Anno LXXXV 31 gennaio 2022
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
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MONDO MIGROS
Pagine 4 – 5 ●
SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
Dall’esame clinico alla diagnostica: in radiologia la tecnica deve adattarsi al problema specifico
L’importanza del ballo, spesso associato allo svago, al divertimento e – a torto – ritenuto un po’ frivolo
Reportage da Kandahar, città afgana in mano ai talebani, dove si muore di fame e di freddo
Una grande mostra nella splendida Bologna celebra l’arte di Antonio Canova
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Ti-Press
Casaro, una passione che si rinnova
Guido Grilli
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La partita a scacchi dello zar Peter Schiesser
Due mesi dopo, la domanda non ha ancora risposta: ci sarà guerra fra Russia e Ucraina? Russi e americani si parlano ancora, attualmente. Ma le parole dell'ex presidente russo Dmitry Medvedev, oggi vice del Consiglio di sicurezza russo, non lasciano ben sperare: «nessuno cerca la guerra, ma abbiamo praticamente esaurito il limite di ritirata» («Washington Post», gennaio). Infatti, quel che si ode sono i rombi dei cannoni, dei carri armati e degli aerei da combattimento russi impegnati in manovre militari un po' ovunque in Russia e persino in Bielorussia a due passi da Kiev, quel che si vede sono le forniture di armi e munizioni da paesi della Nato all'Ucraina, i militari Nato in allerta, le ambasciate occidentali che a poco a poco si svuotano, a partire da quella statunitense. Se guerra sarà, non sarà nei prossimi giorni: gli oltre mila soldati russi ammassati ai confini con l'Ucraina non hanno ancora tutte le strutture di supporto per condurre un'offensiva, e Mosca ha fatto sapere che il presidente Putin si prenderà il tempo per studiare la risposta scritta
americana al trattato di mutua sicurezza proposto dalla Russia e per prendere le sue decisioni. Il punto è che ancora non si riesce a capire quali intenzioni ha Putin, quali obiettivi concreti e come intende procedere, se risponderà all'«aggressione occidentale» con dei «mezzi tecnico-militari» o diplomatici. Sappiamo che Putin, figlio di un immenso paese che per riflesso storico teme di essere invaso, vuole ricostituire un cuscinetto di sicurezza per non avere la Nato a contatto con la Russia, ma la mossa di presentare agli americani un trattato che comporta una sorta di capitolazione resta enigmatica. Impossibile anche solo immaginare che gli Stati Uniti e la Nato accettino di ritirarsi dai paesi dell'ex Patto di Varsavia, entrati anche nell'Unione europea. Dunque, che significa? Nel Novecento, quando si voleva dichiarare guerra si imponeva ad un altro Stato un ultimatum che mai avrebbe potuto accettare, oppure si creava un pretesto, una provocazione. Che è esattamente quel che Nato, Usa e paesi europei temono: uno strano incidente in una qualche in-
frastruttura vitale nell'est dell'Ucraina (ne sono state identificate diverse) che dia un motivo ai russi per entrare nel paese. Intanto, l'Ucraina è già bersaglio di attacchi cibernetici, si parla di infiltrazioni di sabotatori russi, della volontà di provocare un colpo di Stato contro il presidente Zelenski per instaurare un governo filo-russo, in un crescendo di tensione. Putin ci ha abituati a forme di conflitto asimettrico. La Crimea è stata occupata da soldati russi senza insegne di riconoscimento, nell'est dell'Ucraina è avvenuto lo stesso, così che Putin ha potuto a lungo negare che fossero truppe regolari (per poi riconoscerlo a giochi fatti). Non sappiamo quindi se delle azioni «tecnico-militari» coinvolgerebbero tutte le truppe schierate ai confini con l'Ucraina. Agli Stati Uniti e alla Nato resta dunque solo la duplice via dei negoziati e delle minacce. Il presidente americano Biden ha promesso sanzioni economiche senza precedenti, si parla anche di escludere la Russia dal sistema di pagamenti internazionali SWIFT. Inoltre gli americani hanno reso ben chiaro ai russi
che in caso di invasione gli Stati Uniti fomenterebbero una resistenza armata, come fecero in Afghanistan finché i russi non se ne andarono. In momenti di tensioni internazionali, giuoca un ruolo anche la lucidità mentale dei protagonisti, la chiarezza degli obiettivi e la capacità di prevedere le conseguenze delle proprie azioni. La visione di Putin è chiara: da quando nel la Nato dichiarò che la Georgia e l'Ucraina avrebbero potuto aderire al Patto atlantico in un futuro, Putin ha reso instabile la Georgia occupandone due regioni e dal , dopo la caduta di un governo filo-russo, sta mantenendo instabile l'Ucraina. Ma l'obiettivo concreto di questa prova di forza resta oscuro. Inoltre, non sappiamo se Putin sia davvero consapevole dei danni che può provocare alla Russia, alla stabilità in Europa e nei rapporti con gli Stati Uniti. La risposta americana alle proposte russe è già stata considerata largamente insufficiente dal ministero degli esteri russo, non c'è da aspettarsi che Putin possa accettare un no alle richieste principali. Che margine di negoziato resta?
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SOCIETÀ
azione – Cooperativa Migros Ticino
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La nuova Casa Ursula Con il nuovo edificio a Balerna la Fondazione Provvida Madre ha aumentato le sue capacità residenziali e occupazionali per adulti con disabilità
La passione per il formaggio d’alpe Al Centro professionale del verde di Mezzana si può ottenere il Diploma cantonale di casaro d’alpe, una professione che conquista anche i giovani
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Clima e cultura della costruzione
Ambiente ◆ La nuova campagna di sensibilizzazione e informazione sostenuta anche dall’Ufficio federale della cultura propone esempi di buone pratiche che conciliano l’obiettivo zero emissioni con il concetto della costruzione di qualità Fabio Dozio
Dal la Svizzera non deve più emettere gas serra. È uno degli obiettivi della strategia energetica della Confederazione. L’obiettivo è impegnativo, anche se Climate Analytics lo giudica «deludente» e «insufficiente». In ogni caso, per intervenire a favore della protezione del clima, ogni cittadino dovrebbe impegnarsi. Bisogna immaginare un cambiamento di mentalità, che coinvolga tutta la popolazione: non facile, se pensiamo che nel giugno scorso la nuova legge sul CO che avrebbe imposto misure più severe in questo campo è stata bocciata dal popolo elvetico. Comunque, qualcosa si muove. Per esempio, la campagna «Clima e cultura della costruzione» lanciata qualche mese fa da una serie di organizzazioni, Patrimonio Svizzero, SIA, Espace Suisse, ecc., e sostenuta dall’Ufficio federale della cultura. «Ogni forma di costruzione – sottolineano i promotori della campagna – modifica lo spazio ed è un’espressione della nostra cultura. La cultura della costruzione riguarda gli edifici nuovi, i provvedimenti conservativi, la salvaguardia del patrimonio storico-architettonico, le infrastrutture, gli spazi aperti e il paesaggio. Essa è chiamata a garantire la qualità in senso lato, ossia sul piano costruttivo, sociale e della sostenibilità. È questo l’approccio promosso dalla campagna per il clima». Una cultura della costruzione che si preoccupa del clima deve intervenire sugli edifici esistenti con misure di risparmio energetico. Tutelare la qualità architettonica e la salvaguardia del patrimonio culturale migliorando il bilancio energetico di stabili meritevoli di protezione. Limitare lo spreco di risorse non rinnovabili introducendo l’economia circolare: riutilizzando, riparando e riciclando materiali e componenti edilizi. Più spazio per gli alberi e più aree non edificate sono in linea con le nuove esigenze climatiche. La campagna stimola pure la condivisione e la trasmissione del sapere e delle ricerche scientifiche nel campo dell’edilizia volta alla protezione del clima. Uno dei punti cruciali, oltre agli aspetti relativi alla qualità e cultura della costruzione, è la questione delle energie fossili. Raggiungere la neutralità climatica significa che dal negli edifici non si useranno più energie fossili. Niente gasolio, nafta o gas. Una misura che obbliga a sostituire i sistemi di riscaldamento, visto che attualmente, in Svizzera, sono ancora in funzione circa mila riscaldamenti con energie fossili, secondo stime della Confederazione. Un recente studio, commissionato dal
Il complesso abitativo Soubeyran realizzato dalle cooperative Equilibre e Luciole a Ginevra è un esempio di efficienza energetica. (Wikimedia)
WWF, indica che per raggiungere gli obiettivi della strategia , i riscaldamenti domestici vanno sostituiti «possibilmente in fretta», e anche se ancora funzionanti. Per ora, il cantone più severo è Basilea Città, dove entro il dovranno essere disattivati tutti i riscaldamenti fossili. Per capire cosa significa rispettare questi obiettivi il calcolo è facile. Ogni anno bisogna sostituire mila impianti tradizionali per raggiungere zero emissioni di CO nel . A tutt’oggi i programmi di Confederazione e Cantoni ne prevedono la sostituzione di ’. Se si pretende di realizzare questi obiettivi, Confederazione e Cantoni devono incrementare i sussidi ai privati.
