti il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre, ma si insediano solo alla fine del gennaio successivo. Dopo  mesi c’è già un test elettorale, che molto spesso – come nel caso di Biden, che ha perso la Virginia e ha rischiato di perdere il New Jersey – non va bene. Poi, sempre il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre, quindi a poco più di  mesi dall’insediamento, il presidente rischia di perdere la maggioranza al Congresso (ammesso che l’abbia mai avuta). Il che è un bel guaio, soprattutto per un democratico: la storia recente insegna che un presidente repubblicano – accadde anche a Reagan – dialoga con un Congresso democratico con meno difficoltà, magari puntando sui moderati dello schieramento avverso. C’è poi da dire che la vittoria di Biden nel  non è stata così netta. Senza

la pandemia forse non sarebbe neppure avvenuta. In molti Stati la partita si è giocata e si giocherà su poche decine di migliaia di voti. Il vento può girare facilmente. Il mito trumpiano della vittoria rubata si basa su una menzogna, ma funziona. È presto per dire se Trump potrà tornare alla Casa bianca. Ma il populismo e il sovranismo non sono certo battuti. Se poi si perde l’occasione di affrontare in modo globale i problemi globali, dalla pandemia al riscaldamento del pianeta, le soluzioni – a mio avviso sbagliate – dei populisti e dei sovranisti torneranno a dettare l’agenda politica, non soltanto Usa. E i risultati ottenuti da Biden al G di Roma e poi alla conferenza di Glasgow sul clima non sono stati brillanti. Viene il dubbio che la strategia con la Cina non sia quella giusta. Il G era nato per avere al tavolo anche cinesi e russi. Se non vengono (come non sono venuti a Roma), diventa un G allar-

gato. Del resto, da una parte l’Occidente sotto la spinta degli Usa boicotta Huawei e la Via della seta e manda sommergibili nucleari nel Mar della Cina, e dall’altra parte chiede anzi pretende un accordo sul clima. Ma scelte difficili, come azzerare le emissioni per un Paese in piena crescita tipo la Cina, si possono indurre solo in un quadro di collaborazione internazionale. Che ora non c’è. Dal canto suo, Pechino ha assunto un atteggiamento arrogante. Xi Jinping ha imposto una deriva personalistica che preoccupa Biden. Tre ore di conversazione online tra i due leader non potevano certo risolvere i problemi; ma è inquietante che la prima voce filtrata dal vertice sia l’idea americana di boicottare le Olimpiadi invernali in Cina. Una strada già seguita in passato da un altro presidente democratico, Jimmy Carter, che non ha portato fortuna.

Il presente come storia

di Orazio Martinetti

Un’antologia «verde» da riscoprire ◆

Le sempre più numerose e gremite manifestazioni per il clima potrebbero far pensare, soprattutto tra i giovanissimi che le promuovono e le animano, che l’ecologia sia una scoperta recente, diffusa e amplificata dalla grande rete in cui siamo tutti immersi, noi e loro. In realtà l’irruzione della questione ambientale nel dibattito pubblico risale agli anni  e  del Novecento. In Svizzera i progetti contestati riguardavano allora gli sbarramenti idroelettrici e il ricorso al nucleare, prima per scopi militari (armamento atomico) e poi civili (centrali per la produzione di energia). Fu in quel torno di tempo che videro la luce i movimenti intesi a salvaguardare oasi naturali come brughiere e foreste e ad impedire che a ridosso degli agglomerati urbani nascessero impianti dalla foggia di fungo che inconsciamente rimandavano alle bombe sganciate dagli americani sul Giappone nell’agosto del .

Generati dal basso, dalle comunità direttamente coinvolte, questi movimenti apparivano poco strutturati e non inquadrabili nei partiti tradizionali: sorgevano e morivano in base alle urgenze del momento. La svolta si produsse nei primi anni . L’intenzione dell’esercito di costruire nell’area paludosa di Rothenturm (Svitto) una piazza d’armi incontrò la resistenza degli abitanti del luogo, che infine, dopo lunghe battaglie, la spuntarono nelle urne (votazione popolare sulla loro iniziativa nel ). Ancora più intensa fu la mobilitazione per bloccare l’edificazione di una centrale nucleare a Kaiseraugst (Argovia) nel : anche qui il conflitto andò avanti per anni, attraverso marce e l’occupazione dei terreni destinati alla costruzione dell’impianto, per concludersi con una decisione di abbandono nel . Questi successi, conseguiti in una fase in cui sia l’esercito sia le aziende impe-

gnate nel nucleare erano ancora in grado di esercitare sull’opinione pubblica e sulla politica un potere notevole, fatto anche di ricatti, convinsero molti ambientalisti a darsi un’organizzazione più compatta e reattiva: un coordinamento nazionale che tuttavia lasciava ampia libertà di manovra ai gruppi regionali. Nel solco di quanto avveniva nella vicina Germania occidentale con i «Grünen» guidati da Petra Kelly, prese piede l’idea di fondare un «partito dei verdi» che potesse partecipare alle competizioni elettorali cantonali e federali. E così avvenne, soprattutto negli anni . Anche in Ticino i verdi riuscirono nel  a presentare una lista sotto il nome di Movimento Ecologista Ticinese (MET). L’ambientalismo non era riducibile ad una setta monotematica, popolata di strambi militanti dall’aria francescana, come spesso ritenevano, sogghignando, gli avversari politici. Aveva

invece alle spalle già un considerevole patrimonio di studi e moniti, frutto di pensatori del calibro di un Barry Commoner e di un Fritjof Capra. Nel  si era costituito nella capitale italiana il «Club di Roma», il cui rapporto sui limiti dello sviluppo sarebbe apparso nel , poco prima della crisi petrolifera. Gli echi di questa nuova sensibilità per le sorti degli habitat giunsero anche nel piccolo Ticino, in particolare negli istituti superiori. Bruno Caizzi, docente alla Commercio di Bellinzona, fu tra i primi a recepirli e a proporli alla discussione. Nel  compose un’ampia opera per conto del Dipartimento della pubblica educazione, intitolata Antologia di scritti sull’ecologia e sulla demografia. Un volume tipograficamente dimesso, grigio-marrone, ma ricco di spunti e suggestioni. A rileggerlo si rimane colpiti dalla preveggenza del curato-

re, considerazioni che oggi potremmo ritrovare nelle pagine di Serge Latouche, l’alfiere francese della decrescita. Osservava Caizzi: «Gli abitanti del mondo ricco, che sono già oggi fortissimi consumatori di beni naturali d’ogni specie, vivono nel mito di un benessere misurato in termini di denaro e di sperpero e sembrano credere in un processo all’infinito verso più alti redditi e più alti consumi. […] La concezione antropocentrica del mondo che, a giudizio di alcuni critici moderni, è il retaggio trasmesso dalle religioni di derivazione ebraico-monoteista alle civiltà dell’Occidente, porta a considerare la natura tutta, incluse la flora e la fauna, come una proprietà su cui l’uomo vanta diritti assoluti di prelazione e godimento». Un’antologia che, a quasi quarant’anni dalla sua apparizione, padri e madri potrebbero ancora consigliare ai figli che sfilano nelle strade.


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CULTURA

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Storie (tristi) di donne A colloquio con la giornalista israeliana Sarit Yishai-Levi, autrice del fortunato Miss Jerusalem

Pur di volare Il coraggioso Ernest Failloubaz diede una spinta decisiva allo sviluppo dell’aviazione elvetica

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Ciseri che passione Nell’anno del bicentenario il Ticino offre una serie di appuntamenti e pubblicazioni su Antonio Ciseri

L’ultimo Bernhard L’ultimo dramma di Thomas Bernhard ora anche in italiano con la regia di Roberto Andò

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L’identità dei sami nei secoli è stata messa a dura prova. (Shutterstock)

