Anno LXXXIV 6 dicembre 2021
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
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MONDO MIGROS
Pagine 4 – 5 ●
SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
Parlare con gli sconosciuti fa bene per superare la solitudine e sentirci più felici
Per le aziende della Silicon Valley il tempo libero dei dipendenti è importante quanto il loro lavoro
La crisi profonda del modelloCalifornia sottolineato dalla partenza di Elon Musk
Lo straordinario mondo di A.R. Penck in mostra al Museo d’arte di Mendrisio
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Come risparmiano gli svizzeri?
Benita Vogel Pagina 42
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Quinta ondata, sorpresi e sconfortati Peter Schiesser
No, non ci aspettavamo di trovarci anche in questa fine anno in un’ondata di Covid drammatica come nell’autunno del 2020 – non con i vaccini a disposizione. Chi li contesta (ma non nega l’aumento dei casi, delle ospedalizzazioni, dei decessi) argomenterà che non servono, oltre a non essere sicuri. Chi li sostiene dirà che l’ondata è massiccia nonostante i vaccini perché ci sono ancora troppe persone non vaccinate, infatti dove si vaccina meno la situazione è più grave. Forse lo sconforto è l’unico denominatore comune a entrambi i fronti. Se a marzo 2020 ci avessero detto che oggi ci saremmo trovati nella quinta ondata, in quanti ci avremmo creduto? Invece l’autunno ha creato ancora una volta le condizioni per una più massiccia diffusione del virus, a causa della variante Delta secondo gli esperti in materia (o perlomeno la maggior parte). E siccome i vaccini non sono una protezione assoluta, né dal contagio, né dalle ospedalizzazioni e dal decesso, l’accelerata circolazione del virus ha reso la pandemia di nuovo un affare di tutti, non solo dei non vaccinati.
In un clima del genere, scatena il panico e porta con sé misure di protezione già solo l’annuncio della comparsa di una nuova variante ancora più contagiosa, come Omicron. Il timore che eluda anche le protezioni dei vaccini crea nuova incertezza. Ma la paura è l’ultima cosa che va risvegliata durante una pandemia. Bisogna attendere studi più approfonditi prima di provocare allarme. Ricordo che la ricercatrice sudafricana che ha reso nota l’esistenza della nuova variante ha pure detto che i casi osservati sono tutti di lieve entità. Al momento l’attenzione è rivolta alla diffusione di Omicron, non si hanno ancora informazioni comprovate della sua pericolosità. Quindi, più che su Omicron converrebbe continuare a concentrarsi su Delta: l’ondata attuale porta la sua targa. E quello che porta con sé non è bello. Oltre alla drammatica conta degli ospedalizzati in cure intense e dei decessi, le popolazioni dei paesi europei si trovano nuovamente confrontate con nuove-vecchie restrizioni, i non vaccinati ancor di più. In Svizzera possiamo dire che una
buona maggioranza segue la politica del governo, lo ha confermato la votazione sulla legge sul Covid, in cui i sì sono stati ancora più numerosi che in giugno e diversi cantoni della Svizzera centrale sono passati da un no a un sì. Inoltre, le misure decise ora per piegare la curva dei contagi non sono così incisive. Ma tutt’intorno alla Svizzera si sta arrivando a misure, come i confinamenti per i non vaccinati (o a volte per tutti), come l’obbligo di vaccinazione (in Austria, probabilmente anche in Germania), che solo pochi mesi fa erano considerate impensabili. Dal punto di vista della scienza medica dominante, è così che si combatte una pandemia, abbattendo in breve tempo le possibilità di contagio oltre che il numero dei malati e dei decessi. Ma se teniamo conto del profondo e astioso fossato che si è aperto nelle società occidentali sul tema pandemia e vaccini, una simile misura rende ancora più difficile evitare che il «noi contro voi» si perpetui. Personalmente non credo che l’appello alla responsabilità individuale e collettiva possa infine far breccia fra colo-
ro che non vogliono vaccinarsi, ai loro occhi la politica, la scienza ufficiale, l’industria farmaceutica, i media, non sono credibili. Ma imporre una vaccinazione equivarrebbe a riconoscere ufficialmente che non si crede più nella responsabilità individuale. Non sarebbe un bel segnale per una società che si considera avanzata – e alienerebbe ancor di più i non vaccinati. Tutti siamo parte dell’uno o dell’altro fronte, tutti dobbiamo constatare che non esiste (quasi mai) un dialogo. Forse non può esistere sulle convinzioni (mediche, sul virus stesso, sulla pandemia), perché si dà credito a teorie e a visioni contrapposte. Però il dialogo potrebbe essere coltivato affrontando il tema che sottostà alla pandemia: la paura. Tutti in un modo o nell’altro siamo impauriti, la stessa negazione a volte è una paura della paura. Il timore di morire, di ammalarsi, a causa del Covid o del vaccino, di perdere le libertà, è legittimo per tutti. Proviamo a condividere pensieri legati a questo aspetto, per trovare qualcosa che ci accomuna e rendere meno profondo questo fossato insano.
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SOCIETÀ ●
Istantanee sui trasporti Quali effetti sui trasporti ha prodotto l’apertura della galleria di base del San Gottardo?
Storie di donne Il podcast Anna Swiss Riot Girls racconta la storia di sette personalità femminili svizzere
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Il torchio di Cavigliano Quattro secoli di storia dell’imponente torchio ripercorsi in un libro di Silvio Marazzi
Per non farci del male Un buon allenamento è utile solo se adeguato alle nostre capacità, anche per invecchiare in salute
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Shutterstock
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Basta un semplice «ciao»
Psicologia ◆ Abbiamo quasi smesso di parlare con gli sconosciuti, a causa degli smartphone e della pandemia. Secondo diverse ricerche, dovremmo ricominciare, per superare la solitudine e sentirci più felici Stefania Prandi
Parlare con gli sconosciuti può essere stimolante, anche se abbiamo quasi smesso di farlo. Tra le cause, gli smartphone onnipresenti che sembrano avere annullato qualsiasi tipo di curiosità nei confronti degli altri. Spesso la sola idea di «attaccare bottone» risulta assurda, per la remora di essere inopportuni. E la pandemia rappresenta un fattore inibitorio aggiuntivo. Eppure, diverse pubblicazioni, uscite negli ultimi mesi negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, indicano che dovremmo ricominciare a interagire con gli estranei. In The Power of Strangers. The Benefits of Connecting in a Suspicious World (Il potere degli sconosciuti. I benefici delle interazioni in un mondo sospettoso), il giornalista Joe Keohane cerca di capire cosa succede quando accorciamo la distanza tra noi e le persone che non conosciamo. Prendendo in esame una serie di analisi sul tema, Keohane ha scoperto che gli scambi momentanei possono migliorare l’empatia e lo sviluppo cognitivo, alleviare la solitudine e l’isolamento e radicarci nel mondo, aumentando il nostro senso di appartenenza. Lui stesso si è messo alla prova, cercando di capire come superare l’imbarazzo del primo approccio. Ha partecipato a un work-
shop a Londra, pensato proprio per fare pratica di conversazione con gente mai vista prima. Ha intrapreso un viaggio da Chicago a Los Angeles durante il quale si è impegnato a parlare con chiunque incontrava. Le diverse esperienze lo hanno portato a confermare ciò che dicono gli studi: in una società nella quale si enfatizzano sempre di più la paura, la sfiducia e l’odio per gli sconosciuti, chi si connette con gli estranei ne beneficia. Secondo una ricerca appena pubblicata sul «Journal of Personality and Social Psychology», parlare con chi non si conosce ha una serie di vantaggi che aumentano, se si avvia un dialogo profondo. Il team formato dai ricercatori Michael Kardas, Amit Kumar e Nicholas Epley, ha scoperto, dopo decine di esperimenti, condotti su un campione di mille e ottocento partecipanti, che quando viene condiviso qualcosa di significativo e importante tra sconosciuti, la chiacchierata diventa intensa da entrambe le parti. Michael Kardas racconta ad «Azione»: «C’era chi ha discusso di argomenti superficiali, ad esempio del tempo atmosferico. Altri, invece, si sono confrontati rispondendo a domande come questa: “Puoi descrivermi quella volta che ti sei messo
a piangere in una situazione pubblica?”». Chi ha parlato di questioni personali si è sentito più connesso e felice di quanto avrebbe mai pensato prima. I discorsi profondi non hanno creato imbarazzo, al contrario, c’è stata la voglia di continuare il rapporto, con la possibilità di iniziare un’amicizia. Lo studio ci interroga su un paradosso: se relazionarsi in modi significativi aumenta il benessere, allora perché sentiamo spesso i classici «discorsi da bar» tra chi fa due chiacchiere? Kardas risponde: «Ci è stato detto che si tende a parlare di cose superficiali, nonostante si vorrebbe entrare nel merito di questioni più consistenti, perché si ha paura che gli altri non siano interessati». Non resta quindi che provare, la prossima volta che usciamo di casa. Ma superare la timidezza iniziale, soprattutto per chi non è abituato, non è così facile. Il consiglio di Kardas è di buttarsi, con un semplice «ciao», aspettando di capire che risposta si riceve, se è incoraggiante. Con il tempo, si imparerà a capire, a pelle, quali sono le persone interessate. E più i confronti diventeranno intensi, più si resterà positivamente colpiti dall’esperienza. Will Buckingham, accademico e scrittore, descrive le sue esperienze
in Hello, Stranger: How We Find Connection in a Disconnected World (Ciao sconosciuto: come troviamo un legame in un mondo disconnesso). Il punto di partenza del suo racconto è la morte della moglie per cancro. «Avevo bisogno del conforto dei miei amici, ma anche degli estranei che non sapevano nulla di me, fino a quel momento», scrive. Già prima del lutto, Even era abituato a interagire con chi non conosceva. Cresciuto in una casa dove l’ospitalità era una costante, da ragazzo e adulto ha viaggiato molto, trascorrendo lunghi periodi in Indonesia, Cina e Myanmar e altrove. Secondo lui, dato che viviamo circondati da estranei, è impensabile non relazionarci a loro in continuazione. Il suo libro fa riferimento a testi dell’antica Grecia come l’Odissea di Omero. Pur non ignorando la xenofobia e il sospetto diffuso, Buckingham enfatizza la tradizione della filoxenia, una parola del Nuovo Testamento che indica «la curiosità e il desiderio di connettersi a chi è diverso da noi». Lui si è fatto ospitare in case di gente mai vista prima, dalla Bulgaria al Pakistan, e ha ricambiato nei periodi in cui tornava in Gran Bretagna. Certo, la pandemia
ha cambiato tutto e ci ha lasciati senza grandi risposte: Buckingham non sembra avere una soluzione. Ricorda l’incertezza della sua vita in Bulgaria, mentre emergeva dal lockdown, ma ha un messaggio di speranza: «Le pandemie vanno e vengono. Se riuscissimo ad aggrapparci al bisogno che abbiamo gli uni degli altri, quando la tempesta sarà passata, saremo pronti a riaprire le porte, riconnetterci, abbracciarci e uscire, costruendo un mondo condiviso nel quale valga la pena vivere». Un’attitudine raccomandata da un testo di qualche anno fa, Consequential Strangers: The Power of People Who Don’t Seem to Matter… But Really Do (Sconosciuti importanti: il potere delle persone che sembrano non contare… ma che contano davvero). Le autrici Karen Fingerman, professoressa all’Università del Texas, e la scrittrice Melinda Blau, scrivevano che chiacchierare con il barista, la commessa, la parrucchiera e chi vediamo in palestra o in stazione, crea un senso di comunità, dandoci l’idea di appartenere a qualcosa di più grande e arricchisce la nostra quotidianità con emozioni nuove. Esperienze che il mondo virtuale non riesce a replicare con la stessa forza e imprevedibilità.
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Un sostegno alle famiglie e alla pediatria Socialità
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L’Associazione Alessia opera a favore dei genitori con figli che si devono trasferire in altri cantoni per cure speciali
Stefania Hubmann
Da quasi vent’anni il leone simbolo dell’associazione Alessia è sinonimo di un un sostegno crescente e innovativo per i bambini che in Ticino necessitano di cure pediatriche particolari. Sostegno che passa attraverso due canali principali: l’aiuto finanziario e morale alle famiglie coinvolte, sovente confrontate con il trasferimento dei piccoli pazienti in centri specialistici oltre Gottardo, e l’acquisto di macchinari all’avanguardia a favore di questa branca della medicina. L’ultimo progetto a questo livello riguarda una cabina audiometrica isolata elettromagneticamente per la sede principale dell’Istituto Pediatrico della Svizzera Italiana (ISPI) a Bellinzona, mentre da una precisa esigenza di numerosi genitori è scaturito il proposito di migliorare gli alloggi a loro riservati a Zurigo. L’associazione offre inoltre supporti concreti per aiutare i bambini, segnatamente sorelle e fratelli, ad affrontare il lutto, tema ancora avvolto da grande riserbo. Nell’autunno 2003 la piccola Alessia non riuscì a superare le complicazioni di una polmonite e spirò sul volo della Rega che la stava trasportando al Kinderspital di Zurigo. Il suo simbolo alla scuola dell’infanzia, che avrebbe iniziato assieme ai due fratelli gemelli nel gennaio 2004, è diventato il logo dell’associazione fondata quello stesso anno dalla madre Bernadette Waller unitamente a Gisela Vegezzi. Siccome anche questa famiglia di parenti aveva dovuto confrontarsi con la necessità di far capo al Kinderspital, le due mamme decisero di agire. La maggiore lacuna sul nostro territorio era costituita dalla mancanza di un reparto di cure intensive pediatriche. «Tale obiettivo – riconoscono oggi le due madri – era irrealistico, ma ci siamo subito rese conto che i genitori chiamati ad affrontare questa realtà non erano pochi. Abbiamo così
iniziato a raccogliere fondi, soprattutto attraverso i mercatini, per poter aiutare le famiglie dal punto di vista finanziario. Essere fisicamente vicini ai propri figli nella malattia è un prezioso elemento della cura riconosciuto dai medici, ma trasferirsi in prossimità di un centro specialistico vent’anni fa non era così semplice e ancora oggi comporta costi e organizzazione». Lo dimostrano le circa 160 famiglie che l’associazione aiuta ogni anno, prendendo in considerazione le diverse problematiche, non da ultimo quelle dei componenti che rimangono in Ticino. Ai 1156 nuclei familiari aiutati nel corso di oltre tre lustri (dati di fine 2020) sono stati destinati circa 760 mila franchi. Le spese più onerose per le famiglie si presentano quando è necessaria una degenza in un reparto pediatrico di punta quali quelli di Zurigo, Lucerna, Berna, Basilea, Losanna o Ginevra. Per l’alloggio l’associazione Alessia collabora con diverse fondazioni, in particolar modo con le Case Ronald McDonald che a prezzi modici mettono a disposizione camere con bagno privato in un’abitazione gestita da persone capaci di offrire ai genitori un sostegno adeguato. Nell’ambito della costruzione del nuovo Kinderspital dovrebbe concretizzarsi il progetto di una casa Ronald McDonald anche a Zurigo con un coinvolgimento accentuato dell’associazione Alessia. Negli anni l’attività di raccolta fondi e l’intera organizzazione di quest’ultima – con i coniugi Waller e Vegezzi di Vernate sempre in prima fila – si sono ampliate. Numerosi i sostegni e le iniziative a suo favore, come la donazione del ricavato di diversi mercati dell’usato. Il primo fu organizzato a Sant’Antonino da un amico di famiglia. Ne sono seguiti altri in diverse località del cantone fi-
Gisela Vegezzi (a sinistra) e Bernadette Waller (a destra) insieme al personale sanitario al momento della consegna della nuova incubatrice da trasporto per ambulanza ed elicottero.
no a giungere a Mendrisio con il RiTrovo, aperto da Pro Senectute pochi mesi fa quale portineria di quartiere. L’associazione ha inoltre percorso vie innovative, offrendo ad esempio un servizio personalizzato di bomboniere e sfruttando bene le reti sociali. Per l’Avvento, iniziato da poco, ha realizzato un calendario telefonico. Componendo lo 0900 24 12 21 (costo di un franco a chiamata) si possono ascoltare ogni giorno gli auguri di personaggi pubblici locali. Dalla nascita dell’associazione Alessia ad oggi il settore pediatrico cantonale ha conosciuto un notevole sviluppo, in particolare con la realizzazione dell’Istituto Pediatrico della Svizzera Italiana (ISPI). Impegno e tenacia hanno portato l’associazione – da pochi anni dotata di una propria sede a Bioggio grazie al sostegno di un benefattore – ad instaurare strette collaborazioni con diversi enti. Al momento è concentrata sul progetto di dotare l’ISPI di una cabina audiometrica isolata elettromagneticamen-
te. Oltre all’elevato standard qualitativo, l’apparecchiatura offre sufficiente spazio per la presenza di un genitore durante la visita ed è quindi utilizzabile anche per pazienti adulti. Con una spesa di 60mila franchi l’associazione coprirà i costi della parte pediatrica. Risale però al 2006 il primo importante contributo dell’associazione nell’acquisto di macchinari e materiale per migliorare il settore pediatrico a Sud delle Alpi. Al fine di evitare che il trasporto di prematuri dal Ticino in uno dei centri pediatrici nazionali fosse organizzato partendo dalla Svizzera interna con conseguente perdita di tempo, venne acquistata un’incubatrice da trasporto. Un’altra importante lacuna è stata colmata nel 2011 con la dotazione di un’ambulanza pediatrica, veicolo polivalente adatto anche al trasporto delle persone adulte. «Veicoli e apparecchi di questo genere durano una decina d’anni», spiegano le rappresentanti dell’associazione, «per cui si è già provveduto a sostituire l’incubatrice e teniamo presente
che la medesima operazione sarà necessaria per l’ambulanza. La nuova incubatrice, acquistata tre anni fa, a quel momento era un unicum in Europa, costruita appositamente per rispondere alle esigenze del Canton Ticino e pertanto in grado di accogliere neonati e bambini fino a un peso di 25 kg. Fra le donazioni per attrezzature e materiale (pari a circa 900 mila franchi in diciassette anni di attività) da evidenziare quelle a favore del Gruppo Interegionale Infermiere Pediatriche Svizzera Italiana (GIIPSI) dal quale partono sovente segnalazioni sui bisogni ancora senza risposta. La collaborazione con le infermiere pediatriche ha portato alla luce un aspetto importante e in parte ancora tabù. Si tratta del lutto vissuto dai bambini che perdono una sorella o un fratello. Per aiutarli ad affrontarlo, l’associazione Alessia e il GIIPSI hanno dato alle stampe due anni fa un libro illustrato intitolato «Nevo». La storia del pupazzo di neve che si scioglie, restando però vivo nel cuore e nei ricordi di chi gli ha voluto bene, è uno degli elementi che compongono la Scatola di sostegno. Il suo contenuto varia di volta in volta a seconda delle esigenze ed è consegnata dalle infermiere pediatriche durante le visite a domicilio. Partendo da un grande dolore personale, l’associazione Alessia ha saputo prodigarsi a favore di altre famiglie sofferenti, cercando di migliorare le possibilità di cura dei bambini e sostenendo nella difficoltà la cerchia familiare più stretta. Si è fatta conoscere attraverso il passaparola acquisendo sempre maggiore visibilità e credibilità, così da diventare un punto di riferimento per le famiglie e un partner affidabile per le istituzioni. Informazioni www.associazione-alessia.ch
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Viale dei ciliegi Catherine Barr-Jenni Desmond Quattordici lupi Editoriale Scienza. Da 8 anni
«Storia vera di un ritorno», è il sottotitolo di questo vigoroso albo-strenna di grande formato, che racconta il ritorno dei lupi a Yellowstone. Sterminati dai cacciatori, intorno al 1930 i lupi si estinsero nel parco, e senza di loro l’ambiente cominciò a deteriorarsi. Vennero reintrodotti nel 1995, dopo anni di discussioni e di battaglie. Quattordici lupi vennero presi dalle Montagne Rocciose canadesi e trasportati a Yellowstone. Questa è la storia di un ritorno, dunque, ma è anche la storia della rottura di un equilibrio e del suo ripristino. Perché i lupi hanno un ruolo fondamentale nell’equilibrio dell’ecosistema: senza di loro i grandi erbivori aumentano in modo eccessivo, inaridendo le praterie. Senza erba e germogli non crescono alberi, senza alberi non ci sono più uccelli. A Yellowstone, il brucare dei wapiti, grandi cervi, finì per danneggiare anche gli argini dei fiumi, facendo diminuire la vegetazione fluviale, e quindi i pesci, e gli habitat di specie come i castori. Inoltre, senza i
di Letizia Bolzani
lupi, i coyote poterono predare liberamente, soprattutto piccoli mammiferi, che diminuirono drasticamente. Insomma, questo effetto domino mostra bene come ogni specie, non solo i lupi, abbia un suo essenziale ruolo nell’equilibrio del pianeta. E mostra che quando un superpredatore sparisce, le ripercussioni arrivano a toccare anche le più piccole forme di vita, persino gli insetti che si nutrono degli avanzi delle prede. Questo albo però riesce a far capire tutto questo senza fare una fredda lezione sulla rinaturalizzazione, pur essendo un libro di non-fiction. Grazie al testo, poetico e solenne (e ben tradot-
to da Lucia Feoli), che incede con il ritmo della voce off di un bel documentario («nel parco ci sono rocce di tutti i colori, laghi di acqua bollente e pozze di fango gorgogliante. Le montagne innevate si protendono verso il cielo...»); e grazie alle maestose immagini dell’illustratrice britannica Jenni Desmond, (che come sempre riesce a infondere emozione anche in illustrazioni non narrative, ma scientifiche), questo libro offre un intenso omaggio alla natura, in particolare al mondo animale, e alla sua componente più profondamente «selvaggia». Quel mondo animale a cui, è bene non dimenticarlo, anche noi apparteniamo. Jory John e Benji Davies Ti voglio bene! Il Castoro. Da 3 anni
Non fatevi ingannare dal titolo, e nemmeno dall’albero a forma di cuore in copertina (ironicamente attenuato, peraltro, dall’espressione perplessa dell’orso che sta sotto, stritolato dall’abbraccio entusiastico dell’anatra): questo non è il solito albo su come è bello volersi bene,
quanto è dolce un abbraccio, eccetera. Magari alla fine il messaggio è anche quello, ma arriva attraverso una narrazione in cui lo humour dardeggia ad ogni pagina, anzi ad ogni battuta del testo (i ritmi comici dei dialoghi sono perfetti, e la lettura ad alta voce non potrà che potenziarli). Della serie: anche se sei una grande rompiscatole, Anatra, ti voglio bene. Sì perché a volte uno non è che abbia tutta questa voglia di abbracci, di galvanizzanti dichiarazioni di affetto, di «tempo di qualità» da trascorrere insieme in attività varie. Orso, per esempio, ama starsene in pace, da solo, in casa, con i suoi
libri, la sua radio, la sua tazza di tè. Ma ecco che Anatra bussa alla porta, più gasata che mai: «Orso! Sono io, Anatra!» Orso, che è burbero ma gentile, apre, e da qui il tormentone, tutto giocato sull’esaltazione di Anatra in contraltare alla perplessa pacatezza di Orso. «Guardati attorno, Orso! Chi mai vorrebbe starsene solo soletto in un giorno come questo?» «Io.»; «Non è una bella mattinata?» «No.» «Piacevole... adorabile... meravigliosa?» Iperbole e understatement si fronteggiano in un dialogo trascinante, e i lettori proveranno simpatia per l’adorabile Orso, dal cuore paziente, ma anche per la povera Anatra così affannosamente desiderosa di risultare simpatica. Il divertimento (garantito a piccoli e grandi) è affidato anche alle espressive immagini di Benji Davies, che già avevamo apprezzato per i deliziosi albi in cui è sia autore sia illustratore (tra i quali La balena della tempesta, L’isola del nonno, Fiocco di neve). Qui, in coppia con l’autore Jory John, Benji Davies dà vita alle avventure di Orso e Anatra, cominciate con l’altrettanto divertente albo Buonanotte!, sempre edito da Il Castoro.
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MONDO MIGROS
Un panettone doppiamente buono L’ampia gamma Migros di specialità dolciarie per le festività di fine anno include anche un prodotto particolarmente solidale: il panettone tradizionale realizzato all’interno di un laboratorio della Fondazione La Fonte, istituzione attiva da oltre quarant’anni nel sostegno alle persone con disabilità. La nascita di questo prodotto genuino rappresenta la storia di un affiatato team di sei persone che lavorano insieme nel laboratorio di produzione «Il Fornaio» di Agno sotto la guida e supervisione di un esperto mastro panettiere-pasticcere: quattro collaboratori con disabilità, un’ausiliaria e una collaboratrice in formazione. Tutti i collaboratori partecipano attivamente a tutta la fase di lavorazione, che comprende la preparazione e la pesa dell’impasto, la rotazione dei panettoni durante il processo di raffreddamento, il confezionamento e, non da ultimo, l’accurata pulizia e mantenimento dell’ordine nel laboratorio. Inoltre, la scatola del panettone è stata decorata con una graziosa striscia recante la scritta «Fatto da noi», opera degli utenti del centro diurno della Fonte. «Le particolari attenzioni dedicate al lavoro da parte del team, la qualità degli ingredienti utilizzati, la tipicità del lievito madre prodotto da noi, la lavorazione lenta e completamente artigianale, l’assenza di ogni additivo o conservante, nonché la professionalità e grande esperienza del nostro mastro pasticciere, fanno del panettone della Fonte una creazione delicata, soffice e ricca d’aroma», afferma Matteo Innocenti, direttore della Fonte. «Un prodotto che rappresenta un riuscito lavoro di squadra tra operatori e collaboratori con disabilità, fonte di grande soddisfazione e orgoglio per tutti i partecipanti e sicuramente di piacere per chi acquista e assaggerà questa dolce bontà». Da notare, infine, che il ricavato delle vendite del panettone viene riversato alla Fondazione La Fonte. Panettone tradizionale La Fonte 750 g Fr. 23.–.
Flavia Leuenberger Ceppi
Attualità ◆ Il tradizionale dolce natalizio della Fonte è prodotto artigianalmente con il prezioso contributo di alcuni utenti diversamente abili
Prodotti della regione
La Fondazione La Fonte
Oltre al panettone della Fondazione La Fonte, l’assortimento Migros di dolci natalizi prodotti nella Svizzera italiana include altre golosità. Da Airolo giungono le specialità della pasticceria Buletti sotto forma di Panettone e Pandoro al burro, e come novità da quest’anno il Panettone senza lattosio. Il mesolcinese Gianfranco Cuoco ci propone il Gonfiotto ai marroni; mentre da Losone arrivano il Panettone artigianale e il Panettone al gianduia della pasticceria Dolcemonaco. Infine, la panetteria-pasticceria Poncini di Maggia è presente sugli scaffali con la sua nota Triestina al cioccolato.
Costituita nel 1980, la Fondazione La Fonte accompagna circa 150 adulti con disabilità, offrendo loro opportunità di lavoro ma anche luoghi accoglienti dove poter abitare e sentirsi a casa. La Fonte offre 4 strutture abitative e 4 unità in ambito lavorativo. L’obiettivo della Fonte è quello di facilitare persone con disabilità nell’acquisire esperienze interessanti che rinforzino le loro capacità, la loro autonomia e responsabilità, il processo di apprendimento individuale e lo sviluppo di prospettive personali positive, rispettando la loro dignità e la loro libertà nelle scelte di vita. www.lafonte.ch
Il panettone La Fonte è frutto di un riuscito lavoro di squadra tra operatori e collaboratori con disabilità.
I gamberi svizzeri
Attualità ◆ Gli SwissShrimps rappresentano una gustosa e sostenibile alternativa ai prodotti di importazione. Li trovate in vendita al banco del pesce con servizio delle maggiori filiali Migros È a Rheinfelden, nel Canton Argovia, che vengono allevati i gamberi svizzeri SwissShrimps, sfruttando il calore residuo delle vicine saline per riscaldare le loro vasche. Questo innovativo metodo di allevamento a circuito chiuso permette di rinunciare all’utilizzo di antibiotici e all’eccessiva fertilizzazione dell’acqua. I crostacei crescono per ca. cinque mesi all’interno di vasche spaziose dove l’illuminazione rispecchia il loro ritmo naturale. L’alimentazione è costituita esclusivamente da materie prime di origine biologica certificata. L’elevato contenuto di ossigeno dell’acqua salata influisce inoltre sulla colorazione dei gamberi, che risulta di una bella lucentezza azzurrognola. Per garantire la massima freschezza del prodotto, la raccolta avviene lo stesso giorno della consegna ed entro 24 ore gli SwissShrimps sono disponibi-
La ricetta Spicy SwissShrimps
li presso il banco del pesce fresco dei negozi Migros senza dover viaggiare giorni e giorni per mezzo mondo. I gamberi svizzeri hanno un aroma delicato, leggermente nocciolato, e si prestano bene per la preparazione di moltissime ricette, da quelle più facili
e veloci a quelle più raffinate per stupire e ingolosire i propri ospiti. Azione 20% Gamberi SwissShrimps Svizzera per 100 g, al banco Fr. 9.50 invece di 11.90, dal 9 all’11.12.2021
Ingredienti per 2 persone • 300 g SwissShrimps • 60 ml olio di sesamo • 1 cucchiaino di fiocchi di peperoncino • 1 pizzico di pepe di Caienna • 2 spicchi d’aglio schiacciati • ½ cucchiaino di sale alpino • Maionese al coriandolo fatta in casa come dip • Opzionale 1 limetta
Preparazione
In un’ampia ciotola miscelare l’olio di sesamo, i fiocchi di peperoncino, il pepe di Caienna, l’aglio schiacciato e il sale alpino. Sgusciare i gamberi SwissShrimps e aggiungerli alla miscela. Lasciarli marinare nell’olio di sesamo per almeno 2 ore in frigorifero. Distribuire i gamberi su una teglia rivestita di carta da forno e versarvi sopra il rimanente olio. Infornare i gamberi nel forno preriscaldato con la funzione grill a ca. 230 °C per ca. 1-2 minuti per parte. Disporre i gamberi in una ciotola e servire con della maionese al coriandolo. A piacimento spruzzare sui gamberi qualche goccia di succo di limetta.