La SIA, Società svizzera degli ingegneri e degli architetti, è uno dei partner più importanti della campagna «Clima e cultura della costruzione». Ha preparato un documento sul tema e una serie di «Obiettivi per il parco immobiliare e infrastrutturale di fronte ai cambiamenti climatici». Nel preambolo si dice che «la SIA si assume un ruolo di particolare responsabilità, impegnandosi al fine di promuovere una cultura della costruzione di qualità, tenendo fede a un obiettivo prioritario, ovvero quello di garantire un ambiente di vita altamente qualitativo, progettato con lungimiranza e all’insegna della sostenibilità». La Società si impegna per un uso
parsimonioso delle risorse e per il rafforzamento dell’economia circolare. Predilige soluzioni che non consumano troppe materie prime, impiegando materiali rinnovabili o in grado di assorbire il CO. Prevede di incentivare la costruzione di impianti che producono energie rinnovabili. Invita a tener conto dei cambiamenti climatici futuri, meno freddo d’inverno, più caldo d’estate, nella pianificazione territoriale e urbanistica, così come nella progettazione di edifici e di infrastrutture. La SIA contempla di verificare il catalogo di norme, regolamenti e linee guida, valutandone l’impatto sulla protezione del clima, sul consumo energetico e delle risorse. Gli intenti della SIA sono ammi-
revoli, anche se molto teorici: si riuscirà a metterli in pratica? Il Canton Ticino, da parte sua, si sta attivando. Ha lanciato un «Pacchetto ambiente», con tre proposte: la modifica della legge sull’energia, il fondo per le energie rinnovabili e il programma cantonale di incentivi. Lo scopo è «mettere a disposizione dei cittadini maggiori risorse per accelerare il cambiamento necessario per raggiungere una società al per cento rinnovabile, tramite un incremento degli investimenti nel settore dell’energia e del clima». Per il quinquennio - si è stanziato un credito quadro netto di milioni di franchi e l’autorizzazione alla spesa di milioni di franchi di incentivi a favore di nuovi impianti o della conversione di quelli esistenti. Finora la Svizzera è in ritardo sulla promozione delle energie rinnovabili. L’Ufficio federale della cultura sostiene la «Campagna clima e cultura della costruzione», ma il capo della sezione Patrimonio culturale e monumenti storici, Oliver Martin, non risparmia le critiche e sottolinea, sulla rivista di Heimatschutz, che troppo spesso si costruiscono nuovi edifici con metodi standardizzati di risparmio energetico, ma senza sfruttare tutte le potenzialità, per esempio, dell’energia solare. Ci sono «immensi tetti di stabili che restano vergini dei pannelli solari». «Possiamo fare molto di più per realizzare l’obiettivo di zero emissioni. – afferma Martin – Nel rispetto della qualità. La campagna “Clima e cultura della costruzione” deve diffondere questi concetti e proporre esempi di buone pratiche che conciliano l’obiettivo zero emissioni con la qualità e la cultura della costruzione. Deve proporre dati e creare una rete. Associare la promozione della biodiversità e le misure a favore del clima». La campagna «Clima e cultura della costruzione» mira a stimolare un cambiamento di valori, che deve partire dal cittadino per coinvolgere gli attori dell’economia e della politica. A questo proposito merita di essere citata la Dichiarazione di Davos, proposta dalla Svizzera e sottoscritta nel dai ministri della cultura europei: «La cultura della costruzione di qualità presuppone la capacità della società di giudicarla ed esige quindi un grande impegno nel settore dell’educazione e della sensibilizzazione. Tutte le parti coinvolte, tanto nel settore privato quanto in quello pubblico, assumono la propria parte di responsabilità per la qualità dello spazio edificato che lasceremo alle generazioni future». Informazioni www.campagna-clima.ch
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Dalla visita medica agli esami diagnostici Imaging
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Storie di fondo
Incontro ◆ Le storiche medaglie olimpiche dello sci ticinese
Necessità e appropriatezza sono i criteri per la scelta di un’indagine radiologica
Maria Grazia Buletti
«Con una Risonanza Magnetica non riusciamo a vedere adeguatamente i polmoni. Perciò, sebbene sia fra gli esami diagnostici radiologici più tecnologicamente avanzati, non è quello più indicato nella ricerca di una patologia polmonare». A parlare è il professor Adam Ogna, primario di medicina interna e pneumologo all’Ospedale Regionale di Locarno, che spesso si trova a spiegarlo ai suoi pazienti quando gli chiedono questo esame convinti che sia quello che «… per antonomasia potrà postulare o confermare qualsiasi diagnosi». Sempre più persone chiedono esami radiologici specifici, senza avere gli strumenti adatti per valutarne necessità e appropriatezza. «Oggi disponiamo di una grande varietà di metodiche di diagnostica per immagini (da noi chiamate Imaging) che dobbiamo saper impiegare in modo appropriato», esordisce il professor Filippo Del Grande, primario della Clinica di radiologia EOC e Direttore medico scientifico dell’Istituto Imaging della Svizzera Italiana, il quale sottolinea che «eseguire esami appropriati significa anche utilizzare in modo adeguato le risorse ed evitare potenziali conseguenze cliniche per il paziente». E ribadisce: «In ogni situazione dobbiamo sfatare il mito secondo cui la tecnologia più avanzata sia quella più corretta ed efficace; esiste un esame indicato per un determinato paziente e per la patologia che si vuole indagare in quel determinato momento».