Il tamburo dello sciamano Musei e storia

Il popolo nordico dei sami al centro di una disputa internazionale

Irene Peroni

Uno «strumento del demonio», appartenuto a uno sciamano e scampato miracolosamente alla distruzione durante i processi alle streghe in Norvegia, è forse uno dei più originali artefatti al centro di dispute internazionali tra musei. Si tratta di un tamburo di pelle di renna sequestrato oltre tre secoli fa a un lappone, come spesso vengono impropriamente chiamati i pastori di renne del Nord della Scandinavia: il termine con cui questo popolo identifica se stesso è «sami». Al momento attuale, l’oggetto della contesa si trova presso il museo della cultura sami di Karasjok nel Finnmark, la contea norvegese con la più numerosa comunità sami. Lì è giunto nel  per via di un prestito da parte del Museo nazionale di Copenaghen, che però ora lo rivuole indietro: l’accordo scade infatti il primo dicembre di quest’anno. «I sami erano noti per la loro capacità di leggere il futuro e prevedere gli eventi», ci spiega lo storico norvegese Rune Blix Hagen, uno dei massimi esperti di processi alle streghe in Norvegia. «I missionari dell’epoca credevano che questi tamburi magi-

ci fossero un dono del diavolo, e che lo sciamano potesse evocare un demone che viveva nel tamburo stesso, in grado di informarlo su vicende che succedevano altrove. Dunque distrussero quasi tutti i tamburi, e cercarono di eradicare le credenze pagane dei sami». Inoltre, spiega Blix Hagen, si pensava che gli sciamani fossero in grado di lanciare delle fatture anche a grande distanza: alla fine del Seicento Peter Dass, pastore luterano e poeta norvegese di spicco, descrive queste maledizioni sotto forma di «mosche di Belzebù» che potevano volare verso il Sud, raggiungendo anche paesi lontani. Ufficialmente riconosciuti come unico popolo indigeno dell’Europa continentale (oltre a loro ci sono anche gli inuit della Groenlandia), i sami, etnicamente e linguisticamente diversi dalle popolazioni scandinave, hanno subito per molti secoli discriminazioni e persecuzioni. Oltre a essere temuti per motivi religiosi, erano visti quasi alla stregua di selvaggi per il loro stile di vita in simbiosi con la natura. La loro lingua, incomprensibile per gli scandinavi di ieri e di oggi (non appartiene al ceppo

indoeuropeo ma a quello ugro-finnico), non aiutava certo a chiarire i malintesi. Tra il Sei e il Settecento, circa una trentina di sami furono condannati per stregoneria e messi al rogo nel Nord della Norvegia: erano in maggioranza uomini, sebbene in altri paesi europei la caccia alle streghe riguardasse quasi esclusivamente le donne. La storia di questo cimelio inizia nel  a Vadsø, nell’estremo NordEst, lì dove la costa norvegese, superato il punto più settentrionale, si incurva per poi terminare alla frontiera con la Russia. Sotto accusa finisce Anders Poulsen, uno sciamano centenario in possesso di un «runebomme», letteralmente «il tamburo delle rune». Era una struttura concava in legno ricoperta di pelle di renna decorata con simboli e figure stilizzate che rappresentavano, tra le altre cose, elementi della natura, animali e figure mitologiche. Durante il processo (l’accusa era quella di aver praticato «l’arte empia e malvagia della stregoneria», come risulta dai verbali), Poulsen mostrò come, percuotendo la superficie con

un martelletto di corno e osservando il movimento di un cerchietto di ottone che saltellava tra una figura e l’altra, fosse in grado di rispondere a un quesito o di prevedere il futuro. L’anziano sostenne che sul tamburo c’erano molti simboli cristiani; ma forse stava soltanto cercando di giustificarsi, consapevole che, in altri processi analoghi, l’accusato aveva pagato con la vita la propria sincerità. Poulsen cercò di spiegare che a lui interessava guarire i malati, prevedere il futuro e riferire di avvenimenti svoltisi in luoghi lontani. Il giudice, non sapendo bene come regolarsi, decise di rimettere la decisione su un’eventuale condanna a morte all’amministrazione danese, visto che a quel tempo la Danimarca controllava anche il territorio norvegese. Ma la sentenza non fece neanche in tempo a giungere: Poulsen fu ucciso nel sonno a colpi d’ascia da un giovane squilibrato la mattina dopo il processo. Successivamente il giudice portò il tamburo in Danimarca, dove poi è rimasto. Ora i sami norvegesi chiedono a gran voce al governo danese di resti-

tuire loro in pianta stabile quest’oggetto così raro e prezioso, simbolo delle persecuzioni e ingiustizie subite per secoli. La disputa attuale è tanto delicata da aver coinvolto, loro malgrado, perfino i sovrani dei due rispettivi paesi: Re Harald V di Norvegia e la regina Margrethe II di Danimarca. E proprio alla sovrana danese si è rivolta con una lettera accorata Aili Keskialo, la presidente uscente del parlamento sami. «Al giorno d’oggi non abbiamo quasi nessun tamburo sul nostro territorio. Sarebbe molto significativo che quello di Anders Poulsen potesse essere posseduto, custodito e studiato in un contesto sami». Anche Re Harald, cui i sami hanno chiesto di perorare la loro causa, ha diplomaticamente sottolineato che si tratta di una decisione che spetta al museo danese, ma che è comunque fiducioso che presto si arriverà a una soluzione. Il museo di Copenaghen ha fatto sapere ai media norvegesi che la questione della restituzione è all’ordine del giorno, e che una decisione definitiva verrà presa entro la primavera.


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CULTURA

Piccoli posti, piccole cose Narrativa

Regaliamoci dei libri!

Convincono i racconti di cose minime dell’autrice italiana Ilaria Vajngerl

Roberto Falconi

Antonino conosce Annamaria all’Università, durante «il maggio di Analisi , caldo e pieno di numeri». Lei gli dice che ama tutto di lui. Anche i suoi occhi storti. Nessuno glielo aveva mai fatto notare, e Antonino ne fa una malattia. «Tu hai il culo largo», replica lui stizzito. I due si lasciano «un venerdì pieno di freddo». Un quarantenne si fa consegnare a casa una pizza capricciosa ogni fine settimana. Gliela porta sempre Caterina, una ragazza all’ultimo anno di liceo che svolge quel lavoretto quando non deve studiare. Lui la pensa sempre più spesso, lei si trattiene ogni volta un po’ di più a casa sua. Fino al giorno in cui lui deciderà di sostituire i due quadri dell’ingresso con un attaccapanni «dai pomelli colorati», al quale lei possa appendere la borsa quando si ferma a dormire. Sono solo alcune delle situazioni di provvisorietà delle relazioni che attraversano i racconti con cui Ilaria Vajngerl, dopo alcune pubblicazioni su rivista, giunge alla forma libro. Separazioni, nuovi inizi, matrimoni spesso logori che pongono i personaggi di fronte alla necessità di scegliere: ne Il primo uomo, una donna resiste a fatica ai tentativi di seduzione di un uomo che la fa di nuovo sentire desiderata; ne La roulotte, lo sguardo di un nipotino coglie il bacio furtivo che la nonna, ancora giovane e piacente, scambia in spiaggia con un amico di vecchia data. E poi ci sono le sofferenze della genitorialità. Madri e padri costretti a tollerare in silenzio la distanza di figli adolescenti sempre meno comunicativi (Le bestie). Ma anche bambini spaesati che assistono impotenti alla separazione dei genitori: un ragazzino è solo in un «campo che ha cominciato a imbiondire». Prova a lanciare il boomerang vinto dal padre al tirassegno, ma quello non torna mai indietro. E forse non tornerà neppure sua madre, che, pur partendo in una mattina di primavera «solo per un po’ di giorni», dall’armadio «si è portata via anche i maglioni di lana». Non a caso, l’autrice indaga con frequenza le soglie attraversate durante l’adolescenza, gli attimi in cui i potenziali pericoli si disinnescano oppure si trasformano in drammi: così, due ragazzi si riappacificano con il loro migliore amico quando scoprono che non ha conquistato la più bella della classe (Gli invincibili); specularmente, tre ragazze danno fuoco alla compagna che si è messa con l’ex fidanza-

Ilaria Vajngerl vive e insegna a Vicenza.