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MONDO MIGROS
Un prosciutto di grande pregio Farina di segale Novità Il crudo Pioradoro della Rapelli affinato all’aria dell’Alpe Piora nostrana di nuovo è una prelibatezza gradita da tutti i commensali disponibile ◆
Il prosciutto crudo Pioradoro è un prodotto d’eccellenza dei Mastri Salumieri della Rapelli di Stabio. Ottenuto dalla lavorazione artigianale delle migliori cosce di suini d’allevamento svizzero, si caratterizza per il suo aroma dolce e delicato, con una raffinata nota nocciolata. Una delle fasi più importanti della lunga lavorazione è senza dubbio l’affinamento, che avviene per ca. 4 mesi a ben 1964 metri d’altezza sull’Alpe Piora, nella regione del Ritom, il più vasto alpeggio del Cantone Ticino. Nelle cantine dell’alpe, grazie alle condizioni climatiche particolari dovute all’aria pura d’alta montagna, il prosciutto acquisisce delle caratteristiche organolettiche uniche e inconfondibili che lo rendono un prodotto ricercatissimo dagli estimatori delle specialità più genuine del nostro territorio. Per garantire un affinamento ottimale, i locali dove riposano le cosce vengono arieggiati quotidianamente aprendo le finestre. Il crudo Pioradoro è ottimo gustato come pregiato antipasto su un tagliere misto di salumi nostrani, oppure si abbina particolarmente bene ai formaggi a pasta molle o ancora come ingredienti di sfiziose ricette festive.
Farina di segale nostrana 500 g Fr. 1.70
Trancio di prosciutto crudo Pioradoro Rapelli per 100 g Fr. 7.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros
A un anno dall’incendio che ha colpito il Mulino Maroggia, l’apprezzata farina di segale al 100% ticinese è di nuovo disponibile sugli scaffali di Migros Ticino. «Ciò è stato possibile grazie alle condizioni climatiche favorevoli che abbiamo avuto in Ticino la scorsa estate, che di fatto hanno permesso di ottenere un buon raccolto», spiega Alessandro Fontana, direttore del mulino. «La qualità rispecchia quella degli ultimi anni. Dopo il raccolto, la segale è stata trasferita presso un collega d’oltre Gottardo che si oc-
cupa di macinare il cereale per conto nostro in questo periodo “post-incendio”». Rispetto alla confezione disponibile sinora, quella nuova risulta leggermente più grande, in quanto viene utilizzato un sistema di macinazione diverso che rende la segale più fine e, di conseguenza, più voluminosa. La farina di segale è un prodotto versatile, ideale come base per pani e prodotti da forno più saporiti rispetto a quelli realizzati con farine di frumento. È ottima anche per la preparazione di biscotti o grissini friabili. Annuncio pubblicitario
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SOCIETÀ
Gli effetti della galleria di base Istantanee sui trasporti
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Ripercussioni e sviluppi sui trasporti osservati dopo l’apertura della galleria di base del San Gottardo
Riccardo De Gottardi
Lo scorso giugno l’Ufficio federale dello sviluppo territoriale ha pubblicato un rapporto che rende conto degli sviluppi osservati tra la messa in esercizio della galleria di base del San Gottardo nel 2016 e il 2019, l’anno che ha preceduto l’attivazione del Ceneri. Ci soffermiamo oggi sugli effetti più immediati e visibili della nuova infrastruttura: sono quelli sui trasporti. La nuova opera ha ridotto le distanze, diminuito i tempi di viaggio, annullato le pendenze da superare. Di conseguenza ha incrementato la produttività dell’esercizio ferroviario e ha consentito di proporre un orario più denso nel traffico viaggiatori e treni più lunghi e più pesanti trainati da una sola locomotiva nel traffico delle merci. I tempi di percorrenza tra Basilea/Zurigo e Bellinzona/Lugano sono stati ridotti di oltre mezzora e la frequenza dei collegamenti è stata aumentata. Lo studio dell’Ufficio federale ha confrontato l’evoluzione del traffico ferroviario e stradale nel periodo 2016-2018. Nel 2018 al San Gottardo i viaggiatori che hanno utilizzato il treno sono stati giornalmente 9900, con una crescita del 16% rispetto al 2016, ossia di circa 1400 viaggiatori al giorno. Lo stesso Ufficio ha valutato che il 60-80% dell’incremento è dovuto al passaggio dalla strada alla ferrovia. In altre parole circa 1000 viaggiatori hanno preferito il viaggio in treno. Il numero di
automobili attraverso il San Gottardo è così diminuito del 4%, pur senza esplicare alcun effetto sui consueti congestionamenti. Il restante 20-40% degli spostamenti sarebbe costituito da nuovo traffico, si tratta cioè di movimenti che in precedenza non erano effettuati e che ora sono originati dalle nuove condizioni di viaggio. I risultati fino e compreso il 2019 sono ancora frammentari. Attestano tuttavia un nuovo balzo in avanti dei viaggiatori. A partire dal 2016 la crescita complessiva al San Gottardo è stata addirittura del 28%. Nel settore delle merci l’apertura della galleria non ha invece esplicato effetti di rilievo. Si è confermata la relativa stagnazione del traffico complessivo su ferro e su strada che si osserva già da una decina di anni, con tuttavia un recupero della quota di mercato della ferrovia a spese di quella stradale. Per la mobilità il primo bilancio della nuova opera risulta dunque complessivamente positivo. Queste tendenze saranno confermate nel futuro? Ci auguriamo che il prossimo rapporto dell’Ufficio federale dello sviluppo territoriale, preannunciato per il 2023, possa fornire esaurienti risposte. C’è motivo di essere ottimisti. I disagi legati ai numerosi cantieri aperti negli ultimi anni dovrebbero infatti essere superati. Inoltre vi è stato nel frattempo un ulteriore miglioramento delle infrastrutture e degli
impianti. Con l’apertura del Ceneri i tempi di percorrenza sono stati raccorciati ed è stata completata la messa in servizio della flotta dei nuovi treni Giruno, affiancati nei periodi di punta anche da composizioni a due piani. Sulla linea panoramica di montagna sono comparsi nuovi treni, con capolinea a Zurigo rispettivamente a Basilea a nord e a Locarno a sud, che offrono interessanti opportunità per la regione Tre valli. Il Cantone, con il sostegno della Confederazione e dei comuni e in collaborazione con le imprese di trasporto, ha potuto attivare dall’aprile 2021 un potenziamento rilevante dei servizi regionali TILO e di quelli su gomma. Sul fronte delle merci gli sviluppi sono invece più incerti, vuoi per l’altalenante congiuntura economica vuoi per i
limiti ancora presenti sulla rete. Con l’attivazione del Ceneri e del «corridoio 4 metri» il potenziale per ampliare la quota di mercato ferroviaria appare cospicuo. Gli interventi sugli impianti tecnologici per raccorciare il distanziamento dei treni a sud di Lugano non sono tuttavia ancora conclusi e, soprattutto, a monte e a valle del percorso in Svizzera la capacità mostra significative lacune e la qualità del servizio risulta ancora insoddisfacente. I potenziamenti sulle linee di accesso in Germania avanzano molto lentamente e se ne ipotizza la conclusione solo nel decennio 2040-2050. A sud la situazione sembrerebbe un po’ meno precaria ma non appare certamente tranquillizzante. Con il concorso di contributi federali sono stati da poco conclusi o sono in procinto
di esserlo miglioramenti sulla sagoma ammessa e la lunghezza dei treni sulla direttrice Luino-Gallarate e tra Chiasso e Milano; altri interventi analoghi sono programmati a breve-medio termine sulla direttrice del Sempione a valle di Domodossola fino a Novara. La situazione è tesa sulla tratta Chiasso-Milano, dove convergono e lottano per assicurarsi le tracce i treni merci, i treni viaggiatori a lunga percorrenza e i treni del sistema ferroviario regionale ticinese e lombardo, con esiti penalizzanti sia nel traffico dei viaggiatori sia in quello delle merci. Sarà possibile incrementare a breve puntualità e affidabilità dei servizi? L’opera del secolo è in realtà ancora incompiuta e di riflesso i risultati, promettenti ma provvisori. Annuncio pubblicitario
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Anno LXXXIV 6 dicembre 2021
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Sette donne dimenticate dalla storia Podcast
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Anna Swiss Riot Girls racconta le storie di sette donne svizzere mezze streghe mezze eroine
Sara Rossi Guidicelli
Sono streghe, ribelli, criminali. Dimenticatevi di loro. Hanno fatto la storia, si sono lanciate a cavallo per cambiare il mondo, o perlomeno la loro vita, e poi qualcuno le ha fermate, imbavagliate, chiuse in cantina. O almeno ci ha provato. Il podcast di Valentina Grignoli Anna Swiss Riot Girls torna in cantina, apre la porta, punta la torcia e tira fuori sette donne che sono state un po’ streghe, sì, magari anche un tantino criminali, è vero, ma molto ribelli, molto libere, molto potenti. A modo loro. «L’idea mi è venuta a Campo Blenio, sulle piste da sci. I bambini col maestro, io al bar». Ecco cosa succede a lasciare una mamma creativa per un attimo libera dalle sue incombenze. E Valentina Grignoli, insegnante, giornalista (collaboratrice di «Azione»), autrice di teatro, ha appena finito di realizzare il suo primo podcast, prodotto dalla Rsi, che si trova su www.rsi/anna. «L’idea era nel cassetto da un po’. Michela Murgia, con il suo Morgana mi ha ispirata; poi l’esposizione a Berna (Omaggio 2021) sulle donne svizzere che hanno combattuto per qualcosa di importante: ogni cantone ne sceglieva alcune, ai ragazzi di scuola hanno chiesto di dire quali avevano preferito: e le donne che hanno scelto le hanno esposte sulle case della capitale, per la prima volta la gente poteva vedere il loro ritratto e conoscere la loro storia».
Valentina ha insegnato al Csia, per dieci anni, prima di diventare giornalista. E quello che le manca di più degli anni insieme ai giovani è quella sfida di far diventare Petrarca un mito; perché si può, perché ogni cosa raccontata dal suo lato affascinante può appassionare, a tutte le età, chiunque. Basta farlo bene, basta crederci, studiare e scegliere il meglio da offrire. Swiss Riot Girls segue questo principio, presentando sette donne svizzere (o che con la Svizzera hanno avuto un legame); non sono solo pescate fra quelle della mostra, ce ne sono altre. Valentina ne aveva scelte venti, si è letta libri, ha guardato documentari, ha cercato in biblioteca e su internet, raccogliendo fiumi di notizie. E poi è andata in studio, e ha registrato venti minuti per sette donne tra quelle che sentiva più affini a lei, quelle che più la lasciavano a bocca aperta. Voleva fare la strega o il cowboy, Valentina Grignoli da piccola. «Non mi piacciono quelle troppo brave, quelle pulite, senza difetti. Amo le storte, le dimenticate, quelle che cadono; perché la vita è così. È bello avere dei modelli, benvengano i film sulle eroine del passato, dobbiamo pure seguire degli esempi. Ma per immedesimarsi davvero ci deve essere una falla da cui entrare, in cui intrufolarsi e guardare meglio, da dentro». La sorpresa: queste donne hanno vissuto così, in quell’epoca lì (Settecento,
Ottocento, inizio Novecento) e nessuno oggi le ricorda? Ma perché? Ce n’è una: Leny Bider, la prima attrice di film muti svizzera, bravissima, stupenda. Il fratello l’ha fatta sposare, contro la sua volontà, stroncandone la carriera. Lui era pilota, è morto ubriaco. Lei si è sparata dalla disperazione. E chi è stato ricordato? Lui, il bravo pilota. Di lei, quasi niente. E Annemarie Schwarzenbach, la lesbica, la viaggiatrice, la controcorrente. Si drogava, non ci stava, sua madre le ha bruciato tutto quello che ha scritto.
Sabine Spielrein è ricordata solo come l’amante di Carl Gustav Jung, ma sapete cosa ha fatto? Un sacco di cose. Ascoltare per credere. E di tutte loro hanno calpestato i diritti, il diritto di esprimersi, di amare, di scegliere, di aiutare a abortire, di essere. Questo podcast ha qualcosa di punk. Già il nome, che si rifà alle ragazze punk rock americane degli anni Novanta, quando Valentina Grignoli era una ragazza anche lei, stufe del maschilismo, degli abusi a scuola e a casa, del patriarcato. «Le Riot
Girls erano giovanissime, erano aperte, combattevano, avevano ideali, non erano razionali, a volte non erano neanche nel giusto, ma è questo che mi interessa di loro: avevano idee». E le musiche del podcast sono di una cantante punk, Camilla Sparksss, canadese-ticinese che crea musica elettronica, ha curato la sigla e ha firmato gli interventi musicali che accompagnano la narrazione. Scritto pensando ai giovani, alle giovani, giunto però alle orecchie di tutti, fresco e diretto, rigoroso e divertente, Swiss Riot Girls termina ogni puntata con il commento di un allievo di scuola: dopo aver raccontato la storia di una donna del passato, qualcuno di molto giovane oggi commenta liberamente, a caldo. «Mi ci vedo», dice una ragazza. «Credo che succedano ancora oggi abusi del genere», dice un altro. «Che bello scoprire questa donna, sono cose che mi interessano». Potere delle storie. E il podcast potrebbe anche finire a scuola, con i docenti di storia che lo fanno ascoltare; il Gruppo Ticino di Amnesty International vorrebbe creare schede didattiche; un’insegnante del Csia vorrebbe farne dei Murales insieme ai ragazzi. «Mi interessa soprattutto che lo ascoltino loro», dice l’autrice. «Sono i giovani che devono accedere alla Storia, per avere gli strumenti, perché sono loro che costruiscono il futuro». Annuncio pubblicitario
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La lunga storia di un maestoso torchio Territorio
Il torchio di Cavigliano dai fasti del 1600 ai restauri degli anni 2000
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Elia Stampanoni
Se non lo si conosce quasi non si vede. Il torchio di Cavigliano si deve cercare, rallentando e fermandosi nel mezzo del suggestivo borgo delle Terre di Pedemonte, collocato all’imbocco della valle Onsernone. Dopo oltre 400 anni di vicissitudini e scampato dall’abbandono, l’attrezzo ha conservato la sua ubicazione in piazza Al Torchio, lungo la via cantonale che attraversa il paese. Si tratta di uno strumento impressionante per le sue dimensioni e fa subito intuire quanto dovessero essere importanti le attività legate alla viticoltura nei secoli passati. La trave principale è per esempio formata da un unico tronco di castagno lungo quasi dieci metri, per un peso che s’avvicina alle cinque tonnellate a cui sono state aggiunte quattro grosse pietre per aumentarne ulteriormente il peso e garantire l’equilibrio. La vite e la madrevite, che permettevano il movimento del torchio a leva, sono pure di straordinaria manifattura: la prima ricavata da un tondone di noce di oltre quattro metri di lunghezza e 115 kg di peso, la seconda da un parallelepipedo di quercia per un peso vicino ai 200 Kg. Ci sono poi le stanghe, i montanti e i contrappesi, senza dimenticare i basamenti, i vari travetti e il tavolato, a cui s’aggiunge la vasca in pietra, dove gorgogliava il succo, frutto della pressatura. Un macchinario imponente, che si può oggi visitare nella sua sede originale a Cavigliano, riassaporando per un attimo anche le sue molte traversie che, come indica la data incisa nel-
Piazza Al Torchio, Cavigliano. (E. Stampanoni)
la trave, si presume siano iniziate nel lontano 1609. A ricostruire la storia del torchio di Cavigliano ci ha provato Silvio Marazzi, artefice di una ricerca approfondita negli archivi, sfociata nella stampa di un libro presentato lo scorso settembre ed edito dal Museo regionale delle Centovalli e del Pedemonte. Nella pubblicazione l’autore ripercorre le vicissitudini del torchio, aggiungendovi pure notizie e fatti correlati, come la storia degli altri torchi presenti a Cavigliano, una descrizione delle sue parti e il funzionamento. Intrecciando pergamene, documenti, leggende e anche informazioni tramandate oralmente, l’autore riesce a concretizzare delle supposizioni molto attendibili sulla storia dell’imponente macchinario
che, come leggiamo, inizialmente «è appartenuto a gente di Golino, verosimilmente ai Modino». Sì, perché è proprio nel 1609 che alcuni benestanti proprietari del vicino borgo decisero di costruire il «torchio nuovo», inizialmente chiamato così poiché era l’ultimo dei tre già esistenti a Cavigliano e anche l’unico giunto integro fino ai giorni nostri. Il torchio nacque in un periodo di grande fervore per il settore viticolo, quando «la vite era di casa un po’ ovunque», come leggiamo nell’introduzione di Silvio Marazzi. Uva che veniva lavorata in diversi passaggi, tra cui anche la torchiatura tramite questa pressa a leva, la quale permetteva di estrarre anche le ultime gocce dalle vinacce. Fino a Ottocento inoltrato,
come racconta l’autore, erano inoltre conosciuti solo metodi rudimentali per la depurazione dell’acqua che era spesso poco adatta al consumo in quanto possibile veicolo di malattie e infezioni, mentre il vino, grazie alla sterilità garantita dal processo di fermentazione, ha rappresentato per secoli un’importante fonte dissetante e pura. Il primo documento ufficiale relativo al macchinario risale al 1670, con la creazione della «società del torchio nuovo», che ottenne la concessione d’uso del torchio per 75 lire annue, prima di acquisirlo al prezzo di 1200 lire qualche anno dopo. Dal 1768 le notizie si fanno più affidabili grazie all’avvio del Libro dei conti della comunità di Cavigliano, che ha permesso anche all’autore di ritrovare informazioni e documenti più attendibili. Il periodo forse più tribolato iniziò dopo il 1953, anno in cui il torchio cessò la sua attività, sopraffatto dall’evoluzione di nuove tecniche e soprattutto dai torchietti a vite in ferro, i quali soppiantarono abbastanza velocemente quelli a leva, più impegnativi da maneggiare. Il maestoso macchinario rischiò l’abbandono, tanto che inizialmente il locale venne utilizzato come deposito di materiale e, nel 1969, il Comune decise addirittura la vendita, pur mantenendo la proprietà dello stabile. Dopo pochi anni l’autorità di Cavigliano cercò però di riacquistare il suo torchio: un’operazione che non fu semplice ma che si risolse nel 1976, quando il torchio tornò in suo possesso, senza
aver mai abbandonato la sua collocazione originale. Dopo altri anni d’oblio e dopo una sistemazione provvisoria avvenuta nel 1980, ecco nel 2007 il restauro definitivo dello stabile e del macchinario, con anche la sistemazione della piazza antistante. Degli interventi di valorizzazione che hanno saputo ridare dignità e valore a uno strumento di lavoro tanto ingegnoso quanto impressionante. Oggi il torchio non svolge più la sua funzione, ma l’edificio è stato attrezzato per accogliere piccoli incontri e aperitivi in un ambiente rurale di certo affascinante, memori delle tonnellate di vinacce torchiate sotto il suo peso. Il torchio, come leggiamo in epilogo di pubblicazione, in cui con degli schemi viene anche illustrato il funzionamento, poteva lavorare fino a 24 brente per ogni singola torchiatura, ossia circa 1200 litri o 12 quintali di vinacce. Ogni torchiatura richiedeva più fasi, a dipendenza della quantità e della qualità del prodotto, ma si stima che per grosse quantità (oltre le 20 brente) erano necessarie almeno quattro ore di lavoro. Un’operazione interamente manuale, ovviamente, che oggi possiamo solo immaginare. Bibliografia Silvio Marazzi, Il torchio di Cavigliano, testimonianza di quattro secoli di storia, edizione Museo regionale delle Centovalli e del Pedemonte, Intragna, 2021. (www. museocentovallipedemonte.ch)
Il potere curativo dei frutti del bosco Fitoterapia
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Dal pungitopo all’«amico del cuore», molte le qualità delle bacche autunnali e invernali
Eliana Bernasconi
aquifolium)? È molto usato proprio nel periodo natalizio, perché le sue bacche sono molto decorative. Da una sua varietà, ovvero dall’Ilex paraguariensis si ricava la famosa «yerba mate», bevanda tonica consumatissima nell’America latina, e in particolare in Argentina. Oltre ad evocare il Natale, le foglie dure e acuminate dell’Agrifoglio, in tempi remoti, si appendevano insieme ai salumi per allontanare i topi, per questo era chiamato anche Pungitopo. Di questa pianta si usano radici, corteccia, foglie e bacche; contiene gomme, zuc-
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Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
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Il freddo non ci invita a passeggiare nei boschi spogli, dove però si possono ancora fare felici incontri: a partire dall’autunno, sono i piccoli frutti rossi o violacei maturati lentamente dopo la lontana fioritura primaverile a colorare tratti dei nostri boschi. Delle bacche, la Fitoterapia studia da sempre il potere curativo che posseggono: il loro fitocomplesso racchiude principi attivi detti flavonoidi, sostanze antiossidanti che contrastano l’attacco di agenti esterni e attivano le forme di difesa dell’organismo. Sono considerate per questa ragione antiinfiammatorie e antireumatiche. Curano, inoltre, affezioni respiratorie, disturbi digestivi e circolatori. Chiedendovi di seguire l’avvertimento di non avvicinarvi mai alle bacche senza una guida sicura (alcune sono tossiche), vale la pena di parlare di quattro piante che sono ricche di proprietà curative e che si possono incontrare nei nostri boschi: sono l’Agrifoglio, il Biancospino, il Ginepro e la Rosa canina. Chi non conosce l’Agrifoglio (Ilex
cheri e tannini. L’Agrifoglio è indicato anche per trattare le infezioni febbrili: di fatto, nella medicina popolare il decotto di foglie e corteccia era un febbrifugo. Potrebbe poi essere interessante sapere che le sue foglie sono ricche di caffeina e i frutti tostati sostituivano il caffè. Narra una leggenda che Baldur, figlio di Odino, colpito da una freccia del suo nemico Loki, morì presso un agrifoglio; e fu per questo che Odino rese la pianta un sempreverde dotandola di bacche rosse in ricordo del sangue sparso dal figlio. Ultima curiosità: era in legno di Agrifoglio, l’arco che Ulisse tese tornando a Itaca. Crataegus axyacantha è invece il nome scientifico del Biancospino. Diffuso in tutta Europa, con i suoi rami cosparsi di spine, finita la candida fioritura dal delicato profumo, produce bacche rosse che maturano nella tarda estate. Sono commestibili e amate dagli uccelli. È chiamato «l’amico del cuore» per l’importantissima azione cardioprotettiva confermata da studi clinici: rafforza e regolarizza il ritmo del cuore, ha un’azione dilatatrice
sui vasi coronarici, modula la pressione, cura stati d’ansia, nervosismo, tachicardia emotiva, stanchezza, insonnia, ritenzione idrica e palpitazioni, e agisce sul sistema nervoso centrale con azione sedativa. Non inganni il timido aspetto, nella tradizione celtica era una pianta sacra molto temuta. Associata alla divinità femminile, nei matrimoni gli altari erano adornati con i suoi fiori bianchi per propiziare la fertilità. Sempre nei boschi incontriamo un altro sempreverde spinoso: il Ginepro. Ha piccole bacche che da verdi diventano grigio-azzurre. In passato era ritenuto portatore di protezione, coraggio e fortuna, se piantato presso le abitazioni. Contiene resina, olio essenziale, gomme e sali minerali, e di esso si utilizzano foglie, frutti e il durissimo legno. È antisettico, espettorante e depurativo: in infuso, calma la tosse e disinfetta le vie urinarie. Un tempo andato, si masticavano le sue bacche come stimolante dell’appetito o come digestivo. L’olio essenziale del Ginepro cura le vene varicose. Tra le curiosità: il Gin, noto superalcolico
ottenuto dalla distillazione di cereali, erbe e spezie, nacque come liquore curativo negli antichi monasteri e deve il suo nome proprio alle bacche di Ginepro che ne sono una componente essenziale. Con un pizzico di fortuna nei boschi troviamo anche i piccoli frutti della Rosa Canina, o Rosa selvatica: sono di un rosso opaco con una leggera peluria e contengono piccoli semi all’interno; di forma leggermente ovale, si utilizzano a fine inverno, quando il primo gelo li rende più dolci. I cinque petali hanno sfumature di un delicatissimo rosa, le bacche contengono olio essenziale, tannino, acido gallico e soprattutto una grandissima quantità di vitamina C che migliora l’assorbimento del ferro. Regalano energia, sono rinfrescanti, antinfiammatorie e diuretiche. Con la Rosa canina si preparavano deliziose marmellate.
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Prevenire gli incidenti sportivi
Salute ◆ L’attività fisica è essenziale e l’infortunio, sempre in agguato, può essere evitato Maria Grazia Buletti
È indispensabile muoversi regolarmente affinché il corpo umano funzioni bene. L’esercizio e lo sport sono essenziali per una buona qualità di vita a condizione di osservare alcune regole: preparazione adeguata, intensità di pratica nello sport eletto consona al proprio stato di salute, scelta di attività adatta alle proprie capacità e all’età, e altre raccomandazioni atte a prevenire, o ridurre al minimo, il rischio di infortuni. «Intensità e resistenza di ogni allenamento dipendono dal singolo: un’elevata intensità, allenamenti frequenti e prolungati, nonché tipi di movimento impegnativi, possono aumentare il rischio di lesione», è la sintesi dell’opuscolo tecnico sulla prevenzione degli infortuni nello sport dell’Ufficio prevenzione infortuni (Upi). Parliamo di prevenzione degli incidenti nella pratica di uno sport, a livello amatoriale come pure agonistico, con Danilo Togninalli, specialista in chirurgia ortopedica e medicina dello sport SEMS alla Clinica Ars Medica di Gravesano, e con la fisioterapista Véronique Vidal, fisioterapista dello sport. «Le attività sportive svolte con la giusta preparazione consentono di contribuire direttamente alla propria sicurezza», afferma il dottor Togninalli, convinto dell’effetto preventivo, d’altronde comprovato, del movimento e dell’allenamento nella preparazione di un’attività sportiva per la quale «esercizi di forza, equilibrio e resistenza» saranno utili a cominciare con il piede giusto, soprattutto dopo un lungo tempo di inattività (come ad esempio è successo con il Covid), e per le persone anziane. Senza un’adeguata preparazione è facile farsi male e incappare in uno dei due tipi di infortuni: «Parliamo di quelli acuti, su trauma unico come ad esempio una distorsione, una caduta, uno strappo ligamentoso a seguito di un movimento violento, e parliamo di lesioni da sovraccarico: microtrau-
Il dottor Danilo Togninalli, specialista in chirurgia ortopedica e medicina dello sport SEMS alla Clinica Ars Medica di Gravesano e la fisioterapista Véronique Vidal, specializzata in fisioterapia dello sport. (Stefano Spinelli)
mi ripetuti che a un certo punto portano la persona a consultare il medico a causa del dolore persistente che cronicizza». Per mettersi al riparo dai fattori di rischio più frequenti, la soluzione sta nella prevenzione, spiega l’ortopedico: «Bisogna evitare uno squilibrio fra ciò che l’organismo può dare e ciò che gli si chiede di fare: talvolta manca l’equilibrio fra la capacità aerobica del nostro sistema cardiocircolatorio e quella di tendini, muscoli, articolazioni (strutture passive alle quali si chiede di sopportate il carico) che risulta meno ampia in quel momento». Come dire: se il motore (cuore) è performante, non significa che il telaio (l’apparato muscolo-scheletrico) ne sia immediatamente all’altezza: «A questo punto entra in gioco la prevenzione: se motore e telaio sono in pari va bene, altrimenti le ambizioni di progressione nella pratica dello sport devono progredire in funzione del raggiungimento di questo equilibrio».
