Azione 50 del 13 dicembre 2021

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Anno LXXXIV 13 dicembre 2021

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A.  Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

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SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Bisogna spiegare ai ragazzi come contrastare l’odio online, perché l’hate speech può avere effetti gravi

Parliamo del gioco degli scacchi con la recensione di un libro e in occasione dei Mondiali 2021

Cosa rappresenta l’Ucraina per Russia e Usa? E perché la guerra, per ora, è un’eventualità remota

I suggestivi spazi della Fondazione Prada di Milano omaggiano Domenico Gnoli

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InkLink Musei / Simone Boni

L’antico castello di Lugano

Jonas Marti

Gli infuocati confini dell’Occidente Peter Schiesser

Centomila soldati russi ammassati alla frontiera orientale e settentrionale dell’Ucraina, con nella regione, si stima,  carri armati,  aerei militari,  pezzi di artiglieria. È la seconda volta quest’anno. Secondo fonti di intelligence americane, è ipotizzabile un’invasione nei primi mesi del , quando le paludi ad est dell’Ucraina saranno ghiacciate e più percorribili. Ma in verità nessuno sa se e che cosa ha deciso il presidente russo Putin. Come scrive Lucio Caracciolo a pagina , nessuno vuole morire per Kiev: anche in caso di invasione (remota, secondo Caracciolo) gli Stati Uniti non invierebbero truppe in Ucraina, e non lo farebbero neanche i paesi europei. Secondo una certa lettura, Putin intende solo mantenere l’Ucraina in una condizione di Stato cuscinetto fra l’Occidente (ossia la Nato) e la Russia, sa che non potrebbe occuparla a lungo, neppure parzialmente. Ma le guerre hanno dinamiche imprevedibili, la prima mondiale ne è il più tragico esempio. Quella in Ucraina, scoppiata nel febbraio del , in realtà non è mai finita, nell’est del pa-

ese continua a bassa intensità. E in un tale persistente stato di tensione è sufficiente a volte un malinteso per provocare una reazione dell’avversario. Com’è successo in ottobre in un remoto villaggio dell’Ucraina orientale, a Hranitne, sulla linea del fronte: la costruzione di un ponte su un torrente, per facilitare gli acquisti di merce a chi vive nella terra di nessuno fra le trincee ucraine e separatiste, ha scatenato una pioggia di bombe da parte separatista. Un’ipotesi raccolta dal reporter del «New York Times» che ha raccontato la vicenda è che i separatisti hanno pensato che il ponte servisse per trasportare mezzi militari. Il bilancio è stato di un morto, qualche ferito, case distrutte – il ponte non è stato centrato. Ma l’episodio di Hranitne è importante per un altro aspetto: per fermare i tiri d’artiglieria, il maggiore ucraino della guarnigione ha chiesto l’intervento di un drone armato, un modello turco (Bayraktar) acquistato di recente, che ha distrutto la postazione da cui partivano i razzi. Un mezzo efficace, che mette fuori gioco l’artiglieria nemica e modifica quindi gli equili-

bri di forza. Era la prima volta che veniva impiegato e ciò ha allarmato i russi. Per i quali questo è stato solo l’ultimo campanello d’allarme, prima c’erano state le manovre navali americane nel Mar Nero, le forniture militari all’Ucraina (fra cui quasi  milioni di tonnellate di munizioni e il missile anticarro Javelin inviso ai russi, per un totale di , miliardi di dollari). Ecco perché Putin ha ordinato questa mobilitazione, che potrebbe raggiungere presto i  mila uomini. I russi si sentono minacciati dall’eccessiva, per loro minacciosa, vicinanza della Nato (Usa e Europa), per cui mobilitano truppe verso l’Ucraina, mentre l’Ucraina chiede ancora maggiori aiuti militari per far fronte a questa mobilitazione. Entrambi i contendenti si sentono minacciati, per cui diventano più pericolosi. Come detto, gli Stati Uniti non interverranno con proprie truppe, ma dopo la precipitosa fuga dall’Afghanistan non possono lasciar cadere il prossimo alleato in pericolo. L’Ucraina non può essere difesa militarmente, ma gli Stati Uniti non vogliono accettare una riedizione

di quanto avvenuto nel , con l’occupazione della Crimea e del Donbass, e minacciano la Russia di sanzioni economiche senza precedenti. Nel vertice virtuale fra Biden e Putin, il presidente americano ha ventilato il blocco dei lavori del gasdotto Nordstream (che porta gas russo in Europa aggirando l’Ucraina) e l’esclusione della Russia dal sistema finanziario mondiale. Nella fase attuale del conflitto, le minacce da una parte e dall’altra sembrano avere intento deterrente, ma la posta in gioco è alta e la partita si svolge su un campo minato. Gli interessi dei contendenti sono inconciliabili, per cui il successo maggiore ottenibile dopo questa escalation è un ritorno ad un conflitto a bassa intensità. Una soluzione vera non è a portata di mano. Intanto, uno spettatore interessato, il presidente cinese Xi Jinping, osserva con interesse come si comportano gli Stati Uniti, per saggiarne la loro determinazione, per capire come difenderebbero Taiwan. Mentre l’Europa resta a guardare inerme a ciò che succede ai suoi infuocati confini orientali.


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MONDO MIGROS ●

Storie di povertà e fatica lungo il confine

Ricerche storiche ◆ Il premio di Migros Ticino, giunto alla sua 19ma edizione, è stato assegnato allo storico Adriano Bazzocco per il suo studio sul contrabbando tra Italia e Svizzera Alessandro Zanoli

Nel , in occasione del suo cinquantesimo anniversario di fondazione, la Cooperativa Migros Ticino ha costituito un fondo per ricerche di storia locale e regionale della Svizzera italiana. Questo riconoscimento, attribuito con frequenza biennale, si prefigge l’obiettivo di favorire la pubblicazione di ricerche su argomenti di storia, arte, etnografia, linguistica e storia della letteratura relativi alla Svizzera italiana. Quest’anno la giuria, presieduta dallo storico Carlo Agliati, ha deciso di assegnare il premio allo studio di Adriano Bazzocco Storia sociale del contrabbando al confine tra Italia e Svizzera. Dall’Unità d’Italia alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Abbiamo chiesto al suo autore di parlarci della sua ricerca, che è frutto di un lavoro di dottorato sostenuto all’Università di Zurigo. Signor Bazzocco, il contrabbando è un tema locale molto conosciuto nella nostra regione, il suo lavoro indaga gli aspetti sociali ed economici del mondo in cui era inserito. Bisogna ricordare che per la Svizzera il contrabbando non era un’attività illegale; potremmo dire che si trattava di un tipo di commercio un po’ improprio, in una «zona grigia». Costituiva un reato soltanto in Italia. Ma un reato del tutto particolare, perché non sottostava alla riprovazione della società. Al contrario: sconfinare con la bricolla rappresentava un atto di coraggio e di riscatto da una condizione di subalternità, e le imprese degli spalloni erano celebrate con ostentazione, senza alcun timore che qualcuno spifferasse alcunché alla Guardia di finanza. Il contrabbando si innervava nella convivenza civile. Studiare il contrabbando di un tempo significa inevitabilmente studiare la storia della società. Quale fu la rilevanza economica dei traffici di frodo per le regioni di confine? Sul versante italiano i traffici di frodo provocarono perdite fiscali enormi per lo Stato centrale. Ne traevano invece grande beneficio ampie fasce della popolazione locale, che si dedicavano a questa attività molto dura per integrare il magro reddito agricolo. Ma il contrabbando ebbe ricadute economiche anche sul versante svizzero, perché rappresentava uno sbocco commerciale supplementare molto importante. Nel mondo del contrabbando di un tempo c’era una suddivisione dei ruoli tra Svizzeri e Italiani? I contrabbandieri erano tutti italiani;

gli svizzeri si limitavano a fornire la merce. Sul versante svizzero il confezionamento delle bricolle avveniva alla luce del sole, in perfetta legalità. Il «campo da gioco» tra spalloni e finanzieri era la fascia di confine italiana. La principale «competenza professionale» dello spallone, oltre all’ottima prestanza fisica, era dunque la perfetta padronanza del territorio: doveva conoscere palmo a palmo ogni via, pericolo, anfratto, sapere all’occorrenza dove fuggire e nascondersi. Quella del contrabbando è una storia lunga che affonda le radici nella notte dei tempi. Lei affronta un periodo specifico. Ho studiato un arco cronologico piuttosto ampio di quasi ottant’anni: dall’Unità d’Italia alla vigilia della Seconda guerra mondiale, che comprende uno snodo fondamentale per le vicende di confine: la Prima guerra mondiale. Un tempo si poteva circolare liberamente attraverso il confine, senza documenti, né particolari formalità. L’attenzione era posta esclusivamente sul controllo delle merci. Dopo la Prima guerra mondiale diviene centrale il controllo delle persone. Lo straniero diventa sospetto. Sul versante svizzero gli spalloni non possono più muoversi in totale libertà. Le Guardie di confine iniziano a tenere un controllo: obbligano gli spalloni a notificarsi prima di uscire in Italia, mostrando la merce da contrabbandare. In questo modo sono state stilate statistiche che oggi permettono di ricostruire i commerci di frodo. Sono stati per me fonti utili per quantificare i flussi e ricostruire l’andamento stagionale. Per realizzare il suo studio ha dovuto consultare parecchi archivi: quanto tempo è durata la ricerca? Come consuetudine nei lavori scientifici, parto da un’analisi dello stato delle ricerche, cercando di delineare i problemi a cui può andare incontro questo tipo di studi. Quello del contrabbando è un tema che si pone in un campo di forze molto ampio, che tocca vari ambiti: la storia delle relazioni diplomatiche, la storia della criminalità, la storia dell’economia e la storia sociale. Questo lavoro non è una tesi di dottorato classica, che nasce su un piano di ricerca ben preciso, ma è il risultato dello spoglio di una moltitudine di fondi d’archivio sull’arco di oltre un ventennio. Ho cercato di dare una visione d’assieme sul lungo periodo per l’intero confine tra la Svizzera e l’Italia. Cercando di fare un punto sulla situazione della ricerca lei affer-

ne possono ricavare comunque molte informazioni. Indicano ad esempio che il contrabbando era di gran lunga il reato maggiormente diffuso nelle Province di confine. Questo anche perché, come scrivevano gli stessi Procuratori del Re, era considerato una specie di sport, e non sottostava alla riprovazione morale della popolazione. Per arginare il fenomeno le autorità italiane costruirono un imponente rete di confine, la celebre «ramina», e potenziarono al massimo il dispositivo di vigilanza. Basti dire che nella seconda metà dell’, Ticino e Mesolcina erano presidiati da  guardie svizzere, mentre sul tratto di confine prospiciente in Italia era invece schierato un esercito di  finanzieri!

Adriano Bazzocco accanto alla «ramina» presso il vecchio valico di Roggiana, a Vacallo. (Sarah Bazzocco)

ma che si tratta di un tema spesso osservato con un’attenzione quasi più letteraria, romantica, che veramente storico-economica... In effetti sono stati scritti racconti, romanzi, memorie sulla vicenda del contrabbando e questo già nell’. Naturalmente ho usato questi materiali, ma con cautela, perché tendono a eroicizzare la figura del contrabbandiere, tralasciando gli aspetti

più scomodi. Una fonte finora poco utilizzata, rivelatasi molto utile per la mia ricerca, sono i discorsi che i Procuratori del Re delle Province di confine tenevano annualmente in occasione dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario. Sono resoconti che danno un bilancio dell’attività nell’anno precedente. Il metodo di valutazione è diverso da quello dei nostri giorni, non riportano dati sistematici, ma se

Il periodo storico da lei studiato arriva fino alla vigilia della Seconda guerra mondiale, ma poi il contrabbando certo non si è interrotto... No, al contrario. Durante la Seconda guerra mondiale il contrabbando è stato praticato su larga scala secondo una direzione di marcia opposta a quella tradizionale, ovvero dall’Italia verso la Svizzera. Erano gli anni in cui si smerciava di frodo soprattutto riso. In seguito, fino alla metà degli anni Settanta, si è tornati al contrabbando classico, da nord verso sud, di beni sottoposti in Italia a monopolio o ingenti tributi, in particolare sigarette e caffè. Nel tempo il fenomeno ha cambiato fisionomia con un’accentuazione dei tratti criminali. La figura dello spallone ha perso il suo radicamento sociale. I traffici del giorno d’oggi, più che allo studioso di storia sociale ed economica, interessano a magistrati e criminologi.

Le motivazioni per il premio Dott. Agliati, quali sono le conclusioni della commissione per l’assegnazione del premio? La commissione del Premio ha particolarmente apprezzato il taglio di questa agile ricerca, incentrata su una tematica d’interesse anche per un pubblico allargato, con ricordi ancora vivi nelle popolazioni di frontiera, dove l’«epopea» del contrabbando assume perfino accenti romantici. Il libro analizza la fisionomia dei commerci di frodo nella loro evoluzione discontinua tra due date di cesura (l’Unità d’Italia e la vigilia della Seconda guerra mondiale), evidenziando l’azione repressiva esercitata dallo Stato, le relazioni diplomatiche, le ricadute economiche, i problemi di ordine pubblico, il retroterra sociale

del reato praticato dalla figura dello spallone, sullo sfondo di una società che attraverso questi traffici illeciti cercava di sfuggire alla povertà permanente, in un’epoca in cui l’industria ancora non offriva possibilità di lavoro alternative a un’agricoltura di montagna che riservava magri margini di profitto. Le fonti sono quelle proprie della ricerca scientifica: accanto alle opere di letteratura, a quelle giornalistiche e perfino canzoni, l’autore utilizza materiali documentari emersi da scavi archivistici condotti sia in Italia che in Svizzera. Insieme al premio principale quest’anno avete deciso di segnalare altri due studi. Siamo spesso confrontati con ricer-

che di assoluto interesse scientifico, rivolte a specialisti di materia, a cui il Premio riconosce valore tramite menzioni speciali. Quest’anno è il caso della ricerca di Ilaria Verga dedicata a scavi archeologici nel Mendrisiotto su complessi abitativi di epoca romana, e della ricerca del musicologo Florian Bassani, incentrata su aspetti dell’editoria musicale ticinese durante il Risorgimento. Quando si terrà la prossima edizione del premio? È già stata fissata la data per l’invio delle candidature? Il Premio Migros Ticino ha cadenza biennale. Nel corso del prossimo anno verrà pubblicato il concorso della .ma edizione e la premiazione sarà dunque nel .

azione

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Lugano francese Distrutto nel 1517 il castello di Lugano rivive ora in un libro dell’Archivio storico della Città

Scali ferroviari, una nuova era Le FFS hanno rinnovato le principali stazioni ticinesi, un restyling anche tecnologico

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Architettura in lutto È scomparso la settimana scorsa l’architetto e urbanista Aurelio Galfetti

Salute Conoscere la propria pressione arteriosa è importante perché l’ipertensione è nemica del cuore

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Gli adolescenti devono capire che un contenuto d’odio online ha gli stessi effetti di ciò che viene detto fuori dai social, in presenza fisica. (Shutterstock)

L’odio online Il caffè delle mamme

Bisogna dare ai figli gli strumenti adatti per contrastare l’hate speech, perché l’odio non rimane nella Rete

Simona Ravizza

Diciamocelo subito: è praticamente impossibile che i nostri figli, navigatori seriali sui social media, non vengano a contatto con i contenuti di odio di cui la Rete è piena. A Il caffè delle mamme, che ormai è in clima natalizio e dunque propenso a dispensare messaggi d’amore, la consapevolezza allora è che dobbiamo dare agli adolescenti gli strumenti per contrastare l’hate speech, ossia l’odio online. Per comprendere quanto è diffuso il fenomeno, basta ricordare i risultati dello studio della Scuola universitaria di scienze applicate di Zurigo pubblicato lo scorso  agosto: quasi la metà degli adolescenti svizzeri si confronta regolarmente con discorsi di odio su Internet (il % più volte al giorno, il % ogni giorno e il % più volte alla settimana). Tra i - anni il % legge regolarmente commenti di questo tipo, la percentuale sale al % tra i -enni, al % tra i -enni e al % tra i -enni. Per quanto riguarda le differenze regionali, i giovani nella Svizzera tedesca (%) e francese (%) sono più spesso confrontati con discorsi d’odio rispetto ai ticinesi (%). Io ho chiacchierato appassionatamente della questione con la mia amica costituzionalista Marilisa D’Amico, pro-rettore dell’Università Statale di Milano e autrice del nuovo saggio La Costituzione non

odia: conoscere, prevenire e contrastare l’hate speech (ed. G. Giappichelli, curato con Cecilia Siccardi) e ho fatto una diretta Instagram sull’argomento con il sociologo Cristopher Cepernich. Così ho capito che educare i nostri figli a combattere l’odio online vuol dire innanzitutto aiutarli a capire bene i meccanismi della Rete. A Il caffè delle mamme la sorpresa è notevole: noi boomers che spieghiamo qualcosa ai giovanissimi sui social sembra una contraddizione assoluta. Invece, bisogna tenere ben presente che i nativi digitali sanno sicuramente meglio di noi come postare, mettere un video su TikTok e fare una storia Instagram (che invidia!). Ma il fatto che tecnicamente siano migliori di noi, non vuol dire che abbiamo le conoscenze necessarie su quel che accade dietro le quinte, ossia su come funzionano i social. È il motivo per cui concordiamo tutti sulla necessità di illustrare almeno tre concetti-chiave. Uno. I social media funzionano sulla base di algoritmi utili per dare impulso al traffico di contenuti, che è il business di Facebook, Twitter, Instagram, TikTok, ecc. E, come spiega bene il saggio La Costituzione non odia, la pre-condizione perché un contenuto sia in grado di migrare da un profilo all’altro e di catturare attenzione, è che sia molto carico, che

abbia cioè una carica virale potente determinata dalla sua polarizzazione. In pratica, più i contenuti sono polarizzati, ossia estremi e divisivi, più funzionano bene in Rete. «Gli stati d’animo negativi, come paura, paranoia, invidia e odio si diffondono più rapidamente rispetto ai positivi – scrive Jaron Lanier, informatico e saggista, nel libro Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social (ed. Il Saggiatore) –. I post con stati d’animo negativi garantiscono un impatto maggiore, perché la reazione dell’utente è immediata». E l’algoritmo dei social li premia, favorendo il contagio nella Rete. I nostri figli, dunque, devono avere ben presente – ci diciamo a Il caffè delle mamme – che rischiano di finire in spirali di contenuti tossici, proprio perché il meccanismo di funzionamento dei social stessi li favorisce. Due. L’odio online, come qualunque informazione sui social, si propaga attraverso le cosiddette echo chambers, ossia le camere dell’eco. L’algoritmo agevola la visione dei contenuti più consumati da te e dal network che hai costruito. Su Facebook non vedi post di persone alle quali non sei legato da amicizia. Invece TikTok, il più usato dai giovanissimi, agevola la visione di contenuti simili a quelli che hai visto. È la co-

siddetta cassa di risonanza di un messaggio, per cui un contenuto iniziale giusto o sbagliato che sia, tende a richiamarne altri dello stesso tipo, che contribuiranno sempre più ad amplificare una visione univoca ed acritica su quell’argomento. È fondamentale, dunque, che i nostri figli lo capiscano bene: non è che tutti pensano la stessa cosa, semplicemente un determinato tipo di messaggio ne richiama altri dello stesso tipo. È un circolo vizioso che va interrotto, andando a cercare chi la pensa (anche) diversamente. Tre. Gli adolescenti devono avere ben presente che un contenuto d’odio online può avere gli stessi effetti devastanti di ciò che viene detto fuori dai social. Le relazioni su TikTok, Instagram e Facebook sono relazioni sociali a tutti gli effetti. Fuori dalla Rete almeno bisogna metterci la faccia, online ci si può persino nascondere dietro l’anonimato. In ogni caso insultare è roba da vigliacchi e repressi. È il motivo per cui non bisogna farsi ferire da ciò che viene detto sui social, né farsi condizionare, né tantomeno essere autori stessi di hate speech. Qualche anno fa, nel , con i miei figli Clotilde ed Enea, ho visto il film d’animazione premio Oscar della Disney Zootropolis. Il cartoon racconta come, nella cittadina di Zootopia dove vivono armoniosamente

docili prede e feroci predatori, a un certo punto la pecorella Bellwether, assistente-sindaco nel primo mandato di Leodor Lionearth, che la sovraccarica di lavori e la insulta, avvelena i carnivori per farli impazzire sfruttando la convinzione comune che il loro Dna sia da malvagi. Il suo intento è quello di diffondere paura e odio per arrivare a governare. Ecco, il loro uso come strumento di consenso, è la mia conclusione a Il caffè delle mamme, mi riporta un po’ al meccanismo dei social. Nel film la coniglietta-poliziotta Judy Hopps e l’amico-volpe Nick Wilde riescono a smascherare Bellwether e a farla finire in galera. Lo stesso vale per la Rete: se gli adolescenti imparano a smascherare il meccanismo dei social su come i messaggi d’odio favoriscono l’engagement (ossia like, commenti e condivisioni), come questo tam tam si propaga nascondendoti i contenuti alternativi (se non li vai a cercare) e dei danni che tutto questo può fare, ecco, forse, se imparano tutto ciò possiamo sperare in una Rete migliore. Perché saranno i nostri figli a renderla tale. Dopotutto noi passiamo le nostre giornate a educarli su come comportarsi nella vita reale, dimenticandoci spesso che gran parte della loro vita oggi è online (ma non virtuale). E vanno educati anche lì.


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MONDO MIGROS

Carni «nobili» per i giorni di festa

Attualità ◆ L’ampio assortimento di specialità natalizie delle macellerie Migros comprende anche alcune tipologie di carne particolarmente pregiate

Oltre alle sempre gettonatissime fondue di carne fresca tagliate al coltello, agli arrosti e brasati, o ad altri tipici tagli della migliore qualità svizzera, per il periodo delle festività i banchi macelleria Migros offrono anche alcuni tipi di carne esclusivi, disponibili limitatamente, che non mancheranno di stuzzicare e stupire il palato dei vostri ospiti. Inoltre, per una buona riuscita dei vostri manicaretti senza troppo stress, i nostri specialisti della carne sono a vostra completa disposizione con consigli culinari e suggerimenti mirati. Essi rispondono per esempio volentieri alle vostre domande relative alle quantità necessarie, alle modalità di marinatura o ai tempi di cottura. Possono tagliare i pezzi di carne secondo le vostre necessità, approntarli per essere solo cucinati o suggerirvi la ricetta più idonea che valorizzi al meglio le qualità delle carni. Inoltre, al bancone potete riservare in anticipo i vostri pezzi preferiti e ritirarli quando lo desiderate.

Un succoso Roast Beef è sempre apprezzato sulla tavola festiva.

Un grande classico

Una tradizionale e semplice ricetta per le Festività che non tramonta e sfigura mai in tavola con gli invitati è sicuramente il roast beef. Solitamente i tagli più indicati e apprezzati per la loro gustosità sono quelli cosiddetti nobili, nella fattispecie il filetto, l’entrecôte o lo scamone. Per una preparazione ottimale, per quattro persone, servono ca. , kg di carne di manzo, in un pezzo solo. La carne dovrebbe essere tolta dal frigorifero almeno un’ora prima di cucinarla. In un tegame con un po’ d’olio rosolate la carne da entrambi i lati fino a quando si forma una bella crosticina in superficie. Salate e pepate e trasferite il pezzo di carne nel forno preriscaldato a °C per ca.  minuti, fino al raggiungimento di una temperatura al cuore di ca. °C. Prima di affettarlo, lasciate riposare il roast beef avvolto nella carta alu per una decina di minuti. Servite con una salsa bernese e delle patatine al forno con la buccia.

Alcune delle nostre esclusive proposte Filetto di bisonte

Il filetto di bisonte è ottenuto da animali che vivono liberi nelle praterie del Nordamerica. La carne possiede un alto contenuto di ferro e acidi grassi omega. Delicata e molto tenera, la carne di bisonte si presta bene per cotture veloci in padella ma anche per la preparazione di un succulento filetto alla Wellington, oppure cotta alla griglia. Un accostamento ideale è quello con il pepe verde.

Entrecôte di Wagyu

Nella lingua del Sol Levante Wagyu significa «bovino giapponese». Rispetto al Kobe, che viene allevato esclusivamente nell’omonima provincia, l’allevamento di Wagyu è diffuso in tutto il mondo. La carne possiede un alto grado di marmorizzazione: più è marmorizzata, maggiore sarà il suo costo. Si apprezza al meglio cotta su una piastra molto calda con uno spicchio d’aglio, sale e pepe. Evitare le marinature.

Entrecôte di Irish Beef Sélection

Questa succosa entrecôte proviene da razze nobili quali Angus, Limousine o Charolais allevate liberamente sui verdi prati irlandesi. L’alimentazione naturale e l’allevamento all’aperto rendono la carne finemente marmorizzata e straordinariamente gustosa e tenera. Inoltre, prima di essere venduta la carne viene lasciata frollare all’osso per minimo  settimane a temperatura e umidità controllate.

Entrecôte di Renna

La carne di renna proposta nelle nostre macellerie proviene dalla Svezia, dove gli animali vivono in ampi spazi all’aperto. Le carni sono molto saporite e tenere, magre e povere di colesterolo. Per armonizzare il sapore si consiglia di utilizzare delle bacche di ginepro, così come si fa con la selvaggina alle nostre latitudini. Inoltre, in padella è preferibile utilizzare del burro al posto dell’olio e la cottura non dovrebbe essere troppo al sangue.

Fiori natalizi direttamente a casa Attualità

Invia un omaggio floreale festivo a chi vuoi tu in meno di un’ora!

La stella di Natale è un regalo molto gradito.

Stelle di Natale, rose, bouquet personalizzabili, mazzi misti, orchidee e perfino abeti Nordmann: grazie a Smood e Florissimo puoi ordinare comodamente e semplicemente tramite il sito o l’app smood.ch la tua composizione floreale festiva e farla consegnare dove vuoi tu su gran parte del territorio ticinese. E questo in meno di un’ora. Alla sorpresa floreale puoi inoltre abbinare un grazioso biglietto

con i tuoi auguri di buone feste. I fiori e le piante non solo rappresentano un regalo sempre gradito, ma abbelliscono e decorano la casa in modo raffinato e gioioso. Tra i simboli per antonomasia del periodo natalizio, vi è naturalmente la stella di Natale. Questa pianta ornamentale mostra la sua fioritura più bella proprio nei mesi di novembre e dicembre. Per mantenerla rigogliosa a lungo si consiglia di posizionarla in un luogo della casa luminoso dove non vi siano grossi sbalzi di temperatura e troppe correnti d’aria. La temperatura ideale è di  gradi. Inoltre, è importante che la terra del vaso sia sempre umida, ma vanno evitati i ristagni d’acqua che farebbero deperire velocemente la pianta. Ordinazioni e informazioni su Smood.ch


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MONDO MIGROS

La tradizione per tutti Novità

Non solo panettone e pandoro convenzionali: il marchio Buletti quest’anno propone anche il panettone artigianale senza lattosio

Flavia Leuenberger Ceppi

Il pasticcere Bruno Buletti.

Panettone artigianale senza lattosio Buletti 500 g Fr. 20.–

Siete intolleranti al lattosio ma non volete rinunciare a uno dei dolci più caratteristici del periodo natalizio? Allora dovete assolutamente assaggiare il panettone artigianale senza lattosio del noto pasticcere Bruno Buletti. In vendita in tutti i supermercati di Migros Ticino, è un prodotto di alta qualità il cui sapore non ha nulla da invidiare a quelli classici. «Come i panettoni convenzionali di nostra produzione, anche il panettone artigianale senza lattosio è un dolce privo di conservanti ed emulsionanti, % naturale, realizzato con materie prime attentamente selezionate, come i frutti canditi delicatamente, il burro svizzero senza lattosio, le uova da allevamento al suolo e il pregiato lievito madre che produciamo e curiamo nel nostro laboratorio di pasticceria», afferma Bruno Buletti, titolare dell’omonima pasticceria fondata a Airolo nel . Inoltre, per conferire al prodotto un aroma e un profumo incon-

fondibili, all’impasto viene aggiunto del burro chiarificato. «Questa particolarità – continua Buletti – non solo permette di ottenere un panettone dal sapore più accentuato, ma di fatto influisce anche sulla conservazione del prodotto finito, che viene sostanzialmente prolungata». Ad eccezione di questi dettagli, la preparazione del panettone senza lattosio non si discosta molto da quella ordinaria, come spiega Buletti: «Tra impasti, rinfreschi vari, lievitazione, cottura e raffreddamento finale, anche qui ci vogliono poco meno di  ore per realizzare un prodotto genuino di prima qualità». Infine, un aspetto fondamentale è quello di ridurre il più possibile eventuali contaminazioni incrociate di lattosio: a tale scopo nel laboratorio di Buletti il dolce viene prodotto solamente dopo aver effettuato una pulizia e una sanificazione accurata di tutte le attrezzature, dei piani e degli strumenti di lavoro.

Frutta sostenibile

Attualità ◆ Agrumi e frutta secca sono da sempre un classico delle feste di fine anno. Ecco qualche golosità all’insegna del rispetto per l’ambiente grazie ai marchi Demeter e Migros Bio. I prodotti sono disponibili nelle maggiori filiali Migros Zenzero

Il caratteristico sapore pungente dello zenzero è apprezzato in tisane calde, bibite, sushi e molti altri piatti. Inoltre vanta proprietà riscaldanti, stimolanti ed è efficace contro i raffreddori e i disturbi gastro intestinali.

Mango

Originario dell’India, il mango possiede una polpa di un bel colore giallo brillante che racchiude un aroma dolce e asprigno. Ottimo per gelati, marmellate e nelle macedonie, ma anche in piatti a base di carne, pollame e pesce.

Clementine

Dolci, succose e rinfrescanti, le clementine rispetto ai loro cugini mandarini si caratterizzano per l’assenza di semi. Vere e proprie bombe vitaminiche, tre clementine coprono il fabbisogno quotidiano di vitamina C.

Noci

Questi frutti a guscio sono un’importante fonte di energia per corpo e mente grazie al loro contenuto di acidi grassi insaturi, proteine vegetali e carboidrati. Un must con formaggi, insalate, ripieni e nella tipica torta di noci grigionese.