to di due di loro (Luce dei miei occhi). Ma i racconti non si limitano a trattare frontalmente il motivo dell’impermanenza delle cose: Ilaria Vajngerl costruisce una fitta tramatura di elementi tra loro dissonanti e più o meno nascosti sotto la superficie del testo, come le crepe che lentamente e silenziosamente solcano l’uniformità delle vite dei personaggi. Ai racconti a lieto fine, tanto per cominciare, fanno da contraltare pezzi che si chiudono in modo drammatico, come nel caso delle due fiabe moderne che si richiamano tra loro nella prima parte della raccolta. In Dinamiche famigliari, la piccola Sara sente i genitori litigare e cerca sul dizionario il significato delle parole («cornuto», «pompino», «irrecuperabile», «assegno di mantenimento») che i genitori si urlano addosso e che filtrano nella sua cameretta «costruita col cartongesso». Un giorno decide di rimpicciolire, tanto nessuno sembra più (pre)occuparsi di lei. La ritroveranno nascosta nella narice di un maiale di pezza, e forse le «dinamiche famigliari» del titolo finalmente cambieranno. Resteranno invece indelebili le ferite dei due fratelli che, ne Le magie, subiscono gli abusi di alcuni preti al campo estivo dove li hanno

spediti una madre che pare accettare tutto in silenzio e un padre che ogni mese si gioca l’intero stipendio alle slot machine. Allo stesso modo, lo si è già capito, la silloge è composta da pezzi di genere diverso: racconti realistici, oppure interamente costruiti su battute scambiate in chat (Amen), oppure ancora grotteschi o magici, come nel caso di Giuda, in cui il cane di una giovane coppia tradisce i padroni aprendo la porta a sconosciuti mentre è solo in casa; oppure de La solitudine di Laika, che si chiude con l’atterraggio sulla Luna del condominio in cui vive una donna incapace di far fronte alla propria maternità. E ai toni più seri, capaci di fissare, anche se con semplicità, i momenti nei quali la vita prende un’altra via («La prima volta in cui mi sono sentita orfana è stata quando mi è venuta la febbre e sono dovuta andare in farmacia a comprarmi le medicine, sono guarita e nessuno è stato contento»), si alternano passi più ironici (per il loro matrimonio, Alessandro e Cristina «avevano chiesto la messa in latino per sorprendere tutti i loro amici e c’erano spiacevolmente riusciti»). La natura frammentaria del libro è almeno in parte riassorbita da una se-

rie di elementi ricorrenti che stabiliscono connessioni interne più o meno patenti tra i singoli racconti. Anzitutto nella caratterizzazione dei personaggi, che si richiamano esplicitamente nei ruoli (la baby sitter, con almeno due occorrenze), nei tratti esteriori (due le figure femminili con gli occhi verdi; altrettante quelle con gli orecchini pendenti), nelle piccole occupazioni quotidiane (due i ragazzi che nella calura estiva si sdraiano a prendere il fresco dal pavimento; due gli uomini che cucinano il risotto), nella rievocazione più o meno malinconica del giorno del matrimonio (almeno quattro occorrenze). Personaggi che si muovono in una geografia minima, fatta di pochissimi luoghi reiterati (la stazione, le giostre, la scuola, il supermercato, il bilocale con terrazzino); una provincia entro la quale consumano le proprie esistenze figure la cui provvisorietà è emblematicamente fissata dal posteggio fuori dal posto di lavoro (due occorrenze) in cui possono o meno iniziare amori adulterini. Spazi minimi, e minimamente descritti, in cui tornano le medesime cose: gli oggetti appiccicosi, i deodoranti per il corpo, le bibite gelate, i cani. Infine, e mi pare davvero l’aspetto più rilevante, l’autrice convince nella scelta di una scrittura ellittica che valorizza i dettagli e gli spazi bianchi tra il punto fermo e l’inizio del periodo successivo. Peccato che all’efficacia degli incipit («Quando Antonino aveva messo gli occhiali era novembre»; «Filomena non sapeva leggere l’orologio») segua qualche insistenza di troppo nella ricerca della metafora («I cipressi si allungavano aspettando di infilzare la sera»; «L’ascensore aspettava assopito»), con esiti talora maldestri (il bosco è «pronto a tracannarsi la notte»). Ora, giusto per chiarire in chiusa quel che forse andava detto all’inizio: non è questa un’opera che passerà alla storia della letteratura, ma in un mercato ipertrofico come quello italiano sarà il caso di segnalare, accanto a quelli davvero meritevoli, i libri onesti che rischiano di passare (ancor più) inosservati nel mare magnum di tanti velleitarismi che hanno il solo merito di essere sponsorizzati dai circuiti dominanti.

Librerie ◆ Sostegno alla campagna «La mia libreria, il mio posto preferito»

La pandemia, da cui purtroppo non possiamo dirci ancora fuori, ha strascichi molteplici, che si rivelano giorno dopo giorno. Fra le vittime a lungo termine di chiusure e restrizioni vi sono anche le librerie, filiere varie comprese. Ecco allora un’iniziativa interessante e a doppio senso, ci verrebbe da dire, poiché favorisce sia il settore del libro sia lettrici e lettori disseminate/i in territorio elvetico, promuovendo la lettura, la diffusione del sapere e, last but not least, la letteratura svizzera. Il progetto nazionale LIBER nasce come piattaforma di crowdfunding con un traguardo molto ambizioso, ossia quello di raggiungere la cifra di ’ CHF entro il  novembre. Per partecipare a un’iniziativa non solo necessaria, poiché siamo anche ciò che sappiamo, ma anche originale e di spessore, è sufficiente andare sul sito eroilocali.ch. A quel punto sarà possibile sia fare un’offerta libera, sia acquistare un buono da  o da  CHF… ma il bello viene adesso: con l’acquisto di un buono da  se ne riceverà uno del valore di  franchi, e all’acquisto di uno da , si riceverà un buono del valore di  franchi. I buoni LIBER saranno inviati a metà dicembre, in concomitanza con il Natale, ma potranno essere spesi anche in seguito. Dove e quando Per partecipare alla campagna LIBER (fino al 28 novembre) visitare il sito eroilocali.ch e cercare alla voce «LIBER».

Bibliografia Ilaria Vajngerl, Le magie, Galaad Edizioni, 2021. Annuncio pubblicitario

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CULTURA

La più bella di Gerusalemme Incontri

Danza e caffè

A colloquio con la giornalista e scrittrice israeliana Sarit Yishai-Levi

Sarah Parenzo

Sono da poco terminate le festività ebraiche del mese di settembre e la televisione israeliana ha già ripreso la trasmissione di una delle serie di maggiore successo degli ultimi mesi, La regina di bellezza di Gerusalemme. Liberamente tratta dall’omonimo libro di Sarit Yishai-Levi, pubblicato in Israele nel  e tradotto in italiano per Sonzogno con il titolo di Miss Jerusalem, la serie, dove recita anche Michael Aloni, il Kyve di Shtisel, narra le vicende degli Hermosa, una famiglia di ebrei di origine sefardita residenti a Gerusalemme nel corso del ’. Quattro generazioni di donne sfortunate in amore e una città che cambia volto nel passaggio dall’Impero Ottomano al mandato Britannico, dalla fondazione dello Stato d’Israele agli assetti intervenuti dopo la Guerra dei Sei Giorni del ’, fino all’epoca più recente. Sarit Yishai-Levi mi accoglie calorosamente nella sua casa a nord di Tel Aviv. Sait Yishai-Levi, prima di scrivere La Regina di Gerusalemme Lei era nota al pubblico israeliano come giornalista. Come è nata l’idea di scrivere questo libro? Ero una giornalista affermata. Uno dei miei servizi più importanti fu l’intervista che feci ad Arafat durante la Prima Guerra del Libano con Uri Avnery. Fu un grande traguardo andare a intervistarlo passando attraverso le truppe militari. Al termine dell’intervista ci chiese se poteva fare ancora qualcosa per noi e io espressi il desiderio di vedere il prigioniero israeliano Aaron Achiaz. Nonostante il parere contrario dei suoi consiglieri, Arafat ci permise di fargli visita. Dopo tre mesi di prigionia il poverino non aveva ancora visto un medico ed era molto confuso, ma alla fine girammo un filmato e lui ci diede una lettera da consegnare alla famiglia ad Herzliya. Anche quella del giornalista è una professione che ha a che vedere con la scrittura, e io ho sempre desiderato scrivere un libro, ma per anni non ne ebbi il coraggio. Vedevo giornalisti come Meir Shalev e David Grossman diventare romanzieri, ma mi sentivo un po’ presuntuosa. Tuttavia, raggiunta l’età della pensione, mi emozionai leggendo il libro di Meir Shalev, Il ragazzo e la colomba, e fu per me un input. Scrissi una bozza di circa trenta pagine e senza pensarci le inoltrai all’editrice Roni Modan. Con mia grande sorpresa, dopo solo qualche ora Roni mi aveva già dato l’okay e firmai il contratto senza nemmeno consigliarmi con un legale. Da quel giorno alla pubblicazione trascorsero sei anni. A posteriori il contratto non era vantaggioso, ma il successo è stato incredibile. Mai avrei pensato che ne avrebbero tratto un film e un telefilm, e ringrazio ancora chi ha creduto in me. A giudicare dal numero di copie vendute solo in Israele si direbbe che la Sua editrice abbia avuto un ottimo fiuto. Roni dice di aver avuto un’intuizione, c’era a mala pena un’idea con la storia di Gabriella che nel giardino sul retro della casa dei nonni raccoglie escrementi di uccelli, porta a casa rane e si sporca i vestiti, con la madre che le dice che è una barbara e che sarebbe adatta per vivere nel quartiere curdo. Non avevo in mente la trama, ma dopo la firma mi ritrovai a scrivere su luoghi di Geru-

di Rosa, ad esempio, è quella della mia bisnonna. Mia nonna infatti era rimasta orfana dopo che i suoi genitori erano morti di colera e, come il fratello di Rosa, anche il suo era stato impiccato dai Turchi alla Porta di Schem perché non voleva arruolarsi. A casa abbiamo una pagina di giornale in cui si riporta questa vicenda che la nonna a sua volta ci ha raccontato un’infinità di volte.