Idealmente, il medico consiglia che all’inizio della pratica di ogni attività sportiva si faccia un «punto della situazione» e ribadisce: «Ammortizzatori dinamici (muscoli, tendini) e strutture passive portanti (articolazioni con cartilagini, ligamenti e scheletro) devono risultare in armonia con il sistema cardiocircolatorio (motore)». Togninalli ripropone l’esempio della pandemia e della forma fisica che essa ci ha più o meno sottratto con l’obbligata minore mobilità: «Chi ritorna a praticare attività fisica deve partire da una progressione monitorata e adeguata per gradi: non dimentichiamo che cuore e polmoni riescono a costruire e recuperare tre volte più velocemente rispetto alle strutture passive. Per evitare che i miei muscoli e i miei tendini siano sopraffatti dalla condizione generale, devo dare loro il tempo di recuperare». Un concetto con il quale è in linea la fisioterapista Véronique Vidal, esperta dell’apparato neuro-mu-
scolo-scheletrico non solo dal profilo anatomico, ma anche da quello funzionale: «Tutto quanto è relativo alla preparazione delle persone che vogliono praticare sport, vale per qualsiasi attività. E la riduzione del rischio di incappare in un infortunio, sia esso da sovraccarico sia acuto, dipende dalla preparazione a cui ci si è dedicati nel riuscire a gestire correttamente le forze messe in gioco dall’attività stessa». È quindi sempre meglio essere preparati: «Tutti ricordano la prima giornata di sci a inizio stagione quando, se non si è praticata un po’ di ginnastica pre-sciatoria, il giorno dopo si faranno i conti coi dolori muscolari». Vidal porta un semplice esempio: «Se carichi cento chili su un corpo preparato a “caricarne” solo ottanta, esso reagirà con la produzione di acido lattico, fino al possibile infortunio. Una base di allenamento e di caricabilità gli permette invece di reagire con rischi minori e reazioni adegua-
te anche su eventuali sovraccarichi». Sottolineando l’importanza della preparazione come prevenzione degli infortuni, il Centro dello sport di Manno della Clinica Ars Medica propone alcune riflessioni: «Siamo sicuri di essere preparati adeguatamente prima di tornare sulle piste? Abbiamo seguito gli esercizi preparatori? Le nostre ginocchia sono pronte ad essere sottoposte a un tale stress per tutta la giornata?». Questioni a cui risponde con l’offerta di un corso preparatorio dedicato «a tutti coloro che vogliono tornare a praticare gli sport invernali con la giusta preparazione atletica». Il ruolo determinante nella prevenzione degli infortuni sportivi è dunque dato dalla consapevolezza dei fattori di rischio intrinseci come età, infortuni precedenti, caratteristiche biologiche, tensioni, stile di vita (fumo, alcol), e da quelli estrinseci come equipaggiamento adeguato e condizioni meteo, insieme a una consona preparazione atletica. A questo proposito, il dottor Togninalli riflette sul naturale invecchiamento del nostro organismo e si sofferma su quello che definisce «invecchiare con stile» anche nella pratica delle attività sportive: «Queste considerazioni scaturiscono dall’osservazione di alcuni miei pazienti anziani che affrontano serenamente eventuali acciacchi e con successo le relative cure. Al contrario di alcune persone che non si persuadono del fatto che dopo i 50 anni non possiamo più essere performanti al pari del tempo giovanile, chi sa invecchiare con stile è cosciente che movimento e allenamento facciano bene e fanno stare bene. Sa però adeguare il movimento alle sue possibilità e alla sua condizione, con uno stile di vita che previene infortuni e permette di godere serenamente delle gioie di esercizi semplici, equilibrati e costanti, al riparo dalla frustrazione di chi vorrebbe raggiungere i risultati di un tempo senza più riuscirci».
Un’elettrica da montagna, anche se…
Motori ◆ La BMW iX, manifesto tecnologico del gruppo tedesco, ha migliorato le prestazioni in autonomia, potenza e prestazioni; non si può dire lo stesso del prezzo Mario Alberto Cucchi
Una prova estrema per un’automobile elettrica? Semplice: basta affrontare un dislivello importante come andare in montagna, magari con temperature molto rigide e, perché no, con una parte del percorso effettuato in notturna. Se poi si vuole davvero esagerare si può anche accendere il climatizzatore e magari pure i sedili riscaldabili elettricamente senza dimenticarsi del sistema di infotainment per ascoltare della buona musica. Proprio così. Questi sono tutti elementi che contribuiscono ad aumentare l’assorbimento di energia e di conseguenza a diminuire l’autonomia. Sino a pochi anni or sono era proprio impensabile utilizzare una vettura elettrica per andare in montagna. Il freddo e la salita «tagliavano le gambe» della già pur risicata autonomia. Oggi le cose sono cambiate ed è per questo che, mettendoci al volante di una BMW iX, abbiamo voluto affrontare un percorso montano con temperature vicine allo zero.
La BMW iX rappresenta il manifesto tecnologico del gruppo tedesco. Per la Casa bavarese la lettera «i» equivale all’innovazione che porta all’interno del mondo elettrificato mentre la «X» indica il mondo della mobilità a quattro ruote motrici. La nuova iX li rappresenta entrambi e ri-
unisce in un solo mezzo la massima espressione della tecnologia attuale rendendola anche espandibile per il futuro. In pratica si tratta di un mezzo upgradabile. Computer più potenti, sensori più definiti e connettività veloce. Tutto ciò permette oggi una guida
assistita di secondo livello espandibile in futuro con le nuove tecnologie, rispettando gli eventuali cambiamenti normativi che saranno introdotti. I sensori sono ventidue e controllano l’intera vettura. Telecamere da otto mega pixel e sensori radar che sono in grado di analizzare fino a 300 metri nella parte frontale del veicolo. Tutti integrati in una calandra anteriore che rappresenta l’emblema tecnologico della vettura. Questa calandra tipicamente BMW è realizzata in polimeri in grado di autoripararsi eliminando piccoli graffi e mantenendo la massima performance dei sensori. I motori sono elettrici: uno sulla parte anteriore e uno su quella posteriore. La trazione è integrale. Abbiamo testato la motricità che resta buona anche su fondi con scarsa aderenza, grazie a sistemi elettronici che hanno un controllo diretto sullo slittamento delle ruote intervenendo in modo quasi impercettibile per il
guidatore ma decisamente efficiente e puntuale. Due le versioni disponibili: iX 40 e iX 50. Tra queste cambia il prezzo, l’autonomia, la potenza e le prestazioni. I cavalli per la versione d’accesso sono già 326, mentre l’autonomia è di 425 chilometri con un prezzo a partire da 98’700 franchi svizzeri, che salgono a 115’900 per la versione più potente iX50 con i suoi 523 cavalli di potenza e un’autonomia massima di circa 600 chilometri. Quest’ultima, per due motivi, è la versione da scegliere se dovete fare tanti chilometri. Il primo lo abbiamo imparato nella nostra prova. L’autonomia dichiarata scende e di molto nel momento in cui si affrontano salite e le condizioni ambientali sono sfavorevoli. Il secondo motivo è che, guidando un’automobile elettrica, quando si vede che l’autonomia residua è del dieci per cento ci si inizia a preoccupare, e molto, dato che le colonnine di ricarica non sono certo frequenti come i distributori di benzina.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 6 dicembre 2021
Approdi e derive
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azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ / RUBRICHE
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di Lina Bertola
Prove di lentezza
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Il bisogno di rallentare la nostra vita, tutta orientata all’efficienza, cercando di resistere a velocissime rincorse che la privano della sua qualità e del suo senso, è un sentimento sempre più diffuso e condiviso. Questo sentimento di malessere esistenziale comincia ad esprimersi anche in diverse proposte concrete: non più solo nuove visioni della vita ma pure occasioni che ci mettano in condizione di realizzarle. Sono proposte che mirano tutte a contrastare l’idea dominante secondo cui la velocità sarebbe compagna sempre gradita e insostituibile. Ecco un paio di esempi tratti dalla cronaca recente. La catena Jumbo, nei Paesi Bassi, aprirà a breve, nei suoi supermercati, la cosiddetta «cassa lenta», una corsia al rallentatore nella quale è facile immaginare cassiere e cassieri più rilassati e comunicativi e clienti sereni e sorridenti che scelgono di aspettare tranquillamente il loro turno. Possibili resistenze da parte
di imprese che tendono a potenziare le casse automatiche, con relativa diminuzione del personale, sono senz’altro prevedibili. C’è comunque da sperare che la novità possa diffondersi, non solo per alleggerire la solitudine di molti anziani, offrendo loro momenti di socializzazione, qualche chiacchiera spensierata ed estemporanea, borsellino in mano. L’idea è infatti interessante anche perché a tutti, compresi i giovani più affaccendati, questo presentarsi della lentezza come opzione davanti ai propri carrelli potrebbe suggerire domande spesso impensate. Quanta fretta ho? Che cosa mi spinge a calcolare con estrema precisione, fin nei minimi dettagli, ma di fatto spesso sbagliando e imprecando, quale sia la coda più veloce? Un’altra novità arriva sempre dai Paesi Bassi con il «treno lento» che offre una tranquilla notte di sonno nel viaggio tra Amsterdam a Zurigo. Niente code in aeroporto né stress da
La società connessa
coincidenze. Con slancio forse davvero eccessivo, la nuova offerta è stata definita «viaggio filosofico». Senza esagerarne l’importanza, queste nuove possibilità sono segni visibili del tentativo di rimettere in movimento aspetti oggi sempre più trascurati della nostra esperienza del tempo. Esperienze oggi soffocate proprio dal mantra della velocità che ci costringe a vivere nel cosiddetto tempo reale, senza permetterci di stare nel tempo, di sostare nei suoi momenti, di percepire i suoi passaggi, e soprattutto di abitare i luoghi in cui sperimentarli. Questi luoghi del tempo sono i luoghi dell’anima in cui risuona il senso del nostro vivere. Perché la lentezza è innanzitutto un sentimento, un’esperienza intima che può prescindere dalla giostra impazzita del vivere sulla superficie del tempo. È il tempo dell’interiorità. Riappropriarci dei luoghi della lentezza può significare anche imparare ad abitare in altro modo la velo-
cità spesso ineludibile del vivere quotidiano. La lentezza sperimentata nel nostro mondo interiore può permetterci di riconoscere il valore dell’attesa, dell’attendere che nutre l’attenzione, in una relazione armoniosa con noi stessi e con la presenza degli altri. La lentezza custodita nell’animo può insegnarci anche a sostare nel desiderio, a non sacrificare il suo valore esistenziale, la tensione ideale che sempre lo abita. Ci invita a non consegnarlo al bisogno di realizzarlo, o meglio di consumarlo, subito. Insomma, questa lentezza coltivata nel nostro sentimento di interiorità può proteggerci dai richiami di un mondo ridotto a merci da assumere e scambiare velocemente, relazioni umane e sentimenti compresi. Dal nostro intimo vissuto della lentezza possono infatti nascere e fiorire nuove posture, più attente al valore della vita anche in un mondo inevitabilmente sempre più veloce. Concludo con le illuminanti parole di
Luis Sepulveda, straordinario narratore scomparso l’anno scorso. «Quando il mio nipotino mi ha posto un quesito sulla lentezza gli ho detto: lasciami un po’ di tempo e risponderò alla tua domanda». È nato così il suo splendido racconto Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza. La lumaca si chiama Ribelle e intraprende un viaggio, portandosi addosso tutta la sua lentezza: un viaggio che è metafora del camminare lentamente dentro la vita e dentro le sue domande di senso. La lumaca Ribelle si mette in viaggio, camminando dentro tutti i tempi della lentezza. È alla ricerca di risposte alle proprie domande e nell’incontro con altri animali impara a comprendere le vite degli altri e impara a riconoscervi il cosmo di cui tutti facciamo parte. La storia della lumaca Ribelle è la storia di chi non si accontenta di ciò che è lì da vedere e lentamente, nei tempi lunghi dell’attenzione, allunga lo sguardo altrove.
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di Natascha Fioretti
Foglie in preda al vento
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Come state? Una domanda bizzarra, penserete, io però la sento necessaria perché scontata non è la risposta. Lo sapete, adoro il periodo che precede il Natale fatto di candele accese e un profumo misto di cannella, cioccolata, pan pepato e biscotti appena sfornati. Il buio illuminato dalle luci. L’aria che ti punge naso e orecchie, ti fa strizzare gli occhi e ti ricorda che ci sei, sei presente all’appello dell’universo. Ma arrivata al dunque quest’anno mi riscopro sottotono. Sarà che sono a dieta (non ridete è una cosa seria!). Sarà che mi sono portata avanti troppo presto (per paura di non trovarne più, come l’anno scorso, ho comprato il calendario dell’Avvento già il 5 di novembre) gongolandomi in un sentimento di Vorfreude durante le miti e colorate giornate ottobrine. Sarà, dunque, ma in questi giorni di dicembre avverto un sentimento di incertezza. Le
temperature di colpo si sono irrigidite, l’aria ballerina e pungente attraversa dispettosa la coltre d’abiti caldi sferzando piccole frustate all’animo che colto di sorpresa si ritira. Al di là delle atmosfere romantiche, delle rimembranze fanciullesche di Natali imbiancati e di messe cantate in Germania, più di tutto questo lungo periodo ha sempre rappresentato un punto fermo. Per i suoi riti naturalmente, le tradizioni. Per quegli appuntamenti festosi che animano e vestono piazze e strade cittadine. Ho sempre avvertito una sorta di magia nell’aria che mi ammantava protettiva. Mi faceva sentire in diritto di fermarmi, tirare un bel respiro, osservare le cose con più calma, farmi pat-pat sulla spalla, invitare gli amici per una cioccolata calda e una gigantesca fetta di torta. Se potessi mi trasformerei volentieri nella talpa di Charlie Mackesy, mi
La nutrizionista
aiuterebbe a cambiare umore. Andrei nei boschi con la volpe e il cavallo. Al sorgere di un problema mangerei una torta per poi sdraiarmi sotto un albero e schiacciare un pisolino. Se il problema non si risolve pazienza. Mi sono gustata una torta (le talpe notoriamente non fanno diete e sono felici ugualmente). Sognando, per ora, mi accontento della domenica. Da qualche tempo con alcuni cari amici pranziamo insieme. Ci deliziano della loro presenza dei simpaticissimi gatti che magicamente compaiono quando si va tavola. Di solito c’è la zuppa Thai piccante al currry e un mix di ravioli al vapore. Segue il dolce: tanti assaggi di torte sfornate dal nostro caffè camorinense preferito. Domenica scorsa eravamo indecisi se dare il primo premio alla variante pere e cioccolato o alla cheesecake. Nel frattempo abbiamo pensato di proporci come comitato as-
saggiatore di torte. Se state pensando alla mia dieta sappiate che la domenica è il mio giorno libero (non vorrei vi faceste delle idee sbagliate!). Dunque, per fortuna, anche nell’incertezza alcune cose belle restano. Restano perché le coltiviamo, perché scegliamo di credere e impegnarci in un progetto, mettiamo il cuore in ciò che facciamo. E se possiamo vederla in questi termini vuol dire che siamo fortunati. C’è chi in questi mesi ha dovuto chiudere la sua attività o ha perso il lavoro. C’è chi un’attività ce l’ha ancora ma va in pari senza guadagni. Le materie prime scarseggiano e costano di più. Benzina e caffè ad esempio. In tutta Europa manca la carta. Sopravvissuti, in qualche modo, economicamente al lockdown dobbiamo mettere mano al portafoglio mentre si agita lo spettro dell’inflazione. Il mondo del lavoro è in subbuglio. Nel mio vedo colle-
ghi con esperienza non più valorizzati messi in un angolo in attesa di andare. Potrebbero raccogliere i frutti di anni di semina e avere modo di lasciare in eredità ai più giovani il loro sapere e invece sono testimoni di nuove strategie editoriali in cui non si riconoscono. In Italia giorni fa i quotidiani nazionali titolavano «Natale normale per i vaccinati». Strano, a me pare che non vi sia nulla di più lontano oggi dell’idea di normalità. Se ci penso, mi sento come una foglia in preda al vento che soffia a forze alterne e da diverse direzioni. Si apre la porta e smetto di pensare. Contrasto l’aria fredda che mi entra alle spalle con l’ultimo sorso di caffè caldo. Il Mima è tutto addobbato a festa. Dorella, che non vedo da tempo, mi saluta con un grande sorriso, si avvicina al mio tavolo e mi chiede «Come stai?».
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di Laura Botticelli
Il tè, nemico delle ossa ◆
Gentile Laura, i suoi consigli sono molto preziosi, leggo volentieri quello che lei scrive e sono convinta che con un’alimentazione sana e variata oltre al movimento si può fare molto per la propria salute. Ho una domanda specifica all’osteoporosi. Ho cercato in libreria e in biblioteca dei libri sull’argomento osteoporosi e alimentazione senza trovare niente di attuale e non so se posso fidarmi di quello che si trova in rete. Io bevo volentieri il tè verde a colazione e anche durante la giornata. Pare che questa bevanda inibisca o limiti l’assunzione di calcio molto importante per chi soffre di osteoporosi. Forse ci sono anche altri alimenti che non vanno bene assieme. Dove trovo una risposta a queste domande? Ci sono dei libri sull’argomento con delle ricette e menu adeguati? Grazie per la sua risposta che leggerò con interesse. / Daniela Gentile Daniela, la ringrazio molto per essersi rivolta anche a me. Ha ra-
gione: quando si cercano informazioni sulla propria salute è importante appoggiarsi a fonti sicure e affidabili (Go* e Wi* possono dare un’infarinata, ma solo quella o ben poco di più). Per le mie ricerche, per esempio, individuo i siti ufficiali come quelli appartenenti alle varie società interessate al tema che desidero approfondire o che possono essere affini a esso. Per aggiornarmi e rispondere alle sue domande, quindi, ho consultato le pagine di: Società Italiana Endocrinologia, National Osteoporosis Foundation, Ministero della Salute Italiano e Lega Svizzera contro il reumatismo. Su questi siti sono presenti libretti – da scaricare gratis o da acquistare – contenenti spiegazioni e/o ricette e consigli su come aumentare l’apporto di calcio nella propria dieta. È vero: il movimento e una dieta equilibrata con un sufficiente apporto di proteine, calcio
e vitamine (soprattutto D) possono aiutare la salute e il sistema scheletrico. Attenzione però: si parla di «sufficiente» apporto proteico perché sia l’eccesso sia il difetto di questo nutriente può essere dannoso per le ossa e per il corpo in generale. Diete ad alto contenuto proteico, che contengono più porzioni di carne e proteine a ogni pasto, possono infatti causare la perdita di calcio del corpo. Ma anche se troppo poche possono indebolire il sistema scheletrico con il rischio di aumentare le cadute e le fratture delle ossa. Meglio seguire il principio della piramide alimentare che prevede al giorno una fonte di proteine tipo carne eccetera, e fino a tre porzioni di latticini. Recenti ricerche riferiscono che l’olio d’oliva, i semi di soia, i mirtilli e gli alimenti ricchi di omega-3, come l’olio di pesce e l’olio di semi di lino possono essere utili per migliorare
la densità ossea. Sono però necessarie ulteriori ricerche prima di capire esattamente quale legame esista tra questi alimenti e la salute delle ossa. Comunque, considerando i numerosi benefici per la salute generale che forniscono, perché non aggiungerli lo stesso alla propria dieta? Per rispondere alla sua domanda specifica, il tè verde, è una bevanda che contiene caffeina, e quindi è vero, può ridurre l’assorbimento del calcio e contribuire alla perdita ossea. Si consiglia di non bere più di tre tazze di caffè e tè con caffeina ogni giorno. Altri alimenti che producono un effetto negativo simile sono i cibi molto salati: il sodio fa sì che il corpo perda calcio e può portare alla perdita ossea. È consigliabile limitare la quantità di alimenti trasformati (cibi in scatola) e non aggiungere sale agli alimenti che mangiamo ogni giorno. Per sapere se un alimento è ricco
di sodio basta consultare l’etichetta e leggere la tabella dei valori nutrizionali: su 100g fino a 0,3g è considerato poco, da 0,3 a 1,5g è medio, oltre 1,5g è tanto. Anche l’abuso di alcol può portare alla perdita ossea: come già scritto in un articolo in merito, la quantità raccomandata è di un bicchiere al giorno per una donna e di due per un uomo. Per concludere, scelga tisane o tè privi di teina/caffeina (sono la stessa cosa) e continui a nutrirsi seguendo la sana alimentazione. Chieda al suo medico se sia il caso di prendere integratori a base di calcio e vitamina D e cerchi di mantenersi attiva quotidianamente. Informazioni Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 6 dicembre 2021
azione – Cooperativa Migros Ticino 17
TEMPO LIBERO ●
Le storie di un piccolo deserto Lungo il rivolo d’acqua del biblico fiume Kidron che da Gerusalemme tenta di arrivare al Mar Morto
Toscana: la terra del Chianti Tra cascinali ristrutturati e cantine ultramoderne, i vigneti sono curati come aiuole fiorite
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Dal Sudamerica con classe La vera arte del ceviche sta tutta nel food design, ovvero nel modo di disporre gli ingredienti sul piatto
Il tempo di un viaggio Per mettere in salvo il pianeta dovremmo cambiare le nostre abitudini turistiche
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Vasi comunicanti, intrecci e intersezioni
Tra il ludico e il dilettevole ◆ Sembra un paradosso ma molte importanti aziende mostrano di investire, in termini di produttività, anche nella quota di tempo libero usata dai loro dipendenti Sebastiano Caroni
In una serie di articoli sul tempo libero, sul gioco, e sullo svago, riconoscere l’importanza della differenza fra lavoro e tempo libero, fra dovere e piacere, è quasi d’obbligo. Si tratta di una distinzione estremamente utile dal punto di vista pragmatico. Ci permette di rilassarci e di goderci i momenti di liberà, e ci spinge a rimboccarci le maniche quando il lavoro lo richiede. La separazione fra lavoro e tempo libero, in questo senso, è talmente radicata nella nostra cultura che corrisponde a una vera e propria divisione mentale. Così come dividiamo il giorno dalla notte, l’estate dall’inverno, la mattina dal pomeriggio, in modo analogo siamo abituati a pensare il nostro tempo come strutturato in sfere separate; da una parte il lavoro e, dall’altra, lo svago. In questo senso, il pensatore francese Roger Caillois, in un saggio del 1958 intitolato I giochi e gli uomini, definiva le attività svolte nel tempo libero «una compensazione alla mutilazione della personalità causata dal lavoro alla catena di montaggio, automatico e parcellizzato».
Purtuttavia, nella società odierna, che il sociologo Zygmunt Bauman ha definito liquida, le divisioni e le relazioni tendono a diventare più sfumate, a rimodellarsi più facilmente, e a perdere il carattere vincolante che avevano un tempo. Le gerarchie del lavoro perdono parte della loro verticalità e della loro rigidità, in favore di una maggiore informalità, e di rapporti più orizzontali fra impiegati e dirigenti. In questa nuova congiuntura storica, si fanno strada modelli di business che favoriscono la convergenza fra mondo del lavoro e tempo libero. La Silicon Valley, area geografica situata nella parte meridionale della California e centro nevralgico dell’industria del digitale, è fra i luoghi in cui queste convergenze, questi intrecci, e queste intersezioni fra tempo libero e lavoro, si sono manifestate con maggiore chiarezza. L’accresciuta permeabilità del mondo del lavoro rispetto al tempo libero è ben visibile, per esempio, nel modo in cui Google definisce la propria filosofia aziendale. Secondo l’azienda californiana il tempo libero sarebbe addirittura imprescindibile, quasi sacro. Per contratto, infatti, ogni dipendente è tenuto a ritagliarsi e mantenere una quota del venti per cento del tempo lavorativo da dedicare ad attività creative liberamente ispirate.
pixnio.com
Occorre tuttavia chiedersi quali siano i rischi e le possibili derive di queste nuove intersezioni fra il lavoro e il tempo libero
La regola del venti per cento è stata, in realtà, introdotta già nel 1984 dalla multinazionale 3M; la compagnia che è proprietaria del marchio Post-it. Google ha semplicemente ridato un nuovo soffio a una trovata che, con gli anni, è diventata uno dei segni distintivi delle grandi aziende della Silicon Valley. Se dunque Google, unitamente ad altre aziende, si impegna a regolamentare, proteggere, e incoraggiare il tempo libero e lo svago integrandolo stabilmente nella giornata lavorativa, Netflix si spinge addirittura oltre, e concede ai suoi dipendenti massima liberà nel gestire il delicato rapporto fra tempo libero e lavoro. Attraverso il suo sito internet, in un delirio di trasparenza l’azienda sbandiera il fatto che ai loro dipendenti vengono concesse vacanze illimitate. Ecco cosa si legge sul sito: «In materia di ferie, la nostra policy è “vai in vacanza”. Non abbiamo regole o indicazioni sul numero di settimane di ferie annuali. A dir la verità, mescoliamo già spesso lavoro e tempo libero, ri-
spondendo alle email in orari strani o prendendoci un pomeriggio libero a metà settimana e così via. I nostri leader danno il buon esempio andando in vacanza, tornando con idee innovative e incoraggiando il resto del team a fare altrettanto». Naturalmente, chi conosce il modello di business del colosso dell’intrattenimento, sa che le vacanze sono benvenute solo e unicamente quanto non ledono l’interesse dell’azienda. Un altro elemento tipico della cultura della Silicon Valley atto a favorire una compenetrazione fra lavoro e tempo libero, fra dovere e piacere, e fra svago e business, è l’abitudine piuttosto diffusa di organizzare feste in piscina, o in qualche lounge di tendenza, per divertirsi mentre si negoziano accordi multimilionari con vecchi e nuovi partner commerciali. La serie TV targata HBO e intitolata, molto eloquentemente, Silicon Valley, mostra senza troppi peli sulla lingua e con una buona dose di ironia queste nuove forme di ibridazione fra lavoro e tempo libero. Un altro inte-
ressante esempio è l’architettura degli spazi di lavoro di molte aziende della Valley, che puntano sul modello di un open space ampiamente attrezzato per offrire molteplici occasioni di relax ai propri dipendenti. All’opposto dell’open space multifunzionale delle grandi aziende, troviamo il non meno popolare garage, che riassume alla perfezione la permeabilità fra il tempo libero e il lavoro, e la fluidità grazie alla quale l’uno si trasforma, gradualmente, nell’altro. Nel garage – luogo reale e, al tempo stesso, mitico – vengono avviati grandi progetti innovativi, e prendono forma le grandi intuizioni dei fondatori delle startup destinate a dominare il mercato. Interessante a questo proposito notare come il garage, con la sua vocazione sperimentale, sia anche – almeno nell’immaginario collettivo – punto di partenza di illustri carriere nel mondo della musica rock. Occorre, tuttavia, chiedersi quali siano i rischi e le possibili derive di queste nuove intersezioni fra il lavoro e il tempo libero. In un mondo do-
ve il lavoro tende a essere sempre più rarefatto, parcellizzato e fragilizzato, non tutti possono avvantaggiarsi di queste comodità e di questi privilegi nell’impiego del proprio tempo quotidiano. E se la sfera professionale integra sempre più spazi per il tempo libero, non è certo un segreto se, con le nuove tecnologie, anche lontani dal lavoro rimaniamo pur sempre raggiungibili, e virtualmente disponibili. Lo lascia intendere molto bene Fabio Merlini quando, all’inizio del saggio Ubicumque (Quodlibet: 2015), scrive: «che ci si trovi a cena con amici, a bordo della nostra vettura, nel supermercato vicino a casa, comodamente sdraiati sul divano o annichiliti da una stanchezza cronica, intenti in una qualsiasi occupazione, poco importa dove: in ogni luogo e momento dobbiamo poter essere raggiungibili e interpellabili». Forse allora, a conti fatti, Roger Caillois non aveva tutti i torti quando affermava che il tempo libero, fintanto che rimaneva separato dal lavoro, rappresentava una «rivincita sulla realtà».
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 6 dicembre 2021
azione – Cooperativa Migros Ticino
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TEMPO LIBERO
Il più piccolo deserto del mondo Reportage
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Nella terra di Giudea: dal Mar Morto a Gerusalemme
Enrico Martino, testo e foto
Che i monaci ortodossi di Mar Saba vivessero in uno spazio siderale molto lontano, lo aveva già capito alla fine della guerra dei Sei Giorni un ufficiale di Tsahal, l’esercito israeliano, quando aveva bussato al robusto portone del monastero per annunciare che l’area non era più sotto controllo giordano. Scoprì che i monaci ignoravano olimpicamente l’esistenza della suddetta guerra perché, sì, avevano sentito degli spari e visto divise diverse ma, come gli avevano fatto chiaramente capire, si trattava di miserabili beghe tra comuni mortali lontane dalle loro celestiali certezze. A proteggerli bastavano le loro icone e il canyon cui il monastero è letteralmente appeso, a picco sul rivolo d’acqua del biblico fiume Kidron che da Gerusalemme tenta disperatamente di arrivare al Mar Morto, ventiquattro chilometri e quasi 1500 metri più in basso attraversando un deserto pieno di storie, il più piccolo del mondo ma tosto come i suoi fratelli maggiori «perché i deserti sono potenti» dicono spesso quelli che li abitano.
