Azione 51 del 20 dicembre 2021

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Anno LXXXIV 20 dicembre 2021

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

Pagine 4 – 5 ●

SOCIETÀ

Sotto l’albero a Natale non possono mancare i libri anche per i più piccoli, ne segnaliamo alcuni scelti tra le molte novità dell’editoria per l’infanzia Pagina 7

TEMPO LIBERO

Il buono della gratuità creata dalla vita sta in un possibile nuovo spazio di conversazione utile per tornare a immaginare un futuro che non sia oggi Pagina 15

ATTUALITÀ

Le sfide «domestiche» che devono affrontare Joe Biden e Xi Jinping: la riduzione delle disuguaglianze tra gli americani e la gestione dei crac dei colossi immobiliari cinesi Pagina 23

CULTURA

Alla Pinacoteca Züst di Rancate e a Villa dei Cedri a Bellinzona lo sguardo è puntato sulla bellezza dei paesaggi e sul legame tra uomo e territorio Pagina 35

Illustrazione di Marco Abbondio per la fiaba La leggenda del pesce d’aprile, di Jolanda Bianchi Poli (a pagina 2).

L’editore e la redazione di Azione augurano

Buon Natale

alle lettrici e ai lettori, alle socie e ai soci della Cooperativa Migros Ticino


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SPECIALE NATALE

Cappuccetto Blu, l’Anno nuovo e il Pesce d’aprile Il racconto per le Feste ◆ La versione in italiano di una delle leggende nel repertorio della narratrice di Brusino Arsizio, Jolanda Bianchi Poli, raccolta da Pia Todorovič Redaelli e trascritta da Veronica Trevisan Nel Millenovecento c’era una bambina che aveva il Cappuccetto Blu ed era proprio tale e quale a Cappuccetto Rosso e andava anche lei dalla nonna. Quell’altra ci andava in primavera, quando c’erano i fiori e raccoglieva fiori e fragole nel bosco, invece questa qui ci andava in pieno inverno. Anzi era quasi la fine dell’anno. La mamma le dice: «Guarda, la nonna compie gli anni in questi giorni. Adesso tu passi di là e le porti questo cestino». C’era dentro frutta, una bella torta, burro, latte, carne, un po’ di tutto. E c’era dentro anche una bottiglietta con l’acqua della buona salute e della giovinezza. «Copriti bene, non andare in giro per la foresta, eh, Lisetta, perché è pericoloso. Va bene che non ci sarà mica in giro un lupo come quello della fiaba, però fai lo stesso attenzione». Cammina, cammina, cammina, fioccava da non parlarne e cominciava anche a fare freddo. Lei sentiva i gufi, le civette e la volpe ma continuava a camminare. A un certo punto, arriva in un posto dove c’è come una sorta di ruscello tutto congelato e sotto quell’acqua gelata c’è un pesciolino che guizza, che vuole venire fuori ma non riesce, perché è imprigionato. Lei fa: «Aspetta che ti prendo io, povero pesciolino». Lo prende, lo mette dentro alla bottiglia della salute e della giovinezza e la chiude bene. Poi si rimette in viaggio. Cammina, cammina: intanto fa un freddo tremendo e fiocca che Dio la manda. È ormai la fine dell’anno. Vede una luce e fa: «Chissà chi è che fa questa luce! Non sarà mica una qualche fata, anche qui, eh? Boh, io ci vado lo stesso». Cammina, cammina, cammina, bussa alla porta dove c’è la luce e sente della musica, sente muoversi, come degli gnomi invisibili che ballano e cantano, però non vede nessuno. E dice: «Ma dove son finita, qui è tutto invisibile. Però voglio vedere cosa c’è in giro». C’è una grande tenda rossa, la tira indietro per curiosare... quando mai l’ha fatto! Sente: «Ué, ué!» Dentro una culla c’è un bel piccolino che piange. Appena nato. Lei fa: «Chissà chi è questo bel piccolino!». Ma si sente toccare sulla spalla: «Ehi tu! Cos’è che fai?». E lei si spaventa. Si trova lì davanti un vecchio coi capelli lunghi, lunghi, lunghi e la barba lunga, bianca, che arriva fino a terra. E lei dice: «Ma buon vecchio, cosa ho fatto di male! Ho solo guardato chi c’era lì!». «Ma non lo sai che io sono il Milleottocentonovantanove e quello lì è il Millenovecento? È l’anno nuovo che nascerà tra qui a mezzanotte e un minuto. Tu non puoi mica toccarlo!» «Come faccio a saperlo!». «Adesso, per la tua curiosità, sarai punita e per un anno non potrai più lasciare questo posto». Lei si mette a piangere disperata: «Ma cosa ho fatto di male dopotutto...». «Hai curiosato!» Difatti, poco dopo, arrivano tutti i mesi trascorsi. Gennaio con la neve, febbraio con le maschere, marzo che balla e salta. Tutti fanno la loro festa. Lontano, lontano, si sentono le campane che suonano la mezzanotte e l’orologio di quella sala lì segna mezzanotte e un minuto: tutti i mesi dell’anno si trasformano in bei giovinotti. Il più triste è febbraio, che è un po’ gobbo, mentre il più vispo è aprile, che balla e salta. Allora l’anno vecchio dice: «Avanti, fra mezz’ora io devo andarmene e far posto all’anno nuovo. Forza, mesi, fate festa a questo piccolino che è appena nato». Lo tirano per la culla, tutto sorridente e felice, e gennaio gli dice: «Guarda, io

non ho mica tanto da darti. Però ti do un po’ di neve e un po’ di frutta secca che ho avanzato dall’anno scorso». Febbraio fa: «Io ho tante maschere da darti, tanta allegria. Però fai attenzione, caro il mio anno nuovo, a non prendere la febbre, perché è molto pericolosa». Il mese di marzo fa: «Io sono sempre contento, però con il mio vento butto per aria tutto. Faccio fiorire le piante, ogni tanto faccio piovere ma niente di pericoloso, perché io sono un po’ pazzerello, sono il mese di marzo pazzerello». Aprile fa: «Io non ho niente da dare, ma sono sempre contento e vispo». E intanto fissava il cestino di Cappuccetto Blu. Arriva il mese di maggio, tutto felice, con tante rose e lillà da offrire all’anno nuovo. Il mese di giugno gli regala fragole e tutti i frutti più buoni. Il mese di luglio, anche lui, porta tanta buona frutta, il mese d’agosto tante belle vacanze al mare, gente che gira a far vedere le fotografie, gente

che va al mare, in montagna, tutta felice; il mese di settembre tutto contento gli porta dei grappoli d’uva, delle pesche e tutti i tipi di frutta. Ottobre gli porta una gran quantità di castagne e funghi e robe buone e dice: «Qualche volta verrà un po’ d’acqua, ma devi sopportare anche quella». Il mese di novembre avanza tutto gobbo gobbo, porta un po’ di fiori, un po’ di crisantemi e croci per i poveri morti. Dicembre fa: «Anch’io qualcosa ti regalo ma insomma, solo un po’ di neve. Sono vecchio anch’io. Spero che tu faccia un felice Natale, che ti porti ogni bene». E allora salta fuori ancora l’anno vecchio e dice: «Oh, aprile, tu furbetto, non gli hai ancora regalato niente! Sei lì a ballare e a saltare ma non hai ancora regalato niente». E poi fa: «Cara la mia bambina, se qualche mese si sbaglia, io ti lascio libera». Allora aprile fa: «Oh, ma io vi regalo quello che c’è nel cestino di quel-

la bambina lì!» E tira fuori la bottiglia con l’acqua della giovinezza e della salute. «Ecco, anno nuovo, io ti regalo questo». E apre la bottiglia per buttargli addosso l’acqua. È che si spaventano tutti, perché da quella bottiglietta lì salta fuori il pesce. Proprio così. Allora, Cappuccetto Blu sente una voce che dice: «Ah, anno vecchio, anno vecchio, qualcuno ha sbagliato, altro che! Qualcuno ha sbagliato e il mese d’aprile è quello che ha sbagliato prima di tutti con questo pesce». Da quel giorno è nato il Pesce d’aprile. E allora l’anno vecchio fa: «Adesso sì, hai proprio ragione. Adesso usciamo da questa stanza e ci vedremo un’altra volta. Tu continua per la tua strada e vai da tua nonna». Difatti, cammina cammina, si ritrovano fuori: c’è una gran nevicata. L’anno vecchio, con la sua barba, se ne va via e non si è più visto. È scomparso col vento della tramontana. La nostra Lisetta va dalla sua nonna, che è

in casa e le dice: «Accendimi il camino». E poi fa: «Ma Lisetta, come mai sei arrivata in ritardo?» E lei: «Nonna mi è capitato questo e quest’altro». «Brava, da oggi siamo nel Millenovecento e da quest’anno ci sarà sempre il pesce d’aprile, tutta la vita. Ciao e fai la brava sempre». Ed è finita. Informazioni Questo QRCode permette di ascoltare la versione originale in dialetto della fiaba, pubblicata nella pagina del sito web di Azione, dove sono disponibili anche le versioni da colorare dei disegni di Marco Abbondio.


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SPECIALE NATALE

Quei Natali trascorsi al «Neuro» Ricordi

Fino agli anni Settanta la situazione all’Ospedale neuropsichiatrico cantonale era desolante ma poi arrivò il Club 74

Ticino (edito dal Dipartimento opere sociali nel 1978) si parla diffusamente del Club 1974 e di esperienze simili nate in seguito sul territorio cantonale: «Il Club 74 rappresenta oggi uno spazio autonomo, anzi una catena di spazi che i pazienti gestiscono (bar analcolico, biblioteca, teatro), come pure una struttura di animazione della socio ergo e ludoterapia». Nel libro è riportato anche il punto di vista di alcuni degenti: «Formiamo una comunità che, giorno dopo giorno, produce, parla, ride, litiga, comunica, di-

scute, si aiuta. Siamo tutti d’accordo sulla validità di questa terapia, perché di terapia si tratta: per guarire è importante sentirsi sempre meno pazienti e più persone». «Tra noi (…) c’è chi si ricorda la monotonia delle sue giornate quando il Club non esisteva, giornate passate sempre in camera, orari rigidi, impossibilità o quasi di incontri con degenti di altri padiglioni. Siamo convinti che, del grande cambiamento avvenuto in questi ultimi anni all’ospedale, ci sia anche il nostro piccolo contributo. La nostra

sede è sempre aperta già dalle 8 del mattino fino all’ora di cena, le nostre attività ricreative non si sono svolte solo di pomeriggio ma anche di sera, con cenette, festicciole ecc. Questo è stato di stimolo, anche per i pazienti che non lo potevano fare, a uscire». Il Club 74 ha contribuito in maniera importante alle riforme della sociopsichiatria ticinese, conferma Mariconda. Ancora negli anni Settanta la situazione al «Neuro» era piuttosto desolante, molto lontana da quello che succedeva nella clinica

La Borde: trattamenti con l’insulina, isolamento, contenzione, padiglioni chiusi, camera deliri, elettroshock. «L’Ospedale neuropsichiatrico cantonale era un luogo di emarginazione e stigmatizzazione. Un luogo che non accoglieva solo persone affette da gravi disturbi psichici ma anche altre tipologie di ospiti: persone emarginate, ragazze madri, tossicodipendenti, persone con comportamenti delinquenziali ecc. Dentro tale sconfortante contesto si muovevano a fatica i primi tentavi di terapie psicosociali». «Sotto la direzione ospedaliera di Elio Gobbi si sviluppò un dibattito che portò alla Legge cantonale sull’assistenza sociopsichiatrica del 1983, che contribuì a restituire dignità e diritti a chi soffre di un disagio mentale», afferma Claudio Mustacchi, docente-ricercatore del Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale della Supsi in uno scritto che si può trovare online dedicato a Ettore Pellandini («Ettore Pellandini: l’attore del cambiamento»). «Un dibattito favorito dalle evidenze che Ettore Pellandini – animatore socioterapeutico, agli occhi di molti stravagante – andava producendo: discutendo coi “matti”, recitando con loro, ascoltando audiodischi, nominandoli responsabili di un club non esclusivo ma aperto a tutti, mostrando l’importanza di un sapere sociale e culturale, un sapere non medico, fondamentale per la cura della sofferenza mentale». Un nuovo approccio a cui ha aderito anche Mariconda che ha portato sollievo a molte persone malate, non solo nel periodo delle feste.

Tra blues delle feste e depressione invernale Che il periodo delle festività abbia un influsso negativo sulla salute mentale di molti lo ribadisce Gloria Eliometri, psichiatra e psicoterapeuta del Luganese con alle spalle una lunga esperienza nei Servizi psico-sociali del Cantone. «Il fenomeno riguarda sia le persone vulnerabili, che soffrono magari già di disturbi dell’umore, sia le persone che di solito non manifestano segnali di disagio particolari. Per psichiatri e psicologi è un classico: ogni anno, da metà novembre, il carico di lavoro aumenta. Le richieste di aiuto crescono. L’umore dei pazienti seguiti peggiora: sono più malinconici, fragili, stanchi. Parecchi di loro si trovano più spesso in situazioni di urgenza». Per la nostra interlocutrice questa tendenza può essere ricondotta al fenomeno dell’Holiday blues, un abbassamento del tono dell’umore che caratterizza il periodo delle festività e delle vacanze. Un disturbo che colpisce persone di tutti i ceti sociali e le fasce di età. Anche se, a ritrovarsi più facilmente in difficoltà, è chi non dispone di una rete sociale sufficientemente ampia, chi ritiene di non poter contare sul sostegno di parenti e amici, chi si sente solo. Ma quali sono le cause dell’Holiday blues? «In primo luogo bisogna considerare la pressione sociale che caratterizza il periodo delle feste», spiega Eliometri. «A Natale – tra addobbi, vetrine colorate e cene obbligate – ci si aspetta che tutti stiano bene e si divertano. Da ciò può scaturire una certa ansia. Inoltre le feste coincidono con la fine dell’anno, tempo di bi-

lanci non sempre positivi, di confronti tra gli obiettivi che ci si era fissati e i risultati conseguiti durante gli ultimi 12 mesi. C’è anche chi vive le festività con molta nostalgia, ripensando alla propria infanzia e alla spensieratezza ormai perduta che caratterizzava le giornate». A questo si aggiunge, come detto, la solitudine di alcuni o, al contrario, l’obbligo di trascorrere del tempo – misure anti-Covid permettendo – con parenti che non si ha il desiderio di incontrare. Un altro elemento da considerare – nel caso di persone integrate nella società, con una vita strutturata – è che durante le feste la quotidianità si interrompe: il lavoro cessa, i ritmi di sonno e veglia vengono stravolti, l’alimentazione si trasforma. Anche questi cambiamenti possono causare un certo malessere, sottolinea la psichiatra. Malessere che in alcuni casi si può sommare al Winter blues, letteralmente depressione invernale, un disturbo «fisiologico» correlato alla mancanza di luce che caratterizza i mesi più freddi dell’anno. «Sembrerebbe che la diminuzione delle ore diurne porti a un aumento della proteina SerT, la quale trasporta la serotonina lontano dai luoghi utili. Quindi, semplificando, i livelli dell’ormone del buonumore nell’organismo scendono, con conseguenze facilmente immaginabili». Nel disturbo dell’umore stagionale prevale l’ipersonnia e l’iperfagia, specifica l’esperta: le persone che ne soffrono tendono a dormire e mangiare di più (soprattutto carboidrati e zuccheri che sono degli stimolanti, pre-

Shutterstock

Mentre in città si scatena la corsa agli ultimi regali, e nelle cucine fervono i preparativi per la cena della vigilia, una signora attende impaziente l’arrivo del figlio nel parco di Casvegno, a Mendrisio (che fa parte del complesso dell’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale). La abbraccerà stretta facendole dimenticare i mostri che le tolgono sonno ed energie. Le racconterà di un mondo che non conosce più. La riporterà finalmente a casa. È da giorni che si prepara con cura. Ha scelto il vestito più bello. Si è pettinata. Ha messo in una piccola borsa una sciarpa rossa. Per lui. All’ultimo, però, una telefonata infrange tutti i sogni. «Un imprevisto… Sarà per la prossima. Buon Natale». Già, buon Natale, mentre solitudine e tristezza dilagano tra gli alberi e i vialetti vuoti. A ricordare l’episodio è Giuseppe Mariconda, psichiatra del Luganese per decenni caposervizio della Clinica psichiatrica cantonale (Cpc), sempre in prima linea ogni dicembre. «Lavoravo spesso durante le feste», ci racconta. «Un periodo in cui si notava un aumento del malessere degli ospiti. Più in generale durante le festività molte persone conoscono un abbassamento del tono dell’umore. Ma mentre chi è inserito nella società può reagire, magari aderendo a varie manifestazioni di aggregazione, chi vive in istituto ha più difficoltà a farlo e si sente ancora più abbandonato. Se poi la rete famigliare non si attiva le giornate tendono a riempirsi di amarezza e disperazione». Fortunatamente – spiega il nostro interlocutore – alla Cpc, che allora si chiamava Ospedale neuropsichiatrico cantonale (Onc), o più comunemente «Neuro», si mettevano in atto una serie di strategie e presidi per cercare di contrastare la tendenza. «Uno di questi si chiamava Club 74, ed è stato formalmente istituito nel 1974 da Ettore Pellandini, un formidabile animatore dell’Onc. Questo club dei pazienti aveva (e ha ancora, visto che continua la sua attività) lo scopo di coinvolgere i degenti nella pianificazione della giornata – anche quelle di Natale e Capodanno – e nell’organizzazione di attività sociali, culturali e ricreative (momenti di arte, musica e movimento, lavori utili all’interno e all’esterno della struttura ecc.)». Attività che assumevano finalità terapeutiche, riabilitative e di reinserimento sociale. «Il Club 74 – sottolinea Mariconda – era una maniera efficace di esorcizzare gli aspetti negativi della vita in istituto, ritrovando una socialità e un’affettività perdute. L’iniziativa era nelle mani dei pazienti, i quali da vittime passive si trasformavano in interlocutori attivi, responsabili dell’andamento delle loro giornate. E così riuscivano a gestire meglio le emozioni negative, passando dall’amarezza della solitudine a una certa euforia. Si trattava di una strabiliante forma di cura che si ispirava ai principi della Psicoterapia istituzionale di origine francese, in particolare a Jean Oury e alla clinica La Borde a Cour-Cheverny, nella Valle della Loira. Psicoterapia istituzionale che proponeva una ristrutturazione radicale di quelli che allora si chiamavano manicomi e cliniche di salute mentale». Nel saggio L’Ospedale neuropsichiatrico cantonale di Mendrisio 1898-1978. Passato, presente e prospettiva dell’assistenza socio-psichiatrica del Cantone

Keystone

Romina Borla

cursori della serotonina), al contrario di alcune forme depressive in cui si tende a fare il contrario. Holiday blues e Winter blues non riguardano tutti. Ci sono persone più sensibili di altre per motivi congeniti, caratteriali, famigliari, legati alla rete sociale ecc. Certo è che tutti viviamo un momento di incertezza legato all’evoluzione della pandemia, rimarca Eliometri, la quale ha avuto un forte impatto psicologico anche in chi prima del 2020 stava bene. Pensiamo al malessere derivato dall’impossibilità di progettare a lungo termine, dall’isolamento che un po’ tutti abbiamo sperimentato, dal fatto di non poter incontrare gli amici (specie durante il lockdown) o di poterli vedere con tutta una serie di accorgimenti che tolgono spontaneità ad ogni gesto. Inoltre molte persone che sono

alle prese con una malattia mentale a causa del Coronavirus non hanno potuto ricevere gli adeguati trattamenti sia dal punto di vista farmacologico, sia da quello riabilitativo con risultati davvero pesanti. Tornando al Winter blues, chiediamo all’esperta qualche consiglio per contrastare la malinconia e l’inerzia. «Le ricette prestabilite non mi piacciono», chiarisce subito Eliometri. «E, considerazione personale, anche gli animali in inverno rallentano. Per cui, da una parte e fino ad un certo punto, questa sorta di rallentamento, il bisogno di starsene più tranquilli, va accolto e accettato. Non deve essere necessariamente problematizzato. Un periodo a basso regime può servire per recuperare le energie. D’altra parte è necessario monitorare la situazione in modo che, se la persona perde lo slancio vitale in modo significativo, si possa intervenire in tempo». Per il resto sarebbe buona cosa cercare di tenersi attivi, nonostante la fatica: «Chi è in movimento produce endorfine, sostanze chimiche prodotte dal nostro cervello responsabili del buonumore». Aiuta anche mantenere un ritmo di vita regolare, assumere degli integratori specifici come il triptofano (un aminoacido essenziale precursore della serotonina e della melatonina, coinvolta nella regolazione dei ritmi del sonno) e sottoporsi alla terapia della luce (sedute giornaliere con lampade apposite che stimolano il benessere generale). Senza dimenticare che se il disturbo rimane importante è necessario rivolgersi a uno specialista.


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MONDO MIGROS

Del pollame per la tavola natalizia

Attualità ◆ Le specialità a base di carne avicola che trovate nei negozi Migros sono davvero tante. E non mancano quelle particolari…

La ricetta Il tacchino ripieno della tradizione Ingredienti per ca. 5-6 persone • 100 g di pane, ad es. di Sils • 1 cipolla grossa • 200 g di frutta secca mista • 200 g di castagne surgelate • 120 g di pancetta a dadini • 1 tacchino da ca. 3-4 kg, ordinabile in anticipo dal macellaio Migros • sale • 2 dl d’acqua Procedimento

Le festività di fine anno sono un inno ai piaceri della buona cucina. In molti paesi, compreso il nostro, le specialità di pollame rappresentano spesso un piatto tradizionale che non può mai mancare sulla tavola di Natale. Grazie alle sue carni tenere e succose, il tacchino la fa sicuramente da padrone e costituisce una gustosa alternativa ai classici arrosti, roast beef, filetti ecc. Solitamente si usa cucinarlo con un sostanzioso ripieno a base di frutta, verdura, carne, formaggio o noci, particolare che conferisce alla carne ancora più morbidezza e sapidità. Il tacchino è originario dell’America e venne introdotto in Europa dagli spagnoli nel 16° secolo. Un tempo era considerato un piatto riservato ai più ricchi, poiché gli animali era-

no difficili da allevare e la disponibilità era limitata. I meno abbienti se lo concedevano solo nelle occasioni speciali dell’anno, come appunto il Natale. Inoltre, grazie alle sue dimensioni, era una pietanza che riusciva a soddisfare al meglio la fame di molti ospiti. Nei reparti macelleria e surgelati dei supermercati Migros sono disponibili tacchini di diverse grandezze e dal peso fino a 10 kg, come pure il tacchino da allevamento biologico. Al banco trovate inoltre il tacchino disossato, farcito con un aromatico ripieno di carne. Tra le specialità di particolar pregio dell’assortimento segnaliamo il pollo di Bresse. Originario dell’omonima regione della Francia orientale, ad un centinaio di chilometri da Gi-

nevra, si fregia della Denominazione di Origine Controllata fin dal 1957. Il suo aspetto unico si caratterizza per il piumaggio interamente bianco, le zampe blu e la cresta di color rosso brillante. È allevato all’aria aperta, su vasti prati, ed è foraggiato con mais, frumento, cereali e prodotti lattieri provenienti esclusivamente dalla regione di Bresse. Dal punto di vista gastronomico, per il suo sapore delicato è un prodotto molto ricercato dai più fini buongustai. Possiede una carne soda, tenera, fondente, ben marmorizzata e una pelle fine e perlata. Per una cottura ideale bisogna calcolare ca. 45 minuti per ogni kg di peso, a 180°C. Evitare di pungerlo durante la cottura, ma bagnarlo con il suo succo ogni quarto d’ora.

Altre specialità molto in voga durante le festività sono ancora la faraona, con le sue carni dal sapore più marcato rispetto al pollo, che ricordano quelle del fagiano; l’oca, solitamente deliziosamente farcita e cucinata arrostita o brasata al forno; l’anatra, rinomata per la sua resa e la qualità della sua carne che presenta un caratteristico gusto leggermente muschiato e il cappone che, grazie ad una carne dal sapore delicato e una tenerezza che si scioglie in bocca, regala sempre molte soddisfazioni in cucina. Infine, segnaliamo che l’assortimento di pollame conta naturalmente ancora il pollo fresco svizzero Optigal intero, un grande classico di qualità ideale anche per i palati più raffinati.

1. Scalda il forno a 200 °C. Per la farcia, taglia il pane a dadini piccoli, la cipolla a spicchi grossi. A seconda delle dimensioni, dimezza la frutta secca. Mescola tutto con le castagne e la pancetta. 2. Riempi la cavità ventrale del tacchino con la farcia. Lega le cosce sulla cavità ventrale con spago da cucina. Sala il tacchino e accomodalo in una brasiera. Aggiungi l’acqua nella brasiera e rosola il tacchino in forno per 20 minuti. Abbassa la temperatura a 170 °C. Cuoci il tacchino per ca. 2 ore, spennellandolo di tanto in tanto con il grasso che si forma nella brasiera. Spegni il forno e lascia riposare il tacchino per ca. 20 minuti, lasciando lo sportello del forno aperto. Prova cottura: la temperatura interna della carne deve aver raggiunto 85 °C. 3. Trancia il tacchino ed estrai la farcia. Accompagna la carne con un contorno di ortaggi invernali e purè di patate.

Foresta nera vestita a festa

Attualità ◆ Un irresistibile dessert dedicato a tutti i golosi che amano questo grande classico della pasticceria Migros

Da oltre 50 anni la torta foresta nera è un grande classico della pasticceria Migros e non ha certo bisogno di troppe presentazioni. Ora questa storica specialità a base di pan di Spagna al cioccolato e panna montata si veste a festa, declinandosi in diverse versioni per celebrare degnamente il periodo natalizio. Preparate con cura e passione dagli esperti pasticceri del laboratorio artigianale di S. Antonino con materie prime di prima quali-

tà, queste torte foresta nera sono disponibili con una decorazione a tema nelle varianti classica, con ananas e cocco e con pera e cannella. Ricordiamo che queste e altre golosità di pasticceria artigianale, come anche diverse specialità di gastronomia, possono essere ordinate direttamente presso la vostra filiale Migros più vicina, inviando una email a party-service@migrosticino.ch, oppure telefonando al nr. 0848 848 018.


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MONDO MIGROS

Azioni in festa! Attualità

Ancora fino al 31 dicembre ogni giorno sensazionali offerte fino al 50% di sconto

l’azione Scoprite o su del giorn

h/ ticino.c migros -festa azioni-in

Non perdetevi le nostre fantastiche offerte giornaliere per godervi appieno i piaceri della tavola, ma con un occhio di riguardo al portamonete. Che si tratti della cena della Vigilia, del pranzo di Natale oppure della cena di San Silvestro, grazie alle nostre «Azioni in

festa» troverete l’ispirazione giusta per approntare delle stuzzicanti ricette per ogni esigenza, dagli antipasti ai piatti forti, dal dolce al contorno. Qualche esempio? Questa settimana potrete portarvi a casa ad un prezzo imperdibile il salmone affumicato scozzese St.

James affinato al whisky e al gin (mercoledì 22.12, 46% di sconto); del croccante formentino per le vostre raffinate insalate da arricchire con uova sode e noci (giovedì 23.12, 40% di sconto); l’entrecôte di manzo nella confezione speciale ideale per succulenti roast be-

Per finissimi antipasti

Attualità ◆ Le nostre proposte di paté soddisfano anche i palati più esigenti… vogliamo scommettere?

Dal classico paté di fegato a quello al gin Bisbino: la scelta è davvero ampia. (Flavia Leuenberger Ceppi)

Delle tartine o dei crostini spalmati con del cremoso paté sono un classico antipasto per le feste gradito a molti commensali. Le aromatiche speciali-

tà disponibili nei supermercati Migros faranno un figurone su ogni tavola. Tutti i paté sono realizzati da abili gastronomi con l’utilizzo di carni di pri-

ma scelta, spezie selezionate e metodi di cottura delicati che preservano il giusto equilibrio tra tutti gli ingredienti usati. Il tradizionale paté di fegato è preparato con carne e fegato di vitello e maiale, il tutto avvolto in una gelatina che esalta ulteriormente il sapore delicato della specialità. Chi predilige gli aromi più nobili sceglierà il sopraffino paté al tartufo, dove i diversi sapori si sposano a meraviglia senza che l’uno sovrasti l’altro. L’aggiunta di funghi champignon e olive nere regalano alla preparazione una delicatezza extra a cui sarà impossibile resistere. Carne magra di tacchino, noci sbriciolate e crema di noci caratterizzano invece il fragrante paté di noci: una combinazione culinaria dall’aroma incomparabile che seduce fin dal primo assaggio. Prodotto con ingredienti semplici e naturali, il paté di coniglio è una golosità estremamente delicata il cui gusto inconfondibile rimane a lungo nel palato. Infine, ecco l’esclusivo paté al gin Bisbino, un prodotto unico e particolare a base esclusivamente di materie prime ticinesi, come il fegato di vitello e il lardo di maiale ottenuti da animali allevati in Ticino, il burro del Caseificio del Gottardo e un buon goccio di Gin Bisbino, il primo gin ticinese prodotto artigianalmente in Valle di Muggio con erbe aromatiche e fiori coltivati ai piedi dell’omonimo monte.

ef (giovedì 23.12, 30% di sconto); oppure ancora le succose clementine a foglia senza semi (venerdì 24.12, azione Hit). L’ultima settimana dell’anno, invece, vi aspetta il tradizionale zampone ticinese della Salumi del Pin di Mendrisio (martedì 28.12, 33% di

sconto); le pregiate noci di Grenoble DOP (giovedì 30.12, 50% di sconto) e, dulcis in fundo, il rinfrescante e digestivo sorbetto al limone in flûte (venerdì 31.12, 30% di sconto). Tutte le offerte sono valide fino ad esaurimento delle scorte.

Pesce fresco sostenibile

Attualità ◆ Piatti sontuosi assicurati grazie alle proposte dei banconi del pesce fresco Migros. Approfittate questa settimana dell’offerta speciale su tutto l’assortimento Azione 15% Su tutto l’assortimento di pesce fresco al banco dal 21 al 24.12.2021

Il pesce è un alimento assai prezioso per le sue qualità nutritive e gustative. È versatile, facile da cucinare ed è ricco di minerali, vitamine e proteine. Tra i pesci e i frutti di mare più rinomati potremmo citare l’orata reale, il branzino, la rana pescatrice, le capesante, la coda d’astice, la sogliola; molto apprezzati sono naturalmente anche il merluzzo, la trota, il salmone selvatico, il pesce persico e il tonno. È fondamentale che il pesce vada sempre consumato freschissimo, tenendo presente che nella scelta la consistenza della carne deve essere soda, gli occhi brillanti e cristallini, le pinne intatte e non danneggiate o sec-

che e le branchie di un bel colore rosso. Inoltre, il pesce deve emanare un buon odore, mai sgradevole. Ai banconi del pesce Migros trovate specialità ittiche in tutte le varianti e provenienti da fonti da sostenibili. I nostri competenti addetti sono a vostra disposizione per consigliarvi al meglio e aiutarvi nella scelta della vostra specialità, vi possono svelare le ricette più gustose per valorizzare i differenti tipi di pesce, su richiesta sono in grado di sfilettare e squamare i pesci interi affinché dobbiate solo cucinarli… e hanno in serbo molti utili suggerimenti per i piatti delle prossime festività. Vi aspettiamo.