salemme in cui non vivevo da anni. Appartengo all’ottava generazione di una famiglia nata a Gerusalemme e i miei figli alla nona, anche se sin da giovane sapevo che l’avrei lasciata appena possibile, infatti vivo a Tel Aviv da quando avevo vent’anni. Sembra una persona dalle idee molto chiare, cosa L’ha motivata in questa scelta così netta? Io ho una casa a Gerusalemme e anche se ho scelto di vivere a Tel Aviv per comodità, provo sempre nostalgia. A volte mi sembra di essere bipolare, tanto sono diverse queste due città: Tel Aviv città di mare libera, solare e sfacciata, ma allo stesso modo alienante e superficiale, mentre Gerusalemme è malinconica, austera, carica di tensioni, ma nel contempo avvolgente, spirituale e densa di significato. Mi ricordano le due anime di mio padre e di mia madre, e sento il bisogno di entrambe. Io non sono mai stata combattuta. Anzi, la Gerusalemme di oggi è pesante, seria, povera e ultraortodossa, nulla a che vedere con la città di prima del ’, bohemienne, aperta e piena di studenti. Allora i charedim (gli ultraortodossi) vivevano in quartieri distinti, come Mea Shearim e Shaarei Chesed, e uscivano solo di venerdì per suonare lo shofar, il corno di montone. Ora è una città difficile e mette paura, davvero non capisco chi riesce a viverci. Sono ormai poche le isole laiche come quella del quartiere di Rechavia frequentate dai miei figli, che hanno terminato i loro studi all’Accademia di Betzalel. Mi piace Tel Aviv perché c’è il mare ed è una città libera, con persone leggere che non fanno domande, la sento più adatta al mio carattere. Dal modo in cui parla sembra comunque che Gerusalemme Le abbia regalato un’infanzia felice e spensierata. Ci racconti della Sua famiglia. Entrambi i miei genitori provenivano dalla piccola e coesa comunità di autentiche origini sefardite, le cui radici risalgono alla cacciata degli Ebrei dalla Spagna, in particolare dalla città di Toledo. La famiglia di mia madre, i Nachmias, è quella alla quale sono più legata ed è stata

maggiormente dominante nella mia vita. Tra loro i nonni parlavano ladino e con noi ebraico. Io non sapevo il ladino fino a che non ho scritto alcune frasi per il libro, ora un po’ lo capisco ma non lo parlo. Eravamo una famiglia molto unita e usavamo trascorrere insieme tutte le festività. In occasione del seder di Pesach aprivamo tutte le porte delle stanze comunicanti nel quartiere di Ohel Moshe, Nachlaot di oggi, lo stesso dove è ambientato il libro. Ma non eravamo osservanti, sono cresciuta in una casa laica, molto israeliana e piena di cultura e di musica. Durante la Guerra del ’ mio padre aveva difeso la casa e mia madre era rimasta ferita. Per la giornata dedicata al ricordo dei caduti, tutti i parenti venivano da noi. Salivamo sul tetto e guardavamo dall’alto la piazza con la bandiera a mezz’asta, poi andavamo sul Monte Hertzel e la sera successiva, la vigilia di Yom Hatzmaut, ci riunivamo nuovamente per veder alzar la bandiera e festeggiare il Giorno dell’Indipendenza ballando nelle strade. I nostri vicini, la famiglia Nachmani erano ortodossi, e per rispettarli di sabato mio padre abbassava il volume della radio e non ci era permesso di mangiare panini sulle scale nel giorno di Kippur. Frequentavo gli scout ed ero molto brava nelle materie umanistiche, ma soffro di discalculia e questo non mi permise di accedere alle scuole che desideravo. Nell’esercito invece ho servito nell’unità dell’intelligence, ma non sapevo l’arabo, quindi operavo in inglese. Quanto della storia è tratto da frammenti della Sua vita? Il libro non è autobiografico, ma ho certamente preso spunto dalla mia vita, da personaggi e storie. L’ho scritto improvvisando, come un flusso di coscienza, la mattina mi svegliavo e rileggevo incredula. Il lasso di tempo della trama è molto ampio poiché comincia dalla metà del . Benché di tutti i personaggi io appartenga solo alla generazione di Gabriella, qualcosa mi ha permesso di descrivere in modo nitido Gerusalemme in tutte le sue evoluzioni, come quella dell’epoca ottomana, con la sporcizia, le pestilenze, i morti, e quindi gli orfani. La storia

Leggendo il romanzo sono stata colpita dal taglio dato ai personaggi femminili. Rosa e le altre protagoniste sono sposate con uomini che non ricambiano il loro amore. Insomma, una storia di donne tristi, ma molto dominanti, sullo sfondo di un ambiente patriarcale. L’accezione dominante è una caratteristica che contraddistingue solo me e non le altre donne della famiglia. Quella dell’amore non corrisposto invece è una sorta di maledizione famigliare. Rafael si è innamorato di una ragazza con gli occhi blu intravista a Tsfat che ha continuato a sognare pur rispettando la moglie Marcada. Rosa invece riesce nella scalata sociale, ma paga un prezzo molto alto perché Gabriel non la desidera e la condanna a vivere senza amore. Così è per Gabriella, che rifiuta l’amore di Amnon, e persino per Luna, che fallisce in amore finché perdura la sua bellezza. Inoltre Luna ha sofferto di depressione post-partum che ai tempi non si diagnosticava: non dava da mangiare a Gabriella e non se ne prendeva cura. Rosa invece è una donna infelice. Rimasta orfana quando aveva undici anni, lavava i bagni degli inglesi e raccoglieva i resti di cibo al mercato per crescere il fratello che diventerà alcolizzato e problematico sino a vivere da fuggitivo perché ricercato per omicidio. Tuttavia è molto forte e si occupa della casa nel momento in cui il marito si ammala. Quale messaggio pensa di aver trasmesso ai lettori? Durante la stesura non avevo un’agenda, anzi fino alla fine ho temuto che la mia storia non piacesse e posticipavo la consegna. A posteriori, tuttavia, molte persone mi hanno ringraziato per aver gettato luce sulla comunità dei cosiddetti «sefarditi puri» parlanti ladino, un gruppo rimasto un po’ nell’ombra benché vanti esponenti di spicco come David Ben Benisti, Ytzhak Navon, Yoram Gaon e lo scrittore Abraham Yehoshua. Famiglie come i Valero, gli Hermosa, gli Abulafia e i Siton risiedevano in Terra d’Israele da generazioni, erano di condizioni agiate ed erano considerate «élite» anche rispetto alle immigrazioni askhenazite di studiosi di accademie talmudiche, gente molto povera e poco acculturata. Il divario tra ashkenaziti e sefarditi, e il sentimento di inferiorità di questi ultimi, risale agli anni ’ con l’arrivo dei mizrachìm, gli ebrei provenienti dai paesi arabi. Il termine sefardita infatti confonde proprio perché dalla fondazione dello Stato ha cominciato a includere anche questi ultimi. Comunque per me queste differenze sono irrilevanti. La mia è una storia israeliana e, come è noto, Israele è un crogiuolo di popoli. Bibliografia Sarit Yishai-Levi, Miss Jerusalem, Sonzogno, 2015.