Piste che svaniscono nel nulla attraversano il cuore del deserto dove l’unico colore è l’azzurro delle cupole di una moschea Per capire il deserto di Giudea bisogna aspettare che i primi raggi di sole facciano rattrappire le ombre dei pinnacoli di roccia svelando una montagna di sale minerale lunga due chilometri e profonda quattro che si muove di un centimetro l’anno. L’equivalente di una miniera d’oro che i romani sfruttavano già duemila anni orsono ai piedi del biblico monte Sodom, dove Dio decise di dare una regolata alle promiscuità sessuali in voga tra i locali. Dalla cima la vista scivola fino alle scacchiere delle grandi saline che dividono il Mar Morto, 412 metri sotto il livello del mare, il punto più basso della Terra diviso tra Israele e Giordania. Lo avevano battezzato così i primi monaci cristiani stupiti dall’apparente assenza di ogni forma di vita, anche se recentemente nelle sue acque sono stati scoperti diversi batteri, ma il nome giusto è Yam Ha-Melah, Mare di Sale in ebraico, visto che qui l’acqua ha una concentrazione salina otto volte più alta dell’oceano, così densa da impedire ai pesci di nuotare. Le scenografiche concrezioni saline ci sono ancora ma la mancanza di pioggia e soprattutto l’inarrestabile bisogno d’acqua dolce di Israele e Giordania stanno contraendo il
Wadi Sodom (Monte Sodoma), un’area desertica vicino all’estremità meridionale del Mar Morto.
bacino settentrionale, ormai separato da una striscia di sabbia da quello meridionale. Apparentemente inattaccabile da qualsiasi disastro ecologico, un gigantesco e solitario cilindro di roccia è l’indiscusso protagonista di una storia del I secolo, dimenticata fino al 1923. Il Tempio di Gerusalemme
era già stato distrutto ma in questa fortezza resistevano ancora un migliaio di uomini, donne e bambini. Tuttavia i ribelli zeloti non avevano fatto i conti con gli ingegneri romani che dopo cinque mesi di assedio avevano costruito una gigantesca rampa di pietra lungo il fianco della montagna.
Mar Saba. Il monastero greco-ortodosso sorge in completo isolamento nel mezzo del deserto della Giudea.
Sotto il regno di Erode il Grande la fortezza in cima a una montagna divenne enorme. Qui di fianco: Palazzo di Erode il Grande costruito sulla roccia della parete nord di Masada.
Quando i difensori si resero conto che la fine era vicina decisero di morire piuttosto che cadere in schiavitù e, per non violare la legge ebraica che proibisce il suicidio, dieci di loro vennero sorteggiati per uccidere gli altri, nove vennero uccisi dall’ultimo sopravvissuto che si buttò sulla sua spada, e il mattino dopo i romani trovarono solo un silenzio di morte, due donne e cinque bambini. «Masada non cadrà più» giurano ogni anno molte reclute dell’esercito sul sito più sacro di Israele, anche se per gli storici rimane qualche dubbio su uno dei miti fondanti del paese. Com’è possibile che non sia stata trovata traccia delle ossa di un migliaio di persone? A Masada nessuno può dimostrare niente ma rimane il pathos di un luogo che con poche pietre evoca una tragedia, i campi fortificati romani ancora intatti e protetti dall’UNESCO come Patrimonio dell’Umanità, le storie che riemergono da corazze, punte di frecce, persino ricevute degli stipendi dei soldati della X Legio. La Bibbia non è mai troppo lontana in questi canyon intatti dall’alba del mondo dove il giovane David si nascose a re Saul vicino alle cascate di Ein Gedi o Qumran, e nel secondo secolo avanti Cristo una comunità di Esseni trovò rifugio dalle tentazioni della Gerusalemme ebraica, ma anche loro furono spazzati via dai romani nel 70 d.C. e su queste montagne color ocra scese il silenzio fino al 1947, quando un giovane beduino in cerca di una capra smarrita trovò degli antichi rotoli nascosti in una caverna. Li portò a un calzolaio di Bet-
lemme per scambiarli con dei sandali nuovi, e di mano in mano sette metri del Libro di Isaiah si trasformarono nei famosi Rotoli del Mar Morto, frammenti fondamentali della storia del popolo di Israele. Piste che spesso svaniscono nel nulla attraversano il cuore del deserto dove l’unico colore è l’azzurro delle cupole della moschea di Nebi Musa, un caravanserraglio circondato dalle lapidi sghembe di un vecchio cimitero dove i devoti mussulmani sono venuti per secoli in pellegrinaggio per guardare da lontano la tomba di Mosè sul monte Nebo oltre il Giordano, poi qualcuno deve aver deciso che era più semplice dire che il cenotafio di Mosè era proprio lì. Più avanti un pianoro finisce senza preavviso di fronte al convento ortodosso di Mar Saba, vicinissimo ma quasi irraggiungibile oltre uno strapiombo degno degli Inferni minacciati da un giovane pope che presidia la porta dividendo a colpo sicuro pecorelle devote da eretici incalliti. Categoria in cui vengo immediatamente classificato, «oggi è un giorno sacro» tuona «possono entrare solo gli ortodossi». E solo maschi, come testimoniano le pellegrine greche ammassate contro il muro di cinta che mi guardano con la segreta soddisfazione di vedermi accomunato a loro. Il deserto finisce davanti a un cono perfetto, una montagna costruita dall’uomo e incoronata da una fortezza che domina la Giudea fino al Mar Morto costruita da Erode il Grande, giustamente scettico sulla propria popolarità tra i sudditi. L’amava tanto da averla chiamata Herodion in onore di se stesso, e vi si era fatto seppellire con la corona d’oro in testa e lo scettro in mano in una tomba riscoperta solo nel 2007. Alle porte di Gerusalemme una piccola entrata rivela la machiavellica astuzia dei cristiani per impedire ai musulmani di entrare a cavallo nella chiesa della Natività di Betlemme, assolutamente inefficace però contro le infinite risse tra monaci delle varie confessioni alla perenne conquista di qualche metro strategico nella più venerata chiesa della Cristianità. Un piccolo anticipo della Calamita del Mondo, il chilometro quadrato della Città Vecchia di Gerusalemme dove nessuno, ebreo, cristiano o musulmano rinuncerebbe mai alla sua porzione di pietre sacre. Tutti in cerca del loro assoluto perché di Gerusalemme ne esistono tante e ognuno deve cercare la sua. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica Vista del Monte degli Ulivi, il cimitero ebraico, la Città Vecchia con la Cupola della Roccia e Gerusalemme occidentale.
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MONDO MIGROS
FETTE PRELIBATE E SOTTILI La mortadella tagliata fine è davvero ottima. Il suo sapore lo sviluppa al meglio in un panino, ma anche come stuzzichino, con la pasta o nelle insalate
COTTURA DELICATA Sottilissima e dalla grana unica: la Mortadella Beretta è riconoscibile a prima vista. Il suo aspetto marmorizzato è dato dal giusto equilibrio tra carne magra e pancetta. Spezie e aromi naturali completano la ricetta, che a Bologna è rimasta invariata da generazioni. Per ottenere il risultato desiderato, gli ingredienti vengono cotti lentamente e delicatamente con aria calda in forni di mattoni. Questo procedimento regala un sapore unico che si sposa perfettamente con i panini ai carciofi.
CONSIGLIO
Foto: Migusto
Focaccia con carciofi e mortadella
Mortadella Beretta per 100 g Fr. 2.65
Piatto principale per 4 persone 480 g focaccia 250 g ricotta sale pepe 250 g mortadella 200 g carciofini sott’olio, peso sgocciolato 50 g rucola
Preparazione
Dividi la focaccia in 4 parti, poi dividi ogni pezzo a metà in senso orizzontale. Spalma le basi di ricotta e condisci con un po’ di sale e pepe. Farcisci con la mortadella, i carciofi e la rucola e chiudi i panini con l’altra metà della focaccia.
Insieme alla mortadella come farcitura si prestano anche le olive tritate grossolanamente, le melanzane sottaceto o i peperoni grigliati.
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Per tutti è sinonimo di «vino toscano»
Bacco giramondo ◆ Tra Firenze e Siena, il Chianti viene prodotto in una vasta regione che va al di là dei suoi confini geografici
TEMPO LIBERO
Scelto per voi
Post Scriptum 2019
Davide Comoli
Siamo nella Toscana Centrale, stiamo percorrendo la Strada Regionale 222. Si snoda tra colline: si rincorrono in una sequenza che sembra non interrompersi mai. Siamo nel Chianti. Regione situata tra Firenze e Siena, è delimitata a est dai monti che sovrastano il fiume Arno e si estende a sud nelle Valli della Greve, della Pesa, dell’Elsa e dell’Arbia. Questa zona ha uno straordinario fascino: tra cascinali ristrutturati e cantine ultramoderne che sfruttano tecnologie sofisticate, i vigneti sono curati come fossero aiuole fiorite. Sinonimo in tutto il mondo di vino toscano, il Chianti viene prodotto in una vasta zona che va al di là dei suoi confini geografici. La denominazione Chianti può così essere integrata con specifiche sottozone corrispondenti alle relative aree geografiche che sono: Colli Senesi è la zona più vasta; Chianti Rufina, denominata Pomino con il Bando Granducale del Settecento quando era considerata «il serbatoio» vinicolo di Firenze; Chianti Colli Fiorentini, che va da Fiesole a Scandicci; Chianti Montespertoli, la sottozona più giovane, disciplinata nel 1996; Chianti Colli Aretini, la più piccola con solo 140 ettari vitati; Chianti Colline Pisane, forse il meno «chiantigiano» influenzato dai venti che provengono dal mare; e il Chianti Montalbano, il classico «Chianti» molto semplice, da gustare con un panino al lampredotto, tenendo i piedi distesi sotto un tavolino da bar. Il disciplinare del Chianti prodotto in queste zone prevede l’impiego (minimo settanta per cento) di Sangiovese, completato dai soliti vitigni rossi sia autoctoni che alloctoni, ma anche in minima parte di Malvasia e Trebbiano, uve a bacca bianca. Altra storia invece quella che riguarda il Chianti Classico, quello del Gallo Nero per intenderci, che si prende quasi settemila ettari di vigneti, tra Firenze e Siena. Un mondo che si stacca in modo particolare dal
resto del territorio: qui batte forte il cuore della Toscana che esprime con vigore il suo carattere e la sua anima. Anche il nostro cuore ha dei sussulti quando ad una curva, magari in una di quelle famose «strade bianche», in un rettangolo strappato dalla macchia, scopriamo la rigorosa geometria di un vigneto. Dal 1966 il Chianti Classico (nove i comuni che compongono la D.O.C.G.) ha abbassato le rese per ettaro, ha definitivamente escluso i vitigni a bacca bianca e ha introdotto Cabernet Sauvignon e Merlot. Questi i parametri che lo differenziano dagli altri Chianti, sebbene resti comunque l’obbligo dell’ottanta per cento di Sangiovese nella produzione del vino. Il nome Chianti deriverebbe dalla voce etrusca «Klante» o «Klan» = acqua, si pensa che fosse il nome del torrente Mastellone affluente dell’Arbia. Mentre il Gallo è la bandiera del Chianti e la sua cresta ha la fierezza del grande Sangiovese che beviamo a Mercatale Val di Pesa. Elegante e possente, il nostro Chianti rende memorabile la degustazione, perché accompagnato da un «galletto» nutrito con tutti i sentimenti nell’aia accanto al ristorante, cucinato nel tegame. Proseguendo lungo la strada a tratti sinuosa e boscosa, raggiungiamo Badia a Passignano, situata sulla sommità di una dolce collina ricoperta di viti e cipressi. Da qui, scendendo, attraversiamo Sambuca, sfioriamo l’importante zona viticola di Olena, situata al confine del territorio fiorentino-senese, e arriviamo a Castellina in Chianti a 580 m, che gode di una posizione strategica tra le Valli dell’Elsa, della Pesa e dell’Arbia. Ci concediamo una breve sosta per visitare l’imponente palazzo Ugolino, per una degustazione in una delle pregiate cantine vinicole raccolte al suo interno. Tornando verso nord incontriamo il borgo di Panzano lungo una strada serpeggiante, questa zona è chia-
Vigneti adiacenti alla strada a sud di Panzano in Chianti. (PapaPiper)
mata «la Conca d’oro del Chianti»; le vigne tutt’intorno formano un anfiteatro naturale, dove grazie al galestro con sabbia e gesso, i terreni danno la possibilità di produrre vini di un rosso profondo e di corpo. Una piccola deviazione prima di Greve ci porta nel grazioso paese di Montefioralle, con i suoi splendidi esempi di architettura rurale: qui nacque il grande navigatore Amerigo Vespucci. Greve è una grossa borgata, situata nel fondovalle dell’omonimo fiume, questa con Castellina e Radda sono le capitali storiche del vino italiano più famoso del mondo. Il paesaggio, che attraversiamo scendendo verso Radda, ci ricorda con vivezza la prima volta che visitammo le cantine di questa zona, i primi colloqui con gli enologi e i vari proprietari, passiamo davanti a Lamole, dove leggenda vuole che sia il luogo natale di Monna Lisa (la Gioconda). La frazione fortificata di Volpaia ha un suolo ricco di galestro e calcare, ciò che dona vini ricchi di polifenoli e acidità destinati a una lenta evoluzione, come il Sangiovese che abbiamo gustato per la cena. Qui il Gallo Nero ha lasciato nell’aria il suo chicchirichì possente, come questo vino che abbiamo abbinato a un «bove al Chianti». A Radda non ci fermiamo per la not-
te, non prima d’aver gustato un Occhio di Pernice, un Vin Santo con presenza di Sangiovese. Attraversiamo il territorio di Gaiole, dove i terreni sono molto poveri, ma ricchi di calcare, che permette di ottenere vini dai tannini decisi e longevi. Il borgo è circondato da poggi coltivati a vigneti. Scendendo verso sinistra incontriamo il castello di Meleto e poi, proseguendo a sudest, arriviamo in una zona coltivata a vigneti e olivi, dominata dall’enorme mole merlata del castello di Brolio. Purtroppo, lo spazio che ci è concesso non permette di soffermarsi di più in questo luogo. Il successo del Chianti è legato alla famiglia Ricasoli. Bettino Ricasoli (1809-1880), il «barone di ferro», fu un’epica figura del Risorgimento italiano, ma inerente al nostro tema fu colui che introdusse la formula del «governo all’uso toscano» divulgando la composizione più idonea per il Chianti normale: Sangioveto 70%, Canaiolo 15%, Malvasia 15%. Eliminando la Malvasia e aumentando il Sangioveto per i vini da invecchiamento, siamo nel 1841, dà origine a una formula che durerà per oltre un secolo. Castelnuovo Berardenga è il borgo più a meridione del Chianti Gallo Nero.
Mentre a occhi chiusi portavamo al naso il Post Scriptum prodotto a São João da Pesqueira, in Portogallo, piccola Quinta (podere) situata lungo il fiume Douro, abbiamo avuto l’impressione (è un luogo da noi ben conosciuto) di respirare la sottile nebbiolina che alla sera avvolge il fiume, ricca di profumi. Il suo bellissimo colore di un profondo rubino, la sua struttura e gli intensi profumi di mora, mirtillo e cuoio, dei tipici vitigni Touriga Nacional, Touriga Franca, Tinta Roriz e Tinta Barroca, ci danno un finale molto minerale con sfumature resinose, e fanno di questo vino un prodotto delicato e nello stesso tempo potente. Ottimo, lo consigliamo con piatti di carne strutturati come gli straccetti e la selvaggina, noi lo abbiamo provato con dei Tournedos di manzo al vino rosso: una bontà. / DC
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TEMPO LIBERO
Un ceviche all’italiana
Gastronomia ◆ Patrimonio culturale nazionale del Perù, ha varcato da anni i confini conquistando molti palati grazie a una complessa eleganza
anguilla o salmone arrivo a 12 minuti, ma ovviamente questi non li mescolo con gli altri pesci magri. Lo so, in genere lo si fa marinare più a lungo, ma il rischio di sentire solo il sapore del limone è tremendo. Ne esistono altri tipi realizzati con carne o frattaglie, molluschi e crostacei, e accompagnati da funghi, pomodori, avocado, patate dolci, legumi, banana, manioca, mais tostato, peperoni e verdure in genere. Tutto questo detto, il «mio ceviche» è fatto così come ve lo descrivo in queste prossime righe. Per le verdure, mondo e taglio a fettine sottili peperoni dolci e cipollotti, onnipresenti, poi taglio a julienne altre verdure tenere. Mondo e trito prezzemolo. In quanto all’aglio: io ne metto in abbondanza, ché mi piace, ma ognuno ne metterà quanto ne vuole. Poi spezzetto un po’ di coriandolo fresco: lo so a molti non piace, ma qui ci sta benissimo. A questo punto, prendo un terzo di crostacei, vanno benissimo gli stra-classici scampi e gamberi, che poi apro in padella e lascio interi. Un terzo di molluschi come seppioline, calamari, capesante e un terzo di pesci, e in questo caso prediligo gallinella, rombetto, sogliole e altri, non uso invece pesci azzurri, che prevaricano. Ben mondati, li metto in freezer per 20 minuti, in modo che induriscano, li levo e con un affilatissimo coltello li taglio a fettine più sottili che riesco. Metto tutte le fettine, in un piatto piano, leggermente accavallate, cercando di disporle il più «elegantemente» possibile, insieme con le verdure. Aggiungo prezzemolo e aglio, sopra il coriandolo. Una spolverata di sale, meglio se Maldon, un’altra di buon pepe o di peperoncino, e infine spruzzo con abbondante succo di lime: 8 minuti di riposo e si va in tavola.
Come si fa?
Silsilah Ali
Da giovane non amavo il crudo di carne o di pesce perché… mi piace la cucina. Come disse un sommo antropologo, Marcel Detienne, nel suo Dionisio e la pantera profumata: «Tra l’arrosto e il bollito, entrambi modalità del cotto, corre la stessa distanza che tra il crudo e il cotto. Allo stesso modo in cui il cotto distingue l’uomo dall’animale che mangia cibi crudi, il bollito separa il vero «civilizzato» dal villano, condannato alle pietanze alla griglia. Il bollito viene sempre dopo l’arrosto». Genio puro. Quindi per me la cucina era (ed è) cuocere qualcosa, mentre a mescolare ingredienti crudi, pure se viene buono, non è «la cucina». Poi un giorno, a Londra, scoprii il ceviche, in un ristorantino peruviano. È una specialità dell’area pacifica dell’America latina, a base di pesce e/o frutti di mare, arricchito con aromi come prezzemolo, pepe, peperoncino, coriandolo, cipolla, salsa di olive e aglio. In sintesi, sono cubetti crudi o striscioline marinati in sale e limone o lime, arricchiti con profumi vari. In Perù il ceviche è stato dichiarato Patrimonio culturale nazionale. Ne fui conquistato, perché… mi piacque la complessità. E anche la bellezza: la vera arte del ceviche sta nel disporre gli ingredienti sul piatto in modo elegante: difficile, ma di sicuro successo, dato che si mangia più con gli occhi che con la bocca, si sa. Al di là del food design, non è difficile da preparare salvo questo problema: se lo marini troppo poco, resta crudo e poco saporito. Se lo marini troppo, il limone lo annienta. Dopo tanti tentativi, il mio standard è: non più di 8 minuti di marinatura, con abbondante succo di lime, non di limone, o – se ci sono – di limoni dolcissimi come quelli di Sorrento o altri simili. Solo se il pesce è grasso come
Pxhere.com
Allan Bay
I timballi sono piatti eleganti, e piacciono a tutti. C’è chi dice che sono difficili da fare, ma non sempre è vero. Vediamo come si fa questo timballo, detto Imperiale alla piemontese – che è un piatto unico. Senza dubbio di lunga preparazione, ma non certo difficile.
Ingredienti per 6 persone: 300 g di carne di pollo lessata, 1 cipolla, 50 g di uva passa, 50 g di pinoli, 100 g di grana grattugiato, 2 uova, 1 cucchiaio di semi di finocchio, 400 g di pasta a piacere ma di formato relativamente grosso, burro, sale. Per la besciamella: burro, farina, 5 dl di latte, noce moscata, sale, pepe. Tritate il pollo e la cipolla, quindi stufateli in poco burro e acqua per 10 minuti, mescolando. Togliete dal fuoco e unite l’uva passa, ammollata e strizzata, i pinoli, il grana, le uova sbattute e i semi di finocchio. Per la besciamella, fate fondere il burro in un pentolino e unite la farina, mescolando. Quando assume
un colore nocciola, unite il latte tiepido, mescolando con una frusta, e cuocete finché la salsa non si addensa. Unite un po’ di noce moscata grattugiata, salate e pepate, quindi incorporatevi il composto di carne. Lessate a metà cottura la pasta in abbondante acqua salata. Scolatela e conditela con poco burro fuso. Distribuitene metà sul fondo di una teglia a bordo alto, foderata con carta da forno. Conditela con metà della besciamella, coprite con la pasta rimasta e fate un ultimo strato di besciamella. Fate cuocere per 40 minuti in forno a 180°, poi sfornate, aspettate pochi minuti e servite.
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Ballando coi gusti
Oggi due tartare: sostanzialmente sono ricchi antipasti, se aumentate le dosi diventano anche piatti forti.
Tartara di manzo con salsa gorgonzola
Tartara di salsiccia con mela
Ingredienti per 4 persone: 320 g di magatello di manzo o noce – 3 cucchiai di aceto balsamico – 1 cucchiaio di salsa di soia – 1 scalogno – 1 cucchiaino di noci tritate – 4 manciate di insalata verde a piacere – 3 cucchiai di panna fresca – 100 g di gorgonzola – olio di oliva – sale e pepe.
Ingredienti per 4 persone: 240 g di salsiccia a nastro – 1 baguette – 2 mele Granny Smith – 2 cucchiai di miele fluido – semi di finocchio – prezzemolo – noce moscata – aceto di mele – olio di oliva – sale e pepe.
Tagliate la carne a striscioline, mettetele in una ciotola e conditele con lo scalogno tagliato a rondelle, l’aceto, la salsa di soia e il pepe. Lasciate marinare la carne coperta in frigorifero per 30 minuti. Solo alla fine regolate di sale. Mettete il gorgonzola tagliato a pezzetti nel bicchiere del mixer, aggiungete la panna e miscelate fino ad avere un composto cremoso. Per servire: mettete in una ciotola l’insalata, unite le noci tritate, condite con olio, e poco sale. Disponete l’insalata e le listarelle di carne nei piatti e nappate le listarelle con la salsa al gorgonzola.
Togliete il budello alla salsiccia e sgranatela. Mettetela in una ciotola e conditela con 1 cucchiaio di olio, i semi di finocchio, il prezzemolo e un pizzico di noce moscata. Mescolate fino ad amalgamare e rendere cremoso. Coprite e tenete a temperatura ambiente per 20 minuti. Sbucciate le mele e riducetele a cubetti, trasferitele in una ciotola e conditele con il miele, pochissimi sale e pepe e un cucchiaino di aceto di mele. Per servire, tagliate le fette di baguette alte non più di 1,5 cm e tostatele leggermente. Spalmatele con la crema di salsiccia e guarnitele con i cubetti di mela.
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TEMPO LIBERO
Il paesaggio dell’Avvento Crea con noi
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Una decorazione natalizia da personalizzare a piacimento e che permette di riciclare materiali inutilizzati
Giovanna Grimaldi Leoni
Tagliate ora delle strisce di cartone di 4cm. Con una matita disegnaMateriale te su tutta la lunghezza una linea a 2cm che ne indichi la metà e su di essa incollate con la colla a caldo la vostra base facendo ben coincidere gli angoli. Iniziate ora a comporre il vostro paesaggio fissando i vari elementi con la colla a caldo. Posizionate prima le case (se il cartone non fosse sufficientemente spesso affinché si reggano bene in piedi da sole- aggiungete sul2021 retro Giochi per “Azione” Novembre Sudoku “Azione” - Novembre 2021 un piccolo triangolino diper supporto). Sargentini Stefania cartone cre• Cartone spesso di riciclo Con piccoli rettangoli di Stefania Sargentini • Polistirolo o simili ricavati da ate un tronco agli abeti e fissate anN. 39 Schema imballaggi Soluzione che questi. G Aggiungete I U A ora T leEpigne O alternando M A • Piccola le 6 2 ghirlanda 9 4 7 luminosa 1 5 3 8 2 4 7 5 3 L misure A Ae cercando G E Rdi creare L una I Tcoma batteria 3 5 1 8 6 2 9 4 7 5 8 9 I posizione R O N armonica. I A C E R A • Pittura strutturante per muri 8 4 7 9 5 3 1 6 2 9 2 D N A quindi K laI ghirlanda E V luminosa R (in alternativa tempera bianca) Piazzate 2 1 4taglierino 5 3 6 7 8 9 5 6 • Forbici, ilAbasso P tenendola A E S verso E C eE distribuenR • Colla Un bel modo anche di addobbare la do le luci inN modo 9 8 a caldo 3 7 1 4 6 2 5 9 3 O Tomogeneo. I E FisN Pigne • di casa nobilitando alcuni materiali alsate la scatoletta con le batterie sotto 5 7 6vario 2 tipo 9 8 3 1 4 7 9 F I O N A O • Nastri regalo bianco e oro trimenti inutilizzati. la base, nel vano che si sarà ricavato N A T I 7 3 8 1 4 5 2 9 6 8 5 6I A circa 1,5m incollando il profilo, utilizzando un C O P I A 4 6 5 3 2 9 8 7 1 5 7 diObiadesivo. • Piccole decorazioni Procedimento pezzetto natalizie 1 9 2a scelta 6 8 7 4 5 3 A seconda di dove volete posiziona2 4 Coprite ora base e fili della ghirlan(N 45 - Pesce vela, per la 9pinna dorsale) • Poca ovatta sintetica re il vostro paesaggio ritagliate dal da con un soffice strato di ovatta sinN. 40 6 cartone la base rettangolare nella mi-1 2 3 4 5 P tetica. E S Aggiungete C A R Epiccoli elementi a 5 8 3 7 come piccole bocce, stelline, ra2 5 li8 potete 4 3trovare 1 7presso 9 6 (I materiali sura che preferite. Stampate il carta- 7 scelta A V E R E L la vostra filiale Migros con reparto modello (lo trovate su www.azione. 8 metti… Completate coprendo con un 9 1 1 9 7 5 6 8 3 4 2 R nastro A R festivo I P E il perimetro. Bricolage o Migros do-it) ch), ritagliate le varie parti e riporta- 10 tutto 11 6 3 2O S I 5R U T 4 6 3 9 2 7 8 1 5 te le casette su cartone e gli abeti su bianco. Questo spray vi permetterà Il vostro paesaggio innevato è pronto 12 13 14 15 9 6 si-1 L per 7P I Ela vostra 5 8 9 6 1 2 4 7 3 polistirolo. di avere un effetto a rilievo molto A 4illuminare T A casa N Zo decoA 16 2 Lasciate 7 3 2 completo 6 7 8 4 1 5 9 Tutorial Con la pittura strutturante dipingete mile ai lavori di muratura. A rareNla vostra U O tavola R A in questi E giorni D 17 18 19 azione.ch/tempo-libero/passatempi la vostra base e parte delle casette di asciugare. attesa. 9di 2 6 7 4 1 3 5 9 2 6 8 T O N N O O P R E 1
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Un paesaggio innevato in stile minimale, creato con materiali poveri recuperati da imballaggi e qualche elemento naturale raccolto nel bosco che ben si sposa anche con la corona dell’Avvento proposta nelle scorse settimane. Un’idea per decorare la tavola delle feste o un ambiente della casa in cui vogliamo portare un po’ della magia e delle luci che caratterizzano il periodo festivo. Lo potete personalizzare a piacere in modo che si adatti allo spazio e ai colori delle vostre decorazioni.