Il professor Adam Ogna (a destra) e il professor Filippo Del Grande, in radiologia (sala TAC). (Stefano Spinelli)
che nel suo protocollo di svolgimento), e migliore sarà la sua accuratezza diagnostica che in tal modo concorrerà a delineare un percorso terapeutico efficace. Del Grande pone l’accento sul ruolo dell’Imaging nel processo diagnostico: «Ogni esame diagnostico non ha tanta valenza in se stesso, ma piuttosto ne assume se integrato in un processo diagnostico che coinvolge medico curante e medico radiologo». «Di fatto il medico curante dovrebbe curare la regia della presa in carico, in modo da avere un quadro completo del proprio paziente, della sua anamnesi, degli esami di laboratorio e, infine, dell’eventuale scelta di un complemento diagnostico radiologico appropriato», spiega il dottor Adam Ogna che così pone le basi per il primo passo: la formulazione del quesito clinico da parte del medico (curante o specialista) che si propone di individuare il prosieguo della cura. «Questo primo passo essenziale della presa in carico comporta la collaborazione interdisciplinare di diversi medici (medicina generale, specialisti, chirurghi e radiologi) e precede gli eventuali esami radiologici scelti ad hoc. Naturalmente questa strada va condivisa con il paziente che rimane sempre al centro e che, dal canto suo, dovrebbe sentirsi rassicurato dalle scelte diagnostiche postulate, ricordiamolo, secondo la necessità e l’appropriatezza dell’esame richiesto». Alla base di tutto sta la fiducia reciproca fra paziente e medico curan-
te. Quest’ultimo sarà rassicurante sul procedere e saprà indicare l’idoneità della scelta di uno specifico esame diagnostico a complemento e a suffragio della propria diagnosi clinica. E si giunge allo svolgimento dello stesso e alla figura del medico radiologo il cui ruolo, a prescindere dagli esami di radiologia interventistica, rimane spesso «dietro le quinte», come spiega il professor Del Grande: «Al radiologo competono la consulenza e la collaborazione con il medico clinico per la scelta dell’esame corretto». E siamo al primo punto, quando alla richiesta radiologica fa seguito il delinearsi del «protocollo dell’esame stesso»: «Una volta scelto l’esame, il radiologo ne definisce lo svolgimento mirato alla richiesta e alla diagnosi da verificare. Ad esempio, se si tratta di una Risonanza bisogna definirne quali sequenze utilizzare e se somministrare o no il mezzo di contrasto; per la TAC si definiscono le fasi più o meno precoci e tutto ciò dipende dalla patologia che si va a indagare». Il radiologo porta ad esempio la ricerca di un carcinoma epatico: «In tal caso, per riuscire a evidenziarlo, si eseguono fasi arteriose perché si tratta di un tumore ben vascolarizzato in fase arteriosa. Usare un protocollo in un’altra fase potrebbe portare a una diagnosi errata». Per ciascun esame si tratta di «saperne modulare lo svolgimento». Dopo la scelta del protocollo, il tecnico in radiologia medica segue le indicazioni del medico radiologo:
azione
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L’appropriatezza dello strumento impiegato per postulare una diagnosi è soddisfatta quando i benefici derivanti dall’esame radiologico scelto superano i suoi potenziali rischi Filippo Del Grande sottolinea altresì come «ogni esame di Imaging comporta vantaggi, svantaggi e rischi potenziali (ad esempio legati all’irradiazione o all’uso di mezzi di contrasto o alla messa in luce di reperti fortuiti)». Si evince da ciò l’importanza di determinare in primo luogo la necessità di un esame diagnostico radiologico, e in seguito individuare quello più appropriato a verifica della postulazione di una diagnosi. Processo in cui, afferma lo specialista, «l’appropriatezza è soddisfatta quando i benefici derivanti dall’esame radiologico scelto superano i suoi potenziali rischi». In buona sostanza: più un esame è selezionato in modo appropriato (an-
«Alcuni esami di routine terminano così, mentre ve ne sono altri che meritano una verifica ulteriore da parte del radiologo». Segue il post processing: ovvero «le ricostruzioni tecniche delle immagini al computer, che saranno poi interpretate dai radiologi per scrivere un referto (una sorta di lettera di consultazione per il medico clinico che ha inviato il paziente) nel quale sarà data una conclusione radiologica: è la valutazione finale del radiologo che il clinico dovrà integrare nelle informazioni di cui già dispone». Dietro alla scelta, alla richiesta e allo svolgimento di un determinato esame diagnostico radiologico c’è un intero percorso che necessita strumenti adeguati e un ragionamento multidisciplinare volto per l’appunto a coinvolgere le diverse figure mediche e il paziente stesso, il quale rimane al centro della coordinazione di tutte le informazioni risalenti al suo problema. Informazioni Sul tema dell’appropriatezza degli esami radiologici, sarà possibile seguire una conferenza pubblica virtuale che avrà luogo mercoledì 2 febbraio, alle 18.30. Durante la serata si potranno porre domande ai due specialisti, il professor Adam Ogna e il professor Filippo Del Grande (le coordinate per accedere al Webinar si trovano seguendo questo link: https://bit.ly/3KjieaX
C’è chi fa sport e poi c’è chi lo racconta. Se il pubblico ama tanto seguire le gesta eroiche di molti campioni, è forse anche – se non soprattutto – grazie alle emozioni che sanno trasmettere i giornalisti e gli allenatori con i loro resoconti e con la narrazione di epiche avventure note solo a chi bazzica il dietro le quinte. Certo, gli atleti, impegnandosi a dare il meglio nelle gare, sono i veri protagonisti, ed è per questo che sono stati al centro di un’interessante miniserie di incontri organizzata dalla Biblioteca cantonale in più sedi. A chiudere la rassegna delle quattro serate dedicate a sport diversi, sarà «lo sci di fondo ticinese». I precedenti incontri hanno ospitato atleti di mountain bike e windsurf, pugilato e ciclismo, questa volta, alla vigilia delle Olimpiadi invernali di Pechino, i protagonisti saranno invece Natascia Leonardi Cortesi, fondista e scialpinista, vincitrice della medaglia di bronzo alle Olimpiadi invernali di Salt Lake City nel ; Lisa Imperadore, un oro e due argenti agli Special Olympics invernali in Corea del sud nel , con il coach Giovanni Pedrozzi, in forza allo Sport Is Life (SIL) Lugano; insieme a Stefano Marelli, giornalista sportivo e scrittore. Interverrà pure Manuele Bertoli, direttore del Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport; mentre introdurrà la serata Stefano Vassere, direttore della Biblioteca cantonale di Bellinzona.
Informazioni L’incontro «Lo sport e il suo racconto. I ricordi delle storiche medaglie olimpiche per lo sci di fondo ticinese» avrà luogo mercoledì 2 febbraio, dalle 18.30, presso la Biblioteca Cantonale, in Viale Stefano Franscini, a Bellinzona. Accesso (gratuito) con certificato Covid e documento d’identità. Mascherina obbligatoria. Prenotazione consigliata a bcb-cultura@ti.ch.
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MONDO MIGROS
Lode alle lunghe cotture
Attualità ◆ La stufatura esalta il gusto di alcuni tagli di carne e li rende incredibilmente teneri. Lo spezzatino di manzo si presta bene per questo metodo di cottura
Azione 25%
Lo stufato di manzo è da sempre un piatto tradizionale apprezzato da tutti i commensali, che ci rimanda ai bei ricordi legati alle ricette preparate dalle nostre nonne quando eravamo bambini. Ma cosa rende così buona questa preparazione? La stufatura combina due metodi di cottura tradizionali: la rosolatura iniziale, procedimento che permette alla carne di acquisire un aroma tostato e una bella crosticina in superficie; e la successiva cottura prolungata a bassa temperatura nei propri succhi e in un liquido affinché possa arricchirsi dei profumi e dei sapori degli altri elementi che l’accompagnano.
Lo stufato di manzo è un grande classico della stagione invernale. Provatelo ad esempio nella versione all’irlandese La lenta preparazione inoltre ammorbidisce le fibre e dona alla carne una tenerezza e una succosità a cui è difficile resistere. Le pentole più indicate per stufare le carni sono quelle alte con distribuzione ottimale del calore – in acciaio inox, ghisa o ceramica – dotate di un coperchio a buona tenuta per evitare che il liquido di cottura evapori troppo. Le carni ideali per questo metodo di cottura sono quelle a fibra grossa, come per esempio spezzatini, arrosti, ossibuchi ma anche coniglio. La carne va rosolata per bene a fuoco forte in olio o burro per arrostire con l’aggiunta di cipolle, verdurine tagliate fini e aromi vari. Una volta regolato di sale e pepe, si unisce il liquido fino a coprire la carne, il quale può essere costituito da brodo, vino o passata di pomodoro. Mettere il coperchio, abbassare la temperatura e continuare la cottura fino a quando la carne si sfalda facilmente. A piacimento, mezz’ora prima della fine, si possono aggiungere delle verdure a tocchetti. In questa pagina vi proponiamo una ricetta di sicuro successo, uno stufato di manzo preparato con la famosa birra scura irlandese.
Azione 25%*
Spezzatino di manzo IP-Suisse, in self-service, per 100 g Fr. 2.60 invece di 3.50
La ricetta Spezzatino alla Guinness
dal 01.02 al 07.02.2022
Piatto principale per 4 persone • 1 cipolla grande • 1 kg di spezzatino di manzo • 4 cucchiai d’olio di colza HOLL • 5 dl di Guinness (birra scura) • 1 mazzetto d’erbe aromatiche miste, ad es. prezzemolo, rosmarino, timo • ca. 5 dl di brodo di manzo • 300 g di carote • 400 g di patate resistenti alla cottura • 1 cucchiaio d’amido di mais • sale • pepe Come procedere
. Dimezzate la cipolla e tagliatela a strisce sottili. Asciugate bene lo spezzatino tamponandolo. Rosolatelo in padella, porzione per porzione, con un po’ d’olio, trasferite in una pentola. Aggiungete all’ultima porzione di carne la cipolla e rosolate brevemente rimestando. Spegnete con la metà della Guinness. Versate anche questa porzione in pentola. Unite le erbe, il brodo e la Guinness rimanente. La carne deve essere ricoperta di liquido. Portate ad ebollizione. Coprite leggermente e stufate a fuoco basso per ca. minuti, finché la carne è cotta. . Dimezzate o dividete in quarti per il lungo le carote, tagliatele a bocconcini. Tagliate le patate a dadi di ca. , cm di spessore. Aggiungete carote e patate alla carne ca. minuti prima di ultimare la cottura e continuate a cuocere a fuoco basso. Sciogliete l’amido di mais in un po’ d’acqua fredda e unitelo allo spezzatino. Portate ad ebollizione, lasciate sobbollire per ca. minuti, finché la salsa si lega. Condite con sale e pepe.