In scena ◆ La geometria di Anna Huber e il Goldoni di Horvat Giorgio Thoeni

Cosa scegliere fra il debutto a Lugano di Ennio Greco o il passaggio di Anna Huber al San Materno di Ascona con unsichtbarst² (il più invisibile), il suo biglietto da visita più longevo? Abbiamo optato per la danzatrice e coreografa svizzera, già anello Hans Reinhart () e Premio per la Danza e la Coreografia (). Dopo il debutto a Berlino nel , con questo assolo la Huber mette in campo la visione di un corpo esposto su pannelli riflettenti, specchio di forme in continuo movimento dove il denominatore comune è un senso di interrogazione: chi sono? chi guarda chi? che cosa c’è dietro lo specchio? Echi di Giacometti e di un amore per l’architettura, la figura minuta di Anna Huber vola e affascina nella scomposizione geometrica di un corpo nello spazio mosso da intelligente ironia e tecnica squisita. Un frammento autorevole di storia della danza contemporanea svizzera. Ne valeva la pena.

Successo per un classico goldoniano Si sono concluse a Bellinzona le repliche de La bottega del caffè di Carlo Goldoni prodotto dal LAC. Dopo le forzate battute d’arresto, il sapore della riuscita si è diffuso nel palato degli attori guidati dalla regia di Igor Horvat con uno spettacolo che si è meritato gli applausi del pubblico ticinese. Un allestimento con qualche originale trovata ma sostanzialmente rispettoso della lezione dell’avvocato. Un intimo affresco della società del tempo con le due entità, il mondo e il teatro, che si intrecciano fra tipologie umane e passioni. Litigi e intrighi si avvicendano nella piccola bottega del caffè vicina a una bisca, con l’onesto caffettiere Ridolfo, l’avido biscazziere Pandolfo, lo sfortunato Eugenio e l’abile giocatore Leandro e la cornice di una ballerina, una moglie tradita e un’avvenente forestiera. Su tutti don Marzio, gran manovratore delle discordie altrui sullo sfondo di un microcosmo dove tutti vivono bene (…) quando sanno essere prudenti, cauti e onorati. Horvat tira sapientemente le fila di un testo a cui ha dato un respiro moderno ben sostenuto da una squadra di bravi attori. Su tutti spicca Antonio Ballerio, un ambiguo e spiritoso don Marzio. Con lui Pasquale Di Filippo, Marco Risiglione, Sacha Trapletti, Massimiliano Zampetti e il trio delle signore con Anahì Traversi, Annapaola Trevenzuoli, Marta Malvestiti. Classica la scenografia a due piani di Guido Buganza, belle e originali le musiche di Zeno Gabaglio.

Anna Huber si è esibita al San Materno.


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CULTURA

Il folle volo

Personaggi ◆ Il misconosciuto destino di Ernest Failloubaz, il pioniere del volo a cui la Svizzera deve, di fatto, la nascita dell’aviazione moderna Benedicta Froelich

Al di là dei pochi, altisonanti nomi le cui gesta occupano interi capitoli dei libri di storia moderna, a volte capita che personaggi dalla rilevanza inaspettata vengano perlopiù dimenticati dai propri compatrioti, nonostante l’innegabile contributo da essi apportato al Paese d’origine. Un caso particolarmente emblematico è costituito dal destino ingrato dell’audace Ernest Failloubaz, salito per la prima volta alla ribalta nel lontano  – al tempo in cui gli aerei erano nulla di più che una chimerica e poco attraente novità nella mente di molti cittadini «con i piedi per terra». Eppure, già allora, la Svizzera poteva considerarsi in prima fila nell’innovazione tecnica; proprio nell’ottobre di quell’anno, si svolgevano infatti a Berna le Giornate Svizzere dell’Aviazione, durante le quali un appena diciottenne Ernest Failloubaz ebbe modo di farsi notare dal pubblico a bordo del suo monoplano Blériot, stabilendo un record per l’epoca notevolissimo (ben  minuti e  secondi di permanenza in aria) che gli valse il conseguimento del primo brevetto di volo della storia svizzera – il «brevetto n.», come recitava l’iscrizione incisa sull’orologio d’oro di cui, di lì a poco, la Confederazione gli fece dono per celebrare un simile risultato. E dire che, in realtà, questo spericolato vodese dalla passione sfrenata per gli aerei non avrebbe mai preso una sola lezione di volo in tutta la sua vita! Ma quali erano state le circostanze che avevano fatto di un ragazzo apparentemente ordinario un pioniere del volo a livello non solo svizzero, ma mondiale? Un ruolo non da poco lo giocò sicuramente la prima giovinezza di Ernest, che, ritrovatosi presto orfano di entrambi i genitori, sarebbe stato cresciuto da nonna e zia ad Avenches, piccola cittadina del Canton Vaud. Fu infatti proprio questa disgrazia famigliare a permettergli di

dal successo dell’impresa del maggio , dovuto alla delicatezza con la quale seppe manovrare la leva di comando, realizzando così un atterraggio perfetto – cosa che non avverrà quando, in seguito, il suo compagno René governerà l’aereo, danneggiandolo a tal punto da obbligare Ernest ad acquistare un Demoiselle Santos-Dumont, poi seguito da altri velivoli via via più potenti. È con questi mezzi che Failloubaz si produrrà in successi sempre più spettacolari: su tutti, il primo episodio in assoluto di gliding, nel quale si cimentò durante il raduno di aviazione di Viry (agosto ), spegnendo completamente la propulsione a elica dell’aereo e lasciandolo planare senza alcuna spinta meccanica, per poi riaccendere il motore e atterrare sen-

za problemi. Sono, in effetti, anni in cui il nome di Ernest Failloubaz è sulla bocca di tutti, al punto che migliaia di persone assisteranno alle sue esibizioni aeree; nel frattempo, egli sarà anche responsabile della nascita dell’aviazione militare svizzera, diretta conseguenza di una dimostrazione da lui offerta all’esercito rossocrociato tra il  e il  settembre del . Tuttavia, l’indubbia gloria portata dalle imprese aeree non offrirà mai ad Ernest guadagni sufficienti a coprire le immani spese affrontate per promuovere la cultura del volo in Svizzera (fondando, tra l’altro, un aeroporto e la prima scuola di pilotaggio del Paese, entrambi situati nella natìa Avenches). Così, dopo aver investito una fetta sproporzionata della propria fortuna nell’acquisto della licenza necessaria a produrre in proprio gli aerei Dufaux, Failloubaz si ritrovò in bancarotta; e per ironia della sorte, fu proprio allora che, dopo aver arriso agli exploit via via più azzardati dell’aviatore, il fato gli presentò il conto nel modo più banale e straziante. La stessa tubercolosi latente che gli aveva impedito di arruolarsi come pilota durante la Grande Guerra si sarebbe infatti portata via Ernest nel , ad appena  anni. Forse a causa delle condizioni di povertà in cui versava all’epoca, i suoi compatrioti sembrarono dimenticare rapidamente il contributo fornito da Failloubaz all’aviazione elvetica, disertando in massa il suo funerale. Eppure, al di là della scarsa memoria di cui i cittadini svizzeri diedero prova in quell’occasione, Ernest Failloubaz è tuttora ricordato come uno dei grandi pionieri dell’aviazione mondiale – a dimostrazione del fatto che, per quanto spesso sottovalutati in vita, i veri precursori si lasciano sempre alle spalle una scia di gloriosa speranza, «mostrando la strada» a chi sia sufficientemente ricettivo da seguirla.

ti Hammett e Chandler), gli confeziona il personaggio dello sbruffone dal cuore d’oro, pronto a mille battaglie e ad altrettante sconfitte. Lui si cala agevolmente nel personaggio: si ispira a Clark Gable (altra adorabile canaglia), si fa crescere due baffetti assassini e si presenta con doppiopetto gessato e cappello a larghe falde. È un ironico American dream animato da bulli&pupe e improbabili gangster («Che notte! Mi inseguivano sei auto poliziotte!»), dove il whiskey scorre facile. A  anni (è nato giusto un secolo fa, il  novembre ) Fred ha il mondo in mano: vende migliaia di dischi; la sua apparizione al Musichiere fa schizzare gli indici d’ascolto della popolarissima trasmissione di Mario Riva; al cinema lo chiamano Dino Risi e Mario Mattoli (il regista Re Mida di Totò); dai locali di terz’ordine passa a quelli di gran classe che gli garantiscono cachet da primato (fino a due milioni di lire a sera). Tra questi, l’allora rinomato Cécile di Lugano, dove si esibisce anche la can-

tante-contorsionista Fatima Robin’s, nome d’arte dell’artista marocchina Fatima Ben Embarek. Subito ingaggiata per dar vita, accanto agli Asternovas, a nuove versioni jazz/dixieland degli standard dell’epoca, Fatima nel  diverrà poi la Signora Buscaglione. Un matrimonio burrascoso: e come poteva essere altrimenti con un uomo che «beve alla mattina la nitroglicerina»? Fatima sopporta il plurifedifrago (si narra di una liaison anche con Anita Ekberg) sino a quella maledetta mattina romana del  febbraio , quando Fred – reduce da un’esibizione in un night di via Margutta e a bordo della sua Thunderbird rosa – trova sulla propria strada un camion che mette fine a tutto, lasciando l’Italia intera nel lutto. Tre settimane prima, in un’intervista si era detto stanco, se non addirittura soffocato dal successo, esprimendo l’intenzione di ritirarsi presto. «Prima che la gente mi volti le spalle, Fred il duro sparirà, e io tornerò a essere solo Ferdinando Buscaglione».