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T 9 D E 1L L’ A M P O 3 4 6 2 7 9 8 R I E L ORIZZONTALI 2 9 7 8 5 1 3 5R 1E 3 P E L 15 16 17 18 1. Tirar fuori a forza Scoprite I L A S U O N A R E 1 5 8 6 3 4 9 5 6 19 20 21 6. Preposizione articolata i 3 numeri N A I F I L I O I 7 1 5 3 9 8 4 1 25 4 2 22 23 24 10. Penosi, dolorosi corretti O S A R E M A A F 8 2 9 4 6 7 5 8 28 9 7da5inserire 26 27 11. Stampa inglese C I O I V I 12. Si prende con un occhio 29 30 4 6 3 1 2 5 7 2 5nelle 7 caselle U O F R A C 13. Prete ortodosso colorate. 31 5 3 1 9 8 2 6 5 1 B O R A I 14. Ninfa32greca della montagna 33 6 8 4 7 1 3 2 7 3 A L L A E O 15. Si dice mostrando 9 7 2 5 4 6 1 9 4 3 16. Le separa la «S» 17.- Le iniziali del giornalista Alessi (N 47 ... ci ho pensato e ne ho presi due) N. 42 18. Rilassano corpo e mente 1 2 3 4 5 6 7 8 9 T O P O 9 2 8 6 7 1 5 19.10 Un colpo a tennis 6 7C I N G H I A 11 E N E I N F A R S A 20. Gesti leziosi 6 1 4 5 3 8 2 1 16 4 8 12 13 14 15 T I L L T O M G S 22. Insenature della costa 17 18 19 20 7 5 3 9 4 2 8 7 21 3 9 8 1 R E O L E R C I O I 23. Lo... rendono alto 22 23 24 25 4 7 9 8 5 3 1 9 8 24. Deve saperlo fare il marinaio A N T I V I A G G I 26 27 28 29 VERTICALI 1 8 5 2 6 9 3 5 9 A 3R 4A R A T I G O R 30 31 32 33 1. Operatore di ripresa C7 E L I S I O I L O 3 6 2 4 1 7 9 6 34 352. La 36 38 39 si frequenta37 spesso H O7 I 2 M I P R E S 8 3 6 1 9 4 7 40 42 43 3. 41Cerimonia navale I R E 9N E D E A R S 4. Corrisponde a 100 mq Soluzione della settimana precedente 2 4 1 7 8 5 6 44 45 C O N O FTUTTI U N LO I SANNO V I E – Il Mar Caspio è: … IL LAGO 5. Fanno rima ... con5ma 5 9 7 3 2 6 4 2 6FORSE NON 8 6. Aveva corpo d’uccello e volSALATO PIÙ GRANDE AL MONDO. (N 48 il lago salatoN. più43 grande al mondo) to -di...donna 1 3 4 5 6 7 8 7.2 Bugia inglese 8 5 1 3 7 8 9 2 B I L6 L A G O S T O 8. Le separa la «m» 9 10 11 9 6 7 4 2 5 8 9 4 2 A L A O T O P I L 9. Provocano diminuzione dell’udito 12 13 14 15 4 3 2 8 4 3 1 6 7 U ’ L9 G R I D A N I ’ 11. Forte e vigoroso2 16 17 18 19 13. Precipitati chimici 3 7 M6 I 1 L L E 3 4 9 2 5 7 6 I V O V 20 21 15. Piccole insenature costiere 1 9 1 2 5 9 6 8 3 R E4 I A M E D E O 16. Le iniziali dell’attore Gere 22 23 7 6 7 8 1 3 4 9 A9 I A I L E 18. Noto pittore 24 25 impressionista francese 8 6 8 5 1 6 9 3 4 M A2 7 A V O N 26 19. Coperto dallo chador 7 4 1 I 6 G3 R A N T 7 9 2 8 4 1 5 27 21. Tutela la pace 4 3 6 5 7 2 1 D E M A N I O 23. Le iniziali dell’attore Roncato
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Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba 4 9 3 2 1 4 (N 46 - ... dell’amore per la su forma a cuore) e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku N. 41 1
Cruciverba
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Un asino può anche fingersi un… Termina la frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 7, 2, 5, 1, 3, 6)
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si 1 2 3 4sui concorsi.5Le vie6legali 7sono escluse. 8 9 Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata intratterrà corrispondenza esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
(N. 50 - Circa centonovanta anni)
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 6 dicembre 2021
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azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO / RUBRICHE
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Viaggiatori d’Occidente
di Claudio Visentin
Requiem per i viaggi mordi e fuggi ◆
Torbjørn C. Pedersen (per gli amici Thor), un ex soldato delle Nazioni Unite, nel 2013 ha deciso di stabilire un nuovo record: visitare tutti gli Stati del mondo in un solo viaggio e senza mai prendere l’aereo. Negli otto anni seguenti ha visitato 194 Paesi in treno, nave o col trasporto pubblico. Quando gli mancavano solo nove mete, è giunto a Hong Kong su una nave portacontainer proveniente dalla Micronesia ma è rimasto bloccato per quasi due anni dall’epidemia; in quell’occasione ha parecchio rimpianto la promessa di non tornare mai a casa prima di aver vinto la sua scommessa. Quanto meno avrà avuto il tempo di leggere Un indovino mi disse di Tiziano Terzani, il racconto di un intero anno, il 1993, speso in viaggi evitando l’aereo dopo l’ammonimento di un indovino cinese. D’altronde il semplice progetto di visitare tutti i Paesi del mondo non basta più per essere accolti nel Guinness
World Records; almeno duecentocinquanta persone lo hanno già fatto, entrando a far parte di Every Country Club. Ormai per essere presi sul serio bisogna aggiungere un ulteriore vincolo, per esempio senza aerei, come nel caso di Thor, o nel minor tempo possibile. Una giovane americana, Taylor Demonbreun, ha impiegato solo 1 anno e 189 giorni; la maggiore difficoltà è stata ottenere in tempo tutti i visti necessari, specie per i Paesi difficili (Bad Lands) come Corea del Nord, Afghanistan, Iraq, Siria, Sudan del Sud eccetera. Un altro americano, Drew Binsky, se l’è presa decisamente più comoda e per vedere tutti i Paesi del mondo a costo zero ha impiegato una decina d’anni, prendendo 1458 aerei e 1117 autobus. Strada facendo ha infranto anche lui un paio di record: il maggior numero di siti UNESCO visitati in 24 ore e la valigia fatta nel minor tempo (35,59 secondi).
Da qualche tempo però queste imprese hanno perso molto della loro attrattiva. Per i viaggiatori più raffinati il viaggio è molto più di una semplice lista di Paesi da spuntare (Fatto! Fatto!). E poi naturalmente c’è la questione ambientale. I voli aerei da soli ammontano a circa il 2% di tutte le emissioni di anidride carbonica e più della metà (55%) si deve proprio al turismo (per un confronto, solo 11% i viaggi d’affari). Per questo sempre più persone si vergognano di volare (un sentimento spesso indicato con il termine svedese Flygskam) e sottoscrivono impegni a non viaggiare in aereo per un anno almeno (nel Regno unito nel 2019 in quasi settemila hanno aderito al No-Flying Pledge proposto da Flight Free UK). Ma soprattutto, dopo il difficile bilancio di COP26 (passi avanti o bla bla bla?), l’idea di andarsene in giro per il mondo senza uno scopo appare sempre più irresponsabile. La vera
domanda semmai è: potremo ancora viaggiare come in passato? A cosa dovremo rinunciare per contenere il riscaldamento globale? La risposta è sorprendentemente semplice: dobbiamo rinunciare ai viaggi brevi e frequenti, ai week-end di turismo internazionale, insomma a quel modello di turismo creato dalle compagnie low-cost: Why not? (Perché no?) era un perfetto slogan di easyJet, in favore di viaggi senza troppe motivazioni. La fine dei viaggi brevi e frequenti non è tuttavia la fine del turismo. Leo Hickman, a lungo una firma di punta del «Guardian», è oggi il direttore di Carbon Brief, un sito web inglese specializzato nelle politiche del cambiamento climatico. Già da qualche anno Hickman propone un modello di viaggio su base triennale perfettamente sostenibile. Per il primo anno si resta nel proprio Paese, muovendosi a piedi, in bicicletta o
con i mezzi pubblici. L’anno seguente si può estendere il proprio raggio d’azione all’intero continente, usando soprattutto il treno, o l’auto se si viaggia in gruppo. Con queste poche e sensate limitazioni ci si guadagna un meraviglioso viaggio internazionale, anche sino all’Australia se vogliamo, per il terzo e ultimo anno. Poi si ricomincia da capo. Dunque di regola un solo viaggio all’anno, di lunga durata. Nel suo slancio verso il futuro questo modello è anche un ritorno al passato, quando per esempio le famiglie restavano al mare per un mese intero, intessendo relazioni destinate a rinnovarsi ogni estate. Inoltre, questo schema triennale propone viaggi diversi tra loro, da ogni punto di vista, e quindi più interessanti e particolari rispetto al banale mordi e fuggi scandito dal ritmo incalzante dei voli e riflesso nei selfie sui nostri smartphone. Proviamo?
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Passeggiate svizzere
di Oliver Scharpf
La chocolaterie Walder a Neuchâtel ◆
A trentanove passi da Wodey-Suchard c’è, credo, il vero tempio dei cioccolatini. All’angolo di rue du Seyon con rue de l’Hôpital, dal 1919, Walder. Tre generazioni di cioccolatai si sono fatti un nome tra gli intenditori che hanno consunto, schiarendola gradevolmente, la particolare maniglia in ottone che mi ricorda una conifera. Un nome boschivo mantenuto alto dal nuovo proprietario che grazie al cielo non ha cambiato una virgola: tutto è rimasto identico a quando gli ultimi Walder – Pierre e sua moglie Marlyse – passano, nel luglio 2017, il testimone a Luc Mayor, giornalista di formula uno. Notata la primavera scorsa in occasione del reportage-pranzo DuPeyrou, con coda prepasquale fuori, e provata l’ultima volta da queste parti, in missione truffes-miniminareto, ci torno ora, per approfondire il tema, da Walder. La cui insegna,
in corsivo, nell’austerità generale del posto, si permette appena un ghiribizzo: il finale della vu doppia si allunga sopra la a. Spingo così, un primo pomeriggio ai primi di dicembre, con l’animo combattuto tra studio e tentazione, la maniglia-abete della chocolaterie Walder di Neuchâtel (434 m). Guardandola meglio, si tratta di un tre di quadri sovrapposto che mi fa pensare di nuovo a un abete stilizzato. Del resto l’abete è il logo di una delle specialità. Forse un richiamo al nome di famiglia che con l’umlaut sarebbe boschi in tedesco, oppure una similitudine legata allo style sapin nato nel 1905 a LaChaux-de-Fonds grazie a Charles L’Eplattenier e i suoi allievi. Magari invece è solo un omaggio ai boschi di conifere nei dintorni. Ad ogni modo, anche il décor dentro conta, nella religiosità del luogo: luce quanto basta, non molta, diffusa dai lampadari
Sport in Azione
anni trenta, legno di teak, vetrinette d’antan. Una in particolare, dirige gli sguardi, dove una o due venditrici al contempo, ascoltano i desideri degli adepti. Un signore con gli occhi luccicanti, si fa riempire un sacchettino quasi tutto con cioccolatini al tè nero. Una signora parte in tromba su quelli al «cassis!» e «tonka!». «Mangue!» aggiunge ancora, alla sua litania, ma non ci sono più ed è molto dispiaciuta. Riparto con una scatola dorata da mezzo chilo più una piccola di sei pavés du château: il cavallo di battaglia inventato nel 1959, dopo un viaggio a Parigi, da Hans-Max Walder junior che dal 1950 al 1985 ha tenuto le redini del luogo con la moglie Milia. Tanzania, Santo Domingo, Caraibi, Manjari: già parti in viaggio leggendo l’origine delle fave di cacao delle sottili tavolette artigianali in vetrina. Il mio itinerario è più modesto, salgo su in cinque minuti
alla Collegiale – dove la pietra arenaria gialla di Hauterive tocca il suo apogeo di burrosità e sogni marini in viaggi di milioni di anni – accanto ai torrioni del castello. E così, seduto, per caso, sulla panchina di Balzac – una regale e insolita panchina in pietra vista Collegiale, lago, resti del castello – e protetto da tre bei lupi (opera in bronzo di Davide Rivalta), incomincio la degustazione con i pavés al latte. Cubetti con superficie quasi irrequieta come la copertina di Unknown pleasures (1979) dei Joy Division o quantomeno corrugata: dentro praliné sognanti dei quali conosco adesso il piacere e capisco la notorietà. E il tipo che l’altra volta ha chiesto due scatole da sessantaquattro pezzi. «Il loro cuore è fondente, il loro rivestimento croccante» ha scritto Olga Yurkina sulle pagine de «Le Temps». Non di minor pregio sono i cioccolatini al tè nero nepale-
se; e i nougat, straordinari, racchiusi sotto un tetto di tre quadratini di nougatine ricoperto di glassa al cioccolato al latte o fondente. Per non parlare dei lulù, forse i miei preferiti. E i poussenion, dove sopra si ritrovano tre abeti e il cui nome è tratto dal patois locale: significa lo spuntino serale di un tempo, quando l’orologio della Tour de Diesse scoccava le dieci e poi a nanna. Nessuna preoccupazione di orario, adesso, con i poussenion, opera di Hans-Max Walder senior – fondatore della chocolaterie il ventidue maggio 1919 – per sua moglie Rosa. Quelli alla crema di mandorla, da provare appoggiati sul pane (boulangerie Mäder) che ne prolunga il piacere. La panchina Balzac si chiama così perché, a quanto pare, nel 1833, qui ha dato il primo bacio a Madame Hanska. I tonka poi: yum, sono la fine del mondo e mi torna in mente Willy Wonka.
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di Giancarlo Dionisio
Tutti insieme appassionatamente ◆
Sono certo che abbiate già sentito parlare di Classe inclusiva. In caso contrario, riassumo. Si tratta di una classe scolastica in cui l’allievo con disabilità viene accolto e inserito nel gruppo, sia pure con il supporto di un docente di appoggio. Si tratta di un concetto pedagogico che, piano piano, sta soppiantando quello di Scuola speciale. Ebbene, nel calcio ticinese c’è chi è riuscito a ribaltare fragorosamente i parametri di questa operazione. Simona Gennari, direttrice sportiva del Raggruppamento Calcio San Bernardo, che comprende oltre 400 ragazzini, ha voluto dare spazio anche ai giovanissimi calciatori con disabilità mentale. Da una costola del Raggruppamento, nel 2012, ha dapprima fondato la Berny School, una struttura formativa di base per i piccolissimi, in cui il risultato è l’ultima delle preoccupa-
zioni, mentre in primo piano emergono il sano divertimento, unitamente al rispetto degli avversari e delle regole. Ogni mercoledì pomeriggio all’allenamento viene abbinato l’incontro con un personaggio del mondo dello sport o della società civile che possa fungere da esempio. Dopo poco tempo, Simona – che in virtù dei suoi 14 anni da calciatrice e 7 da allenatrice di serie A meriterebbe il titolo di Nostra Signora del Calcio – si è detta: «Perché non offrire anche a dei ragazzini disabili la possibilità di giocare?». Detto fatto. «Ma se ne erano presentati solo 5. Impossibile formare una squadra». Decide quindi di rivolgersi a tutti gli altri giovani del Raggruppamento, e alle rispettive famiglie, per verificare se qualcuno fosse interessato a integrare la neonata squadra. Nasce così «Tutti in gioco». «La risposta mi ha commosso. Se ne
sono aggiunti dapprima 3 o 4, poi il numero è cresciuto al punto che attualmente, ogni venerdì, mi vedo costretta a fare il turn over fra i 35 calciatori che hanno aderito al progetto. Quando ho consegnato loro la prima divisa, pareva avessero conquistato una medaglia d’oro. L’emozione la si poteva toccare con mano. I genitori sono sereni. E i cosiddetti calciatori normodotati, senza che io dicessi loro una parola, hanno adattato la velocità del gioco alle potenzialità dei loro compagni meno abili. Non potevo chiedere di più». Come detto, Simona dirige un vasto movimento che attinge ai bacini di Canobbio, Origlio, Ponte Capriasca, Porza e Comano. Con queste cifre, la tentazione di pigiare il piede sull’acceleratore alla ricerca di talenti e campioni precoci da «piazzare», potrebbe fare capolino. Invece
no. Alcuni principi fondamentali validi per «Tutti in gioco», sono seguiti e rispettati da tutte le squadre del Raggruppamento, dalla Scuola calcio agli allievi A, e dai loro 35 allenatori, chiamati pure a sottoscrivere una Carta etica. «È così che intendo il calcio. È un gioco, un’opportunità per stare bene insieme. Sento di avere la formazione nel DNA. Sono portata all’ascolto, che credo sia un atteggiamento fondamentale per chi lavora con dei giovanissimi. Se un bambino ha dei comportamenti inadeguati, non lo fa per un capriccio o perché si tratta di un cattivo soggetto. A monte ci deve essere una nota stonata, un atteggiamento dell’allenatore vissuto male, una parola sbagliata, una relazione disturbata con uno o più compagni. Il nostro compito principale è quello di cercare di capire e, nel limite delle nostre possibilità, di sciogliere
questo stato di sofferenza. Insegnare le tecniche fondamentali e gli assetti tattici è sì molto importante, ma ritengo che il trasmettere valori positivi lo sia ancora di più». Non stupisce che poche settimane fa, nel rinnovato Cinema Lux di Massagno, nell’ambito della serata di gala indetta da Aiuto Sport Ticino, Simona Gennari sia stata insignita del Premio Etico patrocinato dal Panathlon Club Lugano. «In carriera ho vinto tanto, sia da calciatrice, sia da allenatrice. Ma questo riconoscimento è quello che maggiormente mi riempie di gioia e di orgoglio. Grazie». È meraviglioso che il Ticino abbia saputo coltivare talenti come Noè Ponti, Ajla Del Ponte, Filippo Colombo e molti altri, ma è pure una gioia immensa che anche personaggi come Simona Gennari possano trovare le loro meritate gratificazioni.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 6 dicembre 2021
azione – Cooperativa Migros Ticino 29
ATTUALITÀ ●
Un inferno senza fine Viaggio nel nuovo campo profughi di Moria, sull’isola di Lesbo, dove le condizioni restano terribili
Continui giri di vite a Kabul I talebani vietano film e trasmissioni tv in cui si vedono anche attrici. Le giornaliste? Velate
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Quello schiaffo alla California Perché Elon Musk volta le spalle alla Silicon Valley e sceglie il Texas (e non è il solo a farlo)
C’è risparmio e risparmio Secondo Banca Migros, si tende a privilegiare ancora il conto in banca, anziché azioni e fondi
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Da sinistra: Robert Habeck, Annalena Baerbock, Olaf Scholz e Christian Lindner. (Shutterstock)
Sguardo al futuro della Germania L’analisi
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Le intenzioni del nuovo «Governo semaforo» guidato da Olaf Scholz e le possibili conseguenze per la Svizzera
Marzio Rigonalli
Ci sono voluti due mesi ed un’intensa trattativa, ma alla fine i tre partiti politici emersi alle ultime elezioni legislative in Germania sono riusciti ad intendersi e a concludere un accordo di governo. Socialdemocratici (Spd), Verdi e Liberali (Fdp) hanno sottoscritto un documento di 177 pagine, nel quale vengono enumerati le grandi linee e i temi concreti della politica che seguirà il nuovo Esecutivo. È la cosiddetta «coalizione semaforo», chiamata così per i colori che caratterizzano i tre partiti che la compongono: rosso per i socialdemocratici, giallo per i liberali e, ovviamente, verde per gli ecologisti. Per la prima volta la Germania verrà governata da una coalizione di tre partiti. Finora il potere centrale è sempre stato suddiviso tra due partiti, principalmente dalla grande coalizione, con la Cdu e l’Spd, ma anche da un’intesa senza la Cdu, tra Spd e Fdp, con i cancellieri Willy Brandt e Helmut Schmidt, negli anni Settanta, o tra Spd e Verdi, con Gerhard Schröder, all’inizio del secolo, prima del lungo regno di Angela Merkel. Con l’accordo di governo sono apparsi anche i nomi dei futuri titolari dei principali Ministeri. Il cancelliere sarà il socialdemocratico Olaf Scholz, il vincitore delle ultime elezioni legi-
slative. Il vicecancelliere sarà Robert Habeck, punta di diamante dei Verdi. A lui verrà affidato un nuovo Ministero, comprendente l’economia, il clima e l’energia. È un Ministero centrale e strategico nel periodo di transizione che si delinea, che comporterà non poche decisioni difficili da far accettare e da implementare. Agli Esteri arriva Annalena Baerbock, la giovane copresidente dei Verdi, che ha guidato la campagna elettorale del suo partito commettendo alcuni errori, ma ottenendo un buon risultato finale. È la prima volta che una donna si appresta a dirigere la diplomazia tedesca ed è la seconda volta che un rappresentante dei Verdi diventa ministro degli Esteri. Joschka Fischer lo è stato nel Governo di Schröder tra il 1998 e il 2005. Ai liberali, infine, e al loro leader Christian Lindner, è stato riservato il Ministero delle finanze, un posto molto importante nella prima potenza economica europea. La scelta dovrebbe rassicurare il mondo della finanza e dell’economia. Tra le numerose osservazioni che l’intesa raggiunta tra i tre partiti può suscitare, tre meritano una particolare attenzione. La prima riguarda la continuità o meno con la politica del precedente Governo e le novità che potrebbero sorgere. La seconda concerne la posizione della Germania
in seno all’Unione europea. La terza tocca le possibili conseguenze per la Svizzera, soprattutto per quanto riguarda i rapporti tra la Confederazione e l’Unione europea. La Germania continuerà ad avere una presenza significativa sul piano internazionale e un ruolo centrale in Europa. Il nuovo Governo s’iscrive nella continuità e non si lascia tentare da possibili ripiegamenti. Cerca di rafforzare la posizione della Germania con qualche cambiamento e con un buon numero di riforme. Sul piano internazionale, per esempio, si propone di essere più deciso a contrastare la Cina e la Russia di quanto non lo fosse Angela Merkel. Le riforme annunciate, però, avverranno soprattutto sul piano interno e comprendono: l’innalzamento del salario minimo da 9,6 a 12 euro l’ora; la neutralità climatica da raggiungere già nel 2045; l’uscita dal carbone entro il 2030, invece del 2038; il rafforzamento delle energie rinnovabili, chiamate a coprire la produzione di elettricità nella misura dell’80% nel 2030 (oggi la copertura è del 47%); la legalizzazione della vendita della cannabis; l’abbassamento del diritto di voto a 16 anni; alcune agevolazioni per chi vuol ottenere la cittadinanza tedesca; la costruzione di 400 mila nuove abitazioni. È un programma ambizioso, che dovrà fare
i conti con la gestione e gli imprevisti della pandemia e che dovrà superare lo scoglio del Bundestag. In Parlamento il Governo può sin d’ora contare su una confortevole maggioranza parlamentare. Sul piano europeo potrebbe arrivare qualche novità, se le intenzioni del nuovo Governo troveranno l’appoggio necessario tra tutti gli Stati membri dell’Unione europea. Il nuovo cancelliere Scholz e i suoi alleati propongono un’Europa più sovrana e più federalista. Vogliono andare oltre sulla strada dell’integrazione politica. Nel settore della politica estera, per esempio, chiedono che le decisioni non siano più prese all’unanimità, bensì alla maggioranza qualificata, e si schierano in favore dell’istituzione di un vero ministro degli Esteri, espressione di una condivisa volontà comune. Di fronte all’attuale conflitto tra i vertici dell’Ue, la Polonia e l’Ungheria, il nuovo Governo prende posizione in favore dello stato di diritto e si dichiara pronto a prendere sanzioni finanziarie contro i Governi che non rispettano l’indipendenza della giustizia. Nel settore economico e finanziario, infine, rompendo con la tradizionale ortodossia tedesca, i nuovi dirigenti si dichiarano disposti a rivedere le regole europee che limitano i deficit di bilancio e i debiti degli Stati
membri, nonché a prolungare l’accordo concluso tra i 27 per far fronte alla crisi economica provocata dalla pandemia. Sono tutte premesse che potrebbero rendere meno arduo il compito di Emmanuel Macron quando, a partire dal 1.gennaio 2022, assumerà la presidenza semestrale dell’Ue. Quali possono essere le conseguenze per la Svizzera? Nel documento approvato dai tre partiti non c’è nemmeno una parola sul nostro Paese. La Confederazione, dunque, non fa parte delle priorità del nuovo Governo. È probabile che il dichiarato appoggio all’Ue e ai sui principi da parte dei nuovi dirigenti tedeschi rafforzi la Commissione e non faciliti la comprensione di Bruxelles per la particolarità del caso svizzero. Ed è pure probabile che dalla forte presenza dei Verdi nel nuovo Governo possano arrivare pressioni, su Berna e sul Consiglio federale, affinché la Svizzera adotti misure più forti nel settore del clima. I tempi, però, non sono ancora maturi. Neanche per la Svizzera che adesso è chiamata a definire concretamente i contenuti dei futuri rapporti che vuole intrattenere con l’Unione europea, nonché a cercare un compromesso che non danneggi oltremisura l’economia e altri settori, come la formazione e la ricerca.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 6 dicembre 2021
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azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
«Ci trattano come animali in gabbia» Grecia
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Reportage dal nuovo campo profughi di Moria dove le persone migranti vivono ancora confinate in condizioni terribili
Francesca Mannocchi
Era l’aprile del 2016 quando papa Francesco si recò in visita a Lesbos. Non voleva portare solo la sua vicinanza a parole, ma anche la sua presenza fisica alle migliaia di richiedenti l’asilo che avevano raggiunto l’isola greca dell’Egeo, nella speranza di raggiungere l’Europa. In quell’occasione il pontefice ricordò i morti in mare, «le vittime di viaggi disumani sottoposte alle angherie di vili aguzzini» e ammonì i Governi europei. «Non basta limitarsi a inseguire l’emergenza del momento», disse. «Occorre sviluppare politiche di ampio respiro». Oggi, 5 anni dopo, Bergoglio torna in Grecia e a Lesbos, dove tutto è cambiato nella forma però poco nella sostanza.
Soraya Shahab e sua madre Leila. In basso Mohammed, scappato dall’Afghanistan due anni fa. (Romenzi)
«Non c’era elettricità. Per scaldarci dovevamo accendere un fuoco, all’aperto. Abbiamo sofferto il freddo e la fame» Ricordare Moria, per Soraya Shahab, è un dolore che le strozza le parole in gola. «Non avevamo elettricità, né coperte, niente di niente. Per scaldarci dovevamo accendere un fuoco, all’aperto, con la legna che trovavamo sulle colline. Abbiamo sofferto il freddo, a volte la fame. La situazione era terribile e molto umiliante, soprattutto per noi donne». Soraya oggi ha 19 anni, ne aveva 15 quando è arrivata sulle coste di Lesbos con la sua famiglia: padre, madre e quattro sorelle. Erano partiti da Izmir, in Turchia, come migliaia di altri migranti che dal 2015 hanno raggiunto l’Europa attraverso la rotta balcanica. La sua è una famiglia tagica, in fuga dall’Afghanistan perché nella provincia dove viveva, Ghazni, i combattimenti stavano uccidendo troppi giovani. «Mio padre voleva per noi un futuro migliore», afferma Soraya. «Non poteva immaginare che arrivando in Europa avremmo dovuto dormire per anni in un campo, senza bagni, né medicine, né elettricità». Senza un tetto. Soraya e la sua famiglia – 7 persone – hanno vissuto in due piccole tende. Quei ricordi sono per lei e sua madre una fatica e un dolore. Erano lì, all’aperto, anche l’8 settembre 2020, quando un incendio doloso ha distrutto l’hotspot di Moria, le tende nella collina circostante, e messo in fuga, lasciandole senza case né tende, circa 12 mila persone. Moria era uno dei centri di identificazione e registrazione dei migranti creati sulle isole greche dopo l’accordo siglato nel 2016 tra Ue e Turchia. L’accordo, tuttora in vigore, prevede che chiunque arrivi in Grecia dalla Turchia senza requisiti chiari per l’asilo debba essere espulso, riportato in Turchia o nei Paesi di origine. Dal punto di vista numerico la strategia europea ha funzionato: a Lesbo nel 2017 è arrivata una media di 2500
persone al mese, molto meno rispetto ai 10 mila arrivati in un solo giorno nel pieno della crisi dell’autunno 2015. Ma le persone arrivate sulle isole greche di Chios, Leros, Samos e Kos – oltre a Lesbo ovviamente – si sono per anni ritrovate bloccate dalla lentezza e dalla complessità di una procedura di asilo che li condanna a fermarsi nell’isola finché le pratiche non siano state elaborate. Elaborazione che può durare mesi, anche anni. Nato sulla struttura di una base militare per ospitare 1000 persone, Moria è arrivata ad ospitarne anche 12 mila, sparse in tutte le colline circostanti, come quella in cui viveva Soraya con la sua famiglia. Fino all’incendio dell’8 settembre dello scorso anno. «Abbiamo avuto paura di morire», ricorda la ragazza mentre guarda il mare insieme a sua madre Leila. «Abbiamo appena fatto in tempo a prendere uno zaino e scappare via. Poi è iniziato un altro limbo per noi.
Per due settimane abbiamo dormito in strada, aspettando di capire cosa ne sarebbe stato di noi. Sapevamo che non volevamo vivere ancora in una tenda, ma nessuno ci dava risposte». La situazione è andata avanti per 15 giorni, finché il Governo greco ha deciso di spostare tutti gli sfollati in un altro campo. Mai più Moria, questa era stata la promessa fatta dalle autorità di Atene dopo l’incendio. Mai più Moria avevano ribadito i vertici europei. Eppure la soluzione che presentano oggi le isole greche non sembra aver migliorato la condizione di vita delle persone migranti. Il Governo conservatore di Kyriakos Mitsotakis lo scorso anno ha promesso un nuovo inizio nella politica greca per i rifugiati, impegnandosi a chiudere i campi sovraffollati come Moria. Ha anche ricevuto 300 milioni di euro dall’Ue per la costruzione di nuovi campi e l’ammodernamento di quelli vecchi. Sono strutture chiuse, circon-
date da filo spinato, controllate da telecamere a circuito chiuso e presidiate da forze dell’ordine. «La situazione è cambiata molto dopo l’incendio», osserva Laure Joachim, la responsabile delle attività mediche presso la Clinica di salute mentale di Medici senza frontiere (Msf) a Mitilene, Lesbo. «Ci sono meno persone sull’isola perché i più vulnerabili sono stati spostati sulla terraferma, ad Atene, ma le condizioni di vita non sono diverse da prima. Non c’è abbastanza elettricità, alcune tende sono coperte di plastica in una zona che in inverno è colpita da venti gelidi, il campo è circondato da filo spinato, non ci sono sistemi di riscaldamento e nemmeno i bagni e le docce sono totalmente funzionanti». Le condizioni del nuovo campo sono terribili, sottolinea Joachim. «Per questo lo chiamiamo Moria 2.0, perché è la copia della vecchia Moria ma a differenza di prima è pensata per nascon-
dere le persone migranti, tenerle lontane dai centri, dalle città. È in atto una nuova tendenza, cioè far sì che i migranti restino confinati nei campi, senza alcun contatto con le comunità locali». È metà pomeriggio. Soraya e sua madre guardano il mare. Sono fuori dal campo per le tre ore settimanali che sono loro concesse dalle nuove procedure. Sono state sedute nel parco di Mitilene, poi hanno passeggiato lungo le rive. Soraya vorrebbe diventare una scienziata, studiare. «Come gli altri», dice. Ripete questa formula molte volte. «Come gli altri». Però, continua, «non ci lasciano uscire, i greci non vogliono che ci facciamo vedere in giro. Vogliono tenerci lontano dalle altre persone e non vogliono che le persone abbiamo notizie sulle condizioni di vita all’interno dei nuovi campi. Dietro quel filo spinato ci sentiamo trattati come animali in gabbia».