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SOCIETÀ ●

Evermind, allenare l’attenzione Due nuovi quaderni didattici del Dipartimento formazione e apprendimento per educare alla concentrazione e riflettere sulla scuola

I media svizzeri La qualità resiste ma la pubblicità cala e molte testate fanno fatica finanziariamente, per queste sarà cruciale la votazione del 13 febbraio

Non per curare, ma per correggere Intervista alla dottoressa Luisa Nodari sui benefici che la chiropratica può produrre nei bambini

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Brusino Arsizio è lo sfondo di molte delle fiabe raccontate da Jolanda Bianchi Poli. (Franco Cattaneo)

La Scendruràta di Brusino Pubblicazioni

Le fiabe di Jolanda Bianchi Poli raccolte in un libro che fa rivivere la magia dei raccontastorie

La Scendruràta è Cenerentola, solo che qui ha il papà in Svizzera interna, fa tre balli e la terza sera il principe le mette un anello di nascosto nel bicchiere. È la versione di Jolanda Bianchi Poli, di cui una scelta di bellissime fiabe e altre storie è appena stata pubblicata per le edizioni Ulivo dall’antropologa Veronica Trevisan (da questa raccolta abbiamo tratto la fiaba pubblicata a pag. 2, ndr.). «Ho selezionato alcuni tra i più bei racconti di Jolanda (1921-2011) per farli rivivere; io li ho sentiti in una registrazione degli anni Ottanta e sono eccezionali», spiega Veronica Trevisan. «Jolanda era conosciuta a Brusino Arsizio, narrava ai bambini e agli adulti, sapeva fiabe, leggende, filastrocche e non perdeva occasione per condividerle. Era una che usava voce, mimica e fantasia personale per arricchire storie antiche che le erano state raccontate». Si racconta nell’introduzione che imitava il vento e i versi degli animali, dava un carattere a ogni personaggio e interveniva con sue esclamazioni (Oh Madòna, Oh pora mì...); le piacevano le rime, le onomatopee, godeva essa stessa del racconto e spesso si interrompeva per ridere o fare commenti, cercando la complicità di chi le stava davanti, come fanno i migliori narratori. Nel volume Fiabe di Jolanda Bianchi Poli si trovano

T. Bernasconi

Sara Rossi Guidicelli

dodici storie trascritte in dialetto, pari pari a come sono uscite dalla bocca della raccontastorie, e la loro traduzione in italiano. Sono spassose, meravigliose, lasciano intuire la personalità di Jolanda; sono intrise di attualizzazioni e riferimenti alla realtà circostante, come la Madonna al posto della fata nel bosco, la fontana di Brusino, i gatti del paese e così via. Ma l’originalità dei suoi racconti non sta solo nel fatto che lei, Jolanda, modificava le storie sentite: per lo studioso di folclore, leggere o sentire queste versioni è importante perché si viene a conoscere un altro repertorio tra quelli già registrati. Si sa che le fiabe circolano dalla notte dei tempi in forme numerose ma non poi così diverse (la matrice di Cenerentola è

pur sempre quella: una poveretta che sta nel camino, viene nascosta da una matrigna e aiutata da una madrina ad andare al ballo, dove conosce il principe e si sposa). Le versioni che conosceva Jolanda arrivano da lontano: da un padre che viaggiava per il mondo, da una maestra che si interessava di fiabe, dalla madre che le tramandava oralmente un patrimonio ricco che si protrae di bocca in bocca, modificandosi ma mantenendo un nucleo universale che appartiene al genere della cosiddetta «fiaba di magia». «Il mondo magico di Jolanda inizia fuori dalla porta di casa sua e prosegue nella piazza del paese o nei borghi, nelle campagne vicine, sulle rive del lago di Lugano e in cima alle sue montagne...», racconta ancora Veronica Trevisan, laureata in Lettere Classiche prima e Antropologia poi, con una tesi proprio sulla narratrice di Brusino Arsizio. «I protagonisti dei suoi racconti sono persone comuni: pescatori, mugnai, boscaioli, mercanti e ambulanti, carbonai, vetrai, mariani, cacciatori e calzolai. Dai suoi racconti emerge anche la sofferenza della vita degli emigranti: i suoi eroi aspirano a trovar fortuna, ma non si tratta di ori e palazzi, bensì piuttosto di un cappotto per l’inverno, cibo, una casa». Il sogno della studiosa sarebbe quello, con il

professore che l’ha seguita, Glauco Sanga, di pubblicare un giorno tutto il repertorio di Jolanda Bianchi Poli. «Purtroppo io non l’ho incontrata di persona, ma in Ticino c’è una grande studiosa di fiabe, che molti conosceranno: Pia Todorovic; ed è proprio lei che negli anni Ottanta ha registrato cantafiabe, narratori, artisti di strada che conoscevano storie, aneddoti, filastrocche e le raccontavano nelle piazze, nelle stalle, accanto ai camini la sera, mentre le donne filavano. Quando poi i bambini andavano a letto, a sera inoltrata, si passava alle storie di paura, o addirittura a quelle piccanti: Jolanda ne aveva tutto un repertorio!». Il racconto è sempre stato un elemento fondante per le comunità umane: ascoltiamo e inventiamo intrecci per trovare un senso alla nostra presenza nel mondo, per spiegare il mistero della vita e della morte, per sentirci parte di un destino comune e per crescere. In questo libro di «antiche storie» si può imparare senza pesantezza, per esempio, che la modestia, l’amore per il lavoro e il rispetto degli altri valgono più di qualsiasi magia. Che ci sono le prove da superare ma che queste sono superabili; che abbiamo risorse dentro di noi per affrontare la vita e le sue ombre, ma che abbiamo anche bisogno degli incontri

con persone che ci aiutano e ci affiancano, lungo il cammino che percorriamo. «Certo, ai tempi di Jolanda si sentivano fiabe di giorno con le maestre d’asilo, nei boschi a pascolare capre, dopo una giornata di lavoro, nelle stalle alle veglie serali, mentre si girava l’arcolaio o si cuciva la dote, in osteria, al mercato, alle feste religiose... ma anche oggi, anche se forse non ci sembra, siamo attorniati da storie. Per esempio il Cinema ne è un grandissimo portatore. La letteratura, i videogiochi, le serie televisive. E anche queste forme vanno bene», conclude Veronica Trevisan, «purché la fiammella – anche virtuale – del camino resti accesa». Veronica, che in passato ha curato anche una mostra sulla fiaba al Museo della Civiltà Contadina di Stabio, ha già presentato la sua raccolta di fiabe a Brusino Arsizio. «Mi piacerebbe che Jolanda non andasse dimenticata; penso che il suo ruolo fosse importante, non solo come passatempo, ma per dare valore all’immaginazione e alla fantasia umana. Le fiabe ce lo ricordano in continuazione: possiamo sperare in un futuro di realizzazione. Potremo vivere felici e contenti, anche se troveremo davanti a noi il “male”, perché lo supereremo. Per i bambini, ma anche per noi adulti, è fondamentale e benefico ricordarcelo».


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Storie da regalare

Libri ◆ A Natale sotto l’albero non devono assolutamente mancare, ecco qualche proposta tra le novità dell’editoria per l’infanzia Letizia Bolzani

Nel settore librario dedicato all’infanzia, il Natale è sempre più importante anche come ambientazione narrativa. Babbi Natale, abeti, elfi e renne sono protagonisti indiscussi dei volumi che campeggiano nelle librerie. Anche i grandi autori contemporanei per l’infanzia si misurano con il tema e molti editori propongono interessanti recuperi di testi natalizi di autori classici del passato.

hanno regalato, un maialino nuovo di zecca che però per lui è solo un inutile rimpiazzo; tuttavia nella Terra dei Perduti non ci sono solo Cose amate e rimpiante, ma anche povere Cose mai amate e dimenticate, e anche questo è un risvolto commovente del romanzo. Da 8 anni.

– dell’autore e illustratore americano Crockett Johnson (1906-1975). Il suo titolo più celebre è Harold e la matita viola, 3 milioni di copie vendute, ancora intramontabile e freschissimo a settant’anni dalla sua uscita, perché fa leva sulla potenza dell’immaginario infantile, e sulla sua capacità di creare mondi. Grazie alla sua matita viola, il piccolo Harold materializza la storia in cui vuole entrare, come fosse un «facciamo che c’era (la luna, la strada...)» che appartiene al gioco

Per i piccolissimi, già dai 2 anni, è Filarello (Lapis), che porta la firma di un maestro italiano dell’illustrazione, Attilio Cassinelli, in arte Attilio, di cui Lapis ci sta facendo conoscere la straordinaria carriera, tuttora produttiva (è nato nel 1923). Attilio fa libri per bambini dagli anni ’60, è stato un antesignano del silent book, è stato un precursore di molte tematiche attuali, e anche in questa nuova deliziosa storia di Natale, Filarello, ritroviamo il suo inconfondibile stile: i tre personaggi – l’albero di Natale, il cane Bob e il ragnetto Filarello – si stagliano sul bianco dello sfondo, evidenziati da un deciso contorno nero e riempiti di colori pieni, e riescono ad essere espressivi anche nella magistrale semplicità dei tratti. Bob deve fare l’albero di Natale, ma gli manca la stella da mettere in cima: chi potrà dargli una mano se non Filarello, maestro del ricamo? Un valore aggiunto del libro sono i testi, in quartine di ottonari a rime baciate, con il ritmo baldanzoso da Signor Bonaventura, perfetto per la lettura ad alta voce: «il Natale si avvicina / Bob il cane va in cantina / dove sono conservate / le palline colorate...». Harold al Polo Nord si inserisce nel progetto dell’editore Camelozampa, che sta pubblicando tutti i titoli della fortunata serie di Harold – alcuni dei quali finora mai tradotti in italiano

simbolico infantile. Anche stavolta, in Harold al Polo Nord, la matita viola comincia a tratteggiare la luna, e poi le stelle, che guidano il cammino del bimbo verso i «boschi del nord» dove vuole andare a cercare un albero di Natale. Ma poi con la sua matita Harold disegna la neve, ed eccola, ci starebbe bene un pupazzo, ed ecco il pupazzo, e «facciamo che eravamo al Polo Nord e che c’era la casa di Babbo Natale», e la casa entra nella storia di Harold, e anche Babbo Natale, la cui porta è bloccata dalla tempesta di neve, e se Babbo potrà uscire dal camino, come si potrà fare uscire la slitta? Ci penserà Harold, con la sua matita viola, simbolo della capacità dei bambini (e degli artisti) di scorgere il magico nel quotidiano, gli spazi di possibilità nella realtà. Da 3 anni.

Tra le novità editoriali non ci sono solo libri di ambientazione natalizia ma anche riedizioni di grandi classici come una meravigliosa Alice rivisitata dal celebre artista britannico Chris Riddell L’osmosi tra libro e film (o serie tv), tipica dell’editoria per ragazzi, non si smentisce, anzi persino si accentua, a Natale. Dal bellissimo romanzo di Matt Haig, Un bambino chiamato Natale, è stato tratto un film appena uscito su Netflix. E, con operazione inversa, dal film d’animazione Un pettirosso di nome Patty, anch’esso appena uscito su Netflix, sono stati tratti due libri da Emme Edizioni. Di tendenza quest’anno anche i libri-calendari d’avvento, con ventiquattro storie da leggere aspettando il Natale. Se l’avvento è ormai quasi giunto al termine, non lo è il periodo natalizio, nel quale donare libri ai piccoli lettori (e non solo a loro) è sempre una buona idea. Diamo quindi insieme un’occhiata agli scaffali delle strenne, cominciando dal nuovo romanzo per bambini dell’autrice di Harry Potter, J.K. Rowling, Il maialino di Natale (Salani). È la storia di una perdita, e non importa se la perdita «è solo» quella di un pupazzo: per Jack, il suo maialino di pezza è un amico vero, sempre pronto a dargli comprensione e conforto. Lino sarà anche un pupazzo, ma dentro le palline di plastica che ha nella pancia, Jack sente – con quel magico talento che hanno i bambini – il benefico calore di un’anima viva. Quando Lino si perderà (gettato fuori dal finestrino dell’auto dalla figlia del compagno della sua mamma), per Jack sarà un trauma. Ma dopo la rabbia e la disperazione, egli deciderà di compiere un coraggioso viaggio in un Altrove «strano e terribile», la Terra dei Perduti, il luogo «dove vanno le Cose quando le perdi», su cui domina un signore oscuro molto particolare, «il Perdente», che cattura e divora le Cose, perché le odia, e «odia i viventi». Un regno della morte, questa Terra, nel senso che è deprivato di energia vitale (tema caro alla Rowling, con i suoi Dissennatori), a cui si oppongono la luminosa magia del Natale e la figura stessa di Babbo Natale. Ma soprattutto, ciò che si oppone al male del Perdente, è la forza dell’amore (altro tema caro all’autrice, che in Harry Potter scrive «essere stati amati tanto profondamente ci protegge per sempre»). Jack ama profondamente il suo maialino, e va a cercarlo con il nuovo pupazzo che gli

Un maialino, un ragnetto, un mostriciattolo blu, due orsetti, un camoscio e… tanta fantasia per rendere magico il Natale Tutto da ridere, e giocato sull’umorismo interattivo, perché parla direttamente al lettore, invitato a non aprire il libro, a non voltare pagina, è Non aprire questo libro. Neanche a Natale! (Gribaudo). Il personaggio blu disegnato da Heath McKenzie e creato

da Andy Lee, entrambi australiani, è ormai celebre (anche i precedenti libri invitano a non essere aperti) ma qui, in questa nuova avventura, siamo in attesa di Babbo Natale, che però, se tu continui a girare pagina, rischia di non arrivare, perché «un elfo mi ha fatto un incantesimo: ogni volta che tu giri la pagina io divento sempre più disordinato e disobbediente». Si può immaginare il divertimento di contravvenire al divieto e godersi le malefatte del povero mostriciattolo blu, che non mette ordine, che sale sul divano con le scarpe, che scrive sulle pareti, tutte trasgressioni vietatissime al piccolo lettore, il quale, in fondo, ha solo trasgredito al divieto di aprire il libro... Però bisogna aiutare il mostriciattolo a rimettere le cose a posto, altrimenti Babbo Natale non gli porterà nulla (e forse neanche al lettore)! Da 4 anni. Una piccola storia di Natale, di neve, di foresta e di cuccioli in esplorazione è quella che Elsa Fouquier ci racconta con parole e immagini nell’albo Un Natale da orso (Jaca Book), in cui due orsetti escono dalla ta-

italiana di Beatrice Masini. Davvero una resa smagliante di questo grande classico, perché illustrazioni e testo non potevano essere affidati a talenti più adatti. Il celebre e premiatissimo artista britannico Chris Riddell ha già rivisitato mirabilmente altri classici, ma è forse proprio con Alice che il suo côté visionario, onirico, umoristico, raffinato (i bambini lo apprezzano per la serie di Ottoline) sfodera tutta la sua forza. Oltretutto egli sin da piccolo, apprendiamo dalla prefazione, adorava John Tenniel, il primo illustratore di Alice, che l’ha ispirato nel scegliere la sua strada di artista. Inoltre, per questa interpretazione di Alice, Riddell ha compiuto uno studio approfondito e ha ripreso le sembianze originali della piccola Alice Liddell, da cui Carroll era partito per creare il suo personaggio. E per quanto riguarda il testo, la traduzione di Beatrice Masini, firma indiscussa nel panorama letterario italiano, è garanzia di sensibilità e competenza assolute. Non è un libro di narrativa, ma po-

na nella notte polare per la loro prima avventura in autonomia. Si avvicinano alle case e vedono i cuccioli umani addobbare l’abete, e allora anche loro troveranno in natura tante belle cose con cui addobbare un ramo. Ma per tornare alla tana, visto che la neve ha ormai coperto le loro impronte, occorrerà sagacia, intraprendenza e aiuto reciproco. Del resto è così che si diventa grandi! Da 3 anni. Tra le molte riedizioni in veste «strenna» di grandi classici, si staglia la proposta delle Edizioni Il Castoro: la pubblicazione del capolavoro di Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, con le illustrazioni di Chris Riddell e la nuova traduzione

trà tornare prezioso durante i giorni di festività da trascorrere in famiglia: l’esperto di giochi Andrea Angiolino propone 36 giochi per i giorni di festa (Gallucci): sono giochi tradizionali, belli e divertenti, dei quali è importante non perdere la memoria. Concludiamo segnalandovi Peter, una strenna che è locale, perché autori e editore (Salvioni) sono ticinesi, ma che è di portata ben più vasta per quanto riguarda l’interesse che la storia può suscitare. Una storia vera, raccontata da Mario Donati e adattata da Valeria Nidola, con le illustrazioni di Antoione Déprez. La storia di un camoscio fra i dirupi della val Mala. Buone letture!


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Educare alla concentrazione

Pubblicazioni ◆ Due nuovi quaderni didattici del Dipartimento formazione e apprendimento della Supsi per allenare l’attenzione e riflettere sulla scuola Stefania Hubmann

Attenzione e concentrazione possono essere educate con semplici attività da svolgere a scuola e in famiglia in modo da favorire l’apprendimento. L’innovativa proposta è racchiusa in un quaderno didattico pubblicato di recente dal Dipartimento formazione e apprendimento (DFA) della SUPSI. Un’altra pubblicazione, presentata nella medesima occasione, riprende invece il ruolo della scuola quale luogo imprescindibile dell’apprendimento, ma pure dell’esperienza che educa all’interazione sociale, al senso di appartenenza, all’aiuto reciproco. Aspetti emersi in tutta la loro essenzialità durante il primo lockdown con la chiusura degli istituti scolastici nell’intera Svizzera. Il quaderno della SUPSI li riprende nell’ottica della storia dell’educazione, per riflettere inoltre su soluzioni alternative e pratiche rivalorizzate durante l’emergenza sanitaria. Anche in questo contesto la scuola resta una fonte di benessere e non di paura. I due quaderni sono destinati in via principale ai professionisti dell’educazione, ma la presenza della Conferenza cantonale dei genitori nell’organizzazione della loro presentazione online lo scorso novembre dimostra quanto possano essere utili e di interesse anche per le famiglie. I protagonisti della scuola al tempo della pandemia sono infatti sempre i docenti, gli allievi, i quadri scolastici e le famiglie.

Si punta a una «mente sempre presente» attraverso attività incentrate su se stessi, basate sulle sensazioni corporee e sul respiro. (Shutterstock)

parte del docente materiali particolari e nemmeno una lunga formazione. Le attività che sostengono lo sviluppo di questi processi sono inoltre riconducibili ad un’azione che tutti svolgono in continuazione: inspirare ed espirare aria. Sono quindi compatibili con ogni disciplina, non richiedono molto tempo e riguardano lo sviluppo personale, competenza trasversale fra i principali obiettivi della scuola». Tradurre nella pratica quotidiana questi principi non è complicato. Il quaderno Evermind (curato anche da Monica Pongelli, Anna Bosia, Spartaco Calvo e Valeria Cavioni) propone diverse esperienze, alcune delle quali sperimentate durante il lockdown. Esse sfruttano ad esempio i suoni della natura, un prato verde o una spiaggia per guidare i partecipanti in una visualizzazione cui segue la concentrazione sul respiro, sul proprio corpo e sulle sensazioni che ne derivano. «L’attenzione non può essere catturata in modo permanente dall’esterno – conclude al riguardo il nostro interlocutore – ma è possibile migliorarla attraverso l’educazione. La proposta è quindi un modo per aiutare allieve ed allievi a gestire se stessi e a potenziare le proprie capacità di apprendere». Apprendimento che dallo scoppio della pandemia ha conosciuto nuove forme, in parte innovative grazie ai supporti tecnologici, in parte riscoperte come è il caso della scuola all’aperto. Oltre a rivalorizzare certe pratiche, grazie al quaderno Scuola tra emergenza e quotidianità, la scuola ticinese può «recuperare il ricordo della sua storia

per riflettere su come ha saputo affrontare i recenti momenti difficili di “fare scuola” in periodo di pandemia». Così scrivono gli autori Wolfgang Sahlfeld e Davide Antognazza nella presentazione. Centrale è la ricerca storica del primo, professore di storia della didattica al DFA, che ripercorre le grandi difficoltà vissute dalla scuola in Ticino, difficoltà che però fino alla primavera 2020 non hanno mai portato alla sua chiusura totale. Dalla terribile influenza spagnola nel 1918 a quella meno devastante nel 1957 (definita asiatica), dall’influenza di Hong Kong nel 1970 alla suina nel 2009 (che fece più che altro molta paura). Il contributo vuole porsi quale strumento di riflessione con la consapevolezza che, essendo l’evento ancora in corso, il bilancio resta provvisorio. Sebbene in Svizzera rispetto ad altri Paesi la chiusura delle scuole sia stata più breve (due mesi da marzo a maggio), la stessa ha comunque comportato conseguenze accertabili. La non presenza in classe e l’annullamento di alcune attività hanno influito ad esempio sugli allievi di quinta elementare nel passaggio alla scuola media. Davide Antognazza spiega come questo importante cambiamento venga in genere pienamente superato entro novembre, mentre nel 2020 ciò è avvenuto dopo il periodo natalizio. Non sono quindi tanto le lacune a livello di programma – recuperabili con maggiore facilità, com’è avvenuto anche in passato – a preoccupare i professionisti del settore educativo quanto le competenze che derivano dalla scuola quale luogo fisico di inte-

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Destinati principalmente ai professionisti dell’educazione i quaderni possono essere utili anche ai genitori Evermind – il quaderno incentrato sull’educazione all’attenzione e alla concentrazione nella scuola – indica già con il titolo un nuovo tipo di approccio. Con un neologismo coniato dalla lingua inglese, che racchiude la parole ever (sempre) e mind (mente) si punta ad una «mente sempre presente». Davide Antognazza – docente e ricercatore alla SUPSI, fra gli autori di entrambi i quaderni – spiega che attraverso semplici strategie ispirate alla tradizione e alle neuroscienze si riesce a meglio focalizzare l’attenzione. «Quest’ultima – precisa il ricercatore – è un potenziale che può essere allenato e incanalato. Il progetto, avviato prima dell’emergenza sanitaria, ha analizzato i processi di attenzione e concentrazione di chi apprende e di chi insegna. In entrambi i casi propone di sfruttare attività incentrate su se stessi, basate sulle sensazioni corporee e sul respiro». Fermarsi, respirare, sentire, non perdere il filo, rappresentano le quattro tappe di un processo che si vuole breve e di semplice attuazione. Prosegue Davide Antognazza: «La nostra idea si basa su due concetti fondamentali, ossia sostenibilità ed essenzialità. Non richiede infatti da

razione, scambio e crescita individuale, nonché sviluppo sociale. Durante la pandemia un problema che ha toccato non solo la scuola riguarda l’incessante flusso di informazioni e parole, queste ultime in quantità eccessiva e non sempre con un uso appropriato. Per riportare un po’ di ordine a questo livello, il quaderno contiene un glossario con le parole-chiave del dibattito venutosi a creare durante l’emergenza sanitaria riguardo all’apertura e alla chiusura delle scuole. Come l’aria che si respira – afferma in conclusione Davide Antognazza – l’aspetto irrinunciabile della scuola è stato percepito quando questa è venuta a mancare. Nel suo contributo ricorda che a scuola si impara il codice dell’interazione sociale, ci si confronta con un senso del limite, ci si trova in un ambiente sociale fonte di benessere. La scuola che sta a cuore ai due autori «è il piccolo mondo che fa da palestra al mondo più ampio», «il luogo che dà significato ad esperienze nuove, che non potremmo fare in altri luoghi, che non potremmo comprendere senza la mediazione dei maestri». Il periodo di chiusura ha infatti contribuito anche a meglio comprendere e valorizzare il loro ruolo. Le pubblicazioni sono disponibili ai link www.supsi.ch/go/ quaderno-evermind www.supsi.ch/dfa/ pubblicazioni/quaderni-didattici/ storia-scuola/scuola-traemergenza-e-quotidianita

SOCIETÀ

Novità alla Bellavista Monte Generoso ◆ Primo «colpo di piccone» per il restauro del Buffet

La stazione Bellavista da oltre 130 anni è con San Nicolao una delle stazioni intermedie della cremagliera che da Capolago porta alla Vetta. Con la costruzione della ferrovia nel 1890, a Bellavista, oltre alla stazione, fu inaugurato anche il Cafè Bellavista per permettere ai clienti del Grand Hotel Bellavista Monte Generoso e agli escursionisti di ristorarsi ed ammirare il panorama sulle catene alpine e sul Lago di Lugano. Chiuso dal 2013, il Buffet Bellavista riaprirà a settembre 2022, dopo 8 mesi circa di lavori e un investimento di 1 milione di franchi a carico del Percento culturale Migros, che dal 1941 supporta la Ferrovia Monte Generoso. Somma che va ad aggiungersi ai 50 milioni di franchi già investiti con la costruzione del Fiore di pietra, inaugurato nel 2017 e il risanamento della ferrovia (2019-2023). «Non vedevamo l’ora, dopo il risanamento della stazione, di far rivivere anche il Buffet, una struttura storica a cui sono legati tanti ed emozionanti ricordi dei momò e dei ticinesi» spiega Monica Besomi, Head of Sales & Marketing della Ferrovia Monte Generoso. «C’è inoltre, la volontà di ripristinare un luogo di ristoro ideale e confortevole per gli escursionisti, che a piedi o in bicicletta, in famiglia o in piccoli gruppi di amici, decidono di trascorrere una giornata all’aria aperta». La strategia della Ferrovia Monte Generoso prevede di mantenere l’edificio con le sue caratteristiche di forma e di qualità dei materiali originari e all’insegna della sostenibilità ambientale ed economica, in linea con la sua visione aziendale. Fornitori, progettisti e tecnici sono del Mendrisiotto, infatti, la maggior parte di loro è nata e vissuta all’ombra del Monte Generoso e i materiali, come per esempio, il legno di castagno usato per gli interni e per la struttura, proviene dai boschi della regione.

Da sin.: Arch. Désirée Rusconi, Arch. Michela Pagani (GPT architetti), Massimo Bosisio (Capo Esercizio della FMG), Monica Besomi (Head of Sales & Marketing della FMG), Ing. Luigi Brenni.

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La qualità resiste, la pubblicità cala

Media ◆ Secondo Publicom le grandi piattaforme come Google e Facebook riescono a sottrarre un miliardo e 600 milioni all’anno al settore pubblicitario svizzero. Nel frattempo il mondo mediatico aspetta la votazione del 13 febbraio

Le prossime settimane saranno ad alta tensione per il mondo mediatico svizzero, che si trova alla vigilia di un esame popolare sicuramente impegnativo. Il 13 febbraio verrà deciso il destino del pacchetto di misure in favore dei media, una data che viene considerata cruciale da diverse testate elvetiche. Ma come si presenta il settore dell’informazione a questo appuntamento? Quali sono al momento le condizioni di salute delle aziende che si muovono in questo settore? «I nostri studi dimostrano che in Svizzera la qualità dei prodotti giornalistici è piuttosto alta. In linea generale i media informano in modo professionale. Ci sono però anche dei problemi. Notiamo in particolare che la diversità e la pluralità delle testate sta diminuendo. Ci sono giornali che chiudono e altri che vengono assorbiti da gruppi più importanti. E questo è di certo un impoverimento». Osservazioni di Daniel Vogler, ricercatore presso l’Istituto di scienze della comunicazione dell’Università di Zurigo, un centro che ogni anno pubblica lo studio Qualità dei media in Svizzera, probabilmente l’analisi più autorevole sul mondo mediatico di cui disponiamo nel nostro Paese. In altri termini la qualità resiste anche se dal punto di vista finanziario diverse testate fanno sempre più fatica a sopravvivere, basti dire che dal 2003 ad oggi sono ben 70 i giornali locali che

hanno dovuto chiudere i battenti. E qui sul banco degli imputati c’è in particolare il mercato pubblicitario, o meglio Google, Facebook e altri giganti tecnologici che da questo mercato attingono a piene mani. Secondo Publicom, un’agenzia dei media in Svizzera, queste grandi piattaforme riescono a sottrarre un miliardo e 600 milioni all’anno dal settore pubblicitario del nostro Paese. Così almeno si stima, perché in questo ambito è praticamente impossibile ottenere cifre precise. «I soldi a disposizione del giornalismo sono sempre di meno e questo a medio-lungo termine può davvero essere problematico – ci dice ancora Daniel Vogler – È in gioco la capacità dei media di resistere in questo contesto sempre più difficile. Ma non è tutto, a questo problema si aggiunge il calo delle entrate pubblicitarie online, registrato l’anno scorso in Svizzera per la prima volta dal 2014». I dati pubblicati dallo studio annuale dell’università di Zurigo attestano una diminuzione del 17% di questi ricavi, pari a 380 milioni di franchi. «Il modello economico basato sulle entrate pubblicitarie è sempre più in crisi, mentre le redazioni che fanno affidamento sugli abbonati e su una forte fidelizzazione del pubblico hanno più possibilità di far fronte a queste difficoltà. Notiamo che sempre più testate hanno introdotto, anche online, degli

abbonamenti a pagamento e vediamo che in alcuni casi questo può funzionare. E qui si cita spesso l’esempio positivo del sito zurighese Republik.ch, che si basa proprio solo sull’apporto dei propri abbonati. In generale la situazione rimane comunque molto fragile, per questo riteniamo che un aiuto della mano pubblica sia al momento indispensabile». Sostegno in votazione popolare pari a 150 milioni supplementari all’anno. Questi fondi saranno in particolare destinati alle radio e televisioni locali e alla distribuzione postale dei quotidiani. Aiuti previsti anche ai siti di informazione online a pagamento. La SSR sarà dunque esclusa, ha già a disposizione il canone. Ci sarà inoltre anche un sostegno alle scuole di giornalismo e alla formazione continua, proprio per poter garantire la qualità dell’informazione che contraddistingue ancora il settore dei media in Svizzera. Un pacchetto contro cui è stato lanciato un referendum da chi sostiene che questi fondi rischiano di rendere i media sempre più dipendenti dalla politica. Un fronte che sottolinea anche un altro fatto: malgrado tutto i principali gruppi editoriali svizzeri riescono a chiudere con un utile i loro bilanci. «È vero, è così – fa notare Daniel Vogler, ricercatore all’università di Zurigo – va però detto che questi grandi gruppi editoriali si muovono anche in ambiti diversi da

Keystone

Roberto Porta

quelli editoriali. In questi ultimi settori riescono a fare utili, ma non nel giornalismo». In vista del 13 febbraio non si parlerà solo di pubblicità e di abbonati. Le redazioni dovranno fare i conti anche con le critiche che hanno a che vedere con il modo in cui hanno riferito sulla pandemia. «Abbiamo svolto due ricerche proprio su questo aspetto – ci dice in conclusione Daniel Vogler – e dobbiamo dire che i media hanno saputo anche in questo ambito garantire una buona qualità dei loro prodotti. A eccezione delle prime settimane di questa pandemia, nel marzo 2020, i media svizzeri non sono sta-

ti filo-governativi o troppo vicini al mondo della medicina e della scienza, come viene loro spesso rimproverato e generalmente non hanno utilizzato toni allarmistici. Insomma hanno saputo dimostrare una buona professionalità anche in un contesto difficile e imprevedibile come quello della pandemia». Pandemia e la cosiddetta infodemia che faranno anche loro capolino, in vista della votazione popolare sul pacchetto in favore dei media. E anche per questo motivo la campagna politica rischia di farsi davvero rovente: un referendum non sul finanziamento ma pro o contro il mondo dei media. Annuncio pubblicitario

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXIV 20 dicembre 2021

azione – Cooperativa Migros Ticino

Fondue Chinoise

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ORDINARE ONLINE LA CARNE IN TUTTA SEMPLICITÀ...