Limone

Protagonista indiscusso di un’infinità di piatti sia dolci che salati grazie al suo sapore fresco e asprigno, il limone possiede proprietà digestive, antiossidanti, depurative e disinfettanti. Inoltre migliora le difese immunitarie.

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXIV 13 dicembre 2021

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SOCIETÀ

Il castello perduto (e ora ritrovato) di Lugano Pubblicazioni ◆ Era tra i più grandi del Ticino. Distrutto nel 1517, per secoli è stato dimenticato. Oggi torna in vita grazie a un libro Jonas Marti

Chissà come sarebbe oggi la città, se cinquecento anni fa gli Svizzeri non lo avessero distrutto. Il castello di Lugano era una fortezza mica da poco per l’epoca, capace di rivaleggiare con quelle di Bellinzona e di Locarno. Costruito nel  dal milanese Ludovico il Moro sull’ampia spianata tra le mura orientali del borgo e il fiume Cassarate – più o meno tra gli attuali Palazzo dei Congressi e Casinò, toccando parte del Parco Ciani – poteva ospitare fino a trecento soldati, era circondato da un profondo fossato e protetto da quattro poderose torri. Il maniero fu distrutto nel  su ordine dei Cantoni Confederati, che temevano un suo utilizzo a loro ostile, e le sue macerie, si racconta, furono usate per costruire il convento di Santa Maria degli Angeli. Chissà, altrimenti, quali fotografie mozzafiato avremmo avuto oggi sui nostri dépliant turistici… Niente rimorsi, niente rimpianti. Oggi, grazie ad un prezioso libro pubblicato dall’Archivio storico della Città di Lugano, è possibile rivivere tutto. Le ricostruzioni illustrate che accompagnano la pubblicazione riescono a farci vedere, per la prima volta, letteralmente, non solo l’antico maniero, ma tutta la splendida Lugano rinascimentale, in un’esperienza mozzafiato. L’illustratore italiano Simone Boni, tra i massimi esperti europei in ricostruzioni storiche, ha seguito le indicazioni degli archeologi e ha preso come matrice la più antica rappresentazione panoramica di Lugano, «scattata» nel Seicento dall’incisore basilese Matthäus Merian, retrodatandola, e sovrapponendoci la città di fine Quattrocento. E così, accanto all’imponente castello che domina la riva del lago, emerge anche l’antico borgo di Lugano, stretto nelle sue viuzze medievali, delimitato da mura interrotte da porte, con le sue umili case, le sue piazze in terra battuta e i suoi conventi, e la cattedrale arroccata sulla cima della collina. Fuori, la natura rigogliosa e lussureggiante, i folti boschi che dal Brè scendono fino a lambire il Ceresio, i terrazzamenti a vigneto, i campi e un efficiente sistema di irrigazione fatto di mulini, rogge e canali che attraversavano tutta la piana del Cassarate. Eppure la bellezza quasi idilliaca di questa bella immersione nel passato cozza con la brutale violenza di quegli Annuncio pubblicitario

Il castello di Lugano era stato voluto da Ludovico il Moro. (InkLink Musei / Simone Boni)

anni. Allora Lugano, insieme all’intero Luganese, continuava ad essere lacerata senza tregua dalle decennali lotte tra guelfi e ghibellini, con omicidi, spedizioni punitive, saccheggi e incendi. «Fumavan di cittadino sangue le strade e le piazze», scriveva un cronista dell’epoca. E come se non bastasse, Ludovico il Moro ebbe appena il tempo di terminare la costruzione dell’imponente castello e nominare un castellano... che la fortezza – insieme all’intero borgo e a tutto il Ducato di Milano – fu occupata militarmente dai soldati francesi: Luigi XII di Francia era sceso in Italia ed era riuscito a cacciare gli Sforza, e il  settembre a Lugano era addirittura arrivato un araldo a pretendere il giuramento di fedeltà alla corona. Il dominio francese sulla città durerà ben tredici anni, fino al , quando sarà interrotto da altri conquistatori, gli Svizzeri che nel frattempo calavano agguerriti dalle valli superiori del Ticino. Che ci fosse un castello a Lugano gli storici lo avevano sempre sapu-

to. Le prime pietre però erano emerse solo nel , e più tardi nel , durante la costruzione del Palazzo dei Congressi. Mentre gli operai stavano lavorando a un paio di metri sotto il livello del suolo, nell’esatto luogo dove oggi i clienti del ristorante Ciani sorseggiano i loro drink in terrazza, le pale degli operai improvvisamente avevano cozzato contro solida muratura. Tolta la terra, lentamente aveva preso forma una costruzione circolare, molto grande, dal diametro di oltre dieci metri. Gli archeologi cantonali non ebbero dubbi: era una delle quattro torri difensive. Ricostruire esattamente forma e dimensioni del castello è però impossibile. Secondo le indagini, il castello era simile a quello, costruito negli stessi anni dai milanesi, della Rocca nuova di Vigevano: pianta rettangolare, con baluardi cilindrici adatti a sostenere l’impatto dell’artiglieria che in quegli anni stava cambiando per sempre l’arte militare. Una novità, doveva apparire agli occhi dei luganesi dei tempi, una costru-

zione d’avanguardia, ben più moderna degli ormai vecchi – già all’epoca – fortilizi bellinzonesi. Se le tracce materiali del «Castelum magnum», il grande castello di Lugano, sono pochissime e tutte sottoterra, grazie ai documenti conservati negli archivi dei vecchi Cantoni Confederati – scritti in antico tedesco, trascritti fedelmente nella ricchissima appendice documentaria del libro – siamo invece particolarmente informati su una delle sue avventurose vicende: l’assedio degli Svizzeri contro i Francesi, combattuto a colpi di bombarda. Fu lungo. Durò sei mesi, dal  luglio del  al  gennaio del , fino alla definitiva vittoria rossocrociata. Sternstunde, momento decisivo per il futuro della nostra regione, quando Lowertz (il nome con cui i Confederati chiamavano Lugano) non era ancora svizzera e forse le cose, chissà, sarebbero potute anche andare anche diversamente. Gli aneddoti tramandati sull’assedio sono molto vivaci. La grande Storia, fatta delle piccole storie degli uomini. Come quella di un rapimento. I Francesi sapevano bene che avrebbero avuto bisogno di un medico per curare i feriti causati dall’attacco svizzero, e così invitarono al castello il medico luganese Nicolò Maria Laghi. Appena entrato – è lui stesso a raccontarcelo nella sua Cronaca Luganese, preziosissima e straordinaria testimonianza dell’epoca, che meriterebbe di essere conosciuta da tutti – «fu dunque circondato subito». Il povero Laghi fu «tenuto prigione» fino alla fine dell’assedio, costretto a curare feriti e malati. Ma poi ci fu anche un inseguimento a cavallo: un assediato, mandato a chiedere rinforzi alla guarnigione francese di Locarno, fu inseguito a tutta velocità dagli Svizzeri e catturato a Taverne dopo un duello all’ultimo sangue. Gli trovarono un bigliettino in tasca, che invitava il capitano di Locarno ad accendere due fuochi sul Monte Tamaro se avesse potuto inviare aiuti, quattro in caso negativo. A Locarno il messaggio non arrivò mai, ma per sfiancare la resistenza gli Svizzeri accese-

Una mostra e un radiodramma Le spettacolari tavole che ricostruiscono la Lugano rinascimentale e il suo castello saranno oggetto anche di una mostra sul lungolago, dal 15 dicembre al 1. febbraio. Non solo: la Rete Due della Radiotelevisione svizzera di lingua italiana ha anche prodotto un radiodramma sulla storia del castello, scritto e diretto da Flavio Stroppini (rsi.ch/castello)

ro quattro falò. Un’uggiosa giornata di novembre, invece, il lago esondò, allagò le cantine della fortezza e distrusse, tra la disperazione dei Francesi, tutte le loro scorte di vino. E mentre i Confederati spiavano gli assediati dall’alto del campanile di San Lorenzo, ci fu anche una scena dal sapore omerico: una notte i comandanti dei due schieramenti, lo svizzero, forse leventinese, Giacomo d’Uri detto Mottino, e il savoiardo Antoine de Mondragon, si parlarono – lo svizzero davanti al ponte levatoio sotto le mura, il francese dall’alto del cammino di ronda. «Giacomo torna a casa, il castello non sarà mai vostro». Ma Mondragon si sbagliava: infine, dopo una quarantina di morti tra gli Svizzeri, e i Francesi costretti a nutrirsi dei propri cavalli, la Dieta federale e il Re di Francia trovarono un accordo. Il  gennaio del  la guarnigione francese si arrese, uscì dal castello – insieme al povero medico Laghi, finalmente restituito ai suoi cittadini – e a prendere possesso della fortezza fu lo zurighese Kaspar Göldli, primo balivo di Lugano. I festeggiamenti furono sfarzosi e durarono un’intera notte, con grandi fuochi e suonatori di piffero e tamburo. Due giorni dopo sarà Locarno a cadere in mani confederate. Costruito dai Milanesi, occupato dai Francesi, conquistato dagli Svizzeri. Ha avuto vita breve il perduto castello di Lugano. Ma nei suoi poco meno di vent’anni di esistenza, è stato testimone dell’inquieta e intricata geopolitica di quell’Europa che stava uscendo dal Medioevo e stava entrando nella modernità. E che anche a Lugano è stata in un qualche modo costruita. Chissà come sarebbe oggi la città con il suo castello… Bibliografia Roberta Ramella e Marino Viganò, Lugano francese 14991512, premessa di Paolo Ostinelli, contributi di Rossana Cardani Vergani, Pietro Montorfani e Damiano Robbiani, Pagine Storiche Luganesi, 2021.



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La nouvelle Belle Époque delle stazioni ticinesi Ferrovie ◆ Con AlpTransit e il Ceneri i principali scali ferroviari si sono rinnovati, richiamando gli antichi splendori della fine del XIX secolo. Zali: «Ora si definiscono piattaforme di mobilità»

Mauro Giacometti

È una «nouvelle Belle Époque» quella degli scali ferroviari ticinesi. Dall’inaugurazione della galleria di AlpTransit, nel , e più recentemente quella del Ceneri, nel , le stazioni di Bellinzona, Lugano, Locarno, Mendrisio e prossimamente Chiasso stanno conoscendo un rinascimento architettonico e tecnologico. D’altra parte sono trascorsi  anni dall’apertura della galleria ferroviaria del San Gottardo che diede il primo e decisivo impulso all’asse nord-sud dei collegamenti su rotaia, avvicinando il Canton Ticino al resto della Svizzera, all’Europa del Nord e migliorando il transito verso Sud, da e verso l’Italia. Un «restyling», quello delle principali stazioni ferroviarie della Svizzera meridionale, costato circa  milioni di franchi alla Ferrovie federali svizzere, ai quali aggiungere altre decine di milioni per migliorare le infrastrutture e gli scali minori. Investimenti pesanti ma indispensabili per un trasporto su rotaia sempre in competizione con quello su gomma, ma che i nuovi «dettami» ecologisti pongono sempre più al centro dello sviluppo della mobilità del Paese.

Le Ferrovie federali hanno investito più di 100 milioni per ristrutturare le principali stazioni ticinesi Dunque la «nouvelle Belle Époque» delle stazioni ticinesi è cominciata e si andrà a concludere con la ristrutturazione dello scalo di Chiasso, i cui lavori sono iniziati e che si prevede si concludano entro giugno

. «La natura delle stazioni ferroviarie del nostro Cantone è profondamente mutata nel corso degli ultimi anni – ci dice Claudio Zali, direttore del Dipartimento del territorio –. Non si tratta più unicamente di luoghi di passaggio nell’attesa di salire o scendere da un treno, ma di spazi sfaccettati capaci di offrire tutta una serie di servizi – siano essi farmacie, negozi o edicole – che permettono di trascorrere il tempo di interscambio in modo utile e piacevole. Se la possibilità di interscambio tra i vari vettori di trasporto è la chiave per un servizio pubblico performante e attrattivo per i viaggiatori, la possibilità di ottimizzare i tempi di attesa in quelle che giustamente ora si definiscono sempre più spesso “piattaforme di mobilità”, è un ulteriore aspetto centrale. Le nuove stazioni di Bellinzona, Lugano, Mendrisio, Chiasso, Locarno, sono state pensate in questa ottica, migliorando rispetto al passato anche l’aspetto strutturale e architettonico, in particolare per quanto riguarda il rispetto delle norme per l’utenza disabile o per raggiungere più rapidamente e da più punti i binari». «Il Cantone continuerà a promuovere stazioni ferroviarie in grado di offrire un’esperienza di viaggio confortevole e appagante, non solo per quanto riguarda arrivi e partenze nei nodi intermodali, ma anche per quanto concerne le pause che gli utenti si trovano a trascorrere in questi spazi», sottolinea il consigliere di Stato. Tutto è cominciato con la «Porta del Ticino», vale a dire la stazione di Bellinzona, anche se le FFS aveva-

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La stazione FFS di Mendrisio sarà inaugurata domani dopo la ristrutturazione che ha eliminato le barriere architettoniche e l’ha dotata dei nuovi Smart Information Display. (FFS)

no già messo mano alla prima tappa della ristrutturazione e dell’ampliamento della fermata di Lugano. In effetti, con l’inaugurazione dell’alta velocità che transitava sotto la galleria record della Nuova Trasversale Alpina, lo scalo bellinzonese è diventato un vero e proprio biglietto da visita del Ticino per i viaggiatori confederati che si recano nella Sonnenstube, piuttosto che gli stranieri in transito. La ristrutturazione della fermata della Turrita, a dire il vero, partì con il piede sbagliato, poiché le FFS inizialmente premiarono il progetto «nuvola», presentato dal Consorzio Staz Be , salvo poi annullare il concorso sotto la spinta della Commissione federale dei monumenti storici e della Commissione federale per la protezione della natura e del paesaggio che consideravano l’elaborato dello studio degli architetti Orsi e Saurwein troppo «avveniristico» e non rispettoso dello storico stabile viaggiatori, datato . Risultato: le FFS affidarono allo studio Orsi & Associati la ristrutturazione conservativa dello stabile passeggeri, mentre l’architetto Mauro Malisia si occupò di progettare e realizzare l’adiacente edificio di servizio, l’atrio e il sottopassaggio che aprì la strada agli spazi commerciali, il tutto per circa  milioni di franchi d’investimento. L’inaugurazione del nuovo nodo intermodale, nel dicembre del , realizzato in vista dell’apertura della galleria del Monte Ceneri e costato circa  milioni di franchi, completò il volto della «Porta del Ticino».

Anche per Lugano si scelsero due «matite» progettuali. Per il risanamento totale del fabbricato viaggiatori, iniziato nel , fu chiamato l’architetto Charles De Ry, mentre il nuovo atrio sottostante il livello dei binari fu affidato al Gruppo architetti Stazlu (Felder, aMarca, Terraneo, Tibiletti). Tutta la parte viaria, il nodo intermodale e la funicolare rientrarono invece nelle competenze del progetto StazLu. Complessivamente furono investiti circa  milioni nello scalo luganese, una parte dei quali messi a disposizione da Cantone e Città di Lugano. La nuova stazione di Lugano, chiamata «Terrazza del Ticino», così come la funicolare automatizzata, sono state inaugurate nel dicembre del . Relativamente più semplice il percorso della «rinascita» della stazione di Locarno-Muralto. I lavori di ristrutturazione dello storico edificio - costati circa  milioni - hanno toccato in particolare il risanamento completo dello stabile, la sostituzione dell’impianto elettrico, del riscaldamento, dei sanitari, dei pavimenti e dell’intero isolamento termico; in questo modo la nuova stazione rispecchia gli standard Minergie, senza avere tuttavia perso il suo aspetto originario risalente al . A complicare il completamento dello scalo verbanese, però, ci sarà la diatriba sul nodo intermodale, recentemente al centro di una bocciatura del Consiglio di Stato. Il progetto, approvato dal Consiglio comunale di Muralto, che prevedeva la realizzazione di una pensilina con contenuti commercia-

li e uffici nonché il traffico dei bus dirottato unicamente su via e piazza Cattori, rese pedonabili, dovrà dunque essere rivisto. Domani,  dicembre dalle ore , si svelerà il nuovo volto della stazione di Mendrisio, anch’essa al centro di un restyling conservativo operato dallo studio di architettura Massimo Marazzi di Chiasso coadiuvato dallo studio d’ingegneria civile Giorgio Galfetti di Riva San Vitale e da altri partner tecnici. Con un investimento di  milioni di franchi, lo scalo «momò» sarà completamente privo di barriere architettoniche e molto «smart». Mendrisio sarà infatti una delle prime stazioni in Svizzera ad essere dotata di tre nuovi schermi interattivi (Smart Information Display, SID) che visualizzano in modo immediato le informazioni di viaggio rilevanti, come ad esempio l’orario e le perturbazioni sulla rete ferroviaria. Anche Chiasso, portale Sud della trasversale ferroviaria svizzera, sarà proiettato sul futuro. Disporrà di un centro viaggiatori moderno, spazioso e con molta luce naturale, nuove superfici commerciali, tra cui un negozio Avec e un bar, sarà risanata l’intera facciata esterna, sostituita la pavimentazione, con granito ticinese, nell’atrio e nel corridoio, e installato un moderno concetto di illuminazione così come due ascensori, di cui uno collegato al sottopasso per accedere ai treni. Il cantiere, che ha preso il via lo scorso  novembre, proseguirà fino all’estate  per un investimento complessivo di circa  milioni di franchi.

Stazione

Progettisti

Durata lavori Inaugurazione

Investimento

Bellinzona

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maggio-dicembre 2016 36 milioni

Lugano

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5 anni

dicembre 2017

38 milioni

Locarno-Muralto Orsi & Associati, Lands e Spataro, Tecnoprogetti

1,5 anni

autunno 2019

12 milioni

Mendrisio

Massimo Marazzi

1,5 anni

dicembre 2021

5 milioni

Chiasso

Forni e Gueli, Studio Dazio

2 anni

giugno 2023

5 milioni


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SOCIETÀ

La città di Aurelio Galfetti In memoria

Il pensiero anticonformista dell’architetto scomparso lo scorso 5 dicembre

Alberto Caruso

Lio Galfetti era un grande maestro. Dava il meglio di sé quando aveva in mano la matita e raccontava agli studenti, con pochi segni espressivi sulla carta, i concetti insediativi che voleva comunicare. Guardava avanti, spiazzando le convinzioni più consolidate sulle opzioni in campo per trasformare il territorio compromesso dal disordine e dalla diffusione insediativa, escludendo dal suo pensiero ogni forma di nostalgia. La sua era una posizione radicalmente anticonformista. Riconosceva il territorio così configurato come «strato di fondazione» della nuova città. «La città diffusa (scriveva nel ) è il primo strato, quello che è stato costruito dove l’uomo non aveva mai costruito, è la prima occupazione di un territorio… Invece di proporre la tabula rasa, occorre rinnovare lo stesso processo che ha creato le nostre belle città storiche: un lavoro di continua trasformazione che sa leggere, negli spazi embrionali della città diffusa, la speranza di una città migliore». Gli architetti sono, per lo più, in preda ad una specie di schizofrenia, sosteneva ancora Galfetti, «per cui progettano e costruiscono la città diffusa, approfittano e vivono della libertà che questa città offre, ma nello stesso tempo non accettano la vera natura della città che loro stessi, tutti i giorni, costruiscono». La sua vera natura è di essere casuale, non progettata, e di ap-

parire brutta, indefinita, consumistica, ecologicamente sbagliata, inquietante, ma anche di essere aperta, ottimista, democratica, corrispondente al nostro tempo. È una città diversa perché diversi sono i valori che l’hanno costituita, a cominciare dal dominio culturale del mezzo di trasporto individuale, e dalla libertà che esso consente. Attenzione, non c’è alcun giustificazionismo nella riflessione di Galfetti. Al contrario il suo realismo ci indica la strada percorribile dalla disciplina urbanistica per riscattarsi dalla sconfitta completa subìta negli ultimi decenni. La strada di non rifiutare in blocco la condizione data, ma di partire da essa, di conoscerla come un sistema spaziale in via di formazione, in continua evoluzione, nel quale «ogni progetto parziale è un’occasione per trasformare il tutto». E sono gli spazi pubblici la chiave progettuale che Galfetti indicava per modificare l’attuale situazione. Gli spazi pubblici che distinguono la città storica (quel «grumo di materia più densa» nella galassia del territorio), che la rendono rassicurante e che mancano nella città diffusa. È falso, diceva, il luogo comune per cui la periferia sia uguale in ogni città ed in ogni regione, che sia il simbolo della modernità che avrebbe cancellato le identità locali. «In qualsiasi periferia mi dovessi trovare (scriveva Galfetti su «Archi» nel ), riconoscerei il paese, il paesaggio e la città a cui ap-

partiene… Permane sempre un legame tra centro e periferia, profondo e vitale, una relazione che connota chiaramente qualsiasi periferia in qualsiasi parte del mondo». La verità è che la città contemporanea nasce nella periferia, che «la periferia è il cantiere della nuova città». È il luogo della speranza, bisogna saperne cogliere i segni positivi per attribuirvi durata e spazio. La scuola, aggiungeva, è ancora inadeguata ai nuovi compiti, perché più spesso ospita una cultura urbanistica storicista: «tutti sanno cosa fare nei centri storici, pochi sanno progettare la periferia» senza mimetizzare nel verde lo svincolo autostradale, costruito unicamente con criteri viabilistici, oppure senza mimetizzare i ghetti produttivi, concepiti come mali necessari. La nuova città aperta ha bisogno di una dose massiccia di progettazione territoriale, di nuova cultura del territorio, di una poetica fondata sulle relazioni tra fatti urbani finora sconosciuti o considerati solo come funzionali. Non si tratta più di declinare extra moenia le regole insediative accumulate nel passato per la città storica, ma di affrontare un nuovo spazio disciplinare esteso, frammentato e ibrido, dove ricostruire regole e ordine, usando le vecchie regole come materiale da scomporre e ricomporre, per governare la nuova realtà senza perdersi nella sua dimensione inusitata.

Aurelio Galfetti con alcuni studenti durante una lezione (Ti-Press)

È una nuova vastissima dimensione, offerta da queste riflessioni a chi si occupa del territorio a tutte le scale. Ed è anche una sfida aperta a chi sostiene che il mestiere dell’architetto è destinato ad esaurirsi. Negli anni successivi a queste riflessioni, pensatori importanti come Rem Koolhaas hanno elaborato pensieri paralleli e assonanti con il suo. Le sue opere costruite sono una prova di formidabile coerenza con le sue riflessioni, a cominciare dal corag-

gioso progetto del Bagno di Bellinzona (- con Flora Ruchat e Ivo Trümpy), che è forse l’architettura più significativa di quella epica fase fondativa della modernità ticinese. Un’opera relativamente piccola, che dimostra la capacità dell’architettura di interpretare un luogo intessendo relazioni importanti per il destino di un territorio più vasto. L’intensa sensazione dell’umanità straordinariamente dolce e generosa di Lio Galfetti ci accompagna nel suo ricordo. Annuncio pubblicitario

Apertura straordinaria Domenica 19 dicembre

saranno aperti dalle ore 10:00 alle 18:00 i seguenti punti vendita MIGROS: Biasca – Arbedo-Castione – Bellinzona – Centro S. Antonino – Riazzino Locarno – Losone Do it + Garden – Taverne – Taverne Do it + Garden Pregassona – Lugano – Parco Commerciale Grancia Grancia Do it + Garden – Centro Agno – Centro Shopping Serfontana


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXIV 13 dicembre 2021

azione – Cooperativa Migros Ticino

SOCIETÀ

L’ipertensione è nemica del cuore Medicina

Conoscere la propria pressione arteriosa e le situazioni di rischio per tutelare la propria salute

Chi soffre di ipertensione ha probabilità da due a dieci volte maggiore di subire un ictus cerebrale, un infarto del miocardio o sviluppare un’insufficienza cardiaca. «Sono malattie che cambiano radicalmente l’esistenza e possono essere causa di importanti conseguenze fisiche o addirittura causare la morte». A parlarne è il professor Giovanni Pedrazzini, primario di cardiologia del Cardiocentro Ticino EOC (nella foto), il quale definisce la «pressione alta» come «una condizione persistente in cui i valori della pressione del sangue risultano elevati per rapporto ai parametri che sono definiti come normali dalla comunità scientifica». In realtà, la pressione sanguigna rappresenta «la forza con cui il sangue viene pompato dal cuore all’interno dei vasi e, nella paletta di valori considerati normali, può variare da persona a persona». Le variazioni di pressione sono pure fisiologiche durante l’arco della giornata e della vita: «L’organismo risponde fisiologicamente a certe situazioni come sforzi o stress (ndr: è abbastanza comune, ad esempio, l’aumento della pressione misurata dal medico e causata dal momento di agitazione, anche inconscia, definita «da camice bianco»). Ma se la media di più misurazioni indica valori pressori che restano alti, allora aumentano i rischi di malattie anche gravi». A complicare il tutto, il professor Pedrazzini sottolinea che accorgersi di essere ipertesi non è cosa semplice: «Non a caso, l’ipertensione è definita “killer silenzioso” perché non dà segni della sua presenza, salvo manifestarsi in tutta la sua gravità quando contribuisce a provocare quelle complicazioni gravi e temute, come infarto e ictus cerebrale». E intanto nell’organismo si produce un danno lento e progressivo: «Le arterie diventano più rigide e meno capaci di rispondere ai bisogni del corpo; si possono formare lesioni arteriosclerotiche, specie in presenza di ipercolesterolemia; rigidità e restringimenti dei vasi riducono l’apporto di sangue e ossigeno al cervello e il cuo-

Stefano Spinelli

Maria Grazia Buletti

re si affatica diventando sempre meno attivo». È facile immaginare che questa progressione aumenti notevolmente il rischio di infarto, ed è pertinente chiedersi come possiamo accorgerci per tempo di avere la pressione alta. «Tra  e  anni è consigliato un controllo generale dal medico di famiglia, nel quale si misurano anche i valori pressori, con particolare attenzione per quei pazienti che già presentano altri fattori di rischio, i quali, se associati all’ipertensione, possono aumentare in modo esponenziale i rischi delle conseguenze ipertensive». Parliamo di ipercolesterolemia, fumo di sigaretta, sovrappeso, diabete, per i quali la prevenzione rimane la chiave per evitare il peggio e preservare la propria salute: «È infatti possibile prevenire l’ipertensione e ridurne i valori senza ricorrere ai farmaci, almeno nelle forme più leggere: basta seguire qualche semplice regola come non essere sedentari a favore di un movimento regolare, insieme a tutte quelle regole di igiene di vita che contribuiscono a preservare la salute:

non fumare, non eccedere a tavola e via dicendo». La natura dilagante dell’ipertensione giustifica infatti ampiamente l’accento sulla prevenzione: «Si stima che il - per cento della popolazione sia ipertesa, percentuale che sale ad almeno - per cento se si considerano le persone oltre i  anni». Questo anche perché l’ipertensione fa comunque «parte del processo di invecchiamento del nostro organismo». Quando, per contro, si manifesta in età più giovane, vanno ricercate le cause di quella che allora è definita ipertensione secondaria: «Parliamo della ricerca di eventuali problemi endocrini, alle arterie renali o di altra natura come patologie ormonali (sindrome di Cushing, ipertireosi, malattie endocrine…): tutte patologie che possono essere associate alla comparsa della pressione alta». È pure importante ricordarsi che nella donna può verificarsi la sindrome metabolica: «Parliamo di donne in età post menopausa, in sovrappeso, che in virtù di ciò tendono a sviluppare ipertensione, resistenza all’insu-

lina (diabete tipo ), che a loro volta accentuano il rischio cardiovascolare». È quindi buona regola che tutti conoscano i valori della propria pressione arteriosa, ed è pure importante aderire alle sporadiche iniziative in cui si invita la popolazione a farsela misurare: «Si riesce a individuare molto più precocemente se misurata dal medico di famiglia ad ogni visita, e se ci si abituasse a misurarla a casa di tanto in tanto». Dunque, spesso chi è iperteso non lo sa, ma d’altronde, anche se lo sa, non sempre si cura a dovere: «La persona ipertesa tende a sottostimarne i rischi, si sente relativamente bene, spesso accetta di malavoglia una terapia di durata indefinita di cui sovente vede solo gli effetti negativi e dopo un po’ smette di assumere i farmaci che andrebbero invece assunti per sempre». Infatti, il cardiologo spiega che dall’ipertensione non si guarisce, ma si può fare molto per tenerla controllata in modo da non permetterle di causare quei danni ben più gravi di cui si è parlato: «Abbiamo a disposizione un’ampia varietà di farma-

ci, prescrivibili in modo individuale: diuretici, beta-bloccanti, ACE-inibitori, Calcio antagonisti, e via dicendo, senza dimenticare che la pressione segue il ritmo delle stagioni: in estate, con il caldo, può calare, ma ciò non significa che si possano eliminare le cure e, se sorgono dubbi, prima di prendere iniziative bisogna sempre consultare il medico». Ci sono speranze anche per la minoranza di pazienti resistenti alle terapie: «La farmacologia sta studiando soluzioni alternative, ma la maggior parte dei fallimenti terapeutici dipende dalla scarsa aderenza alle cure. In certi casi, se la terapia farmacologica non fosse sufficiente, si considera la cosiddetta denervazione renale: un intervento percutaneo che ha come obiettivo di modulare, mediante ablazione, la risposta del sistema simpatico a livello delle arterie renali e, di conseguenza, portare a un abbassamento stabile dei valori di pressione». Per migliorare le cure, in Ticino si sta costituendo un Gruppo cantonale di lavoro interdisciplinare dell’ipertensione, composto da cardiologi insieme a nefrologi, internisti e pediatri. «Il Ticino dispone di un Label di qualità come centro di eccellenza per l’ipertensione», conclude Pedrazzini, ribadendo che è molto più diffusa di quanto possiamo pensare, in genere non dà sintomi, non è una malattia ma aumenta notevolmente il rischio di ammalarsi: «Molti ipertesi non sanno di esserlo, o non si curano adeguatamente». Eppure, uno stile di vita sano e farmaci efficaci possono scongiurare un danno davvero grave e talvolta inesorabile. Mercoledì  dicembre, alle . sarà possibile seguire una conferenza pubblica virtuale sul tema. Qui si potranno porre domande a due specialisti, il professor Giovanni Pedrazzini (primario cardiologia Cardiocentro Ticino EOC) e la dottoressa Francesca Scopigni (Caposervizio). Informazioni Le coordinate per accedere al Webinar si trovano seguendo questo link: https://bit.ly/32Xpmc7

Viale dei ciliegi Elisa Puricelli Guerra Il segreto del bosco Einaudi Ragazzi. (Da 8 anni)

I genitori di Priscilla «non celebrano il Natale». Ma il Natale, volenti o nolenti, ci costringe a fare i conti, se non con le celebrazioni, almeno con la famiglia, e le sue storie. Priscilla trascorre il Natale nella casa di campagna ereditata da una prozia, tutto è vecchio, impolverato, malandato. La vacanza si prospetta solitaria, noiosa e triste, ma ecco che il passato, o meglio un capitolo del romanzo famigliare passato, fa capolino da uno strappo del materasso di Priscilla. C’è una lettera misteriosa, affrancata con un francobollo delle Poste Polari, un po’ come le meravigliose lettere di Babbo Natale che Tolkien scriveva ai suoi figli. E se non le conoscete ve le consiglio caldamente: Lettere da Babbo Natale, pubblicate in italiano da Bompiani. In questo racconto chi firma le lettere è invece «Il Lupo». Il Lupo si rivolge al «Corvo» («questo sarà il tuo nome d’ora in poi, ti piace?»), e si intuisce

di Letizia Bolzani

che tra i due si è instaurata un’amicizia speciale. Chi sono il Lupo e il Corvo? A Priscilla il compito di scoprirlo, e di scoprirsi parte di una storia familiare che continua. E se la magia del Natale non dura per sempre, perché «non esiste per sempre al di fuori dei libri», si può forse provare a crederci comunque, perché l’amore ha una sua dimensione infinita. Ed è bello scoprirsi protagonisti del proprio romanzo famigliare, proiettati verso il futuro, ma anche ripercorrerne il filo verso il passato, verso i Natali passati, nei quali, persino se ci

sembra strano, anche i propri genitori sono stati ragazzi. Un racconto di Natale di Elisa Puricelli Guerra, valorizzato dalle belle illustrazioni di Angelo Ruta. Roberta Balestrucci Fancellu – Alice Coppini Il grande libro degli autobus Sinnos. (Da 8 anni)

Bus. Una parola comunissima, usatissima. Ecco il bus, prendi il bus, aspetto il bus, riservato al bus... Una parola che anche i bambini più piccoli conoscono, una parola internazionale. Ma perché si dice bus? Abbiamo mai pensato da dove derivano queste tre lettere? È interessante rendersi conto che sono le ultime tre lettere del termine latino omnibus, «per tutti». Un veicolo, il bus, che quindi ha (o dovrebbe avere, come ci insegna Rosa Parks) una radice democratica. Si cominciò con gli omnibus propriamente detti, alla fine del Seicento, che erano carrozze trainate dai cavalli, e quando il motore sostituì i cavalli ecco gli autobus (e poi, certo, i filobus, ma non se

i chilometri da percorrere sono tanti). È un veicolo interessante, l’autobus, perché la sua evoluzione e le sue tipologie nelle varie zone del mondo hanno molto da dirci sui vari contesti storici e sociali dell’umanità negli ultimi cent’anni. Questo libro appena uscito da Sinnos è un albo illustrato di grande formato che presenta ai lettori tanti celebri modelli di autobus, inserendoli – grazie ai testi brevi ma precisi di Roberta Balestrucci Fancellu e alle suggestive immagini, ben dosate tra realismo ed evocazione narrativa, di Alice Coppini – nei loro rispettivi

contesti geostorici. Dal Doubledecker inglese, progettato nel , per il trasporto urbano; ai robusti Citroën Type per le lunghe percorrenze; al Renault AGP, perfetto per attraversare i deserti; fino ai gialli Scuolabus, o ai variopinti Ford Chiva, tipici della Colombia, o ai Greyhound, amati dalla generazione on the road del dopoguerra negli Stati Uniti, i modelli raccontati sono tanti. Alcuni raccontano storie allegre, o curiose, altri più cupe, come il Reichsbahn LO, che sfrecciava come simbolo di propaganda nazista sulla moderna rete autostradale del Terzo Reich. Un albo che, nonostante appartenga al genere «mezzi di trasporto illustrati» non è adatto a lettori piccolissimi ma a ragazzini un po’ più grandi, proprio per le interessanti connessioni storiche e culturali che si possono stabilire. Dopo Il grande libro dei treni di Mattia De Leeuw e dopo Il grande libro delle Navi (che ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti), l’editore Sinnos propone ora uno sguardo sull’affascinante (l’avreste mai detto?) mondo degli autobus.


Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXIV 13 dicembre 2021

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azione – Cooperativa Migros Ticino

SOCIETÀ

Ci sarà una votazione generale sulla vendita di alcolici

Calicantus di Natale

Federazione Cooperative Migros Gli organi competenti delle dieci cooperative regionali intendono interpellare i soci e le socie nel giugno 2022 ◆

Gli oltre , milioni di membri della Comunità Migros potranno decidere in merito alla questione della vendita di bevande alcoliche nelle filiali Migros. Lo hanno stabilito i competenti organi delle dieci cooperative regionali. Nel mese di giugno  intendono interpellare al riguardo i soci e le socie in una votazione generale. Per chiarire la questione della vendita di alcolici nelle filiali Migros, gli organi regionali hanno compiuto un ulteriore passo democratico. In tutte le dieci cooperative Migros, i consigli di amministrazione e i Consigli di cooperativa hanno stabilito che i soci della loro cooperativa decideranno in merito alla revoca o al mantenimento del divieto di vendere alcolici. In tal modo hanno aperto la via alle relative votazioni generali che si terranno presumibilmente nel mese di giugno . Gli oltre , milioni di soci e socie della Comunità Migros hanno dunque la possibilità di giudicare in merito alla questione degli alcolici. Nelle cooperative in cui una maggioranza di almeno i due terzi dei votanti desiderano revocare il divieto, la birra, il vino e i superalcolici potrebbero entrare nell’assortimento delle filiali Migros a partire dal . «I soci di ogni singola cooperativa decideranno dunque in via definitiva circa la possibilità per le filiali Migros

La codecisione democratica è una caratteristica unica per un’azienda in Svizzera.

del loro bacino d’utenza di vendere bevande alcoliche in futuro», spiega Ursula Nold, presidente del Consiglio di amministrazione della Federazione delle cooperative Migros. «Sono sicura che ci saranno intense discussioni con argomenti a favore e contrari. Una cosa è però chiara già fin d’ora: questo tipo di codecisione democratica è un unicum per un’azienda in Svizzera.» E corrisponde al desiderio del fondatore della Migros, Gott-

lieb Duttweiler, che ha creato questa struttura democratica. Il processo democratico ebbe inizio da subito. Da allora la vendita di alcolici è sempre stata oggetto di accese discussioni. Il recente dibattito è stato lanciato da cinque membri dell’Assemblea dei delegati della Federazione delle cooperative Migros (FCM). E il  novembre , con  voti a favore e  contrari, l’Assemblea dei delegati della FCM ha stabilito che le coope-

rative regionali decideranno in merito all’organizzazione di una votazione generale dei loro soci. Negli ultimi giorni, le Amministrazioni regionali e i Consigli di cooperativa hanno dato il via libera alla votazione generale. Il Consiglio di cooperativa rappresenta nei confronti dell’Amministrazione e della Direzione generale gli interessi dei soci e delle socie della rispettiva area economica.

Biglietti in palio ◆ Il coro locarnese in concerto il 19 dicembre Dopo la pausa obbligata dello scorso anno, il Coro Calicantus di Locarno proporrà il prossimo  dicembre il suo consueto appuntamento natalizio con il pubblico. Nella chiesa di San Francesco a Locarno di esibiranno dalle ore . tutti i cori della scuola. Ai lettori di «Azione» sono riservati alcuni biglietti per l’occasione. Per partecipare all'estrazione seguite le istruzioni nella pagina web www. azione.ch/concorsi. Nell’attesa, si può dare un’orecchio al bellissimo omaggio del coro a Freddy Mercury, all’indirizzo youtu.be/frKdzFtJtM

Il concerto è sostenuto dal Percento culturale di MigrosTicino.

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXIV 13 dicembre 2021

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azione – Cooperativa Migros Ticino

SOCIETÀ ●

L’altropologo

di Cesare Poppi

Il Gran Rifiuto, anzi due ◆

Dall’occhiuto osservatorio storico del vostro Altropologo preferito si intravvedono oggi due eventi simili e complementari, ma di segno contrario. Per quelle ironie che la Storia storieggiata si diverte a confezionare, si tratta di due casi di quello che il sommo Dante chiamerà il Gran Rifiuto, e che costerà la condanna eterna nella Commedia ad almeno due dei suoi protagonisti. L’altro Gran Rifiuto accadde, diciamo per fortuna, fuori tiro delle ire del Fiorentino che al tempo era già morto da due buoni secoli sennò, visti i precedenti, sarebbe stata una strage di condanne urbi et orbi. Una data fatidica il  dicembre: nel  Papa Celestino V, poi San Celestino da Morrone, rassegnava le dimissioni e si ritirava in montagna a vita eremitica che gli avrebbe aperto le porte alla santità. Nel  si apriva invece il Concilio di Trento che avrebbe chiuso le porte alla Rifor-

ma e – a detta di molti – rallentato, nel bene o nel male, la marcia della modernità. «Basta, non se ne può più! Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo io propongo di eleggere Papa Pietro da Morrone, e facciamola finita!». Così un esasperato Decano del Collegio Cardinalizio, tale Latino Malabranca (nomen omen: sarà il nome di uno dei diavoli che tormentano i dannati nell’Inferno dantesco), dopo mesi di trattative inconcludenti per eleggere il nuovo pontefice. Fra le mani agitava una lettera del monaco eremita Pietro che esortava i Cardinali a dare alla Chiesa finalmente una guida, pena divini sfracelli contro l’incompetente inanità del Collegio. Pietro da Morrone era al tempo all’apice della sua popolarità di asceta in odore di santità. Nonostante i divieti, aveva fondato un suo ordine con sessanta monasteri e seicento monaci. I pel-

legrini lo braccavano su per le balze della Maiella di grotta in grotta dove si nascondeva per una benedizione e una preghiera. E lui su, sempre più su e ancora più in alto quando seppe che lo cercavano per portarlo a Roma a fare il Papa. A Roma non sarebbe mai arrivato. Confuso dagli intrighi di curia ed imbelle contro un Impero prepotente, si rese presto conto di non essere tagliato per quel mestiere. In consulta col Cardinale Benedetto Caetani (altro nomen omen per i secoli a venire) riuscì perlomeno ad imporre un decreto che rendeva possibile al Pontefice dare le dimissioni, evento fino ad allora fuori discussione. Caetani, grande intrigone opportunista, gli dette una spintarella. E così arrivarono le dimissioni. Il  dicembre  dopo soli cinque mesi e otto giorni sulla cattedra di Pietro, Celestino scriveva: «… per il desiderio di umiltà, di una vita

più pura, di una coscienza immacolata, per le deficienze della mia forza fisica, la mia ignoranza, la perversità della gente ed il desiderio di tornare alla tranquillità della mia vita precedente». Benedetto Caetani gli successe come Bonifacio VIII. Entrambe si sarebbero ritrovati nell’Inferno di Dante: l’uno per la «viltà» che lo spinse alla fuga, l’altro per una lunga lista di malefatte: speculino pure gli scaltri lettori dell’Altropologo. Se Pietro peccò per viltà, i Concilianti di Trento due secoli e rotti dopo peccarono per sicumera e forse anche paura. Archiviata con verdetto di condanna e non senza strascichi e perplessità la vicenda di Maometto e dell’Islam per secoli in odore di eresia cristiana – e dunque recuperabile e consumatosi finalmente lo scisma con le Chiese d’Oriente col Concilio di Firenze del  – stavolta toccò al movi-

mento della Riforma andare a sbattere contro la tetragona inflessibilità di un establishment deciso a difendere fino alle estreme conseguenze un’ortodossia che, peraltro, veniva costruendosi più per reazione alle azioni e proposte altrui che per interna coesione. Molte ed autorevoli saranno le voci cardinalizie – primo fra tutti il giurista bolognese Cardinale Gabriele Paleotti – che non solo consigliavano prudenza nel condannare in toto le proposte della crescente, burrascosa e vivace galassia riformata, ma addirittura ne coglievano gli aspetti salutari per una Chiesa al passo coi tempi che stavano cambiando. Ma tanto tuonò che piovve: il  dicembre  si inaugurò il Concilio del Gran Rifiuto non solo della lettera delle Tesi Luterane, ma anche dello spirito di un mondo in cambiamento. Le conseguenze? Troppo presto per dirlo.

La stanza del dialogo

di Silvia Vegetti Finzi

La separazione e il calcolo delle conseguenze ◆

Cara Silvia, mi aspetta un Natale bruttissimo e bellissimo, non so. Eppure l’incertezza non dovrebbe caratterizzare la mia età, cinquantacinque anni. Sono sempre stata, fin da piccola, una persona decisa, che sapeva quel che voleva. Professionalmente posso dirmi riuscita, sentimentalmente non riesco a darmi un voto. Ma il fatto è che non ci costruiamo da soli, molto incidono le persone che ci sono accanto e i miei genitori, la loro relazione di coppia, è stata fondamentale. Me ne accorgo ora che sto vivendo la loro storia a parti inverse. Era una domenica, poco prima di Natale, quando papà e mamma convocarono me e mio fratello per comunicarci che papà aveva un’altra donna e sarebbe andato a vivere con lei. Seguirono anni difficili finché trovai l’uomo che credevo giusto per me: serio, affidabile, prevedibile e rassicurante; insieme abbiamo cresciuto due figli. Ma la vita è bizzarra e si diverte a prendersi

gioco di noi, tanto che ora mi trovo dove non avrei mai voluto essere, nella posizione di mio padre e, come lui, mi preparo a dire al mio coniuge: «ti voglio bene ma amo un altro, mi dispiace ma me ne vado». Rispetto a mio marito l’altro è davvero «un altro» ma in proposito non mi dilungo. Vorrei soltanto la tua comprensione. Grazie. Marilena Cara Marilena, dalla tua lettera mi sembra di capire che il marito troppo buono, destinato a placare la delusione sofferta dall’abbandono del padre, ti ha annoiata e sei ancora abbastanza giovane per desiderare l’amore, non una tisana, ma la passione che fa battere il cuore, buttare all’aria l’esistente, osare il tutto per tutto. Quello che manca al sogno è però il calcolo delle conseguenze: il dolore che potrebbe provocare la sua realiz-

zazione. Come ho potuto constatare leggendo le  lettere di figli di genitori separati, condensate nel libro Quando i genitori si dividono: le emozioni dei figli, Oscar Mondadori, nel momento caldo del conflitto coniugale i figli vengono spesso dimenticati. Eppure la separazione li coinvolge, incrina la loro sicurezza, minaccia la loro crescita. L’abbandono del genitore costituisce per te una ferita aperta e, mentre tuo marito avrebbe dovuto colmarne la mancanza, ora sei tu che cerchi di prendere il posto di tuo padre per sentirti parte vincente in una partita, lontana nel tempo ma attuale nella mente. L’inconscio non smette mai di sollecitarci a passare dalla posizione passiva, di chi ha subito un’aggressione, a quella attiva di chi l’aggressione la infligge. Ma nei momenti decisivi della vita è necessario sottrarci alle ingerenze dell’inconscio e, prendendo

in esame la nostra storia, comprendere da dove veniamo e dove stiamo andando. Nel tuo caso, cara Marilena, temo che il regista occulto delle scelte sia tuo padre, un padre idealizzato che ti ha deluso e non sei mai riuscita a perdonare. Non voglio con ciò convincerti a rimanere accanto a un marito che non stimi più ma di considerare che forse neppure l’alternativa va bene. Definire un amante che ti chiede di lasciare la famiglia e vivere insieme, semplicemente «altro» m’induce a pensare non sia tanto una persona reale quanto una figura immaginaria, evocata dalla delusione provocata dal padre prima, dal marito poi. Nonostante tante ambivalenze, ti capisco perché tutti viviamo in più dimensioni, difficili da conciliare: la vita interiore e quella esteriore; desiderio e realtà; soffrire e far soffrire. Poiché esporre e condividere ragio-

ni e passioni serve a comprenderle, ti consiglio di parlarne con una persona di fiducia, non necessariamente un professionista. In un certo senso questo bisogno l’hai già espresso scrivendo alla Stanza del dialogo, uno spazio d’incontro dove lettori partecipi e obiettivi possono aiutarti a calare il sipario sul passato e a ripartire non da ieri, ma da oggi. In ogni caso, qualunque decisione tu prenda, cara Marilena, tutti insieme auguriamo a te e alla tua famiglia un Natale migliore di quello che anni fa ha ferito la tua adolescenza. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi

di Luciana Caglio

I «300» e noialtri: distanze ravvicinate ◆

A prima vista, l’affermazione sembra paradossale. Mentre la nostra quotidianità, pubblica e privata, è sotto l’urto di minacce, recessioni, timori, aggravati dalla pandemia, le cifre, pubblicate da «Bilanz», edizione dorata di dicembre, propongono una smentita: clamorosa. Questo maledetto , per i più ricchi si chiude, infatti, all’insegna di un record finanziario senza precedenti:  miliardi di franchi (più  miliardi). Niente di campato in aria. Con l’abituale pacatezza, il direttore Dirk Schütz, commenta una situazione che, in pratica, evolve ormai da decenni sul filo della continuità. E che è frutto di un’imprenditorialità che sa restare nel solco della tradizione senza timore di innovare. Per fare un esempio a noi vicino, ecco che recentemente anche Hedy Graber, responsabile del settore socio-cultura-

le Migros, ribadisce la fedeltà della Cooperativa alla tradizione che l’ha contrassegnata fin dalla nascita. Tradizione e rinnovamento: le due facce di una realtà imprenditoriale, raccontata da «Bilanz». Una storia di alterni successi, cambiamenti, di cui i tre fratelli Kamprad, «gli Ikea», rimangono il simbolo. Fatturato da - miliardi di franchi, e pienamente identificati con lo stile di prodotti riconoscibili sul piano mondiale. E loro stessi interpreti di una semplicità funzionale: jeans, T-shirt, abitudini spontanee che si prestano a facili ironie, per le serie ricchi-tirchi. Del resto già papà Ingvar aveva trasferito parte dei suoi capitali in Liechtenstein e Belgio, fiscalmente più accoglienti. Certo le figure di spicco sul fronte finanziario – imprenditoriale sono quelle di sempre. I tre Kamprad, gli

Hoffmann-La Roche, i Blocher. E qui s’innesta il filone politico, che, al di là delle discusse decisioni imposte dal Covid, sta perdendo seguito e impatto. Fenomeno, del resto, che si manifesta, in forme e dimensioni diverse, sul piano mondiale. Destra e sinistra: concetti sempre più lontani dalla comprensione e dalle aspettative popolari. I risultati anche di casa nostra la dicono lunga. Captare le esigenze di oggi, che si parli di digitalizzazione, tecnologia, social media, ecc., diventa sempre più arduo ma indispensabile, per poter affrontare le nuove necessità. C’è un mondo che sta cambiando e ci sfugge di mano. Ed è in questa sfera che capitalismo e statalismo, insomma ricchi e poveri, sono chiamati a darsi da fare. Non che i sindacati non servano, l’intero sistema sia destinato ai ferri vecchi. Si tratta di adegua-

re questi strumenti e, non da ultimo, le mentalità e la cultura. In concreto «Bilanz» corre ai ripari. Su una doppia pagina a colori racconta una vecchia storia: in continua mutazione, la ricchezza che s’insegue, si crea, si demonizza attraverso i secoli. Da Creso, Cesare, Guglielmo il Conquistatore, Gengis Khan, i Medici ai più recenti Vanderbilt, Carnegie, Ford, i grandi del periodo dell’industrializzazione, fino ad Elon Musk, simbolo di un capitalismo di nuova generazione, attento all’ambiente. C’è, non da ultimo, l’aspetto «sogno della ricchezza», abbinato al lusso. Ne dà la giusta definizione «Bilanz»: «Nessuno ne ha bisogno, tutti lo desiderano». Infine, con «Bilanz», i super ricchi si trovano ad affrontare il tribunale dell’opinione popolare, dove la conoscenza personale e la simpatia so-

no decisivi. Non posso che assolvere Tito Tettamanti, amico d’infanzia, imprenditore attento alla cultura e, adesso, opinionista che non pontifica ma sa anche sorridere. Arte, quest’ultima, assai in ribasso, in un periodo in cui domina il prendersi troppo sul serio. Ma il top della simpatia spetta a Roger Federer, icona che giustifica il patriottismo. Sui campi da tennis si veda sempre meno, ma per gli svizzeri resta un’icona. La sua immagine di super ricco non lo danneggia, anzi. I motivi sono molteplici: il suo fare spontaneo, l’eleganza (sul campo e fuori), la famiglia, l’assenza di scandali e comportamenti negativi, il coinvolgimento in attività benefiche. Nell’epoca pre-Covid questi giudizi trovavano spazio in un rito spontaneo, di confronto, che si svolgeva nell’ambiente vissuto di un’edicola pubblica.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXIV 13 dicembre 2021

TEMPO LIBERO Uno spazio cittadino raro Sabbioneta, la città realizzata secondo i canoni rinascimentali dell’urbanistica ideale

Delicata crema di mais Una ghiottoneria servita con una burratina su una baguette croccante guarnita dal crescione

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azione – Cooperativa Migros Ticino 17

I murales di Washington L'arte di strada è stata a lungo l’unica possibilità per molti di far sentire la propria voce

Chi vincerà la grande sfida? Dal 24 novembre al 16 dicembre Expo Dubai ospita il campionato mondiale del gioco degli scacchi

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Che cosa fai quando perdi il tuo alfiere? Editoria

Da poco in libreria la nuova opera di Ivano Porpora: Un re non muore – corso letterario di scacchi

Manuela Mazzi

«Questo non è un libro di teoria degli scacchi». Lo afferma lo stesso autore, Ivano Porpora, a pagina  del saggio intitolato Un re non muore – corso letterario di scacchi edito da Utet, da poco in libreria. E – aggiunge qualche pagina più avanti – non è nemmeno «un trattato di logica combinatoria, questo, ma un romanzo sul mondo […] gli scacchi sono una sorta di fisica della vita, un riassunto formale di regole sostanziali, e quello che accade nella vita in maniera disordinata negli scacchi viene riassunto in un codice». Non si potrebbe dirlo in un modo migliore. Questo saggio letterario, proposto al pari di un corso di scacchi, gioca molto sulla metafora, scantonando a ogni riga la similitudine, per dire che l’arte delle sessantaquattro case non è come la vita, ma è la vita, e di conseguenza la vita è la messa in gioco di una partita di pedoni e torri, alfieri e re, di cavalli e regine: «Io non amo gli scacchi: io penso come gli scacchi», scrive Porpora. Sottotraccia, si percepisce il periodo covidiano degli ultimi due anni, che ha visto l’autore trasferirsi da una provincia alla grande città, in quella Milano ormai orfana della movida, e in una casa per lui nuova, dove sentirsi soli dev’essere stato più inevitabile che altrove. L’appartamento si trova al quarto piano, e l’uomo sembra esser-

si portato poche cose, la scacchiera sì, ma non i pezzi ché erano di plastica, come certi pezzi di vita, sembra dire: «È come quando un giorno traslochi e decidi dove andare – e dove non vorrai stare più –, cosa vuoi portare con te, cosa lasciare in quella casa che da domani non chiamerai più casa». Forte, il sistema di immagini legato alle case, reali o del gioco, bianche o nere, che esse siano. Ed è così che, l’uomo, cioè il pedone perso in un luogo non suo («gli scacchi non sono solo un gioco di pezzi ma di territorio»), vaga in cerca di una cornice che lo contenga («Giriamo intorno alle cose del mondo che non riusciamo a capire. […] un vagare mossa dopo mossa alla ricerca della verità»), sì, una cornice che delimiti gli spazi nei quali sentirsi al sicuro, dove poter liberare il dolore senza che il re finisca matto, per, in definitiva, cercare una forma di salvezza all’interno di un mondo finito e composto da regole e precetti, grazie ai quali sapere come muovere, pur restando consapevoli del fatto che «…una mossa […] può essere giusta, o vera; poche volte entrambe le cose». La perdita e alienazione (un re non muore, semmai si perde, impazzisce, ed è scacco matto) sono di fatto due temi presenti: «Ogni giocatore, se gioca a scacchi – intendo: se lo fa davve-

ro –, non può che aver chiaro in testa, in qualche modo, questo concetto di morte o follia; ogni giocatore sa la prima cosa che viene insegnata a qualsiasi novizio nel mondo: perdere. […] Ma quante persone come me hanno trovato negli scacchi rifugio, accoglimento, un modo per incasellare in regole, precetti, criteri e alfieri di colore opposto le spinte eterogenee della vita?» Così l’uomo, ma anche lo scrittore che davanti a una scacchiera alla quale mancano i pezzi, gli pare di avere che fare con un foglio bianco… Due i pezzi più importanti che mancano al narratore, e tra questi non c’è il re, che è sì il più importante, ma non il più potente, caratteristica attribuita invece alla donna; il primo pezzo assente. L’altro pezzo che manca, ed è forse il più significativo, è invece il padre: «Sono dovuto passare per la morte di mio padre. È durissima ammetterlo, ma gli scacchi ti dicono, e non è un precetto, che il re sulla scacchiera è l’unico pezzo che non può mai mancare: senza re non c’è gioco. E se, quindi, si continua a giocare nonostante quello che è venuto a mancare sia il re, be’, semplicemente vuol dire che re non era» scrive a pagina , aggiungendo venti pagine dopo, che «Se fosse stato di legno (suo padre, ndr), sarebbe stato un alfiere, il suo cammino lungo la casa sarebbe stato di solidi

toc: conosceva solo un colore, lo percorreva veloce in diagonale per tutti i punti della scacchiera. Poi, la sua improvvisa tenerezza lo portava di là, sull’altro colore: e quanta delicatezza suscitano le persone che credi girino solo per mezza scacchiera e invece, d’incanto, te le trovi di là». Scaturisce da queste pagine anche una concatenazione di domande e sentenze, che spaziano dalle riflessioni intimistiche, e talvolta mistico religiose (basti pensare alla «mossa di Dio»), a quelle più esistenziali e filosofiche, per finire in un citazionismo forse un po’ debordante con rimandi bibliografici, storici, metaletterari, filmici:  le opere letterarie consultate, e altrettante probabilmente quelle solo menzionate;  le opere cinematografiche, secondo la filmografia; innumerevoli, le partite entrate nell’albo mitico universale, quelle che hanno reso maestri di grande ingegno, i giocatori più creativi e coraggiosi. Manca solo, giocoforza, il nome del campione che vincerà la competizione in corso proprio in questi giorni (v. pag. , l’articolo firmato da Claudio Visentin). Potere, desiderio, pulsioni, strategia, nella vita come nel gioco. Questo libro lo è, è davvero un corso di scacchi. Forse il più complicato che si potesse ideare, perché non cerca di

spiegarne le regole, ma tende a ispirare strategie comportamentali, stimola un’andatura, promuove uno sguardo, dando indicazioni apparentemente generiche che mostrino l’infinità di strade, più che una meta: «Mi chiedevano: “Ma davvero, di cosa vuoi parlare?”. E io raccontavo di storie fumose, questo, quello, quell’altro; e poi dissi: “Ci sarebbe il desperado…”. È il triste destino di un appassionato, cercare di scontornare con le parole, o almeno cogliere con una sorta di brivido ribelle, la bellezza febbrile di ciò che ama per poterla restituire anche solo in un barlume, solo nello svelamento fugace di un capezzolo, nell’ombra di un orlo, in un riflesso che sfugge; e poi restare così, con le dita per aria, a tratteggiare un disegno che inevitabilmente vedrà solo lui, nessun altro». E a questo punto ci vorremmo soffermare ancora a lungo sulla figura del desperado, ma abbiamo finito lo spazio. E come spiega il Porpora nel suo libro: «a volte, quando ti sporgi sull’orlo del precipizio, essere una mossa avanti significa cadere». Quindi ci fermiamo qui, noi. Bibliografia: Ivano Porpora, Un re non muore – corso letterario di scacchi, Utet, Milano, 2021


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Sabbioneta, la città ideale del Rinascimento Itinerario

Edificata da Vespasiano Gonzaga nel XVI secolo, dal 2008 è patrimonio Unesco assieme a Mantova

Tommaso Stiano, testo e fotografie

Nel bel mezzo della Pianura Padana tappezzata di campi multicolori, al centro del triangolo Cremona-Parma-Mantova, poco lontana dal Po, si trova la mantovana Sabbioneta, località elevata nel  a «città» dal presidente della Repubblica italiana per meriti storico-culturali. È uno di quei luoghi di cui si sa poco o nulla, eppure appartiene al circuito dei «Borghi più belli d’Italia» e dal , assieme a Mantova, si trova nell’elenco del Patrimonio mondiale Unesco.