Anche i bambini vivono in un limbo, senza scuola né prospettive Anche Mohammed è scappato dall’Afghanistan, due anni fa. Ha attraversato l’Iran e la Turchia, poi ha provato tre volte a imbarcarsi per la Grecia. Quando finalmente è riuscito ad arrivare a Lesbos ha chiesto asilo per sé, sua moglie e le due figlie piccole. È scappato dalle minacce dei talebani. Talebani che, lo ricordiamo, dal 15 agosto 2021 sono al potere in Afghanistan (con quali conseguenze lo spiega Francesca Marino a pagina 33). «Lavoravo come autista per le organizzazioni umanitarie a Kabul. Un giorno i talebani hanno bussato alla mia porta e mi hanno detto: se non
smetti di lavorare per gli europei e gli americani sei un uomo morto. Era un avvertimento, il passo successivo sarebbe stato rapirmi o uccidermi. Allora ho venduto tutto quello che avevo e sono partito». Sono due anni, adesso, che aspetta risposte alla sua richiesta di protezione umanitaria. «Sono due anni che le mie bambine non vanno a scuola», racconta. «E la nostra richiesta d’asilo è stata già rigettata due volte. Nessuno sa che ne sarà di noi». Anche la loro vita è nel limbo. «Ci sono persone che seguiamo che aspettano una risposta anche da tre anni», dichiara Laure Joachim di
Medici senza frontiere. «Con l’aggravante, rispetto a prima, di una radicale limitazione delle libertà personali dei richiedenti l’asilo. Secondo le nuove procedure, infatti, possono uscire dai nuovi campi chiusi se hanno appuntamenti medici o legali, ma solo dopo aver presentato una lettera che lo dimostri e dopo che questo documento è stato vagliato da chi vigila l’accesso al campo. È lo stesso per tutti: adulti, bambini, donne incinte». Un approccio alla migrazione che tende a umiliare rifugiati e richiedenti l’asilo invece di cercare di estendere i loro diritti. Annuncio pubblicitario
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 6 dicembre 2021
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ATTUALITÀ
La stretta sulle attrici Kabul
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Dove si impone una scelta: una vita senz’arte né cultura o la morte
Francesca Marino
«Non si tratta di limitazioni alla libertà d’espressione ma di pochi, semplici principi» ha di recente dichiarato, per bocca di un suo portavoce, il Ministero per la prevenzione del vizio e la promozione della virtù dell’Afghanistan. Paese che – lo ricordiamo – dal 15 agosto è tornato in mano ai talebani. E, sempre il famigerato Ministero, ha ribadito che: «Si tratta soltanto di consigli e delle nostre aspettative». Materia del contendere un decreto in 8 punti emanato dal Ministero che ha tristemente preso il posto a Kabul, sia fisicamente che moralmente, del Ministero per le donne. Il primo clamoroso provvedimento riguarda la presenza delle donne sulla scena: vietate tutte le trasmissioni tv e i film in cui appaiono attrici. Il che significa, tradotto, vietati film e soap opera in toto. E anche molti documentari. Le giornaliste, inoltre, sono obbligate a indossare il velo. Non è ancora chiaro se saranno costrette a parlare con tutto il volto coperto o se è sufficiente coprire il capo, ma si tratta di distinzioni di lana caprina, dicono. Sono vietati anche programmi comici e di intrattenimento che possono causare umiliazione o essere ritenuti insultanti (da chi e per chi non è dato sapere) e anche qualunque genere di programma che sia offensivo per la religione o per la dignità umana (di chi, e per quale religione, non viene specificato). Soprattutto è vietatissimo mandare in onda programmi televisivi o serial in cui sono raffigurati Maometto e i suoi compagni (le mogli sono ovviamente incluse nella sezione «vietate le attrici»), e anche se si manda in onda l’equivalente talebano de Il ponte sul fiume Kwai, bisogna fare attenzione
che gli uomini non siano in abbigliamento indecente o, Dio non voglia, a torso nudo. Praticamente il Ministero preposto a vegliare sulla moralità degli afgani (e soprattutto delle afgane), dopo avere abolito la musica e fatto a pezzi strumenti musicali e anche un bel po’ di musicisti, si prende cura adesso degli attori e delle attrici. Facendo un tuffo nel passato di qualche migliaio di anni, quando gli attori non venivano seppelliti in terra consacrata e le attrici erano considerate un po’ meno che prostitute o, forse, auspicando il ritorno dei bei tempi del teatro elisabettiano quando a recitare Giulietta erano vezzosi giovanetti appena adolescenti. Il fatto che non ci siano state proteste fornisce la misura di quanto terrorizzata sia la popolazione afgana: non perché, come reporter di prevalenza pakistani si affannano a sostenere, gli afgani siano d’accordo con i talebani. Anzi. Negli ultimi anni le telenovelas sono diventate, in Afghanistan, un vero e proprio fenomeno di costume. Le strade di alcune città e certi villaggi, all’ora stabilita, si svuotavano di colpo come durante il coprifuoco. E anche insospettabili e seriosi uomini d’affari cercavano di svicolare o di accampare impegni improrogabili per non perdere la puntata della soap preferita, turca o indiana che fosse. Pian piano i talebani stanno disilludendo anche i fan più accaniti della nuova e più moderna versione della banda di fanatici assassini di un tempo. Mentre qualcuno, di prevalenza Pakistan e Cina, continua a ripetere il mantra del «dategli credito, dategli tempo», il tempo in Afghani-
stan si torce su se stesso per tornare alla fine degli anni Novanta. La maggior parte delle ragazze afgane è ancora chiusa in casa, priva della possibilità di continuare ad avere un’istruzione. La «misura temporanea per motivi di sicurezza» invocata dai talebani, la volta scorsa è durata per tutto il tempo del loro Governo. Semplicemente, nell’Afghanistan del medioevo di ritorno le donne non sono al sicuro. Punto. Quelle che possono sono scappate: atlete, giornaliste, registe, cantanti e attrici. Poliziotte e giudici, funzionarie amministrative. Molte sono state ammazzate appena le telecamere si sono spente, altre si nascondono, braccate da figuri più o meno noti. Secondo Reporters sans frontiers, soltanto 76 delle 700 giornaliste attive a Kabul prima di agosto sono ancora al lavoro. E meno di una decina nelle altre città. Non che i giornalisti maschi se la passino meglio: quelli che, seguendo gli inviti degli stessi talebani fatti a favore di telecamere americane «le critiche aiutano a migliorarci», hanno provato a criticare il Governo ne portano ancora addosso i segni. Quelli rimasti vivi, ovviamente. D’altra parte, come ai bei tempi dei taliban 1.0, agli uomini adesso è vietato radere la barba e avere tagli di capelli troppo alla moda. Molti ragazzi, ai tempi di Titanic con Leonardo Di Caprio, si sono ritrovati con la testa rasata perché avevano copiato il taglio di capelli del romantico e sfortunato Jack. Intanto, esattamente come negli anni Novanta, il meglio della jihad del sudest asiatico si sta radunando in Afghanistan, Al Qaeda compresa. Molti membri di Al Qaeda, tanto per
Vietate tutte le trasmissioni tv e i film in cui appaiono attrici. Le giornaliste sono obbligate a indossare il velo. (Shutterstock)
tenere fede agli accordi di Doha, sono stati fatti governatori di provincie varie. I campi di addestramento sono stati dati in franchising ai pakistani della Jaish-i-Mohammed e della Lashkar-i-Toiba, gruppi meno noti da questa parte del mondo ma molto più pericolosi dei talebani, e lavorano a pieno ritmo. Armi e mezzi abbandonati dagli americani viaggiano dall’altra parte del confine, verso il Pakistan. Che, essendo il creatore dei talebani, si sta nemmeno tanto stranamente talibanizzando a sua volta. Faceva un po’ impressione, di recente, vedere a Lahore, una roccaforte liberal e intellettuale, come la conferenza in ricordo dell’avvocata dei diritti umani Asma Jehangir fosse piena di
donne con il capo velato. Asma non avrebbe apprezzato. Ma Asma Jehangir è morta, e curiosamente, a parlare in suo ricordo, erano quasi esclusivamente uomini. Segno dei tempi anche questo. «Non si tratta di limitazioni alla libertà d’espressione», ribadiscono i talebani, «ma di semplici editti religiosi». Emanati da un’autorità politica che pretende però di avere il controllo delle coscienze, della morale e della fede dei cittadini. Che a loro piaccia o no, che lo vogliano o no. Cittadini che ora, anche nel chiuso delle loro case, avranno una sola possibilità: adattarsi a una vita senza musica, risate, istruzione, arte e cinema. O morire. Annuncio pubblicitario
Castro vince in Honduras Il punto
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La nuova presidente Xiomara ha raccolto voti soprattutto a sinistra
Una Castro presidente in Honduras. Non è una parente dei Castro cubani, ma il cognome e la fama di simpatizzante castrista le sono bastati a mietere voti tra gli elettori di sinistra di un Paese dal quale un milione di persone è scappato e vive illegalmente negli Stati uniti e nel quale una buona metà dei rimasti in patria vive delle rimesse che arrivano dagli Usa. Si chiama Xiomara Castro. È stata eletta con uno schiacciante 56% delle preferenze, dato per lei fondamentale perché non consente dispute sul riconteggio, inizialmente annunciato dagli avversari. Negli ultimi 12 anni è stata la leader dell’opposizione ai Governi conservatori dell’Honduras. La sua figura politica è nata nelle manifestazioni di strada che nel 2009 si opposero, senza successo, al golpe che depose l’allora presidente Manuel Zelaya, suo marito. Da allora la figura di lei s’è rafforzata al punto da assicurarle sostegno e voti anche lontani dagli ex simpatizzanti dell’ex presidente cacciato manu militari. Zelaya era stato eletto con il Partito liberale nel 2005 e deposto con un colpo di mano maldestro, ma riuscito, quando un gruppo di militari lo portò via in pigiama dal palazzo presidenziale. Fino al 2009 in Honduras ogni elezione veniva giocata tra partito nazionale e partito liberale, due
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Angela Nocioni
formazioni storiche esistenti la prima dal 1902 e l’altra dal 1891. L’arrivo di Zelaya trasformò la scena politica perché lui, eletto col Partito liberale, in pochi mesi virò verso la sinistra radicale che in quegli anni aveva nel Venezuela di Hugo Chavez e nel Brasile di «Lula» i suoi riferimenti continentali. La pagò cara. «Sono atterrato in Costa Rica in pigiama, non ho nemmeno i calzini», raccontava lui al telefono la mattina dopo il golpe, ancora incredulo. Vecchio aristocratico, Zelaya era stato eletto con voti liberali e conservatori. Il suo tentativo di svolta a sinistra, ostacolato per mesi dalla ferrea opposizione del potere giudiziario e della maggioranza conservatrice del Parlamento, fu bloccato all’alba di una domenica da un colpo di stato in
vecchio stile, con carri armati in strada, un black out di 24 ore nella capitale, otto ministri arrestati. I militari lo svegliarono con colpi di mitraglia fuori dalla sua residenza privata. Secondo il suo racconto, dopo un breve conflitto a fuoco con le guardie del corpo, i militari entrarono, gli puntarono in faccia il fucile e gli ordinarono di consegnare il cellulare che aveva in mano. Dieci minuti dopo venne trascinato fuori di casa e trasportato in tutta fretta in una base militare da cui fu fatto decollare l’aereo presidenziale con destinazione Costa Rica. Il Congresso, che appoggiava i golpisti, nominò subito al posto di Zelaya Roberto Micheletti, fino al giorno prima presidente del Parlamento. Appena insediatosi Micheletti decretò lo stato d’assedio. La comunità internazionale non lo riconobbe come legittimo. Da quel giorno il ruolo di Xiomena Castro cominciò a diventare prima quello di referente delle proteste contro il golpe e poi, via via, mentre lei coltivava relazioni con i diplomatici amici dei Paesi ex alleati del Governo Zelaya, si è trasformato in quello di capa dell’opposizione. Nel 2013 si è presentata alle elezioni ma le ha perse. In queste ultime ha vinto e rivendica già come suo personale successo il fatto che l’affluenza al voto è schizzata al 68%, 10 punti in più delle ultime elezioni.
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ATTUALITÀ
Perché Musk ha voltato le spalle alla California L’analisi
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Il suo non è il gesto isolato di un miliardario polemico, è la punta dell’iceberg di un fenomeno più diffuso in atto da anni
Federico Rampini
Austin, capitale dello Stato del Texas, ospita la nuova sede sociale di Tesla così come il centro di SpaceX, l’impresa spaziale di Musk Oggi il modello-California è in una crisi profonda, sottolineata dalla scelta di Elon Musk (nella foto) di abbandonare la Silicon valley per trasferirsi in Texas: il secondo Stato Usa per popolazione e ricchezza, ma soprattutto il rivale storico della California, la vetrina del neoliberismo e paradiso fiscale repubblicano. Musk è l’uomo più ricco del mondo. Non è banale il fatto che già nel dicembre 2020 abbia «votato con i piedi», scegliendo di abbandonare la California. Il suo nuovo domicilio lo ha eletto nella capitale del Texas, Austin, a 2066 miglia dalla casa che possedeva fino al 2020 nella baia di San Francisco. Austin ospita la nuova sede sociale di Tesla così come il centro di SpaceX, l’impresa spaziale di Musk. È nel Texas che Musk costruisce la nuova giga-fabbrica di auto elettriche. Con la partenza della sede direzionale di Tesla, volta le spalle alla California un marchio simbolo dell’innovazione, che ha catturato la fantasia della «generazione sostenibile», e in Borsa ha sfondato il trilione (mille miliardi di dollari) quindi vale oltre dieci volte la General motors.
In America durante la pandemia il numero di micro-imprenditori è aumentato, arrivando a quota 9,5 milioni Il cinquantenne Musk è un personaggio anomalo per tante ragioni, a cominciare dal fatto che è un raro caso di miliardario digitale e ambientalista, ma politicamente di destra. In questo si distingue dall’establishment della West Coast, politically correct e generoso nel finanziarie tutte le cause progressiste, oltre che le campagne elettorali del partito democratico. Ma la sua scelta di ripudiare la California è motivata da un lungo elenco di rimostranze. Musk la descrive come un inferno per il business: «Troppe tasse, troppa burocrazia, i costi degli alloggi eccessivi penalizzano i dipendenti delle mie aziende, le infrastrut-
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La California per decenni ha incarnato il meglio dell’american dream, il sogno americano. Nel 1900 era quasi deserta, aveva la popolazione del Kansas; poi durante l’intero «secolo americano» è stata la meta di un’invasione che ha moltiplicato per venti volte i suoi abitanti (oggi sono quasi 40 milioni). Da qui sono nate a cicli periodici le grandi rivoluzioni creative che hanno ridisegnato la società, la cultura, l’economia: dalla Beat generation degli anni Cinquanta al Free speech movement del 1964 alla Summer of love del 1967. Dalla letteratura al cinema alla musica, in campo culturale. Dall’ambientalismo al femminismo al movimento gay, nella sfera valoriale. Sul terreno della tecnologia, dall’elettronica a Internet all’auto elettrica. Il contesto sembrava un mix ideale, il giusto dosaggio tra spirito libertario e imprenditorialità, tolleranza di ogni diversità e attrazione dei cervelli stranieri, fino a quello speciale humus finanziario che è la cultura del venture capital.
ture scadenti rendono il loro pendolarismo un incubo». Il suo addio alla California non è il gesto isolato di un miliardario polemico. Al contrario, è la punta dell’iceberg di un fenomeno ben più diffuso e in atto da anni. La Tesla si accoda a un esodo di startup tecnologiche che abbandonano la West Coast per migrare verso lidi più accoglienti. Che Musk sia l’interprete di un sentimento comune lo dimostra una delle sue iniziative apparentemente stravaganti. Di recente ha lanciato un suo sondaggio personale su Twitter, chiedendo l’approvazione del pubblico alla mossa di vendere un congruo pacchetto di opzioni azionarie Tesla per pagare le tasse. Il referendum lo ha sostenuto, una maggioranza di utenti ha appoggiato la sua scelta. Musk ha venduto così tante azioni – circa il 10% del suo pacchetto azionario – che il prezzo in Borsa è calato… alleggerendo di colpo il suo carico fiscale visto che si è ridotto il capital gain tassabile. L’operazione coronava anni di polemiche di Musk contro la politica fiscale dei democratici. È facile considerarlo un banale esempio di oligarca egoista, figlio di un capitalismo viziato da decenni di privilegi fiscali. Ma l’America che adora e sostiene Musk non è solo quella dei suoi pari. C’è una diffusa imprenditorialità in tutte le fasce sociali, che la pandemia ha confermato con prepotenza. Durante la pandemia il numero di micro-imprenditori che danno lavoro a se stessi è aumentato di mezzo milione, arrivando a quota 9,5 milioni (il massimo dalla crisi del 2008). La natalità di nuove imprese è salita del 56% nei primi dieci mesi del 2021, e i due terzi hanno un solo dipendente: il fondatore. È la conferma di un tratto culturale antico, che spiega la vitalità dell’economia americana: un popolo che ha spirito d’intrapresa e vocazione al capitalismo non si scoraggia di fronte alle avversità. Quando le aziende chiudono e licenziano, molti americani anziché aspettare aiuti dallo Stato si rimboccano le maniche e decidono di mettersi in proprio, diventano datori di lavoro di se stessi. Questo popolo di micro-imprenditori è la base sociale che spiega il consenso verso una figura come Musk, e agli applausi che ri-
ceve fra i 63 milioni di suoi follower su Twitter, quando polemizza con lo statalismo della sinistra. Fra la Tesla e la miriade di start-up, c’è un ampio ventaglio intermedio di imprese
che «votano con i piedi» e scelgono il Texas invece della California. Un altro esempio importante è la multinazionale sudcoreana Samsung: investe 17 miliardi di dollari per costruire a
Taylor (Texas) una nuova fabbrica di semiconduttori. La scelta è strategica e ha implicazioni geopolitiche. I semiconduttori – cervello e memoria di ogni apparecchio elettronico – scarseggiano e questa penuria mette in difficoltà molte aziende che li usano come componenti per i loro prodotti finali, automobili incluse. Il primo produttore mondiale è la Taiwan semiconductor manufacturing, il secondo è Samsung. L’una e l’altra sono «troppo vicine alla Cina», un dato nevralgico in quest’epoca di crescente tensione fra le due superpotenze. Andare a produrre in America vicino a grandi clienti locali è una mossa che viene vista con molto favore dall’Amministrazione Biden. Ma un tempo la sede naturale per una fabbrica di semiconduttori sarebbe stata la Silicon valley: deve il suo nome proprio al silicio, materiale di base dei micro-chip, in omaggio a un’epoca in cui il leader mondiale era la californiana Intel. Oggi invece i nuovi investimenti per fabbricare semiconduttori sul territorio americani vengono indirizzati in Stati più «leggeri» dal punto di vista delle regolamentazioni e del fisco: il Texas, appunto, o l’Arizona (dove investono i taiwanesi e la stessa Intel). Lo sdegnoso addio di Musk è solo la conferma finale che la California ha perduto molto del suo fascino. Annuncio pubblicitario
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Foto: Getty Images
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Contro la stitichezza
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COMPAGNO DI FOTO INTELLIGENTI
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In situazioni quotidiane o a una festa, la Canon PowerShot PX si colloca semplicemente al centro dell‘azione e cattura automaticamente le scene più belle come foto o video, senza che nessuno debba azionare la fotocamera o premere il pulsante di scatto. Riconosce persino le persone e usa l‘obiettivo zoom rotante e inclinabile per ritagliare l‘immagine alla giusta dimensione. Naturalmente, è possibile prendere il controllo in qualsiasi momento e utilizzare l‘app Canon Connect per controllare e attivare la fotocamera dal tuo smartphone. Oppure puoi semplicemente dire: «Ciao Pixie, fai una foto!” Il controllo vocale della PowerShot PX capisce quattro comandi vocali e può mettere a fuoco le tue persone preferite mentre stai scattando e filmando. Questo «robot fotografico» bitorzoluto combina l‘esperienza fotografica di Canon con una tecnologia di imaging intelligente: la mini fotocamera cattura foto di alta qualità a 11,7 megapixel e video Full HD fluidi fino a 60 fps. L‘obiettivo zoom 3x (19mm - 57mm*) può tenere d‘occhio l‘azione in un ampio raggio (340 gradi orizzontale, 110 gradi verticale).
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L‘app Camera Connect per Mini PTZ aiuta nella selezione delle immagini e suggerisce automaticamente le foto e i video migliori.
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ATTUALITÀ
Anche gli eserciti tra i grandi inquinatori Prospettive
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I Paesi Nato hanno approvato un’agenda per ridurre l’impatto della Difesa sul clima ma rimane ancora tutto da fare
Luciana Grosso
Dicono che il primo passo per la guarigione, sia la consapevolezza. Probabilmente vale anche per la tutela dell’ambiente, la riduzione dell’inquinamento, la diffusione di emissioni climalteranti. Così non si può che accogliere con favore (e anche un po’ di stupore) la notizia che la Nato ha preso consapevolezza che i suoi eserciti inquinano e consumano fonti fossili. E che, assunta questa consapevolezza, abbia annunciato di volerci mettere una pezza, tanto che, nel marzo 2021, i ministri degli esteri dei Paesi Nato hanno approvato un’agenda comune sui cambiamenti climatici e la sicurezza nella quale mostrano di aver compreso l’urgenza di un’azione che, da un lato, mitighi le loro responsabilità rispetto all’inquinamento, dall’altro prevenga ulteriori crisi legate, proprio, alla penuria di materie prime. Per avere un’idea di quanto concreta e decisiva sia la faccenda basti sapere che, secondo alcuni studi, il solo esercito americano è considerato il singolo più grande consumatore istituzionale di idrocarburi nel mondo, dal momento che le forze armate (americane e Nato, ma in generale del mondo) usano petrolio e combustibili fossili praticamente per tutto, dalla logistica agli aerei, dai tank, alle missioni umanitarie. Le dimensioni sono considerevoli: nel solo 2017, si legge sulla rivista statunitense
«Forbes» per esempio, si calcola che l’esercito americano abbia acquistato circa 269’230 barili di petrolio al giorno e, bruciando quei combustibili, abbia emesso più di 25’000 chilotoni di anidride carbonica. Sulla base di questi dati si può dire che il solo esercito degli Stati uniti, se fosse un Paese, sarebbe il 47esimo più grande produttore di gas serra al mondo, collocandosi tra Perù e Portogallo, con 59 milioni tonnellate di Co2. Inferiori, ma non di molto, le emissioni stimate per le forze europee (11 milioni di tonnellate, quanto l’intero Regno unito). In realtà, al di la di questi numeri, raccolti in buona parte dalla britannica Lancaster University e pubblicati in uno studio del 2019, avere dati precisi su quanto inquinano i singoli eserciti (e per somma quello della Nato) è faccenda piuttosto complicata, sia perché alcune cifre non sono disponibili, poiché protette dalle ragioni di sicurezza che sempre circondano le faccende militari, sia poiché spesso i vertici militari stessi sono piuttosto restii a renderle note. Quel che si può stimare, secondo un report di Scientists for global responsibility, è che complessivamente gli eserciti di tutto il mondo messi insieme e le industrie che forniscono le loro attrezzature potrebbero essere responsabili di circa il 6% di tutte le emissioni globali.
Se fosse un Paese l’esercito Usa sarebbe il 47.esimo maggiore produttore di Co2. (Shutterstock)
Così, nel valutare l’impatto ambientale di aerei e carri armati, ma anche di voli umanitari e missioni di salvataggio, occorre procedere un po’ a tentoni e ci si fida di quel che dicono pubblicazioni come quella dell’International military council on climate and security («The world climate and security report 2021») che afferma che la difesa rimane il singolo più grande consumatore di
idrocarburi nel mondo e che la lunga durata di vita delle attrezzature militari, come le navi da guerra, significa che la difesa conta di fare affidamento sul petrolio per «molti anni a venire». Proprio per questo mix tra necessità di avere a disposizione enormi quantità di energia e carburante (nel modo più veloce e disponibile che – ancora oggi – esiste, ossia
con il petrolio), e attrezzature con una vita lunga (che dunque tendono o tenderanno a diventare energeticamente obsolete), le dichiarazioni di intenti della Nato sono state accolte da un lato con favore, dall’altro con perplessità. Infatti se dovesse dimostrarsi vero che gli eserciti dell’asse atlantico intendono ridurre la loro impronta energetica, il risultato sull’ambiente, sulla qualità dell’aria e sul clima, sarebbe concreto, reale, importante. D’altra parte nessuno, ad oggi, sa davvero né se esista la reale volontà politica di farlo (il che è comunque molto probabile), né se davvero sia possibile, in termini di efficienza logistica, una decarbonizzazione degli eserciti. Allo stesso tempo non si sa né se gli eserciti avranno il modo, il tempo e i soldi per ripensare completamente i loro mezzi e la loro logistica (ipotizzando di intervenire solo su quella e non anche – come pure sarebbe doveroso – sulle armi, proiettili, ogive e simili). Per questo, a questo punto, sul piatto non ci sono altro che una constatazione oggettiva (gli eserciti inquinano, e molto), una dichiarazione di intenti (ci piacerebbe inquinassero meno) e, oltre questo, poco altro. Da qui in poi, da questa presa d’atto, è tutto foglio bianco. Quello che ci si potrà scrivere sopra dipenderà dalle decisioni politiche e concrete di chi le può (o le vuole) prendere. Annuncio pubblicitario
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ATTUALITÀ
La Svizzera risparmia così
Gestione del rispamio ◆ Come emerge da un sondaggio della Banca Migros, nonostante i tassi d’interesse siano nulli o addirittura negativi, la maggior parte del denaro va a finire su un conto risparmio o un conto corrente. Intervista a Jeannette Schaller, responsabile Pianificazione finanziaria di Banca Migros Benita Vogel
Sul conto non si incassano quasi interessi. Perché allora i conti correnti e di risparmio costituiscono i metodi di accantonamento più popolari? Molti pensano che il loro patrimonio sia insufficiente per poter investire. Ma spesso si sbagliano. Chi ha più di due o tre salari mensili sul conto risparmio, dispone di mezzi liquidi sufficienti per investire in fondi. Quanto perde qualcuno che al posto di azioni sceglie il conto risparmio? Chi investe i propri soldi in prodotti finanziari percepisce molto di più. Se, ad esempio, negli ultimi 25 anni si è investito in azioni svizzere, il patrimonio è quintuplicato. Al contrario, con il conto risparmio il patrimonio si è incrementato appena del 20%. Incredibile. Forse gli svizzeri non sono propensi al rischio? È solo una delle tante ragioni. Finora, per vivere bene non abbiamo dovuto prenderci dei rischi. Ma cambierà. Il nostro sistema previdenziale si trova in una condizione delicata. Saremo costretti a occuparcene da soli e a investire in prodotti dove si corrono rischi. Un altro motivo è la scarsa preparazione su questioni finanziarie. Il 53% dei giovani non sanno niente di investimenti. Una cosa allarmante, anche perché avrebbero un orizzonte d’investimento lungo e potrebbero far lavorare i loro soldi a profitto della loro pensione.
Ti-Press
Signora Schaller, nonostante la pandemia la gente giudica la propria situazione finanziaria migliore di due anni fa. Perché? Anche a me sorprende un po’. Tuttavia, le generose misure di sostegno dello Stato hanno palesato il loro effetto. La disoccupazione è bassa e i redditi non hanno quasi sofferto. La ripresa economica si è consolidata. La Svizzera si trova in una situazione invidiabile.
Oltre ai giovani, spesso anche le donne ne sanno poco di investimenti. Che cosa dovrebbe cambiare? Budget, finanze e previdenza devono diventare parte dei programmi scolastici, al più tardi nelle
scuole secondarie. Bisogna sensibilizzare la gente su questo tema. Le donne, in particolare, potrebbero evitare di avere lacune pensionistiche se ne sapessero di più e prendessero delle precauzioni tempestivamente.