Viry, 1910, Ernest Failloubaz (a destra) con alcuni membri del comitato di aviazione. (Keystone)

disporre di una ragguardevole quantità di denaro lasciatagli dal padre Jules, ricco mercante di vini, e di utilizzarla per soddisfare la propria passione per le prime motociclette e automobili. E quale modo migliore di far fruttare l’eredità paterna che lanciarsi nella più eccitante avventura offerta dalla tecnologia del tempo – ovvero il volo? Tuttavia, il momento di svolta sarebbe giunto nel , all’incontro con René Grandjean – un giovane meccanico che, dopo aver trascorso diverso tempo a Parigi e in Egitto (come autista del sultano Omar Bey), aveva fatto ritorno in Svizzera con un grande sogno personale: costruire da sé un aereo non solo perfettamente funzionante, ma anche competitivo. Galvanizzato dal successo dell’aviatore francese Louis Blériot, che ave-

va appena trasvolato il Canale della Manica, il giovane René si procurò così una fotografia del mezzo protagonista dell’impresa e, sulla sola base di quest’immagine, costruì la sua prima «macchina volante» – la stessa con cui, il  maggio del , lui e l’amico Ernest Failloubaz avrebbero dato vita a un vero e proprio miracolo: il primo volo aereo di successo condotto su un apparecchio interamente costruito e pilotato da cittadini svizzeri. Un’impresa a dir poco storica, destinata a definire la storia dell’aviazione rossocrociata, e non solo. Da quel momento in poi, Failloubaz divenne pilota a tutti gli effetti, sulla sola base delle conoscenze accumulate e della propria, spiccata sensibilità verso le macchine volanti: un vero istinto per il volo, confermato

Ehi, Fred, ci manchi da morire Musica

Un ricordo di Ferdinando Buscaglione, a cent’anni dalla nascita

Giovanni Medolago

lacco (dove conoscerà Giovanni Guareschi). Si ritrovano nel  in una Torino ancora devastata dai bombardamenti, che ha tuttavia voglia di rinascere e dove si respira voglia di novità. Li aspetta però una gavetta lunga e dura («Sono un vero sognatore, musicista e un po’ pittore», scrive Chiosso, «Strimpellando sopra i tasti, molto spesso salto i pasti»). Paradossalmente è grazie al sostegno di un cantante

da Sanremo DOC come Gino Latilla (Vecchio scarpone e/o Tutte le mamme!) che Buscaglione incide il suo primo  giri: Tchumbala Bey. Con Latilla e Chiosso, Fred forma il Trio Pastiglia, che suscita l’interesse dei telespettatori. Latilla torna poi a San Remo, Fred prende invece la strada di Chicago e di Sing Sing. Chiosso, appassionato lettore di racconti hard-boiled (predilige Damon Runyon ai soli-

Keystone

Fu un’inimitabile meteora nell’universo della musica leggera italiana, dove all’epoca imperavano la melodia classica e il bel canto. Il  ottobre  uscì Che bambola!, primo grande successo di Fred Buscaglione: un milione di copie vendute praticamente senza alcun battage pubblicitario. Fu un roboante fulmine a ciel sereno. Dapprima osteggiato da radio e tv per la carica esplosiva del testo e lo swing degli Asternovas – fusi in modo da raccontare in soli due minuti una storiella divertente quanto improbabile – quel brano impose all’attenzione generale la coppia Leo Chiosso-Fred Buscaglione. Entrambi piemontesi, il montanaro Ferdinando Buscaglione e il cittadino Matteo Chiosso si conoscono nel , quando quest’ultimo resta colpito dalla performance di un giovane polistrumentista che, per pagarsi gli studi al Conservatorio, si esibisce con contrabbasso, pianoforte, violino e tromba. La guerra li separa: Fred finisce prigioniero degli Alleati in Sardegna, Chiosso in un lager po-


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CULTURA

Depositi di prestigio a caro prezzo

Musei ◆ Si conclude il nostro giro d’orizzonte sulle implicazioni delle nuove realtà museali svizzere (terza e ultima parte) Elio Schenini

Tra gli argomenti da cui hanno avuto origine le vivaci polemiche che hanno segnato l’apertura della nuova sede della Kunsthaus di Zurigo vi è il fatto che il nuovo imponente edificio che si affaccia sulla Heimplatz sia stato sostanzialmente costruito per ospitare tre collezioni private che il museo ha ricevuto in deposito. Oltre alla già citata e ormai ben nota collezione Bührle, l’edificio progettato da Chipperfield ospita infatti le collezioni costituite nel corso degli anni da altri due ricchi imprenditori svizzeri: Werner Merzbacher e Hubert Looser.

Se da un lato i depositi arricchiscono il prestigio di chi li ospita, essi comportano però anche costi notevoli Il termine deposito, oltre a designare gli spazi fisici in cui sono normalmente conservate le opere quando non sono esposte, viene utilizzato in ambito museale per indicare il prestito a lungo termine di un’opera d’arte da parte di un privato o di un’altra istituzione. Si tratta di una pratica diffusa in tutto il mondo e in uso ormai da molto tempo, che permette ai musei di completare o di integrare le proprie raccolte senza che vi sia la necessità di un passaggio di proprietà. Questa pratica, però, come sa bene ogni direttore di museo, richiede anche una serie di attenzioni e cautele e deve essere limitata all’essenziale soprattutto quando si tratta di istituzioni pubbliche. Nel caso della Kunsthaus è proprio l’alto numero di opere ricevute in deposito e il loro enorme valore economico a porre interrogativi complessi sul piano culturale ed etico e a innescare problemi di non facile soluzione dal punto di vista gestionale. Se è infatti del tutto evidente che grazie a queste opere, la Kunsthaus può aumentare la propria attrattività e godere, nella negoziazione dei prestiti per le esposizioni temporanee, di un maggior potere contrattuale, va però anche ricordato che l’istituzione museale, come avviene del resto sempre nel caso di depositi, deve farsi carico di tutti i costi connessi alla loro gestione. Per la sola collezione Bührle, tenendo conto che il suo valore complessivo è stimato intorno ai  miliardi di franchi, la Kunsthaus dovrà, ad esempio, pagare un premio assicurativo annuo di circa  milioni. Se a questo aggiungiamo i costi legati alla conservazione e alla sicurezza delle opere e se teniamo conto che anche le altre due collezioni private che il museo ha ricevuto in deposito sono particolarmente rilevanti sia dal punto di vista numerico sia economico, si può forse capire l’enorme sfida con cui si troverà confrontato nei prossimi anni il principale museo d’arte svizzero per mantenersi in una situazione di equilibrio finanziario. Mentre una parte di questi costi sarà coperta attraverso un aumento di  milioni di franchi del budget annuale, la necessità di mantenere una quota di autofinanziamento pari almeno al % ha già portato a innalzare di ’ unità il numero di visitatori che si