Da anonimo villaggio medievale sulla pianura alluvionale della Bassa Padana ad archetipo di organizzazione urbana perfetta, simbolo di una corte europea all’avanguardia La fama di Sabbioneta deriva dalla sua storia singolare perché è uno dei pochissimi esiti concreti, sia pure imperfetto, di «città ideale». Va ricordato che il Rinascimento italiano (XIV-XVI secolo) riprese le fila della cultura classica (greco-romana) che studiò a fondo per riproporne i principi basilari in ogni campo dello scibile umano, e dunque anche nella pianificazione urbanistica (il nostro piano regolatore) che prevedeva uno spazio a misura d’uomo, una «città ideale»,

Piazza Ducale e sul fondo Palazzo Grande/Ducale, simbolo rinascimentale del potere politico. Nella pagina di fianco, in senso orario: la Cavalcata con il duca Vespasiano Gonzaga in primo piano accompagnato da parenti; il palcoscenico delTeatro Olimpico con il fondale ligneo fisso; L’imponenza della Galleria degli Antichi, un tempo sede espositiva dei marmi del Duca.

per l’appunto, con infrastrutture funzionali, ordinate, esteticamente belle (classicheggianti), un buon governo e una comunità autosufficiente. Sabbioneta è stata realizzata quasi ex novo tra il  e il  da Vespasiano Gonzaga Colonna (-), cugino dei duchi di Mantova, condottiero, letterato, architetto milita-

re e mecenate, seguace della filosofia umanistica che poneva al centro la persona e il suo agire. Seguendo le direttive teoriche fiorite nel Quattro-Cinquecento su come doveva essere uno spazio urbano per il bene dei suoi abitanti e governanti, il Gonzaga fece edificare palazzi di rappresentanza, residenze per i nuovi ceti socia-

li, chiese, fortificazioni, luoghi d’arte, strade e piazze dove la «commedia umana» potesse andare in scena ad ogni ora del giorno. In quasi quarant’anni, il feudo, che aveva ereditato e che fu elevato a Ducato nel  dall’imperatore suo amico d’infanzia, prese le sembianze di una città-Stato come descritta nei libri di speculazio-

ne; è questo il motivo essenziale che ha spinto l’Unesco a cooptarla nel patrimonio culturale universale. È dunque la città ideale incarnata. Come presso i Romani, il tessuto urbano canonico si sviluppa attorno a una piazza centrale, a Sabbioneta Piazza Ducale, che favorisce le interazioni sociali sia nel tempo lavorativo sia nel tempo libero. Sul perimetro di questo spazio aperto si concentrano in modo funzionale gli edifici del potere politico-amministrativo, Palazzo Ducale (o Grande), e quelli di culto, la chiesa dell’Assunta, nonché le varie botteghe con le attività commerciali. L’aspirazione ad assetti urbanistici ideali aveva come unità di misura l’uomo (di lì il termine «umanesimo»), pertanto il sistema viario più pratico era ortogonale e dall’agorà principale partivano viali, vie e viuzze che portavano ad altre piazze e alle dimore private. Anche a Sabbioneta le strade seguono uno schema simmetrico a griglia con una via principale di seicento metri – oggi dedicata a Vespasiano Gonzaga – che collega i due antichi ingressi, Porta Imperiale a sud-est e Porta Vittoria a nord-ovest. Tutto attorno al piccolo agglomerato corre una cinta muraria a forma di esagono irregolare con sei bastioni, terrapieni, fossato e baluardi (solo in parte visitabili) voluta dal Gonzaga come sistema difensivo contro i moderni colpi d’artiglieria. Annuncio pubblicitario

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Entriamo in città dalla fermata del bus nei pressi della massiccia Porta Imperiale () che reca un cartiglio sormontato dallo stemma di Vespasiano e ci dirigiamo verso la piazza principale con il Palazzo Ducale che esploriamo. Era la residenza ufficiale dei governatori del piccolo Stato di Sabbioneta e al primo piano incontriamo proprio lui, il Duca fondatore, sul suo destriero tra i parenti della Cavalcata, quattro statue equestri a grandezza naturale bardate e armate sotto il maestoso soffitto ligneo della Sala delle Aquile. Nella residenza rinascimentale sono da ammirare i bei soffitti dei vari ambienti signorili, ma di spettacolare fascino e fattura sono gli abiti della mostra temporanea Lo sfarzo dei Gonzaga a Sabbioneta (fino al  giugno ). Alle spalle del Palazzo, si erge la chiesa ottagonale della Vergine Incoronata voluta sempre dal Principe come estrema dimora della sua famiglia; edificata tra il  e il  ospita proprio il mausoleo di Vespasiano che purtroppo non può essere visitato a causa di restauri in corso. A pochi passi dalla sede governativa si trova uno straordinario spazio scenico, paradigma dei teatri stabili moderni; si tratta del Teatro all’Antica (o Olimpico) eretto in due anni e inaugurato nel  dal Duca. Il palcoscenico presenta una scena fissa e sopra le gradinate di legno domina un’elegante loggia semicircolare con dodici statue di divinità classiche; alle pareti ci sono affreschi di imperatori romani e figure della Commedia dell’Arte italiana. Con negli occhi tanta bellezza e armonia, ritorniamo in Piazza Ducale perché hanno appena aperto la chiesa dedicata alla Madonna Assunta, pure voluta

da Vespasiano per la sua «città ideale», e rimaneggiata in un fiorito rococò nel XVIII secolo, stile che non lascia nemmeno un centimetro di bianco… è tutta arte, sacra in questo

caso. Sbirciamo nella quinta cappella, quella delle reliquie, e con il naso all’insù rimaniamo incantati dalla scenografica volta traforata nel laterizio (non nel legno, ci spiegano) che la-

scia intravvedere il cielo dipinto sulla seconda calotta: sembra vero. A due minuti c’è anche il Museo del Ducato in cui segnaliamo solamente la vetrina con il Toson d’Oro, un prezioso monile grande come un francobollo raffigurante il vello di un ariete, trovato durante l’ispezione della tomba di Vespasiano Gonzaga. Lo aveva ricevuto il Duca nel  dall’imperatore Filippo II quale alto riconoscimento per lealtà, ampiezza di pensiero e meriti culturali. Lasciamo alle spalle i moltissimi oggetti (un po’ accatastati) del museo per fare una breve visita alla Sinagoga, testimonianza di una comunità ebraica dell’Ottocento. Ora ci spostiamo nell’altra piazza, tutta verde con la statua di Minerva, e visitiamo Palazzo Giardino (Casino), villa del  riservata ai momenti di otium del Duca dove l’arte decorativa padroneggia in ogni locale. Accanto spicca per monumentalità la Galleria degli Antichi (Corridor Grande) che

era collegata al Casino e che serviva a esibire i trofei di caccia e la collezione di marmi antichi del Gonzaga; oggi è vuota perché le opere d’arte sono state trasferite nei musei di Mantova. Sabbioneta, grazie all’azione visionaria di Vespasiano Gonzaga, è passata da anonimo villaggio medievale sulla pianura alluvionale della Bassa Padana (il suo nome viene da sabulum, sabbia) ad archetipo di organizzazione urbana perfetta, simbolo di una corte europea all’avanguardia; lo stesso Vespasiano da semplice condottiero di un ramo cadetto dei Gonzaga è stato promosso a marchese, principe e infine duca del suo regno. Tutti riconoscimenti che assieme a quelli recenti alimentano la fortuna di Sabbioneta che incarna l’utopia rinascimentale. Informazioni Su www.azione.ch trovate una più ampia galleria fotografica. Annuncio pubblicitario

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Ingredienti per 4 persone ½ cipolla 1 c di burro 230 g di chicchi di mais, peso sgocciolato 2 prese di sale pepe di Cayenna macinato grosso 2,5 dl d’acqua 40 g di semola di mais fine, polenta 2 minuti 4 c d’olio d’oliva 4 burratine da 120 g micro leaves o crescione per guarnire

Preparazione

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1. Tritate la cipolla. Scaldate il burro e soffriggetevi la cipolla. Aggiungete i chicchi di mais e soffriggeteli con la cipolla. Condite con sale e pepe di Cayenna. Sfumate con l’acqua e portate a ebollizione.

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2. Unite la semola tutta in una volta. Fatela cuocere per 2 minuti a fuoco basso mescolando di continuo. 3. Aggiungete la metà dell’olio e riducete il tutto in purea con il frullatore a immersione. Se occorre aggiungete un po’ d’acqua. 4. Passate la crema di mais attraverso un colino e insaporitela con sale e pepe. 5. Versate e spianate la crema sui piatti. Sistemate una burratina e un po’ di foglioline di crescione su ogni piatto. Irrorate con l’olio restante. Servite con fette di baguette tostate croccanti. Preparazione: circa 15 minuti. Per persona: circa 25 g di proteine, 36 g di grassi, 19 g di carboidrati, 500 kcal/2100 kJ.

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La voce dei muri che parla alla gente Washington

Da capitale politica a museo a cielo aperto, dove l’arte popolare è oggi una risorsa sempre più importante

Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni, testo e foto

È il simbolo per eccellenza degli intrighi governativi, del potere esecutivo, delle influentissime lobby, dello scacchiere diplomatico. Eppure a Washington la giacca della capitale tutta pane e politica sta stretta, e parecchio. Lasciate alle spalle le larghe strade di downtown – quelle che lambiscono i magnifici palazzi di istituzioni come la Casa Bianca, il Campidoglio, la Corte Suprema, gli Archivi di Stato, oppure la sontuosa Biblioteca del Congresso – lungo i sentieri meno battuti sorprende la bellezza di una città vibrante, ricca di arte e creatività.

Immenso murale all’iconico incrocio tra la 14esima strada e la U.

La sindaca Muriel Bowser ha lanciato il progetto MuralsDC, per sostituire i graffiti illegali con progetti di rivitalizzazione creativa Se da una parte, la capitale accoglie lo Smithsonian dal  – la rete museale più grande al mondo – dall’altra, infatti, Washington non si limita a prendersi cura dei capolavori custoditi nelle eleganti gallerie cittadine, bensì accoglie nel cuore cementificato della città centinaia di murales che danno vita a un originale museo a cielo aperto. Tavolozze di pietra che raccontano con colori vivacissimi D.C. (Distretto di Columbia), – sigla con cui i locali comunemente chiamano la loro città – scandendo le storie dei personaggi più amati, delle leggende musicali, fino ad arrivare alle icone del movimento per i diritti civili narrate con gli spruzzi di colore di artisti affermati. Come Shawn Perkins, The Plug, arrivato da Detroit nel  per frequentare la prestigiosa Howard University: «Mi sono innamorato della città e ho deciso di restare». Soprattutto perché ha trovato terreno fertile per le sue creazioni. «Non c’è un altro posto come Washinton negli Stati Uniti» ci dice entusiasta, mentre ci accompagna in questo piccolo viaggio alla scoperta di graffiti e murales. Da sempre questo tipo di arte pubblica ha rappresentato l’unica possibilità per molti professionisti di far sentire la propria voce, di raccontare le proprie storie. E in questi ultimi anni si sta assistendo a una vera e propria fioritura di murales, non più come «espressione di strada» ma come un’attività talentuosa alla quale è riconosciuto un valore artistico che va oltre le barriere sociali. «La città è cambiata molto da quando ci ho messo piede la prima volta. A partire dallo sviluppo del panorama artistico. Quando sono arrivato, se non lavoravi in politica, o nella pubblica amministrazione ti sentivi un po’ fuori posto. Tutti, per generalizzare, avevano il classico lavoro d’ufficio dalle nove alle cinque. Ora però, anche i creativi si sono ritagliati un posto considerevole, facendosi notare sempre di più», ci spiega. «In passato non c’erano così tanti murales. Il cambiamento è iniziato una decina di anni fa, con il grande boom edilizio. Ed è capitato un po’ come capita con una valanga di neve: un murales ha tirato l’altro; o meglio: una persona ha chiesto la realizzazione di una nostra opera, e gli altri, dopo averla vista e apprezzata, hanno a loro volta copiato l’idea. Così che la gente, a un certo punto, ha iniziato a commissionare lavori su interi spazi esterni, ma anche dipinti d’interno». Una diffusione contagiosa. «Penso

che l’arte ispiri le persone e trasmetta anche buone vibrazioni. Non si sbaglia mai quando la si include nella quotidianità. E funziona: stimola la discussione». Un paio dei lavori più recenti firmati The Plug si trovano sulle pareti dell’Union Market, il vivacissimo mercato coperto che ospita negozietti artigianali e ristoranti, nel cuore di NoMa, quartiere in rapido sviluppo, a meno di tre chilometri dal Campidoglio, a nord est. Il primo è coloratissimo, pregno di energie positive. «Si intitola Speak your dreams to existence, è un invito a dichiarare i propri sogni, a crederci finché non si concretizzino». Il secondo, invece, Power to the people’s pockets, è una vera e propria denuncia «contro le grandi corporation che tol-

gono potere di acquisto (e decisionale) alle persone del posto». «Se volete davvero toccare l’anima di Washington – dice Shawn – non potete non andare in quartieri storici come U Corridor e Shaw». A tre chilometri dalla Casa Bianca, nel cuore del corridoio della cultura nera, pulsa Ben’s Chili Bowl, che dal  accoglie stranieri e locali con il suo hot-dog affumicato. L’edificio del ristorante è decorato con i colori di Aniekan Udofia che ha ritratto alcune tra le figure più amate della comunità afroamericana: da Barack e Michelle Obama, all’abolizionista Harriet Tubman, fino a Prince. Nella stessa area, il quartiere trendy di Shaw, è una vera e propria miniera per gli amanti dei murales. Nel celebre Murale nel quartiere di Shaw dedicato alla musica locale «go-go».

Uno dei murales più famosi, firmato da Aniekan Udofia che adorna le pareti del famoso ristorante Ben's Chili Bowl.

vicolo Blagden Alley, si affaccia un originale ritratto del jazzista-filosofo Sun Ra e della cantautrice Erykah Badu, firmato Aniekan Udofia. Love di Lisa Marie Thalhammer, artista LGBTQ , copre invece quattro grandi saracinesche. Lisa Marie è in assoluto una star social, onnipresente su Instagram. Sempre a Shaw, un murale Kaliq Crosby celebra le band musicali come i Junk Yard Band e i Soul Searchers di Chuck Brown, che hanno sviluppato la cosiddetta musica «go-go», un sottogenere funk nato proprio a Washington negli anni Settanta. Uno dei capolavori assoluti, poi, è incastrato tra la settima e l’ottava strada. Si tratta di un enorme tributo di Udofia al leggendario musicista Marvin Gaye, nato proprio a Washington. Una tendenza che oggi trova persino il consenso delle istituzioni locali, le quali hanno infine abbracciato e assecondato questo tipo di espressione artistica. La sindaca Muriel Bowser, ad esempio, ha lanciato il progetto MuralsDC, creato per sostituire i graffiti illegali con progetti di rivitalizzazione creativa. Uno sforzo che mira a coinvolgere i giovani dando loro spazi di lavoro e fornendo strumenti sia pratici che teorici. «Queste iniziative sono fondamentali perché abbiamo bisogno di studi, luoghi in cui creare» sottolinea Shawn. Ed effettivamente i murales continuano ad affiorare in ogni angolo. Anche il delizioso quartiere di Georgetown, nel quadrante nord ovest della città, sta collezionando la sua galShawn Perkins, detto The Plug, accanto alla tela dipinta in onore del congressman John Lewis.

leria all’aria aperta. L’ultima opera si chiama Alma Indigena ed è stata creata sulla popolare Wisconsin Avenue da Victor Quinonez. Si tratta di un potente tributo alla cultura nativa sudamericana con la rappresentazione di una indigena Wixárika. Quella washingtoniana è oggi una comunità artistica dinamica, multietnica e multiculturale. «È la più fiorente che abbia mai visto e continuerà a crescere. Tutti gli artisti si conoscono. In fondo D.C. è abbastanza piccola, siamo uniti, ci scambiamo idee a vicenda». Il boom, ci dice Shawn, non è casuale. «Questo è uno dei posti migliori d’America al momento. Ad esempio, New York è sempre stata una città di artisti, là si trova tanta competizione. Qui, invece, l’ambiente è molto più piccolo, ci sono più opportunità per emergere». Proprio come è successo a lui. Una delle soddisfazioni più grandi è arrivata lo scorso anno, durante la stagione delle proteste del movimento Black Lives Matter, contro le violenze della polizia nei confronti della comunità nera. «Ho realizzato un ritratto del congressman John Lewis, leggendario leader del movimento per i diritti civili degli afroamericani, che era appena spirato». L’opera è stata esposta per tre mesi al National Building Museum, una delle gallerie più importanti al mondo. «L’onore di tutta una vita». Informazioni Su www.azione.ch trovate una più ampia galleria fotografica


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I boccioli delle Daphne non temono l’inverno

Questioni pluriunitarie

Mondoverde ◆ Piante incredibili che regalano ai nostri giardini profumatissimi fiori tra dicembre e febbraio

Matematica creativa che funziona sempre Ennio Peres

Un esemplare di Daphne odora. (Arthur Chapman)

Gli amanti del giardinaggio sanno bene che in ogni stagione vi sono piante attrattive, anche in pieno inverno, quando ad uno sguardo distratto sembra che tutta la natura sia a riposo.

Si chiama Daphne laureola, invece, un bel sempreverde che fiorisce però solo da febbraio in avanti, sfoggiando petali verde-gialli Le Daphne ne sono un esempio e ci regalano profumatissimi fiori proprio tra dicembre e febbraio, meravigliandoci durante i nostri giri in giardino o uscendo all’ingresso dell’abitazione se piantate vicino a casa. Originarie dell’Europa e dell’Asia, queste piante fanno parte della famiglia delle Thymelaeaceae e le più note,

Un gioco di magia

che portano i nomi di Daphne laureola e Daphne odora (oppure Daphne cneorum), sono arbusti dalla dimensione ridotta, che si adattano a zone ombrose e terreni poveri. Hanno dunque un portamento cespuglioso e si possono coltivare anche in vaso, scegliendo tra specie sempreverdi o a foglie caduche. Daphne odora arriva fino a un metro e cinquanta centimetri. Esibisce una forma della chioma arrotondata ed è un sempreverde. Durante l’anno ha un aspetto elegante grazie alle sue foglie di forma lanceolata verde scuro bordate di crema, caratteristica notevole nella varietà «Aureomarginata», ma il vero spettacolo accade a dicembre, quando si riempie di piccoli ma abbondanti fiori rosa violacei che perdurano per tutto l’inverno, fino a febbraio, rilasciando gradevoli note profumate. Sua parente stretta è Daphne lau-

reola, chiamata anche Daphne laurella, una sempreverde che raggiunge l’altezza di un metro e venti centimetri: ha forma arrotondata e fiori verde-gialli, raccolti in spighe che sbocciano più tardi, in febbraio. Dopo la sfioritura, cioè in estate, compaiono poi delle bacche nere. Entrambe le piante, con le loro varietà, come «Rebecca» o la bianca «Eternal Fragrance» prediligono posizioni a mezz’ombra e si caratterizzano per due motivi: sono piante acide, quindi necessitano di un terreno apposito, ma attenzione: sono ritenute soprattutto piante velenose, sia per i fiori, sia per le foglie, e non di meno per le bacche, ma ciò non significa che il loro contatto provochi malesseri. Basterà resistere alla tentazione di masticare o ingerire parti di queste belle piante, limitandosi ad ammirarle per la loro eleganza e il loro intenso profumo.

Nella matematica ricreativa, risultano particolarmente degni di nota i numeri naturali, composti solo da cifre tutte uguali a: «», che vengono definiti: pluriunitari (o repunit in inglese). I primi rappresentanti di questa categoria, ovviamente, sono: , , , , e così via. Un generico numero pluriunitario composto da K cifre (indicato abitualmente con la notazione: R), può essere originato dalla formula: R = (K–)/. Qui di seguito, però, è riportato un curioso metodo per ricavare i primi nove numeri pluriunitari. x+ =  x+ =  x+ =  x+ =  x+ =  x+ =  x+ =  x+ =  x+ =  È interessante notare che esistono dei numeri pluriunitari primi. Ad esempio, sono primi: R  = , R  = , R  = . Altri numeri pluriunitari primi accertati sono R  = (–)/ e R  = (–)/.

Nonostante non se ne conoscano molti, si pensa che i numeri pluriunitari primi siano infiniti; ma questa è soltanto una congettura, tutta da dimostrare. È, invece, sicuro che non esistono dei quadrati perfetti pluriunitari. Un tale assunto può essere dimostrato, tenendo presente che un quadrato perfetto è sempre uguale a un multiplo di  (se pari), o a un multiplo di  più  (se dispari). Infatti, siccome ogni numero pari può essere espresso come: N e ogni nume-

ro dispari come: N+ (con N = , , ...), elevando N al quadrato, si ottiene: (N) = N (un multiplo di ); mentre, elevando N+ al quadrato, si ottiene: (N+) = N+xN+ = N+N+ = (N+N)+ (un multiplo di  più ). Considerando che un numero formato da una successione continua di cifre «»: …, è ovviamente dispari, se un simile numero fosse un quadrato perfetto, dovrebbe essere uguale a un multiplo di  più . Quindi, sottraendo  dal suo valore, il numero risultante ([…]) dovrebbe corrispondere a un multiplo di . Ma questo non è possibile, perché un numero K è divisibile per , solo se le sue ultime due cifre corrispondono a un multiplo di  (minore di K); invece, le ultime due cifre del numero ottenuto formano il numero  (che non è multiplo di ). È interessante notare che una delle relazioni prima analizzate consente di effettuare il seguente gioco di magia matematica (che, per praticità, è bene eseguire ricorrendo a una calcolatrice elettronica). . Scegliete un numero naturale N, composto da una stessa cifra «a» ripetuta dieci volte: «aaaaaaaaaa» (ad esempio: a =  ). . Sostituite con uno «» la penultima cifra da sinistra del numero N ( ). . Calcolate: xa (x = ). . Dividete per il prodotto così ottenuto, il numero ricavato al passo . (/). . Indipendentemente dal numero scelto all’inizio, il risultato finale sarà comunque:  (/ = ). Cercate di spiegare perché questo gioco funziona sempre.

Spiegazione del trucco Un numero naturale N, composto da una stessa cifra «a» ripetuta  volte, può essere espresso come: xa. Considerando la curiosa uguaglianza evidenziata all’inizio:  = x+, si può scrivere: ( – )/ = . Di conseguenza, aggiustando l’espressione: (xa–a)/a, si ottiene proprio: a(–)/a = ( – )/ = .

Anita Negretti

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azione – Cooperativa Migros Ticino

TEMPO LIBERO

Ho visto un re Eventi

Dal 24 novembre al 16 dicembre Expo Dubai ospita il campionato mondiale di scacchi

Il gioco del re, il re dei giochi. Così sono spesso definiti gli scacchi. E ora a Dubai si sceglie il più forte giocatore del mondo, con milioni di appassionati collegati in rete per seguire la sfida in diretta. Serviranno quattordici partite con un lungo tempo di riflessione (due ore per quaranta mosse); il montepremi ammonta a due milioni di euro ( per cento al vincitore). Cominciamo dai contendenti. Il norvegese Magnus Carlsen (nella foto) è il campione del mondo in carica dal . Nato nel , è stato un ragazzo prodigio. A tredici anni diventa grande maestro (il titolo più importante negli scacchi), a diciannove è già il numero uno. Lo sfidante e coetaneo Ian Nepomniachtchi (detto Nepo per aggirare il cognome impronunciabile) non è comunque da meno, dato che ha imparato il gioco prima dei cinque anni e nel  è diventato Campione del mondo Under  superando proprio Carlsen. Prima osservazione: da qualche anno i campioni di scacchi sono sempre più giovani. Infatti nonostante l’apparente immobilità i calcoli assorbono molte energie: un campione può visualizzare una possibile posizione dopo molte mosse anche senza muovere fisicamente i pezzi sulla scacchiera. Nepo è russo, ma questa è ormai quasi soltanto un’eredità del passato. Dopo la Seconda guerra mondiale infatti l’Unione sovietica pun-

tò moltissimo sugli scacchi, anche a fini di propaganda. Per decenni tutti i campioni del mondo furono sovietici e anche per questo fece tanto scalpore la vittoria del giovane americano Bobby Fischer su Boris Spassky nel  (non a caso è ricordato come il Match del secolo): «Nel  a Reykjavík l’americano aveva battuto il campione russo con un sonoro ,-,, sancendo un rovesciamento dello strapotere sovietico che durava, con una insignificante pausa, dal  e da sei campioni del mondo degli scacchi, sei geni, uno dopo l’altro: Alekhine, Botvinnik, Smyslov, Tal’, Petrosjan, Spasskij» così ne parla il recente libro di Ivano Porpora, Un re non muore (v. recensione di Manuela Mazzi a pagina ). In realtà anche dopo la vittoria di Fischer, seguita poco dopo dal suo ritiro dalle competizioni, l’URSS ha continuato a dominare la scena con straordinari campioni quali Anatolij Karpov e Garri Kasparov. L’ultima generazione di talenti tuttavia viene da Paesi diversi: oltre a Carlsen e Nepo, troviamo l’americano Hikaru Nakamura (nato nel ), il filippino Wesley So (), l’olandese Anish Giri () eccetera. Tra questi, l’italo-americano Fabiano Caruana (), l’ultimo sfidante di Carlsen, che ha vissuto a Lugano dal  al , sia pure senza nessuna apparizione pubblica. Ma l’astro nascente è senza dub-

Intel Free Press

Claudio Visentin

bio l’iraniano (ora cittadino francese) Alireza Firouzja (); pochi giorni fa dopo una serie di straordinarie vittorie è salito sino al secondo posto nella classifica mondiale e molti vedono in lui il futuro campione del mondo. Negli ultimi anni poi soprattut-

Giochi e passatempi Cruciverba

La tartaruga Jonathan delle Seychelles, pare sia l’animale terrestre più vecchio del mondo. Quanti anni ha? Scoprilo risolvendo il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 5, 12, 4)

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Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 5

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30. Collisione 32. Le iniziali del giornalista Signorini 33. Un ufficiale abbreviato 34. Si associa agli altri 35. Due vocali 36. Balena in testa... VERTICALI 1. Ha i palchi ma non è un teatro 2. Le iniziali dell’attore Nobile 3. Preposizione articolata 4. Caratteristica, peculiarità 6. Un anno a Parigi

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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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7. Terzogenito di Adamo 8. Complesso polifonico 9. Rende insensibili al dolore 11. Prefisso che vuol dire orecchio 14. Preposizione 16. Audace 19. Un avverbio 21. Il cane di Ulisse 25. In piedi... dopo la prima 27. Un valore geometrico 29. Anfibi anuri 31. Torna se ora non c’è... 34. Sono pari nel guado

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ORIZZONTALI 1. Non precisamente 5. Un ripostiglio di tessuto 10. Un vento 12. Un tipo di illuminazione 13. Le iniziali dello stilista Cavalli 15. Pulsazione visibile all’esterno di cuore o arteria 17. Numero delle virtù teologali 18. Il «de» dei tedeschi 20. Nome di donna 22. Bocca in latino 23. Si accoppiano alla gloria 24. Anagramma di rio 26. Le iniziali del cantante Antonacci 28. L’attore protagonista di Autunno a New York

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to Cina e India stanno crescendo una generazione di giovanissimi talenti; anche nel caso degli scacchi insomma il futuro sarà probabilmente asiatico. Poi ci sono i computer naturalmente. Da quando Deep Blue (IBM) sconfisse il campione del mondo Gar-

ri Kasparov in una celebre partita giocata il  febbraio , fu chiaro a tutti che l’era delle macchine era cominciata. Oggi i programmi più forti possono battere facilmente qualunque grande maestro grazie ai loro algoritmi e a una spaventosa velocità di calcolo. Per esempio AlphaZero, il campione del mondo tra i computer, ha imparato giocando contro sé stesso infinite partite, riscoprendo le strategie faticosamente elaborate nei secoli dagli umani e aggiungendovi nuove idee. In realtà, proprio per l’evidente disparità di forze, il computer non è considerato un avversario dai giocatori quanto piuttosto un assistente. Carlsen e Nepo ne fanno larghissimo uso nel preparare le loro partite. Chi vincerà la grande sfida? Dopo una lunga serie di pareggi, Carlsen ha vinto due partite e sembra avviato a una tranquilla riconferma del suo titolo. Nepo per parte sua ha già sconfitto Carlsen quattro volte in passato (a fronte di una sola sconfitta e sei pareggi) e quindi conosce bene i punti deboli del suo avversario. Ma un campionato del mondo non è solo questione di forza pura, quanto piuttosto di equilibrio, maturità, astuzia, opportunismo, elasticità, capacità di recuperare dopo una sconfitta, sapendo oltretutto che il giorno dopo ci si troverà davanti lo stesso avversario. Solo la fortuna non ha nessuno spazio in questo mondo interamente dominato dalla logica.

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Soluzione della settimana precedente L’AFORISMA – Un asino può anche fingersi un… Resto della frase: …CAVALLO MA PRIMA O POI RAGLIA.

C A M E R A M A N

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


Foto: Alexandra Wey

Pubbliredazionale

Aiuto a più di 100 000 persone • Da aprile 2020 – grazie anche al sostegno della Catena della Solidarietà – Caritas ha aiutato in Svizzera quasi 20 000 persone (aiuti sussidiari e transitori unici sotto forma di pagamenti diretti). • Oltre 13 000 persone hanno inoltre ricevuto un aiuto consultivo, indicazioni per altre offerte di aiuto e sono state indirizzate all’ufficio giusto. • 90 000 persone circa beneficiano di 40 progetti mirati a livello regionale che rispondono alle esigenze specifiche della popolazione in difficoltà in seguito alla pandemia. Conto donazioni: 60-7000-4 Per donazioni online: caritas.ch/donazione

Oggi Marília S. sorride al ricordo dei mesi da incubo passati nel 2020: «Posso solo dire che l’artigianato, i fiori Kanzashi e il Reiki sono il mio antidepressivo!».

«Non bisogna vergognarsi di chiedere aiuto» Rimasta disoccupata nel 2020 a causa della pandemia e con lo stipendio decurtato del 20 per cento, Marília S. si ritrova da un giorno all’altro senza soldi per fare la spesa. Le costa molto coraggio chiedere aiuto a Caritas. Oggi Marília S. ha trovato un nuovo lavoro e vuole testimoniare la sua caduta economica e sociale avvenuta in poche settimane.

Marília S., 46 anni, amava il suo lavoro nell’industria orologiera in Svizzera romanda. A maggio 2020, con la prima ondata del coronavirus, è stata purtroppo tra le prime persone a essere licenziate. Quel 20 per cento che fa male

I numeri riflettono chiaramente la situazione in cui si trova Marília, separata, con una figlia diciannovenne. Quando si perde il 20 per cento su uno stipendio di 3800 franchi, diventa impossibile rispettare gli obblighi finanziari. Marília e suo marito si sono separati nel 2019. Il padre di sua figlia è in lavoro ridotto dalla primavera 2020. Come fa a farcela

Per saperne di più su Marília: caritas.ch/marilia-i

da sola in una situazione del genere? I risparmi sono finiti in pochi mesi. La sua famiglia vive in Portogallo e quindi non può contare sul suo sostegno. Ancora oggi, Marília si commuove parlando del luglio 2020 quando le erano rimasti soltanto 40 franchi per comprare da mangiare. Ricorda molto bene le tre buste della spesa piene che un’amica le ha lasciato discretamente davanti la porta di casa. Era sull’orlo del precipizio. «Il suo curriculum ci piace. Le faremo sapere non appena la situazione migliorerà.» Quante candidature e quanti dossier inviati per posta o via e-mail, sempre nella

speranza di trovare un nuovo lavoro. Ma le ondate pandemiche si susseguivano e Marília non riusciva a venirne fuori. La passione per i lavoretti manuali e le decorazioni, ma anche la sua formazione Reiki, l’hanno aiutata molto a resistere in quel periodo così buio. Un crollo improvviso

Marília ha vissuto per tutta la vita del suo lavoro, ha sempre pagato puntualmente le fatture e mai fatto ricorso all’aiuto di terzi. Così glielo avevano insegnato i genitori: diligenza e correttezza. Valori che Marília vorrebbe trasmettere anche alla figlia. Chiedere aiuto è una tortura per lei. Infatti le è costato tantissimo coraggio mettere da parte il senso di vergogna e bussare alla porta dell’organizzazione Caritas regionale. «Mi hanno presa sul serio e ascoltata dal primo momento» ricorda con un sorriso e insiste: «Bisogna osare chiedere aiuto e non si deve aspettare troppo tempo, perché il crollo avviene all’improvviso». Marília si è sentita davvero sollevata solo a dicembre 2020 quando è stata assunta da un’altra impresa della sua regione. Nutre comunque la speranza che il suo impiego a tempo determinato possa un giorno diventare a tempo indeterminato. Oggi il suo obiettivo è aggiornarsi professionalmente per essere più qualificata e poter percepire uno stipendio più alto. È l’unico modo per essere preparati ad affrontare le incognite e gli imprevisti della vita.