Le donne sono svantaggiate perché hanno meno soldi da risparmiare rispetto agli uomini. La differenza di genere colpisce anche i salari. Assolutamente. I salari più bassi così come le interruzioni di carriera e il lavoro a tempo parziale porta-
no a versamenti minori nel sistema previdenziale e di conseguenza a rendite pensionistiche più basse. Il problema è aggravato dalla maggiore speranza di vita delle donne, che sono quindi a rischio di povertà in età avanzata.
Il sondaggio rappresentativo sui comportamenti dei risparmiatori Banca Migros ha commissionato a un’azienda specializzata un’inchiesta, nel corso della quale sono state realizzate 1503 interviste a persone di età superiore ai 18 anni residenti in tutta la Svizzera. Per quello che riguarda le abitudi legate al risparmio, il 14% degli interpellati non risparmia assolutamente niente. Il motivo più addotto è la mancanza di soldi. Una grossa percentuale di anziani afferma di avere già abbastanza risparmi e quindi di non volerne accantonare ulteriormente. D’altro canto, il 54% degli intervistati risparmia senza riflettere: la maggior parte di loro non pensa a come raggiungere nel modo più efficiente il proprio obiettivo di risparmio. Tra coloro che dicono di risparmiare regolarmente il 1° posto dei depositi è occupato dal conto risparmio: è il metodo di accantonamento più comune tra gli interpellati. Il 62% del patrimonio liquido disponibile resta lì nonostante i
tassi d’interesse siano bassissimi. Al secondo posto c’è il cosiddetto conto privato (in pratica un conto corrente). Chi, invece, risparmia specificamente per la previdenza per la vecchiaia e il pensionamento anticipato, lo fa molto spesso con versamenti al 3° pilastro. Ma quanto risparmiano, coloro che hanno scelto questa modalità? Il 59% dei risparmiatori mette da parte fino a mille franchi al mese, mentre il 7% risparmia mensilmente oltre 3000 franchi. In media, gli uomini accantonano importi maggiori delle donne. Per quello che riguarda i motivi degli accantonamenti, in generale il 25% della popolazione elvetica risparmia in primo luogo nella previdenza per la vecchiaia e per eventuali imprevisti. Per un quarto la previdenza pensionistica è il principale obiettivo di risparmio, mentre un quinto risparmia soprattutto per la casa di proprietà. Se si chiede loro come valutano la pro-
pria situazione finanziaria, l’83% degli intervistati la definisce come buona. Rispetto a due anni fa, il 40% la giudica altrettanto buona e per il 43% è addirittura migliorata. Tra i più positivi ci sono le persone più giovani e gli uomini. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che le spese per il tempo libero sono diminuite durante la pandemia da coronavirus. D’altro canto il 58% degli interpellati continua a risparmiare come prima nonostante gli interessi bassi, principalmente su conti risparmio e privati. Solo un 33% ha modificato il proprio modo di risparmiare. La maggior parte degli altri crede di avere troppo poco denaro per poter investire in prodotti finanziari. Per le donne gioca un ruolo anche la mancanza di conoscenze in materia. Infine, molti semplicemente preferiscono la sicurezza alla rendita. Il fattore che sembra più importante nella scelta degli investimenti è il ri-
schio: il 31% degli interpellati vede un rischio basso come il criterio più importante. Per il 18% invece la cosa importante è un’alta flessibilità, mentre per il 17% sono i profitti elevati e per il 13% la sostenibilità dell’investimento. Per quanto riguarda le nuove forme di investimento, il 14% ha, o ha già avuto (una volta), del denaro investito in cripto valute. La maggior parte di queste persone l’ha fatto per curiosità. Più in generale, è significativo notare che Il 47% dei partecipanti al sondaggio giudica «per niente buone» le proprie conoscenze su temi finanziari. Il 59% delle donne ammettono di non sapere come muoversi per gestire in modo oculato i propri risparmi. Come curiosità finale, è interessante osservare che alla domanda «cosa farebbe nel caso ereditasse 200’000 franchi», il 28% degli intervistati ha risposto che investirebbe in una casa di proprietà.
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Il Mercato e la Piazza
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TEMPO LIBERO / RUBRICHE
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di Angelo Rossi
Quelli che circolano negli orari di punta ◆
Dei pendolari, i lavoratori che, per recarsi al loro luogo di lavoro, devono spostarsi in un comune diverso da quello in cui sono domiciliati, siamo abituati a parlar male anche se a questa classe appartiene più del 70% delle persone attive, residenti in Ticino, e più di 70’000 frontalieri. Ne parliamo male perché i pendolari, nelle ore di punta, rallentano enormemente il traffico e sono all’origine di una parte dell’inquinamento fonico e dell’aria di cui tutti noi facciamo le spese. Recentemente si è venuti a sapere che Lugano, dopo Ginevra, è la città più rumorosa della Svizzera. È anche probabile che Lugano sia nei primi posti della classifica delle città svizzere per l’importanza relativa dei flussi di pendolari. Il problema è conosciuto ma sembra che, finora, non si sia riusciti a porgli rimedio. Adesso nuove informazioni, pubblicate su «DATI», la rivista del nostro ufficio cantonale di
statistica, da Lisa Bottinelli, Michele Rigamonti e Barbara Lupi, fanno sperare in bene. Il fatto è che tra il 2017 e il 2019 i flussi dei pendolari, che si muovono entro le frontiere nazionali, sono diminuiti, in Ticino, del 13,6%. La situazione in materia di code e inquinamento sarebbe quindi dovuta migliorare perché se i pendolari diminuiscono, calano anche i veicoli in circolazione durante le ore di punta. Come ci spiegano gli autori dello studio citato qui sopra in effetti, però, non è proprio così. L’indebolimento dei flussi di pendolari, registratosi tra il 2017 e il 2019 è infatti dovuto per una buona parte all’adozione di un nuovo sistema di rilevamento. Sempre stando agli autori citati, non si sa perché il nuovo sistema conti meno pendolari del vecchio. Ciò nonostante l’Ufficio federale di statistica assicura che il nuovo metodo è migliore. Accantoniamo quindi la
discussione sul metodo per occuparci di altri aspetti interessanti trattati nell’articolo di «DATI». Per esempio la constatazione che nel 2019, per la prima volta da che esistono le statistiche sui pendolari, i flussi dal Sottoceneri al Sopraceneri sono diventati più importanti di quelli in direzione contraria. Gli autori dell’articolo sui pendolari non approfondiscono le ragioni di questo cambiamento. Si tratta comunque di una piccola rivoluzione che può essere stata originata sia dalle attuali difficoltà nelle quali si trovano i poli di occupazione del Sottoceneri, sia dalla tendenza, che si nota da diversi anni, che porta la manodopera residente nel Cantone a preferire posti di lavoro nel settore pubblico o nelle attività del parapubblico piuttosto che in quelle del settore privato. Un altro aspetto interessante concerne gli scambi di lavoratori del Ticino con altri cantoni.
Data la distanza che lo separa dai cantoni transalpini questi scambi sinora erano piuttosto limitati e concernevano praticamente solo il Moesano. Gli autori dello studio che commentiamo si sono chiesti se la realizzazione della galleria ferroviaria di base del S. Gottardo potrebbe però aver cambiato questa situazione. Purtroppo sembra che la sua apertura non abbia sin qui avuto nessun effetto importante sulla portata dei flussi intercantonali di pendolari. C’è però un ulteriore aspetto di questa evoluzione che merita di essere segnalato. Confrontando l’evoluzione dei flussi intercantonali di pendolari che hanno un saldo positivo per il Ticino con quella dei flussi migratori che, invece, hanno un saldo negativo, i collaboratori dell’USTAT si sono chiesti se la migrazione intercantonale pendolare nel beve termine (si pensa, in questo caso, soprattutto dei ticinesi che vanno fuori cantone)
possa prefigurare il trasferimento definitivo nel medio o nel lungo termine. Si tratta di una questione interessante che viene ad arricchire il dibattito sull’evoluzione negativa dei movimenti migratori intercantonali degli ultimi anni. Purtroppo la statistica non può dare risposta a questo interrogativo. Per poterne trovare una bisognerebbe esperire un’inchiesta tra le persone che si sono trasferite fuori cantone di recente. Altrettanto interessante, aggiungiamo noi, sarebbe poter stabilire se questa possibile sequenza tra pendolarismo e emigrazione possa valere anche per i pendolari che dal resto della Svizzera vengono a lavorare in Ticino anche se, occorre ammetterlo, le grandi attese sollevate prima dell’apertura della galleria ferroviaria di base, in quanto a pendolarismo e migrazione in entrata dal Resto della Svizzera, sono andate finora deluse.
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In&Outlet
di Aldo Cazzullo
Il discrimine tra responsabili e irresponsabili ◆
La variante Omicron ha scatenato un’ondata di panico spropositata. Stiamo ai dati. Finora nulla dimostra che la variante del virus importata dall’Africa australe «buchi» i vaccini. Fino a prova contraria la situazione è quella di prima. L’Europa è al bivio. Da una parte, un inverno relativamente tranquillo con il Coronavirus che non scompare ma viene tenuto sotto controllo: gli ospedali e le terapie intensive non si intasano, le persone colpite da altre malattie non vengono trascurate, le scuole e i locali pubblici restano aperti, nell’attesa che l’avanzata della campagna vaccinale e l’arrivo della bella stagione migliorino il quadro e consolidino la ripresa economica. Dall’altra parte, invece, c’è il ritorno dell’incubo che abbiamo vissuto nel marzo 2020 e nell’inverno scorso. Tutte le persone di buon senso, comunque la pensino sui vaccini e sul pass sanitario, preferireb-
bero la prima ipotesi. È davvero così impossibile decidere tutti insieme di imboccare la direzione giusta? Se noi europei lo faremo, i no vax che ancora gridano nelle piazze diventeranno una voce sempre più fievole, che si spegnerà da sola. Ma se non ne saremo capaci, la sfiducia, il complottismo, lo spirito nichilista finiranno per serpeggiare e mettere in crisi la sanità, la libertà e l’economia. Più delle dispute lessicali – pass sanitario sembra più sobrio di super green pass – importa la sostanza. Mentre le persone anziane e di mezz’età, per la sicurezza propria e dei propri cari, stanno andando in massa a ricevere la terza dose, sono molte di meno quelle che stanno facendo la prima. All’evidenza, le misure in vigore non bastano. L’unica via è rafforzarle, se vogliamo evitare l’obbligo vaccinale. In Italia il tampone negativo sarà ancora sufficiente per andare
Il presente come storia
al lavoro; non per andare al ristorante, al concerto, in palestra, al cinema, in piscina, a teatro. Il principio è sempre lo stesso: esiste il diritto di non vaccinarsi; non esiste il diritto di mettere in pericolo gli altri. A maggior ragione se si tratta di tempo libero. La Germania sta preparando il passo successivo: vaccino obbligatorio. L’Austria per prima ha sperimentato il lockdown per i non vaccinati. Una misura estrema, all’apparenza discriminatoria, ma in realtà giusta (anche se da sola non è bastata). L’Europa orientale è più indietro, in particolare i Balcani, la Romania, la Bulgaria, che sono i Paesi meno vaccinati del Continente, e non a caso sono i Paesi che registrano la maggiore incidenza di casi e di mortalità. A dimostrazione che i vaccini non danno garanzie assolute, ma rappresentano uno schermo, una barriera, una protezione fisica e anche psicologica. In
ogni caso il vero discrimine non è tra sì vax e no vax, sì green pass e no green pass, oppure altre formule e divisioni che hanno stancato. Il vero discrimine è tra l’Europa responsabile e quella irresponsabile. C’è un’Europa nettamente maggioritaria che ha accettato il vaccino, indossa le mascherine al chiuso, è attenta a non correre rischi inutili, fa il proprio lavoro e il proprio dovere sociale, consapevole che l’occasione della ripartenza e dei fondi europei è adesso, e non sarà per sempre. E c’è l’Europa dei rave party e delle manifestazioni urlanti senza mascherina, senza vaccini e senza distanziamento. Ad esempio i manifestanti che da mesi cercano di bloccare ogni sabato il centro di Milano sono o credono di essere molto diversi da chi cerca lo sballo senza precauzioni; ma i due popoli hanno un punto in comune. Non hanno capito il principio
fondamentale per uscire dalla pandemia, che non dobbiamo stancarci di ripetere: ognuno di noi è responsabile della salvezza dell’altro e questa responsabilità è tanto più grande quanto più l’altro ci è vicino. Per fortuna gli irresponsabili sono molti ma molti di meno. Obbligarli a vaccinarsi è difficile; indurli a farlo è ancora possibile. Forse capiranno ciò che a gran parte degli europei è già evidente: il pass sanitario non è nemico della libertà, è una condizione della libertà. L’alternativa è richiudere scuole, uffici, bar, ristoranti, teatri, cinema, impianti sportivi, stazioni sciistiche e riservare i reparti ospedalieri ai malati di Covid, ripiombando così nell’inverno del virus. C’è qualcuno così nichilista da volere davvero questo? Qualcuno pensa davvero che sia questa la libertà? Lo capiremo nelle prossime settimane. Indipendentemente dalla variante Omicron.
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di Orazio Martinetti
Diversamente svizzeri
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Il calcio come reagente chimico di passioni e avversioni. Quest’anno Italia e Svizzera si sono affrontate tre volte, prima agli Europei (3-0 per gli azzurri) e poi durante le qualificazioni ai mondiali, in programma nell’emirato del Qatar nel 2022 (due pareggi). L’incontro tra le due nazionali ha sempre l’aria di un derby, in cui confluiscono, affastellati e confusi, groppi di varia origine. La temperatura è tradizionalmente elevata in Ticino, cantone di frontiera e dunque esposto ad intense correnti emotive, sia perché incuneato in Lombardia, sia perché demograficamente composito, risultato di una plurisecolare mescolanza di genti. La sua robusta colonia d’origine italiana non fa ovviamente mistero delle sue simpatie. Ma le divisioni corrono sovente all’interno delle stesse famiglie, specie quelle scaturite da matrimoni misti.
È noto che tra la politica e lo sport corrono relazioni cariche di tensione. Negli anni 70 erano al calor bianco in concomitanza con le famigerate iniziative Schwarzenbach. Discriminata, costretta a vivere ai margini della società elvetica, la colonia italiana ritrovava orgoglio allo stadio: una rivalsa, una forma di riscatto che per un attimo la riportava al centro dell’attenzione pubblica. Il calcio – come pure il ciclismo nel Belgio delle miniere di carbone – dava finalmente modo di sventolare il tricolore e quindi di ritrovare un’appartenenza che le circostanze della vita avevano offuscato. Nella Svizzera italiana le cose non sono andate molto diversamente; anzi, proprio la contiguità geografica ha acuito il bisogno di distanziarsi e di differenziarsi. Sugli spalti riaffiora la sindrome dei «parenti serpenti»: la comunanza di lingua, cultura, re-
ligione cede il posto all’irruenza del tifo, che come si sa non conosce mezze misure. Facile allora sconfinare nell’anti-italianità, morbo assai diffuso a sud delle Alpi. Al tifoso ticinese insofferente va tuttavia riconosciuta qualche giustificazione, che va oltre il terreno di gioco. In Italia il calcio è diventato nel corso dei secoli una religione che ha relegato in secondo piano tutte le altre attività sportive, che pure esistono ed eccellono, come si è visto nel corso delle ultime Olimpiadi. Interessi economici, ingaggi stratosferici, contratti televisivi, pubblicità, sponsor, giornali e rotocalchi hanno gonfiato il pallone all’inverosimile: un’ossessione quotidiana, un’allucinazione collettiva che non può non infastidire chi osserva questo caravanserraglio dall’esterno. L’Italia sarà anche la patria della retorica. Ma nel corso delle telecronache il commento raggiun-
ge vertici tanto ineguagliabili quanto insopportabili. Anche Ada Marra, consigliera nazionale vodese d’origine salentina, ad un certo punto del suo pamphlet sui diversi modi di essere svizzeri (ora disponibile anche in italiano nelle edizioni Dadò) affronta il tema calcio e del periodico incontro-scontro tra Italia e Svizzera. «Da che parte stai in questa occasione?», si sente regolarmente chiedere con una punta di malizia. È la solita trappola, chiosa Marra: «Se la risposta è «la Svizzera», si penserà che tu sia demagoga. Se invece dici «l’Italia», allora si rafforzerà l’idea che forse non ci si trova davanti a una vera e propria straniera, ma di certo non ci si trova davanti a una vera svizzera». Insomma, non c’è niente da fare: per chi acquisisce la cittadinanza alla fine di un lungo percorso fatto di attese, domande e verifiche, gli esami non finiscono
mai. Sul capo di lui/lei pende sempre il sospetto di un’adesione alla nuova patria parziale e insincera, di una lealtà non incondizionata, di una fedeltà intermittente e quindi revocabile. Peter Bichsel, nella sua Svizzera dello svizzero – libello che vale la pena di rileggere dopo aver chiuso quello di Ada Marra – dice che la Confederazione nella storia ha potuto salvarsi grazie alla sua diversità: di etnia, lingua, cultura, religione. Anche se a volte la coabitazione si fa spinosa e guastata da incomprensioni, la multiformità impedisce di scivolare nella boria e nei sentimenti di superiorità. «Sono contento – scrive Bichsel – che ci siano anche loro, i ticinesi, i francesi, i romanci. Potremmo impedirci vicendevolmente di diventare tipici». Ossia di far propria un’identità esclusiva, esaltata nella componente maggioritaria della compagine confederata ma assente in tutte le altre.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 6 dicembre 2021
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CULTURA ●
Duran Duran forever Nel nuovo album Future Past la formazione inglese dimostra di saper tenere testa al presente
Un Naso in fuga Al Theater Basel in scena il Naso di Šostacovič in una versione vivace, rumorosa e colorata
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Nel magico mondo di Singer Un omaggio al mondo perduto dello shtetl grazie alla riedizione dei racconti di I.B. Singer
Di amore e solitudine È uscito anche in italiano il fortunato romanzo dell’autrice spagnola Sara Mesa
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L’arte oltre il sistema Mostre
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Una grande retrospettiva a Mendrisio celebra il maestro tedesco A.R. Penck
Alessia Brughera
A consacrare A.R. Penck (pseudonimo di Ralf Winkler) alla fama internazionale sono stati i suoi omini stilizzati. A chi, però, vorrebbe ricondurre in maniera semplicistica il suo lavoro a queste, seppur emblematiche, figure, l’artista tedesco ha risposto con approcci sempre diversi alla creazione, con il fermo proposito di farne uno strumento per diffondere le proprie convinzioni teoriche e per confrontarsi con l’ordine sociale e politico. «Ho bisogno di realtà. Qui, dove tutto succede davvero», diceva. Il suo linguaggio è considerato estremamente originale, soprattutto se si pensa al contesto in cui è stato elaborato. Quella di Penck è un’arte nata da una struttura di immagini dotata di uno stile inconfondibile che, sebbene si collochi agli antipodi della ricercatezza estetica, colpisce per la sua potenza visiva, centrando l’obiettivo di diventare forma essenziale di un concetto. Penck, classe 1939, nel suo prolifico percorso non si occupa solo di pittura e di scultura, produce anche libri e musica e studia con dedizione la filosofia e le materie scientifiche, mosso dalla convinzione che per un artista sia fondamentale aprirsi alla totalità. E può sembrare paradossale come questo condurre il proprio pensiero, e di conseguenza il proprio fare artistico, lungo molteplici traiettorie sia maturato in un luogo e in un periodo poco favorevoli a una tale visione: Penck è di Dresda, vive nella Repubblica Democratica Tedesca, il che significa fare i conti con un ambiente che, dopo l’erezione del muro di Berlino nel 1961, non brilla certo per propensione al rinnovamento. A differenza di tanti suoi colleghi che abbandonano subito, senza esitazione, la DDR, egli vi rimane per quasi vent’anni, cercando di scuotere il gusto ufficiale con un’arte rivoluzionaria, non per polemica nei confronti del regime ma per poter attuare quello che per lui è il presupposto dell’arte stessa, ovvero interagire con la società in maniera produttiva. Nonostante non sia mai stato apprezzato nella Germania dell’Est, il lavoro di Penck, dalla forte carica progressista ma dalle tecniche espressive tradizionali, ha raccolto ampi consensi a livello internazionale grazie a un lessico dall’accento primitivista in grado di fare dell’opera un veicolo di comunicazione del vissuto. Non è un caso che artisti quali Jean-Michel Basquiat e Keith Haring abbiano ammirato Penck proprio per la sua pittura monumentale e immediata che sa raccogliere con franchezza la complessità del mondo. Un tipo di pittura, questa, il cui esordio nella ricerca di Penck si rintraccia proprio nel 1961 con i Weltbilder, opere in cui l’artista persegue l’i-
A.R. Penck, How it works (Come funziona), 1989 acrilico su tela, 340 x 340 cm. (© 2021, ProLitteris, Zurich)
dea di un’immagine universale capace di riprodurre la realtà in un’unica prospettiva. Intrisi degli studi di cibernetica e delle teorie dell’informazione che Penck porta avanti in questo periodo, sono quadri che rendono visivamente percepibile, tramite un sistema di segni, il funzionamento del cosmo. Si tratta di un modo nuovo di concepire l’arte (che non manca di far storcere il naso a molti nella DDR)
Jazz in mostra #2 Torna al MuMe il gemellaggio tra arte figurativa e jazz. Le sale del Vecchio Ginnasio ospiteranno il 19 dicembre, ore 17.00, un quartetto composto da Fabrizio Bosso, tromba, Dado Moroni, pianoforte, Riccardo Fioravanti, contrabbasso e Jeff Ballard batteria. Posti limitati, prenotazione allo 058 688 33 50 o per email: museo@mendrisio.ch.
in cui ogni elemento della narrazione si riduce al minimo, diventando una figura-concetto. Al radicale lavoro del grande maestro tedesco il Museo d’Arte di Mendrisio dedica una scrupolosa mostra che raccoglie una nutrita selezione di dipinti e di sculture, oltre a opere su carta e libri d’artista, con l’intento di ripercorrere il complesso ma affascinante cammino creativo di Penck. Punto di partenza della retrospettiva è il progetto Standart, logica conseguenza degli appena citati Weltbilder e piena manifestazione della volontà di Penck di fare dell’immagine una forma simbolica del pensiero, dotata di una vocazione all’universalità superiore a quella del linguaggio. Concepita alla fine degli anni Sessanta, la teoria Standart, il cui emblema è la rappresentazione di un uomo dai tratti essenziali, con testa e organo sessuale in risalto, che l’artista offre all’osservatore come effigie intuitiva di identificazione, promuove una modalità inedita di espressione. Le opere vengono ri-
solte così in una sorta di poesia visiva in cui si concentrano segni cifrati, crittogrammi e sagome astratte di vario tipo che rievocano l’arte preistorica e che, come questa, risultano immediatamente comprensibili. Nella prima parte del percorso espositivo, oltre ad alcuni significativi dipinti e un nucleo di libri d’artista, prezioso per comprendere meglio l’opera di Penck attraverso l’estrema varietà iconografica da lui elaborata, troviamo una serie di oggetti in materiale povero realizzati tra il 1968 e il 1973. È il primo gruppo plastico eseguito dall’artista (che tuttavia si occupa di scultura fin dalla giovinezza riservandole poi nel tempo un ruolo di rilievo accanto alla pittura, soprattutto da quando si concentra sulla fusione in bronzo) costituito da oggetti in alluminio, vetro, tessuto, cartone, metallo e legno, tramite i quali egli applica i suoi princìpi al volume nello spazio. Dopo che nel 1973 Penck conclude l’esperienza Standart, ha inizio per lui una fase che spesso è stata interpretata
come una virata verso una concezione di incomunicabilità e disillusione, acuita dal fatto che l’artista viene costretto dal regime alla semiclandestinità. Lo stile dei suoi lavori si complica cedendo il passo a una pennellata libera da ogni vincolo razionale, si vedano ad esempio alcuni Ohne Titel dominati da potenti tocchi di colore nero. Quando poi nel 1980 Penck riesce a lasciare la DDR, incominciando una vita da nomade che lo porta a soggiornare un po’ ovunque – da Colonia a Londra, da Roma a Tel Aviv, da New York a Zurigo – è già un artista molto stimato che possiede un vastissimo apparato pittorico con cui dare vita a un’espressività senza confini. Nei decenni successivi all’espatrio, come testimoniano dipinti quali Another R.C., del 1983, o Der Tod von Alfred Herrhausen, del 1991, la tavolozza cromatica si fa più accesa, il linguaggio più eclettico, il tono più visionario e la trama tra figure e segni più caotica. L’allontanamento dalla Germania dell’Est determina anche l’approdo alla dimensione monumentale, ritenuta la più consona alla fruizione collettiva. Datata 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, è la gigantesca opera che è stata significativamente esposta a conclusione dell’itinerario espositivo. Si intitola The Battlefield ed è un dipinto panoramico, dalle illimitate possibilità di interpretazione, che ripercorre la storia dell’umanità. In sostanza rappresenta il mondo intero. Si legge da destra a sinistra sviluppando un racconto che parte dai primordi alla fine del mondo: dal big bang a Gorbaciov per arrivare a un futuro incarnato, tra gli elementi che spiccano maggiormente, da una donna nuda tutta rossa, metafora del sesso emancipato, da due omini Standart, effigiati come automi che combattono con spade laser, e dal numero cinque, la cifra che Giordano Bruno, uno dei filosofi più amati dall’artista, considerava simbolo della perfezione. Come questa opera, tutta l’arte di Penck è capace di dare concretezza all’atto dell’Erleben, quello sperimentare attraverso il vissuto che è profondamente radicato nella tradizione romantica tedesca e che nei lavori del maestro di Dresda riesce a consegnarci un messaggio universale, sospeso tra razionalità e visionarietà, con cui decifrare l’esistenza umana. Dove e quando A.R. Penck. Museo d’Arte Mendrisio. Fino al 13 febbraio 2022. Mostra a cura di Simone Soldini, Ulf Jensen e Barbara Paltenghi Malacrida. Orari: da martedì a venerdì 10.0012.00/14.00-17.00; sabato, domenica e festivi 10.00-18.00. www.mendrisio.ch/museo
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 6 dicembre 2021
Duran Duran e i nuovi territori Musica
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La divina follia di Nijinsky
In Future Past la band batte nuove strade fuori dalla comfort zone
Benedicta Froelich
C’è stato un tempo, nei «magici» anni 80 – da molti ricordati come un’epoca pacchiana quanto irripetibile, e quindi meritevole d’infinite, non sempre giustificabili, nostalgie – in cui il nome di Simon Le Bon e dei suoi Duran Duran era sinonimo della musica pop più gradevolmente inflazionata: quella tanto amata dai giovani (specie i famosi paninari), e premiata da infiniti piazzamenti in cima alle classifiche internazionali. Di fatto, sebbene un po’ patinati, a tutt’oggi cavalli di battaglia come Hungry Like the Wolf o Save a Prayer restano ammantati di un loro personale fascino, principalmente dovuto all’innegabile intelligenza del songwriting dei membri della band. Una dote, del resto, grazie alla quale il lungamente atteso ritorno dei Duran Duran, che si riaffacciano ora sulla scena con questo nuovo Future Past (primo lavoro da sei anni a questa parte), si rivela essere un ottimo sforzo artistico – in grado di combinare le suggestioni pop tipiche del glorioso passato della formazione con nuove, riuscite sfumature sperimentali, collocabili principalmente nell’ambito di contaminazioni elettroniche estremamente intelligenti. Certo, il singolo di lancio, Invisible (il quale, tra l’altro, può vantare il primo videoclip interamente concepito da un’intelligenza artificiale), appare in tutto e per tutto come un flashback del passato, in cui si possono chiaramente percepire echi del sound di colleghi quali Visage e Frankie Goes to Hollywood; tuttavia, la particolarità di quest’album sta nel desiderio dei Duran Duran di continuare a esplorare le sonorità elettroniche già sperimentate in pezzi ormai «da annale» quali Electric Barbarella e New Moon on Monday. Ecco quindi che gli eccellenti Velvet Newton, Beautiful Lies e Give It All Up vibrano di inflessioni elettropop che farebbero invidia perfino ai coetanei Pet Shop Boys, mentre un ballabile da manuale come All of You riesce a fondere con ammirabile
disinvoltura discomusic e pop radiofonico, creando una miscela dal successo garantito; proprio come, del resto, avviene anche con Tonight United, brano che potrebbe definirsi come perfetta colonna sonora per un disco party dal sapore vagamente vintage. Tuttavia, i brani più riusciti dell’album risultano, in realtà, essere quelli nei quali la band decide di fare un passo al di fuori della propria «comfort zone» per inoltrarsi in territori meno noti: un esempio su tutti ne è la riuscitissima title track Future Past, in cui i vocals di Le Bon si fanno particolarmente intensi, dipingendo l’affresco struggente di un’epoca insensata quanto drammatica come quella che stiamo vivendo ora. Proprio come nel toccante ed ipnotico lento Wing – il quale, insieme a diversi altri brani dell’album, non avrebbe sfigurato nei titoli di testa di un film di James Bond – o nell’interessante esempio di sperimentazione rappresentato da Hammerhead, in cui è inserito un recitativo rap a firma di Ivorian Doll, sicuramente pensato per attrarre gli ascoltatori di ultima generazione; mentre la ballata Falling, che può vantare la collaborazione di Mike Garson, presenta una riuscita quanto intrigante fusione tra pianoforte e sintetizzatore, che fa di questa traccia una delle migliori dell’intero CD. Un disco in cui, del resto, perfino le bonus tracks disponibili nella deluxe edition sono tutte degne d’interesse, da Laughing Boy alle malinconiche Invocation e Nothing Less (quest’ultima impreziosita dai cori di Saffron Le Bon, figlia di Simon), fino alla già citata Velvet Newton – al punto da aver spinto molti fan a rimpiangere il fatto che la band non abbia concepito Future Past come un album doppio, includendo ognuna delle tracce incise in studio. E proprio qui, in fondo, sta la particolarità, nonché la dote più notevole di quest’album: la disponibilità dei Duran Duran a reinventarsi ancora una volta, nonostante l’età rag-
In scena ◆ L’indagine di Daniele Bernardi Giorgio Thoeni
Dopo quarant’anni ancora attivi.
giunta dai membri della formazione li possa di fatto legittimare a preferire la sicurezza data dall’abitudine. Questa determinazione a proseguire nella propria ricerca musicale (evidente anche nella scelta di nomi quali Giorgio Moroder e Mick Ronson alla produzione) dà origine a uno sforzo creativo davvero rispettabile, facendo sì che la cosa più indimenticabile del disco sia proprio l’ampia gamma di sonorità impiegate – dagli immancabili sintetizzatori di antica memoria, a sezioni di cori femminili reminiscenti del migliore pop inglese, fino a languidi esercizi vocali da parte di un Simon
Le Bon che si rivela qui più in forma che mai, in barba a qualsiasi timore si potesse nutrire al riguardo. Così, se il grande pubblico può aver in parte dimenticato i Duran Duran, i fan incalliti non potranno che essere grati alla band per aver prodotto una gemma come Future Past – un album che, proprio grazie alla sua connotazione «fuori dal tempo», si può già definire come sicuramente in grado di reggere allo scorrere degli anni; e questo, per una band da sempre identificata con il più appariscente sound anni 80, è un traguardo non da poco.