* Spezzatino di manzo IP-Suisse in self-service, per 100 g Fr. 2.60* invece di 3.50 Offerta valida dal 01.02 al 07.02.2022
Una spremuta di benessere
Grazie allo spremiagrumi presente in alcune filiali Migros – nella fattispecie Biasca, Bellinzona, Giubiasco, S. Antonino, Locarno, Agno, Mendrisio Sud, Lugano e Serfontana – fare il pieno di gusto e salute è un gioco da ragazzi. Collocato all’interno del reparto frutta e verdura del negozio, l’apparecchio permette ai clienti di prepararsi autonomamente, in modo semplice e igienico, una freschissima spremuta di arance bionde in men che non si dica: è sufficiente posizionare la bottiglietta PET messa a disposizione sotto il dispositivo, premere il pul-
sante «Push», riempire la bottiglia, richiudere con il tappo a vite e recarsi alla cassa per il pagamento. Sono disponibili bottiglie da e , litri, al prezzo rispettivamente di .- e .- franchi . Si consiglia, una volta a casa, di conservare il succo in frigorifero e di consumarlo il più rapidamente possibile per evitare che perda troppi nutrienti e sapore. Importanti sostanze nutritive
Le arance e gli agrumi in generale – anche sotto forma di succhi o spremute fresche – contribuiscono a mantenerci in salute. Conten-
gono infatti molta vitamina C, sostanza che rafforza il nostro sistema immunitario, permettendo all’organismo di difendersi meglio contro le infezioni come i virus del raffreddore e l’influenza. Ma la vitamina C è importante anche per la salute di ossa, denti, gengive e vasi capillari. Un bicchiere di dl di spremuta d’arance copre il fabbisogno giornaliero di vitamina C, che corrisponde a ca. mg. Gli agrumi contengono inoltre poche calorie, pertanto sono ideali anche per l’alimentazione equilibrata di chi è particolarmente attento alla linea.
Flavia Leuenberger Ceppi
Attualità ◆ Sono una decina i supermercati Migros che offrono la possibilità di prepararsi sul momento una gustosa spremuta fresca d’arance. Approfittatene per fare il pieno di vitamine
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MONDO MIGROS
La dolcezza del carnevale Attualità
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Come ogni anno alla Migros trovate un’ampia scelta di dolci tipici del periodo carnascialesco. Lasciatevi tentare
Tradizione italiana
Frittelle di carnevale 216 g Fr. 2.90
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I dolci di carnevale sono parte integrante della cultura gastronomica della vicina Penisola, dove praticamente ogni regione possiede la propria specialità con ricette tramandatesi di generazione in generazione. Anche la denominazione cambia a seconda della regione: oltre alle più conosciute «Chiacchiere», troviamo pure nomi quali «Bugie», «Riccioline», «Pettegolezzi di colombina», «Galani» e «Lattughelle». Preparate con farina, uova, burro, latte e zucchero, queste specialità fritte o cotte al forno sono cosparse di zucchero a velo oppure cioccolato. 1. Riccioline 200 g Fr. 2.80
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2. Frittelle «to go» 75 g Fr. 1.95 3. Frittelle al cacao 200 g Fr. 3.20 4. Pettegolezzi di colombina 125 g Fr. 2.80
1 Mini Frittelle di carnevale 90 g Fr. 1.95
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Le classiche Sono le incontestabili numero tra i dolci di carnevale, le frittelle di carnevale, prodotte dall’azienda del Gruppo Migros «Midor» a Meilen, sul lago di Zurigo. Disponibili nella versione classica oppure in quella mini, i tradizionali dolcetti ondulati sono prodotti fin dal con la medesima ricetta genuina a base farina, zucchero a velo, uova, olio di girasole e un goccio di kirsch per quel tocco di aroma in più. Pensate che, tra piccole e grandi, ogni anno Migros Ticino vende tra il mese di dicembre e marzo qualcosa come oltre ’ confezioni di frittelle.
5. Galani dei dogi 200 g Fr. 3.50 6. Bugie zuccherate 250 g Fr. 3.50 7. Lattughelle ai grani antichi 200 g Fr. 4.90
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8. Lattughe senza glutine e latte 100 g Fr. 4.40 Annuncio pubblicitario
UN GRANDE TRIO. UNA GRANDE RIDUZIONE. Il tuo COMBI HOME: Internet, TV e rete fissa a soli 39.80 invece di 49.80/mese. Per due anni interi.* Navigazione a 50 Mbit/s | 250 canali TV | 30 ore di replay
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SOCIETÀ
La Provvida Madre guarda al futuro
Socialità ◆ Con Casa Ursula la Fondazione ha ampliato le proprie capacità ricettive residenziali e occupazionali. Ne abbiamo parlato con il direttore Adriano Cattaneo Stefania Hubmann
Due nuovi edifici per un progetto, per una visione della vita quotidiana ritmata dalle attività domestiche e da quelle lavorative. Un progetto destinato ai giovani adulti con disabilità per i quali questo ritmo assume un valore aggiunto in ottica inclusiva. Con l’apertura di Casa Ursula, avvenuta lo scorso autunno, la Fondazione Provvida Madre di Balerna, amplia a poche centinaia di metri dalla sede principale le proprie capacità ricettive, sia residenziali che occupazionali. Situata in posizione panoramica sulla sommità della collina in via Primavesi , la struttura beneficia di ampi porticati e di un giardino che garantiscono la possibilità di svolgere attività all’aperto. Il direttore Adriano Cattaneo ci ha guidato alla scoperta di questa nuova realtà che al momento ospita undici residenti ai quali si aggiungono nei laboratori altre quattro persone. L’entrata è posta in corrispondenza dell’edificio a tre piani, nel quale al pianterreno si trovano un ampio spazio comune con cucina e salone, servizi, un locale a disposizione per i fisioterapisti e un ufficio. I due piani superiori sono invece riservati ai rispettivi foyer con sette posti ciascuno. Qui le persone residenti vivono tutto l’anno in camere singole (per piano una sola camera è doppia, mentre due dispongono del proprio bagno). Gli spazi, luminosi e colorati, sono stati concepiti per
le speciali esigenze di queste persone e da loro stesse in parte decorati con disegni riprodotti a grande dimensione su alcune pareti. Essi assicurano da un lato una calorosa e funzionale accoglienza e dall’altro gli stimoli indispensabili per favorire l’evoluzione del singolo, in particolare lo sviluppo o perlomeno il mantenimento delle sue capacità e della sua autonomia. Il concetto alla base del progetto è quello di «Ambiente arricchito», proposto dallo psicologo canadese Donald Hebb nel e in seguito sviluppato dalla neurologa italiana Rita Levi Montalcini. Oggi è quindi appurato che con l’uso permanente del cervello in un simile ambiente il sistema nervoso si rinnova durante l’intero arco della vita. A Casa Ursula gli stimoli si intensificano quando è necessario uscire dal foyer per andare a lavorare nel secondo stabile collegato da un porticato. In questo edificio su un unico livello sono disposti cinque laboratori occupazionali che spaziano dalla lavorazione del cuoio a quella del legno, dalla ceramica al giardinaggio, a una sala computer. «Le persone lavorano nel loro atelier di riferimento al mattino, mentre al pomeriggio partecipano ad altre attività in base ai rispettivi bisogni e interessi», spiega il direttore Cattaneo. «I prodotti realizzati nei laboratori – aggiunge – vengono venduti nel negozio che la Fondazione gestisce in centro pae-
Casa Ursula a Balerna. (Simone Mengani)
se, sempre lungo via Primavesi. L’occupazione legata al giardinaggio servirà inoltre per decorare alcune aiuole disposte attorno agli edifici. Malgrado la pendenza, è stato possibile ricavare uno spazio per attività e ristoro. Sull’ampia terrazza meridionale e su quella che fiancheggia la struttura si potranno inoltre posare vasche rialzate per facilitare il lavoro degli utenti». La nuova sede esterna della Fondazione Provvida Madre è stata realiz-