Appello per una Svizzera senza povertà La crisi del coronavirus ha accresciuto e palesato la povertà in Svizzera. È importante adesso trarre le giuste lezioni da questa situazione. Caritas chiede al mondo politico ed economico provvedimenti concreti per poter garantire a tutta la popolazione in Svizzera una vita dignitosa con una sicurezza sociale. Caritas lancia un «Appello per una Svizzera senza povertà» e invita a sostenerlo. Per una Svizzera senza povertà firmate l’appello: caritas.ch/appello


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Scintille in Francia A quattro mesi dalle Presidenziali il clima politico si fa teso in un contesto in cui avanzano le destre

In India impazza il Natale Reportage da Nuova Delhi, tra abeti di plastica, neve finta e corse alla ricerca dei regali

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Un nuovo telescopio spaziale James Webb andrà ad affiancarsi all’Hubble space telescope portato in orbita nel lontano 1990

Contro la schiavitù moderna Presto un terzo programma nazionale in Svizzera per lottare contro la tratta di esseri umani

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Il vertice del 7 dicembre tra Joe Biden e Vladimir Putin. (Shutterstock)

Nessuno vuole morire per Kiev L’analisi

Cosa rappresenta l’Ucraina per la Russia e gli Stati uniti? E perché la guerra, almeno per ora, è un’eventualità remota

Lucio Caracciolo

Né gli americani né i russi vogliono morire per Kiev. Ecco il senso del vertice virtuale che si è svolto il  dicembre fra Joe Biden e Vladimir Putin. Di norma tali incontri, specie se non in presenza fisica, lasciano abbastanza il tempo che trovano. Non è stato così in quel caso. Fino all’appuntamento in teleconferenza battevano in Russia e in America i tamburi dell’Apocalisse. Sembrava che i russi stessero ammassando truppe al confine per scagliarsi all’assalto dell’Ucraina già amputata della Crimea e incapace di riprendersi il Donbas. E che gli americani e i loro soci europei dell’est e del nord, oltre agli immancabili britannici, fossero disposti a scattare in difesa di Kiev. Non è così. Nessuno può escluderlo in un futuro non prossimo, ma se qualcosa è filtrato chiaro da quel dialogo a distanza è che nessuno dei protagonisti ha voglia di menar le mani in una regione del mondo così fragile e contestata, attraversata da una informale ma effettiva cortina di ferro. A poche centinaia di chilometri da Mosca. Perché uno scontro

potrebbe trasformarvisi in guerra nucleare, fuori tutto. Osserviamo la situazione sul terreno. La Nato è ormai penetrata nello spazio già sovietico. Si è costituita una avanguardia di Paesi che premono direttamente su Mosca. Insieme di nemici storici della Russia, dalla Svezia (non di nome, ma di fatto atlantica) alla Romania, con perno in Polonia e nei Paesi baltici che le fanno corona e stringono la morsa sulla exclave russa di Kaliningrad. Fra l’impero europeo dell’America e le mura del Cremlino due soli Paesi. La Bielorussia, indocile alleata della Federazione russa, con l’imprevedibile quanto infragilito dittatore Lukashenko che spesso fa di testa sua, come quando durante la crisi dei migranti con la Polonia minaccia di tagliare i rifornimenti di gas russo a Varsavia e all’Unione europea, e viene perciò redarguito da Putin. E l’Ucraina, con il Governo centrale e una maggioranza della popolazione schierati con l’Occidente, e diverse aree invece orientate verso Mosca. L’Ucraina è oggi il classico Stato cu-

scinetto. Terra di nessuno fra due potenze rivali. Più cuscinetto che Stato, visto il grado di frammentazione territoriale, di malessere sociale e di crisi istituzionale che percorre quello spazio storicamente di frontiera. Per la Russia l’imperativo è impedire che Kiev scivoli nel campo americano, aderendo alla Nato. Una tale prospettiva è vissuta al Cremlino come minaccia esistenziale. E non solo perché missili lanciati da basi ucraine potrebbero colpire Mosca in meno di dieci minuti di volo. Soprattutto perché all’interno la pressione sul regime, a quel punto svelatosi incapace di proteggere le sue frontiere più intime, si farebbe pericolosa. Due gli sbocchi pensabili: l’avvento di una dittatura militare o una «rivoluzione colorata» in stile Kiev  che installi una leadership filo-occidentale. In entrambi i casi le reazioni a catena nell’immenso spazio della Federazione russa, e nell’area postsovietica, sarebbero enormi. Destabilizzando l’intera massa eurasiatica. Dal punto di vista russo, insomma, la questione ucraina è di vita o di morte.

Tanto che Putin ha provocatoriamente preteso di fissare per trattato l’impossibilità della Nato di espandersi ulteriormente verso est.

Per la Russia l’imperativo è impedire che Kiev scivoli nel campo americano, aderendo alla Nato. Per gli Stati uniti la priorità assoluta resta la Cina Per gli Stati uniti la priorità è impedire che Mosca si riaffacci nell’Ucraina appena riorientata verso il campo atlantico. Biden non ha urgenza di portare Kiev nella Nato, ma vuole lasciarsi aperta tale prospettiva. Né può farsi dettare da Putin e codificare per via legale quali debbano essere i limiti del suo impero europeo. Per Washington però non si tratta dell’ultima spiaggia. Non è in gioco l’esistenza stessa della patria, come nel caso russo. All’ammassamento di truppe russe alle frontiere occidentali il Pentagono oppone quindi il riarmo dell’Ucraina, per

rendere molto costosa un’eventuale aggressione russa. Ma il segnale che viene da Washington, dopo il vertice Putin-Biden, è che non ci si intende impegnare in una guerra con la Russia mentre la pressione sulla Cina è la priorità assoluta. Emerge così la contraddizione strategica che mina la postura degli Stati uniti. Mentre si concentrano sulla sfida a Pechino, gli Usa hanno di fatto favorito la formazione di un’intesa fra Russia e Cina, cui Putin è stato costretto dopo aver perso l’Ucraina e così verificato l’impossibilità di una relazione positiva con l’Occidente. Non sarà facile, ma è chiaro interesse americano correggere questo errore, che rafforza l’avversario principale e assegna alla Russia un ruolo decisivo nello scontro fra Stati uniti e Cina. Il  dicembre  ci apparirà forse un giorno come l’avvio di un processo di lento riavvicinamento fra Mosca e Washington. A meno che, sull’infido terreno ucraino, qualcosa sfugga di mano ad entrambi e scateni la guerra che entrambi rifiutano.


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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

In Francia il clima politico si fa sempre più caldo Presidenziali

La sfida a destra, la sinistra divisa ed Emmanuel Macron

Marzio Rigonalli

La Francia vivrà un inverno elettorale molto animato, anche con possibili scene di violenza verbale e fisica. Mancano quattro mesi alle elezioni presidenziali che si terranno in aprile, il primo turno il  e il secondo il , e praticamente tutti i potenziali candidati si sono dichiarati. Manca soltanto il presidente uscente, Emmanuel Macron, che presenterà la candidatura per un secondo mandato in gennaio o all’inizio di febbraio. Da una prima valutazione della campagna ormai lanciata emergono due forti tendenze. La prima è che il clima politico si è fatto violento, con attacchi verbali spesso voluti per colpire la persona e non il programma che viene difeso, con scontri e con risse. La seconda è che l’asse politico francese si sta spostando a destra. Lo dimostrano i sondaggi che danno all’estrema destra più del  per cento delle preferenze. E lo dimostrano anche i mass media che riservano ampio spazio ai candidati di quell’area politica e ai loro temi preferiti, come la lotta contro l’immigrazione, la difesa dell’identità francese e della sicurezza interna. Temi che così appaiono dominanti. L’estrema destra e la destra sono rappresentate da tre candidati. La principale novità risiede nella candidatura di Eric Zemmour. Ex editorialista del quotidiano «Le Figaro» e di alcune televisioni private di destra, il polemista conduce una campagna aggressiva. Cerca di ispirarsi a quanto realizzò Macron nel  e, soprattutto, tenta di emulare l’ex presidente americano Donald Trump. Afferma che la Francia è minacciata nella sua esistenza dall’invasione dei musulmani e che lui è la sola persona capace di salvarla, di impedire che sorga una guerra civile e che avvenga le grand remplacement, la sostituzione dei francesi con gli immigrati. Dà fuoco all’odio che serpeggia nella società francese e rafforza le divisioni sociali. È già stato condannato due volte per razzismo. Di recente ha creato un nuovo partito denominato Reconquête, riconquista. Vuole uscire dalla Nato e liberarsi dalla burocrazia europea di Bruxelles. Deve però fare i conti con due importanti punti deboli: la mancanza di un suo stato maggiore composto di persone esperte e conosciute, e un programma dominato dall’immigrazione e scarno sulle altre tematiche, come l’economia, i salari e la gestione della pandemia. I sondaggi lo danno intorno al %, non lontano dalla leader del Rassemblement national. Marine Le Pen rappresenta pure l’estrema destra. È una personalità politica conosciuta in Francia, che nel  giunse allo scontro finale contro Macron. Da allora cercò d’interpretare una strategia politica rispettosa dei valori repubblicani e suscetti-

Olaf Scholz, il rigido stratega Germania

Un ritratto del nuovo cancelliere

Stefano Vastano

Il polemista di destra Eric Zemmour. (Shutterstock)

bile di fugare possibili timori sulla permanenza della Francia in Europa e sull’accettazione dell’euro. Una strategia pagante, almeno in parte, perché sempre più numerosi sono gli elettori degli altri partiti che sono pronti a votare per lei. Una buona parte del suo elettorato è rappresentato dagli operai e dagli impiegati. Anche lei centra il suo programma sull’immigrazione e sulla necessità di bloccarla, nonché sulla sicurezza e la criminalità degli stranieri. È però più completa di Zemmour nell’esporre soluzioni agli altri problemi che i francesi affrontano ogni giorno. Secondo i sondaggi, beneficia del % delle preferenze e spera di accedere al secondo turno per sfidare nuovamente Macron. La sfida tra i due rappresentanti dell’estrema destra appare oggi incerta per quanto concerne il risultato e rappresenta una novità nella storia politica francese.

Anche Marine Le Pen centra il suo programma su immigrazione e sicurezza. Spera di accedere al secondo turno per sfidare di nuovo Macron La destra repubblicana è rappresentata da Valérie Pécresse che ha vinto la selezione interna del suo partito, Les répubblicains (Lr). Presidente della regione Île-de-France dal , è già stata ministra sotto la presidenza di Sarkozy. Il suo programma riprende le grandi linee del programma che il candidato François Fillon difese nel  e sulle tematiche immigrazione e sicurezza si è avvicinata molto alle posizioni dell’estrema destra. Può contare su una forte presenza del

suo partito a livello locale e regionale, uscito vittorioso in primavera alle ultime elezioni regionali, ed è chiamata a realizzare l’unione della sua formazione, dopo le sconfitte subite alle presidenziali del , del  e dopo numerose lacerazioni interne. I più recenti sondaggi la danno in chiara rimonta e suscettibile di battere i due candidati dell’estrema destra. Può diventare una minaccia per Macron al secondo turno. La sinistra si muove in ordine sparso e lascia apparire profonde divisioni. Presenta una dozzina di candidati, ma nessuno di loro riesce ad avere un ruolo centrale. Anne Hidalgo, socialista e sindaca di Parigi, Yannick Jadot, rappresentante dei Verdi, e Jean-Luc Mélenchon, leader della France insoumise, per citare solo i nomi più diffusi, non riescono a raccogliere simpatie al di fuori delle loro singole formazioni. Le loro percentuali di preferenze sono sotto al %. Non sarebbe quindi una sorpresa se, al primo turno, il primo tra questi candidati non riuscisse ad andare oltre il quinto posto. Quando vinse, due volte con Mitterrand e una volta con Hollande, la sinistra si presentò unita. In questo scenario frazionato e con una forte presenza dell’estrema destra, il presidente uscente rimane in testa alle preferenze dei francesi. Riuscirà a ottenere la rielezione? Il suo progetto di unire il centro destra con il centro sinistra potrà continuare? Molto dipenderà da quello che succederà nei prossimi mesi e dal bilancio che Macron potrà vantare. Un bilancio centrato sulla gestione della pandemia, sui risultati economici, sul tenore di vita, sulla sicurezza e sulla speranza in un futuro migliore.

Nelle redazioni, come nei bar e ristoranti di Germania è esplosa una nuova moda. Il giochino politico di appurare le differenze, ma anche le affinità, fra il nuovo cancelliere, Olaf Scholz della Spd, e la prima Kanzlerin della storia tedesca, Angela Merkel. Certo, anche il carattere dell’amburghese Scholz – per iniziare con le similitudini fra i due cancellieri – non è proprio dei più aperti e facili all’entusiasmo. Come la cancelliera che venne dall’Est, notoriamente specializzata in fisica dei Quanti, così razionale e pragmatica, anche il enne Scholz – che è laureato in giurisprudenza – è portato a considerare la politica come un congegno da montare e smontare a suon di leggi e paragrafi. Al centro della società per Scholz – convolato a nozze nel  con Britta Ernst, anche lei amburghese e della Spd nonché ministra della Cultura nel Brandenburgo – c’è il valore base del «Respekt». Rispetto per il lavoratore e per chi deve far fronte all’affitto e sbarcare il lunario, per i giovani, le famiglie, i pensionati e gli studenti. Questa è pura socialdemocrazia per Scholz. In Germania invero non pochi lo conoscono con un nomignolo cattivo: «Scholzomat», a indicare la legnosità dei suoi discorsi, sempre precisi, zeppi di dati, ma come declamati da un robot. Però delle critiche lui, convinto com’è delle sue doti, se ne infischia. Al contrario della Merkel infatti Scholz non brilla in modestia. Non è stato mai lui il principe del suo partito, anzi. Soprattutto perché, doti e simpatia a parte, Scholz non è un socialdemocratico di sinistra, ma uno schröderiano di ferro: le riforme al Welfare di Schröder – il famoso-famigerato modello «Hartz IV» – lui le difese a spada tratta

Scholz è uno schröderiano di ferro. (Shutterstock)

quando fu segretario generale della Spd ai tempi in cui (dal  al ) Schröder era il presidente e potente Kanzler della Spd. Da allora i suoi contatti con Merkel, dal  presidente della Cdu, si fecero stretti. Divenuti poi quotidiani nei due anni ( – ) in cui Scholz è stato ministro del Lavoro della prima grande coalizione fra Cdu e Spd. E soprattutto dal  ad oggi, in cui è stato il fedele ministro delle Finanze dell’ultimo Governo Merkel, nonché suo vicecancelliere. Sotto stress – anche questo un tratto in comune con la Kanzlerin – Scholz è di una imperturbabile, serafica calma. Gli scandali finanziari della banca amburghese Warburg non hanno scalfito né l’immagine né i nervi di Scholz; e neanche i disordini che scossero Amburgo durante il G nel . Eppure anche il rigido stratega Scholz – che fra l’altro è stato per  anni primo cittadino di Amburgo – stava per gettare la spugna quando, alle primarie del  per la presidenza della Spd, i «compagni» lo bistrattarono eleggendo il duo Saskia Esken e Norbert Walter-Borjans al vertice della Spd. Nei momenti di sconfitta è l’acqua a placarlo: la canoa è la sua passione. Tanto che in campagna elettorale – per la gioia dei lettori di «Bild» – si è fatto fotografare nel club sportivo Allemannia von  a piedi nudi davanti a «St. Pauli», la sua canoa nera da competizione. Smart, elegante quanto basta, all’apice della sua carriera Scholz ha presentato ai tedeschi – il  dicembre scorso – la sua squadra di ministri: con Karl Lauterbach, uno dei beniamini dei talk show in tv, nel ruolo strategico di ministro della Salute. «Scholz dimostra il suo potere», ha titolato la «Süddeutsche Zeitung». Un potere basato su due miracoli. Il primo è che, con lui, la Spd ha spuntato alle elezioni del  settembre il , dei voti (quando da mesi i sondaggi inchiodavano il partito al di sotto del  per cento). L’altro è che da quando il nuovo cancelliere di Berlino si chiama Olaf Scholz la Spd è mutata in una vera e propria «macchina rossa del potere», come l’ha ribattezzata «Der Spiegel». Partito più compatto dietro al suo idolo oggi non c’è in Germania. E questa è la vera, saliente differenza con Merkel. Che dopo  anni di fila al potere lascia una Cdu a dir poco sfibrata ai suoi pallidi eredi. Ma come ha detto la Kanzlerin in una recente intervista? «Anche con un socialdemocratico in cancelleria dormirò sonni tranquilli». E forse è proprio questa continuità sotto il cielo di Berlino il tratto che più piace ai tedeschi del loro nuovo cancelliere amburghese (la città, fra l’altro, dove Angela Merkel è venuta al mondo). Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

A Nuova Delhi tutti pazzi per il Natale

Reportage

La patria di Gandhi si è unita al resto del mondo nel celebrare la festività dei centri commerciali e dei regali

Francesca Marino

Adesso ogni centro commerciale sfoggia il suo bravo albero di Natale, organizza mercatini e feste per bambini È vero che il mercatino di Natale organizzato dall’ambasciata tedesca è diventato una tradizione cittadina da un po’ di anni, ma per trovare qualcosa per decorare l’albero o per trovare l’albero suddetto dovevi portarlo da casa oppure andare in uno dei bazar della vecchia Delhi che, per l’occasione, si rivestiva di babbo Natale gonfiabili, lucette natalizie a forma di stella e pacchi di neve finta. Adesso tutti i centri commerciali, specialmente quelli di extra lusso, sfoggiano il loro bravo albero di Natale più o meno gigante e organizzano eventi natalizi come mercatini improvvisati al loro interno, con distribuzione di dolci e bevande, oppure Christmas children carnival extravaganza, feste improvvisate dove i bambini trovano elfi, gnomi e Babbo Natale (o meglio, Christmas Baba) con cui giocare mentre le mamme fanno shopping o si rilassano bevendo vin brûlé. Ogni singolo albergo a cinque o più stelle, quest’anno, offre pranzi di Natale, party di Natale, concerti di Natale e quant’altro. La globalizzazione ha cambia-

Shutterstock

Nuova Delhi, quasi due anni dopo. Difficile descrivere il senso di straniamento quando, arrivando a Khan market – uno dei mercati più chic della città – trovi i marciapiedi circondati da file di alberi di Natale legati assieme da fili di lucine colorate. Abeti di plastica, ovviamente, già spruzzati di neve artificiale o di porporina, pronti a essere decorati con le palline o gli addobbi assortiti venduti nel negozio di fronte. Perché ogni singolo negozio di Khan market, quelli che in genere vendono giocattoli o paccottiglia varia, è adesso pieno di pupazzi di Babbo Natale che fanno le capriole, improbabili elfi minuscoli o giganti, palle di simil-vetro che producono tempeste di neve al loro interno, vischio artificiale e tutto quanto fa Natale. Surreale a dir poco, visto che fino a qualche anno fa, a Nuova Delhi, il periodo natalizio non si avvertiva affatto se non nelle case degli stranieri, i cosiddetti «expat», che cercavano malinconicamente di ricreare dentro casa l’atmosfera natalizia.

to tutto anche in questo caso e la patria di Gandhi si è unita al resto del mondo nel celebrare il Natale dei centri commerciali e dei regali, il Natale dei pacchetti colorati e dei film di Hollywood. Il «nostro» Natale, ovviamente. In cui lo spirito di Natale di dickensiana memoria non trova più le porte tra il nostro e l’altro mondo; e Ebenezer Scrooge (il personaggio principale del racconto Canto di Natale, tirchio e avaro), che indossi un dhoti (il tradizionale indumento indossato dagli uomini in India) o un completo di Armani, ha preso il posto del Bambino Gesù. Prima per trovare tracce di Natale in India dovevi essere a Calcutta, come minimo. Dove mi sono svegliata una mattina non al suono dei soliti canti religiosi indiani intonati dai bambini della scuola accanto a casa mia, ma di qualcosa che mi suonava familiare e che ho realizzato, dopo un momento, essere «Adeste fideles». Cantato in un latino che somigliava tanto al grammelot da me adoperato per cantare sotto la doccia canzoni di film in hindi di cui capisco soltanto un quarto delle parole, ma sempre latino era. Poi mi sono ricordata che a Natale mancava meno di un mese e che Natale, nella patria di Kali, è sempre sta-

to un evento celebrato con grande risalto. Un evento che cominciava circa un mese prima quando, se sei una celebrità cittadina, vieni invitato a mescolare il pudding natalizio: da Fleury, la pasticceria più chic della città, oppure all’Oberoi, un grande albergo di lusso. Dove nella sala approntata per mescolare frutta secca e brandy si aggiravano elfi, slitte, Babbo Natale e alberi decorati da centinaia di lucine e dove tutti, dopo un po’, erano piuttosto allegri per i fumi dell’alcool versato a litri sulla frutta secca.

In passato il Natale aveva una certa rilevanza nell’India del sud o nel nord-est colonizzato da missionari Dopo qualche giorno, nei mercati rionali o nei negozi di casalinghi e giocattoli, comparivano i primi Babbo Natale: quelli di plastica, elettrici, che cantano a voce spiegata per la gioia dei timpani dei passanti tutto il repertorio di Bing Crosby. Una visione affascinante, incastrati tra casse di tè dell’Assam, mucchi di spezie, venditori di merendine e dolcetti, cataste di frutta, verdure e fiori. Accom-

pagnati dai venditori di decorazioni e di alberi di Natale: ogni genere di albero, compresi gli alberi di mango o i piccoli banani. La neve, per la maggioranza un’astrazione mitica vista soltanto nei film e difficile da immaginare, ricopriva il tutto in forma di fiocchi di ovatta. Nelle pasticcerie storiche come Fleury o Nohum si vendono pudding di Natale e altri dolci natalizi, i club organizzano per i propri soci pranzi e cene di Natale a base di tacchino arrosto. Tacchino, non pollo: perché a Calcutta, al contrario di quanto accade nel resto del subcontinente in cui se vuoi tacchino devi farlo arrivare da Dubai, si allevano tacchini per Natale. D’altra parte la città è stata fondata dagli inglesi e gli angloindiani costituiscono ancora una buona fetta della popolazione locale. In realtà in passato il Natale aveva una certa rilevanza più che altro nell’India del sud o nel nord-est colonizzato da missionari di varie confessioni di matrice cristiana. L’aspetto religioso della festa ha grande rilevanza in Kerala, dove i cristiani costituiscono il % della popolazione, o in posti come Goa e Pondicherry che sono stati per secoli rispettivamente protettorati portoghesi e francesi e dove si possono vedere, tra

decorazioni di foglie di mango e incensi devozionali, anche delle Natività dalle fattezze locali circondate dalle stesse diyia, piccole lampade a olio adoperate per salutare la dea Lakshmi a Diwali. A Goa, in particolare, si usa mettere sul tetto una diyia la notte di Natale, per simboleggiare la luce portata da Gesù nel mondo. Per tornare a Nuova Delhi e al Natale della capitale, quest’anno, mi dicono, la messa di Natale sarà uno dei posti in cui essere visti. Complice forse l’abbraccio tra il premier Narendra Modi e papa Francesco, difatti, sono in molti a cercare di assicurarsi un posto alla messa di mezzanotte nella chiesa dell’ambasciata del Vaticano. Dove, dopo la messa, si organizza un falò e vengono serviti caffè e torte alla frutta. Chi non riesce ad assicurarsi un invito, ripiegherà sulla Cattedrale del sacro Cuore vicino a Connaught Place, dove si organizzano anche concerti di carole natalizie, o in una delle altre chiese. Dove, tra canti natalizi e inni alla pace, si spera che i partecipanti si accorgano anche delle baracche accuratamente nascoste dietro le facciate bianche e le luminarie, e dei bambini che giocano a piedi nudi dentro a rivoli d’acqua ai bordi della strada. Annuncio pubblicitario


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ATTUALITÀ

Un nuovo occhio nel cielo Prospettive

Il prossimo 22 dicembre verrà lanciato dalla Guyana francese un altro promettente telescopio spaziale

Loris Fedele

Ci stiamo avvicinando al Natale, un periodo dell’anno nel quale qualcuno parlerà di un’antica stella cometa e molti fantasticheranno sull’esistenza umana, su cose celesti, sulla natura stupenda, a volte sorprendente e solo apparentemente immutabile. Di questi tempi, quando il cielo è libero da nubi, ci ritroviamo a meravigliarci della brillantezza di Venere, visibilissima quando il cielo si oscura, e di Giove e Saturno che sembrano fuggire dalla Luna. La curiosità per quel che succede negli spazi lontani ci arriva quasi senza volerlo. Quest’anno c’è qualcosa in più che farà un regalo di Natale a parecchi scienziati, astronomi e cosmologi in particolare. Se tutto andrà come previsto, infatti, il  dicembre sarà lanciato dallo spazioporto europeo di Kourou, nella Guyana francese, un nuovo telescopio spaziale. Sono anni che lo stanno preparando e adesso è pronto al grande balzo. Andrà ad affiancarsi nelle indagini cosmiche all’Hubble space telescope (Hst), il prestigiosissimo telescopio spaziale americano che ha regalato al mondo immagini di straordinaria bellezza e di grande importanza scientifica.