Cosa posso ordinare? Puoi allestire online in pochi passi il tuo vassoio di carne per la fondue chinoise proprio come piace a te. I vassoi sono pronti per il ritiro nella tua filiale Migros alla data concordata. Importante: la carne appena tagliata è un po’ più spessa dei rotolini surgelati. Questo la mantiene più succosa e gustosa dopo la preparazione. A proposito, puoi anche ordinare online dei vassoi di carne per la fondue bourguignonne, la griglia da tavola o la raclette: migros.ch/bancone Che tipo di carne c’è? A seconda della filiale, l’offerta varia leggermente. Ci sono tagli pregiati di manzo, vitello e maiale, così come petto di pollo e rognone di agnello. I consigli del bancone Non salare la carne e i contorni prima della cottura, altrimenti il brodo risulterà troppo condito. Dopo il pasto, il brodo può essere raffinato con un goccio di sherry o cognac e servito caldo in ciotole da zuppa. Ulteriori consigli di preparazione e informazioni sono disponibili presso i nostri professionisti al bancone della carne.

Per persona si calcolano circa 250 grammi di carne.


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azione – Cooperativa Migros Ticino

Tre meravigliose salse chinoise pronte in un attimo Ecco come fare la base: Mescola 200 g di crème fraiche con 180 g di M-Dessert (latte acidulo), 180 g di panna semigrassa e 3 cucchiaini di succo di limone. Aggiusta di sale. Dividi la salsa in tre porzioni. 1. Salsa alla pancetta Per la salsa alla pancetta, friggi in una padella 80 g di pancetta senza aggiungere grassi fino a renderla croccante. Lascia asciugare su un foglio di carta da cucina. Trita finemente la pancetta. Aggiungila assieme a 1 cucchiaino di sambal oelek a una delle tre porzioni di salsa e mescola bene.

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Con pancetta

… E LE SALSE FATTE IN CASA

Con mango

Salse fatte in casa senza maionese

2. Salsa al mango Per la salsa al mango, trita finemente 80 g di mango maturo e 1 cipollotto. Aggiungi entrambi assieme a 2 cucchiai di senape granulosa alla prossima porzione di salsa e mescola bene. 3 Salsa al wasabi Per la salsa al wasabi, grattugia finemente 1 cm di zenzero e 2 gambi di lemongrass. Aggiungi assieme a 1 cucchiaino di wasabi all’ultima porzione di salsa e mescola bene.

MONDO MIGROS

Con wasabi


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azione – Cooperativa Migros Ticino

SOCIETÀ

L’effetto «magico» della chiropratica nei bambini Terapie

Anche in pediatria la manipolazione manuale della colonna vertebrale non cura la malattia ma ne corregge le cause

La medicina torna sempre più all’approccio interdisciplinare nella presa a carico dei pazienti e questo vale anche per la pediatria. Tra i tanti esempi, ad abbracciare questa volontà è il Centro pediatrico e ortodontico di Chiasso (del pediatra Ugo Grasso) dove convergono diverse figure specialistiche, fra cui la logopedista, l’ergoterapista, la psicologa clinica, la dietista fino alla chiropratica. Lì incontriamo Luisa Nodari (nella foto), dottoressa in chiropratica (la cui formazione prevede un ampio studio del paziente pediatrico), insieme a una sua piccola ospite in studio che vedremo sottoporsi a una seduta, così da sfatare immediatamente i pregiudizi secondo i quali questo tipo di trattamento dovrebbe passare per i «crac» e per «l’uso della forza». Due convinzioni assolutamente sbagliate che, d’altronde, mal si sposerebbero con il trattamento dei piccoli pazienti: «In chiropratica esistono tecniche mirate che non hanno nulla a che vedere con la forza e addirittura si avvalgono dell’uso delicato dei polpastrelli, come potrebbe essere nel caso del trattamento di un neonato». A parlare è la dottoressa Nodari che ribadisce il concetto di chiropratica: «Essa non mira solo a normalizzare la funzione articolare, ma esercita un effetto riflessologico sul tessuto adiacente all’articolazione stessa: muscoli, tendini e sistema nervoso». Ci concentriamo sull’infanzia e sui benefici che la chiropratica può produrre addirittura idealmente già nell’utero, quando ci prendiamo cura della futura mamma in gestazione: «il suo sistema nervoso beneficia dell’equilibrio sgombro di interferenze e aiuta dunque la crescita serena del feto». Una sorpresa per molti di noi che ignoriamo quanto i problemi all’apparato muscolo scheletrico possano colpire anche i bambini piccoli: «Dalla nascita in poi, un control-

lo chiropratico può aiutare il bambino a correggere o evitare problemi che si potrebbero conclamare poi nel corso degli anni». La dottoressa Nodari non parla unicamente di scoliosi, displasia delle anche o piedi piatti e cavi: «Teniamo presente che spesso la prima causa di disturbi al sistema nervoso e alla colonna vertebrale potrebbe essere un trauma verificatosi al momento della nascita». È lecito interrogarsi sui segni che nei bambini così piccoli possono indicare un problema trattabile con la chiropratica: «Un segno classico è dato da pianti inconsolabili che, talvolta a torto, confondiamo con le caratteristiche coliche. Invece, potrebbe significare un sovraccarico di tensione, al di là del discorso intestinale». Secondo la nostra interlocutrice, anche la nascita per taglio cesareo è per il nascituro «un grosso trauma che potrebbe manifestarsi con un disagio del piccolo». Coliche, pianti frequenti, posizioni non fisiologiche come ad esempio l’iperestensione, problemi alla suzione: «Non sono necessariamente riconducibili al disequilibrio neurologico funzionale, ma quest’eventualità deve seriamente essere considerata nell’ambito della presa a carico del bambino che presenta questi sintomi». Un quadro che va seguito anche durante le diverse tappe della crescita, quando l’attività quotidiana del bambino è coadiuvata dalla pratica di qualche sport, dalla tensione scolastica e via dicendo: «Col passare del tempo, i bambini possono sviluppare problemi alla colonna vertebrale proprio come gli adulti ma, a differenza di questi, i più comuni problemi vertebrali nei bambini non causano dolore». Però, prosegue Nodari, «non bisogna trascurare eventuali dolori muscoloscheletrici di cui il bambino dovesse lamentarsi già da piccolo. In tal caso si consiglia di fare una valutazione approfondita della possibile cau-

Vincenzo Cammarata

Maria Grazia Buletti

sa e, se necessario, anche in collaborazione con il pediatra». La correlazione fra colonna vertebrale e sintomo avviene più spesso di quanto si creda, lasciando spesso incurata la causa scatenante del problema che potrebbe, per contro, essere preso correttamente a carico con sedute di chiropratica, naturalmente dopo un’anamnesi accurata e una diagnosi posta sempre dal chiropratico. Anche perché, sottolinea la dottoressa: «Questi problemi nascosti nei bambini diventano spesso la causa di degenerazioni precoci negli adulti e, proprio per questo, bisogna essere coscienti dell’importanza della chiropratica pediatrica come mezzo di prevenzione per una schiena sana da adulto». Disciplina non da adottare come panacea per ogni cosa, bensì come possibilità che mette in equilibrio sistema muscolo scheletrico e sistema nervoso: concetto peraltro suffragato da diversi studi che indicano come un

adulto sia in grado di sviluppare grandi abilità emotive, intellettuali, fisiche e sociali, purché durante l’infanzia gli sia data l’opportunità di farlo. «A tale scopo, la chiropratica svolge un ruolo fondamentale e sarebbe opportuno che i genitori, dopo la nascita, portino prima possibile il piccolo da uno specialista, per assicurarsi che non ci siano eventuali problemi come una disfunzione vertebrale e la perdita di flessibilità locale avvenute durante il parto, uno dei momenti più critici per l’essere umano». Tutto ciò anche in ragione del fatto che il chiropratico «non cura le malattie ma ne corregge le cause»: «Oltre all’abilitazione al trattamento muscolo scheletrico, disponiamo ad esempio di una formazione ad ampio raggio che comprende pure la parte nutrizionale. Parliamo spesso dell’intestino, dello stress, di come si alimenta il bambino, come dorme: tutti fattori da tenere in considerazione per capire l’origine

delle tensioni a livello fisico, mentale e biochimico. Consideriamo pure allergie o intolleranze alimentari, così come lo stile di vita dato ad esempio dalla presenza di adulti che fumano in sua presenza, o se il bimbo sia a contatto con sostanze nocive: tutto ciò potrebbe essere fonte di stress mostrato poi dal corpo sotto forma di tensione». Emerge l’approccio olistico: «Interveniamo sul bambino a livello globale (viene “visto” nel suo insieme), con lo scopo di permettergli di raggiungere benessere e un buon funzionamento del suo sistema nervoso. Non dimentichiamo che alcune cose migliorano quando migliora la salute stessa della persona». Un effetto «magico» della chiropratica che poi magico non è: «Sempre più genitori chiedono il sostegno del chiropratico perché riconoscono l’importanza di mantenere o recuperare l’equilibrio di corpo e mente, per rafforzare le funzioni dell’organismo e favorirne una crescita sana».

Novità, anteprime e spettacolo

Motori ◆ Alla 78esima edizione dell’Esposizione internazionale delle due ruote Eicma, Piaggio presenta un’elettrica ecologica e solidale Mario Alberto Cucchi

Sono stati quasi 350mila gli appassionati delle due ruote che hanno visitato l’edizione 2021 di Eicma svoltasi a Rho (Milano). L’Esposizione Internazionale del Ciclo Motociclo e Accessori ha chiuso i battenti a fine novembre ed è tempo di bilanci per

quello che si conferma il Salone delle due ruote più importante a livello europeo. «È una conferma per gli appassionati e un’opportunità per gli espositori». Spiega il Presidente di Eicma, l’avvocato Pietro Meda. «Più di Per ogni Vespa RED venduta verrà devoluta una somma al Global Fund. (Eicma)

820 brand, con il 47 per cento delle aziende provenienti dall’estero in rappresentanza di 35 nazioni. Novità, anteprime e spettacolo. Un evento espositivo, che è oggi uno dei più longevi e unici contenitori di passione al mondo».

Si chiama Vespa RED ed è elettrica, la più moderna icona della tecnologia italiana presentata dalla Piaggio Ma le due ruote salveranno il mondo? Evidentemente si parla di inquinamento, di traffico, di parcheggi, insomma di mobilità a 360°. La risposta è «no» o meglio «non ancora». Certo è che quattro moto non inquinano meno di un’automobile con a bordo quattro persone. E per il traffico? Chi vive a Milano, a Parigi o a Madrid sa bene quanto siano pericolose le gimkane degli scooteristi fatte a un centimetro dai paraurti che terrorizzano quotidianamente

gli automobilisti. Ormai nelle metropoli c’è troppo traffico anche per le due ruote. Ed ecco allora che il modello svizzero senza se e senza ma ne esce vincente. Le due ruote nel traffico si devono comportare come le quattroruote. E se è il caso stare in coda senza tentare di «infilarsi». D’altra parte, oggi sembra un po’ come se non ci fossimo mai spostati dal punto A al punto B in precedenza. Tutti sempre di fretta. Noi protagonisti di tempi recenti che ricordiamo poco del passato sempre concentrati sul futuro. Terza, quarta o anche quinta generazione «dell’homo immobilis» che non deve camminare se non per sport ma che tende al teletrasporto, se possibile, o in alternativa a sedie con le ruote magari alimentate a idrogeno. Ovviamente ecosostenibili. Quest’ultima è la parola che più si abbina negli ultimi anni alla mobilità. Ci si affanna dimenticandosi che una volta bastava un po’ di biada per i cavalli e allora sì che eravamo davvero

ecosostenibili. Ma si può essere «green» anche con le due ruote. In un momento in cui la mobilità individuale è sempre più richiesta ecco che se le due ruote sono elettriche la soluzione è a portata di mano. Lo sanno gli uomini dell’italiana Piaggio che a Eicma hanno presentato una Vespa di colore rosso molto speciale. Si chiama Vespa RED ed è elettrica. È la più moderna icona della tecnologia italiana, sinonimo di connettività avanzata e silenziosità, personalizzazione e accessibilità. Una doppia espressione di sostenibilità che unisce quella ambientale a quella sociale. Già! Per ogni Vespa RED venduta verrà devoluta una somma al Global Fund, uno dei principali finanziatori al mondo di iniziative sanitarie su scala globale. RED è un’associazione fondata nel 2006 da Bono e Bobby Shriver per fornire un aiuto concreto alla lotta contro pandemie come l’AIDS e il COVID (www.red.org). Finora (RED) ha raccolto quasi 700 milioni di dollari.


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Approdi e derive

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SOCIETÀ / RUBRICHE

di Lina Bertola

Un dono personalizzato ma non troppo ◆

In sintonia con il clima di questi giorni, desidero anch’io suggerire un regalo personalizzato. Non si tratta di una concessione al volto più consumistico del Natale, quanto piuttosto del desiderio di riempire alcune lussuose confezioni con regali veri, alcuni packaging modaioli, spesso esagerati, con doni autentici da aprire e scoprire con cura. Tra i possibili doni personalizzati ce n’è uno che è stato spesso definito un vero e proprio miracolo per il semplice fatto di esistere. Un miracolo per il fatto di esistere senza un prezzo, senza alcuna possibilità di comperarlo; un dono autentico per il fatto di offrirsi come pura gratuità, come una gioia gratuita, proprio come può esserlo la bellezza quando è nutrita dal bene e dal vero. Sì, intendo parlare dell’amicizia quando si offre a noi o quando noi la offriamo ad altri, come una grazia. Di amicizia in filosofia si è parlato e scritto molto, e non poteva esse-

re altrimenti, visto che il suo stesso nome, filo-sofia, ne evoca una bella immagine. Philos, già nei poemi omerici, sta ad indicare l’amico. Tra le vie del Pireo o di Atene, la filosofia è stata una storia di amicizie sbocciate attorno alle figure di Socrate, di Platone, di Aristotele. Loro, i filosofi, verranno considerati nel tempo gli amici della saggezza: coloro che la cercano ma non la possiedono mai, perché la ricerca di una vita buona è un cammino interminabile. Come ci ricorda, una volta ancora, lo splendido frammento di Eraclito: «… per quanto camminerai nella vita, mai potrai incontrare i confini dell’anima, tanto profondo è il suo logos». In queste parole l’amicizia si fa anche luogo e appare come una soglia, come un ponte, come un’apertura su territori sconfinati. Un dono personalizzato, ma non troppo, da vivere in prima persona, certo, ma sempre allo specchio degli altri con cui condividere il cam-

La società connessa

mino. Lo indica il suo stesso nome: philìa è amicizia che si prende cura del bene comune, che offre ospitalità e accoglienza; è un sentimento di vicinanza nell’abitare insieme la vita, nel riconoscerne insieme il senso ed il valore, e nell’incamminarsi insieme verso una meta comune. È come una forza di attrazione che unisce tra loro gli esseri e le cose. Questo valore dell’amicizia, custodito nelle radici della nostra cultura, trascende la relazione a due proprio nell’abitare le cose del mondo. È un’esperienza di trascendenza che racconta di sguardi complici, di un’attenzione condivisa nei confronti della realtà e del nostro modo di abitarla. Questa amicizia si fonda su un sentimento forte di comune appartenenza in cui la relazione tra amici, per quanto possa essere intima e perfino esclusiva, mantiene sempre i contorni sfumati, aperti su forme di umana condivisione. Questo suo volto sopravvive ancora

oggi come un segno luminoso dello spirito del dono che, nella gratuità dello scambio, crea autentici legami. Ma è un volto che appare tuttavia sempre più sfumato e nascosto. Il filosofo Dimitri El Murr, qualche anno fa, ha dedicato al tema uno studio interessante in cui ha messo in relazione lo sviluppo della società liberale e individualista con un progressivo disinteresse per il valore dell’amicizia. Adam Smith e David Hume, ad esempio, preferiscono parlare di «simpatia» tra gli uomini, cogliendo in questo valore anche il fondamento etico della concorrenza e del progresso economico. Si tratta di una trasformazione che mette al centro il soggetto, l’individualità di ciascuno a scapito dell’idea di comune appartenenza. L’analisi è condivisibile. Kant ha insistito molto sulla gratuità, sulla pura finalità di tutto ciò che ha valore, amicizia compresa, e sul compito, per ogni individuo, di

sentirsi parte dell’umanità anche nel vissuto personale di un’amicizia. Eppure, nonostante questo forte messaggio illuminista, le derive individualistiche sono lì da vedere. Oggi viviamo molte relazioni strumentali, amicizie non proprio votate alla gratuità del legame e, quando va bene, solo fragili e innocui specchi per il proprio riconoscimento narcisistico, nel dono effimero di un «mi piace». Ma se un sentimento di gratuità, un «supplemento d’anima», riesce ancora ad accompagnare i nostri gesti mentre impacchettiamo i regali o mentre scriviamo bigliettini luccicanti, allora vuol dire che lo spirito del dono può vincerla ancora sempre. Vuol dire che il dono dell’amicizia può esistere anche come una promessa per incamminarci insieme verso un mondo migliore. Ricordate quella bella canzone dedicata ad un caro amico lontano? «L’anno vecchio è finito ormai ma qualcosa ancora qui non va».

di Natascha Fioretti

Portate i popcorn

Quando nel tardo pomeriggio arriviamo in Piazza Riforma è già buio. Risplende l’albero, la gente nei caffè e nei bar chiacchiera e ride amabilmente. Accompagno un’amica a fare il test rapido in farmacia. Prima di entrare vedo un Flat nero con due occhioni dolci legato che aspetta qualcuno. Di solito i cani legati non si accarezzano ma Sissi, mi diranno che questo è il suo nome, quasi mi implora di farle una carezza. Entriamo e ci mettiamo in fila. La mamma di Sissi è una giovane donna alta dai capelli ricci e lunghi color rame. Tiene per mano la sua bimba mentre entrano per fare il test. Lei, tutta lentiggini e riccioli rossi, il suo peluche stretto al petto saluta la farmacista con la stessa contentezza dei bimbi quando entrano in un negozio di caramelle. Poco dopo, nel vederla uscire, non posso non notare il suo silenzio e quegli occhietti un po’

smarriti. Penso alla sua Sissi, ai baci e alle leccate affettuose che le farà. Curiosa le seguo con lo sguardo mentre in tre si allontanano tra luci, addobbi e musiche. Penso a domenica scorsa quando seduta nel mio caffè, leggevo un libro che vi consiglio La resistenza dell’arte durante l’assedio di Leningrado pubblicata da Pagine d’Arte. In lontananza vedo arrivare una mamma con due gemelle bionde. Continuo a leggere, voglio conoscere meglio Olga Berggol’c la poetessa russa che durante i novecento giorni dell’assedio di Leningrado declama alla radio ogni giorno i suoi versi appassionati. Voce di speranza e di resistenza, i soldati al fronte conoscono a memoria i suoi versi: a «Ti amo di un nuovo amore amaro, che tutto perdona, vivo; Madre Patria, con la corona di spine e uno scuro arcobaleno sul capo…».

Le parole dei figli

Alzo lo sguardo, bevo un altro sorso di caffè e mi accorgo che non è entrato nessuno. Riccioli d’oro sono fuori dalla porta, si tengono per mano, gli occhi nascosti da berretti di lana invadenti. La mamma inginocchiata a terra rovista nello zaino. Un attimo dopo spuntano… tre mascherine. Ognuna si infila la sua e, finalmente, entrano. Non deve essere facile raccontare favole di questi tempi. Resta però la magia dell’incontro e dell’ascolto. La percezione di odori e atmosfere. L’imprevedibilità delle circostanze, l’effetto sorpresa per ciò che si muove e ci accade intorno, indispensabile per esistere e resistere. Pensate ad un incontro inatteso o ad un incontro atteso dagli inaspettati risvolti. Per il festival letterario di cui sono co-curatrice, quest’anno ho invitato il mio professore di letteratura inglese dell’Università. Mi sono lau-

reata nel 2001 e da allora non avevo avuto più contatto. Ricordavo però la sua passione nel raccontarci i destini di Moll Flanders e Lady Roxana. La nostra serata su Defoe e il suo Robinson è stata una piccola magia, c’era intesa, piacere di condividere in quel momento un certo amore per la letteratura. Goethe parlerebbe di affinità. Eppure, tecnologia e pandemia hanno partorito modalità di incontri e partecipazione alternativi. Ad esempio, il canale letterario della Casa della letteratura berlinese al numero 23 di via Fasanenstrasse. Si chiama Literaturkanal.tv e ha l’ambizione di essere una piattaforma online per unire e proporre contenuti letterari qualitativi accessibili e gratuiti curati da esperti. «Il Netflix della letteratura» lo hanno ribattezzato le due codirettrici Janika Gelinek e Sonja Longolius che al loro pubblico dico-

no «Noi ci occupiamo del programma, voi portate i popcorn». Nata in collaborazione con la Buchmesse di Francoforte, il Goethe Institute e altri, la piattaforma streaming vuole colmare un vuoto che si sta creando per via dei tagli che i programmi e i contenuti letterari hanno subito in tv e in radio. «Con le nuove competenze digitali acquisite vogliamo promuovere un luogo che dia visibilità a tutti e crei una memoria di quanto accade online». In questi giorni il teatro digitale del LAC si è aggiudicato il Premio speciale Ubu 2021 per la sua produzione digitale «Lingua Madre – Capsule per il futuro». Janika e Sonja non hanno dubbi, il futuro culturale sarà ibrido. Pensandoci, in verità, lo è già il nostro presente. Sia quel che sia, cari lettori e care lettrici, Buon Natale. Sarà come sempre un piacere incontrarci qui anche nel 2022.

di Simona Ravizza

Cringe

Nel linguaggio di mia figlia Clotilde e dei suoi amici 13-14enni la parola cringe è frequentissima. Così l’altro giorno azzardo: «Coco, cosa vuol dire essere cringe?». Risposta: «Mamma, il fatto stesso che tu me lo chieda è cringe». Momento di smarrimento. Ci riprovo: «Ma io – insisto, mentre penso che l’ho messa al mondo con un taglio cesareo, l’ho allattata nonostante le ragadi al seno, ho attraversato la città due volte a settimana per due anni per farle frequentare degli inutili allenamenti di pallavolo, le ho organizzato feste con bambini rumorosi, ecc. ecc. – sono cringe?». La sua attenzione è già altrove, lì attaccata allo schermo dell’Ipad a vedere Haikyuu!! – L’asso del volley, la serie animata giapponese (anime) tratta dal fumetto (manga) di Haruichi Furudate. Vado a leggere, allora, cosa dice l’Ac-

cademia della Crusca, uno dei principali punti di riferimento a livello mondiale per le ricerche sulla lingua italiana. Perché – e ciò deve farci riflettere – l’11 gennaio 2021 la parola cringe è entrata nel famoso vocabolario dei massimi esperti in materia. L’ambito d’uso che le viene assegnato è: «Giovani, rete, social media». L’ambito di origine: «Rete, social media». Se usato come sostantivo è «il fenomeno del suscitare imbarazzo e, in particolare, le scene, le immagini, i comportamenti che causano tale sensazione». In versione aggettivo significa «imbarazzante». Dall’inglese to cringe, la traduzione letterale vuol dire «rannicchiarsi» e «provare vergogna per qualcosa». Per Slengo, il dizionario online dedicato ai neologismi curato dal popolo di Internet, è «un momento, una frase, una scena, un meme o una persona che cre-

ano un leggero disagio in coloro che guardano o ascoltano». Molto usato anche il suo superlativo: cringissimo! E non manca di essere utilizzato in modo caustico: «Mi ha cringiato». Proviamo a calare il suo significato nella vita quotidiana che facciamo con i nostri figli. Noi genitori siamo cringe tutte le volte che vogliamo essere brillanti e sorprendenti per conquistare la simpatia dei giovanissimi. Lo siamo perché cerchiamo forzatamente il loro consenso con linguaggi e atteggiamenti che non ci appartengono. Nel tentativo di strizzare loro un occhio. Il nostro obiettivo è di accorciare il divario generazionale, invece nella pratica lo allarghiamo. Il mio dirimpettaio di scrivania in redazione, Alessandro, è un Millenial che si occupa di contenuti social: «Non c’è nulla di più cringe – mi avvisa – di quando un genitore cerca

di entrare in sintonia con i figli imitandoli per fare quello che li capisce». Lo stesso vale quando noi adulti cerchiamo di raccontarli, con il rischio di risultare stonati: il film Genitori contro influencer di Michela Andreozzi (di cui ci siamo occupati anche a Il Caffè delle mamme) è considerato cringe e noi lo diventiamo quando cerchiamo di convincere i nostri figli a vederlo con noi. Messaggiare su WhatsApp a colpi di emoticon è cringe (in particolare il pollicione alzato). Credere che tutti gli adolescenti usino i social allo stesso modo ignorandone la loro complessità e, dunque, fare quelli che ci capiscono è cringe. Interloquire con gli amici dei figli in modo ostentatamente giovanile è cringe: fare i simpaticoni è la cosa peggiore. La giornalista Annalena Benini su «Il Foglio» in un articolo intitolato Tutto quello

che si deve sapere sul cringe, per non caderci dentro scrive: «Il cringe è vicino al trash: ma mentre il trash è sempre anche cringe, il cringe non è necessariamente trash. Un padre che racconta le barzellette che non fanno ridere per risultare simpatico agli amici di suo figlio non è per forza trash, anzi in quel suo essere cringe c’è anche qualcosa di positivo, e nel trovarlo tremendamente cringe c’è una manifestazione di affetto e di pietà». Persino un silenzio può essere cringe. Ma perché è così difficile entrare in sintonia con i nostri figli? Se siamo noi stessi siamo boomer, se cerchiamo di essere giovanili siamo cringe. Il passo avanti può essere solo quello di diventare consapevoli di quello che siamo. La cosa terribile è che adesso che so che cosa significa il termine cringe non posso neppure usarlo. Perché ho capito che sarei cringe.


Articolo Pubbliredazionale

Il regalo più bello per i bambini in difficoltà Oggi le nostre donatrici e i nostri donatori vogliono dare un impatto forte e protrarre il loro sostegno nel tempo. Grazie al vostro lascito o contemplando la Fondazione Terre des hommes (Tdh) nel vostro testamento, potete cambiare la vita dei bambini in modo sostenibile. Ousmane sta svolgendo uno stage in un centro di formazione di Tdh a Mogtédo.

Tdh è la più grande organizzazione svizzera di aiuto all’infanzia. Interviene nei contesti fragili per proteggere i bambini, le loro famiglie e le loro comunità. Le donazioni e i lasciti testamentari sono risorse indispensabili poiché aiutano a finanziare le nostre attività e a proteggere i bambini più vulnerabili. Sendrine Constant, specialista nella protezione dell’infanzia in Tdh, ci racconta la bella storia di Ousmane, un giovane tredicenne che vive in Burkina Faso. In questo paese, quasi 20 000 bambini come lui sono vittime di sfruttamento e maltrattamenti e svolgono lavori che mettono in pericolo la loro vita.

©Tdh/S. Garcia

«Per potersi sfamare, Ousmane ha lavorato due anni in una miniera d’oro per più di 10 ore al giorno, a oltre 80 metri di profondità e con un caldo soffocante. La maggior parte dei bambini come lui sogna di diventare medico o insegnante, o almeno di non fare un lavoro pericoloso.» Il vostro lascito può avere un impatto duraturo nella vita dei bambini vittime dello sfruttamento come Ousmane. Ad esempio, potete dare loro l’opportunità di svolgere uno stage in un centro di formazione di Tdh o di ritornare a scuola.

Lontano dai pericoli, questi bambini possono ritrovare gradualmente la propria infanzia. I nostri progetti hanno permesso a Ousmane di uscire dalla condizione di sfruttamento e di vivere al sicuro con la sua famiglia. Fare un lascito o inserire Terre des hommes nel vostro testamento significa regalare un futuro migliore a milioni di bambini nel mondo. Per ulteriori informazioni contattare: Pascal Pittet, responsabile Lasciti ed eredità 058 611 06 56 – pascal.pittet@tdh.ch

tdh.ch/testament

Guardate le storie dei bambini come Ousmane che sono usciti dallo sfruttamento grazie al vostro sostegno.