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zata principalmente quale opportunità per i giovani che, diventando adulti, necessitano di un luogo stimolante dove vivere, dedicarsi a diverse occupazioni durante la giornata e godere di momenti ricreativi in sintonia con quanto avviene nella società. Può accogliere un massimo di quattordici residenti e di venti persone nei laboratori. Precisa Adriano Cattaneo: «Al momento non abbiamo ancora raggiunto la piena occupazione, perché procediamo per gradi. Siccome il problema delle liste d’attesa non riguarda solo i giovani adulti, tra le persone che vivono a Casa Ursula ci sono anche alcuni utenti fra i i anni. Il progetto è nato circa otto anni fa dalla constatazione che nel Sottoceneri mancavano posti letto per i giovani adulti. Bisogna però tener conto del fatto che la speranza di vita di queste persone si è allungata come per il resto della popolazione. È quindi essenziale assicurare spazi di vita e occupazione per tutte le fasce d’età. Nel nostro istituto principale vivono anziani che hanno superato i e persino gli anni». Far fronte a queste esigenze con nuove costruzioni non è scontato e la storia di Casa Ursula lo dimostra. Il terreno di metri quadrati su cui sorge ( mq sono stati edificati) era in origine la porzione maggiore del parco di una villa tuttora esistente. L’acquisto da parte della Fondazione Provvida Madre è stato possibile grazie a due fattori: i vincoli di protezione con relativi limiti di costruzione che hanno scoraggiato un’operazione immobiliare e la generosità di una coppia di benefattori. Il direttore della Fondazione evidenzia la lunga ricerca del terreno adatto e finanziariamente sostenibile e come quest’ultimo aspetto stia diventando sempre più un problema. Adriano Cattaneo: «Il Cantone, con il quale si concordano questi progetti nell’ambito della Legge cantonale per l’integrazione sociale e professionale degli invalidi, finanzia al massimo il per cento della costruzione, ma non il terreno. Anche per una Fondazione solida e di lunga tradizione come la Provvida Madre, un tale impegno è sempre più gravoso e ciò a fronte di richieste che, come detto, sono in continuo aumento». Tornando a Casa Ursula – così chiamata in omaggio alla mamma benefattrice il cui figlio vive all’istituto Provvida Madre – colpiscono la qualità architettonica del complesso così come quella dei materiali, scelti per durare nel tempo e rispondere ai bisogni funzionali dei residenti. Realizzata
su progetto dell’architetto Guglielmo Bianchi (atelierB – architetti, Mendrisio) da parte dello Studio Evolve di Giubiasco (vincitore del concorso), Casa Ursula ha beneficiato per gli interni dell’apporto dell’architetta Michela Pagani di Balerna. Certificata Minergie, la struttura ha richiesto un investimento di circa nove milioni di franchi. Agli oltre cinque assicurati dallo Stato, si aggiungono i due raccolti dalla Fondazione che lo scorso Natale ha pure lanciato un’azione mirata per aumentare questa somma. L’impegno a tutto tondo della Fondazione Provvida Madre a favore di bambini e adulti con disabilità non si limita alla professionalità di servizi all’avanguardia, ma include il senso di appartenenza a quella che può essere considerata un’estensione della famiglia d’origine (con la quale si collabora in modo intenso) e alla comunità di Balerna. Qui si trovavano già, oltre all’istituto principale, due delle attuali cinque sedi esterne, ossia il menzionato negozio La Butega e due appartamenti protetti. L’essere riusciti a realizzare Casa Ursula nel medesimo Comune favorisce una maggiore autonomia delle persone e il loro inserimento nella collettività locale. L’intesa con le autorità e alcuni commerci accresce ulteriormente queste possibilità. Mentre Casa Ursula sta diventando pienamente operativa, il direttore Adriano Cattaneo, da vent’anni alla guida della Fondazione, è da parte sua già impegnato in una nuova sfida. Il primo edificio, dotato di piscina e palestra, è stato inaugurato nel . A fronte di costi di manutenzione sempre più elevati, risulta improcrastinabile una sua completa ristrutturazione. Un intervento che dovrà avvenire nei prossimi anni senza però chiudere l’istituto, frequentato giornalmente da circa persone, di cui residenti. Dalle prime cure prestate a pochi bambini dalle suore missionarie nella Villa vescovile nel , Balerna è diventata dopo mezzo secolo una realtà di sostegno che si identifica con la Provvida Madre, nonché un valido esempio di inclusione. Nel complesso la Fondazione accoglie persone ( minorenni e adulti), lavorando su mandato cantonale. Essa opera a favore del benessere in ogni sua forma delle persone con disabilità sull’intero arco della vita rispondendo ai bisogni emergenti, come è il caso di questo ultimo progetto. Informazioni www.provvidamadre.ch
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SOCIETÀ
Il casaro d’alpe, una professione tra tradizione e passione
Festival dell’economia
Formaggio ticinese ◆ Al Centro professionale del verde di Mezzana la formazione per ottenere il Diploma cantonale di casaro d’alpe dura due anni, i posti sono limitati ma l’interesse non manca come confermano due giovani diplomati Guido Grilli
Trasformano il latte in formaggio. Ma non è solo un miracolo d’arte alimentare. Contano anche tradizione, impegno, teoria, pratica e sacrificio. Parliamo dei casari. Un’attività – nell’era digitale – che non solo resiste, ma si conferma anzi un fiore all’occhiello. La produzione ticinese conosce infatti sapienza e glorie di portata mondiale, merito anche di un’offerta formativa all’avanguardia. Michele Fürst, direttore del Centro professionale del verde di Mezzana, illustra la genesi del Diploma cantonale di casaro d’alpe, che da quest’anno si presenta in una nuova veste, dopo una revisione e una strutturazione articolata per garantire una formazione sia teorica sia pratica: «Il corso, della durata di due anni, che partirà a febbraio – è stato adattato, conformandolo alle nuove esigenze e offrendo la possibilità, anche ad altri interessati, di seguire singoli moduli. E c’è inoltre la volontà di coinvolgere maggiormente i nostri apprendisti agricoltori, per offrire loro nozioni sulla produzione di formaggi». Nel descrittivo del corso è menzionato un ampio campionario di materie e argomenti che saranno impartiti alla decina di iscritti: chimica, biologia, basi legali, microbiologia casearia, processi di fabbricazione… . «Sì, il corso è stato rivisitato ed è riservato a un massimo di candidati, dal momento che la pratica nel nostro caseificio didattico contempla spazi per un numero limitato di allievi. Al termine del corso e superati gli esami si ottiene il diploma cantonale. Non esiste d’altronde in Svizzera un apprendistato di casaro d’alpe. I moduli sono stati adattati in collaborazione con l’Associazione ticinese di economia alpestre (Stea) che, unitamente al nostro Centro professionale, forma la Commissione d’esame». Come si posiziona il casaro nel panorama delle professioni agricole? «Ogni anno raggiungiamo regolarmente un numero sufficiente di iscrizioni e questo ci conferma che riusciamo a soddisfare le richieste. È un mestiere particolare, il casaro, perché non è tra quelli che si imparano e si svolgono per tutta la vita. Per sole poche persone rappresenta una vera e propria professione, per il resto tanti sono già formati in un altro settore, generalmente nel settore agricolo, e quella del casaro rimane un’attività accessoria che non richiede l’obbligo di un diploma. Si è pertanto voluto creare questo percorso formativo, davvero ad alto livello, principalmente per mantenere un’alta qualità dei prodotti d’alpe. Si è sempre insistito, infatti, nell’affermare che per avere una buona qualità occorre anche una formazione adeguata». Valerio Faretti, presidente dal dell’Associazione ticinese di economia alpestre, anni, è l’esperto d’esame del diploma cantonale di casaro d’alpe. Conosce nel profondo il mestiere per averlo svolto per anni sin da giovane e ci offre un’istantanea della realtà cantonale. Possiede il diploma federale di tecnico di casearia, conseguito a Grangeneuve nel Canton Friborgo. «In Ticino si contano un’ottantina di alpeggi, che producono formaggio d’alpe con latte di solo mucca o misto mucca-capra, oltre a una ventina di altri alpeggi più piccoli, caricati solo
Matteo Ambrosini. Sotto, Sara Cattaneo.