Il telescopio James Webb andrà ad affiancarsi nelle indagini cosmiche all’Hubble space telescope portato in orbita nel 1990 I suoi successi convinsero le Agenzie spaziali americana, europea e canadese a collaborare fin dal  nella progettazione e costruzione di un successore scientificamente ancor più performante. Next generation telescope (Ngst) fu il nome assegnato al nuovo telescopio che poi, nel , fu modificato in James Webb space telescope (Jwst) per dedicarlo a un amministratore della Nasa il quale aveva accompagnato il programma Apollo che portò l’uomo sulla Luna e che aveva anche promosso la realizzazione del Johnson space center

Ispezione dei segmenti dello specchio primario del James Webb space telescope. (Shutterstock)

di Houston, la casa americana degli astronauti. Il primo telescopio spaziale (Hst) era stato invece dedicato a Edwin Hubble, astronomo americano nato nel  che con le sue intuizioni e ricerche aprì la strada alla cosmologia del ventesimo secolo. L’Hst fu portato nella sua orbita a quasi  km da Terra dallo Shuttle discovery nell’aprile  e funziona perfettamente dal . Come si sa i telescopi terrestri sono limitati nella qualità dell’immagine dalle turbolenze legate all’atmosfera. Portare un osservatorio al di sopra di essa avrebbe risolto il problema con la promessa, che si è di fatto realizzata, di scoperte mirabolanti. Hubble fu il primo telescopio ottico mai messo in orbita e le incognite riguardanti la durata del suo funzionamento erano parecchie. Non per nulla lo si volle piazzare in un’orbita terrestre bassa, per poterlo andare a trovare per la manutenzione e per le riparazioni in caso di necessità. Lo si è fatto per ben  volte in  anni e

in due occasioni il nostro astronauta Claude Nicollier è stato della partita. Oggi si spera di tenerlo operativo per almeno altri  anni. Nel frattempo si mette in un’orbita molto più lontana, non più raggiungibile per qualsivoglia riparazione, il telescopio James Webb, un gioiello tecnologico costato quasi  miliardi di dollari. Con un viaggio di  settimane raggiungerà la sua posizione orbitale in un punto denominato «Lagrange » del sistema Sole-Terra, che si trova a una distanza di , milioni di km dall’orbita terrestre, cioè  volte più lontano della Luna. In quel punto le attrazioni della Terra e del Sole si bilanciano. Proprio in quell’orbita negli anni scorsi sono stati piazzati con un ottimo successo operativo altri telescopi con compiti particolari. Jwst resterà allineato con l’orbita terrestre in modo da consentire allo scudo termico multistrato di cui è dotato di proteggerlo dalla luce e dal calore del Sole. Il suo specchio primario di , metri di diametro (quello

di Hubble è di , m) rifletterà la luce degli oggetti indagati verso  strumenti scientifici molto sofisticati. Due di questi hanno visto la partecipazione diretta della Svizzera: sono coinvolti il Politecnico federale di Zurigo e due partner industriali. Lo specchio primario è frutto di sorprendenti tecnologie inventate per l’occasione: è composto da  elementi esagonali in berillio ultraleggero affiancati a nido d’ape che, dispiegandosi nello spazio dopo il lancio con l’aiuto di micromotori, comporranno la grande superficie finale. Questo assetto è stato reso obbligatorio dal fatto che il telescopio ( metri per ) è più grande dello spazio disponibile nella capsula montata sul razzo europeo Ariane  che lo lancerà. Quindi deve essere ripiegato su di sé nella fase di lancio, cosa che ha comportato una progettazione complicata e ha richiesto lunghi tempi di realizzazione. Hubble osserva la luce dell’universo sulle frequenze del vicino ultravioletto e del vicino infrarosso, oltre naturalmente alla luce vi-

sibile. Webb estenderà il suo campo visivo fino al medio infrarosso, cosa che gli permetterà di osservare oggetti celesti più freddi e più antichi di quelli che Hubble poteva vedere. Si cercherà di scoprire la formazione delle prime stelle, vederle crescere e magari formare quei pianeti lontanissimi (gli esopianeti) che continuiamo a trovare e che ci intrigano, pur nella consapevolezza che non potremo mai raggiungerli come esseri umani. Ci interessano la nascita dei buchi neri e la crescita delle galassie, guardando sempre più lontano. Tutto ciò corrisponde a vedere più indietro nel tempo perché la velocità della luce è finita (mila km al secondo) e quando ci porta un’immagine di un corpo celeste ce lo fa vedere come era al momento dell’emissione della sua luce. Già con Hubble si è valutata l’età dell’universo in circa , miliardi di anni. Con Webb ci si aspetta di vedere la sua storia a partire da soli  milioni di anni dopo il Big bang che ne segnò la nascita. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

La schiavitù moderna esiste anche in Svizzera Criminalità

Per lottare contro la tratta di esseri umani la Confederazione presenterà presto un terzo piano d’azione nazionale

Luca Beti

Maria deve pulire, fare il bucato, cucinare e occuparsi dei bambini, per  ore al giorno, sette giorni su sette, senza salario. Viene insultata, umiliata, picchiata, minacciata e subisce abusi sessuali. Dopo essere stata schiavizzata per nove mesi, la trentenne dell’Europa dell’est riesce a scappare e con l’aiuto di un vicino si rivolge alla polizia. Kamal lavora  ore al giorno in un ristorante ed è costretto a dormire con altre cinque persone sul pavimento in una stanza. Non riceve un salario e quando chiede al suo capo di essere pagato, questo lo aggredisce e lo minaccia di rimandarlo in Bangladesh. Kamal è allo stremo delle forze. Un cliente del ristorante nota la sua disperazione e lo accompagna dalla polizia. Non siamo in un Paese del sud del mondo, ma nella prospera Svizzera. Due esistenze distrutte da persone senza scrupoli che fuori dalle mura domestiche conducono una vita normale, senza mostrare il loro vero volto, quello degli aguzzini. Difficile identificarli e portarli alla sbarra. A volte però succede. Per esempio, nell’aprile  il Tribunale correzionale di Ginevra ha condannato un cittadino lituano a sei anni di detenzione per tratta e sfruttamento di esseri umani. L’imprenditore edile aveva reclutato operai nell’Europa dell’est per sfruttarli sui cantieri nei cantoni Ginevra, Vaud e Vallese, pagandoli da  centesimi a , franchi all’ora, alloggiandoli in condizioni disumane. In Svizzera le condanne si contano sulle dita di una mano. Eppure nel nostro Paese si registrano centinaia di vittime ogni anno. Nel  la Piattaforma svizzera contro la tratta di esseri umani ha identificato  vittime, una cifra che è solo la punta dell’iceberg. Infatti è un fenomeno criminale sommerso ed è quindi impossibile quantificarne il numero reale. Ciò che si sa è che la maggior parte delle vittime sono giovani donne straniere (%), sfruttate soprattutto nel mon-

do della prostituzione. Ma anche gli uomini finiscono nelle grinfie di individui senza coscienza che li accalappiano con la promessa di un futuro migliore lavorando nel settore edile, agricolo o nell’industria alberghiera e della ristorazione. Come sappiamo, quando giungono in Svizzera la realtà è un’altra. Le vittime provengono in maniera particolare da Romania, Nigeria, Camerun e Ungheria, Paesi che non offrono molte prospettive. Ed è proprio facendo leva su questa situazione di povertà, disagio e vulnerabilità che i mercanti di persone fanno credere lucciole per lanterne. Finite nella loro rete, le vittime vengono trattate come merce, senza alcun riguardo per la dignità umana. Ma cos’è esattamente la tratta di esseri umani? La definizione adottata a livello internazionale contempla varie forme di sfruttamento. Stando all’articolo  del Codice penale svizzero sono punite le attività volte ad assumere, procurare, offrire, ospitare o accogliere esseri umani ai fini dello sfruttamento sessuale, come manodopera o per il prelievo di organi. Secondo le stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), a livello globale circa  milioni di persone sono vittime di lavoro forzato. La tratta è un commercio molto lucrativo. Si calcola che questa schiavitù moderna generi ogni anno  miliardi di dollari. In Europa, in un solo anno, i proventi criminali della tratta a scopo di sfruttamento sessuale sono stimati a circa  miliardi di euro. Il quinto rapporto globale sulla tratta di persone dell’Onu (Global report on trafficking in persons ) presenta una panoramica del fenomeno. Nel  in  Paesi sono state individuate mila vittime, di cui il % erano donne e ragazze sfruttate sessualmente, il % erano uomini adulti impiegati come manodopera a buon mercato, il % era obbligato a svolgere attività criminali e il resto era costretto a chie-

Le vittime sono spesso giovane donne spinte alla prostituzione. (Keystone)

dere l’elemosina, a sposarsi o a donare organi. Vista la dimensione globale del fenomeno la lotta può solo essere concertata. L’Ufficio federale di polizia (Fedpol) collabora con le autorità di polizia Europol e Interpol per smantellare le reti internazionali. Inoltre la Svizzera ha concluso vari accordi bilaterali di cooperazione con numerosi Stati europei. Ad esempio, nell’ambito del contributo svizzero all’allargamento, la Confederazione ha promosso un progetto in Romania, Paese considerato uno dei prin-

cipali Stati di origine della tratta di esseri umani e dei trafficanti nell’Ue. Ed è così che grazie alla collaborazione tra una Ong rumena, la polizia e la magistratura elvetiche è stato possibile arrestare un uomo e liberare una donna costretta a lavorare per lui in Svizzera. Purtroppo sono poche le indagini transfrontaliere che portano alla cattura dei mercanti di persone. Infatti le vittime provengono spesso da Paesi con cui la cooperazione tra le autorità investigative è complicata a causa della corruzione o delle strutture statali deboli che rendono difficile

la lotta contro il crimine organizzato. A livello nazionale la Svizzera ha lanciato nell’ottobre  un piano d’azione contro la tratta di esseri umani. Nell’ottobre  è stata presentata la valutazione degli sforzi profusi negli ultimi otto anni per lottare contro questo fenomeno. Stando al rapporto dell’Ufficio federale di polizia,  misure delle  previste sono state attuate. Tra queste ci sono campagne di sensibilizzazione, corsi di formazione per le autorità di perseguimento penale e le autorità migratorie, check-list per identificare gli autori. Presto verrà presentato un terzo piano d’azione nazionale che punterà soprattutto sull’assistenza delle vittime, sulla lotta contro lo sfruttamento lavorativo e sull’identificazione dei trafficanti che usano internet. Come ricorda la nuova strategia europea per la lotta alla tratta di esseri umani - sarà altrettanto importante puntare l’attenzione sui flussi di denaro visto che a capo ci sono organizzazioni strutturate come delle «piccole e medie imprese del crimine». Per questo motivo bisognerà rafforzare la collaborazione con le banche affinché siano in grado di segnalare le transazioni sospette alle autorità giudiziarie. Che in Svizzera si possa fare ancora meglio ce lo ricorda un rapporto del Consiglio d’Europa. Il gruppo di esperti Greta elogia il nostro Paese per i progressi compiuti, lo bacchetta però perché non protegge a sufficienza i richiedenti l’asilo che sono stati vittime della tratta di esseri umani all’estero. Anche l’Alto commissariato per i rifugiati giunge alla stessa conclusione, ossia che la Confederazione non fa ancora abbastanza. E a causa della pandemia questo fenomeno è destinato ad aumentare. Stando a Europol e Interpol, le conseguenze economiche provocate dalla crisi provocheranno più emigrazione dai Paesi più poveri e di conseguenza anche più vittime della tratta di esseri umani. Annuncio pubblicitario

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXIV 13 dicembre 2021

azione – Cooperativa Migros Ticino

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ATTUALITÀ ●

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Pandemia e correlazioni ◆

La correlazione statistica è una relazione tra due, o più, grandezze i cui valori si sviluppano in modo simile. La correlazione è positiva quando al crescere dei valori di una di queste grandezze anche i valori delle altre crescono; è invece negativa se al crescere dei valori di una grandezza i valori delle altre diminuiscono. Il tasso di correlazione misura il grado di connessione delle grandezze coinvolte. La correlazione è minima quando il tasso di correlazione è vicino a ; è massima invece se i suoi valori si avvicinano a  o a – . La correlazione fu scoperta, verso la metà del XIX secolo dal fisico francese Bravais ed elaborata in seguito dallo statistico americano Pearson. Da allora ha riempito le pagine di molti giornali scientifici in particolare di quelli delle scienze sociali. Scoprire che due grandezze sono correlate – come, per esempio, una cinquantina di anni fa ancora lo era-

no la quota di voti del PPD e la quota della popolazione cattolica di un Cantone (ad eccezione del Ticino ovviamente) – è una constatazione che può aiutare a costruire una spiegazione per un determinato fenomeno sociale o politico. Ancora però non è una teoria. In particolare non bisogna pensare che se esiste correlazione tra due grandezze, tra le stesse esista anche una relazione di causa ad effetto. Si può comunque cominciare a pensarci su. Deve essere questa conclusione che ha spinto i giornalisti della NZZ un paio di settimane fa a pubblicare due grafici nei quali la frequenza dei contagi di Covid nei Cantoni, nel corso della seconda quindicina del mese di novembre, veniva messa in correlazione con la quota di persone vaccinate a metà novembre, nel primo, e con la quota di elettori che avevano votato per l’UDC in occasione delle ultime vo-

tazioni federali, nel secondo grafico. I risultati sono abbastanza significativi. Il tasso di correlazione è uguale a –, per la correlazione tra la quota di vaccinati e la frequenza dei contagi nella seconda metà di novembre. In altre parole più alta era la quota di vaccinati a metà novembre e più bassa è stato il numero di contagiati per ’ persone nelle due settimane seguenti. La correlazione tra nuovi contagi e quota di vaccinati è quindi negativa e statisticamente significativa. Ancora più significativa però è la correlazione, questa volta positiva, tra la quota di nuovi contagi e la quota di voti UDC. Il tasso di correlazione è in questo caso positivo e pari addirittura a ,. Come dire che, in mancanza di statistiche sui contagi, per sapere dove il Covid sta imperversando in questa sua quarta ondata, basterebbe conoscere la quota dei voti UDC nelle votazioni federali più recenti. La

quota di nuovi contagi più elevata era quella del Canton Appenzello esterno, un Cantone nel quale la quota degli elettori UDC, nelle elezioni federali del , si è avvicinata al %. La quota di nuovi contagi era invece al suo valore più basso in Ticino dove la quota di voti UDC era, sempre nel , appena superiore al %. Ora, correndo un po’ troppo facilmente alle conclusioni, si potrebbe dedurre che se A si comporta come B e C si comporta come B, anche C dovrebbe comportarsi come A. Per essere più chiari si potrebbe concludere che se due grandezze sono correlate con la medesima terza grandezza, le stesse sono anche correlate tra di loro. Nel nostro caso potremmo dunque argomentare che la quota di vaccinati è negativamente correlata con la quota di voti UDC. Più alta è la quota di voti UDC e minore è la quota di persone vaccinate. Ovviamente questa

conclusione varrebbe unicamente per il periodo a cui si riferiscono i dati, ossia la seconda metà di novembre del . Fino ad allora i dati dei grafici provano che i non vaccinati si trovavano soprattutto nelle file dell’UDC. Ma non è detto che in futuro le cose non cambino. Stando ai commenti che hanno seguito le votazioni del  novembre è infatti probabile che questa correlazione non valga più in futuro. Sembra infatti che i no-vax nostrani siano notevolmente delusi del contributo dell’UDC alla loro campagna referendaria contro la legge sul Covid. E ancora più delusi del fatto che una parte del partito di Blocher si sia pronunciata contro il loro referendum. Essi intenderebbero perciò costituirsi, nel prossimo futuro, come movimento politico indipendente. Né a destra, né a sinistra, ma certamente fuori dall’UDC – affermano. Per chi ci crede…!

Affari Esteri

di Paola Peduzzi

Gli adulti dietro le stragi dei ragazzi ◆

Il  novembre scorso Ethan Crumbley,  anni, ha ucciso  suoi compagni di scuola, che avevano dai  ai  anni, e ne ha feriti altri in un liceo di Oxford, in Michigan. È stato arrestato, ora è in carcere accusato di omicidio e di terrorismo. Questo attacco è il più grave dal maggio del , quando furono uccisi in un liceo di Santa Fe, in Texas,  studenti e  professori. Quest’anno negli Usa ci sono stati  attacchi nelle scuole, il numero più alto dal . La maggior parte di questi attentati è stata fatta da studenti che avevano trovato le armi a casa propria o di un parente. Anche Ethan ha trovato la pistola con cui ha sparato in casa: all’inizio sembrava che l’avesse presa al padre, ora invece sembra che i suoi genitori gliel’avessero regalata poco tempo prima. I signori Crumbley, James e Jennifer, sono stati accusati di omicidio involontario: è una mossa inusuale perché di solito – purtroppo la casistica

in America è ampia – gli adulti che posseggono un’arma non sono considerati responsabili se i loro figli la usano contro se stessi o contro altri. Ma la procuratrice Karen McDonald che si occupa del caso ha detto che i possessori di armi hanno la responsabilità di custodirle in luoghi sicuri e poco accessibili, soprattutto se ci sono in giro dei minori: «Se non lo fanno, sono tenuti a renderne conto». La decisione di McDonald ha creato un dibattito sul ruolo degli adulti nelle stragi dei ragazzi: la procuratrice dice che «bisogna fare di più» rispetto al solito perché il controllo delle armi, piaga feroce del Paese, deve essere una responsabilità che riguarda tutti, non solo i minori che finiscono per utilizzarle. I movimenti pro e anti armi in America sono molto attivi e politicamente polarizzati, e la discussione in queste ultime settimane è stata vivace soprattutto per quel che riguarda l’u-

tilizzo delle armi come legittima difesa, che è uno dei temi più sentiti e controversi della cultura americana. Nonostante i numeri in crescita delle stragi nelle scuole, il Congresso e la Casa bianca, anche a guida democratica, non sono riusciti a regolamentare in modo efficace l’acquisto e la vendita delle armi. Per questo McDonald pensa che il coinvolgimento degli adulti sia più che necessario, ma con i signori Crumbley è diventato anche inevitabile: più emergono i dettagli su quanto è accaduto, più la responsabilità dei genitori di Ethan diventa evidente. La mattina della strage la coppia era stata convocata dal preside del liceo per discutere del comportamento di loro figlio in classe: era presente anche Ethan. Tre ore dopo il ragazzo è entrato in bagno con uno zainetto sulle spalle, ne è uscito con la pistola in mano e ha cominciato a sparare. Molti compagni si sono chiusi

in un’aula, lui è andato a bussare e ha finto di essere un poliziotto. «Va tutto bene, fatemi entrare», ha detto. Uno studente ha risposto da dietro la porta: «Non vogliamo rischiare». Ed Ethan ha ripetuto: «Va tutto bene, aprite la porta. Va tutto bene bro». Sentendo «bro», i ragazzi hanno capito che non poteva trattarsi di un adulto e non hanno aperto. La scuola non è mai stata avvisata del fatto che Ethan avesse accesso a un’arma da fuoco. Il giorno prima della strage un insegnante aveva visto che Ethan, durante la lezione, guardava dei siti di proiettili sul suo telefono e per questo i suoi genitori erano stati chiamati dal preside. La mattina della strage un altro insegnante aveva segnalato un disegno di Ethan: una pistola, una faccina che ride, le scritte «sangue ovunque» e «i miei mostri non se ne vanno, aiutatemi». Ethan si era giustificato dicendo che quel disegno faceva parte del

progetto di un videogioco cui stava lavorando. Al colloquio con i genitori il preside aveva segnalato questi episodi, aveva detto alla coppia che aveva  ore per cercare uno psicologo e un sostegno per Ethan altrimenti avrebbe chiamato lui i servizi sociali. Il preside aveva anche chiesto ai genitori di portare a casa Ethan con loro quella stessa mattina, ma loro avevano risposto che erano attesi al lavoro. Ethan era quindi tornato in classe. Poche ore dopo avrebbe commesso la strage. Quando i signori Crumbley sono stati accusati di omicidio non si sono fatti trovare a casa. La polizia ha dovuto cercarli e infine li ha trovati in un capannone di Detroit dove, secondo le autorità, si stavano nascondendo e forse organizzavano la fuga. Non sembravano, hanno detto gli agenti, sul punto di consegnarsi. Ora tutta la famiglia è detenuta, in celle separate, a Oakland: James e Jennifer si sono dichiarati non colpevoli.

Zig-Zag

di Ovidio Biffi

Traiettorie e destino dei giornali ◆

C’è il camino, c’è la polenta, c’è l’atmosfera di uno dei più amabili grotti del Mendrisiotto e c’è anche il piacere di ritrovare Angelo, mitico proto al «Corriere del Ticino» e quindi capotecnico impegnato in settimanali schermaglie tipografiche anche per «Azione». Quasi venti anni di pensione non hanno allentato i riflessi pavloviani di chi ha trascorso una vita a sfornare giornali. «Sono curioso di sapere che tiratura hanno oggi il “Corriere del Ticino” e la “Regione”» mi dice subito, riferendosi all’apertura della caccia agli abbonati dei due quotidiani ticinesi. E così, sfidando ogni tanto il bettolìo, per quasi due ore parliamo di editoria tra passato e presente. Impossibile proporre un resoconto, anche perché sarebbe scorretto coinvolgere l’amico in una sorta di «briefing» non convenuto. Mi limito allora a impressioni personali, quelle iniziate alla fine

del pranzo quando, chiuso l’ombrello per entrare in auto, mi accorgo dello scheletro industriale della Saceba. Di colpo nella mente mi arriva la somiglianza fra la parabola in discesa dei giornali e quella della breve avventura del cementificio del Mendrisiotto. Altre similitudini le trovo a Rancate, alla pinacoteca Züst, dove avevamo programmato un «post grotto» culturale con la mostra L’incanto del paesaggio. Sono le intense proposte delle prime sale della Züst a destare una forte analogia fra l’evoluzione compiuta dalla cartografia e quella ancora in atto della editoria. Certo: qui c’è il fil rouge di carta, inchiostri e colori. Ma a rafforzare le somiglianze è soprattutto la corrispondenza dei cambiamenti. Da un lato apparecchi fotografici, droni e nuove tecnologie giunti ad ammodernare riproduzioni e letture dei territori, a rivoluzionare l’arte dei paesaggisti

(impossibile non citare i mirabili disegni dell’architetto Hermann Fietz), cioè a segnare la trasformazione della cartotecnica. Dall’altro, nell’editoria, praticamente le stesse evoluzioni tecnologiche, spinte sino a grafica digitale, sistemi informatici e fotocomposizione, che già hanno soffocato l’arte dei tipografi e scatenato nello scenario editoriale opportunità e pericoli, innovazioni e fallimenti, genialità e abusi. Inevitabile l’interrogativo: visto che non solo i turisti, ma persino le guide alpine oggi consultano non le cartine topografiche ma gli smartphone, presto o tardi anche l’informazione non sarà più cartacea e i giornali si consegneranno al digital first? Volendo dribblare cose scontate e ripetitive cerco due paletti indicatori. Il primo, in partenza, reca una poco nota massima di Karl Marx: «È portato a vedere chiodi dappertutto chi

ha in mano un martello». Non occorre spiegare che nel nostro caso coloro che hanno in mano il martello da decenni e vedono chiodi ovunque sono editori e giornalisti. Sono loro che, picchiando colpi spesso alla cieca o per imitazione, non avvertono più nemmeno le loro assurdità. L’ultima? Giustificare con il rincaro della carta i nuovi e inevitabili aumenti degli abbonamenti e nel contempo affidare la caccia ai lettori e abbonati a pubblicazioni cartacee gratuite (dai tabloid ai domenicali, dagli allegati agli inserti «sperlusenti»). Oppure, come fa l’editoria italiana, decidere di togliere la cultura dai quotidiani e svenderla poi a parte a prezzi irrisori. Esagero? Il settimanale «La Lettura» costa  euro (da noi  franco, cinque volte meno di un settimanale di gossip) mentre per «Review», nuovo mensile culturale che inebria per ore occhi e mente (irrepe-

ribile in Ticino), il «Foglio» chiede addirittura  centesimi di euro! Sicuri che queste ed altre scelte editoriali siano le più efficaci per catturare chi per l’attualità già si accontenta del web o delle app dei social media? Secondo paletto indicatore. Ricorda Winston Smith, il protagonista di  di Orwell che correggeva libri e articoli di giornale «che non dicevano la verità di quel momento»: corretti, gli articoli di giornale avrebbero proposto una versione esatta dei fatti a chi li avrebbe consultati. Mi vien da credere che anche il destino dei giornali può ancora cambiare se editori e giornalisti, oltre a preoccuparsi di abbonati e pubblicità, riusciranno prima a convincere autorità e popolazione che solo la carta, con libri e giornali, potrà offrire rimedi contro la perdita di verità dell’informazione e la fragilità delle certezze del digitale.


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CULTURA

azione – Cooperativa Migros Ticino 43

Un sogno che ne vale due Ispirato da Schnitzler, diretto da Rifici: Doppio Sogno debutta al Piccolo Teatro Studio Melato

Cent’anni or sono Caruso... È passato un secolo dalla morte di Enrico Caruso, ma il suo nome sembra votato all’eternità

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Questione di identità A colloquio con Sarah Parenzo, musa del recente romanzo di Abraham B. Yehoshua

Geniale Virgil Abloh Un ricordo del grande stilista visionario Virgil Abloh, scomparso prematuramente

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Veduta della mostra «Domenico Gnoli» Fondazione Prada, Milano. (Foto: Roberto Marossi. Courtesy: Fondazione Prada)

Là, dove risuona la storia dell’arte italiana Mostre

Domenico Gnoli protagonista di un’esposizione alla Fondazione Prada di Milano

Elio Schenini

Siamo tutti d’accordo, la grande retrospettiva che la Fondazione Prada di Milano dedica a Domenico Gnoli è proprio bella. Bellissimi, quasi da rimanere senza parole, i suoi dipinti, soprattutto quelli realizzati in quel brevissimo giro d’anni che vanno dal  al , anno della sua morte prematura. Bello, come sempre, l’ex spazio industriale, che la tenacia di Miuccia Prada e il genio di Rem Koolhaas hanno già trasformato in un classico dell’architettura museale del nuovo Millennio, restituendo a Milano un ruolo di primo piano nel panorama espositivo dell’arte contemporanea. Bella e soprattutto vestita in modo giusto, la gente che si aggira per le sale. Tuttavia, per non rimanere sopraffatti di fronte a tanta ineffabile bellezza e per non soccombere alla sensazione che «la vita in noi si è esaurita», come capitò a Stendahl visitando la Chiesa di Santa Croce a Firenze, dobbiamo aggrapparci a quelle piccole imperfezioni, a quelle lievi stonature che pure si affacciano qua e là in un quadro a prima vista impeccabile. Solo così possiamo tornare con i piedi saldamente per terra e sottrarci al senso di vertigine provocato da un eccesso di bellezza che ri-

schia di travolgerci. In qualche modo dobbiamo fare anche noi come ha fatto per tutta la vita lo stesso Gnoli, il quale parlando della propria pittura diceva: «mi servo sempre di elementi dati e semplici, non voglio aggiungere o sottrarre nulla. Non ho neppure avuto mai voglia di deformare: io isolo e rappresento. I miei temi derivano dall'attualità, dalle situazioni familiari della vita quotidiana; dal momento che non intervengo mai attivamente contro l'oggetto, posso avvertire la magia della sua presenza». È proprio nella discrepanza tra questa dichiarazione di poetica dell’artista e le scelte allestitive che ci sembra di cogliere una prima, quasi impercettibile, ma alla prova dei fatti profonda incrinatura in un quadro apparentemente perfetto. La grande forza della pittura di Gnoli, in modo particolare quella della piena maturità stilistica, a cui l’artista romano giunge intorno alla metà degli anni Sessanta dopo essersi lasciato alle spalle una lunga e fortunata carriera di illustratore, sta nell’apparente semplicità di un gesto che prende un minuscolo e insignificante dettaglio dall’universo della propria quotidianità, lo isola dal suo contesto e ingrandendolo, lo proietta in una dimensione monumentale

in cui si avverte però la sottile vibrazione di un’eco metafisica. I quadri di Gnoli non sono altro che isole solitarie circondate dal nulla, banalissimi frammenti di mondo che fluttuano affermando la loro irriducibile e misteriosa presenza in un vuoto cosmico assoluto dentro il quale aprono, come aveva ben capito Calvino, nuove infinite potenzialità narrative. Da qui nasce appunto la loro «magia». Purtroppo l’allestimento progettato dallo Studio x di New York non sembra avere saputo cogliere e preservare pienamente questa magia. Troppo fittamente accostati sulle pareti secondo un ordine dettato dai soggetti rappresentati, i quadri finiscono per essere sottratti alla loro insularità metafisica per tornare dentro la logica narrativa prodotta dall’inevitabile articolazione sintattica che la loro vicinanza produce. L’eccessiva densità dell’accrochage determina una rottura dell’isolamento in cui è confinata ogni singola immagine, contraddicendo il gesto iniziale dell’artista e attenuandone la misteriosa forza evocativa. Se la scelta di articolare l’allestimento per raggruppamenti tipologici (le scarpe, le cravatte, le scriminature) è riconducibile direttamente a Germano Celant, ovvero

a chi questa retrospettiva ha avuto il merito di concepirla e immaginarla, anche se poi a causa del Covid non l’ha potuta portare a compimento, chi ne ha completato il lavoro dopo la sua morte non ha probabilmente capito che nel caso di ogni mostra le ipotesi iniziali vanno verificate ed eventualmente corrette, se non addirittura capovolte, in fase di allestimento. Siamo certi che con l’intelligenza critica e la sensibilità spaziale che lo hanno sempre caratterizzato, Celant avrebbe saputo correggere un’ipotesi di lavoro, mentre chi ne ha ereditato il compito forse non ha avuto la forza di misurarsi con la sua auctoritas. Nell’enfasi attribuita alla serialità dall’allestimento traspare forse anche l’inconscio intento di sottrarre il percorso singolare di Gnoli al provincialismo italiano per collocarlo in un contesto internazionale che in quegli anni era, come ben sappiamo, dominato dalle ripetizioni della Pop Art americana. Un intento di fondo che in qualche modo si avverte anche nella bella (e come poteva essere altrimenti) pubblicazione bilingue realizzata per l’occasione, in cui il catalogo delle opere si alterna a un ricchissimo apparato biografico e cronologico, vero e proprio marchio

di fabbrica celantiano fin dai tempi della mostra Identité italienne del . Sfogliandone le pagine scopriamo infatti che a farla da padrone è l’inglese, mentre l’italiano è relegato in una compressa e quasi clandestina sezione finale. Eppure, come ci ricorda anche il bel (l’avevate ormai intuito) saggio di Salvatore Settis, la pittura di Gnoli è profondamente radicata nella tradizione della pittura italiana. La sua materia pittorica impastata di sabbia che ricorda la superfice di un affresco, i suoi colori dai toni smorzati e gli accordi cromatici ricchi e complessi, al di là di vaghe e superficiali assonanze, non hanno nulla a che vedere con le campiture ultrapiatte e i colori fluorescenti e senza memoria della Pop Art. E allora forse è il caso di dirlo chiaramente, e di dirlo in italiano, la pittura di Gnoli ha un valore universale perché in essa sentiamo risuonare la storia, la storia straordinaria dell’arte italiana. Dove e quando Domenico Gnoli, Fondazione Prada, Milano (Largo Isarco). Orari: 10.00-19.00; martedì chiuso. Fino al 27 febbraio 2022. fondazioneprada.org


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CULTURA

Variazioni sul tema dell’adulterio Teatro

Venti giovani attori e l’adattamento di una novella di Schnitzler

Giovanni Fattorini

Originariamente interpretato dai diplomandi della Scuola di Teatro del Piccolo di Milano diretta da Carmelo Rifici, Doppio sogno è attualmente in scena al Teatro Studio Melato con alcuni degli interpreti di allora, oggi attori professionisti. È necessario tener conto della sua originaria natura di spettacolo dell’ultimo corso di studi per valutare l’adattamento della bellissima novella di Arthur Schnitzler intitolata in italiano Doppio sogno (in tedesco: Traumnovelle): un adattamento che il giovane drammaturgo Riccardo Favaro ha elaborato con una cura che meriterebbe più attenzione di quella che potrò dedicargli nello spazio a mia disposizione. Doppio sogno è una novella in terza persona che fa abbondantemente uso del discorso indiretto libero, cioè del procedimento con cui un narratore, pur restando in apparenza estraneo ai personaggi, ne assume il punto di vista e adottandone il linguaggio ne restituisce mimeticamente i pensieri, le emozioni, i sentimenti. Tema di fondo del racconto è l’adulterio (l’antitesi fedeltà-tradimento all’interno di una giovane coppia formata dal medico Fridolin e da sua moglie Albertine). L’adulterio è notoriamente un tema «ossessivo» di buona parte della narrativa e della drammaturgia ottocentesca e primonovecentesca. La novella di Schnitzler racconta però di un adulterio fantasticato da entrambi

i coniugi, più volte sfiorato dal marito, ma consumato soltanto dalla moglie, in sogno. All’inizio, lui e lei rievocano le tentazioni di tradimento vissute durante il ballo mascherato della sera prima e nel corso di una recente vacanza in Danimarca. Improvvisamente, per motivi professionali, Fridolin deve uscire di casa. Ha così inizio un viaggio notturno che lo condurrà fino alla periferia di Vienna: una piccola odissea medio-borghese durante la quale conoscerà più volte la tentazione dell’adulterio. Quando rientra, Albertine gli racconta distesamente un sogno che a lui sembra ben più avventuroso e sconvolgente del viaggio da cui è appena tornato. Poche ore dopo, Fridolin è di nuovo fuori casa: il suo viaggio diurno è motivato soprattutto dalla volontà di rivisitare alcuni luoghi e di chiarire alcune circostanze preoccupanti di quello notturno. Al suo ritorno (è già buio) racconta alla moglie le esperienze della notte precedente. La sensazione di reciproca trasparenza e di scampato pericolo indotta dal racconto del sogno di Albertine e dalla confessione di Fridolin sembra colmare la distanza che da qualche tempo si è creata fra loro. Durerà a lungo? Albertine suggerisce di non ipotecare il futuro. L’articolazione spazio-temporale della novella di Schnitzler è nitidis-

sima. Ma la tessitura della narrazione (coi suoi parallelismi, le analogie, le contrapposizioni, le specularità, i passaggi dalla terza persona al discorso indiretto libero) è straordinariamente complessa. Insomma, una vera gatta da pelare per chi voglia approntare un adattamento da affidare all’interpretazione di un consistente gruppo di diplomandi. La decisione più rilevante presa da Riccardo Favaro è stata quella di moltiplicare la coppia protagonista e di raddoppiare alcuni personaggi. Nello spettacolo (prodotto dal Piccolo di Milano e inscenato da Carmelo Rifici) abbiamo così sette Albertine, cinque Fridolin, due Marianne, due Mizzi, due Nachtigall e due «donne della villa». Usando il passato remoto e l’imperfetto indicativo, le attrici e gli attori che li interpretano (e che interpretano anche altri personaggi) a volte parlano in terza persona come narratori realisticamente obiettivi e a volte si raccontano in prima persona come autori di un’autofiction. Altre volte invece dialogano come personaggi ritratti dal vivo. Tutto ciò ingenera una certa confusione nello spettatore e rende il testo di Favaro meno coinvolgente del testo di Schnitzler. Dovrei parlare di molte altre cose. Per esempio della didascalica amplificazione del dialogo tra tra Mizzi e Fridolin; dell’errore di avere chiassosamente animato i costumi di Gibi-

Una scena di Doppio Sogno, in scena a Milano. (© Masiar Pasquali)

ser; di avere quasi annullato il gotico, simbolico e indimenticabile viaggio di Fridolin verso la villa extraurbana; della forse inevitabile goffaggine della scena orgiastica (che è venuta male anche a Kubrick); del troppo mutilato racconto del sogno di Albertine; di alcune raggelanti e poco convincenti considerazioni metateatrali su per-

sonaggi e racconto. Mi resta solo lo spazio per dire che gli ex diplomandi – guidati con accortezza da Rifici – dimostrano di aver meritato il loro diploma. Dove e quando Milano, Piccolo Teatro Studio Melato, fino al 23 dicembre. Annuncio pubblicitario

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CULTURA

La parabola di Enrico Caruso Anniversari

Un ricordo del grande artista a cent’anni dalla morte

Giovanni Gavazzeni

La parabola di Enrico Caruso è quella di un grande sogno: l’emigrante che lascia miserie e difficoltà del paese natale e trova il successo oltreoceano. Conquista quell’America amara che accoglieva gli emigranti italiani con i lavori più duri e umilianti. Caruso diventa la stella più fulgida della Metropolitan Opera di New York, governata dal ferrarese Giulio Gatti Casazza. Il Sovrintendente di ferro definisce «economico» il più pagato cantante del mondo, perché incassa sempre molto più di quanto costa.