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Anno LXXXIV 20 dicembre 2021

azione – Cooperativa Migros Ticino  15

TEMPO LIBERO ●

San Nicolao o Krampus? Anche fuori dal magico periodo natalizio val sempre la pena di una visita a Mariazell

Illuminò i «secoli bui» La viticoltura deve molto ai monaci del Medioevo e al loro solido sapere viticolo ed enologico

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Piatti per le feste Quattro ricche ricette adatte al periodo natalizio con l'anatra quale ingrediente base

Un turismo migliore Le grandi crisi sono occasioni di cambiamento se portano a ridiscutere idee e abitudini

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Pxhere.com

Una fuga dal limite dell’utile

Conversiamo un po’? ◆ Per immaginare un domani che non sia oggi potremmo dedicare un’ora del nostro tempo libero all’incontro con l’altro Manuela Mazzi

Negli ultimi settant’anni, dopo secoli di immutato vivere, quando ancora si accoglievano i cambiamenti con scetticismo e lentezza, la realtà ha pigiato sull’acceleratore generando trasformazioni profonde: dal boom economico degli anni Sessanta all’era del mondo virtuale. Trasformazioni che hanno influito anche sul nostro modo di immaginare e relazionarci. Da una parte oggi i giovani devono affrontare una realtà che è tutta al «futuro», tanto corre il presente, e loro con esso. Dall’altra non si godono il piacere di immaginare, di fermarsi a riflettere, di ascoltare. In definitiva, hanno modificato il loro modo di relazionarsi con gli altri e con il mondo. Come mitigare tanta frenesia? Il nostro suggerimento è un invito alla conversazione. «Ma corrotta di nuovo la vita, e sommersa in ogni scelleratezza, sdegnarono quelli per lunghissimo tempo la conversazione umana», scrisse Giacomo Leopardi nella Storia del genere umano, primo capitolo del suo celebre Operette morali, alludendo alla convivenza comunitaria. Non, dunque – per quanto attiene al no-

stro invito – conversazioni «funzionali», ma «gratuite». Come gratuito è normalmente il tempo libero di cui disponiamo. Chiamiamo in aiuto il Premio Strega 2021, Emanuele Trevi, autore di Due vite, per chiarire questo concetto di gratuità. Trevi, riferendosi alla propria poetica (durante l’edizione 2021 del Festival Sconfinando), ha spiegato che «la gratuità creata dalla vita si insinua tra la comunicazione utile nella società (motivata) e quella dell’amore (abbisognata); il gratuito sta nella perdita del senso di necessità. Sono pochi questi momenti ma hanno una possibilità di resa letteraria». Nello spazio creato da questo cuneo si inserisce dunque una possibilità di dialogo, di conversazione, di scambio reciproco, ma soprattutto di narrazione che non abbia necessariamente un inizio e una fine, o ancora meglio che non abbia un fine: non serve per ordinare una pizza, indire una riunione di lavoro, prenotare un albergo, o chiedere un formulario, e nemmeno risponde a un’urgenza emotiva, che si crea inevitabilmente in una relazione tra innamorati,

quando si ha necessità di sentire l’altro per soddisfare comunque un bisogno proprio. Abbiam parlato dunque di una possibilità di scambiare parole tra di noi che non sia né funzionale, né urgente, ma non per questo meno importante. Anzi. Soprattutto se la conversazione può unire e approfondire mondi e conoscenze. Da qui nasce l’invito, cioè quello di ritagliare, di tanto in tanto, un’ora del vostro tempo libero per dedicarla alla conversazione con un amico, un parente, uno sconosciuto, un anziano, un giovane o giovanissimo, che si trovi a far passeggiare il cane, oppure seduto su una panchina in riva al lago, che sia accomodato in treno sul sedile davanti al vostro, oppure ospite di una casa per anziani. E se poi questo nuovo modello relazionale dovesse piacervi, potreste persino estendere la pratica consultando la cosiddetta Human Library che da qualche mese è presente anche in Ticino. Si tratta di una «biblioteca» che mette a disposizione persone «narrative». Ovvero gente che si racconta, libri umani. Un modo per

esplorare, e far conoscenza di mondi diversi. Un’esperienza giocoforza arricchente che potrebbe abbattere molti degli stereotipi (non necessariamente negativi) che zavorrano le nostre menti; soprattutto in anni come quelli che stiamo vivendo, dove ci è precluso il vero viaggio di scoperta. Di questa iniziativa, più precisamente della Human Library, abbiamo già parlato anche su «Azione» del 12 marzo 2018, quando se ne ventilava la realizzazione, e vale la pena ricordarne oggi l’esistenza. Bene parlare con «altri», ma potrebbe sorprendervi farlo anche con i parenti che vi stanno più vicini, come mamma e papà, se avete la fortuna di averli ancora con voi. E lo diciamo per esperienza diretta. Chi scrive, qualche anno fa, sfogliando suo padre, ha scoperto un mondo contadino, quello degli anni Cinquanta, pieno di spregiudicatezza e bizzarre avventure, di pastori affaticati, e di signori con la cipolla nel taschino e il cappello in testa, di mestieri antiquati e abitudini stravaganti, un mondo intero che è ormai completamente scomparso, e che se non fosse stato prima raccon-

tato, e poi raccolto nella memoria di chi gli aveva prestato orecchio, forse sarebbe andato perso per sempre. Chi sia davvero questo narratore, di fatto non ha importanza, perché come lui ce ne sono molti altri. Da lui sono emerse storie di genti e di paese. Storie da rivivere e storie per non dimenticare. Ragionare sulle «storie» può permettere ai più giovani di tornare a immaginare un futuro. A maggior ragione a Natale, trovare un’occasione per conversare potrebbe essere un regalo che non facciamo solo a noi stessi, ma anche alla persona alla quale dedicheremo un’ora del nostro ascolto, del nostro «tempo libero». E se la persona con la quale vorreste conversare si trovasse lontano, be’, perché non scriverle una lettera di nostro pugno, con tanto di carta e penna, inchiostro e busta, come si faceva una volta? Un bel dono, anche solo per augurare le buone feste. Per tornare a immaginare, dunque, un domani che non sia oggi, fermare il tempo e prendersi un’ora da dedicare all’incontro con l’altro potrebbe essere se non una soluzione, un’ottima alternativa alla frenesia.


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Mariazell tra Krampus e pellegrini

Reportage ◆ Aleggia un forte spirito natalizio tra le vie del piccolo comune austriaco che ospita un’importante basilica dedicata alla Natività della Vergine Maria Simona Dalla Valle

Piazza di Mariazell durante l’Avvento. Sotto, il Krampuslauf. (Tourismusverband Mariazeller Land)

Nella cultura mitteleuropea, il periodo dell’avvento coincide con i mercatini di Natale. Una tradizione nata attorno al 1400 nei territori compresi tra la Germania e l’Alsazia, ma che ora anima le piazze in diverse parti del mondo. A Mariazell, il comune più a nord della Stiria, il profumo del pan di zenzero si mischia a quello del glühwein, il vin brûlé da sorseggiare mentre si passeggia tra le bancarelle, avvolgendo la tazza con le mani per tenerle al caldo. Nei giorni precedenti il Natale, la piazza del paese esibisce la corona d’avvento più grande del mondo fin dal 1850. Con dodici metri di diametro e sei tonnellate di peso, la corona – diventata un simbolo dell’attesa del Natale – è composta da venti luci, una per ogni giorno feriale dell’avvento, sormontate da quattro candele «domenicali». Ogni giorno di dicembre viene accesa una candela, come simbolo della progressiva illuminazione delle buie serate invernali fino all’arrivo della luce del Natale. Ogni anno, secondo la tradizione, la pittoresca piazza principale con vista sulla basilica ospita le tipiche bancarelle in legno d’abete, al cui interno sono esposti prodotti regionali come distillati, miele, formaggi, oggetti in legno e gli immancabili Lebkuchen. Il primo sabato dell’avvento si svolge la celebre Krampuslauf, la corsa dei Krampus, che inseguono gli astanti e li spaventano. Solitamente raffigurati come figure diaboliche e pelose con corna e piedi di capra, i Krampus sono figure analoghe ai Perchten esistenti nelle usanze alpine, che si suppone scaccino gli spiriti maligni dell’inverno con smorfie, sonagli e campane. La figura è particolarmente diffusa nei paesi dell’ex monarchia asburgica e il suo nome deriva probabilmente dalla parola dell’alto-tedesco medio Krampen, che significa «artiglio». Il personaggio rappresenta l’aiutante di San Nicola; ma se San Nicola fa regali ai bambini «buoni», i bambini «cattivi» sono invece puniti dal Krampus. Il baccano emanato dai campanacci che portano attaccati alla schiena è così forte che la loro presenza si avver-

te ancora prima di riuscire a vederli. Per il secondo anno consecutivo, le restrizioni legate alla pandemia hanno impedito il regolare svolgimento dell’avvento. Il lockdown imposto sull’intero territorio austriaco a partire dal 22 novembre ha comportato la chiusura dei mercatini. Inevitabile è stata anche la cancellazione dell’arrivo di San Nicola a bordo di una carrozza trainata da cavalli, prevista per lo scorso 20 novembre in sostituzione dell’usuale Krampuslauf. Ma Mariazell è una meta importante di pellegrinaggi durante tutto l’anno; fin dal XII secolo i cattolici da ogni parte del mondo vengono qui a visitare la Basilica della Natività della Vergine Maria. Tra le molte storie sulla fondazione della basilica, costruita in stile gotico, una è intrecciata al nome del paese. Nel 1157, l’abate Otker del monastero benedettino di Sankt Lambrecht inviò un monaco di nome Magnus nella Zellertal, una valle 160 km a nord-est, allo scopo di occuparsi del benessere spirituale della gente del luogo. L’abate gli concedette di portare con sé una statua della Vergine scolpita in legno di tiglio. La sera del 21 dicembre, un masso bloccò il cammino di Magnus non lontano dalla destinazione. Il monaco chiese aiuto alla Vergine, la quale esaudì le sue preghiere, liberandogli la strada. Magnus pose la statua su un ceppo d’albero e intorno a essa costruì una Zelle, un antro dove riporre la statua di Maria. Da quel momento, Maria-Zell si estese a nome dell’intera comunità. La leggenda del monaco Magnus è raffigurata da un bassorilievo posto sulla sede dell’organo della basilica. Secondo un’altra leggenda Enrico, margravio di Moravia, guarito dalla gotta grazie all’intercessione della Vergine, fondò una chiesa in segno di gratitudine nel luogo del suo pellegrinaggio. Un terzo racconto lega la fondazione della chiesa al re Luigi I d’Ungheria, che in questo modo rese grazie alla Madonna a seguito di una vittoria contro i turchi. La Cappella delle Grazie si trova

tuttora nel luogo originale della sua fondazione. Fu più volte rimodellata nei secoli, pur mantenendo la pianta trapezoidale risalente al 1690, appare oggi come una struttura centrale barocca all’interno della basilica. La statua di Maria è venerata come Magna Mater Austriæ, la grande madre d’Austria. Anche lo stemma di Mariazell riprende il tema religioso. In uno scudo nero è raffigurata la Madonna di Mariazell, coperta da un manto blu e

con indosso una corona, Gesù bambino appoggiato al suo braccio destro. Il comune è gemellato con altre mete di pellegrinaggio come Lourdes, Fatima, Częstochowa, oltre che con l’elvetica Einsiedeln, nel canton Svitto. Tra i pellegrinaggi speciali di Mariazell sono da ricordare quello croato e quello dell’unione degli agricoltori, oltre ai pellegrinaggi della polizia, della gioventù rurale e della Croce Rossa. Nel 1983, in preparazione alla visi-

ta di Papa Giovanni Paolo II, si effettuarono vaste operazioni di ristrutturazione delle facciate dell’intero paese, e dunque anche della piazza principale. La Giornata cattolica dell’Europa Centrale, celebrata a Mariazell nel 2004, attirò la presenza di oltre centomila visitatori. Papa Benedetto XVI visitò la cittadina nel dicembre del 2007 in occasione dell’850esimo anniversario della basilica. Il legame con i monaci della leggenda della fondazione è rimasto forte attraverso i secoli. Il modello della spiritualità benedettina, basato sulla condivisione e l’apertura verso l’altro, ha plasmato lo sviluppo di Mariazell e fornito un contributo significativo alla sua importanza come centro di pellegrinaggio transfrontaliero. L’esperienza comunitaria e l’incontro sono fondamentali per Mariazell, che ha basato sui principi della discretio uno degli aspetti centrali della sua condotta: lo sforzo di trovare la giusta misura, un saggio discernimento degli spiriti, l’impegno a mantenere la strada del compromesso, ma non della mediocrità. Valori che risiedono nella semplicità della figura di Maria e nella sua autenticità priva di sfarzi.


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Nelle vigne del Signore

Vino nella storia ◆ Quel che si deve ai monaci dei secoli XII-XIII: dai Benedettini delle origini, passando dai Cluniacensi, fino ai Cistercensi Davide Comoli

Il vino è sicuramente uno dei temi attorno al quale, sia pure con gli equivoci sfondi delle taverne, si sviluppa quel poco di poesia laica che il Medioevo è riuscito a farci pervenire. Il vino, tutto sommato, resta una delle poche fievoli luci che riescono a illuminare quelli che noi chiamiamo «secoli bui». Una luce che, forse grazie ai Clerici Vagantes (v. «Azione» 47 del 22 novembre 2021), riesce a trovare uno spiraglio nello spazio lasciato di proposito aperto nei massicci portoni dei monasteri, per permettere l’ingresso alla bevanda sacra a Bacco. Uno spiraglio incredibilmente lasciato socchiuso dalla rigida Regola di San Benedetto, disposta a fare concessioni riguardo il prodotto della vigna. Nel capitolo XL della Regula Benedicti, intitolato De mensura potus (La misura della bevanda; ovvero La quantità del bere), si ritiene che – in linea di massima – per ogni monaco «un’emina* di vino al giorno sia sufficiente» (*misura greca che equivale a circa ½ litro), e non trascura di aggiungere che «quelli ai quali Dio dà la forza di astenersene sappiano che avranno una ricompensa particolare». In ogni caso continua: «se le esigenze locali o il lavoro o il caldo d’estate richiederanno di più, stia al superiore giudicarlo, badando che in nessun caso subentri sazietà e ubriachezza». Alla base di questa concessione della Regola, c’è una considerazione che poggia sul buon senso: «Siccome oggi non è possibile persuadere i monaci, acconsentiamo almeno che non si beva fino alla sazietà, ma con moderazione, perché il vino fa apostatare anche i saggi». Quanta saggezza! Se proprio il peccato non si può evitare, che almeno lo si commetta senza suscitare troppo scandalo. Per questi peccati minori («veniali» cioè «perdonabili»), nel Medioevo la Chiesa con un colpo di genio, s’in-

I vigneti di Chateau Clos de Vougeot. (Navin75)

venta anche il luogo per l’espiazione: il Purgatorio. Il secolo XI ebbe un inizio (994) e una fine (1109). Fu il secolo che dipanandosi, diede avvio a un profondo cambiamento nella storia dell’Europa occidentale: l’assoluta affermazione della superiorità e centralità della Chiesa di Roma, l’innalzamento a legge indiscutibile di tutte le norme elaborate a Roma e il passaggio in secondo piano di tutte le altre Chiese locali. In quel tempo già molti monasteri si erano un po’ allontanati dalla Regola benedettina; la tolleranza agli eccessi di carne e di vino era divenuta a poco a poco un’abitudine. E proseguì fino a produrre una reazione contraria. Una grossa spinta al ritorno a un modello di vita monastica che accentuasse gli aspetti penitenziali e ascetici della Regola benedettina, perseguendo con maggior rigore la povertà e l’isolamento, fu data dall’Abbazia di Cîteaux (Cistercium), fondata nel 1098 da Roberto Molesme. Nel 1119, l’abate Stefano Harding formalizzò la proposta religiosa contenuta nella Carta Caritatis, con la quale i Cistercensi rifiu-

tavano inizialmente i diritti signorili e quelli connessi con il controllo delle chiese. Anche se alla fine del XIII sec., certi ideali cominciarono a venir meno, la regola Cistercense ci ha lasciato un’immagine positiva della figura del monaco, non solo dal punto di vista istituzionale, ma anche per quel che concerne la gestione economica. Più dei Benedettini delle origini, i monaci Cluniacensi, e ancora di più i Cistercensi, diventano dei viticoltori. In Borgogna questi ultimi creano tra il XII e il XIII sec., una «corona» di vigne, acquisendo (senza eccedere nel bere), un solido sapere viticolo ed enologico. È certo che stabilirono il rapporto che esiste tra «terroir» e vitigno, forse in modo empirico. Vuole la leggenda che i monaci, per analizzare il suolo, mettevano in bocca piccole particelle di terra, sia quelle ricevute in dono quanto quelle strappate alla boscaglia. Alla fine del XIII sec., i climats, così erano e sono tutt’ora chiamati gli appezzamenti vocati alla viticoltura, si distinguevano e venivano identificati per il loro aspetto fisico (Montrachet, e Mont Chauve), per la loro

pedologia (les Perrières, les Grèves, les Gravières), per le loro particolarità botaniche (les Charmes, les Genevrières). Sfruttando il materiale di cava essi non lesinano il materiale per le loro chiese e con lo stesso ardore, edificano luoghi per la fermentazione delle uve e capaci cantine ove stoccare il vino. La cantina di vinificazione del castello di Clos de Vougeot è lunga 27 metri, larga 16 e alta 6, mentre la vicina cantina sotto lo Château di Gilly, poteva contenere sino a 2mila «pièces» (botti da 228 l). Oggi qualcuno avanza seri dubbi sul ruolo dei Cistercensi nelle nostre campagne: gli storici sostengono che essi abbiano beneficiato di una dinamica già in atto da tempo nelle campagne europee. Ma per noi che scriviamo quei Monaci rimangono i dissodatori, dall’Armorica all’Elba, dalla Scandinavia alla Andalusia; per noi, essi hanno creato radure nelle fitte foreste, provetti idraulici hanno domato fiumi e drenato paludi, pionieri della rotazione triennale sono riusciti a ottenere alti rendimenti agricoli; per noi hanno selezionato grandi vitigni. I cellieri Cistercensi costruiti nelle regioni viticole più rinomate, per la maggior parte hanno resistito al tempo come ad esempio Eberbach, nel cuore dei vigneti di Rheingau al già citato Clos de Vougeot o a La Bussière, sempre in Borgogna. Per questo motivo i Cistercensi costituiscono una testimonianza primaria nella produzione del vino nel Medioevo insieme ad altri Ordini. Tempo fa, spinti dalla passione enologica e dalla voglia di capire meglio il mondo del Monachesimo medioevale, abbiamo cercato delle «appellations» di vini che avessero un’origine monastica, attualmente ce ne sono 109 in Francia, 45 in Germania, 27 in Austria, 17 in Italia, 12 in Svizzera, 9 in Portogallo, 7 in Spagna, 5 in Grecia e 2 dubbiose in Gran Bretagna.

TEMPO LIBERO

Scelto per voi Michel Genet Champagne

La famiglia Genet ha una lunga storia radicata a Chouilly, villaggio situato lungo la D3 tra Épernay e Ay. Antoine, Vincent e Agnes hanno voluto onorare il padre dando il nome a questo Gran Cru brut nature, prodotto solo con uve Chardonnay; un blanc de blanc che ci stupisce per i suoi aromi floreali e vegetali. La complessità dei sentori di tostato, frutta secca e mandorle fresche che vengono espresse nel palato dallo Chardonnay con la maturazione – al quale non manca un tocco di mineralità e un finale che ricorda l’ananas maturo – fanno di questo Champagne l’ottimo partner per il brindisi di fine anno, sia come aperitivo sia come compagno su una lunga serie di piatti, dai pesci con salse saporite al pesce affumicato o ai piatti di carne aromatizzati con spezie orientali. / DC

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Un’anatra per quattro Gastronomia

Ricche ricette per imbandire le tavole a festa

rosso, qualche rametto di timo e 1 cucchiaino di pepe in grani leggermente pestati. Tagliate un’anatra da 1,5 kg in 8 pezzi, copritela con la marinata e lasciatela in infusione al fresco per 2 ore, coperta, poi scolatela e asciugatela. Levate fegato e cuore e fateli rosolare in una casseruola con un’abbondante noce di burro. Scolateli e frullateli nel mixer. Unite nella casseruola i pezzi d’anatra e fateli rosolare. Unite il fegato e il cuore frullati, cospargete con la buccia grattugiata di ½ limone non trattato, e aggiungete 1 mestolo della marinata filtrata oltre 4 cucchiai di soffritto. Chiudete la casseruola con il coperchio, abbassate la fiamma e cuocete piano per circa 2 ore o finché la carne dell’anatra risulti tenerissima, unendo poca marinata filtrata bollente se e quando necessario. Regolate di sale e di pepe. Anatra arrosto ripiena di anatra (per 6 persone). Tritate 200 g di polpa di anatra, il fegato dell’anatra, 200 g di una salamella grassa a piacere, 1 pugno di prezzemolo e 2 amaretti. Unite al trito 1 pugno di pangrattato leggermente tostato, 1 uovo e 2 cucchiai di sbrinz o grana o altro formaggio duro grattugiato, regolate di sale e di paprica. Mescolate bene fino a ottenere un impasto omogeneo. Riempite 1 anatra disossata da 2 kg con l’impasto ricucendola in forma. Pennellate di olio l’anatra e cuocetela in forno a 180°, bagnando l’anatra di tanto in tanto con birra chiara, per circa 2 ore, o poco più. Scolate l’anatra e tenetela in caldo. Deglassate il fondo di cottura con birra e regolatelo di sale e di pepe. Affettate l’anatra e servitela nappata col fondo di cottura. Variante: Anatra ripiena lessata. Invece di cuocerla in forno lessatela per 1 ora e mezza circa in abbondante brodo vegetale sobbollente. Tagliate a fette l’anatra e servitela.

Come si fa?

Jktab

Le Feste, per me, sono un momento di grande amore per l’anatra, che non manco mai di preparare. Ecco qui quattro ricche ricette, adatte al periodo natalizio. Risotto con l’anatra (con ingredienti per 4 persone). Disossate 1 coscia di anatra e tagliatela a dadini. In una padella fate colorire 1 spicchio d’aglio in 1 filo d’olio. Unite i dadini e rosolateli per 5 minuti, poi sfumate con 1 bicchierino di brodo vegetale. Unite 4 cucchiai di soffritto e cuocete per 20 minuti, unendo poco brodo vegetale se asciugasse troppo. Unite 1 fegato d’anatra e 1 manciata di frattaglie varie tritate e cuocete per 10 minuti. Cuocete 360 g di riso a risotto, tostando il riso e poi unendo soffritto di scalogno e brodo vegetale bollente. Un minuto prima che sia pronto unite l’anatra. Regolate di sale e di pepe, mantecate con burro e mescolate grana a piacere. 2 minuti di riposo e servite. Anatra brasata al curry. In una casseruola fate rosolare a fuoco vivo un’anatra da 1,5 kg in un’abbondante noce di burro o strutto. Quando è ben colorita da tutte le parti, sfumate con 1 bicchiere di vino bianco secco, poi aggiungete 2 bicchieri di brodo vegetale, 1 mazzetto guarnito e 8 cucchiai di soffritto di scalogno. Portate in ebollizione, quindi mettete l’anatra a petto in su, coprite la casseruola e cuocete in forno a 200° per 1 ora e 40 minuti, bagnando con poco brodo bollente se necessario. Scolate l’anatra, tagliatela a pezzi e tenetela in caldo. Fate ridurre il fondo di cottura unendo curry non piccante, cioè senza peperoncino, a piacere, frullatelo, regolate di sale e servite l’anatra nappata con il fondo. Anatra in salmì (per 4 persone). Fate una marinata con 1 bottiglia di vino rosso corposo sobbollito per 3 minuti, 4 cucchiai di aceto di vino

Pixabay.com

Allan Bay

Vediamo come si fanno due allegri dolci. Polenta ai fichi (ingredienti per 6 persone). Fate ammollare 6 fichi secchi, scolateli e tritateli. In un paiolo portate al bollore 2 litri di acqua, regolate di sale e versateci a

pioggia 300 g di farina gialla mescolando con una frusta. Cuocete circa 50 minuti mescolando. Sbollentate 40 g di gherigli di noce per 1 minuto, privateli della buccia e tritateli. Fuori dal fuoco unite i fichi, l’uvetta e le noci alla polenta e amalgamate. Ungete una tortiera di 26 cm di diametro con 1 filo di olio, cospargetela di pangrattato, versatevi la polenta e irroratela di olio. Sigillatela con alluminio da cucina e cuocete in forno a 180° per circa 30 minuti. Capovolgete la torta su un piatto di portata e servitela sia calda sia fredda. Muhallebi (nella foto) Un dolce diffuso in tutto il Vicino Oriente. Per 4 persone. Portate a bollore 1 litro di

latte con 100 g di zucchero. Stemperate 60 g di amido di mais e 50 g di farina di riso in poco latte freddo e versateli, mescolando, nel latte bollente. Cuocete a fuoco basso continuando a mescolare con il cucchiaio di legno – attenzione a non raschiare il fondo – fino a che il composto si addensa e vela il cucchiaio. Unite 2 cucchiai di acqua di fiori d’arancio o di rose. Proseguite la cottura per qualche minuto, togliete dal fuoco e lasciate intiepidire. Versate la crema di riso in coppette individuali, spolverizzate di cannella e mettete in frigorifero. Servite il dolce freddissimo, decorato, a piacere, con pistacchi tritati.

Ballando coi gusti

Oggi vi propongo due creme: lo so che spesso dichiaro facili i piatti proposti, ma questi due sono proprio facilissimi!

Crema di zucca

Crema di piselli e panna

Ingredienti per 4 persone: ½ zucca tonda – amaretti – 1 pizzico di noce moscata – 1 cucchiaio di farina – 1 bicchiere di latte – brodo vegetale – burro – sale.

Ingredienti per 4 persone: 600 g di piselli decongelati – 1 cucchiaio di aneto secco – 4 cucchiai di sbrinz o grana grattugiati – 50 g di anacardi – 200 g di panna – sale e pepe.

Tagliate la zucca, sciacquatela e ponetela sulla placca del forno. Coprite con alluminio e cuocete a 180° per 40 minuti. Togliete i semi e la buccia della zucca e mettetela nel bicchiere del frullatore. Unite il burro morbido, la farina, il latte e brodo vegetale. Frullate fino a ottenere un composto cremoso, che verserete in una casseruola. Cuocete la crema di zucca per 5 minuti dal bollore, regolandone la densità con altro brodo vegetale e aggiustando di sale. Fuori dal fuoco profumate con un pizzico di noce moscata. Servite la crema di zucca calda cosparsa con gli amaretti sbriciolati.

Mescolate la panna al grana e all’aneto, coprite e tenete in frigorifero per tutta la notte. Sciacquate i piselli e lessateli in acqua salata bollente per 5 minuti; scolateli e frullateli unendo poca acqua di cottura, fino a ottenere un composto ben amalgamato. Scaldate la crema in una casseruola regolandone l’intensità con acqua o brodo vegetale, regolate di sale e di pepe. Montate la panna ben fredda e tenetela da parte. Salate leggermente gli anacardi e tostateli a 150° per 10 minuti; tritateli e ricavatene una granella grossolana. Servite la crema di piselli guarnita con la panna montata e la granella di anacardi.


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Sudo

La tavola delle feste Crea con noi

Angeli, stelle e un po’ di fantasia per decorare la tavola che ospiterà parenti e amici

Schema

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Giovanna Grimaldi Leoni

9 Con il pennarello decorate le ali a 4 piacere quindi incollatele con un po’ di colla o biadesivo sul retro dell’angelo. Disegnate il viso e6i capelli o ritagliate quest’ultimi dal tovagliolo. 1 Aggiungete qualche giro di filato rosso al collo come sciarpa e rifinite infilando alle due estremità due piccole5 stelline inserendo il filo con l’ago. Realizzate tanti angeli quanti sono i9 commensali. Divertitevi a decorarli in maniera diversa con disegni, 7 stelline o piccoli ricami. Ritagliate ora dal feltro le stelle più 6 piccole. Incollatevi sopra un lumino e rivestite il bordo di quest’ultimo con il tovagliolo utilizzando del biadesivo. Preparate delle etichette con il nome degli ospiti, sovrapponendo un cartoncino craft con la scritta a un cartoncino un poco più grande rivestito con il tovagliolo. Bucate con la 8 fustella stella piccola e legateli al lumino con il filo da ricamo 5 Ritagliate ora dal feltro le due parti che compongono la stella più grande. Con la colla a caldo messa sul bordo esterno, fissate la parte tagliata alla 6 stella in modo da creare una tasca in cui inserire l’angelo. 7e poInserite l’angelo nella sua stella sizionatelo al centro del piatto su di 3 un tovagliolo. Decorate la tavola con piccole stelline 1 di luci. fustellate e una ghirlanda E ora con la tavola così decorata non mi resta che augurarvi Buone Feste.

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I nuovi tovaglioli strutturati «Cucina e Tavola» in argento e oro sono così belli che mi hanno dato l’idea per questa decorazione perfetta per la tavola delle feste. Dei piccoli angeli in cartone riciclato vengono vestiti a festa e inseriti in stelle di feltro come messaggio benaugurale. A completare il tutto dei semplici segnaposto negli stessi materiali. Basta aggiungere una pioggia di stelline create con le fustelle «i

am creative» e la tavola delle feste è pronta. Procedimento Stampate e ritagliate le varie parti presenti sul cartamodello (lo trovate su www.azione.ch). Riportate il corpo dell’angelo su cartone spesso e le ali su carta da pacco o cartoncino. Rivestite la sagoma dell’angelo, dal corpo in giù con del biadesivo. Tagliate l’eccedenza e quindi rivestite con i tovaglioli strutturati.

Tra fidanzati: «Cara dov’è il mio regalo?» «Ma il tuo regalo sono io amore!» Trova la risposta del fidanzato leggendo a cruciverba ultimato, le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 3, 6, 2, 9)

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7• Cartone spesso di riciclo 3 • Feltro rosso 3m • Tovaglioli strutturati in oro e argento • Pennarelli Edding acrilico bianco, rosso e argento • Pennarello fine nero • Forbici, taglierino • Fustelle per stelle • Filo da ricamo rosso, ago • Biadesivo largo • Pistola colla a caldo • Stampante per il cartamodello

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(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

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Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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5 2021 7 Giochi per “Azione” - Dicembre Sudoku per “Azione” - Dicembre 2021 Stefania Sargentini Stefania 20 7 8Sargentini 4 (N. 49 - ... cavallo ma prima o poi raglia) Soluzione Schema 1 2 3 4 5 6 7 8 9 N. 44 2 21 C A V A R E A L L O 8 9 2 8 1 3 4 9 7 10 11 A M A R I P R I N T 2I 4 6 7 1 9 4 3 2 5 6 1 12 13 23 M I R A P O P E 2 6 5 7 3 8 2 14 15 16 6 E C O C O S I 4 R T 1 5 7 3 6 8 1 9 5 4 17 18 25 26 R A M A S S A G G I 5 8 3 9 6 4 2 5 8 7 3 19 A V O L E E 7 9 1 6 9 6 5 7 8 9 1 2 6 20 21 M O I N E N 7 1 7 4 6 3 9 22 23 A N S della E A T Soluzione settimana precedente 6 1 9 5 3 6 2 1 8 24 LaNtartaruga U O T Jonathan A R E delle Seychelles pare sia l’animale 18

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ORIZZONTALI 1. Lamine cornee 6. Un Continente 9. Possono alzarsi nella discussione 10. Preposizione 12. Simbolo chimico dello scandio 13. La matrigna di Elle 14. Numero singolare 15. Un colpo all’uscio 16. Portò il popolo d’Israele fuori dall’Egitto 18. La Licia presentatrice 19. Nobile musulmano 20. Campo nazista 21. Breve comunicazione

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Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

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8. Perfezionare il suono terrestre più vecchio del mondo, ha… Risposta risultante: CIRCA dello strumento (N. 50 - Circa centonovanta anni)N. 45 CENTONOVANTA ANNI. 11.2 Vocali in greco 1 3 4 5 6 7 8 9 T A S C A 6 4 8 3 7 5 1 2 8 C I 5R C A 14. Utilizzo 10 11 12 15. Portata sopra la tunica N 4O T O N E O N 3 2 5 6 9 1 4 7 5 6E 13 14 15 16 17 dagli antichi romani R C 2 6I 3T T O T R E 9 1 7 4 8 2 6 3 17.19Nel torace e nel 21dorso 22 VERTICALI 18 20 V O N R O S A O S 4 6 1 8 5 7 3 9 6 9 2 18. Bacile 1. Guadagno 23 24 25 O N O R I O R I T 8 7 9 2 1 3 5 6 7 3 20. Scampò alla distruzione 2. Valle percorsa dal Noce 26 27 28 29 G E R E 2 5 3 9 6 4 7 8 di Sodoma 3. Piccoli barbuti 3 8B A 30 31 32 21. Negazione russa 4. Precedono la «l» U 6R T O A S 1 3 4 7 2 9 8 5 1 7 33 34 22. Si varca su un ponticello 5. Una consonante U N I 7 9 6 5 4 8 2 1 4 8 1T E N 23. Titolo35nobiliare 36 6. Antichi precettori privati O 7A I D E A 5 8 2 1 3 6 9 4 5 26. La roba... in mezzo 7. Non si possono lasciare a piedi ... 22. Suggestivi quelli nuziali 23. Iniziali dell’attore Accorsi 24. In piedi... dopo la prima 25. Un colore della roulette 27. Uno dei dodici...