con capre. Dunque complessivamente i casari sono un centinaio, lavorano in media un centinaio di giorni all’anno tra giugno e settembre. Per un periodo limitato, dunque. Non è sempre facile trovare personale, perché occorre trovare un proprietario d’azienda disposto a far partire all’alpe per circa tre mesi il proprio dipendente. Si hanno pertanto in Ticino molti casari stagionali che provengono da Italia, Portogallo». Faretti si addentra nei segreti dell’arte: «Perché si possa parlare di formaggio d’alpe ticinese AOP (Appellation d’origine protégée), occorre che esso sia prodotto a un’altitudine superiore ai metri, al latte crudo, non dunque pastorizzato: normalmente viene eseguita la mungitura alla sera, il latte ricavato va in caldaia, viene raffreddato a gradi, poi il giorno seguente viene mescolato con il latte della mungitura del mattino e di qui viene prodotto il formaggio, viene riscaldato a gradi, si aggiunge il caglio e via di seguito. Il formaggio d’alpe ticinese deve essere stagionato in cantina almeno per giorni, prima di essere venduto. È possibile venderlo a giorni, ma in tal caso deve essere analizzato». E in termini di qualità del formaggio d’alpe AOP? «Eccellente. Nel l’alpe di Carì dell’azienda agricola Piz Forca, nel concorso mondiale, “World Cheese Award” ha ottenuto il riconoscimento massimo, “Super Gold”. E l’azienda Dazio-Alpe Campo La Torba in Valle Maggia ha conseguito il premio “Gold”. Ogni due anni si svolge la competizione mon-
diale, durante la quale sono oltre mila i formaggi che si contendono il medagliere. Il Ticino si è distinto anche nell’edizione svoltasi in Spagna, quando l’alpe Pian Laghetto in valle di Blenio ha ottenuto la medaglia d’oro, mentre l’Alpe Ravina della Leventina ha preso l’argento. Sono riconoscimenti prestigiosi che testimoniano quanto il lavoro di casaro nel Cantone venga svolto a regola d’arte». Si può dunque parlare di un mestiere che conserva saldamente una propria tradizione, senza conoscere cali di entusiasmo? «Decisamente. Al momento in Ticino vengono trasformati circa milioni di litri di latte durante l’estate sugli alpeggi e si producono oltre tonnellate di formaggio e di queste, circa - sono di formaggio ticinese d’alpe “Aop”. Un marchio di qualità vantato da una quarantina di alpeggi, dopo un’attenta valutazione da parte dell’Associazione ticinese di economia alpestre che contempla quattro requisiti: come è tenuta la cantina in termini di igiene e cura delle forme di formaggio, come si presenta la pasta del formaggio (se ne estrae un frammento con una sonda), e come si presenta al sapore e al gusto. Il punteggio massimo è di punti. Ebbene, nel dei alpeggi esaminati abbiamo avuto una media di ,. Dunque l’eccellenza, ciò che ci fa concludere come i casari oggi lavorino molto bene sia nella cura di mucche e capre sia nel prodotto finale». E nell’olimpo dei casari non mancano profili di giovanissimi. Matteo Ambrosini, anni, dall’età dei
non ancora compiuti ha aperto con il fratello Nicola la propria azienda agricola a Cevio, grazie ad alcuni aiuti statali, al sostegno di parenti, amici, di altri enti e a un prestito: stalla, mucche di razza bruna alpina con le corna, tiene a precisare, capre, latte e la passione per il formaggio che produce tutto l’anno. Le idee chiarissime sulla professione sin da subito? «Sì. A tre anni all’asilo ricordo ancora di aver disegnato una mucca e di aver fatto scrivere alla maestra che “da grande voglio fare il pastore”. All’alpe di Sfille, vicino a Cimalmotto, ho cominciato ad andarci già da bambino, dal , quando avevo anni. È lì che ho iniziato a fare il pastore e a mungere. Così ho deciso di iscrivermi all’apprendistato di agricoltore, ma in Svizzera interna – due anni a Berna e uno a Disentis – perché volevo imparare il tedesco. Ottenuto l’attestato federale ho aperto l’azienda, mentre a Mezzana ho ottenuto il diploma di casaro d’alpe. Dal , da metà giugno a settembre, carico da solo l’alpe di Porcaresc in Valle Onsernone. Ma il formaggio lo produco tutto l’anno, sia in valle sia all’alpe». Un casaro a pieno titolo? «Il lavoro è vario, dalla mungitura alla stalla, il mangiare agli animali, formaggio, cantina. La giornata inizia in media alle e finisce alle , anche più tardi. Così tutto l’anno. È una questione di passione». La giovinezza e l’amore per la natura e il formaggio appartengono anche a Sara Cattaneo, anni, che tuttavia come sua prima professione ha svolto quella di operatrice sociosanitaria. Ma dopo il diploma è stata «catturata dalle montagne» e dal lavora presso l’azienda di Danilo Peter ad Airolo come operaia agricola. «Lui carica l’alpe a Fortunei al Passo del San Gottardo, dove nel ho svolto la mia prima stagione di casara ed è in quel periodo che ho maturato l’idea di svolgere il corso cantonale a Mezzana, che ho concluso nel . E la scorsa estate per la prima volta mi sono assunta io l’intera produzione di formaggio. Abbiamo prodotto forme. Chiaro, puoi chiedere. La consulenza non manca mai». Informazioni www.mezzana.ch
SCC ◆ Le nuove forme di lavoro (post-Covid)
Sarà dedicato alle nuove forme di lavoro (post-Covid) il festival dell’economia organizzato dalla Scuola cantonale di commercio di Bellinzona (SCC). I quattro incontri proposti indagheranno l’evoluzione del mercato del lavoro dal boom economico ad oggi con l’obiettivo di capire meglio la realtà contemporanea. L’edizione del festival è stata organizzata in collaborazione con l’Istituto per la Memoria e la Cultura del Lavoro dell’Impresa e dei Diritti sociali di Torino (Ismel) e la redazione RSI di Tempi moderni. La serata di apertura, prevista giovedì febbraio alla Biblioteca cantonale di Bellinzona (ore .), metterà in luce i passaggi che hanno portato il capitalismo a sviluppare forme sempre più sofisticate di lavoro, per interrogarsi in che misura questi sviluppi stiano riconfigurando il mercato del lavoro svizzero e regionale. Interverranno Ronny Bianchi e Christian Marazzi con Sabina Zanini e Mauro Maffeis. Gli appuntamenti successivi si terranno all’Auditorio SCC dalle . alle . (possibilità di seguire in streaming) il febbraio, il febbraio e il marzo e vedranno come ospiti la professoressa Ivana Pais che parlerà delle nuove forme di lavoro nell’era delle piattaforme, il prof. Stefano Musso che ripercorrerà il ruolo storico del sindacato e le recenti evoluzioni, il prof. Giacomo Corneo che analizzerà l’evoluzione della disuguaglianza salariale nel modello renano. Informazioni: www.festivalscc.ch
Fumetti matematici Web ◆ Continuano le avventure di Ellie
È online da oggi sul nostro sito la nuova puntata dei fumetti creati nell’ambito del progetto Matematicando del Centro competenze didattica della matematica del DFA della Supsi. Si tratta dei viaggi nel tempo che la giovane Ellie compie grazie agli occhiali virtuali costruiti dal geniale zio Angelo alla scoperta dei personaggi che hanno fatto la storia della matematica. Questa nuova puntata è dedicata a Gauss. I fumetti si trovano sul sito www.azione.ch/societa, sezione «Vivere oggi» (oppure inserendo la parola «matematicando» nel campo di ricerca).