La vita e la morte di Enrico Caruso, furono sempre fittamente intrecciate con le tematiche delle sue interpretazioni Guida musicale di quel Met è Arturo Toscanini che con Caruso ha trionfato alla Scala e al Colon di Buenos Aires e con il quale terrà a battesimo La Fanciulla del West di Puccini. Oltre New York, si contenderanno Caruso, le grandi capitali: Londra, Parigi, Buenos Aires, Montevideo, Rio de Janeiro, San Pietroburgo. Il figlio di un operaio e di una cameriera, giunti a Napoli dal Matese (oggi provincia di Caserta), gode di una popolarità e di un’attenzione della stampa come un reale. Rimane però sempre umile, ricordando quando cantava nelle chiese, nei café-chantants, al Caffè Gambrinus; la gavetta delle prime scritture in provincia, le trasferte al Cairo e ad Alessandria. La leggenda lo vuole scoperto dal grande tenore Fernando De Lucia mentre fa il posteggiatore allo stabilimento balneare Risorgimento di Napoli. Posteggiatori, che va ricor-

dato, a Napoli erano popolari canzonettisti come Ciccillo o’ tintore, Totonno o’ nas’e’cane. La vita personale di Caruso si identificò con le tematiche dolorose delle canzoni napoletane che rese famose per l’etichetta Victor (sarà il primo a vendere un milione di copie con O sole mio che all’estero scambiano come inno nazionale al posto della Marcia reale). Torna a Surriento, i classici Santa Lucia e Fenesta ca lucive, la finissima Vucchella di D’Annunzio e Tosti, ma soprattutto Core ’ngrato, brani che diventeranno un canone per ogni grande tenore che aspiri a seguire le orme di Caruso. Il dolore dell’uomo tradito e abbandonato dalla donna amata, cantato nella canzone di Cordiferro e Cardillo, fu quello che provò Caruso, piantato e poi ricattato dalla prima moglie, il soprano Ada Giachetti, che era fuggita con l’autista di famiglia. Forse anche per questo il ruolo iconico di Canio nei Pagliacci è quello più universalmente accostato a Caruso, il quale portò al trionfo come primo interprete anche altre opere dei compositori della Giovane Scuola italiana: s’è detto di Puccini da cui si era recato per studiare Bohème e di cui diede molte prime esecuzioni in America, Giordano (Fedora), Cilea (Adriana Lecouvreur e Arlesiana), portando lustro anche a opere deboli di Leoncavallo, Mascagni e Franchetti. Così anche la sua morte divenne leggenda mescolata al teatro. Il teatro e la vita si scambiano le parti: come nei Pagliacci, dove il protagonista deve continuare a recitare mentre la gelosia di scoprire l’amante della moglie lo spinge all’omicidio. Caruso nell’autunno del  a New York, affronta la parte pesante di Sansone nel capolavoro di Saint-

Enrico Caruso in un’immagine del 1913. (Shutterstock)

Saëns, lavoro che gli procura sempre «un mezzo guaio», tanto che a fine spettacolo, dopo aver fatto crollare il tempio di Dagone, si deve buttare a terra per distendere i nervi delle costole. Cinque giorni dopo deve cantare il suo ruolo feticcio, Canio. Decide di non fare parola di un dolore che sente al fianco: «un’artista di vaglia non ha più il diritto di stare ammalato, e siccome i vecchi artisti m’insegnarono che quando si ha un nome e non si vuole smettere di cantare, bisogna cantare anche morti», scrive ad amici in Italia dall’albergo dove vive in  stanze, l’Hotel Vanderbilt fra la esima e Park Avenue. (La lettera è conservata in un archivio privato di Lugano, al cui proprietario va il sincero ringraziamento per aver generosamente messo a disposizione i pre-

ziosi documenti). In mattinata la voce esce «na’ meraviglia». Uscito in scena sul carretto avverte una pugnalata al fianco sopra il SOL. «Arrivato all’Arioso [Vesti la giubba], sentivo nell’andare innanzi che il dolore cresceva a misura dell’intensità del fiato immagazzinato. E difatti allorquando arrivai alla frase finale e avendo caricato bene il mio mantice, nell’emettere la voce sentii come un ferro rovente attraversare tutte le vie respiratorie, arrivandomi alla gola e producendomi un dolore insopportabile sino a strozzarmi completamente. [… ] dalla mia esperienza voltai in singhiozzi tutta la frase e l’effetto per il pubblico riuscì lo stesso. Da quel giorno comincia un Calvario incredibile di sofferenze fino agli sbocchi di sangue in scena che lo costringono alla

resa nell’Elisir d’amore. Si scopre che ha una pleurite purulenta, sottovalutata dai medici americani, quella che «diciamo volgarmente ’na pesantezza dinto o’ fianco. La mia è stata la più fetente perché era da anni che me la portavo dentro ed era la causa di tutti i miei mali». Operazioni e convalescenze nell’inverno si alternano senza tregua. Il tepore di Sorrento e la Madonna di Pompei sembrano operare il miracolo, interrotto la sera del  agosto  all’Hotel Vesuvio di Napoli, dove Caruso era stato trasportato in attesa di un intervento d’urgenza a Roma. Finita la sua vita, cominciò la leggenda, alimentata da una scia di «eredi», anche grandissimi, che non fecero altro che ingrandire il modello ineguagliabile.

lo stile e il linguaggio delle avanguardie mi sono sempre rimaste lontane sia come sentire spirituale sia come esperienza estetica. Le ho studiate e per diplomarmi ho dovuto anche cimentarmici, ma è stato un dazio da pagare per terminare gli studi; appena ho potuto mi sono messo a comporre usando linguaggi ben più tradizionali: il romanticismo, Chopin e i suoi Notturni; me lo sono potuto permettere perché non ho mai concepito la composizione come un mestiere con cui vivere, ma come un’esigenza personale che arricchiva il mio essere musicista». Crespi ammette «di faticare a capire certa musica moderna; i suoi ferventi sostenitori ne esaltano la complessità, le ferree logiche matematiche che la strutturano, ma sempre mi domando: è vero, sono opere straordinariamente complesse e c’è da rimanere ammirati davanti alla mente che ha potuto dominare una tale difficoltà concettuale, ma dov’è la bellezza? Dove riecheggia un messaggio che io possa comprendere e che mi susciti sentimenti e pensieri? Forse è un mio limite. Ascoltando ad esempio la Musica per archi, percussioni e celesta di Bartok si rimane spiazzati da certi modernissimi effetti, come i glissandi degli archi, le asprezze e le dissonan-

ze; eppure Kubrick usò proprio questa musica in un punto di Shining e ci sta benissimo: il grande regista aveva capito che per quel momento di tensione e di spavento quelle note erano perfette; ed era uno che conosceva la musica, spaziando da Strauss a Schubert fino a Ligeti». Proprio questa riflessione spinge Crespi al cuore del problema: «Da molto rifletto sul perché siano proprio i film dell’orrore a usare tanta musica: il non avere melodie evidenti o punti di riferimento esprime paura, tensione, mancanza di certezze, che sono tipiche della nostra epoca. Invece nel passato si usava la musica tonale, con un centro di gravità solido e immediatamente riconoscibile. In questo credo che la musica sia stata anche in questi ultimi decenni lo specchio di come l’uomo concepisca sé e la realtà che gli sta attorno: non sto parlando solo della musica «colta», pensiamo al rap e alla trap con gli argomenti di cui parlano e che catturano così tanti giovani».

Linguaggi nuovi e complessi Musica

A colloquio con il concertista e compositore Davide Crespi

Enrico Parola

«Ho iniziato per caso, a sette anni: papà portò in casa un vecchio pianoforte usato, a quell’età ci si mette su subito le mani per gioco, si strimpella; ma ben presto il gioco si fece interessante, diventò studio rimanendo divertimento, prima complementare ad altro – mi sono diplomato al liceo artistico – poi come occupazione principale, anche se non ho mai abbandonato le mie altre passioni: colleziono stampe antiche e moderne, di tutti i tipi». Riassume così il suo percorso musicale Davide Crespi, concertista, didatta, divulgatore e compositore che ama riflettere sulla storia e sul ruolo dell’arte oggi squadernando visioni ampie e originali. «Dopo il diploma al Conservatorio di Milano ho tenuto i primi concerti e ottenuto i primi applausi, ma presto ho iniziato a riflettere sul tipo di vita che il concertismo impone: tante tensioni e soprattutto una costante solitudine perché ci si continua spostare da una città all’altra, da un albergo all’altro e, nonostante il pubblico davanti, anche sul palco ci si ritrova fondamentalmente soli. Insomma, dopo un po’ mi sono chiesto se ne valesse la pena e il giudizio che ne è emerso è stato negativo; non sto parlando in generale, parlo di me, della mia situazione, delle mie attitudini e della mia

personalità; tenendo in considerazione tutti gli aspetti ho intuito che desideravo altro». Altro, per Crespi, ha assunto la forma della didattica e della composizione: «Quando si è piccoli o giovani si è attratti dalla figura del concertista: è quella che abbaglia, riempie gli occhi e fa sognare, infatti spesso i miei allievi mi chiedono se li ritengo in grado di intraprendere questa strada. Io sono molto cauto perché è un mestiere difficile. A me piace insegnare perché mi costringe a rendere ragione delle mie posizioni e allo stesso tempo ad aprirmi ad altre prospettive». Proprio questo desiderio ha portato Crespi a privilegiare, nelle esibizioni pubbliche, la formula della lezione-concerto: «Piace tantissimo, al pubblico e anche a me, perché mi piace suonare, ma mi piace e tanto parlare di musica: c’è un mistero dentro e dietro le note che talvolta si intuisce confusamente ed è bello permettere a chi non ha studiato uno strumento di entrare in questo mistero, capire come un compositore sia riuscito a dar forma all’ineffabile». Compositore è diventato lui stesso, diplomandosi col massimo dei voti sotto la guida di Elisabetta Brusa e Sonia Bo, «Un’esponente di primo

piano dei nuovi linguaggi», da cui però Crespi non si sente ispirato né convinto: «Ho incontrato anche altri grandi compositori d’oggi, da Salvatore Sciarrino a Franco Donatoni, ma

Insegnamento, concertismo, composizione, collezionismo: le molte passioni di Davide Crespi.

Pubblicazioni Il musicista Davide Crespi ha appena dato alle stampe Cinque aforismi per pianoforte. La raccolta musicale di brani neo romantici è disponibile su Amazon.


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L’ARTE DELLA SALUMERIA Il salame è uno degli insaccati più popolari in Svizzera. Ti sveliamo cosa c’è dentro l’insaccato più sfizioso usato per aperitivi e panini Testo: Claudia Schmid

Chi l’ha inventato?

Gli italiani sono famosi per le loro creazioni in fatto di salame e amano rivendicare questo salume come loro invenzione. In effetti, esistevano salami salati già nell’antica Roma. Ma erano conosciuti anche in altre parti dell’Europa e dell’Asia.

Affumicato, essiccato, cotto?

Foto: Colin Dutton, iStock, zVg

Oggi ci sono molti tipi di salame. Alcuni lo preferiscono essiccato, altri affumicato. In ogni caso, l’essiccazione o l’affumicatura sono sempre precedute da un processo di fermentazione con batteri lattici, i quali si trovano naturalmente nella carne.

Quante varietà ci sono? Molte. Solo in Italia, gli intenditori contano almeno  tipi di salame. Ogni regione ha le sue specialità.

Quale carne viene utilizzata? Tradizionalmente, il salame è fatto con carne di maiale. Oggi, però, ci sono anche varianti a base di carne di manzo o di selvaggina, per esempio.

CITTERIO: LE PIETRE MILIARI   

Giuseppe Citterio produce il suo primo salame di Milano secondo la sua ricetta e, nel 1881, si assicura una medaglia d’oro alla Fiera Nazionale di Milano. Grazie alla produzione moderna e all’innovazione, riceve altre medaglie d’oro negli anni successivi.

Citterio è una delle prime aziende alimentari italiane a dare vita a un proprio laboratorio per il controllo della qualità.

Citterio introduce la vaschetta con atmosfera protettiva per i prodotti già affettati. Questo mantiene il salame e gli altri salumi freschi e soffici più a lungo.


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MONDO MIGROS

Perché è bianco all’esterno? Il bianco polveroso che circonda lo strato esterno è una muffa nobile. Assicura che i batteri nocivi non entrino nelle carni. Non è pericoloso per gli esseri umani.

Quanto è popolare? Molto. In Svizzera, si fa più fatturato con il salame che con altri prodotti di salumeria. Nemmeno il cervelat e il prosciutto crudo reggono il confronto con il salame.

Da dove viene il nome? «Salame» in origine significava semplicemente carne salata. Il sale permetteva di conservare più a lungo la carne, prima che l’elettricità aprisse la strada ai moderni frigoriferi.

 L’involucro è commestibile? Ci sono sia budelli di salame commestibili che non commestibili. Sulla confezione si trova di solito l’avvertenza che lo esplicita. In caso di un prodotto confezionato già tagliato, l’involucro è già stato rimosso.

Maturazione perfetta: picchiettando, l’esperto verifica che il salame non abbia difetti. La maturazione può richiedere fino a nove mesi. 

Un’altra fabbrica Citterio viene aperta a Santo Stefano Ticino, vicino a Milano, in uno stabilimento moderno particolarmente attento all’ambiente. Grazie ai 4000 pannelli solari installati, l’azienda Citterio risparmia 600 tonnellate di CO2 all’anno.

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Tutti i salumi Citterio in vendita alla Migros sono prodotti secondo le leggi svizzere sulla protezione degli animali.

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Negli ultimi anni, Citterio ha ridotto il volume dei suoi imballaggi: oggi l’azienda vanta circa il 25% di plastica in meno. Alcuni nuovi prodotti vantano persino il 60% di plastica in meno. L’azienda è tuttora a gestione familiare.

  1 Stick di salame Citterio, confezione offerta speciale 2 × 80g Fr. 6.– invece di 8.80 2 Salame di Milano Citterio, per 100 g Fr. 3.55 invece di 5.15 3 Salame Riserva Citterio, 90 g Fr. 5.80 4 Salame di Milano Citterio, per 100 g prezzo del giorno attuale


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CULTURA

Niente lacrime per Michael

Il ritorno dall’Olocene In scena

Max Frisch e Eduardo De Filippo nei teatri ticinesi

Giorgio Thoeni

Netflix ◆ Un documentario ripercorre la gloria e il dramma di Schumacher

Quasi quarant’anni dopo Max Frisch torna sulla scena ticinese. Era il  quando il Teatro della Svizzera italiana debuttava con Omobono e gli incendiari e La grande rabbia di Filippo Hotz. Se uno dei nostri più rappresentativi scrittori è riapparso lo si deve al Teatro Sociale di Bellinzona che ha coinvolto la regia di Flavio Stroppini, gli attori Rocco Schira e Margherita Saltamacchia, per dare veste teatrale a L’uomo nell’Olocene, romanzo di Frisch pubblicato nel . Ha così debuttato e appena concluso le repliche Olocene, adattamento di Stroppini con Monica De Benedictis della storia del signor Geiser, cittadino di Basilea che, dopo aver scelto una valle ticinese per stabilirsi e invecchiare in santa pace – la si riconosce, è l’Onsernone – un giorno viene bloccato nel suo rustico da una frana causata dai forti temporali. Isolato, sente che la sua memoria vacilla. In lui si fa strada l’ansia di non riuscire a ricordare più nulla, di sé, del mondo. Inizia così a seminare tracce di memoria su foglietti che appunta alle pareti. C’è anche la figlia Corinne, con lui sebbene distante. Padre e figlia sono uniti in un monologo a due in cui, senza alterarne il contenuto, l’introduzione della parola papà, permette a Corinne di appropriarsi di battute che altrimenti apparterrebbero solo a Geiser. Il tutto fra tre pannelli in plexiglas avvolti

Alessandro Zanoli

Una scena da Olocene.

Le emozioni più forti sembrano sopite, ma sono sempre lì, pronte a riattivarsi e colpire di nuovo. Facile, da questo punto di vista, costruire un dramma attorno al mondo della Formula . Il documentario di Hanns-Bruno Kammertöns, Vanessa Nöcker, e Michael Wech dedicato alla vicenda drammatica di Michael Schumacher (proposto da Netflix) di emozioni ne suscita molte. Lo fa con

da una bella colonna sonora. Bravi gli attori e meritati applausi del pubblico.

La commedia del primo Eduardo Il Teatro di Locarno ha inaugurato il suo cartellone con Ditegli sempre di sì di Eduardo De Filippo. La commedia, una delle prime da lui scritte (), mostra gli albori di contorni netti, per stile e contenuti, caratteristici di intense e variegate stagioni drammaturgiche. Michele, appena uscito dal manicomio, torna a casa dalla sorella, vedova e premurosa,

la sola a conoscere i suoi trascorsi di pazzia. Solo apparentemente guarito, Michele è il burattinaio di situazioni inattese e grottesche nei confronti dei personaggi che gli ruotano attorno, mettendo in evidenza una confusione mentale che nasce da una puntigliosa ossessione per il senso delle parole. Una commedia esemplare per l’intuizione della scrittura, dalle sfumature pirandelliane, meno per l’efficacia del suo allestimento diretto da Roberto Andò, che propone un’opera datata ma sorretta dalla bravura di Gianfelice Imparato, protagonista con una compagine di caratteri tradizionali e vivacemente sopra le righe.

un certo distacco, in realtà, quasi per obbligo di cronaca. Sua figura chiave ne è non tanto il pilota tedesco, inchiodato oggi in un grave decorso posttraumatico, ma sua moglie Corinna. Leggermente appesantita dagli anni, molto diversa dall’agile figura che vedevamo assistere dai box alle prodezze del suo innamorato, Corinna Schumacher appare oggi come la vestale che ha preso in mano il destino del marito e si occupa di dare una parvenza di normalità, nonostante tutto, alla vita di famiglia. Fissa, dignitosa, quasi un po’ congelata dal dolore, è lei che ripercorre, commentandola, la carriera del pilota. Alle varie fasi di quel percorso davvero epico, fatto di entusiasmi e delusioni, di successi e di brucianti sconfitte, durato dal  al , è lei a contrapporre l’immagine di un uomo sensibile, innamorato, attento, presente. Un ritratto del tutto diverso da quello del duro, inflessibile, spesso scorretto e antipatico Schumi che la cronaca sportiva ci ha fatto conoscere. Era un bravo ragazzo, un ragazzo di cuore, dice Corinna. La grande questione rimane aperta, il giudizio sospeso di fronte a un destino così tremendo. Annuncio pubblicitario

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CULTURA

Rachele c’est moi

Letteratura ◆ A colloquio con Sarah Parenzo, musa ispiratrice del nuovo romanzo breve di Abraham B. Yehoshua Simona Sala

L’importanza degli autori Smart TV ◆ Anche i contenuti contano Marco Züblin

Una piccola sciatrice vestita di rosso, tutta sola in mezzo a una pagina bianca come la neve. Così si presenta la copertina dell’ultimo libro di Abraham B. Yehoshua, La figlia unica, che in Israele ha scalato le classifiche in pochi giorni. Protagonista di questa novella ambientata in Italia è la saggia dodicenne Rachele Luzzatto, figlia di un avvocato ebreo benestante e di una cattolica convertita all’ebraismo. Sebbene servita e riverita, Rachele è costretta a trascorrere gran parte del proprio tempo in solitudine, in balia di adulti egoisti che la sballottano da un posto all’altro, incuranti delle sue reali necessità. Sullo sfondo di un dramma universale, quello dell’imminente perdita prematura di un papà affetto da una grave malattia, torna l’indagine delle questioni identitarie da sempre cara a Yehoshua, che questa volta sceglie di affrontare la complessa questione dei matrimoni misti tra ebrei e gentili. Come ha rivelato recentemente lo scrittore nel corso di una presentazione all’Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv, a ispirare la vicenda della ragazzina cui il padre negò di partecipare alla recita di Natale, vestendo i panni della Madonna, è Sarah Parenzo, giornalista di «Azione», traduttrice e attivista nel campo del sociale. Parenzo, nata a Padova, vive da molti anni in Israele, dove ha conseguito un dottorato di ricerca sulla psicoanalisi e la traduzione culturale. Ma cosa vuole dire, a fronte di un’elaborazione identitaria lunga una vita, ritrovare all’improvviso parti di sé catapultate all’interno di un romanzo? Di questa esperienza, lunga e a tratti complessa, abbiamo parlato con Sarah Parenzo. Sarah, come hai conosciuto Abraham B. Yehoshua? È stato nel corso del mio dottorato di ricerca sulla ricezione dell’opera di Yehoshua in Italia presso il Dipartimento di traduzione dell’università di Bar-Ilan. Mi ponevo la domanda di come giustificare il successo della triade Yehoshua-Oz-Grossman e dei prodotti culturali israeliani in generale negli ultimi trent’anni, in un paese, l’Italia, dove sostanzialmente si legge poco. Inoltre mi incuriosiva capire come collocare questa fortuna rispetto alla figura dell’ebreo nell’immaginario collettivo, influenzato dalla tradizione cristiana, da fattori socio-politici e naturalmente anche da autori della Shoah come Primo Levi o americani come Philip Roth. Per trovare una risposta a questi intriganti interrogativi scelsi tra le altre la strada psicoanalitica, prezioso strumento per l’indagine di possibili meccanismi di identificazione dei lettori nei personaggi di Yehoshua. Nel luglio del  la mia professoressa mi chiese di andare a trovare lo scrittore per intervistarlo. In Israele è facile arrivare alle persone, poiché anche la gente famosa è disponibile e lui, oltre a esserlo, è anche curioso. Forse per questo, quando terminai di porgli le domande riguardanti la tesi, cominciò lui a rivolgerne a me. Qualche giorno dopo lo accompagnai a Gerusalemme a un convegno della Fondazione Segre e quel viaggio fu galeotto, perché durante il tragitto gli raccontai la storia della mia vita.

Abraham B.Yehoshua e Sarah Parenzo in una foto recente.

E cosa catturò la sua attenzione? Da grande sionista quale è mi chiese subito soddisfatto cosa mi avesse spinto a lasciare l’Italia per fare l’aliya, in ebraico «salita», sinonimo di immigrazione in Israele. Gli raccontai così delle mie «doppie origini» e del mio profondo legame con l’ebraismo anche nella sua accezione osservante e ortodossa. Io allora non lo sapevo, ma quando si narra la propria vita a uno scrittore c’è il rischio che poi questi prenda appunti! Infatti, poco tempo dopo Yehoshua cominciò a scrivere la novella che inizialmente aveva intitolato La madre di Dio. Cosa pensi che lo abbia affascinato particolarmente della tua storia? Yehoshua si è sempre occupato di questioni identitarie, della nazione traslata nel singolo. La storia di una bambina proveniente da una famiglia ebraica sterminata dalla Shoah da parte del padre, e non ebraica da parte della madre, gli offriva uno spunto per affrontare temi importanti come la conversione all’ebraismo e soprattutto per parlare dei matrimoni misti, spina nel fianco per un popolo orgoglioso e demograficamente esiguo come quello ebraico. Lo colpì il fatto che mio padre, ebreo laico, mi proibisse categoricamente di entrare in chiesa e di assistere alle celebrazioni cristiane. Il concetto della separazione è molto radicato nell’ebraismo e ne permea l’identità nel bene e nel male. Ad esempio, all’uscita del sabato, al comparire delle tre stelle, gli ebrei compiono la cerimonia dell’havdalà, i cui versi marcano la separazione tra il sacro e il profano, tra lo Shabàt e i giorni feriali. Un altro esempio è quello della separazione delle stoviglie per la carne da quelle per i latticini, e ancora per i sette giorni della Pasqua. Del resto è anche grazie a essa se il popolo ebraico con le sue tradizioni è sopravvissuto fino a oggi. In gioco, infatti, non vi è solamente l’elemento dell’elezione, ma anche quello della preservazione della minoranza. Yehoshua, dal canto suo,

è sempre molto critico nei confronti degli ebrei della diaspora: secondo lui bisogna vivere in Israele, poiché a causa della sua ambigua identità, in bilico tra i concetti di religione ed etnia, l’ebreo errante, senza territorio, suscita sentimenti ambivalenti nelle nazioni-albergo dove cerca ospitalità. Cosa avviene a livello psicologico quando si vede una parte della propria biografia finire in un’opera letteraria? È una vertigine, una perdita di controllo sulla propria storia, o piuttosto una seduzione, una lusinga? Come è stato l’incontro con il tuo alter ego Rachele? Direi entrambe le cose. Senz’altro il processo ha richiesto da parte mia una discreta elaborazione. La cosa più sensata sarebbe stata che lo scrittore avesse preso spunto dalla vicenda reale, ma la collocasse molto lontano geograficamente, cambiando sufficientemente i dati anagrafici e non solo. Invece non l’ha fatto. Inizialmente dovetti fare i conti con la difficoltà di vedere la mia storia rielaborata da un altro e romanzata in una chiave spesso in contrasto con il mio sentire. Tuttavia, con il passare del tempo ho imparato a prendere le distanze da Rachele, smettendo di confondermi, o confrontarmi con lei. Non solo, ma ognuno di noi tende ad essere ancorato a una narrativa univoca della propria biografia, con il rischio di recitare sempre lo stesso personaggio, incartandosi in un ruolo predefinito. L’incontro con Rachele ha finito per esercitare su di me un effetto terapeutico, offrendomi l’opportunità di sdrammatizzare, cambiare parte nella commedia della vita e soprattutto di lasciarmi alle spalle dei traumi, consegnandoli alla penna sofisticata di Yehoshua. Inoltre non bisogna dimenticare che la storia parla di un dolore universale, quello di una bambina che si prepara ad affrontare da sola la morte del padre. Grazie a Rachele ho dovuto fare i conti con il tabù più grande della mia vita, ovvero l’origine non ebraica di mia madre, che ho sempre vissuto

in modo estremamente conflittuale, cercando di nasconderla e intrattenendovi in seduta gli psicanalisti di due continenti! Ricordo ad esempio che da piccola, quando entravo nel matroneo della sinagoga, non volevo mai sedermi accanto alla mamma. L’ebraismo non è una religione che fa proselitismo e, sebbene l’istituto della conversione esista, esso è poco praticato e addirittura osteggiato. Inoltre, poiché l’ebraismo si trasmette da parte di madre, le conversioni a scopo di matrimonio, così come quelle dei minori sono molto fragili e più facilmente contestabili da un tribunale rabbinico. L’immigrazione in Israele mi ha senz’altro aiutata nel superare questo irrazionale trauma identitario. Ciò naturalmente non significa che il passaporto israeliano sostituisca un’identità intera, poggiante su secoli di tradizione e osservanza religiosa. Credo che queste siano domande enormi che spesso Yehoshua tende a semplificare. Inoltre penso che questa ragazzina che cerca giustizia nei testi sacri in lingua ebraica, l’amore per la quale senz’altro ci accomuna, possa essere fonte di ispirazione per chi come me si confronta con l’Israele di oggi e il dramma dell’occupazione. Nella novella l’elemento cristiano è molto presente. Com’è il tuo rapporto con il cristianesimo? All’inizio ero turbata dalla predominanza dell’elemento cristiano nel racconto, ma poi ho capito che si trattava di una proiezione di Yehoshua che ha sempre nutrito un marcato interesse per la Chiesa, proiettandovi speranze e fantasie salvifiche. Durante la mia infanzia di ragazzina ebrea in Italia, nel Veneto degli Anni , il cattolico rappresentava per me l’altro, ma era un gioco a due. Oggi finalmente anche in Italia i giochi sono a due, tre, quattro, perché le religioni e le identità presenti si sono moltiplicate. Mi auguro che questo abbia portato a una maggiore apertura anche nei confronti di norme e tradizioni di altre culture. Come ha reagito il tuo entourage nel leggere la novella? Più di tutti mi ha commosso un vicino di casa che nei personaggi ha riconosciuto i miei nonni materni, entrambi molto sani e preziosi nella mia crescita, meritevoli di avermi trasmesso la capacità di distinguere il bene dal male. Chi è oggi Yehoshua per te? Dall’incontro con Avraham è nata una solida collaborazione intellettuale, ma soprattutto un’amicizia profonda. È stato come ritrovare una casa affettuosa e sufficientemente spaziosa da accogliere, senza giudicarle, le mie identità che sono tante e faticose, motivo per cui lui mi chiama «mille feuilles» come il dolce a strati di crema pasticcera. La cosa tragica è che, poco dopo aver cominciato a scrivere la novella, Yehoshua stesso si è ammalato gravemente di tumore e così il dramma di Rachele in qualche modo si ripete e lo spettro della morte torna a incombere turbando le sue già precarie certezze. Bibliografia Abraham B. Yehoshua, La figlia unica, Torino, Einaudi, 2021

Nel  il pubblico ha preso coscienza della centralità degli autori nell’offerta televisiva. Lo sciopero, indetto dalla Writers Guild of America, mise a terra il palinsesto di tutte le reti, privandole della materia prima per i loro programmi di successo. Ora si riparla di sciopero, e le reti americane sono forse più disposte a trattare, memori di quanto avvenne l’altra volta. Gli autori sono una categoria assai bistrattata, se non francamente ignorata; fino al punto in cui, di fronte a produzioni che sulla base di un buon concetto non riescono però a «volare» per mancanza della vera materia prima (i contenuti), ci si deve rendere conto che un programma è ben di più di un'idea, di un conduttore e degli attori. Senza autori si finisce per attingere a qualche casualità, cioè all’intuizione (o al delirio) di qualche presentatore o all’intervento del produttore; ma soprattutto si tenta di ovviare a questa mancanza – sempre che la si percepisca come tale – facendo appello al pubblico, con quel mantra dell’«ascolto» che conduce a far fare il programma al pubblico (microfoni messi davanti ai bimbi e a chiunque voglia dire qualcosa, linee aperte alle telefonate, appelli a dare idee, e via elencando; il tutto con l’alibi dell'ascolto e della trasparenza), filo conduttore e populistica giustificazione che tenta di redimere certi programmi dalla loro pochezza autorale. Succede un po’ in tv quanto avviene nella politica di oggi, in cui il vuoto pneumatico a livello di visioni viene riempito con le istanze della società civile, riprese e squadernate come programma politico, senza il minimo di rilettura e di organizzazione; si ascolta, a difetto di avere qualcosa da dire che valga la pena di essere ascoltato. Le reti devono produrre contenuti di qualità, che meritino l’ascolto del pubblico, che lo stimolino e che lo formino, che lo sorprendano e che lo divertano. Di qui l’esigenza di avere sempre autori capaci di inventare, anche raccogliendo stimoli dall’esterno, ma digerendoli e facendone narrazione e drammaturgia. In questo senso, è notevole quanto quotidianamente propone la striscia Che succde? (access prime time, Rai), in cui accanto alle doti della conduttrice si accampa il lavoro attento degli autori che riescono a ibridare l’appello al pubblico (il panel) e l’attenzione all’attualità e a temi anche etici di grande rilevanza. Un contenitore articolato e stratificato, in cui tutto si dipana con ottimo ritmo e in un contesto ironico e divertito. Dove sarebbe questo programma senza gli autori? E dove sono certi programmi(ni) in cui degli autori si ritiene di poter fare a meno?