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N. 46 al mondo) Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web(N. www.azione.ch 51 - ... quarto cereale più coltivato I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione 1 2 3 4 5 7 2 5 1 9 4 8 6 3 1 3 A R Z O Q pagina U del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla del sito. Partecipazione postale: la lettera o la 6 7 8 1 46901 6 Lugano». 8 7 9 Non 5 2si 1 4 9 cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Concorsi, C.P.3 6315, U R TAzione, O C D 9 10 intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei avvertiti per iscritto. 8 9 Partecipazione 6 5 3 2 riservata 1 4 7 6 premi. 3 I vincitori 7saranno O N E O R O 11 12 esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera. 2 5 1 3 7 9 4 8 6 5 7

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Viaggiatori d’Occidente

TEMPO LIBERO

di Claudio Visentin

Più turismo migliore per tutti

Natale è il momento dei buoni propositi (anche se spesso durano solo lo spazio di un mattino). Potremmo allora augurarci anche un turismo migliore? Le grandi crisi, come quella che stiamo attraversando, a saperle cogliere sono anche ottime occasioni di cambiamento, perché impongono di ridiscutere idee e pratiche consolidate. Si potrebbe cominciare dalle piccole cose. Per esempio senza fare troppo rumore (e si capisce) cresce il numero degli «aeroporti silenziosi», dove per cominciare si evitano annunci inutili all’altoparlante: niente ultima chiamata, niente appelli per i passeggeri in ritardo eccetera; le uniche eccezioni sono ammesse in caso di emergenza, per esempio per bambini smarriti o ritrovati. Dopo tutto siamo connessi e reperibili in permanenza attraverso il nostro smartphone e con un minimo di spirito d’iniziativa ciascuno

di noi può tener d’occhio il suo volo sui monitor e presentarsi puntuale all’imbarco. Diversi aeroporti importanti hanno già aderito (Amsterdam, Barcellona, Delhi, Dubai, Helsinki, Londra, Singapore, Venezia e via elencando) e ci sono stati anche episodi divertenti, soprattutto in India. Per fare un esempio, da quando partecipa al progetto, l’aeroporto di Bangalore annuncia cogli altoparlanti a tutto volume: «Il nostro è un aeroporto silenzioso!». E come scrive un viaggiatore su Twitter, «All’aeroporto di Mumbai suonano un campanello prima di ogni annuncio (anche se è un aeroporto silenzioso), ma il suono assomiglia a quello degli impresari di pompe funebri. Ogni volta che suonano il campanello mi sembra che stia arrivando il becchino». Non proprio la scelta migliore per chi ha paura di volare…

Passeggiate svizzere

Anche la familiarità con i vaccini potrebbe favorire un turismo più giusto. Molti Paesi in Africa, in Asia, nell’America centrale e meridionale richiedono ai visitatori alcuni vaccini, per esempio contro la malaria o il colera. Si tratta di semplici precauzioni, a fronte di un rischio reale generalmente ridotto, eppure in passato queste misure hanno destato paure irrazionali e si sono tradotte in una drastica riduzione degli arrivi e dei conseguenti guadagni, particolarmente importanti in Paesi in via di sviluppo. Ora però proprio i vaccini ci stanno tirando fuori da una difficile situazione e ci siamo abituati a ricevere due o tre dosi nel giro di un anno; dunque molte resistenze potrebbero attenuarsi, specie se aprono la strada a interessanti viaggi fuori rotta. E di viaggi c’è davvero bisogno. Avete notato come negli ultimi mesi le discussioni sui social siano diventate

più accese, radicali, inutilmente offensive? Senza un continuo, concreto confronto col mondo esterno ci affezioniamo troppo alle nostre idee e diventiamo a modo nostro dei fanatici. Il viaggio invece ci mette sempre in contatto con realtà diverse, ci provoca, ci sfida. Quel che è vero da noi, altrove ha spesso poco senso, e per le strade del mondo ci viene continuamente impartita una sana lezione di relativismo. Certo anche viaggiando si rischia di replicare stereotipi e luoghi comuni, anzi di rafforzarli, proprio perché «siamo stati là e abbiamo visto di persona». Ma un buon viaggiatore è anche consapevole dei propri condizionamenti. Da sempre nel mondo inventato dal turismo prevale il punto di vista di un viaggiatore maschio, bianco, agiato, con un passaporto «forte» che gli apre tutte le frontiere. Molti giudizi correnti si basano sulle sue impressioni

e i suoi giudizi. Per esempio quando possiamo considerare un paese sicuro? L’Africa nel suo insieme è spesso ritenuta «povera» e «pericolosa»; e pazienza se è divisa in cinquantaquattro Stati evidentemente molto diversi tra loro da questo punto di vista. Ma se un viaggiatore bianco e ricco in Africa può richiamare l’attenzione dei malviventi, un nero americano (pur essendo anch’egli a suo modo un privilegiato) attira meno attenzione e può sentirsi molto più sicuro, come ha raccontato Vivienne Dovi, la fondatrice di Melanin Travel, una piattaforma digitale al servizio dei viaggiatori di colore. Forse proprio questa è la via per regalarci un turismo migliore nel 2022: moltiplicare prospettive e punti vista, ascoltare voci diverse (a cominciare naturalmente da quella dei locali), essere al tempo stesso più umili e più curiosi.

di Oliver Scharpf

La confiserie-tearoom Zurcher a Colombier ◆

Un pomeriggio di dicembre avanzo, un po’ alla cieca, nella bufera di neve, a caccia di un posto rinomato per la sua torta alle nocciole. Zurcher, dal 1862, si trova nel cuore di Colombier. Ex comune del Canton Neuchâtel dal toponimo alato, noto anche per il suo castello-caserma-museo dove ci sono i resti di una villa romana, rimarchevoli viali alberati ottocenteschi portano al lago, cinquemilacinquecento e rotte anime, un camping con ping pong. Un signore con un lagotto romagnolo m’indica la via. Vedo così, poco dopo, tra la neve di traverso, a metà facciata e in stampatello, come gli hotel o ristoranti di una volta nei villaggi, l’inconsueta insegna: Zurcher e basta. Niente in vetrina, a parte pigne, bocce di Natale, due piante d’appartamento. Volo sui gradini, a specchio, della scala d’entrata la cui ringhiera in ferro battuto, al centro, si

fregia di una zeta in oro. L’iniziale di cinque generazioni, al ventitré della rue Haute, il cui pianoterra non intonacato, in pietra arenaria di Hauterive che qui assume sfumature caramello, s’intona con il color senape del resto della facciata. Apro così la vecchia porta in legno e cerco subito la famosa torta alle nocciole. Nella vetrinetta, da acquolina in bocca, non la vedo. Devo alzare lo sguardo per scorgerla. Eccola, senza una fetta, riverberante per la glassa nivea sopra, alle spalle della vetrinetta, sopra il ripiano di marmo chiaro della credenza d’epoca in legno. Sullo sfondo, i vol-au-vent, in un lampo, contribuiscono al tuffo nel passato. Un’antica scatola di biscotti azzurro uova di pettirosso ricorda la vocazione iniziale del luogo, mantenuta grazie a un’altra specialità della casa: le tuiles caramélisées. Spingendo lo sguardo poco oltre questi biscotti ricurvi ca-

Sport in Azione

ramelizzati alle mandorle, un contenitore cilindrico blu reale con pomello in porcellana del Cacao Suchard, conduce il pensiero a Philippe Suchard, nato a Boudry, due chilometri da qui. Vado a sedermi nel tea-room. Peccato solo per le sedie nuove non da colpo di fulmine, ma il décor passa presto in secondo piano provando la torta alle nocciole. Abbandono, al secondo assaggio, forchettina e coltello. Molto fine, volatile, va presa in mano e mangiata a morsi. Il fondo è tra pasta brisée e feuilletée, abbastanza neutro ed essenziale, contrasta bene con il più estroverso strato ontuoso e umido il cui gusto ricorda un po’ il ripieno dei nussgipfel. Il tocco magico è la leggera glassa luminosa che quando si screpola, ne acuisce quasi la bellezza. Vado dove devo per studiarla di nuovo e incontro lo sguardo di Cristophe Zurcher, pasticcere

erede dei segreti della ricetta ultracentenaria che ha fatto, tra l’altro, l’apprendistato da Walder – tempio dei cioccolatini visitato un paio di settimane fa – e mi saluta spontaneo dall’antro dei tesori. Torta senza fronzoli, diretta, chiara, genuina, è nata, come tanti dolci di successo, per caso. «Spesso il caso fa bene le cose» aveva detto Philippe Zurcher, papà di Cristophe che non c’è più dal 2015, in una intervista per i centocinquant’anni della pasticceria di famiglia. L’inventore è Théophile Zurcher, il suo bisnonno, nel 1914. Per via della guerra c’è carenza di mandorle e il prezzo sale alle stelle, perciò sostituisce le mandorle della ricetta originaria con le nocciole e la torta diventa migliore. Torta del contrattempo che azzanno con calma mentre fuori nevica e i fiocchi incantano ogni volta, sospendendo tutto in un non tempo. Una signora

esce con quattro o cinque torte alle nocciole e sale in macchina. «La réligeuse»: senza esitazione, una giovane cliente sceglie questa specialità ginevrina a base di panna e meringa. Recidivo, cedo a una terza fetta accompagnata da un ottimo earl grey. E la capisco: è eccezionale per la sua semplicità. Ma il segreto forse lo colgo solo appena prima di partire, quando chiedo una torta da portar via. Nella camera adiacente la pasticceria, le torte alle nocciole sono riposte, al sicuro, nascoste dagli sguardi, in una antica credenza apposita, secondo le taglie. Il cavallo di battaglia della confiserie-tearoom Zurcher a Colombier (457 m), dunque, non è esposto in vetrina né nella vetrinetta interna. Rimane in disparte, come un attore che si concentra in camerino ed entra in scena solo al momento giusto. Le torte restano, fino all’ultimo, come nella stanza di un Vermeer.

di Giancarlo Dionisio

L’ingenua e fresca energia dell’idealismo ◆

L’indomani della qualifica della nostra Nazionale di calcio alla Coppa del Mondo del 2022, la Gioventù Socialista Svizzera ha esortato la Federazione a boicottare la manifestazione. «La Svizzera non deve camminare sui cadaveri», questo è l’auspicio della GISO. Di quali cadaveri si tratta? Secondo fonti documentate, in particolar modo secondo un’inchiesta condotta tempo fa dal quotidiano britannico «The Guardian», sarebbero morte più di 6500 persone sui cantieri nei quali sono stati edificati gli stadi. Questo dato sarebbe la punta di un iceberg sommerso fatto di soprusi, violenze, privazioni della libertà per alcune categorie di persone, fra le quali gli omosessuali, bersagliati, questi ultimi, fino alla morte. Non assecondare un simile disprezzo della vita umana, boicottando la Coppa del Mondo, sarebbe un segnale forte anche nei confronti della

FIFA, che ha sede proprio nel nostro paese, a Zurigo. Con ogni probabilità, se il Qatar non avesse ottenuto il diritto di organizzare il Torneo, la sorte delle minoranze represse e dei cosiddetti diversi non sarebbe migliorata di una virgola. Paradossalmente, grazie al fatto di avere gli occhi di tutto il mondo puntati sul piccolo e ricchissimo emirato adagiato sul Golfo Persico, la loro situazione potrebbe trarne beneficio. Ma sarebbe, credo, una questione transitoria, di facciata, una sorta di «tregua olimpica» applicata all’altro evento sportivo totalizzante. Non a caso, per evitare fastidiose polemiche, gli organizzatori hanno annunciato che i Gay potranno seguire serenamente le partite, purché evitino effusioni in pubblico. A mio modo di vedere il difetto sta nel manico. Una manifestazione così importante e così coinvolgente come

la Coppa del Mondo di calcio non avrebbe dovuto essere assegnata a un paese di poco meno di tre milioni di abitanti che, con il pallone, non ha nulla da spartire. Ciò avrebbe evitato la febbrile costruzione degli stadi, senza misure di sicurezza, senza il rispetto di norme e persone. In buona sostanza avrebbe evitato 6500 cadaveri. Ma si sa, la pachidermica macchina dello sport è mossa più dal denaro, che dagli ideali. Secondo le norme FIFA, l’edizione del prossimo anno non avrebbe potuto essere attribuita a un paese africano, sudamericano, o europeo, in virtù di quelle del 2010 in Sudafrica, del 2014 in Brasile, 2018 in Russia. Restavano in gioco Asia e Australia. Dall’est erano giunte, oltre a quella del Qatar, le candidature del Giappone e della Corea del Sud, che però erano stati anfitrioni congiunti nel 2002. Rimanevano in lizza il Qatar e l’Australia.

Da una parte un minuscolo paese che in pochi anni ha ottenuto un Mondiale di ciclismo, l’infelice edizione fantasma del 2016; un Gran Premio di Formula 1, nel 2021; la Coppa del Mondo di calcio del 2022. Dall’altra un paese-continente che vibra per lo sport, che non organizza eventi planetari dai Giochi Olimpici di Sydney 2000 e che, soprattutto, sembra avere un numero decisamente inferiore di scheletri negli armadi. La GISO non ci sta. Il suo appello è destinato a cadere nel vuoto, a meno che alla sua voce non si aggiunga un coro che attraversi la terra da nord a sud, da est a ovest. La storia ci parla di alcuni boicottaggi celebri. Su tutti quelli dei giochi olimpici di Mosca del 1980. Per stigmatizzare l’invasione armata dell’esercito sovietico in Afghanistan, 65 paesi risposero alle sollecitazioni del presidente degli USA Jimmy Carter e non

parteciparono ai Giochi. Nel 1984 ci fu il contro-boicottaggio da parte del blocco sovietico. Fu una pura rappresaglia. Erano gli ultimi scampoli di guerra fredda. Oggi, la situazione è profondamente diversa. Dubito che una nazione calcisticamente forte possa trovare il coraggio di dire di no. Ci sono in ballo troppi interessi economici. Inoltre si devono fare i conti con la pressione da parte dei giocatori, che vedono nella Coppa del Mondo un palcoscenico prestigiosissimo e lucrativo, e del pubblico, che attende solo di esorcizzare i mali del nostro tempo con le emozioni di un inno, di un’azione, di un gol. Comunque, grazie GISO. Era giusto provarci. Perlomeno affinché chi decide le sorti del grande calcio sappia fare ammenda, in modo da evitare in futuro sofferenze e prevaricazioni di cui possiamo fare a meno.


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Migros Ticino


Settimanale di informazione e cultura

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ATTUALITÀ ●

Miseria e pandemia In Italia oltre 16 milioni di persone vivono con meno di 650 euro al mese nonostante la crescita del Pil

Tra i nemici del papa Nel 2021 si sono accentuate le polarizzazioni attorno alla figura del pontefice

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L’amicizia italo-francese La storia delle relazioni tra i due Paesi fino al trattato del Quirinale firmato il 26 novembre scorso

2022, che anno sarà? Intervista a Christoph Sax sulle prospettive economiche per il nuovo anno, denso di sfide

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Le sfide decisive si giocano in casa

L’analisi ◆ Joe Biden tenta di ridurre le diseguaglianze sociali mentre Xi Jinping si confronta con i crac dei colossi immobiliari Federico Rampini

Joe Biden ripete che la sfida tra democrazie e regimi autoritari deve essere vinta nei fatti: dimostrando chi governa meglio, con risultati tangibili per i cittadini. Un test in tempo reale confronta le due superpotenze sul terreno dell’economia. Negli Stati uniti c’è qualche segnale che il presidente Biden stia mantenendo la promessa di migliorare i salari dei lavoratori, un passaggio essenziale per ridurre le diseguaglianze. In Cina Xi Jinping vuole gestire nel modo più indolore possibile il crac dei colossi immobiliari, un evento dalle diramazioni potenzialmente disastrose per centinaia di milioni di persone.

Ma una spinta al rialzo salariale è in corso. Per spiegare l’inflazione, l’80% delle aziende dicono di avere aumentato le loro retribuzioni. Cancellata l’epoca di Reagan, torneremo agli anni Settanta con la loro spirale inflazionistica prezzi-salari? L’altra superpotenza è alle prese con una minaccia interna che potenzialmente ricorda il crac dei mutui subprime nel 2008 in America. Due default gemelli, due giganti nel settore immobiliare cinese, Evergrande e Kaisa, hanno smesso di onorare i propri debiti. Il Governo è impegnato in prima linea nel tentativo di organizzare una liquidazione ordinata. In ballo, da un lato c’è la stabilità del sistema bancario molto esposto verso i gruppi immobiliari, e c’è anche la credibilità del sistema-Cina verso i creditori internazionali. Su un altro fronte questa è una crisi che può avere ripercussioni sociali e politiche, proprio come quella del 2008 in America. Centinaia di milioni di famiglie sono legate ai colossi immobiliari perché per decenni la casa è stata al centro di una bolla speculativa. Una parte dei clienti di Evergrande e Kaisa sono nella categoria «creditori»: hanno versato anticipi prima ancora che si aprissero i cantieri, e rischiano di non vedere mai la casa che hanno già pagato. Altri vedono calare il valore dei loro risparmi. La sfida per Xi Jinping è gestire in modo ordinato le liquidazioni, evitando traumi sociali, distribuendo i sacrifici su chi può sopportarli meglio. Il Governo ci «mette la faccia», come si suol dire, in prima persona: è ormai chiaro che la liquidazione dei gruppi in default viene pilotata dal partito comunista.

La dinamica salariale americana non era così vigorosa da decenni. A novembre le buste paga sono aumentate in media del 4,8% rispetto allo stesso mese del 2020. In apparenza questo non basta a compensare il rincaro del costo della vita visto che i prezzi sono saliti del 6,8%. La media però è ingannevole, perché nasconde una dinamica anomala, egualitaria. A crescere molto di più sono le paghe dei settori meno remunerativi: dai camerieri dei ristoranti ai fattorini delle consegne, ai portuali e agli autisti dei trasporti. Il settore della ristorazione e degli alberghi vede aumentare le retribuzioni quasi del 15%, quello dei trasporti e dei magazzini di deposito-smistamento del 9%. Sono aumenti ben superiori al tasso d’inflazione. Finalmente la classe operaia va in paradiso? Oggi in effetti la definizione di «classe operaia» deve includere i fattorini delle consegne, i commessi degli ipermercati, i magazzinieri di Amazon, mestieri classificati nel settore dei servizi ma che per potere d’acquisto e status sociale sono i proletari del nostro tempo. Sembra realizzarsi una delle promesse più importanti di Biden: governare nell’interesse dei lavoratori, migliorare il loro tenore di vita, invertire la dilatazione delle diseguaglianze che dura da almeno 40 anni. Ma quanto è merito di Biden se i salari aumentano? Un ruolo l’hanno avuto le tre manovre di spesa pubblica che dall’inizio della pandemia hanno distribuito aiuti alla maggioranza delle famiglie. Due di quelle manovre portano la firma di Donald Trump, la terza quella di Biden. L’ultima, approvata dal Congresso subito dopo l’insediamento del nuovo presidente, è stata un’operazione di chiaro intento redistributivo. A gennaio infatti la crisi economica provocata

dalla pandemia era già finita, in teoria non c’era bisogno di distribuire una terza ondata di sussidi. Così facendo però Biden ha inciso sulle diseguaglianze. Ha consentito ai lavoratori di metter da parte un cuscinetto di risparmio senza precedenti: nella primavera le famiglie americane hanno raggiunto un risparmio medio pari al 26% del loro reddito. Questa è una chiave della «grande dimissione»: soprattutto nei mestieri più faticosi e meno gratificanti, per la prima volta da generazioni i lavoratori americani hanno visto il loro potere contrattuale migliorare di colpo, hanno potuto essere più esigenti, e milioni di loro hanno sbattuto la porta in faccia al datore di lavoro. Ancora nel mese di ottobre 4,2 milioni di americani han-

no dato le dimissioni. Il ricambio di manodopera è elevatissimo e premia i lavoratori: a novembre c’erano 11 milioni di posti vacanti (cioè offerte di assunzione) ma solo 7 milioni di disoccupati in cerca di lavoro. Le leggi dell’offerta e della domanda rafforzano i lavoratori. Lo si vede anche dalla proliferazione di conflitti sindacali, un altro fenomeno che in queste dimensioni non si registrava in America da tempo. Tra le cause strutturali che aiutano i lavoratori due si aggiungono allo tsunami di aiuti pubblici: il calo dell’immigrazione regolare e l’effetto Amazon. Il gigante del commercio digitale paga un salario medio di circa 18 dollari orari, quasi il triplo del minimo federale (7,25). Il salario Amazon ha un effetto di traino,

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La dinamica salariale americana non era così vigorosa da decenni. A crescere molto di più sono le paghe dei settori meno remunerativi

La sfida per Xi Jinping è gestire in modo ordinato le liquidazioni, evitando traumi sociali, distribuendo i sacrifici su chi può sopportarli meglio

i concorrenti sono costretti a offrire condizioni competitive. Siamo quindi in presenza di un cambio di paradigma? L’America era diventata il paradiso dei capitalisti almeno dagli anni Ottanta, l’era di Ronald Reagan. Si realizza il sogno di Biden di essere un «nuovo Roosevelt» che restituisce dignità e potere ai lavoratori? Sarebbe una risposta concreta alla sfida sulla capacità delle democrazie di fornire risultati tangibili di equità e benessere. È ancora presto per dire se questo miglioramento sia durevole. Almeno una delle cause sta già svanendo: il cuscinetto di risparmi accumulato grazie alle tre manovre di aiuti si assottiglia, già la quota di risparmio sul reddito medio è tornata a livelli molto più normali, il 7%.

Un versante delicato riguarda gli equilibri della finanza locale, perché molte città e provincie si finanziavano vendendo terreni agli immobiliaristi, la crisi del settore prosciuga una fonte di entrate pubbliche. Ci ha rimesso perfino l’autonomia della banca centrale: per spingerla a una politica creditizia più espansiva, onde evitare una frenata troppo severa della crescita (che già rallenta), il Governo ha dato chiari segnali che la banca centrale deve obbedire alle direttive del partito. Anche in Cina la credibilità del sistema è in gioco. Non a caso, fu proprio la crisi americana del 2008 all’origine di una «epifania» per i dirigenti comunisti cinesi, che allora maturarono la convinzione sulla superiorità del loro modello di governo.


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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

Quella povertà strisciante che contagia l’Italia Il punto

Nonostante la crescita del Prodotto interno lordo oltre sedici milioni di persone vivono con meno di 650 euro al mese

Alfio Caruso

Il 2021 si chiude in gloria economica per l’Italia. I suoi conti ricevono applausi e previsioni di crescita come non capitava da oltre sessant’anni: era infatti il maggio del 1959 quando il quotidiano londinese «Daily mail» scriveva del «miracolo economico» italiano anticipando di sette mesi il giudizio del «Financial times», all’epoca il giornale finanziario più importante del mondo, che assegnava alla lira l’Oscar delle valute. Con grande scorno del presidente francese De Gaulle sicuro dell’affermazione del franco. E oggi i generosi giudizi internazionali sono supportati dai numeri: il Pil del 2021 è previsto al 6,3%, ben oltre il 5% dell’eurozona, terzo risultato nella storia della Repubblica (8,3% nel 1960; 6,6 nel 1959), in netta controtendenza persino con il decennio pre pandemia, dove la crescita complessiva è stata dello 0,9 per cento. Eppure una povertà strisciante sembra contagiare l’intera Penisola. Le caute previsioni dei tecnici dell’Istat sono improntate al pessimismo con dati peggiorativi rispetto al 2020: significa che oltre 6 milioni d’italiani vivono in povertà assoluta (meno di 500 euro mensile di reddito), e 10 milioni abbondanti in povertà relativa (meno di 650 euro mensili di reddito): rappresenta quasi il 28 per cento della popolazione complessiva. Un peggioramento lieve rispetto ai dati del

2020, la quota era del 27 per cento, ma brusco rispetto al 2019, allorché i due gruppi toccavano i 13,4 milioni: in ventiquattro mesi sono dunque 3 milioni e mezzo gli italiani piombati nell’indigenza. Le regioni più colpite: Valle d’Aosta (+61,1 per cento), Campania (+57 per cento), Lazio (+52,9 per cento), Sardegna (+51,5 per cento), Trentino Alto Adige (+50,8 per cento). In gran parte si tratta di categorie sociali fin qui abituate a cavarsela tra secondi, terzi lavori e retribuzioni in nero. Nessuno scialo, però un sabato al mese ci scappavano la pizza e la birra, mentre adesso devono trovare la forza psicologica di mettersi in fila dinanzi ai centri della Caritas, di Pane quotidiano, del Banco alimentare, delle associazioni clericali e laiche che offrono cibo, vestiti, detersivi, sapone, mascherine chirurgiche. Nuovi poveri bersaglio anch’essi del Coronavirus: non li ha colpiti nella salute, bensì nel lavoro. Sono stati spazzati via ambulanti e fattorini, baristi e badanti, muratori e manovali, magazzinieri e scaricatori, commessi e lavapiatti. Traballano anche i nuclei familiari basati sulle pensioni dei nonni: troppo grande il numero di figli e nipoti dei quali farsi carico. Tuttavia la famiglia continua a rappresentare la forma di welfare più diffusa nella Penisola: il 40 per cento degli under 35 è tornato ad abitare con i genitori.

Assai inquietante il crollo delle paghe nella metropoli considerata il motore del Paese: Milano. (Keystone)

Malgrado il cospicuo miglioramento della produzione e dei bilanci, la speranza è che nel 2021 l’occupazione mantenga i livelli del 2020 nettamente in retromarcia rispetto al 2019 con 456 mila lavoratori in meno e una disoccupazione ben al di sopra del 9 per cento. A pagare il prez-

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zo più alto la Lombardia (–77mila) e soprattutto Milano (–20mila). Assai inquietante il crollo delle paghe nella metropoli considerata il motore del Paese: 320mila lavoratori a tempo determinato hanno guadagnato in un anno 9740 euro, se operai 8mila euro. D’altronde, 400mila assunti a tempo indeterminato sono stati costretti ad accettare il part time e conseguente decurtazione dello stipendio annuo a 12’354 euro, che sono diventati 9219 euro per 250mila operai, circa la metà di quanto previsto dal contratto nazionale, 17’110 euro. Rispetto a trent’anni addietro i salari sono diminuiti in termini reali del 2,9 per cento, unico caso fra le Nazioni dell’Ocse. Le aziende, però, continuano a chiudere gli stabilimenti per delocalizzare nell’Europa orientale. Ancora più grama la situazione di quanti tirano avanti a «chiamata», diventata ormai prassi quotidiana per caffetterie, ristoranti, pizzerie, paninerie: si va da 2600 agli 8200 euro annuali. Un andazzo ben fotografato dai contratti di un solo giorno, che ormai rappresentano il 38 per cento degli accordi, pressoché alla pari dei contratti di 10 giorni, il 40 per cento; abissalmente lontani quelli da un mese, il 12 per cento. In questo quadro 800 euro mensili vengono ritenuti un traguardo

accettabile: sono la risultante di una paga rabbrividente, 5,40 euro lordi l’ora e ci si fa la fame. Nella cerchia dei Navigli, il famoso centro di Milano, una domestica filippina guadagna 10 euro l’ora. Così viene spiegato perché molti abbiano preferito tenersi il reddito di cittadinanza, 573 euro mensili, e rinunciare al lavoro. Con la modifica dei requisiti approvata dal Parlamento non sarà più possibile. Non resteranno che la pensione di cittadinanza, 270 euro, il reddito di emergenza, 559 euro, il buono spesa, 300 euro. Ne sono conseguiti un marcato aumento dei fallimenti, degli indebitamenti bancari, delle vittime dell’usura, delle depressioni, specialmente a livello giovanile. Con un riflesso significativo anche sulla salute denunciato dall’aumento delle morti pure al di fuori del Covid. La causa principale è risieduta nell’impossibilità di parecchi ospedali, assorbiti dalla pandemia, di proseguire la consueta attività di prevenzione e di cure. Non a caso diversi geriatri hanno pronosticato un drastico abbassamento dell’età media, che ultimamente aveva raggiunto la vetta di 83 anni per le donne e di 79 anni e mezzo per gli uomini. In una recente indagine del Censis il 66,2 per cento degli intervistati ha dichiarato che si viveva meglio in passato.

Indigenti in aumento anche in Svizzera

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Da alcuni anni la povertà è in aumento anche in Svizzera; la crisi pandemica non ha fatto che aggravare questa situazione e le ineguaglianze, ha di recente denunciato Caritas. Oltre alle 735’000 persone che vivono in condizioni di povertà – ha sottolineato l’Ong – 600’000 persone vivrebbero appena sopra il livello di sussistenza in condizioni precarie. «Fin dal suo inizio, nella primavera 2020, la pandemia da Coronavirus ha comportato restrizioni economiche e sociali rilevanti che hanno influenzato le condizioni di vita della popolazione in Svizzera» conferma L’Ufficio federale di statistica, citando l’ultima «L’indagine sui redditi e sulle condizioni di vita» (Silc) basata su interviste condotte tra gennaio e giugno 2021.

Dallo studio emerge che fin da marzo 2020 la quota di persone che si considerava felice (sempre o la maggior parte del tempo) o molto soddisfatta è in continua e netta diminuzione. Mentre l’impatto della crisi sanitaria sui redditi delle economie domestiche è stato significativo: «Nel 2021 il 20% della popolazione viveva in un’economia domestica che ha dichiarato un calo di reddito negli ultimi 12 mesi e l’11,3% ha indicato un calo di reddito dovuto alla pandemia di Covid-19». Sono stati più colpiti dalla riduzione delle entrate (autovalutata) le persone che lavorano nella ristorazione e nel settore alberghiero, chi guadagna un reddito basso e gli stranieri. Le persone di 65 anni e più e gli impiegati statali sono stati meno toccati dal fenomeno. / RB


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ATTUALITÀ

Otto ministre per Olaf Scholz Prospettive

Berlino crede nella gender equality

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Luisa Betti Dakli

Chi non sopporta il papa L’analisi

La pandemia ha acuito le polarizzazioni nel mondo cattolico

Giorgio Bernardelli

Il 17 dicembre ha compiuto 85 anni, con la consueta pioggia di omaggi sulle televisioni e messaggi d’auguri dalle autorità di tutto il mondo. E – come consuetudine – anche in questo Natale rivolgerà il suo messaggio al mondo intero, dalla loggia della basilica di San Pietro. La festa con l’albero e il presepe (quest’anno andino) sulla grande piazza arriva però al termine di un 2021 non facile per papa Francesco. È stato infatti l’anno in cui, forse ancora più di tutti gli altri, si sono accentuate le polarizzazioni intorno alla sua figura.