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SOCIETÀ / RUBRICHE ●
Approdi e derive
di Lina Bertola
Dall’incertezza all’imprevedibilità ◆
Con il mese di gennaio termina anche il rituale degli auguri scambiati al primo incontro nel nuovo anno. L’auspicio ricorrente è stato quello di un anno migliore. Un auspicio che esprime la speranza di riuscire a superare i sentimenti di inquietudine e di disorientamento e le sofferenze vissute nel . All’inizio della pandemia, nel , nonostante le drammatiche vicende di malattia e di morte, avevamo sperato che quell’improvvisa interruzione ci avrebbe potuto offrire anche qualche occasione per metterci allo specchio del nostro vivere, per cercare di entrare in contatto con gli strati più profondi del nostro stare al mondo. Un’intima verità, pensavamo, imprigionata nella fretta dei giorni, sarebbe potuta emergere dal silenzio e dall’isolamento forzato. Un emergere da noi stessi che avrebbe potuto trasformare la solitudine sofferta in una solitudine creativa, di apertura sul domani, e lo stare a casa in un’occasione per abitare con
calma il nostro mondo interiore. Anche l’idea di libertà, pensavamo, si sarebbe potuta meglio esprimere come forza interiore, come capacità di trasformare i limiti imposti in occasioni di scelta personale. Di fatto il sembra aver soffocato, in gran parte, quel desiderio di rinascita che accompagna i momenti più bui. L’anno appena trascorso ci ha mantenuti prigionieri di una realtà sempre più indecifrabile e imprevedibile. Nel perdurare di condizioni difficili è emerso anche il lato più conflittuale della convivenza. Ci siamo rinchiusi nel nostro piccolo giardino. Incomprensioni, insofferenze, accuse reciproche sono apparse come il sintomo esasperato di fragilità che in realtà vengono da lontano, da quella normalità che continuiamo ad invocare come un miraggio. Oggi vorrei chiudere il cerchio degli sguardi su questa nostra umanità infragilita nella speranza che anche il
La società connessa
cerchio di questa emergenza, divenuta faticosa quotidianità, possa chiudersi presto. Torno così a chiedermi se, nonostante tutto, di tutto ciò che ci è toccato vivere qualcosa possa restarci addosso come risorsa per andare oltre. Mi chiedo se l’incertezza, che ha pervaso le nostre esistenze, possa rivelarsi anche un invito a incamminarci verso nuove possibili aperture. Nella cultura della modernità, l’incertezza è divenuta una realtà con la quale convivere. Contro dogmi di ogni genere, contro il desiderio di un sapere assoluto e definitivo, la conoscenza umana ha continuato a riconoscersi come inesauribile ricerca di verità, ma di una verità sempre provvisoria. Per comprendere questo nuovo clima culturale, è opportuno richiamare le conclusioni proposte sul finire del secolo scorso dal filosofo Karl Popper a proposito della verità. Ogni verità scientifica deve sempre poter essere falsificabile: lo scienziato non de-
ve proteggere le sue idee, non deve chiuderle nel cassetto delle certezze, ma al contrario sottoporle alla confutazione e alla critica. Questa consapevolezza dell’importanza del dubbio e del confronto critico delle idee è spesso diventata nutrimento etico anche nell’esperienza quotidiana di ciascuno di noi. Un volto meno luminoso del valore dell’incertezza si è tuttavia impadronito di questo nostro presente pandemico: siamo in difficoltà nel prevedere ciò che accadrà domani. Pur riconoscendo l’incertezza dei risultati, la capacità di prevedere rimane un bisogno fondamentale. Non solo per la scienza, che ha inventato il calcolo delle probabilità e la statistica. Il bisogno di prevedere abita anche il nostro intimo vissuto: il desiderio, l’attesa e la motivazione parlano il suo linguaggio. È il presente del futuro, come ricorda Sant’Agostino, a dare un senso alle nostre giornate. Eppure, anche sulla
reale imprevedibilità del mondo, sulla fallacia delle nostre previsioni, esistono oggi interpretazioni che ci invitano a riflettere. A cominciare dalla fisica quantistica che descrive l’imprevedibilità del comportamento delle particelle subatomiche. Poi c’è il famoso cigno nero che, in un intelligente e affascinante libro di Nassim Taleb, diviene metafora di come ciò che è improbabile governi la nostra vita. Edgar Morin, che amo ricordare spesso per le sue riflessioni sul bisogno di assumere la complessità del mondo nella nostra esperienza personale, osserva che proprio la complessità della storia ha spesso smentito le nostre aspettative. Nella sua prospettiva, l’imprevedibile si trasforma nell’inatteso. Un limite si trasforma in una possibile apertura. Il che suggerisce che anche questo volto dell’incertezza, che ci espone all’imprevedibilità del domani, potrebbe diventare una risorsa. Affaire à suivre…
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di Natascha Fioretti
Instagram, il Sacro Graal ◆
Sarà l’età che mi tiene attaccata a Facebook che tra tanti social network continuo prevalentemente ad usare per condividere contenuti e informarmi. Twitter non mi ha mai convinta. Instagram fino a qualche tempo fa non lo consideravo nemmeno. Mi ero fatta l’idea che si trattasse di una piattaforma per persone vanesie intente a scattarsi selfie tutto il giorno per poi ritoccarli e postarli con filtri ad effetto. Una perdita di tempo tutta finzione e maquillage ma ho dovuto ricredermi. Per prima cosa ho subito perso la testa per le copertine del «The New Yorker» che oggi su Instagram conta quasi sette milioni di follower. Certo non ci sono solo quelle, l’altro giorno per il compleanno di Virginia Woolf, nata il gennaio del , c’era l’immagine dell’articolo pubblicato sul magazine americano dal titolo Virgina
Woolf ’s Art of Character-Reading, in cui si sottolineava il suo talento nel creare i personaggi dei suoi romanzi, figure a cavallo tra realtà e finzione. Un piacere leggere e subito la curiosità per saperne di più mi ha spinta sul sito del magazine a cui tra l’altro sono abbonata. Navigando sul social tra foto, post e profili ho imparato ad apprezzare i testi, spesso lunghi, che accompagnano le immagini, come pure l’impaginazione, molto curata. La grafica è senz’altro migliore di quella di Fb. Questo mi ha fatto ricordare un articolo che lessi tempo fa sul «Guardian» proprio a proposito di Instagram. No Filter. The Inside Story of How Instagram Transformed Business, Celebrity and Our Culture di Sarah Frier racconta origini, stranezze e peculiarità non solo del social network ma anche del suo fondatore Kevin Systrom. Ad esempio il gusto
La nutrizionista
per il bello, un senso acuto per l’estetica e la ricerca della qualità. A tal punto che negli uffici del quartier generale di Menlo Park ha eliminato i cestini sotto le scrivanie perché rovinavano l’estetica dell’ambiente che, a suo dire, deve rispecchiare la filosofia estetica della sua creatura. Gli uffici dunque devono essere belli, semplici ed essenziali. Battute a parte, oggi tutte le grandi testate sono su Instagram alla ricerca del Sacro Graal, o meglio, dei lettori giovani. Recenti dati sull’accesso e il consumo di notizie da parte dei media ci dicono che negli Stati Uniti ma anche in Europa i giovani tra i e i anni si informano sui social. Negli Stati Uniti il %, in Inghilterra il %, in Germania il % (dati del Reuters Institute). E il social più popolare tra i giovani della Generazione Z e i Millennial è proprio Insta-
gram. Sempre uno studio del Reuters Institute Digital News ci dice che l’utilizzo di Instagram in pochi anni è più che raddoppiato superando Twitter come fonte di notizie. Tempo fa, in un’intervista, la responsabile della strategia digitale del quotidiano berlinese «TAZ» mi disse che per il pubblico giovane puntavano su Instagram con ottimi risultati. Della serie se i giovani non vengono da noi, dunque non si abbonano al cartaceo o al digitale, andiamo noi da loro. Il «Guardian», sempre un passo avanti in materia di giornalismo e cultura digitale, da tempo coltiva su Instagram il suo rapporto con i giovani nel tentativo di costruire una comunità attenta e fedele nella speranza che possa poi abbonarsi al giornale o donare al «Guardian» digitale che ancora oggi, in un mondo di paywall, offre un accesso gratuito all’informazione
online. Con quasi cinque milioni di follower, il «Guardian» sperimenta molto nell’ottica di attirare costante attenzione e creare coinvolgimento. Fanno scuola le sue Instagram Stories come Fake or For Real? in cui un giornalista seleziona alcune tra le fake news più clamorose circolate in settimana per spiegarle e smascherarle. Prima però chiede ai follower di dire la loro. L’iniziativa ha avuto un tale successo per il suo carattere educativo in fatto di alfabetizzazione e cultura mediatica da essere adottata nelle scuole inglesi chiedendo agli studenti di creare sulla stessa base i loro episodi e le loro storie. Non solo, lo European Digital Media Awards ha scelto Fake or For Real?, ideato da Eleni Stefanou, editor delle piattaforme social del «Guardian», come miglior progetto digitale per il coinvolgimento dei giovani nel .