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXIV 13 dicembre 2021

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CULTURA

Abloh, quando la moda diventa politica

Personaggi

A poche settimane dalla scomparsa del geniale stilista Virgil Abloh

Muriel Del Don

Virgil Abloh, scomparso il  novembre  a soli  anni, può essere considerato uno degli stilisti più popolari e autorevoli della sua generazione, ma anche un artista a tutto tondo che delle collaborazioni prestigiose ha fatto il proprio cavallo di battaglia. Il suo incredibile percorso, cominciato dal basso, quando le sfilate le spiava seduto nelle ultime file e culminato con la nomina come direttore creativo della collezione uomo della prestigiosa Louis Vuitton, fa invidia. La sua determinazione e il suo approccio visionario alla streetwear versione haute couture, quella che lui stesso chiamava street couture, lo hanno trasformato nel portavoce di una generazione di Millennials che ha saputo appropriarsi della moda trasformandola nel proprio giocoso e irriverente playground. Questa è la versione ufficiale della storia, sorta di agiografia tutta statunitense nella quale il successo rappresenta il motore e lo scopo ultimo di qualsiasi carriera. Nel caso di Virgil Abloh vale la pena riflettere su un percorso che, malgrado il glamour di facciata, nasconde rivendicazioni sociali per certi versi sorprendenti. «Io opero secondo le mie regole, secondo la mia logica, e non ho paura» aveva affermato in un’intervista pochi mesi or sono, come a volerci ricordare che, malgrado la posizione prestigiosa alla testa di Louis Vuitton, l’anticonfor-

mismo che ha contraddistinto il suo debutto sulla scena della moda, in particolare con il label ormai cult Off-White, non l’ha mai abbandonato. Come affermava lui stesso, il suo scopo sin dall’inizio era quello di creare una community globale che andasse oltre le limitazioni territoriali o le differenze sociali ed economiche. Una comunità che riuscisse a unire gli opposti: il rigore quasi maniacale per il dettaglio della haute couture, un savoir faire che si rivolge a un’élite iperesigente in perenne (auto)rappresentazione e il mondo della sottocultura street che della spontaneità e dell’unicità ha fatto il proprio credo. Nato nel  a Rockford, in Illinois, da genitori emigrati negli Stati Uniti dal Ghana, Abloh si avvicina al mondo dello streetwear attraverso lo skateboard e il DJing, passione che lo accompagnerà per tutta la vita. Mentre studia ingegneria civile all’Università del Wisconsin e successivamente architettura, il re della Maison Vuitton conosce il celeberrimo Kanye West, che nel  lo nominerà responsabile del suo merchandising e poi direttore artistico e responsabile dei tour mondiali. Niente prestigiose scuole di moda dai nomi altisonanti per Abloh, ma una tenacia e una determinazione a prova di bomba. Dopo quattordici anni passati al fianco di Kanye, Abloh lancia Off-White, che vuole abbattere le barrie-

Abloh in occasione del Met Gala 2021 a NewYork. (Keystone)

re tra i generi proponendo una moda che si nutre della strada, trasformandola e arricchendola attraverso il rigore della haute couture. A questo proposito in un’intervista afferma: «La streetwear come l’abbiamo conosciuta è antiquata, fuori moda, come la disco lo è stata all’epoca. È il momento ideale per costruire dei ponti e per fare cambiare le cose». Il suo label diventa un terreno di gioco ideale nel quale sperimentare e provocare, innovare e stravolgere le regole. Innegabile guru dei social grazie ai quali comu-

nica senza filtri con una gioventù ultraconnessa, abituata alle immagini dal forte potenziale sovversivo, Abloh si rivolge a una generazione che non si riconosce più in un sistema binario percepito come limitante. La «donna» di Off-White è indipendente e sfacciata, pronta a impadronirsi della strada a testa alta. Quello che conta è la sicurezza e la grinta che l’abito regala a chi l’indossa, poco importa il genere o la classe sociale. A questo proposito Abloh affermava che «i giovani di oggi non si riferiscono più alle stes-

se norme dei loro predecessori. Siamo entrati in una nuova era, più aperta alla diversità e nella quale i tabù che oppongono femminile e maschile cadono». Catturare il momento e persino anticiparne le tendenze, ecco la linea guida di un artista visionario che ha saputo giocare con le contraddizioni della sua epoca, mischiando le influenze e inventando una cultura nuova, più inclusiva e globale. Nel , la prima collezione per Louis Vuitton battezzata We Are the World, presentata alla stampa e a tremila studenti invitati per l’occasione, lo catapulta sotto i riflettori in quanto primo afroamericano alla testa di una maison di lusso. Questa volontà di trasgredire, di spingere anche chi non è raccomandato a raggiungere la vetta si ritrova anche e soprattutto nel suo impegno sociale. Nel  ad esempio disegna la divisa per il team di calciatori senza permesso di soggiorno Melting Passes e nel  reagisce al movimento Black Lives Matter lanciando il suo Post-Modern Scholarship Fund. Da allora si è sempre impegnato a raccogliere fondi e a sostenere studenti e attività afroamericani. Da questo punto di vista Abloh è stato una sorta di mentore che ha incoraggiato tutta una (nuova) generazione a superare i propri limiti. Grazie ad Abloh la moda è diventata più politica e questo è già un grande traguardo. Annuncio pubblicitario

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CULTURA ●

In fin della fiera

di Bruno Gambarotta

Un carnivoro tra vegani e vegetariani ◆

Avevo voglia di visitare il «Vegfestival», un grazioso villaggio nato per illustrare i tanti vantaggi del mangiare vegetariano. Mi frenava il timore che qualcuno, riconoscendomi, lanciasse l’allarme, indicandomi: «C’è un cadaveriano tra di noi! Ha cantato le lodi del bollito misto! Della bourguignonne!». Timori infondati; il ripudio del cibo di origine animale è una religione mite, gentile, non pretende di convertire con la forza gli infedeli ma di convincerli con solidi argomenti. In questa rassegna i banchi che esponevano libri, riviste e opuscoli erano almeno pari a quelli che proponevano cibarie. Non è solo una pratica ma uno stile di vita, una conversione che deve essere proclamata e servire da esempio virtuoso. Ho così avuto modo di imparare la differenza fra vegetariano e vegano; il primo non mangia carne ma non ripudia i derivati animali come latte e uova, il secondo pratica invece un ideale di rigore assoluto. Era

vegano il ristorante allestito nel villaggio che, mi dicono, ha servito il triplo dei pasti previsti, spia di un successo che è andato oltre ogni più rosea aspettativa. Lo gestiva la giovane presidentessa del «Sesamo’s Kitchen», che ha avuto la pazienza di spiegarmi il contenuto delle portate dei due menù proposti, Arca e Stella. Si rimane colpiti dallo sforzo che gli ideatori fanno per imitare l’aspetto dei cibi che mangiano gli infedeli. Per esempio nell’insalata russa la maionese non è fatta con le uova ma con il latte di soia, però poi si usa la curcuma per colorarla di giallo e farla sembrare «vera». Leggi sul menù «canapè di caviale hiziki» e pensi che le uova se sono di storione e non di gallina vanno bene. Invece no, il caviale hiziki è fabbricato con alghe giapponesi nere tagliate a pezzettini e condite con limone, olio, tanto aglio e prezzemolo. Sono il succedaneo di quelle che per noi sono le acciughe al verde.

Il menù prevedeva anche gli «straccetti di seitan» che è un glutine di grano inventato dagli Avventisti del Settimo Giorno per venire incontro a un precetto religioso, la cosa più vicina alla carne di vitello, mentre il «tofu» è il loro formaggio, fatto con il latte di soia cagliato con cloruro di magnesio o succo di limone. Questo bisogno di mimetizzarsi della cucina vegana, quasi si vergognasse di proporsi nelle sue vesti originali, ricorda molte ricette della nostra cucina povera, tra cui gli stupendi «pesci cavolo», involtini di foglie di verza che avvolgono carne macinata, a imitazione di pesci pregiati fuori dalla portata economica, come anche il ligure «cappon magro». Mia mamma friggeva una metà di fette di funghi porcini e l’altra metà di fette di melanzana. Con i prezzi attuali delle verdure, conviene friggere soltanto funghi e far credere che siano melanzane. Alla fiera mescolano un tartufo vero con

quelli finti che finiscono per prendere il suo profumo. Uno degli argomenti forti usati dai missionari del mangiare vegetariano è il racconto sulle condizioni atroci nelle quali sono costretti a vivere gli animali da macello. Enrico Moriconi, medico veterinario e promotore di «Vegfestival», ha scritto un libro per documentare le sofferenze inflitte agli animali, Le Fabbriche degli Animali, mucca pazza e dintorni. Se lo leggi e soprattutto visiti una di queste «fabbriche» difficilmente poi torni a mangiare carne. Come fare? Per latte, formaggio e uova non ci sono ostacoli etici per continuare a nutrirsene. Ma per la carne? Non si può tornare ignoranti. Si potrebbe adottare un animale da macello, seguirne la crescita, andarlo a trovare la domenica, ma poi va a finire che ti affezioni e lo lasci morire di vecchiaia. (Esiste il geriatra tra i veterinari?) A me piacciono le ali di pollo bollite e fritte nel sesamo: si potrebbe

tagliargliele in anestesia al day hospital, tanto loro già prima non le usavano per volare, ma poi chi avrebbe il coraggio di guardare in faccia il pollo mutilato per il nostro piacere? Intanto però un dato è certo, questi apostoli del mangiare vegetariano, come tutti i posseduti da una passione totalizzante, hanno espressioni intense e una luce negli occhi che noi, chini sul carrello dei bolliti, abbiamo perso. Come sono belle queste donne che non si truccano, che portano sul viso i segni del passare del tempo e delle esperienze vissute, che lasciano ai capelli il loro colore naturale! Esci dal villaggio e ti ritrovi a passeggiare fra rotoli di ciccia debordanti e fragili fantasmi che calzano scarponi da traversata delle Ande. Mi affretto a tornare a casa: prima che arrivi mia moglie voglio togliere dallo sportello del frigo la targhetta adesiva che recita: «Io ti amavo. Poi hai fatto le pappardelle al ragù di soia».

Xenia

di Melania Mazzucco

I miei doni ◆

Nel mondo classico agli ospiti in procinto di partire i padroni di casa offrivano doni. I romani li chiamavano xenia. Marziale, che ne propose la versione letteraria in sapidi epigrammi, ci insegna che erano alimentari: lenticchie, orzo, grano, biete, lattuga, rape, porri, asparagi e sorbe, pigne, caci, salsiccia, cipolle e melograni. Ma anche oggetti da portar via (apophoreta): stuzzicadenti, coltelli, parasole, astucci, pettini, penne, lampade, anelli e calici. Vitruvio precisa che il dono poteva consistere in un quadro: pittori anonimi vi avevano dipinto le cibarie di cui durante il soggiorno gli ospiti si erano nutriti. Onorare l’ospite era un dovere sacro, poiché ogni sconosciuto straniero potrebbe essere un dio in incognito. La più emblematica storia di ospitalità della mitologia greca ce l’ha tramandata Ovidio nell’VIII libro delle Metamorfosi. Giove e Mercurio vagano per la Frigia e sono stanchi. Il primo ha as-

sunto aspetto umano, l’altro ha deposto le ali: come semplici uomini chiedono dunque accoglienza. «Bussarono a mille case, in cerca di un posto in cui riposare; mille case sprangarono la porta». Ma infine una porta si apre: è di una capanna col tetto di paglia e canne di palude, dove due vecchietti, Filemone e Bauci, vivono in dignitosa povertà, confortati solo dal reciproco amore. I due offrono ai viaggiatori un giaciglio fatto con un sacco d’erba di fiume e vi stendono una coperta logora, poi approntano il pranzo su un tavolino traballante (per pareggiare le zampe, usano un coccio rotto). Una spalla affumicata di maiale (talmente coriacea che devono ammorbidirla nell’acqua bollente), olive, indivia, corniole, ravanelli, latte cagliato e uova cotte nella cenere. Seguiti da noci, fichi secchi, datteri grinzosi, prugne, mele, uva. Servono in povere stoviglie di terracotta e versano vino da un boccale pure di terracotta. Ma que-

A video spento

sto vino non si esaurisce mai. Stupefatti, comprendono di essere in presenza di creature soprannaturali e si scusano per le loro umili pietanze. Si accingono quindi a sacrificare la loro unica oca. Che però subodora il potere degli ospiti, e starnazzando si nasconde fra le loro gambe. Gli dèi allora si manifestano ed esprimono il loro sdegno verso gli inospitali abitanti di quel paese. Distruggono la Frigia, sommergendola con le acque: salvano solo la capanna di Filemone e Bauci. La trasformano in un tempio e si offrono di esaudire qualunque loro desiderio. Filemone e Bauci si consultano: sono d’accordo, come sempre, e il loro unico desiderio è diventare sacerdoti del tempio, restare insieme e insieme morire. Affinché lui non debba mai vedere la tomba di sua moglie, né lei tumulare lui. E così avviene, finché un giorno, mentre sfiniti dagli anni sostano alla base del tempio, si vedono a vicenda ricoprirsi di fronde, i corpi

divenire tronchi, e loro due alberi – un tiglio e una quercia, vicini per sempre. I doni per gli ospiti, xenia, erano insieme regali d’addio e pegni di memoria. Affinché, ovunque lo portassero le strade, lo straniero serbasse un ricordo della casa in cui era passato e del bene, pure effimero e modesto, che vi aveva ricevuto. L’idea che l’ospite possa essere un dio nascosto mi ha affascinata ancor prima di conoscere l’usanza greca e poi romana. Del resto è un mito comune a tutte le culture del mondo. L’ebraica per prima, perché nella Bibbia è l’Angelo (manifestazione del Dio visibile, e suo emissario) a visitare Abramo seduto all’ingresso della sua tenda, per sondare la sua fede; Sara, per annunciarle la tardiva e inattesa gravidanza; Lot e gli abitanti di Sodoma, prima della distruzione della città. L’angelo non ha alcuna intenzione di farsi riconoscere come messaggero di Dio, e si presenta come

uomo proprio per mettere gli uomini alla prova. Chi lo onora sarà salvo, chi lo disprezza distrutto. Athiti devo Bhava, L’ospite è Dio, si dice anche in India – e pure lì si intende messaggero ed epifania. E un versetto del Corano riconosce la vera pietà in chi è disponibile a donare una parte dei propri beni non solo ai poveri e agli orfani ma «ai figli del cammino». La mia casa sono i libri che scrivo. Chiunque mi legge è mio ospite benvenuto. Gli lascerò dunque, finché sarò ospite delle pagine di «Azione», xenia da portare con sé. Non ho orto né vigna, né cibo del mio campo, nemmeno un’oca da sacrificare. Non ho altro da offrire che storie. Di ospitalità, riconoscimento, o rifiuto, di viaggio, fuga, ritorno. Storie che a mia volta ho ricevuto in dono. Regalerò storie come olive, datteri e vino. Convinta che allo stesso modo offrano nutrimento, cura e sollievo nel cammino.

di Aldo Grasso

Elogio della creatività ◆

«Quelli che creano sono duri di cuore». Friedrich Nietzsche Parole per incuriosire la lettura di un libro: «A un certo punto del secolo scorso si è sentita risuonare una parola rotonda ed espressiva: ”creatività“. I discorsi sulla creatività si sono presto infittiti e allargati a ogni ambito dell’attività umana: la creatività è dei designer e dei cantautori, degli stilisti e dei programmatori di computer, dei pubblicitari e dei bricoleur, dei bambini e dei tecnologi. Che cosa esattamente esprima una parola tanto espressiva è difficile, anzi, impossibile da precisare. Intanto questi discorsi hanno però finito per edificare una sorta di piramide che dalla terra punta verso il cielo. La creatività eleva: come l’artista con la sua opera sembra voler emulare il Creatore, così chiunque può sperare di parere un artista, grazie alla propria creatività». Che cos’è la creatività? Che domanda:

è come il tempo per Agostino, o l’arte per Croce: tutti sappiamo di che si tratta, fino a quando non ci chiedono di definirla. Adesso ci ha provato Stefano Bartezzaghi con Mettere al mondo. Tutto quanto facciamo per essere detti creativi e chi ce lo fa fare (Bompiani, ). Scrive Bartezzaghi: «Il sociologo Andreas Reckwitz ha descritto il manifestarsi della creatività come un evento privo di precedenti storici, che appartiene all’ultimo terzo del ventesimo secolo, era in preparazione dalla fine del diciottesimo e in marcata accelerazione dall’inizio del ventesimo». La periodizzazione è approssimativa (come è saggio che sia) e non è indiscutibile (come è normale che sia): ma quello che più ci interessa è il fatto stesso che una periodizzazione sia possibile. All’assenza di precedenti storici Reckwitz si riferisce nel suo libro intitolato L’invenzione della creatività: titolo quasi provocatorio, se si pensa che la creatività, co-

me tutte le altre mitologie sociali, viene per il solito presentata come emanazione naturale. Sono molti gli autori, oltre al sociologo tedesco, che collocano i prodromi della creatività alla fine del Settecento. Il riferimento rimanda al Romanticismo e all’idea dell’arte come creazione umana: «Sdegno il verso che suona e non crea», scrive Ugo Foscolo, nel poemetto dedicato alle divinità latine della bellezza Le grazie (). Creare significa «produrre dal nulla», ha la stessa radice di «crescere», e più in generale si riferisce al gesto di far nascere qualcosa di nuovo elaborando in modo originale elementi preesistenti. Per esteso, è la capacità che consiste nel cogliere i rapporti fra le cose o le idee in modo nuovo o nel formulare intuizioni non previste dagli schemi di pensiero abituali o tradizionali. Ma prima del Romanticismo non si parlava di creatività? Si deve ai retori latini la prima elaborazione dell’arte

della creatività, meglio dell’arte dell’inventare e delle sue tecniche. Cicerone scrisse un apposito trattato De inventione, e l’inventio occupa sempre la prima sezione dei manuali latini di retorica. Ma l’invenzione teorizzata dai latini si riferisce prevalentemente alle argomentazioni dei dibattiti giuridici; quindi è di fatto un’invenzione in tono minore rispetto alla grande arte greca dell’inventare concetti, temi e soluzioni, la hèuresis, che costituì il vanto di Gorgia e del suo discepolo Isocrate. È appunto alla scuola di Gorgia che risalgono le prime tecniche volte a stimolare, con appositi accorgimenti, l’invenzione dei concetti. Se la creatività parte da un modello rischia di non essere originale, se rinunzia a ogni modello rischia di concepire cose rozze o banali. Fu per questo che la retorica gorgiana ideò, quale tecnica dell’inventare, una terza via: partire da un antimodello anziché da un modello.

Ai nostri tempi, C. Perelman e L. Olbrechts-Tyteca hanno notato come la tecnica dell’antimodello congiunga al vantaggio di stimolare la creatività a contrario anche quella di non escludere la possibilità di derivare qualche idea o qualche procedimento parziale proprio dallo stesso antimodello: «È noto che la competizione sviluppa la rassomiglianza tra antagonisti che alla lunga prendono l’uno dall’altro tutti i procedimenti efficaci». Quel che è certo, è comunque che, per quanto nelle varie epoche e culture le sfumature e le valorizzazioni della creatività mutino e anche di parecchio, il nesso con la creazione divina resta sempre, più o meno palesato, più o meno sacralizzato o secolarizzato. Il creativo è un simulacro del creatore per antonomasia, di quella divinità che, sola, secondo il senso comune, ha saputo inventare il mondo dal nulla, senza cioè metterlo al mondo.


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Salame Milano affettato e Irresistibili Citterio in confezioni speciali, per es. salame Milano, Italia, per 100 g, 3.55 invece di 5.15

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34% 2.25 invece di 3.45

Prosciutto cotto Puccini prodotto in Ticino, per 100 g, in self-service

33% Salametti a pasta grossa

Tutte le noci di prosciutto e le spallette Quick, IP-SUISSE

prodotti in Ticino, per 100 g, in self-service

per es. mini noce di prosciutto affumicata, cotta, per 100 g, 2.– invece di 3.–, in self-service

Puntine di maiale IP-SUISSE per 100 g, in self-service

15% 2.80 invece di 3.30

Fettine di pollo Optigal Svizzera, per 100 g, in self-service

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Filetto di maiale ripieno Finest prodotto surgelato, 1 kg

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Sminuzzato di petto di pollo M-Classic al naturale prodotto surgelato, 2 x 500 g

Offerte valide solo dal 14.12 al 20.12.2021, fino a esaurimento dello stock.


Pesce e frutti di mare

Il salmone, che bontà!

30% Filetti di salmone senza pelle, ASC per es. M-Classic, d'allevamento, Norvegia, per 100 g, 3.– invece di 4.30, in vendita in self-service e al bancone

IDEALE CON

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40% Tutti i tipi di riso M-Classic per es. riso a chicco lungo Carolina parboiled, 1 kg, –.75 invece di 1.20

Migros Ticino

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Broccoli bio Italia/Spagna, 400 g, confezionati


Pane e prodotti da forno

a ne de l l a n t e , p o r t s o n l I ost a c rocc aa e r c : a n a m i se t t o s t a t ur t i d i m o r lie v i a orbida mo l l i c a m

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Salmone selvatico Sockeye, MSC pesca, Pacifico, in conf. speciale, 280 g

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Gamberetti tail-off crudi M-Classic, ASC d'allevamento, Vietnam/ Ecuador, 180 g, in self-service

2.90

Pane del boscaiolo, IP-SUISSE 500 g, confezionato

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Bake me! Pain Sarment, IP-SUISSE al naturale o rustico, per es. al naturale, 3 x 2 pezzi, 900 g

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33% Filetti di salmone Pelican, ASC, o filetti dorsali di merluzzo dell'Atlantico Pelican, MSC prodotti surgelati, per es. filetti di salmone, ASC, 2 x 250 g, 9.90 invece di 14.80 Migros Ticino

Offerte valide solo dal 14.12 al 20.12.2021, fino a esaurimento dello stock.


Formaggi e latticini

I noti, e i preferiti a base di latte

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Tutti gli yogurt bio e i vegurt V-Love bio (yogurt di latte di pecora e di bufala esclusi), per es. yogurt gusto moca, Fairtrade, 180 g, –.65 invece di –.85

Panna per caffè Valflora 3 x 500 ml

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Una bon t ne l c ord à anc he on bl e u

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Sbrinz, AOP per 100 g, confezionato

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ng e re il pane ti in : o li g si n o C tostato le g g e rme nte

20% Tutte le fondue fresche Moitié-Moitié, AOP per es. Moitié-Moitié, Le Gruyère e Vacherin Fribourgeois, 400 g, 6.85 invece di 8.60

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Caseificio Blenio prodotto in Ticino, per 100 g, confezionato

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Emmentaler e Le Gruyère grattugiati, AOP 2 x 120 g

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Appenzeller surchoix per 100 g, confezionato

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Latte senza lattosio aha! per es. semiscremato, 1 litro


Dolce e salato

Ogni giorno qualcosa di dolce o: Prodott o in Ticin se nza uv e tta e se nza candit i

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Pandoro e panettone San Antonio disponibili in diverse varietà, per es. pandoro, in scatola, 800 g, 9.– invece di 11.50

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Ovomaltine Crunchy Muffin 86 g

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Millefoglie con glassa di zucchero bianca in conf. speciale, 6 pezzi, 471 g

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Tutti i truffes Frey (confezioni multiple escluse), per es. assortiti, 256 g, 10.– invece di 12.50

Tutto l'assortimento di biscotti natalizi Grand-Mère per es. miscela di Natale, 380 g, 5.50 invece di 6.–

Un de sse r t fe st iv c he non si d o in me n ic a

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Tutti i salatini da aperitivo Party

Tutto l'assortimento Glacetta

Original, Sour Cream o Paprika, per es. Original, 2 x 200 g

per es. cracker salati, 210 g, 1.55 invece di 1.85

prodotto surgelato, per es. ice cake alla vaniglia, 800 ml, 3.50 invece di 4.40

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Scorta

Più ce n’è e meglio è B o nt à v e g una notae tariana c on di limone

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Pasta Anna's Best

Quorn Cornatur

spätzli alle verdure o all'uovo e fiori funghi e ricotta, in confezioni multiple, per es. spätzli alle verdure, 2 x 500 g, 5.60 invece di 7.–

scaloppine al pepe e al limone o sminuzzato, per es. scaloppine, 2 x 220 g, 7.90 invece di 9.90

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per es. confettura alle fragole, 500 g, 1.90 invece di 2.40

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per es. minestrone di verdure, 620 g

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Tutte le confetture e le gelatine Extra in vasetto e in bustina

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Tutto l’assortimento di zuppe Dimmidisì

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20% Chicco d'Oro in chicchi

Tutti i succhi freschi e le composte Andros

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per es. succo d'arancia, 1 l, 3.90 invece di 4.90

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33% Evian in confezioni multiple, per es. Sport, 6 x 750 ml, 3.85 invece di 5.80


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Tutti i funghi secchi in bustina

Tutte le salse Bon Chef

Tutti i tipi di purea di patate Mifloc

per es. salsa alla cacciatora, bustina, 46 g, 1.30 invece di 1.60

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per es. boleti, 30 g, 2.85 invece di 3.60, in vendita nelle maggiori filiali

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25% Sughi al pomodoro Agnesi al basilico o alla napoletana, per es. al basilico, 3 x 400 g

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Sottaceti Condy cetrioli, cetriolini o pannocchie di mais, per es. cetrioli, 2 x 270 g, 2.85 invece di 3.80

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Piment d'Espelette AOP Sélection 50 g, in vendita nelle maggiori filiali

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Le Conserve della Nonna Peperoni grigliati o cipolline borettane, per es. peperoni grigliati, 270 g, 4.30, in vendita nelle maggiori filiali

Tutte le salse per fondue M-Classic per es. salsa per fondue bourguignonne, 200 ml, 1.95 invece di 2.40

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Coca-Cola Classic, Light o Zero, 6 + 2 gratis, per es. Classic, 8 x 450 ml

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al limone, light al limone o alla pesca, per es. al limone, 10 x 1 l, 4.50 invece di 7.50

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Bellezza e cura del corpo

La bellezza è nei dettagli

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Prodotti Syoss, Taft o Gliss Kur per es. spray per capelli Taft Ultra, 2 x 250 ml, 5.40 invece di 7.20

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Ombretto liquido Covergirl Exhibitionist disponibile in diversi colori, per es. 4 La vie en rose, il pezzo

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Fiori e giardino

Decorazioni natalizie per la casa Fiori c ome r e ga di Natale lo

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Albero di Natale abete Nordmann 130 - 170 cm, il pezzo

Phalaenopsis Cascade, 2 steli vaso in ceramica, Ø 12 cm, il vaso

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Bouquet Surprise Maxi M-Classic il bouquet

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Pollo intero Optigal Svizzera, 2 pezzi, al kg, offerta valida dal 16.12 al 19.12.2021, in self-service

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