dovranno raggiungere il prossimo anno e porterà, quasi inevitabilmente, a una spasmodica ricerca di nuove fonti di finanziamento e di sponsorizzazione. È però del tutto evidente che l’accettazione di questi depositi non avrà solo conseguenze sul piano economico, ma influenzerà in maniera decisiva anche il modo in cui il museo zurighese interpreta il proprio ruolo culturale all’interno della società e le dinamiche su cui si fonda la sua autonomia culturale. I depositi, soprattutto quelli di questa entità, finiscono infatti quasi sempre per creare dei condizionamenti che limitano in maniera significativa la libertà curatoriale di chi opera all’interno del museo. Il contratto di deposito stipulato con la Fondazione Bührle prevede, ad esempio, che almeno fino al  la collezione dovrà essere presentata come un insieme autonomo e le sue opere non potranno essere «mischiate» con quelle di proprietà della Kunsthaus. Invece di dissolversi in una visione storiografica complessa ma unitaria, che permetta allo spettatore di avvicinarsi all’arte moderna e contemporanea sul filo di un percorso critico che ne evidenzi gli elementi di prossimità o di alterità rispetto al tempo in cui viviamo, le collezioni private finiscono così per incastonarsi all’interno dell’istituzione museale come monadi autosufficienti, come una teoria di capolavori assoluti che celebrano in primo luogo il gusto e la cultura di chi li ha saputi individuare e raccogliere. Quasi che, in un estremo tributo all’egolatria del collezionista che sembra caratterizzare il nostro tempo, la sua figura debba essere innalzata allo stesso livello di quella dell’artista. E così, complice anche un’architettura che inclina sempre più allo sfarzo, seppur in chiave modernista, in un attimo dal museo universale nato della Rivoluzione francese ci vediamo ripiombati nell’Ancien Regime di uno studiolo, o meglio di una serie di studioli, che

sono in primo luogo la manifestazione della potenza e dello splendore del Principe. Una tendenza questa, che non riguarda unicamente Zurigo, basti pensare, ad esempio, alla vicenda che ha coinvolto nel  il Musée d’art et d’histoire e il collezionista Charles Gandur, anche se in quel caso il progetto non è andato in porto per l’opposizione della cittadinanza. Non si vuole certo negare l’importanza di una storia del gusto e la possibilità di raccontare un’epoca attraverso la storia del collezionismo che l’ha caratterizzata, tuttavia, nel momento in cui, nel tentativo di garantirsi una sopravvivenza che vada al di là dei limiti temporali di chi l’ha costituita, una collezione privata aspiri a entrare a far parte di una raccolta pubblica deve necessariamente rinunciare alla rivendicazione della propria integrità, accettando di dissolvere la propria identità in un racconto più ampio. E l’unico modo per farlo in maniera incondizionata è quello di passare attraverso una donazione. Questo principio generale è valido per qualsiasi collezione privata, ma lo è a maggior ragione per la collezione Bührle. Se i responsabili di questa collezione avessero infatti deciso di donarla alla Kunsthaus senza porre nessun tipo di condizione avrebbero in qualche modo restituito alla collettività anche quanto potrebbe essere stato sottratto nel passato a qualcuno che oggi, pur avendo fatto le opportune ricerche, non può più essere individuato e quindi risarcito. Una donazione incondizionata avrebbe soprattutto significato riconoscere, senza essere costretti a farlo dopo essere passati sotto le forche caudine della storiografia a causa delle polemiche, che quella collezione non è solo il frutto del gusto e dell’amore per l’arte di un individuo, ma anche delle tragiche circostanze storiche che gli hanno permesso di costituirla. (. Fine)

Hortense Bührle durante un discorso che tenne nel 1958 in occasione dell’ampliamento della Kunsthaus di Zurigo. (Keystone)

Ovunque, Ciseri

Mostre ◆ Per il bicentenario della nascita di Ciseri, numerose occasioni per (ri)scoprirlo Elena Robert

Riparte dal Locarnese la nostra riscoperta di Antonio Ciseri (Ronco s/ Ascona  – Firenze ), protagonista della pittura internazionale e ticinese dell’. L’articolato progetto di ricerca all’origine delle iniziative, mostre e pubblicazioni confluite nel bicentenario della nascita, è stato voluto e avviato dall’Associazione Antonio Ciseri , in stretta sinergia con l’Ufficio beni culturali. Per il pubblico aveva preso avvio in giugno a Ronco nella dimora natale dell’artista, dalle pareti e soffitti affrescati, dove il gusto fiorentino dei tempi è di casa: la piccola preziosa esposizione ivi allestita con il duplice filone storico-artistico-architettonico e genealogico ha fornito le chiavi di lettura per comprendere quanto ci attendeva («Azione», .. p.  Un’osmosi tra Ronco e Firenze). Da questo autunno sedi diverse e con periodi di apertura scaglionati offrono al visitatore opportunità di approfondimento: il Masi di Lugano presenta le opere di proprietà della Città (fino  feb. ), il Museo Casorella di Locarno (fino  dic.) con il Museo Castello San Materno di Ascona (fino  dic.) la ritrattistica con opere a tema religioso e storico, la Pinacoteca Züst di Rancate (fino  apr. ) omaggia l’allievo ticinese Giacomo Martinetti. In parallelo il Cantone suggerisce un ideale percorso conoscitivo di opere dell’artista in edifici civili e religiosi sparsi sul territorio, accompagnato da schede informative realizzate per l’occasione: tra questi a Orselina il Santuario della Madonna del Sasso accoglie del resto il dipinto più famoso di Antonio Ciseri, il Trasporto di Cristo al sepolcro (-) di proprietà della Città di Locarno (vedi foto), mentre il museo dedica all’artista due sale permanenti di opere e bozzetti. Sebbene radicato e attivo a Firenze dove ha grande successo, Antonio Ciseri mantiene legami professionali e privati intensi con la terra d’origine. L’interesse delle mostre a Locarno e Ascona sta nella preziosa ricostruzione della sfera sociale e familiare dell’artista in Ticino, costituita da personalità politiche, esponenti del partito conservatore e della cultura locale. Vi sono esposte quasi tutte opere di proprietà privata, alcune delle quali per la prima volta, e per lo più ritratti, nei quali l’artista pure eccelle, distinguendosi per la compostezza dei personaggi, la ricerca della somiglianza e la connotazione introspettiva dei volti. Ciseri ne ha dipinti almeno trecento. Più di una trentina i ritratti reperiti in Ticino, tra i quali spicca quello di Felice Ciantelli del  al San Materno. Dei molti, ancora in mano agli eredi, riferiti alla cerchia intima segnaliamo al Casorella l’atipico ritratto del  della ma-

dre anziana Caterina con altri quattro volti di familiari a monocromo, e quello splendido del fratello Vincenzo del , figura determinante di collegamento e sostegno per Ciseri in Ticino. Casorella presenta, insieme a bozzetti e disegni, anche dipinti a carattere religioso e storico, tra i quali L’Italia risorta (allegoria dell’Italia che si è liberata dalle catene), , della Città di Locarno. La tela Date a Cesare quel che è di Cesare - ci porta al suo committente, il principale di Ciseri in Ticino, Bartolomeo Rusca, pure ritratto, uomo di legge, politico e sindaco di Locarno, committente anche del Trasporto di Cristo al sepolcro. Fondamentali le due pubblicazioni uscite questo autunno per il bicentenario. Di Antonio Ciseri lo storico Marino Viganò nel suo volume delinea il profilo personale e familiare, avvalendosi di dati inediti, dagli antenati alle diverse diramazioni dell’esteso casato, da quelle più antiche nel XVI secolo fino alle contemporanee. Si sono determinati gli individui noti e non e seguite le tracce dell’inizio della duratura specializzazione di artigiani e artisti imbiancatori, pittori d’ornato, quadraturisti di architetture illusionistiche e paesaggi a Firenze e in Toscana. L’autore restituisce così anche il filo di una tradizione e di un’intera comunità. La complessa ricognizione è stata condotta in decine di fondi archivistici pubblici e privati tra Cantone Ticino, Lombardia e Toscana. Resterà un pilastro nella valorizzazione dell’operato di Ciseri sul territorio anche il grande lavoro confluito nell’altro volume di saggi, curato dalla storica dell’arte Veronica Provenzale, coordinatrice dell’intero progetto per l’Associazione Antonio Ciseri , al quale hanno collaborato Cantone, Comuni, istituzioni pubbliche e private, operatori culturali. Il reperimento sul territorio del maggior numero di opere possibile del pittore, restaurate per la ricorrenza, fotografate, inventariate e riunite in un unico volume, ha reso possibile per la prima volta la conoscenza dell’ampio patrimonio in ambito pubblico e privato lasciato da Ciseri nella Svizzera italiana, consentendo una nuova valutazione del complesso. Bibliografia AA. VV., a c. di V. Provenzale, 1812-2021 Bicentenario Antonio Ciseri e il Ticino. Pittura sacra e ritratto di una società, Dadò Ed. e Assoc. A. Ciseri 2021 Antonio Ciseri. Il protagonista e gli avi nella migrazione artistica ticinese XVI-XIX sec., M. Viganò, Ed. Pedrazzini e Assoc. Ronco s. Ascona Cultura e Tradizioni 2021.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXIV 22 novembre 2021