Da quando sono bambino… sbaglio
La lingua batte ◆ Usare il tempo verbale presente anche per esprimere azioni passate e terminate. Ma succede anche per il futuro
latte»! La sfumatura fra imperfetto e passato prossimo qui non ci interessa molto; ciò che ci deve convincere è la necessità di scegliere un tempo verbale appartenente alla sfera temporale del passato, perché «quella circostanza», «quella situazione» è ormai compiuta e conclusa. Suvvia, non siamo più bambini da un bel pezzo. Se l’esempio paradossale appena citato non riesce a persuadere i più incalliti emuli di Peter Pan su quale sia la forma corretta da utilizzare, ecco che viene in nostro soccorso l’autorevole voce dell’Accademia della Crusca, che spiega come «[l]’uso del presente, fortemente colloquiale, si spiegherà con la tendenza a ridurre il ventaglio dei tempi verbali al presente affidando a elementi lessicali la determinazione temporale». In pratica il nostro buon giocatore di scacchi che si crede eterno seienne non ha trovato il segreto dell’eterna giovinezza; piuttosto trova pigramente più comodo affidarsi al verbo al presente, perché….
Wikipedia
Laila Meroni Petrantoni
Mi pare ultimamente che molte persone abbiano trovato la sorgente dell’eterna giovinezza. Troppe persone, per essere vero. E la chirurgia estetica non c’entra nulla. Sono, queste persone, coloro che malgrado l’aspetto e l’anagrafe mi informano con convinzione ad esempio che: «gioco a scacchi da quando sono bambino». Prima l’occhio sull’interlocutore, poi l’orecchio su ciò che questo sostiene, ci dovrebbero dire entrambi che c’è una nota stonata. Da quando giocare a scacchi (ma qualsiasi altro esempio simile farebbe al caso nostro) prolunga l’infanzia all’infinito? La forma corretta dell’enunciato è certamente «gioco a scacchi da quando ero bambino». Agli scettici mettiamo sotto il naso un esempio assurdo: «gioco a scacchi da quando ho perso i denti da latte». Bene, ci crediamo senza problemi. A nessuno verrebbe in mente di preferire il verbo al tempo presente, in un caso del genere, e lanciarsi in un «gioco a scacchi da quando perdo i denti da
CULTURA
beh, perché «tanto si capisce cosa volevo dire». Ma perché cedere sempre alla tentazione del minimo sforzo? Se la nostra bella lingua ci ha dato in dono anche un bel bouquet di tempi verbali, perché non utilizzarli? E non vale invidiare la lingua indonesiana perché non ne possiede. Per la verità gli esperti della Crusca, con una certa indulgenza, osservano come il fenomeno sia simile a «quel che sta avvenendo con la riduzione del futuro in presenza di avverbi temporali di po-
steriorità» («domani parto» invece di «domani partirò»). In questa specifica scorciatoia linguistica cadono ancora più parlanti di quanti siano quelli citati in precedenza. E se dietro questi fenomeni del nostro italiano del ventunesimo secolo non ci fosse competenza insufficiente né pigrizia linguistica? Bensì qualcosa di ben più sottile? Filosofico? Sociologico? Preferiamo tendenzialmente utilizzare il più possibile il tempo verbale presente, anche là dove occorrerebbe il passato o il futuro, perché cerchiamo con tutte le forze di aggrapparci al «qui e ora»? Prolunghiamo all’infinito l’infanzia e non scrutiamo nel nebbioso orizzonte del tempo che verrà? Sul finire del ’400 Lorenzo il Magnifico si era posto la domanda. E si era dato una risposta, spronando la spensieratezza dell’età acerba e giocosa, senza troppe ansie per il futuro. «Chi vuol esser lieto, sia, del doman non c’è certezza».
(…) quella terra di nessuno che è la vita dei folli. Rubando le parole conclusive di un articolo dedicato a Vaclav Nijinsky di Daniele Bernardi, scritto per la RSI, ritroviamo l’essenza di numerose riflessioni che formano l’anima del pensiero intellettuale e artistico che percorre molte sue creazioni. La follia che si impadronisce, la follia che annienta, la follia che nutre i sentimenti, la follia che accompagna la genialità e la grandezza, la follia che permea il sublime dell’arte. L’intimo tarlo di una passione che, come il tema della morte, permea la ricerca di Bernardi e la sua scrittura teatrale, come solista o in collaborazione con Opera retablO. Oggi si riflette in Io sono Nijinsky, spettacolo dedicato all’immenso, inarrivabile danzatore e coreografo russo di origine polacca che ha segnato il Novecento. Il dio della danza, come lo chiamavano, quel dio che è anche riflesso del dialogo con sé stesso e che traduce il dramma della follia di una vita dove la danza è strumento di una comunicazione potente, misteriosa, dissacrante. Poca danza invece fra le pagine del suo Diario ispiratore, ma molta umanità: disordinata, controversa, combattuta, dalle visioni premonitrici sui destini della terra. Spunti a corollario di un testo esemplare che Bernardi cuce sulla vita di Nijinsky in uno spettacolo intenso e in un’attenta struttura drammaturgica che permette alla sua scrittura di essere chiara e aderente a una recitazione misurata per un personaggio complesso, affascinante, che conquista la scena con il suono aristocratico di parole scelte, efficaci e profonde come con l’adozione di simboli e colori, tra il bianco e il nero di una tipologia primordiale fino al rosso-sangue di una metafora catastrofica. Bernardi recita con piglio sicuro, le immagini del suo Nijinsky si adattano a movimenti che richiamano il Teatro Nô, il cinema muto, la provocatoria geometria della sua danza, catarsi di una ribellione interiore, assurda e graduale scomposizione di un pensiero delirante e malato per inquietanti scenari. Contribuiscono alla riuscita del progetto la voce fuori campo di Raissa Avilés, i costumi di Luisa Beeli e la complicità scenografica di Ledwina Costantini: dalla maquette della casa engadinese, nido di ultime lucidità, alla bianca pedana, ai pupazzi di un delicato e potente transfert simbolico per fatali e sconvolgenti presagi. Il percorso di una vita. Io sono Nijinsky per quest’anno ha concluso le sue repliche al Teatro Tan di Biasca. Da tenere d’occhio.
Daniele Bernardi nei panni di Nijinsky.
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GUSTO SENZA CONFINI
Questa fondue fresca supera i confini geografici e persino linguistici: la nuova miscela combina il Gruyère tradizionale con l’Appenzeller piccante ed è presentata sotto il nuovo marchio Caquelon Noir. E visto che tutti gli ingredienti indispensabili come il vino e l’amido sono già inclusi nella confezione, non bisogna fare altro che portarla ad ebollizione ed è subito pronta. Consiglio: da gustare non solo con il pane, ma è deliziosa anche con piccole patate, verdure scottate o frutta fresca.
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MONDO MIGROS
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CULTURA
Quando il naso scompare Opera
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Nuova produzione dell’opera Il naso di Šostacovič al Teatro di Basilea
Francesco Hoch
Premettiamo che a ogni presentazione di un lavoro di Šostacovič si insiste generalmente sulla mancanza di libertà nella sua attività di compositore. Legittima rimane sempre quindi una domanda che in realtà non è mai stata affrontata dalla critica musicale, perché convinta che con i «se» non si fa la Storia. Interessante sarebbe stato invece indagare quanto, dopo la magnifica opera Il naso, Šostacovič avrebbe cambiato la sua produzione musicale senza gli interventi censori dello Stato dopo la Rivoluzione.
L’opera di Šostacovič, pur essendo ambientata in un’epoca lontana dalla nostra, presenta molti aspetti della società contemporanea Siamo convinti che Šostacovič si sarebbe avventurato, a differenza di Prokof ’ev, verso sperimentazioni che l’Europa ha in seguito sviluppato nelle nuove avanguardie, le stesse che essa ha cercato di evitare, fino ad oggi, nella sua programmazione musicale basata sul mercato capitalistico. È da notare che attualmente Dmitrij Šostacovič è un compositore che trova anche da noi la sua fortuna proprio grazie al suo compromesso con le direttive culturali sovietiche.
La prima rappresentazione nel 1930 al Maly – Teatro di Leningrado de Il naso aveva trovato reazioni fortemente contrastanti, alla quale seguirono comunque sedici repliche. Le novità di questo lavoro sono sicuramente molte, provenienti da un clima culturale proiettato verso un futuro creativo aperto sia nel campo teatrale, sia artistico, letterario o musicale. Quello che sorprende ancora, anche nella rappresentazione alla quale abbiamo assistito il 27 novembre al Teatro dell’Opera di Basilea, è quell’apertura verso la ricchezza di stili, tra il classico, lo sperimentale, la musica folclorica, di danza o popolare, un misto che sembra sfiorare l’attuale settore della musica «trasversale» che propone come fondamento un discorso eterogeneo, anche se la radicalità di questa esperienza doveva già essere presente nei collages musicali degli anni 60 del secolo scorso. Questa eterogeneità segue da vicino le varie scene proposte dall’omonimo racconto del 1834 di Nikolaj Vasil’evič Gogol, in cui il maggiore Platon Kovaliov (interpretato da Michael Borth), svegliandosi, non trova più il suo naso e decide di cercarlo in diversi modi. Si susseguono dunque una serie di situazioni contraddistinte da straordinarie assurdità. Dapprima con il barbiere Ivan Jakovlevic che trova un naso e la cui moglie lo accusa di averlo sicuramente tagliato a un clien-
Un momento da Die Nase, in scena al Theater Basel. (© Thomas Aurin)
te; il barbiere non riesce poi a disfarsi del naso, disturbato anche da un poliziotto che lo osserva, mentre Kovaliov si rivolge proprio alla polizia che non è in grado di aiutarlo. A questo punto è evidente la critica feroce, estesa anche alla burocrazia, per una denuncia rimasta infruttuosa. Molto agitata sarà la scena nella Cattedrale, dove miracolosamente il naso appare e scompare come un essere sovrannaturale. Quando poi il naso viene ritrovato, Kovaliov non riesce a rimetterselo, nemmeno ri-
volgendosi a un medico. Un mattino il naso si rimette però improvvisamente al suo posto sul suo viso, anche se la gente continua a dire che il naso si aggira liberamente per la città. L’interessante versione del drammaturgo Roman Reeger e della regia di Herbert Fritsch si avvale di una scena geometrica, astratta, di quadrati colorati, aperti, a incastro, che si muovono grazie a una piattaforma circolare. Questa scelta alleggerisce la sovrabbondanza di movimenti dei
numerosi personaggi, coro compreso, che si presentano in scena quasi a sembianza di marionette o vicino alla Commedia dell’arte. A differenza di altre versioni, presentate con enormi nasi circolanti, qui, la decisione di non mostrare per nulla il naso, se non attraverso il gesto sul viso, invita a pensare a un mondo invisibile che decide autonomamente ciò che deve accadere: questo dramma dell’impotenza si avvicina così all’incubo del signor K. nel Processo di Kafka, che vede anch’esso la preclusione della ricerca della verità. Il naso c’è e non c’è, così come la giustizia c’è e non c’è. Il vuoto non si aggira solo in un personaggio, ma si estende alla società tutta, sia a quella zarista sia a quella sovietica, senza omettere quella in cui viviamo oggi. Il folto pubblico presente a teatro ha apprezzato con calorosi applausi i numerosi solisti dal difficile compito di cantare anche in registri quasi impossibili, la ricchezza dei loro movimenti corporei e la forza incisiva della direzione di Clemens Heil e dell’Orchestra sinfonica di Basilea. Dove e quando Die Nase, Opera in tre atti, Theater Basel, repliche fino al 24 marzo 2022. Per info e prenotazioni: theater-basel.ch Annuncio pubblicitario
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MONDO MIGROS
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Mescola lo zucchero vanigliato con lo zucchero a velo. Spolvera un terzo dei biscotti ancora caldi con lo zucchero a velo vanigliato. Lascia tutti i biscotti a raffreddare su una griglia.
Biscotti alla vaniglia senza glutine e senza lattosio Per ca. 60 biscotti 250 g, miscela di farine senza glutine aha! 2
bustine di zucchero vanigliato 90 g zucchero a velo 120 g mandorle macinate pelate 1 baccello di vaniglia 200 g burro senza lattosio aha!, freddo uovo 1 Preparazione 1. Mescola la farina, lo zuc-
Glassa al pistacchio e lime
Ingredienti: ca. 1 cucchiaio di succo di lime, 40 g di zucchero a velo e 2 cucchiai di pistacchi tritati. Mescola il succo con lo zucchero a velo fino ad ottenere una pasta densa. Distribuisci la pasta ottenuta sul resto dei biscotti e cospargi di pistacchi.
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chero vanigliato, lo zucchero a velo e le mandorle in una ciotola. Taglia il baccello di vaniglia e raschiane la polpa. Taglia il burro a pezzettini. Aggiungi il tutto alla miscela di farine e impasta con le mani fredde fino a rendere l’impasto friabile. Aggiungi l’uovo e mescola fino ad ottenere un impasto morbido. Lascialo quindi raffreddare in frigorifero per 30 minuti. Forma e cuoci i biscotti. 2. Con un cucchiaino, preleva delle porzioni di pasta e forma delle palline di circa 2 cm. Disponile poi a 2-3 cm di distanza l’una dall’altra su teglie rivestite di carta da forno. Lasciale raffreddare altri 15 minuti ca. in frigorifero. Preriscalda il forno a 160 °C (calore superiore e inferiore). Cuoci i biscotti per ca. 10 minuti, fino a quando risultano appena dorati.
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1 Burro ricostituito senza lattosio aha! 100 g, Fr. 2.65 2 Panna intera senza lattosio aha! 250 ml, Fr. 2.95 3 Latte intero senza lattosio aha! 1 l, Fr. 1.95 4 Miscela di farine senza glutine aha! 1 kg, Fr. 5.– 5 Pasta per torte aha! 400 g, Fr. 5.50 6 Cioccolato al latte senza lattosio aha! 100 g, Fr. 2.10
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Torna in libreria la tenera e sognante raccolta di racconti di Isaac Bashevis Singer
Luigi Forte
Il giovane Atzel soffriva di una strana malattia: era convinto di essere morto. E sognava il paradiso dove non esistono doveri, si può bere del buon vino e mangiare carne di bue selvatico, come gli raccontava a suo tempo la vecchia balia. Nel villaggio di Chelm persino i Sette Anziani stravedono: nella neve rilucente caduta per tutta la notte sono certi che si nasconda un tesoro. Diamanti, perle che bisognerà raccogliere senza calpestare quel generoso manto bianco. E anche il signor Shlemiel vagheggia nel sonno di essere un gran re su un trono d’oro con la regina accanto che con lui addenta un’enorme frittella spalmata di marmellata. Il premio Nobel Isaac Bashevis Singer sprigiona tutta la sua prodigiosa fantasia nei sette racconti di Zlateh la capra e altre storie, che Adelphi propone nell’ottima traduzione di Elisabetta Zevi con le illustrazioni di Maurice Sendak, ebreo polacco di Brooklyn e disegnatore impareggiabile. Un libro per bambini uscito nel 1966 e scritto originariamente in yiddish, poi tradotto in inglese da Singer stesso e da Elizabeth Shub. Favole dove il tempo non svanisce, legato alla secolare tradizione narrativa delle comunità ebraiche dell’Europa orientale, in cui si mescolano saggezza e artificio, povertà e semplicità del mondo quotidiano con il gusto del meraviglioso e del surreale. «Mi
La classica immagine di copertina di Maurice Sendak che accompagna questa raccolta di I.B. Singer.
piace scrivere storie di fantasmi – aveva scritto Singer nel 1961 – e niente si adatta meglio a un fantasma di una lingua morente». E forse anche a un demonio accompagnato da topi e folletti che strepitano, pronto a terrorizzare bambini felici nella notte di Hanukkah, la festa ebraica dei lumi. Ma a volte, come nel racconto Lo scherzo del diavolo, se ne torna malconcio al suo paese, dove «il cielo è di rame e la terra di ferro». Ci ha pensato il giovane David a bruciargli la coda per farsi restituire i genitori catturati da quell’infernale malandrino. Singer allinea figure a metà strada fra l’invenzione e i ricordi della
sua infanzia e giovinezza. Pazzerelli, allocchi dal gran cuore, ingenui e sprovveduti come Lemel, figlio di un carrettiere, o sognatori che inseguono ubbie. Salvo poi ricredersi, come lo stesso Atzel, che abbandona il paradiso degli sciocchi che suo padre, su consiglio del dottor Yoetz, gli aveva preparato in una stanza tappezzata di raso bianco con finestre chiuse e tende ben tirate e scopre che la vita terrena è di gran lunga preferibile, soprattutto dopo aver sposato il suo vecchio amore Aksah. D’ora in poi dimenticherà la pigrizia e diventerà un mercante attivo e rinomato in tutta la regione.
Del resto poi come sia veramente il paradiso nessuno può dirlo. Nemmeno gli Anziani che nel mondo dello shtetl – villaggi e borghi dell’ebraismo yiddish dell’Europa orientale – sono la saggezza incarnata. Il loro sapere sembra dissolversi in una logica fantasiosa e vuota. Né Lekisch il Babbeo né Tudras il Tonto fra i saggi di Chelm riescono a trovare una soluzione per raccogliere il tesoro nella neve senza calpestarla. Così come l’Anziano del borgo di Chelm Est consiglia al fittavolo Shmelka, le cui quattro figlie si sono ingarbugliate a letto i piedi, di colpire la coperta con un lungo bastone. Di certo per il dolore ciascuna afferrerà le proprie estremità e salterà fuori dal letto. Poi, per evitare in futuro quel disagio sarà bene maritarle. Toccherà per prima alla giovane Yenta, ma se lo sposo è quel tonterello di Lemel, il futuro non sarà certo agevole. Prende alla lettera ogni consiglio e non combina che guai. Eppure ispira una profonda simpatia per la sua sconfinata ingenuità priva di ogni esperienza del mondo. È in quello spazio che Singer muove le sue bizzarre figure, con un sottofondo di ironia che la favola trasforma in gioco lasciando fluttuare le immagini come in un dipinto di Chagall. Ma c’è anche una dolcezza in questi racconti che evoca con malinconia, spesso intuibile nei ritratti di Sendak, quel lontano mondo contadino, l’at-
mosfera dello shtetl che l’orrore nazista ha cancellato senza pietà. Come nel caso di Aaron, il figlio maggiore del pellicciaio Reuven, che deve portare in città la capretta Zlateh, ormai vecchia e con poco latte. Deve venderla al macellaio Fayvel per raggranellare un po’ di soldi di cui la famiglia ha bisogno. La strada è lunga e il tempo peggiora: inizia a nevicare e il ragazzo si smarrisce. Per fortuna trova un fienile dove ripararsi. Per giorni lui e Zlateh resteranno isolati dal mondo mentre fuori la neve ricopre ogni cosa. La capra mangia il fieno e Aaron si nutre del suo latte. Lui le parla, l’accarezza, le racconta storie e lei gli lecca la mano e il viso e dice: «Bee», che, racconta Singer, significava: «Ti voglio bene anch’io». Torneranno a casa insieme e sarà una grande festa per la famiglia che da quella capra così affettuosa non si separerà mai più. Un affetto indissolubile come quello di Singer verso un passato cancellato dalla storia ma così vivo e pregnante nelle sue parole. «Per il narratore – scrisse nell’introduzione al volume – ieri è ancora qui, come lo sono gli anni e i decenni passati». Bibliografia Isaac Bashevis Singer, Zlateh la capra e altre storie, illustrazioni di Maurice Sendak, traduzione di Elisabetta Zevi, Adelphi edizioni, p. 102, € 18.–. Annuncio pubblicitario
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Un amore è l’ultimo romanzo di Sara Mesa, con cui si è imposta definitivamente all’attenzione del pubblico internazionale, edito in italiano da La Nuova Frontiera e tradotto dallo spagnolo da Elisa Tramontin. Il romanzo racconta di Nat, una giovane donna che per ragioni non del tutto chiare, che hanno a che fare con un grave errore commesso al lavoro, decide di trasferirsi in un paesino sperduto, dove potrà vivere di poco e dedicarsi al suo nuovo impegno da traduttrice. Da subito, però, a partire dalla casa che Nat prende in affitto, che è umida e piena di cose che non funzionano, diventa chiaro che quel luogo, La Escapa, le è ostile. Nat ha paura del suo proprietario di casa, un uomo rude, aggressivo, a cui la ragazza aveva chiesto un cane che potesse farle compagnia. Il randagio che lui le regala, che Nat chiamerà Fiele, per via del suo carattere schivo e della sua incapacità di fidarsi di lei, porta su di sé le conseguenze di tutti i maltrattamenti e dell’ignoranza della gente del posto.
Invitare la gente a leggere libri è compito improbo, che sembra votato al fallimento; soprattutto se l’invito proviene proprio da un concorrente diretto del libro, cioè l’audiovisivo, e se quindi l’invito prende la forma dell’appropriazione fulminea, e un po’ rapinosa, di qualcosa che richiede invece un ritmo e un passo diversi, ma soprattutto l’esercizio di doti in via di estinzione, la capacità di essere pazienti e la disponibilità all’ascolto e al dubbio. Con una certa costernazione, vediamo financo come certa letteratura, per cinicamente sdoganarsi presso il pubblico, arrivi a negare sé stessa, facendosi una sorta di goffa replica del mondo dell’audiovisivo; e non è un bel vedere, né un bel leggere. Sono lontani i tempi di Apostrophes (1975-1990), con cui ammetto di aver ammobiliato parte dei miei venerdì losannesi; ma anche la televisione era allora altra cosa, e pure il nostro rapporto con «lei» era diverso, complici l’assenza di telecomando e la convinzione che la scatola sarebbe stata accesa solo in presenza di occasioni che meritassero di distrarci dal molto altro che faceva della nostra vita quella bella e vertiginosa cosa che era, e tra quell’altro il libro era il sia il porto di quiete sia il viatico per l’emozione. Da quegli anni, tentativi innumeri che appunto scontarono quell’accamparsi un po’ imperialistico dell’audiovisivo e del suo modo di illuderci che fosse facile, possibile, appropriarsi delle cose senza la fatica di farlo, con una sorta di osmosi visuale. Il servizio pubblico radiotelevisivo ha, tra i suoi compiti, quello di farsi
Nel libro di Sara Mesa il villaggio non è luogo di solidarietà e di raccoglimento, ma di diffidenza e frasi sussurrate Fin da subito la giovane donna entra in contatto con gli altri abitanti della comunità: la ragazza del negozio di alimentari, Joaquin e sua moglie Roberta, che soffre di demenza senile, Píter che le diventa amico, la famiglia dei vicini di casa… In ognuno di questi personaggi, che costituiscono la piccola comunità di La Escapa, sembra che ci sia qualcosa da temere, o meglio a risultare pericolosa per Nat è la vita in un luogo talmente piccolo e governato da leggi tribali, in cui la sua presenza eccentrica non può essere accettata. La svolta inaspettata, quanto molto apprezzabile nel romanzo, avviene con l’incontro con un altro outisider della comunità, «il tedesco», un uomo dimesso, che coltiva e vende le verdure del suo orto, e che è anche un tuttofare. Un giorno proporrà a Nat di aggiustarle il tetto, dal quale quando piove gocciola in casa, se: «mi lasci
CULTURA
Dettaglio di copertina dell’edizione spagnola del libro (Ed. Anagrama).
entrare un poco dentro di te». L’offerta di questo baratto sessuale in un primo tempo la spiazza, poi Nat finisce per accecarsi di desiderio o di solitudine, insomma di quegli ingredienti che concorrono in misura diversa a dare origine all’ossessione amorosa. «Il tedesco», il cui nome è Andreas, diventa l’unico pensiero e scopo della vita di Nat, che smette di tradurre, di fare le sue passeggiate, per concentrarsi solo su quelle ore di sesso che trascorre da lui la sera, prima di rientrare a dormire a casa sua, visto che lui non le propone mai di trascorrere la notte insieme. La storia prosegue da manuale: Nat vorrebbe che Andreas, invece della durezza e dell’indifferenza che le dimostra, le dicesse almeno una volta qualche parola romantica, le facesse sentire «di essere la prescelta». Non accade, anzi. In breve tempo, tutta l’energia mentale che la giovane donna investe su questa relazione, tutta la paranoia, la gelosia, i sospetti, la paura, sfiancano quell’intesa sessuale, che all’inizio aveva del miracoloso e che poi si rivela essere una fragile illusione. Mesa descrive con grande precisione il dolore della perdita: «Andreas non sarà più suo. L’ha perso. Ce l’aveva e l’ha perso. Quella certezza le dilania ogni muscolo. Crede che mo-
rirà di dolore, crede che sia possibile morire così». Tale disperazione si aggiunge a un altro evento drammatico. Il risultato è che la comunità di La Escapa la epura, la allontana, perché si dice di lei che faccia sesso con tutti, e soprattutto perché ogni occasione può essere quella giusta per accusare o denigrare la straniera. Il romanzo di Mesa ha davvero il passo e lo stile di grandi testi della letteratura post moderna, come Vergogna di John M. Coetzee (Einaudi, 2000), perché l’autrice racconta con una freddezza e una precisione uniche e profonde la miseria dell’animo umano, la facilità con la quale è possibile brutalizzarsi a vicenda. In fondo Mesa vuole anche dire di come nei villaggi, che sembrano immuni alla perversione dell’epoca contemporanea, proprio lì, la meschinità agisce più indisturbata. Un messaggio molto chiaro rispetto al proliferare di testi letterari e di approcci artistici, che esaltano la vita dei paesi, dei borghi, della campagna, che inneggiano a un passato mitico e inesistente, in cui a essere rimasto davvero indenne è solo il patriarcato.
veicolo di mediazione culturale e di formazione; un impegno particolarmente gravoso, pare, quando si tratta di libri. Dalle nostre parti si è visto di tutto, il meglio (in radio) e (in tivù) il mediocre, o addirittura il peggio; in taluni casi, è sorto il dubbio che lo scopo dell’esercizio fosse quello di screditare il nobile passatempo della lettura, o di far diventare l’esperienza del libro non quella del confronto con una storia, un linguaggio e un mondo, ma solo il modo per fornire idee per ammobiliare uno scaffale con oggetti multicolori di cui si legge solo la prima e la quarta di copertina. Ma i poveri esiti di taluni tentativi non sono motivo per abbandonare la battaglia, a patto che si voglia adeguatamente armarsi per combatterla e, soprattutto, che si comprenda la posta in gioco. Trovo assai consolante assistere a trasmissioni come Literaturclub della SRF, che replica un po’ le modalità pivotiane e nella quale – alla presenza di un pubblico minimo e silenzioso – si discute per un’ora e un quarto di libri nuovi e meno, attorno a un tema o a un personaggio, con critici e autori. Il tutto senza pedanteria ma anche seriamente, senza scorciatoie da intrattenimento, affrontando cioè i temi con il piglio che ci vuole. Una trasmissione bella, educativa ma non paternalista, molto stimolante; costruita in modo semplice e attento, senza fronzoli e con un amore vero per la stupenda fatica del leggere, di fronte alla quale taluni esercizi un po’ circensi sembrano poca e molto velleitaria cosa. Parrebbe brutto banalmente replicarla? La prossima puntata di Literaturclub andrà in onda il 21 dicembre 2021 su SRF 1.
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