Il fronte un po’ sguaiato dei tradizionalisti non è però l’unico a mostrare freddezza nei confronti del pontefice regnante Il pontefice resta uno dei leader globali più ascoltati del mondo di oggi. Nelle scorse settimane lo ha riconosciuto persino il premier indiano Narendra Modi – nazionalista indù, leader di un partito come il Bjp in patria apertamente ostile ai missionari cristiani – che a Roma per il G7 ha voluto comunque fare tappa in Vaticano, rivolgendo a Bergoglio persino l’invito a recarsi a Nuova Delhi. Calciatori come Zlatan Ibrahimovic o artisti del mondo dello spettacolo non rinunciano alla photo opportunity a Casa Santa Marta, accompagnandola sempre con qualche gesto solidale. Segno che nel mondo laico il pontefice è percepito come una sorta di sigillo di garanzia rispetto all’impegno per il prossimo. Del resto i poveri guardano ormai a lui come la loro unica speranza, come si è visto chiaramente durante la recente visita al campo profughi di Lesbo, uno dei luoghi più dimenticati dall’Europa, alle prese con la miseria e il Coronavirus. Papa Francesco vi è voluto tornare una seconda volta, dopo il primo viaggio compiuto nel 2016. Ma proprio da lì ha pronunciato uno dei suoi discorsi più amari. Un richiamo esplicito a un mondo che sul tema dei migranti non ha alcuna intenzione di ascoltare le sue parole, come mostrano drammaticamente le immagini giunte dal confine tra la Polonia e la Bielorussia che – dopo la prima ondata di emozione –

sono sparite molto in fretta anche dai radar dell’informazione. Per Francesco questo Natale chiude un anno difficile soprattutto sul fronte interno alla Chiesa cattolica. L’esperienza della pandemia ha acuito ancora di più le polarizzazioni nel mondo cattolico intorno alla sua figura. Al netto di clamorosi riposizionamenti come quello recentissimo di Antonio Socci, che sulle pagine di «Libero» ne ha appena tessuto l’elogio dopo averlo a lungo attaccato, il mondo tradizionalista è sempre più apertamente frondista nei confronti del papa. Non gli perdonano il suo ritornare con sempre più frequenza sulle grandi questioni sociali: dalle migrazioni al riscaldamento globale, dall’apertura all’idea del reddito minimo garantito al dialogo sulla pace e la fratellanza con l’imam di al Azhar. Lo accusano di «snaturare» la dottrina della Chiesa per inseguire il mondo. Ce l’hanno con lui addirittura perché durante le liturgie non si inginocchia (facendo finta di non vedere che il vero motivo sono i problemi fisici). L’ultima frontiera sono le critiche no-vax, semplicemente perché Bergoglio ricorda lo scandalo della mancata equa distribuzione dei vaccini anti-Covid sul pianeta. Il fronte un po’ sguaiato dei tradizionalisti, che può peraltro contare su autorevoli sponde all’interno dell’episcopato statunitense, non è però l’unico a mostrare freddezza nei confronti del pontefice regnante. Speculare c’è anche l’insoddisfazione di una parte del campo progressista, che lo accusa di non aver portato a compimento le riforme nella struttura del cattolicesimo tanto auspicate. Si tratta di una critica un po’ più intellettuale, ma non meno radicale. Per esempio c’è parecchia freddezza tra le donne teologhe che avevano riposto speranze in Bergoglio ma in ormai otto anni non hanno visto cambiamenti su temi come l’accesso ai ministeri ordinati. Sullo stesso tema del rapporto tra la Chiesa cattolica e il mondo Lgbt papa Francesco personalmente ha compiuto gesti importanti, ma lo ha fatto il più delle volte in forma privata senza indicare espressamente una vera e propria linea. Ci sono poi i grandi scandali venuti alla luce negli ultimi mesi, come le proporzioni

spaventose del problema della pedofilia nella Chiesa francese fatte emergere dal rapporto commissionato a un osservatorio esterno o la complicità delle istituzioni scolastiche cattoliche in Canada riguardo agli abusi sulle popolazioni indigene. Esiti di indagini relative al passato su vicende nelle quali papa Francesco non ha evidentemente responsabilità dirette; ma sono notizie che offuscano ulteriormente l’immagine generale della Chiesa cattolica e che nessuna immagine di un papa superstar può riuscire a bilanciare. Nonostante tutto questo, Francesco va avanti per la sua strada, rimarcando i capisaldi del suo magistero: il primato dei poveri, la misericordia come cuore del messaggio evangelico, la fraternità come stile nelle relazioni con chi cattolico non è. L’11 febbraio 2013 aveva 85 anni Benedetto XVI quando stupì il mondo con le sue clamorose dimissioni. Non sembra esserci all’orizzonte nulla di tutto questo con papa Francesco: l’intervento chirurgico dello scorso mese di luglio sembra essere stato superato in maniera accettabile. Il pontefice ha mostrato di essere ancora in grado di viaggiare e ha avviato la preparazione di un Sinodo che si terrà nel 2023 ed è fortemente segnato dalla sua impronta.

«Le donne avranno la metà del potere», aveva promesso il neo cancelliere tedesco Olaf Scholz e così è stato. Un Governo d’intesa tra socialdemocratici, verdi e liberali, con 16 ministri di cui 8 donne che per la prima volta inaugurano la formula della gender equality (parità di genere) nella stanza dei bottoni in Germania. Per l’esattezza si tratta di 4 ministre socialdemocratiche, tre verdi e una liberale, che non andranno a ricoprire dicasteri di serie B ma che avranno ruoli chiave nel nuovo Governo. Tra loro Nancy Faeser, già presidente dell’assemblea regionale dell’Assia, è la vera novità dato che è la prima donna in assoluto a occupare il Ministero dell’interno tedesco. Antifascista e attivista per i diritti delle donne, Faeser è un’avvocata che ha studiato negli Stati uniti e si è specializzata in uno studio legale internazionale a Francoforte. Madre di un figlio di sei anni, che lei chiama «il bambino», ha negoziato per i socialdemocratici su migrazione e integrazione, temi che saranno primari nel suo dicastero, insieme a quelli per il contrasto al terrorismo di estrema destra. Accanto a lei un’altra sorpresa è stata la nuova ministra della Difesa, Christine Lambrecht, che dopo il trasloco dal Ministero della giustizia gestirà un budget di 50 miliardi di euro, ovvero il secondo portafoglio di spesa più grande dell’Esecutivo. Membro del Bundestag dal 1998, Lambrecht ha studiato diritto e amministrazione, ed è iscritta alla Spd dal 1982. Su di lei però sono stati espressi i dubbi più grossi, non solo per la mancanza di competenze specifiche ma perché quando era segretaria del gruppo parlamentare Spd nel 2014 si espresse contro l’acquisto di droni armati nonostante il parere favorevole di altri membri del suo partito. Una nomina che è stata interpretata come la scelta di Scholz di mettere in secondo piano la Difesa nell’agenda politica, malgrado lo stesso cancelliere abbia sottolineato che con il suo Governo la sicurezza della Germania è «nelle mani di donne forti», riferendosi sia a Lambrecht sia a Faeser. Tra le verdi invece cruciale sembra la scelta di Annalena Baerbock agli Affari esteri. Una neoministra che durante la campagna elettorale è stata criticata per aver fornito informazioni errate nel suo curriculum: incidente al quale lei ha risposto dicendo che «tutti commettono errori nella vita, e se pen-

sate che per questo andrò a nascondermi o mi ritirerò, avete sbagliato persona». Baerbock è entrata nel Bundestag nel 2013 ed è leader del partito dei verdi dal 2018, vive con la sua famiglia a Potsdam, è sposata con il consigliere politico e responsabile delle pubbliche relazioni, Daniel Holefleisch, ha due figlie ed essendo cresciuta in una famiglia hippie ha confessato che spesso da bambina veniva portata a manifestazioni anti-nucleari e per la pace. Insieme a lei, sempre nei verdi, ci sono Anne Spiegel, oggi al Ministero della famiglia ma anche prima giovane delegata tedesca alle Nazioni unite nel 2005, e Steffi Lemke, nominata all’Ambiente e originaria di Dessau (Sassonia-Anhalt) nella Germania dell’est. «Sono nata e cresciuta a Dessau sull’Elba, all’epoca uno dei fiumi più sporchi d’Europa», racconta Lemke spiegando perché per lei l’ambiente è diventata una priorità politica, dopo essere diventata prima una «mungitrice» specializzata e poi studentessa di scienze agrarie a Berlino. Mentre l’ex ministra dell’Ambiente, la socialdemocratica Svenja Schulze, è andata alla Cooperazione economica e allo sviluppo: una ministra classe 1968 che è stata una giovane rappresentante degli studenti nel Nord Reno-Westfalia, e che è entrata a far parte della Spd a 20 anni. Il primato però va a Klara Geywitz, oggi ministra all’Edilizia, che è entrata nelle fila socialdemocratiche a soli 16 anni dopo essere stata una «squatter», e che ora vive a Postdam con il giornalista Ulrich Deupmann, con il quale ha una figlia e due gemelli. Cresciuta anche lei nella Germania orientale, è stata deputata nel Parlamento regionale del Brandeburgo per 15 anni, lottando senza successo per una politica della gender equality, e che adesso si trova davanti l’ingrato compito di combattere la crescente crisi degli alloggi in Germania, impegnandosi a costruire 400’000 nuove case all’anno, con un quarto di abitazioni a prezzi accessibili. Infine l’unica liberale del gruppo di 8 è Bettina Stark-Watzinger, alla quale è andato il Ministero dell’istruzione e la ricerca, e che ha già dichiarato la sua agenda con al centro una vera e propria «rivoluzione educativa» per la Germania. Nata nel ’68, Stark-Watzinger è una economista del partito liberale (Fdp) e ha studiato sei anni a Londra dove ha lavorato nel settore finanziario.

Neanche troppo sotto traccia è cominciata nella Chiesa cattolica la riflessione sul dopo Bergoglio Di certo, però, il pontificato è entrato in una fase in cui è difficile attendersi grandi cambi di rotta. E – neanche troppo sotto traccia – è cominciata nella Chiesa la riflessione sul dopo Bergoglio. All’orizzonte, probabilmente, c’è anche un Concistoro per la nomina di nuovi cardinali: la composizione del collegio scenderà il 7 gennaio sotto i 120 elettori previsti dalle norme per la scelta di un nuovo pontefice. C’è dunque da attendersi che papa Francesco tenga nel 2022 la sua ottava distribuzione di porpore. Un passaggio che sarà scrutato con particolare attenzione per aggiornare la lista dei possibili successori.

Da sinistra, in alto: Annalena Baerbock, Anne Spiegel, Cem Özdemir, Steffi Lemke, Volker Wissing, Marco Buschmann, Robert Habeck, Karl Lauterbach, il cancelliere Olaf Scholz, Bettina Stark-Watzinger, Christian Lindner, Wolfgang Schmidt, Nancy Faeser, Christine Lambrecht, Klara Geywitz, Hubertus Heil, Svenja Schulze. (Keystone)


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Dentro i dissidi tra Roma e Parigi Corsi e ricorsi

Dalla conquista della Gallia da parte di Giulio Cesare al trattato del Quirinale firmato il 26 novembre scorso

Alfredo Venturi

Come ricorda un diplomatico francese anonimamente citato da «Le Monde» il patto fra Parigi e Roma, solennemente firmato lo scorso 26 novembre da Emmanuel Macron e Mario Draghi nel palazzo del Quirinale, differisce su un punto fondamentale dal trattato dell’Eliseo, voluto nel 1963 da Charles de Gaulle e Konrad Adenauer. Cinquantotto anni or sono le firme del presidente e del cancelliere posero fine a un’ostilità secolare, a una serie infinita di guerre che avevano visto Francia e Germania schierate su fronti contrapposti. E diedero il via a una relazione speciale, che troverà nell’immagine di François Mitterrand e Helmut Kohl, mano nella mano davanti alla sterminata distesa di tombe francesi e tedesche del sacrario di Verdun, la sua consacrazione simbolica. Invece il trattato del Quirinale non è legato alla necessità di riconciliare le parti, perché «anche se Parigi e Roma hanno conosciuto talvolta forti tensioni, i due Paesi non sono stati nemici che per pochi giorni».

La storia franco-italiana è costellata di conflitti armati anche in assenza di formali dichiarazioni di guerra, e spesso l’Italia più ancora che parte in causa era la posta in gioco Quei pochi giorni risalgono al giugno del 1940, dopo che André François-Poncet, ambasciatore di Francia a Roma, dovette lasciare Palazzo Farnese, la sede cinquecentesca della sua rappresentanza diplomatica. Il ministro degli Esteri italiano Galeazzo Ciano lo aveva convocato per consegnargli la dichiarazione di guerra. La stessa di cui si fece omaggio all’ambasciatore britannico Sir Percy Loraine. Fu quella che François-Poncet definì «pugnalata alla schiena», perché quando Mussolini ordinò alle sue divisioni di varcare il confine la Francia invasa dalla Wehrmacht era ormai in ginocchio. Del resto la storia franco-italiana è costellata di conflitti armati anche in assenza di formali dichiarazioni di guerra, e spesso l’Italia più ancora che parte in causa era la ragione del contendere, la posta in gioco. Se in epoca antica le legioni di

Giulio Cesare invasero la Gallia per annetterla al potere di Roma, più volte nelle epoche successive gli eserciti francesi restituirono la visita. A cominciare dal tredicesimo secolo, quando il papa Urbano IV ansioso di liberare il Mezzogiorno dal dominio degli Hohenstaufen e scongiurare la loro aspirazione a unificare l’Italia minacciando il potere pontificio, chiamò in soccorso Carlo d’Angiò. In pochi anni i francesi annientarono le armate degli ultimi principi svevi, Manfredi e Corradino, che trovarono la morte il primo in battaglia, il secondo sul patibolo. Due secoli e mezzo più tardi i re di Francia, prima Carlo VIII quindi Francesco II, calarono nella penisola contrastati dalle armate asburgiche. Inseguivano sogni di potere favoriti dalla frammentazione del Paese, dalle incontenibili rivalità interne e dal lontano precedente angioino. Per non parlare della campagna napoleonica di fine Settecento («soldati, vi porterò nelle più fertili pianure del mondo, dove troverete vittorie, ricchezze e gloria!»), quando il futuro imperatore distrusse il sogno dell’élite intellettuale italiana che condivideva i principi della Rivoluzione francese e confidava nel contagio liberale, ma si trovò alle prese con truppe voraci e predatorie. Il loro comandante non esitò a cedere all’Austria la moribonda repubblica di Venezia dopo avervi razziato tesori e opere d’arte inviati a Parigi come bottino di guerra. Fortunatamente la storia girava per il verso giusto, nonostante la dura occupazione militare i valori dell’Ottantanove si fecero faticosamente strada. Venendo ai nostri giorni il diplomatico citato da «Le Monde» parla di «forti tensioni» italo-francesi. Non sono state poche in tempi recenti le materie di attrito fra i due Paesi. Contenziosi economici, politici, strategici. Per esempio la disputa a proposito dei cantieri navali dell’Atlantico, di cui il gruppo italiano Fincantieri propose e negoziò l’acquisto. Una soluzione del tutto in linea con i principi liberisti dell’Unione europea, ma secondo Macron una simile industria strategica non doveva finire in mani straniere. Questa espressione non collima esattamente con lo spirito del trattato del Quirinale. Né con lo spettacolo delle pattuglie acrobatiche dei due Paesi, che sfrecciando per celebrare l’evento hanno mescolato nel cielo di Roma i

Lo spettacolo delle pattuglie acrobatiche dei due Paesi a Roma, alla fine di novembre. (Shutterstock)

colori delle due bandiere. Successivamente, al tempo del Governo Gentiloni, la questione dei cantieri navali è stata riavviata su nuove basi «per evitare altri malintesi», secondo l’ambigua formula diplomatica. Un dissidio franco-italiano si è aperto anche sul problema dei flussi migratori per il quale Roma, che si trova in primissima linea nel Mediterraneo centrale, ha più volte sollecitato con scarsissimi risultati l’appoggio di Parigi. Alcuni episodi hanno esacerbato la tensione: per esempio più volte è accaduto che gruppi di clandestini sono stati respinti in Italia dalla polizia francese di frontiera. È infine sul tappeto il nodo cruciale della Libia, che da sempre vede contrapposti gli interessi dei due Paesi. Al punto che al vertice organizzato a Celle-Saint-Cloud dal Governo francese per affrontare quella spinosa questione l’Italia è stata coinvolta solo all’ultimo momento. Individuato come statista europeo e per que-

sto amato dagli europeisti e detestato dagli euroscettici, per esempio dai leghisti italiani, in realtà Macron è apparso prima di tutto vincolato dagli interessi nazionali. Un altro scontro fra i due Paesi riempì le cronache ai tempi del primo Governo Conte, quando il vicepresidente del consiglio Luigi Di Maio, allora capo politico del Movimento cinque stelle, incontrò in Francia esponenti dei gilet gialli, la più radicale e populistica opposizione al presidente Macron. Stavolta la misura è colma, devono aver pensato a Parigi: tanto che una volta ancora l’ambasciatore di Francia ha dovuto lasciare Palazzo Farnese. Ovviamente in una cornice ben diversa da quella del 1940: Christian Masset è stato richiamato, come si dice in questi casi, «per consultazioni». C’è voluto l’avvento a palazzo Chigi di Draghi, che ha con Macron un buon rapporto personale e ne condivide la visione europeista, per rasserenare il clima e portare a con-

clusione il lungo lavoro preparatorio del trattato del Quirinale. Come molti testi di simile natura anche questo documento è ricco di belle parole ma piuttosto povero di contenuti concreti. Vi si tratteggia un programma di cooperazione rafforzata in materia di difesa, di collaborazione nell’ammodernamento digitale e nelle questioni ambientali e spaziali. Ma c’è chi intravvede nella firma di Macron il desiderio di mandare un segnale all’ingombrante socio d’oltre Reno, proprio mentre Olaf Scholz prende il posto di Angela Merkel alla Cancelleria federale: il patto dell’Eliseo gode di buona salute e la trazione franco-tedesca resta vitale per l’Europa, ma Berlino deve sapere che la Francia guarda anche oltre. Per esempio è pronta ad affrontare con l’Italia non soltanto l’eterno problema dell’instabilità mediterranea, ma anche l’ombra dello spietato rigorismo che in compagnia dei «virtuosi» del Nord la Germania ha gettato sull’Unione europea. Annuncio pubblicitario


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Le finanze della Confederazione si tingono di verde Sostenibilità ◆ È prevista l’emissione di prestiti obbligazionari destinati a finanziamenti sostenibili probabilmente a partire dal 2023. La tendenza è confermata anche a livello mondiale Ignazio Bonoli

Il verde è senza dubbio il colore di moda… soprattutto se riferito a problemi di protezione ambientale e di risparmio energetico. Anche il settore finanziario ne approfitta. Molte banche offrono, infatti, ai loro clienti possibilità di investire in titoli di società giudicate rispettose dei problemi ambientali e di risparmio energetico. Ma non è tutto. Anche la Confederazione, seguendo del resto l’esempio di altri paesi, di banche e associazioni di categoria, vuole diventare più «verde» nei suoi investimenti. Lo ha recentemente dichiarato il responsabile delle finanze Ueli Maurer, dicendo che vuol fare della Confederazione una delle piazze finanziarie più avanzate al mondo in questo campo. Che la svolta stia realmente avvenendo lo dimostra, a livello mondiale, il volume totale di emissioni di prestiti, i cui prospetti contengono spesso riferimenti al «verde» o alla sostenibilità ambientale. Secondo quanto rilevato dall’organizzazione Climate Bonds Initiative, il volume di questi prestiti obbligazionari, dal 2015, è passato da meno di 100 miliardi di dollari a 700 miliardi di dollari nel 2020. Per il 2021 si prevede che il volume globale possa salire a circa 1000 miliardi di dollari. Una cifra imponente. Tuttavia, se si considera il volume globale di emissioni di prestiti,

che è di oltre 27’000 miliardi di dollari, si vede che il potenziale di crescita è ancora notevole. Si tratta generalmente di due tipi di emissioni. Da un lato ci sono prestiti che non prevedono una destinazione specifica del denaro raccolto, ma per i quali l’emittente si impegna a rispettare determinati criteri di sostenibilità. Dall’altro si tratta di prestiti «verdi», il cui ricavato deve essere destinato a precisi progetti di sostenibilità ambientale. Questi prestiti «verdi», globalmente, costituiscono già oggi circa la metà del totale di obbligazioni sostenibili. Anche in questo settore la crescita è considerevole. Recentemente anche l’Unione Europea è entrata in questo mercato. Lo scorso ottobre ha emesso il primo prestito «verde», con un volume di 12 miliardi di euro. L’accoglienza è stata più che positiva, poiché la domanda è stata di oltre dieci volte superiore all’offerta di titoli. La Confederazione svizzera, sull’onda di questi ottimi risultati, passerà presto anch’essa all’emissione di prestiti «verdi». A metà novembre, il Consiglio federale ha già preso una decisione di principio e, al più tardi entro la fine del 2022, deciderà in concreto il modo e i tempi di procedere. Probabilmente i prestiti della Confederazione saranno destinati

Ueli Maurer al summit Building Bridges a Ginevra, per una finanza sostenibile. (Keystone)

alla realizzazione di scopi precisi, ma non dovranno necessariamente provocare altri investimenti in progetti sostenibili. In sostanza, si tratta di un progetto di marketing. I soldi di queste obbligazioni finiranno in investimenti chiusi e destinati a scopi di sostenibilità ambientale. Di conseguenza, gli investimenti diretti della Confederazione in questi settori potranno diminuire. Si direbbe che così facendo la Con-

federazione, sempre con la massima prudenza, approfitti del momento per ottenere i migliori risultati. Ma dal punto di vista della politica finanziaria, la Confederazione non può e non deve creare occasioni per nuovi investimenti con uno scopo preciso. Un simile modo di agire contrasterebbe con la sovranità del Parlamento e anche con le regole del freno all’indebitamento. Inoltre, l’estendersi eventuale delle operazioni ad altri settori

potrebbe creare grossi problemi alla gestione democratica del bilancio. La tendenza universale verso emissioni «verdi» nasconde anche la possibilità del cosiddetto Greenwashing («lavaggio verde»), utilizzando cioè il concetto di sostenibilità per operazioni che solo apparentemente apportano benefici all’ambiente. La Confederazione si attiene qui alle regole dell’Associazione internazionale delle istituzioni del mercato di capitali, la quale ha stabilito verso quali istituzioni i capitali devono essere diretti: per esempio nuove fonti energetiche, prevenzione di inquinamento, efficienza energetica, mezzi di trasporto puliti, ecc. Le emissioni della Confederazione hanno un ruolo importante sul mercato. Nel 2020 sono stati emessi prestiti per 4,6 miliardi di franchi. In circolazione vi sono prestiti per un totale di 6,1 miliardi. Le spese annue dello Stato sono di circa 70 miliardi. A Berna non si sa ancora quale parte di questi prestiti potrà rispettare i criteri «verdi». Si fanno esempi per le ferrovie, il risanamento energetico di stabili federali o la promozione di nuove energie. All’inizio l’emissione di prestiti «verdi» sarà comunque limitata ad alcuni milioni di franchi all’anno, ma la strada è ormai tracciata, come è tracciata anche quella del mercato. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

Omicron: quanto pericolosa per l’economia?

Intervista ◆ L’economia è in forte ripresa. Christoph Sax, capo economista della Banca Migros, spiega se continuerà così e se l’inflazione e il franco forte diventeranno un problema Benita Vogel

L’anno scorso si sosteneva che se fosse arrivata una terza o quarta ondata l’economia ne avrebbe risentito. La Svizzera si trova già alla quinta ma, incredibilmente, tutto sta andando bene. Perché? Abbiamo imparato a convivere con la pandemia. Grazie alla vaccinazione e al numero crescente di guariti è stato possibile evitare ulteriori lockdown. Al tempo stesso molti Paesi, a partire dagli Stati Uniti, hanno aumentato la spesa pubblica per stimolare l’economia innescando, in parte, un boom dei consumi. Il commercio di merci si attesta, a livello mondiale, al 5% al di sopra del livello pre-crisi. Nel porto di Los Angeles, ad esempio, quest’anno è arrivato un 20% in più di container rispetto a due anni fa. La situazione rimane tuttavia precaria. La forte quinta ondata e soprattutto la nuova variante Omicron generano incertezza anche in Svizzera. Qual è il pericolo per l’economia? Un fattore decisivo è l’efficacia del vaccino contro la variante Omicron. I virologi ritengono che offra almeno una copertura contro la forma grave del virus. Se, contro ogni previsione, Omicron dovesse mostrarsi resistente al vaccino, dovremmo aspettare alcuni mesi per ottenere nuovi vaccini. Nel primo semestre assisteremmo probabilmente a una lieve flessione della performance economica. Durante tutto il 2022 l’economia svizzera dovrebbe crescere moderatamente anche a fronte di un simile scenario. I prezzi sono tornati a salire per la prima volta da anni. Negli Stati Uniti il tasso d’inflazione è oltre il 6%, nella zona euro a quasi il 5%. La preoccupa? L’inflazione ha due cause: da un lato i prezzi di molte merci e servizi sono precipitati all’inizio della pandemia, ma ora ricominciano a salire. Questo meccanismo è solo temporaneo. Dall’altro, i prezzi aumentano perché la domanda globale è molto alta. Molti produttori hanno problemi di consegna. In particolare scarseggiano materie prime, capacità di trasporto e semiconduttori. E questa situazione probabilmente perdurerà. Ritengo tuttavia che andrà attenuandosi nel corso del prossimo anno. Attualmente la crescita economica è molto alta, presto si normalizzerà e anche a livello mondiale verranno create nuove capacità. Queste arriveranno sul mercato in ogni caso quando la domanda tornerà a essere più moderata. È un po’ come un «ciclo del maiale». In breve: l’inflazione mi preoccupa poco. In generale, però, si manterrà un po’ al di sopra dei livelli registrati prima della pandemia. Significa che le banche centrali non devono chiudere i rubinetti della liquidità per contenere l’inflazione? Negli Stati Uniti sì, in Europa meno. La FED aumenterà gradualmente i tassi-guida nei prossimi due anni. Anche perché il Paese adotta sempre più una politica prociclica e stimola un’economia già positiva con programmi di rilancio. La pressione inflazionistica sarà dunque più persistente che nella zona euro. Qui il rincaro scenderà più rapidamente e l’aumento dei tassi-guida è meno ur-

ad appena lo 0,2% del PIL globale. Circa la metà dei danni si sono abbattuti sugli Stati Uniti. Nel 2021 le spese dovrebbero essere pressoché uguali. Tuttavia esistono altri danni che nessuno misura o che non sono quantificabili. Eppure il cambiamento climatico si ripercuote sulla crescita economica futura. Il cambiamento della vegetazione, il ritiro dei ghiacciai, l’erosione del suolo a causa delle forti piogge, lo scioglimento del permafrost o i futuri movimenti migratori causano costi difficili da calcolare. Swiss RE ha stimato l’impatto previsto dai rischi climatici sul PIL globale fino al 2050 rispetto a uno scenario senza cambiamento climatico. Il riassicuratore ha concluso che, se non si prendono provvedimenti, il PIL scenderà del 18%. Con alcune contromisure (limitare a 2,6°C l’aumento del riscaldamento globale) il PIL subirebbe una perdita pari al 14%. Se si raggiungono gli obiettivi stabiliti dall’accordo di Parigi (aumento inferiore al 2%), si conseguirebbe ancora un 4% in meno.

Christoph Sax: il rincaro nella zona euro ha reso più competitive le imprese svizzere d’esportazione. (Banca Migros)

gente. Per di più l’euro ha perso nettamente terreno rispetto al dollaro. E in Svizzera si può sperare in una fine dei tassi negativi? Secondo il principio «se non ora, quando»? Verrebbe da pensarlo. Invece no, di certo nei prossimi due anni i tassi resteranno quasi negativi. In Svizzera il tasso d’inflazione è solo dell’1,5% ed è in parte dovuto al fatto che l’aumento dei prezzi dei carburanti si ripercuote meno sul paniere svizzero. Anche il franco forte frena l’inflazione. La Banca nazionale svizzera (BNS) non aumenterà il suo tasso-guida prima della Banca Centrale Europea, e quest’ultima vuole mantenere la sua politica di tassi negativi. Da settimane un euro vale più o meno solo 1.05 franchi. Sette anni fa una quotazione del genere avrebbe sollevato un grido d’allarme nell’industria dell’export. Oggi non sembra più un problema. Cos’è successo? Ci sono diversi motivi. Da un lato, la domanda globale è a livelli altissimi. Dall’altro, il rincaro nella zona euro è da anni superiore alla Svizzera, e quindi lì i costi crescono più rapidamente. Ne risulta che la competitività delle imprese svizzere è maggiore rispetto alla concorrenza all’interno della zona euro. Al tempo stesso le imprese elvetiche hanno lavorato bene durante la crisi e hanno tenuto sotto controllo, o addirittura ridotto, i costi. Ora possono beneficiare della ripresa globale da una posizione più solida. A marzo termineranno le misure di emergenza in risposta alla pandemia, in particolare l’indennità per lavoro ridotto. Significa che assisteremo a licenziamenti di massa?