51

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CULTURA

Le urla letali di piazza degli Eroi Il nostro potenziale Teatro

Per la prima volta in Italia l’ultimo dramma di Thomas Bernhard

Giovanni Fattorini

Piazza degli Eroi (Heldenplatz) è un dramma in tre scene rappresentato per la prima volta al Burgtheater di Vienna (regia di Claus Peymann) il  novembre , pochi mesi prima della morte dell’autore, avvenuta il  febbraio . La prima e la terza scena sono ambientate in un appartamento che guarda su piazza degli Eroi: quella in cui, il  marzo , davanti a una folla acclamante di oltre ’ persone, Adolf Hitler proclamò, cinque giorni dopo il plebiscito, l’annessione dell’Austria alla Germania nazista. Siamo nel marzo del . L’appartamento è stato venduto ed è in via di sgombero: il suo proprietario, il professore universitario Josef Schuster, ebreo, si è suicidato gettandosi da una finestra nella piazza sottostante. L’azione si svolge una settimana dopo la sua morte. La moglie di Josef, Hedwig, si trasferirà provvisoriamente nella casa di campagna di Neuhaus. Andranno con lei la signora Zittel (la governante), la domestica Herta, il cognato Robert (ex docente universitario), e per qualche tempo la figlia Olga. L’altra figlia, Anna, si recherà col fratello Lukas a Oxford, dove Josef, dopo l’Anschluss, era fuggito insieme con la moglie e aveva insegnato per vent’anni. Si occuperanno entrambi della vendita di una casa acquistata di recente, dopo che Josef aveva deciso di lasciare nuovamente Vienna, che gli era diventata insopportabile. Alla fine della terza scena, però, accade un fatto imprevisto. Dopo la cerimonia funebre, durante la colazione che la signora Zittel ha preparato per i famigliari e tre conoscenti, Hedwig sente ancora una volta le urla crescenti di piazza degli Eroi. L’angoscia è tale che all’improvviso cade in avanti, col viso nel piatto della zuppa (un tocco tipico del tragico/grottesco bernhardiano), presumibilmente stroncata da un infarto. La seconda scena del dramma (in cui Olga, Anna e Robert discorrono fra l’altro della casa e del giardino di Neuhaus, e in cui si colgono echi del cechoviano Giardino dei

Cinema

Una tavola rotonda a Castellinaria

Nicola Falcinella

Renato Carpentieri in Piazza degli Eroi. (Lia Pasqualino)

ciliegi) ha luogo dopo il funerale, nel Volksgarten – dunque all’aperto: cosa molto rara nel teatro di Bernhard. Acutamente, il regista Roberto Andò (che firma la prima messinscena italiana di Piazza degli Eroi) ha collocato gli elementi scenografici che sobriamente fingono il Volksgarten all’interno dell’appartamento di piazza degli Eroi: come se il parco pubblico ne fosse una propaggine che richiama anche la casa e il giardino di Neuhaus. Ha introdotto inoltre la figura (inesistente nel testo) di un pianista che si muove lento e silenzioso e ogni tanto siede al pianoforte per eseguire brevi composizioni. Un’aggiunta arbitraria ma non del tutto incongrua, considerando il significato che ha la musica in questo testo e in tutta l’opera di Bernhard. Ma soprattutto, un’aggiunta funzionale, specie nella prima scena, dove serve a intervallare il dialogo tra la governante e la domestica: dialogo che potrebbe risultare stancante per lo spettatore. I personaggi di maggior rilievo sono quattro: Josef, Robert, Hedwig, la signora Zittel. Josef è un personaggio assente e continuamente evocato, soprattutto per bocca della Zittel e del fratello Robert, che ne descrivono i comportamenti e ne riferiscono le parole. Attraverso le affermazio-

ni di Josef e Robert, Bernhard accusa duramente Vienna e l’Austria intera di essere più antisemite e filonaziste che nel . Da implacabile «maestro dell’esagerazione», come lui stesso si è definito, non argomenta e non documenta: assevera e insolentisce. I suoi bersagli sono i rappresentanti, definiti incapaci e corrotti, dell’establishment austriaco: politici, giornalisti, scrittori, industriali, uomini di chiesa: tutti accomunati nella colpa e nel disprezzo. Da ciò l’enorme scalpore suscitato dalla rappresentazione viennese del . Alla difficoltà, per gli attori, di dare corpo e voce alla singolarità di personaggi psicologicamente e intellettualmente contradditori, si aggiunge quella costituita dalla scrittura di Bernhard: una scrittura segmentata, priva di segni di interpunzione, costellata di ripetizioni ossessive. Tutti gli interpreti dello spettacolo sono lodevoli. Ma chi svetta è Renato Carpentieri, nel ruolo di Schuster, il quale pensa che tutto il mondo è puro cinismo, che la vita è dolore, che la protesta individuale è vana, e tuttavia non intende suicidarsi. È lui il solo che sappia conferire alla peculiare artificialità della scrittura di Bernhard una personale, affascinante naturalezza.

«Questa tavola rotonda è un punto di svolta per capire a che punto siamo con il cinema svizzero di lingua italiana». Così Niccolò Castelli, direttore della Ticino Film Commission nonché apprezzato regista di Tutti giù e Atlas, ha introdotto l’incontro «La lingua italiana nel cinema svizzero» svoltosi nei giorni scorsi a Bellinzona nell’ambito del festival Castellinaria. Un’occasione in un certo modo storica, che ha visto una buona partecipazione di addetti ai lavori a tutti i livelli, per parlare di una componente in crescita all’interno del cinema nazionale e non legata soltanto al Ticino, sebbene la crescita del movimento nel cantone, con i vari Castelli, Fulvio Bernasconi, Erik Bernasconi, Bindu De Stoppani, Alberto Meroni e altri ad affiancare gli storici Villi Hermann e Mohammed Soudani, abbia contribuito molto. Da lingua minoritaria a protagonista di una nuova stagione del cinema elvetico, questa l’intenzione degli organizzatori e i relatori hanno confermato le potenzialità sia dell’idioma sia del territorio. «I confini sono nelle nostre teste, per me non ce ne sono tra Chiasso e Zurigo, – ha affermato il regista Stefan Jäger, recentemente autore di Monte Verità – ho girato film in diversi luoghi del mondo in diverse lingue, per me l’importante è essere credibili. Ho girato Monte Ve-

rità in tedesco perché furono i tedeschi a iniziare quell’esperienza». Uno degli ostacoli principali è lo scarso peso politico della componente italiana e la scarsa conoscenza della lingua negli ambienti decisionali. «Ho fatto parte della commissione che valutava le sceneggiature – ha spiegato Christian Jungen, direttore del Festival di Zurigo – e su cinque componenti ero l’unico a capire l’italiano e questo complica le cose». «Abbiamo intenzione di aumentare i fondi per le traduzioni dei progetti e dei dossier, ha annunciato Castelli, e vivo questo problema nella mia attività di regista e conosco bene il tempo perso e le difficoltà». Dall’altra parte c’è un pubblico interessato. «A settembre abbiamo avuto al Festival sia Paolo Sorrentino sia Sharon Stone – ha aggiunto Jungen – e Sorrentino ha riempito le sale a tutte le proiezioni, più della Stone. C’è molto interesse per lui e in generale per i film in italiano. Bisogna lavorare di più sulla promozione dei film ticinesi, avere budget per promuoversi in Svizzera tedesca e francese. E devono essere localmente autentici per avere successo, occorre trovare storie locali o originali, per esempio a me colpiscono molto la squadra di hockey Ambrì-Piotta o le vicende del Festival di Locarno degli anni ’. Allo stesso tempo gli ambienti ticinesi mi sembrano molto chiusi e si devono aprire». «Il Ticino è un territorio fertilissimo, ma deve raccontare storie interessanti in sé. Bisogna lavorare su qualità e originalità, non avere paura di essere periferia, che può diventare una risorsa, e girare film credibili anche con accento ticinese», ha sostenuto Francesco Ziosi, direttore dell’Istituto italiano di cultura di Zurigo. All’incontro è intervenuta anche la giovanissima regista Agnese Làposi, partecipante alla residenza di Casa Pantonà che è stato il primo esperimento della Film Commission per lavorare su sceneggiature e sviluppo dei progetti, che ha annunciato un film su Campione d’Italia. Annuncio pubblicitario

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