No, oggigiorno il lavoro ridotto viene richiesto molto meno. In primavera 2020 la differenza tra il tasso di disoccupati con lavoro ridotto e quelli senza era talvolta intorno a 17 punti percentuali. Oggi lo scarto è al massimo di mezzo punto percentuale. Senz’altro, a seconda dell’andamento della pandemia, potrebbe risalire ma non pensiamo che l’anno prossimo ci possa essere un’impennata della disoccupazione in Svizzera. I corsi azionari hanno raggiunto livelli vertiginosi. Ci sono stati anche dei crolli, ma solo a breve termine. Per quanto tempo continuerà così? Il motivo principale del clima positivo delle borse è che la maggior parte delle imprese è in ottima salute. La ripresa delle quotazioni riflette la forte crescita dei fatturati e degli utili. Numerose ditte sono riuscite a rispettare il margine malgrado l’aumento dei costi di produzione. Cosa comporta questo per l’anno borsistico 2022? Omicron e l’elevata inflazione sono motivo d’irrequietezza. Ecco perché gli alti e bassi si verificano a distanza ravvicinata. Eppure abbiamo fiducia che la tendenza al rialzo dei mercati azionari perdurerà. Per il 2022 prevediamo una crescita dell’economia mondiale del 4,5% circa. Parallelamente continuerà anche l’espansione dei fatturati e degli utili delle imprese. Cosa dovrebbero fare ora i piccoli investitori? Gli interessi restano bassi, conviene quindi passare, ad esempio, ai piani di risparmio in fondi. L’importante è suddividere il denaro in tranche, come una torta a strati, invece che

investirlo tutto in una sola volta. Seguendo il principio della torta a strati si è in grado di affrontare meglio eventuali rettifiche. Perché non investire nelle criptovalute? Potenzialmente generano rendimenti da sogno… … e perdite enormi. Chi compra le criptomonete deve mettere in preventivo forti fluttuazioni valutarie. Le criptovalute come i bitcoin sono di moda anche perché non sono legate ai governi o alla politica della banche centrali. Gli investitori acquistano così una fetta d’indipendenza. Nel frattempo sono numerosi anche gli investitori istituzionali che usano le criptovalute come categoria d’investimento. Per la maggior parte dei restanti investitori le criptovalute restano in primo luogo uno strumento speculativo. Investire in un immobile sarebbe molto lucrativo ma sono sempre meno le persone che possono permettersi una proprietà immobiliare. La pandemia ha gonfiato ulteriormente la domanda e, di conseguenza, i prezzi. Permangono tuttavia significative differenze in base alle regioni e ai settori. Le case unifamiliari vanno per la maggiore. Fintanto che sul fronte dei tassi nulla cambierà, la situazione del mercato immobiliare non subirà forti variazioni. Il 2021 è stato anche un anno segnato dalle catastrofi climatiche. I danni che provocano sono raramente argomento di discussione. Come mai? Da un punto di vista prettamente economico i danni causati dalle catastrofi climatiche restano moderati. Nel 2020 hanno raggiunto un totale di 210 miliardi di dollari, pari

Enorme. Ciò nonostante i governi non trovano un compromesso. Sì, e il peggioramento della qualità di vita non è nemmeno contemplato. Serve una coalizione di volenterosi – e in fretta. Il mondo occidentale deve dare qui l’esempio e dimezzare le emissioni di CO2 entro il 2030 per raggiungere il livello netto pari a zero entro il 2040. Solo così riusciremo a rispettare gli obiettivi globali climatici dell’accordo di Parigi. I grandi Paesi emergenti non vanno ancora coinvolti. Perché è ottimista che riusciremo a raggiungerli? La tecnologia avanza a grande velocità, il potenziale qui è enorme. Inoltre aumenta la pressione sociale e politica sulle imprese. In Svizzera, ad esempio, le grandi imprese, come anche la Banca Migros, devono realizzare la rendicontazione dei rischi legati al cambiamento climatico per l’esercizio 2023 probabilmente a partire dal 2024. Devono comunicare, per citarne alcuni, quale impatto ha la loro attività sul clima e sull’ambiente. Infine i prezzi per i certificati di emissioni di CO2 a livello europeo sono cresciuti del 159% in un anno, un segnale importante per il mercato. Cosa fa la Banca Migros per aumentare la sostenibilità? In materia d’investimento l’assetto sostenibile della nostra gamma di prodotti – dai fondi azionari a quelli strategici fino ai mandati di gestione patrimoniale – procede speditamente. Ci siamo altresì impegnati ad attuare l’accordo di Parigi sul clima nel quadro del Science Based Target Initiative (SBTI). È per questo che nel nostro ruolo di grande banca ipotecaria vogliamo, tra le altre cose, ridurre l’impronta ecologica di CO2 delle ipoteche di oltre la metà entro il 2030. Inoltre la Banca Migros ha lanciato una nuova soluzione di finanziamento nazionale con Helion, lo specialista nel campo dell’impiantistica dello stabile, per promuovere il risanamento sostenibile degli edifici.


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MONDO MIGROS

Un classico rivisitato È il classico tra gli aperitivi: il cornetto al prosciutto. Grazie alla direttrice della Società Vegana della Svizzera e all’industria propria della Migros, questa prelibatezza di successo è ora disponibile anche in versione vegana Testo: Angela Obrist Foto: Lukas Lienhard

«I cornetti vegani al prosciutto sarebbero una cosa fantastica», ha risposto Laura Lombardini alla rivista Migros quasi un anno fa, quando le è stato chiesto cosa le mancasse nel negozio. Lombardini è a capo della Società Vegana della Svizzera e segue una dieta vegana da otto anni. «Quando penso ai cornetti al prosciutto ricordo immediatamente le feste in famiglia della mia infanzia, perché i cornetti ne facevano semplicemente parte», dice la 35enne a giustificazione del suo desiderio. Come Lombardini, sempre più persone oggi si alimentano a base vegetale, rinunciando quindi anche ad altri prodotti animali oltre che alla carne. La Migros soddisfa questa esigenza. Il suo assortimento di prodotti vegani, dal latte ai sostitutivi della carne fino all’alternativa vegana alle «uova» sode, è in costante crescita. «Mi piacerebbe avere ancora più prodotti pronti e surgelati che siano vegani, perché anche per i vegani nella vita quotidiana alle volte le cose devono andare di fretta», dice oggi Lombardini. A partire da subito, può acquistare i cornetti al prosciutto alla Migros. Il suo desi-

derio espresso nella rivista Migros infatti è giunto all’orecchio della panetteria Migros Jowa, che lo ha esaudito: «Le novità vegane sono di grande importanza per noi. Il desiderio di Laura per noi è stata una sfida che abbiamo accolto con slancio», dice Christina Fullerlove, responsabile di prodotto nell’ambito Convenience presso la Jowa. Con una nuova miscela di spezie, gli sviluppatori di prodotti si sono messi al lavoro già in primavera. Cuochi e panettieri hanno creato diverse ricette per i cornetti vegani per l’aperitivo Happy Hour. «Il nostro obiettivo era quello di creare un cornetto che avesse lo stesso sapore di quello originale. Questa è stata anche la nostra sfida più grande», spiega Fullerlove. Oltre all’impasto e al ripieno senza carne a base di soia, è stato creato appositamente anche un mix di spezie vegano. Il team ha sperimentato a lungo, assaggiato le piccole creazioni e gradualmente raffinato la ricetta. «Un prodotto come questo richiede un lavoro molto più dettagliato rispetto ad altre innovazioni, ma dopo qualche giro in più ce l’abbiamo fatta», dice la responsabile di prodotto della Jowa. I primi cornetti vegani per l’aperi-

tivo sono stati realizzati e degustati nella formulazione attuale già in estate. Erano del tutto simili ai loro modelli, nonostante il croccante manto a base di pasta sfoglia vegana e i dadini di soia al posto del ripieno di prosciutto. Anche il nome era già deciso: V-Love Happytizer. Pienamente convincenti durante il test

La Migros poco dopo ha inviato a Laura Lombardini, che aveva lanciato l’idea, alcuni Happytizer da provare. Nella cucina della Società Vegana, Lombardini ha messo i cornetti in forno e poi ha dato l’avvio alla degustazione. «Il gusto mi ha totalmente stupito, tanto che per rassicurarmi ho chiesto alla Jowa se mi avessero effettivamente mandato dei cornetti vegani», ricorda. Dopo la conferma da parte della Jowa, l’aperitivo vegano ha potuto iniziare. E ora la Società Vegana e altri clienti possono ripetere lo sfizioso evento, perché gli Happytizer sono disponibili a partire da subito nel reparto surgelati delle maggiori filiali Migros. Laura Lombardini dice: «Sono davvero felice. A febbraio non avrei mai pensato che il prodotto dei miei sogni sarebbe diventato realtà in pochi mesi.»

Prodotti vegani alla Migros Migros offre attualmente 109 prodotti con il marchio V-Love per l’alimentazione a base vegetale. L’assortimento viene continuamente ampliato. migros.ch/vlove

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ATTUALITÀ

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Un tiramisù per l’imprenditoria ticinese ◆

Nei pressi della stazione della cittadina della Bassa zurighese dove abito c’è un edificio, costruito una decina di anni fa, quando l’economia del Canton Zurigo stava scrollandosi di dosso le conseguenze negative della crisi finanziaria. Il promotore di quella costruzione, che allora non navigava nell’oro, ha fatto scrivere sulla facciata dell’edificio di 5 piani, dal basso verso l’alto «tiramisù». Il tiramisù, come sappiamo, è un dolce apprezzato della cucina italiana. Ma può anche essere interpretato, in questo caso, come un’esortazione per il futuro. L’investitore sperava che quella costruzione lo avrebbe tirato su e fuori dalle grane in cui si trovava. Il riferimento a questo tiramisù mi è venuto spontaneo sfogliando le pagine del volume 101 storie di successo in Ticino pubblicato di recente da tre case editrici ticinesi. Sono praticamente 101 interviste a titolari di ditte, istitu-

zioni e eventi ticinesi di successo. Potrebbero essere i «tiramisù» di cui ha bisogno al momento la nostra imprenditoria. Nel libro il lettore interessato alle vicende di queste organizzazioni troverà purtroppo poche indicazioni sulla loro attività. Non vi sono né risultati economici delle aziende, né indicazioni di dettaglio sui loro prodotti e servizi, né dati sulla dimensione e la portata dei loro mercati. Insomma, chi è interessato a conoscere il tessuto produttivo del Cantone non è che apprenda molto, leggendo queste interviste. Questo anche perché il campione di aziende passate in rassegna non è rappresentativo che di pochi rami dell’economia cantonale. A prevalere sono le aziende dell’edilizia e del genio civile, dell’artigianato delle costruzioni (dai pittori, ai falegnami, agli installatori, ecc.) e dell’arredamento che erano la nostra base economica 50 anni fa e che oggi costituiscono, al massimo,

il 20 per cento, del totale delle aziende. I rami del terziario, che pure garantiscono all’economia del Cantone più del 70 per cento del suo prodotto interno lordo, sono largamente sottorappresentati. Quasi assenti sono le grandi aziende del settore pubblico e para-pubblico che sono quelle che, in Ticino, assicurano l’occupazione. Si tratta di una scelta voluta, perché nel libro figurano soprattutto le aziende di una certa età. A leggere le interviste, sembrerebbe che i criteri del successo siano infatti due: il primo è che l’azienda deve essere di famiglia e il secondo che la stessa sia riuscita a sopravvivere per almeno due generazioni alle difficoltà che si incontrano quotidianamente sul mercato. Come spiega il prof. Colombo dell’Usi, nella sua introduzione, il successo di un’azienda si può misurare solo in chiave multigenerazionale. In altre parole, un’azienda che ha succes-

so è un’azienda con una durata di vita che va al di là di quella del fondatore. Sempre a detta del prof. Colombo, le aziende famigliari hanno maggior successo di quelle non famigliari. Una tesi molto interessante che qui viene dimostrata con l’esempio degli imprenditori intervistati. La pubblicazione è quindi da considerare come un contributo all’analisi dell’imprenditorialità famigliare nell’economia ticinese. Nella stessa, oggi come ieri e l’altro ieri, prevalgono per l’appunto le aziende di piccola e media dimensione a gestione famigliare. Intendiamoci: il Ticino non è ancora all’altezza dei Cantoni confinanti nei quali non è raro incontrare aziende famigliari pluricentenarie. Come ci informano le interviste raccolte in questo volume, anche in Ticino esistono però aziende famigliari multigenerazionali. Il loro successo si misura non soltanto con la capacità, che hanno avuto, di resistere

alla concorrenza e restare sul mercato, ma anche con l’avanzamento realizzato dalla famiglia sulla scala sociale. Al nonno che, un certo giorno della sua vita, per mille e una ragione, ha deciso di creare l’azienda, sono succeduti i figli che, normalmente con conoscenze professionali maggiori, hanno assicurato la prima tornata di espansione. La terza generazione, quella dei nipoti, quando c’è, sembra sia in grado di avviare l’azienda verso la specializzazione. Oppure, invece, come affermano molti economisti aziendali sarà quella che metterà fine alle iniziative imprenditoriali dei nonni. Con i tempi che corrono questo è purtroppo il destino di molte aziende, famigliari e non, anche nel nostro Cantone. Tiramisù del tipo di queste 101 storie di successo sono però lì per restituire un certo ottimismo. Anche nei confronti del problema della successione dalla seconda alla terza generazione.

In&Outlet

di Aldo Cazzullo

Le donne che sognano l’Eliseo ◆

Per la prima volta nella storia, i due tradizionali partiti francesi candidano entrambi una donna alla presidenza della Repubblica. E una di loro può essere la grande sorpresa delle elezioni del 2022. I neogollisti, adesso Repubblicani, mettono in campo Valérie Pécresse, presidente dell’Ile-de-France, la Regione di Parigi dove vivono un quinto dei francesi e che produce un terzo della ricchezza nazionale. Bionda, elegante, un po’ distanziante, Pécresse si proclama «due terzi Merkel, un terzo Thatcher». Come a dire, di destra ma non troppo. È infatti più moderata degli altri due candidati di destra che più o meno la appaiono nei sondaggi: il polemista anti-islamico Eric Zemmour, che ha chiamato il suo partito Reconquête, Riconquista; e la solita Marine Le Pen, che punta al secondo turno contro il presidente in carica, Emmanuel Macron (si vota il 10 e il 24 aprile 2022). Pécresse può

essere la rivelazione della campagna elettorale. Il suo posizionamento politico è considerato sin troppo vicino a quello di Macron, che presidia il centro. Però è già uscito un sondaggio che la dà al secondo turno, staccata di poco da Macron, e vincente al ballottaggio, grazie ai voti in arrivo da destra. I socialisti invece candidano Anne Hidalgo, la sindaca della capitale. Due parigine insomma, anche se Hidalgo è nata in Andalusia ed è cresciuta a Lione. E Parigi non è molto amata nel resto della Francia. Hidalgo nei sondaggi è poco sopra il 3%; non a caso ha proposto agli altri candidati di sinistra di fare insieme le primarie della Gauche, ottenendo in risposta solo dei no. Poi c’è la faida nel campo dell’estrema destra, tra Marine Le Pen e sua nipote Marion Maréchal (Marine è la zia). Marine è nata nel 1968 ed è la terza figlia di Jean-Marie. Marion Maréchal, 32 anni, è figlia della secondogenita del

Il presente come storia

fondatore, Yann. Il Front national, che ora si chiama Rassemblement, non è un partito. È un clan. Una famigliona dove ci si detesta. Il patriarca del resto l’ha teorizzato: «Il potere e la grandezza nascono dalla lotta. Gli europei si sono combattuti per decine di secoli e hanno costruito una civiltà che ha dominato il mondo intero. Ora hanno fatto la pace, sono divenuti imbelli e non contano più niente». I Le Pen sono per la guerra. Jean-Marie comunque l’ha persa ed è stato espulso. Marion è cattolica. Marine è laica, ha divorziato due volte, difende l’aborto. Marion è vandeana. Marine è rivoluzionaria. Marion ha manifestato contro i matrimoni omosessuali. Marine ha portato al vertice del partito omosessuali dichiarati. Marion è conservatrice, ai limiti della reazione. Marine è movimentista, ai limiti della confusione. Non a caso, alle regionali del 2015 (all’indomani dell’attac-

co terroristico al Bataclan) Marion ha superato il 40% nella Regione Paca, Provenza-Alpi-Costa azzurra, culla dell’immigrazione magrebina, da anni feudo della destra per quanto divisa. Mentre Marine ha conquistato percentuali ancora più alte nel Nord-Pas de Calais (cui ora è stata aggregata la Piccardia), terra un tempo rossa di miniere e di industrie, ora desertificata e disperata. Marine Le Pen rifiuta di definirsi un’estremista. Per lei la divisione non passa più tra la destra e la sinistra, ma tra le élites e il popolo, tra gli enarchi fautori del libero mercato, dell’Europa unita e della società multietnica e la Francia profonda, «Paese di razza bianca», sorvolata e spaventata dalla mondializzazione, dagli emigrati, dal terrorismo. Non a caso il Rassemblement è quasi al 50% tra gli operai e nelle banlieues popolari mentre nel centro di Parigi non arriva al 20. Accusare Marine e

Marion di fascismo, come da sempre tende a fare la sinistra francese, non è solo un errore tattico, è un errore storico. Il Front national non è figlio della Francia filonazista e clericale di Vichy. Jean Marie Le Pen tentava – a 16 anni – di arruolarsi nelle file della Resistenza quando Mitterrand riceveva dalle mani del maresciallo Pétain la francisque, massima onorificenza del regime. Il Front è figlio dell’Algeria francese e dell’Oas, l’Organization de l’armée secrète che tentò di assassinare De Gaulle. È figlio delle sconfitte in Indocina (dove Jean-Marie combatté tra i paracadutisti), del crollo dell’impero coloniale, della frustrazione nazionalista; e i suoi nemici mortali, almeno fino ad ora, non sono mai stati i socialisti ma i gollisti in tutte le loro declinazioni. E ora proprio una gollista, appunto Valérie Pécresse, potrebbe essere la prima donna a diventare presidente della Francia.

di Orazio Martinetti

Questo amaro e delizioso Paese ◆

Non c’è solo la pandemia con le sue sempre nuove varianti nelle nostre ansie quotidiane. C’è anche l’«infodemia», che l’ha preceduta e che ora l’accompagna al suo massimo grado. Giorno e notte siamo inseguiti, pedinati, oppressi da una sovrabbondanza di notizie sotto forma di testi, voci, immagini. Un martellamento che entra nelle stanze con l’impeto di un’alluvione. Il pestifero virus, certo; ma anche la sorte degli uiguri, la crisi del Venezuela, la morte delle foreste in Alaska, le mire della Cina su Taiwan, in un crescendo che finisce per generare sensi di colpa, per tacere del «climate change» che pende sul nostro capo come una spada di Damocle. Davvero siamo tutti colpevoli, come sosteneva Camus? Inermi di fronte a tante sventure (la comunicazione globale ha ristretto il mondo) attiviamo le nostre difese: indignazione, rifiuto, indifferen-

za, assuefazione. In qualche modo si stacca la spina, si chiede di fermare la giostra, nella convinzione di poter lacerare le fibre di questo enorme bozzolo che tutto avvolge e soffoca, in modo da permettere, almeno per un momento, di riprendere fiato. Ma è davvero possibile la disconnessione nel nostro congestionato balcone svizzero-italiano, esposto a tutte le correnti d’aria possibili e immaginabili, da nord e da sud? Esiste da qualche parte un eremo che smorzi i cadenzati echi delle «breaking news»? No, un riparo del genere non esiste e nemmeno vale la pena di costruirlo. Meglio attrezzare le difese con le armi del raziocinio e della critica, magari riprendendo insegnamenti e avvertimenti già espressi in passato dal alcuni nostri intellettuali attivi nel settore. È con questo spirito che abbiamo sfogliato due pubblicazioni recenti,

testi che ricordano l’operato di due dirigenti radiotelevisivi di lungo corso, nati subito dopo la prima guerra mondiale: Bixio Candolfi (19192018) ed Eros Bellinelli (1920-2019). Una vita lunga e alacre la loro, trascorsa tra radio Monteceneri e gli studi televisivi, alla costante ricerca di un equilibrio, mai definitivamente raggiunto e fissato, tra la sfera locale e gli orizzonti globali. E non è un caso che l’espressione campeggiante su entrambe le copertine sia «confini»: Da Comologno al mondo. Bixio Candolfi senza confini, a cura di Danilo Baratti, Patrizia Candolfi, Diana Rüesch e Karin Stefanski («Cartevive» n. 60, marzo 2020); Eros Bellinelli. Oltre confini e frontiere, volume curato dai figli Luca e Matteo per le edizioni Pantarei (2021). Confini da scavalcare per non rimanere prigionieri del localismo, come invece chiedevano – e ancora chiedono a

gran voce – i cultori dell’orto di casa; barriere da abbattere per far circolare aria fresca, generatrice di idee e di progetti. La radiotelevisione è da sempre un territorio sismico, laboratorio e specchio di incessanti innovazioni tecnologiche. Ora siamo al digitale, domani chissà. Ma non sarebbe saggio, per una comunità come la nostra, gettarsi nelle braccia dell’infosfera senza aggrapparsi a qualche salvagente. Osservava Bellinelli nel dicembre del 1984, ricordando i meriti del collega-amico Candolfi che in quell’anno concludeva la sua carriera professionale alla Rtsi: «La cultura, oltre che un modo di essere, è anche un modo di fare: il rispetto della buona lingua, per esempio, senza essere inutilmente fiscali; il rispetto delle opinioni altrui, che vale per chi parla e per chi ascolta; il rispetto della competenza, che la malafede non deve permetter-

si di trasformare in parzialità; il rispetto della responsabilità degli operatori radiotelevisivi e anche di quelle del pubblico». Riecheggiava in queste parole anche l’esperienza, a tratti sconfortante, attraversata da entrambi negli anni 70, allorché l’ente finì sotto il fuoco incrociato della destra per bocca dell’Alleanza liberi e svizzeri e della sinistra post-Sessantotto. In quel frangente, Candolfi volle difendere con forza la linea liberale, laica e illuminata che aveva orientato l’ente fino a quel momento. Tanti programmi, tante emissioni, da «Per i lavoratori italiani in Svizzera» (Bellinelli) alla fortunatissima «Costa dei barbari» (Candolfi). Anche dissensi e divergenze, certo. Ma senza mai rinunciare alla legge morale che ogni giornalista doveva custodire nella propria coscienza: «Rendere più abitabile questo amaro e delizioso Paese».


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CULTURA ●

Nei caffè di Berlino La berlinese Tanja Dückers ci offre un tour nella capitale dei caffè e delle dolci prelibatezze

Stravinsky il pioniere Ricorre quest’anno il cinquantesimo dalla morte del grande compositore e precursore russo

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Il genio del cioccolato Il nostro viaggio alla scoperta delle eccellenze svizzere ci porta da Rodolphe Lindt

Strenne su CD Cosa ascoltare o regalare per Natale? Abbiamo scelto per voi alcune novità musicali nostrane

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Carlo Bossoli, Veduta sul lago di Lugano (dal Monte San Giorgio), ante 1860 olio su tavola, 31,5 x 94 cm. (Collezione Luciano Cattaneo)

Alla scoperta del paesaggio svizzero

Mostre

Bellinzona e Rancate celebrano il legame tra uomo e territorio

Alessia Brughera

Da sempre la rappresentazione del paesaggio è lo sguardo che l’uomo pone sul creato, è l’espressione del suo desiderio di comprendere il mistero dell’esistenza attraverso l’osservazione e la contemplazione del mondo. Con la sua natura suggestiva la Svizzera ha regalato a tanti pittori panorami unici da ritrarre con il loro pennello, diventando così un soggetto capace di suggerire all’arte nuovi spunti e visioni e di rispecchiare i mutamenti e gli sviluppi della civiltà. Lo testimonia bene la mostra allestita nelle sale del Museo Villa dei Cedri a Bellinzona, vero e proprio omaggio alla pittura paesaggistica elvetica racchiusa tra gli estremi temporali della metà del XIX secolo e del primo conflitto mondiale. Un periodo particolare, questo, contraddistinto dall’intensificarsi dei processi di industrializzazione e di urbanizzazione nonché dall’espansione della mobilità e del turismo, che inevitabilmente modificano in maniera profonda l’ambiente. Non è però soltanto il paesaggio a trasformarsi, cambia altresì la percezione che di esso ha l’artista: lo sguardo sulla natura si fa più obiettivo e autentico, accompagnato da tecniche e mezzi espressivi nati da ricerche formali innovative, anche grazie alle preziose conquiste nell’ambito della fotografia. La transizione dalle ultime propaggini del Romanticismo alla nascita dell’arte moderna viene ben documentata nella rassegna bellinzonese con una nutrita selezione di paesaggi di autori svizzeri, molti dei quali

hanno amalgamato gli stimoli provenienti dai più rilevanti centri artistici dell’epoca, come Parigi, Monaco o Milano, con i caratteri propri della pittura elvetica, sollecitati dalla proficua rete di scambi e amicizie che hanno saputo intessere tra loro. Ecco allora le solenni vedute ottocentesche dei ginevrini François Diday e Alexandre Calame, due figure molto abili nel trasmettere l’immagine di una natura dominata dalla montagna, rimarcando il tratto distintivo del territorio svizzero e temprando così l’identità del neonato Stato federale. Nondimeno l’interesse non è rivolto solo ai panorami montani. Il basilese Hans Sandreuter, ad esempio, è presente in mostra con il bel dipinto Im Kaltbrunnental, del 1880, che immortala con un taglio già piuttosto moderno un lussureggiante scorcio di vegetazione boschiva. Dal cupo e visionario Ruine am Meer di Arnold Böcklin si passa alle opere di Barthélemy Menn, artista di Ginevra a cui si deve l’introduzione nel nostro Paese della pittura en plein air vicina alle modalità di rappresentazione della natura diffusa dal francese Camille Corot e dalla scuola di Barbizon. I dipinti di Ferdinand Hodler, poi, maestro che più di ogni altro rinnova la pittura paesaggistica elvetica in termini di composizione e di colore, ci catapultano in piena modernità. Con lui ci sono anche Eduard Boss, Hans Emmenegger, Cuno Amiet e Giovanni Giacometti, audaci sperimentatori, con un occhio sempre rivolto

all’estetica delle avanguardie europee, in grado di rivoluzionare la raffigurazione di questo genere artistico con un linguaggio che si colloca tra i più interessanti esiti dell’epoca a livello internazionale. Ancora al paesaggio tra metà Ottocento e metà Novecento è dedicata la mostra realizzata alla Pinacoteca cantonale Giovanni Züst di Rancate, rassegna che se da una parte restringe il campo di indagine al territorio ticinese, dall’altra ne dilata la prospettiva di studio. Quella di Rancate è infatti un’esposizione che fa dell’interdisciplinarietà la sua forza, esplorando il paesaggio del nostro cantone non soltanto attraverso il lavoro di tanti artisti che in quel periodo storico lo hanno rappresentato nelle loro opere, ma chiamando a raccolta anche i preziosi risultati dell’attività di naturalisti, geografi, uomini di scienza e storici dell’arte che lo hanno percorso e analizzato con gli strumenti tipici del loro mestiere, scoprendone e descrivendone caratteristiche utili alla sua conoscenza. Frutto dell’interazione tra la natura propria del luogo e l’attività dell’uomo, il paesaggio è un elemento in evoluzione costante su cui l’individuo continua ad agire modificandolo e attribuendogli precisi significati. A evocare questa delicata relazione che perdura da secoli è stato emblematicamente esposto il menhir rinvenuto di recente a Claro, una stele antropomorfa risalente a circa 4500 anni fa che costituisce la più antica testimonianza di statuaria in Ticino e di conseguenza il primo esempio di rap-

porto simbolico e culturale tra essere umano e territorio. A inizio percorso, insieme alle prime elaborazioni cartografiche del nostro cantone sono esposti gli strumenti utilizzati per realizzarle, così come alcuni panorami dei più celebri cartografi e artisti di quel periodo che colpiscono sia per la precisione dei dettagli sia per l’attenzione all’estetica del prodotto finale. Nel prosieguo della mostra risultano di grande interesse le opere realizzate dall’architetto Hermann Fietz, valido collaboratore di quel Johann Rudolf Rahn che è stato il padre della storiografia artistica elvetica. Proprio a Fietz si devono molti disegni e acquerelli che illustrano con estrema accuratezza chiese, abitazioni, vicoli di villaggi e scorci lacustri, da lui ritratti negli oltre quarant’anni di frequentazione della nostra regione. Particolarmente ricca di spunti e materiali è poi la sezione naturalistica della rassegna, un racconto sul paesaggio ticinese narrato attraverso il lavoro dei più illustri uomini di scienza del cantone (basti citare su tutti Luigi Lavizzari) che hanno descritto il territorio raccogliendo e catalogando le sue più diverse componenti. Belle ad esempio, le tavole scientifiche sui funghi realizzate da Carlo Benzoni, o, ancora, l’erbario di Alberto Franzoni, politico, avvocato e notaio che ha condotto studi di botanica sulla flora della Svizzera meridionale e che è riuscito a radunare più di undicimila campioni di piante, muschi, licheni e funghi provenienti da tutto il Ticino.

La corposa selezione di dipinti riunita a completamento dell’itinerario offre infine uno sguardo più prettamente artistico sul nostro territorio annoverando molti celebri maestri (alcuni dei quali, come Luigi Rossi, Edoardo Berta e Filippo Franzoni sono presenti anche a Bellinzona) accanto a figure meno note benché molto valenti nel riconsegnare sulla tela le peculiarità del paesaggio ticinese. I soggetti non sono soltanto le vedute lacustri ma anche i panorami alpini e glaciali, i boschi, le selve castanili, i vigneti, le campagne e i contadini: tante diverse facce del variegato ambiente naturale del cantone che questi pittori scoprono e interpretano, ricercando una dimensione artistica identitaria e rafforzando il loro legame con la terra d’origine. Dove e quando Paesaggi a confronto. Arte, natura e società in Svizzera 1850-1920. Museo Villa dei Cedri, Bellinzona. Fino al 16 gennaio 2022. Orari: mercoledì – giovedì 14.00-18.00; venerdì – domenica e festivi 10.00-18.00; lunedì e martedì chiuso. www.villacedri.ch L’incanto del paesaggio. Disegno, arte, tecnologia. Naturalisti, geografi, storici dell’arte nel Ticino del passato prossimo. Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, Rancate. Fino al 25 aprile 2022. Orari: da martedì a venerdì 9.00-12.00/14.0018.00; sabato, domenica e festivi 10.00-12.00/14.00-18.00; chiuso il lunedì. www.ti.ch/zuest


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CULTURA

Berlino città dolce Editoria

Nel suo libro la berlinese Tanja Dückers racconta storia, tradizioni e luoghi legati ai dolci

Natascha Fioretti

Goethe a proposito dei berlinesi diceva: «lì ci abita un’umanità talmente audace che con le prelibatezze non si va lontano, per sopravvivere bisogna sapersi difendere ed essere un tantino rudi». Tanja Dückers, nata nel 1968 a Wilmersdorf, oggi con la sua famiglia di casa a Prenzlauerberg, giornalista e scrittrice, è famosa per aver raccontato nei suoi romanzi, Hausers Zimmer per citarne uno, atmosfere, abitudini, stili di vita della parte ovest della città durante gli anni del muro. Attenta anche alle questioni sociali e alla politica, da qualche anno segue un’altra delle sue passioni. Quando ho avuto il piacere di incontrarla nella sua casa berlinese dagli alti soffitti, le grandi finestre e il parquet antico che a ogni passo emette scricchiolii come fossero musica, ci siamo subito scoperte affini. Non tanto o non solo nella scrittura: a stabilire una forte intesa tra noi è stata la cioccolata. Nel momento in cui Tanja Dückers mi ha confidato di essere una chocoholic ho capito, dopo tanti anni, di aver trovato la definizione giusta per me. Golosità a parte, ho sempre pensato che la letteratura si sposasse bene con il caffè e la cioccolata. Se non ci ricordiamo quale piacere possano sprigionare i dolci basta rileggere alcune righe dell’infanzia berlinese di Walter Benjamin attorno al millenovecento: «Attraverso la fessura della dispensa appena socchiusa la mia mano si protendeva come un amante attraverso la notte. Quando poi si era orientata nell’oscurità, cercava al tatto zucchero o mandorle, sultanina o marmellata. E come l’amante, prima di baciarla, abbraccia l’amata, così il toccarli era un primo approccio, avanti che la bocca ne assaporasse la delizia». Non gli sarebbe dispiaciuto, dunque, il nuovo lavoro di Tanja Dückers approdato in libreria proprio in queste settimane in cui l’autrice descrive i lati dolci della sua città decantando tra l’altro la sua antica tradizione e cultura in fatto di caffè e manifattura cioccolatiera. Aspetti che conosce bene visto che da qualche anno ha fondato la sua personale etichetta «Preussisch Süß» e con la collaborazione del mastro cioccolataio Cristoph Wohlfarth produce delle piccole tavolette di diversi gusti ispirati ognuna a un quartiere (Bezirk) della città. Quella dedicata a Prenzlauerberg ne sottolinea il carattere accogliente per le famiglie e i bimbi. Dalla confezione di colore giallo, sul

retro il testo preparato ad hoc dalla scrittrice recita «Abbiamo combinato mandorle tostate e delicati baccelli di vaniglia con rotonde nuance di cioccolato al latte». Le tavolette di Zehlendorf e Schöneberg sono invece le uniche al cioccolato bianco, la prima combinata con un aroma di violette, la seconda di petali rosa per renderne meglio lo spirito sofisticato, in ricordo anche di David Bowie, che soggiornò a Schöneberg dal 1976 al 1978 e vi compose la sua indimenticabile trilogia berlinese. Ma veniamo al libro, sorta di guida zuccherosa alla scoperta di caffè, pasticcerie e cioccolaterie di ogni tipo, alcune sopravvissute alla guerra e gestite in terza o quarta generazione con tanto di ricette tramandate in gran segreto, altre appena aperte, alcune nel frattempo già chiuse a causa della pandemia. Realtà grandi e piccole, più o meno note, ci raccontano della capitale da una prospettiva inedita e curiosa. Scopriamo il suo carattere multiculturale attraverso i caffè portoghesi o le pasticcerie con specialità giapponesi, greche, svedesi, francesi, siriane, ognuna con la sua particolare storia umana e artigianale. In barba alle credenze che riconoscono all’impero prussiano soprattutto una supremazia in campo militare, Tanja Dückers rivendica pure un’antica tradizione cioccolatiera e una profonda cultura dei caffè che già animavano la Berlino di Federico III. Tempi in cui il cacao era riservato a re, imperatori e nobili mentre il popolo credeva che il nettare degli dei avesse delle proprietà curative. Ecco allora che si trovava a caro prezzo nelle farmacie, anche quella di Theodor Fontane, farmacia storica che oggi si può ancora ammirare nel quartiere artistico di Bethanien a Kreuzberg. È a partire da metà Novecento che il cacao raggiunge la borghesia grazie anche a pasticceri svizzeri come gli Sprüngli, che nel 1845 inventano la tavoletta (v. art. a pag. 41). Nascono così le prime manifatture cioccolatiere berlinesi come Erich Hamman, specializzata nella produzione di cioccolata scura, Sawade, famosa per le sue praline, la Confiserie Reichert, la pasticceria Buchwald e Fassbender. Quest’ultima, oggi denominata Fassbender und Rausch, tra le tante proposte nel libro è quella che sicuramente merita una visita. Sono d’accordo con Tanja Dückers quando definisce il nego-

zio su tre piani a Gendarmenmarkt la piazza più elegante e suggestiva di Berlino Mitte, la cattedrale del cioccolato. Se ci andate in questo periodo potete ammirare la Gedächtnisskirche (130 kg di cioccolata) o la Porta di Brandeburgo (405 kg di cioccolata e 340 ore di lavoro) con la quadriglia che sembra spiccare il volo da un momento all’altro. Un vero tempio, dunque, in cui trovare raffinate praline, originali combinazioni, panpepato e marzapane ricoperti di cioccolato. E se volete prolungare l’esperienza magari anche per ripararvi da quel vento gelido berlinese che spira da nord (fastidioso lo definiva già il caro Franz Biberkopf in Berlin Alexanderplatz), potete sedervi al caffè del terzo piano. Da Gendarmenmarkt a Kurfürstendamm, l’autrice ci ricorda il Romanisches Café, luogo d’incontro e di lavoro prediletto di numerosi artisti all’inizio del Novecento. Frequentatori appassionati e abituali ne erano Gottfried Benn, Else Lasker-Schüler, Bertolt Brecht, Mascha Kaleko. Erich Kästner sulla «Neue Leipziger Zeitung» nel 1928 lo definì il Rendezvous degli artisti, ma anche la sala d’attesa dei talenti. Aspettando che la fortuna bussasse al loro tavolo, che giungesse una proposta di ingaggio, attori, pittori e scrittori sorseggiavano caffè, leggevano montagne di giornali, si univano in chiacchiere e discussioni. Nella storia che l’autrice traccia di

una Berlino zuccherosa c’è anche il racconto di una pseudo cioccolata che la DDR produceva con ingredienti alternativi e scadenti per poi delineare come la riunificazione abbia dato forte slancio e impulso al settore portando i caffè in città a quota 9000. Non mancano le pasticcerie, la storica Konditorei Buchwald al numero 29 di Bartningallee, nata 170 anni fa e oggi gestita in quinta generazione da Andrea Tönges. La specialità è il Baumkuchen, dolce particolarmente amato dai berlinesi, la cui forma ricorda il tronco di un albero. Ricoperto da un fine strato di cioccolato al latte e condito da una nota di rum nell’impasto, il Baumkuchen compare nei ricordi d’infanzia di Fontane (Meine Kinderjahre). Del dolce natalizio il poeta e scrittore del realismo tedesco rinoma la croccantezza, i giochi di colore dell’impasto, dall’ocra più scuro al giallo più chiaro. Ne decanta fasi e tempi di lavorazione «ogni cosa era investita di un significato simbolico. Dalla riuscita di questo magnifico gioiello dipendeva il sentimento di fiducia nella riuscita della festa. Il Baumkuchen prediva l’oroscopo, l’andamento delle festività». Il Natale è un tema amato dalla letteratura tedesca. Per Rilke, che a Berlino studiò storia dell’arte, era la festa più importante di tutto l’anno. Amava trascorrerla nel silenzio delle sue poesie e delle sue lettere, che scriveva a famigliari e amici, tra questi Anton Kippenberg, Lou Andre-

as-Salomé e Franz Xaver Kappus. In una risposta alla moglie Clara scrisse: «La tua lettera era come una torta natalizia… colma di farina, spezie e mandorle». Tradizioni a parte, lo dicevo prima, ampio spazio nel libro viene dato alle giovani realtà che animano la multiculturalità berlinese nei diversi distretti cittadini. Il Cafè di Shin Komine realizza i suoi dolci unendo ricette della pasticceria francese con esotici ingredienti giapponesi come la gelatina Yuzu oppure Godis, dal nome della scimmietta di Pippi, che dal 2011 a Friedrichshain propone una selezione originale di dolci scandinavi. Questa esplosione di luoghi dolci e prelibati, in larga parte a conduzione femminile, non è però soltanto da attribuire a un rinnovato amore per gli zuccheri. Tanja Dückers ci racconta di clienti attenti alla provenienza e alla sostenibilità dei prodotti, di un ritorno al classico, ai dolci fatti in casa con ingredienti di qualità e a km zero come le torte di Frau Behrens a Friedenau. Alla variante del consumo d’asporto mordi e fuggi si sostituisce la voglia di sedersi e gustarsi la cioccolata calda o il caffè nelle romantiche tazze di porcellana come si faceva una volta nelle cucine delle nostre nonne, raccontandosi storie e leggendo poesie. Bibliografia Tanja Dückers, Das süsse Berlin, Insel Verlag, 2021 Annuncio pubblicitario

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CULTURA

Modernità di Petruška Anniversari

Nel cinquantesimo della morte di Igor Stravinsky

Carlo Piccardi

Anche se è usanza indicare nel Sacre du Printemps (1913) il punto di volta dello stile stravinskiano e la sua prepotente irruzione nel campo della musica moderna, la posizione di Petruška è quella di un momento chiave altrettanto significativo, considerando il fatto che esso precede l’altro capolavoro di almeno due anni. La data di composizione sarebbe da riportare al 1911, ma in realtà il musicista fu occupato per lungo tempo nella messa a punto di questo balletto iniziato l’anno precedente e interrotto a causa di una grave malattia. Determinante per la sua realizzazione fu la collaborazione con Sergej Diaghilev, il geniale impresario dei Ballets Russes, il quale si può considerare lo scopritore del giovane Stravinskij, avendo presentato sulle scene parigine L’uccello di fuoco (1910), la sua prima importante composizione. Un anno circa separa tale balletto da Petruška, ma una distanza maggiore separa una concezione musicale legata ancora alla tradizione (l’impianto magniloquente del poema sinfonico russo) dal preannuncio di qualcosa di completamente nuovo. In ambedue i casi si tratta di balletti ispirati a leggende russe. Sennonché mentre nell’Uccello di fuoco l’elemento magico-fantastico rimane predominante trovando modo di manifestarsi attraverso una strumentazione raffinatissima derivata dal maestro Rimskij-Korsakov e sfumata secondo il gusto impressionistico francese, in Petruška Stravinskij scopre il colore puro ed essenziale, evitando gli impasti timbrici in favore di sonorità palesemente dichiarate, di pennellate crudamente realistiche a volte aspre e sferzanti. Stravinsky maturò l’idea del balletto mentre stava componendo un pezzo da concerto per pianoforte e orchestra. In quell’occasione – sostenne il musicista – «mi si presentava agli occhi l’immagine di un fan-

Un’immagine di Stravinsky (1882-1971) risalente agli Anni Sessanta. (Keystone)

toccio scatenato il quale con cascate di diabolici arpeggi pianistici esaspera la pazienza dell’orchestra. Questa, a sua volta, replica con minacciose fanfare. Segue una tremenda colluttazione che, arrivata al parossismo, termina con l’afflosciamento lamentoso e dolente del povero fantoccio». La testimonianza è rivelante nel senso di lasciar intendere come dalla fiaba a carattere sereno e ottimistica, preferita dai musicisti dell’Ottocento, si passi con Stravinsky non solo a una fiaba tragica e cruenta, ma che

cancella nei personaggi anche i tratti umani. Petruška è per metà uomo e per metà marionetta, i suoi gesti meccanici e la sua espressione sono un seguito di rigide articolazioni. La musica nascente da tale nuova situazione, i gesti sonori fulminei, il ritmo ripetitivo, la tecnica della ripetizione che dissolve il discorso a largo respiro, gli agglomerati dissonanti, liquidano per sempre la possibilità dell’immedesimazione e la stessa dimensione psicologica della vicenda. L’inquietante dimensione del Sa-

cre, indicata da Theodor W. Adorno come resa senza condizioni dell’individuo alla realtà sociale, se in questi termini può essere accettata, risulta già pienamente presente in Petruška, capace nella musica di eliminare completamente le forze interne al personaggio, cogliendo quelle esterne agenti in modo prescrittivo sugli individui, primo fra tutti il movimento frenetico della piazza del mercato (con un brusio sonoro al limite del rumorismo) e con innesti addirittura naturalistici, quali la citazione di no-

te musiche popolari in combinazione timbrica addirittura naturalistica (intonazioni da organetto di Barberia) riprodotte a volte in rapporto di simultaneità dissonante. Il modello è quello dell’episodio «Limoges» dei Quadri di un’esposizione di Musorgskij, della baruffa delle comari al mercato. Sennonché qui, nella brulicante e pungente orchestrazione, c’è qualcosa di più del riferimento alla dimensione paesana, contadina, dell’immaginario popolare russo. Come non pensare allora al Manifesto di fondazione del futurismo, lanciato da Filippo Tommaso Marinetti dalle colonne del «Figaro» il 20 febbraio 1909, in cui si proclamava: «Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne: canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violenti lune elettriche». Replicato nello specifico manifesto intitolato La musica futurista e firmato da Francesco Balilla Pratella l’11 marzo 1911 («Dare l’anima musicale alle folle, dei grandi cantieri industriali, dei treni, dei transatlantici, delle corazzate, delle automobili e degli aeroplani») non sfuggirà la cronologia che coglie questo evento esattamente parallelo all’apparizione di Petruška, il quale, in assenza di convincenti e valide realizzazioni concrete dei futuristi italiani in campo musicale, incarna quindi (e per primo) l’espressione dell’impersonale realtà urbana del 1900 diventata il modello musicale prevalente nell’avanguardia degli anni Venti. Motivo in più per attribuire al capolavoro stravinskiano una posizione meno in ombra rispetto alla statura del Sacre, riconoscendolo come momento del pari cruciale nella definizione delle coordinate musicali dell’estetica del XX secolo.

Diana Damrau è Anna Bolena Opera

Gaetano Donizetti al Teatro dell’Opera di Zurigo

Marinella Polli

Torna in cartellone a Zurigo Anna Bolena, il capolavoro di Gaetano Donizetti narrato dal libretto di Felice Romani. A causa delle molte non irrilevanti difficoltà esecutive, soprattutto per il ruolo in titolo, è un’opera raramente rappresentata, e questo anche dopo il noto revival alla metà del secolo scorso. Una grande sfida, dunque, per il soprano tedesco Diana Damrau al suo debutto quale primadonna di questa nuova produzione. Ma va detto che Anna Bolena è una sfida per chiunque, visto anche l’indelebile ricordo nella mente di ogni operomane della leggendaria produzione scaligera del 1957 diretta da Gianandrea Gavazzeni, con la regia di Luchino Visconti e con Maria Callas protagonista. Nell’opera in questione, Anna Bolena già regina si deve confrontare con un Enrico VIII invaghitosi di un’altra donna e deciso ad annullare il matrimonio con lei, così come per lei fece con Caterina d’Aragona. Dimostrando un’invidiabile intelligenza interpretativa, con l’arcinota ferrea tecnica vocale, con la sua cura del fraseggio, i filati e i legati perfetti, la

Un momento di Anna Bolena. (Toni Suter)

Damrau si cala magistralmente nei panni della protagonista – che a parere del compositore e del suo librettista, è più una vittima che la manipolatrice dalla strategica intelligenza di cui narrano i libri di storia e i nu-

merosi film –, rendendone ogni sfumatura della complessa personalità: emozioni, angosce, impetuosità, rabbia, delirio e follia dapprima, equilibrio, rassegnazione e grande dignità nei suoi ultimi giorni di vita. Il suo

carisma è elettrizzante persino in «Giudici! Ad Anna!!». Giustissima, dunque, l'ovazione del pubblico alla fine della rappresentazione. La nuova «altra» di Enrico VIII è Giovanna Seymour, damigella di Anna, interpretata da una Karine Deshayes che incanta vocalmente, ma un po’ meno scenicamente. Per quanto concerne gli altri interpreti, Alexey Neklyudov è un Lord Riccardo Percy d’importante presenza scenica e con una magnifica voce, Nadezhda Karyazina risolve la sua interpretazione con tecnica sicura ed è molto verosimile nella parte en travesti del paggio Smeton, Luca Pisaroni nei panni di Enrico VIII si riconferma artista disinvolto vocalmente e scenicamente, e convincenti lo sono anche Stanislav Vorobyov nel ruolo di Rochefort e Nathan Haller in quello dell’orribile Sir Hervey. Il maestro Enrique Mazzola offre una profonda e coinvolgente lettura all’insegna di una dinamica ora asciutta ora più intensa, degnamente assecondato da una Philarmonia Zürich in perfetto equilibro fra rigore ritmico e melodica orchestrale. Buona anche la prova del Chor

der Oper Zürich preparato da Ernst Raffelberger. Sul versante visivo, senza grandi impennate, ma interessante e con un’ottima guida dei personaggi la concezione registica di David Alden: apprezzabile l’idea di Elisabetta I bambina in scena, la regina che il potere saprà conservarselo a lungo. E un innegabile valore aggiunto sono anche le scene essenziali e austere e gli efficaci costumi ispirati alle più diverse epoche britanniche di Gideon Davey, le luci di Martin Gebhardt, nonché i giochi di ombre nei video di Roby Voigt. Al termine delle tre ore di spettacolo, entusiastici applausi soprattutto per la protagonista, ma anche per tutti gli altri partecipanti. Ricordiamo che, in occasione della prima, è stata omaggiata Edita Gruberova, indimenticabile soprano scomparsa di recente e già protagonista di una passata edizione zurighese di Anna Bolena. Dove e quando Anna Bolena, Opernhaus Zurigo, fino al 13 gennaio 2022. opernhaus.ch


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CULTURA

Tutto ciò che dobbiamo a Lindt

Personaggi ◆ Un geniale precursore: Rodolphe Lindt, «pioniere» del cioccolato moderno, e l’invenzione che cambiò per sempre la storia dell’arte dolciaria, non solo svizzera Benedicta Froelich

Si sa, nell’immaginario popolare la Svizzera è da sempre identificata con alcune immagini celebri quanto abusate: oltre a cliché quali i precisissimi orologi e gli idilliaci paesaggi di Heidi, vi è infatti un elemento che, forse più di ogni altro, ha consolidato la fama elvetica all’estero – il famoso quanto apprezzato cioccolato svizzero. E se tutti sono a conoscenza dell’importanza che le preziose tavolette «made in Switzerland» rivestono sul mercato mondiale, sono in pochi ad essere consapevoli di cosa esattamente renda il cioccolato svizzero diverso da ogni altro – o, ad esempio, del fatto che negli anni ’30 del 1800, Charles-Amédée Kohler ebbe per primo l’idea di inserire le nocciole nelle tavolette prodotte dalla sua fabbrica di Losanna, mentre il cioccolato al latte per come lo conosciamo oggi venne inventato nel 1875 dall’industriale vodese Daniel Peter, in collaborazione con il collega e vicino Henri Nestlé. Nel novero di tali successi rossocrociati si colloca l’esperienza della casa Lindt, nome leggendario che ancora oggi domina la scena nazionale – e, soprattutto, del suo fondatore, il quale rivoluzionò letteralmente l’intero universo della produzione cioccolatiera: il giovane rampollo Rodolphe (anche detto Rudolf) Lindt, il quale alla giovane età di 24 anni inventò e brevettò un’invenzione destinata a fare la storia del cioccolato, non solo in Svizzera, ma nel mondo intero. Era la cosiddetta conche («conca»), il cui nome si deve all’analogia con la conchiglia, ispiratrice della forma di un macchinario il cui principio si basa tuttora sull’ottimizzazione del processo di miscelazione degli ingredienti volto a ottenere il prodotto finito – ovvero, il cioccolato fuso dal quale si trarranno poi tavolette e praline. Del resto, ancor prima di questa geniale intuizione, la vita del giovane Rodolphe era, fin dall’inizio, apparsa come destinata all’arte dolciaria: nato

a Berna nel 1855, aveva infatti svolto il proprio apprendistato preso la celebre ditta del già citato Kohler, a Losanna, e da quest’esperienza maturato la volontà di dedicare la propria carriera alla produzione di cioccolato. C’era, però, un problema: il cioccolato dell’epoca era molto diverso da quello a cui siamo oggi abituati – assai più amaro, e spesso ruvido e ricco di impurità e scorie solide. Così, quando, nel 1879, il giovane Lindt si ritrovò proprietario di una sua fabbrica (e relativi, vecchi macchinari) nel quartiere Matte di Berna, si gettò anima e corpo in quella che era divenuta una vera e propria missione. E poiché la fortuna aiuta gli audaci, non dovette aspettare molto per veder realizzate le proprie ambizioni: la leggenda narra infatti che, come per le migliori scoperte scientifiche, la geniale intuizione ebbe origine da una banale dimenticanza, verificatasi un venerdì sera in cui Rodolphe si sentiva particolarmente frustrato a causa dei propri insuccessi nel creare un prodotto che rispondesse alla sua visione di un cioccolato di alta qualità. Avendo lasciato l’ufficio in preda alla scontentezza, Lindt avrebbe inavvertitamente mancato di spegnere una delle macchine miscelatrici; e al suo ritorno, il lunedì, si rese conto di come, dopo essere rimasto in sospensione per un intero weekend, il cioccolato fosse divenuto molto più appetibile, sia nel gusto sia nell’aspetto – principalmente grazie al fatto che il costante sminuzzamento e l’intensità del calore avevano disciolto i cristalli di cacao, rendendo la miscela più densa, viscosa e meno amara del solito. Di lì a poco, Lindt brevettò il macchinario destinato a portare il nome di conche, che si presenta tuttora come piuttosto semplice dal punto di vista meccanico, essendo composto da un ingranaggio a ruota e una vasca a orientamento orizzontale, in cui la massa di cacao rimane in costante

I preziosi frutti del cacao. (Keystone)

Rodolphe Lindt, 1855-1909. (lindt-spruengli.com)

movimento mentre due rulli (originariamente di granito) creano una frizione continua che ne scalda la miscela; difatti, il segreto sta proprio nella durata (all’epoca, circa 72 ore, a una temperatura media di 78 gradi) della fase di rimescolamento del cioccolato – il quale, nell’arco del processo di conche, si fa via via più fluido, eli-

minando non solo i grumi dovuti alla consistenza del cacao e dello zucchero, ma anche l’umidità e le impurità, destinate a dissolversi nell’aria (come Lindt avrebbe appurato grazie alla consulenza del fratello farmacista). Soprattutto, grazie anche all’aggiunta del burro di cacao (altra innovazione di Rodolphe), il nuovo cioccolato aveva la peculiarità di sciogliersi letteralmente in bocca, secondo quelli che erano da sempre i desideri del suo creatore – il quale lo battezzò infatti chocolat fondant. L’impatto di questa nuova tecnologia avrebbe fatto sì che le tavolette andassero infine a soppiantare la cioccolata in tazza nelle graduatorie di consumo non solo svizzere, ma della maggior parte dell’emisfero occidentale; e il successo fu tale da rendere impossibile, per Rodolphe Lindt, rimanere al passo con gli ordini provenienti da tutto il mondo. Nel 1899, decise così di vendere l’azienda; ma insieme alla fabbrica, il

compratore avrebbe ottenuto anche il segreto del cioccolato Lindt. Non c’è quindi da stupirsi se la ditta zurighese Sprüngli fu disposta a pagare l’equivalente odierno di 100 milioni di franchi per un simile privilegio; in fondo, a tutt’oggi ogni compagnia dolciaria degna di questo nome tiene per sé i dettagli del concaggio, dato che il sapore distintivo e la qualità intrinseca del cioccolato dipendono proprio dalle particolarità del processo impiegato. Sebbene Rodolphe sia morto prematuramente nel 1909, la sua eredità si è dimostrata senza tempo: ancora oggi, la Lindt-Sprüngli onora la ricetta da lui sviluppata (tuttora in parte segreta), e, come punta di diamante nella nobile arte del cioccolato, continua a essere uno dei simboli più amati e apprezzati dell’eccellenza svizzera all’estero – facendo dell’antico fondatore un vero e proprio precursore, responsabile di uno dei «grandi piaceri» che il mondo moderno riconosca.

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXIV 20 dicembre 2021

Strenne musicali per tutti i gusti

Rivive a teatro l’avventura artistica di Dalì

Alessandro Zanoli

Giorgio Thoeni

CD ◆ Alcune proposte eterogenee dalla produzione discografica recente

Roots, Navrée affaire (2021, Studio Canàa Losone)

Uscito nel corso dell’anno, colpisce per la sua grafica che rimanda ovviamente a un’altra band e a un altro stile (ha comunque il merito di averci fatto ricordare Phrenology, e ci mandato a riascoltarlo). «Questi» Roots (membri del gruppo sono Paolo Gianinazzi al basso, Reto Berra alla chitarra, Nico Monterosso alla batteria e Giacomo Allocco alla voce) sono una band cresciuta alle nostre latitudini e con riferimenti musicali molto diversi dagli «altri» Roots. Nell’EP composto da 5 brani si respira aria rockeggiante. Le canzoni sono molto ben costruite e solide e mostrano un ottimo affiatamento di gruppo. Il suono gradevole è certo merito anche dell’incisione, affidata allo storico Studio Canaa di Mauro Fiero. I brani hanno la misura tipica da playlist radiofonica, non superando i 4 minuti di durata. E infatti sono, da quest’estate, nella rotazione perpetua di Rete Tre RSI. L’impianto dei brani è proprio il classico «intro-strofa-ritornello-strofa-ritornello-finale». Si avrebbe voglia, viste le doti dei musicisti, di ascoltare brani più liberi, ispirati, oppure, perché no, qualche bella cover. D’altro canto il senso del disco sembra proprio essere quello di un ritorno alle radici della «canzone rock», alla pura e semplice energia musicale così come può veicolarla una band chitarra-basso-batteria-voce dei vecchi tempi. Dell’EP colpisce la bella impostazione delle chitarre (si ascolti Road to Freedom), presenti e piene di grinta. Il groove c’è e si fa apprezzare, (molto solido e trainante in Bla bla bla), al di là forse di una leggera ripetitività dei brani. Non impressionante la voce, un po’ sovrastata dall’impasto sonoro complessivo. Ma comunque complimenti, bel disco. T4no, Tango Napoletano (2020, Entourage Contempo Production)

Per chi ha voglia di stimoli musicali di altro spessore, questo progetto è veramente interessante. Il suo filo conduttore è la riscoperta del contributo che alcuni compositori ed esecutori parte-

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azione – Cooperativa Migros Ticino

nopei hanno dato alla tradizione del tango argentino: come si sa, le correnti migratorie di inizio 900 hanno portato molti musicisti a cercare fortuna nelle terre del nuovo continente. Tra loro, personaggi poco conosciuti oggi, ma allora celeberrimi, come Santo Discepolo, Genaro Espósito, Rodolfo Falvo e Francisco Lomuto. In questo album un consolidato trio di esecutrici esperte nel repertorio tangueño – e in particolare nella musica di Piazzolla – composto dalla chitarrista Roberta Roman, dalla violoncellista Michèle Pierre e dalla bandoneonista Marisa Mercadé si affianca a un nutrito gruppo di musicisti italiani, tra cui spicca il vocalist degli Almamegretta, Lucariello, per dare sostanza a una band eterogenea nella strumentazione, ma perfettamente adatta a dar corpo alla contaminazione tra passato e presente. Naturalmente i testi e la voce di Lucariello sono una presenza scenica che si impone sul resto, ma la finezza e la bravura dell’ensemble offre un occasione di ascolto davvero originalissima, e struggente, come può essere l’unione dell’anima napoletana con quella argentina. Si ascolti la versione di Dicitinciello vuje, un brano celeberrimo di Rodolfo Salvo che fu famoso in Argentina: qui viene proposto in un arrangiamento struggente dall’andamento di tango, che gli dà una fisionomia molto affascinante.

In scena ◆ Davide Gagliardi racconta il suo Dalì mentre Ferruccio Cainero propone una storia natalizia

Una vita eccessiva quella di Salvador Dalì (1904-89), straordinario talento artistico. Decise che sarebbe stato un grande genio dedicando, con fanatica perseveranza, ogni istante al raggiungimento di una fama planetaria. Il fascino dell’artista catalano non lascia indifferenti coloro che dopo averlo scoperto in gioventù lo fanno rivivere in scena. Ne è un esempio Davide Gagliardi che ha chiesto a Egidia Bruno di scrivere il testo e curare la regia di DA Lì, spettacolo visto al Plaza di Mendrisio. Un’impresa non da poco per un monologo che contiene l'agguato della narrazione pedante ma che Gagliardi riesce a sfruttare senza eccessi, con una verve misurata, convincente e una buona padronanza scenica grazie anche a una scrittura in cui l’enciclopedismo lascia il posto alla dimensione discorsiva. Il pretesto è l’ennesimo trasloco dove, fra pile di scatoloni, torna fra le mani un vecchio poster dell’Autoritratto molle con pancetta fritta, celebre allegoria dell’eccentrico pittore catalano dai 20 cm di baffi ore dieci e dieci. Si sviluppa così il racconto della straordinaria avventura umana e surrealista di Dalì, una settantina di minuti

che scorrono piacevolmente facendo venir voglia di rivedere i faraglioni di Port Lligat.

Asini e buoi dei paesi tuoi… Attore, autore, drammaturgo e regista, Norbert Ebel potremmo considerarlo una sorta di alter ego tedesco di Ferruccio Cainero. Tradotta e rappresentata in diversi Paesi, Ox & Esel è una riuscita favola teatrale che l’eclettico artista friulano-ticinese ha tradotto, adattato e messo in scena per la Barabba’s Clown di Arese, associazione di promozione sociale, centro di accoglienza per giovani in difficoltà e fonte di animazione culturale. Dopo il debutto al Sociale lo spettacolo era di passaggio al Foce di Lugano per un'unica rappresentazione pomeridiana. La versione di Cainero, dal titolo Boef&Asen, vede in scena due simpatici attori: Gianluca Previato (Boef) e Francesco Giuggioli (Asen). Racconta di un asino e un bue che, nella fredda notte di Natale, ritrovano nella loro stalla un bimbo in fasce, abbandonato o dimenticato. Fuori è in atto la strage degli innocenti di Erode a

Gianluca Previato e Francesco Giuggioli in Boef&Asen.

caccia del Messia. Il neonato ha fame, va curato e i due decidono di proteggerlo. Già, ma chi se ne occuperà? Parabola laica e natalizia, Boef&Asen ha tutte le caratteristiche di una storia di solidarietà e amore che, seppur intrisa di comicità e buffonerie, accarezza temi sacri con garbo divertendo grandi e piccini. Ancora una replica a Stabio il 24 dicembre. Annuncio pubblicitario

Michel Godard, Francesco D’Auria Duo, Amor sospeso (2019, ABeat)

Azione

21. 12. 2021 – 3.1. 2022

Se Michel Godard, solista di quello strano strumento a fiato che è il serpentone, è molto conosciuto alle nostre latitudini, forse un po’ meno noto è il percussionista Francesco D’Auria, che risiede in Ticino da anni. La vena creativa e improvvisativa di quest’ultimo si è espressa in vari concerti e progetti discografici (Le Sonnet Oublié, sempre con Godard, o Mistery Mine con il trombonista Beppe Caruso) e in varie forme di sperimentazione, ad esempio con la tintinnante percussione metallica dell’hangpan. Il disco Amor sospeso è pieno di echi e richiami ancestrali, grazie alla sonorità del serpentone, per un progetto musicale che di per sé ha una storia curiosa: i due musicisti l’hanno registrato nella chiesa del villaggio valser di Rima, in Valsesia. Il dialogo intimo e sensibile dei due musicisti provoca una suggestione profonda. Nella delicatezza dell’interazione tra Godard e D’Auria si aprono spazi meditativi che saranno certamente apprezzati dagli amanti dell’improvvisazione. Oppure, perché no, questo disco potrebbe essere il perfetto album di Natale, un richiamo alla concentrazione e alla riflessione che accompagnino con armonia nel nuovo anno.

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