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di Laura Botticelli
L’inappetenza della solitudine ◆
Cari lettori, questo mese non rispondo a una vostra domanda, ma desidero rendervi partecipi di un problema spesso ignoto, invisibile, ma non per questo meno importante di molti altri. Come credo un po’ per ognuno di noi, da quando è comparso il Coronavirus, ho festeggiato i Natali più strani mai festeggiati prima. È davvero incredibile a quanti e quali livelli la pandemia si faccia ancora sentire! Mi sono ritrovata la Vigilia a brindare in giardino, con i parenti più intimi, a metri di distanza, e abbiamo poi cenato ognuno a casa propria. Mi rendo conto di essere stata ancora fortunata: non tutti hanno visto i propri cari e so che in molti hanno vissuto un Natale in solitudine. È proprio di questo che desidero parlarvi: la solitudine e le sue conseguenze soprattutto sulle persone anziane. A livello globale, fino al per cento delle persone di età superiore ai
anni è a rischio di isolamento sociale e circa un terzo sperimenterà la solitudine in età avanzata. La solitudine e l’isolamento sociale, infatti, sono due cose diverse. La solitudine è la sensazione soggettiva e angosciata di essere soli o separati, mentre l’isolamento sociale è l’oggettiva separazione fisica dalle altre persone. È possibile che una persona sia circondata da altri ma si senta sola, oppure sia sola ma non si senta tale. Le persone anziane sono spesso vulnerabili alla solitudine a causa di un’ampia gamma di fattori come la vedovanza, la morte di parenti e amici, l’essere in un istituto ospedaliero o in una casa anziani, l’avere un reddito basso o essere in pensione. La pandemia di COVID- inoltre ha aggiunto un rischio in più con l’isolamento e la perdita delle interazioni nelle loro comunità. La solitudine ha un impatto significativo sulla sa-
lute fisica e mentale ed è un fattore di rischio significativo di malnutrizione. Uno studio ha mostrato che le persone sopra i anni che vivono da sole hanno un indice di massa corporea significativamente più basso rispetto a coloro che vivono con la propria famiglia. Le persone anziane socialmente isolate spesso sperimentano una riduzione dell’appetito, mangiano meno pasti in un giorno e hanno un minor apporto di proteine, frutta e verdura nella loro dieta. Potrebbe essere perché diventano meno motivati a fare acquisti, a cucinare, e a mangiare. Le conseguenze della malnutrizione possono essere devastanti: aumenta il rischio di ricovero ospedaliero, l’atrofia muscolare e le cadute con possibilità di rompersi qualche osso, la ridotta capacità di combattere le infezioni e la compromissione della guarigione delle ferite. Sotto le feste la sensa-
zione di solitudine può peggiorare, e i giorni che seguono non la migliorano. Se da una parte dunque gli anziani potrebbero aver avuto occasione di mangiare qualcosa in più rispetto al solito, ora è il momento di riprendere o continuare a frequentare i propri cari più anziani per combattere lo spettro della solitudine. Dopo Natale vi sarà rimasto uno smartphone performante o un tablet – sostituiti da quelli nuovi: perché invece di buttarli o farli finire in un cassetto non li regaliamo ai nostri nonni? Sfruttare le tecnologie per fornire loro delle reti di supporto sociale e un senso di appartenenza può essere un passo importante. Telefoniamo, spediamo messaggi, facciamo videochiamate regolari tramite i vari strumenti di videoconferenza; tutto questo può aiutare le persone anziane a rimanere in contatto con noi e i propri amici, ampliando la loro cerchia
sociale o aumentando la frequenza dei contatti con i conoscenti esistenti. E torniamo a scrivere lettere, inviare cartoline ed e-mail. Non solo perché dà gioia riceverle ma sono anche ottimi modi per entrare in contatto con altre persone significative. Anche dopo questo periodo festivo che ci lasciamo alle spalle: fa del bene non solo ai nostri anziani ma a tutti noi, perché non dobbiamo dimenticare che le persone anziane rappresentano una risorsa di memoria ed esperienza inestimabile, che a livello educativo può formare le giovani generazioni di oggi come nessun altro potrebbe fare. Informazioni Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch
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TEMPO LIBERO
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L’arcipelago di Madeira Reportage dalle isole che furono crocevia lungo la rotta delle spezie e poi d’America
Tutti i segreti del lievito madre Non solo la ricetta e i necessari consigli ma anche informazioni utili su come conservarlo e come servircene
L'Antartide quale meta popolare La testimonianza diretta di chi varcherà una delle ultime barriere geografiche sensibilizzerà il mondo sui problemi climatici?
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Tutti i colori del ballo Tra il ludico e il dilettevole
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Dimenarsi in discoteca non è necessariamente solo un divertimento senza pretese
Sebastiano Caroni
In occasione di una proiezione cinematografica en plein air di Flashdance, celebre film musicale del diretto da Adrian Lyne, ho assistito a una scena che ha impreziosito non poco la visione del film, tanto da domandarmi se quanto successo fosse stato accuratamente coreografato dagli organizzatori. Succede che, all’inizio di una scena dove la musica parte improvvisa e, all’instante, la Beals comincia a dimenarsi come un’ossessa, fuori schermo sbuca dal nulla un ragazzino che, in sella a una bicicletta, con una destrezza e una padronanza del corpo degne della stessa Beals, impenna il suo mezzo e passa davanti allo schermo come se fosse lui stesso parte del film. Il passaggio di quel ragazzino sarà durato si e no qualche secondo, ma era talmente sincronizzato al ritmo indiavolato della musica, e al pulsare del corpo della Beals, da indurmi a pensare che a volte la realtà supera, e potenzia, la finzione.
La proiezione di Flashdance, resa unica dal numero di quel ragazzino in bicicletta, faceva parte di una rassegna di film dedicata al ballo: un tema che è spesso associato alla cultura popolare, allo svago e al divertimento e che, come tutte le cose ritenute – a torto –, un po’ frivole, è raramente oggetto di riflessioni approfondite. Quando se ne parla, spesso è in quanto a elemento di decoro, oppure sono i suoi aspetti tecnici ad interessare. Altre volte rinvia alla descrizione di operazioni sofisticate che definiscono cerimonie ritualistiche. Oppure, se ne parla in relazione a uno spettacolo, o a un festival di danza contemporanea o classica. E quando si tratta di andare a ballare in discoteca, il ballo viene ricondotto a quella o quell’altra tribù della notte, oppure viene rubricato come un diversivo, un divertimento senza pretese. In un caso come nell’altro, il ballo e la danza ci rivelano molto più di quanto non pensiamo sulla nostra società, sui nostri valori e sul nostro immaginario. Non è quindi un caso se proprio la centralità del ballo appaia in molte scene di film, alcuni recenti e altri meno – da La febbre del sabato sera (), a Footloose () e Dirty Dancing () fino a Pulp Fiction () e La La Land (). A volte poi capita che ballare con qualcuno possa addirittura cambiare l’ordine del mondo in cui vivi, mettendo a rischio equilibri costruiti nel tempo e destinati ad essere salvaguardati. Già qualche ge-
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Il ballo e la danza ci rivelano molto di noi stessi, della nostra società, dei nostri valori e del nostro immaginario
nerazione fa, ad alcune feste di paese se una persona sceglieva il compagno o la compagna di ballo sbagliata, le conseguenze potevano essere anche molto estreme. Tanto per dire, poteva capitare che il giorno dopo qualcuno ritrovasse un cadavere in fondo a un burrone. Può bastare un passo di danza da manuale, degli sguardi che si incontrano, un contatto appena accennato, oppure una presa decisa e sicura per mettere in discussione un sistema di regole e una linea di demarcazione che divide il lecito e l’illecito. Chi ha visto Pulp Fiction di Quentin Tarantino sa di cosa parlo, tanto che la sequenza del ballo fra John Travolta e Uma Thurman è ormai diventata oggetto di culto. Sembra assurdo, ma a volte bastano dei movimenti coreografati alla perfezione per far vacillare il mondo mettendo in crisi regole fino ad allora seguite alla lettera. La scena del ballo di Pulp Fiction ci rimanda direttamente a La febbre del Sabato sera, passando per tutta una serie di film dove la danza si carica di potenziale iniziatico (Dirty Dancing,
Il tempo delle mele, ), diventa un modo per affermare la propria autonomia (Footloose), si trasforma in un teatro delle ossessioni (Il cigno nero, ), ammicca all’erotismo glamour (Moulin Rouge, ), oppure offre un’occasione di riscatto nel mezzo di una vita infelice (penso a Jennifer Lawrence e Bradley Cooper in Il lato positivo, ). Individuale (quello postmoderno delle discoteche), collettivo (tipo la Macarena) o a coppie (valzer, tango, salsa, eccetera) la danza non cessa mai di essere un veicolo di affermazione della propria identità rispetto alla collettività.
Un passo di danza, l’incontro di sguardi, un contatto appena accennato, possono spezzare l’equilibrio tra lecito e illecito Come per chi, nel pieno dell’adolescenza, decide che Io ballo da sola (il riferimento è al film di Bertolucci del il cui titolo originale, va detto, è Stealing Beauty). Perché chi dice «io
ballo da sola» è un po’ come se dicesse «non mi lascio imbrigliare da nessuno». Oppure, come canta Ligabue, «sei bella che fai male / sei bella che si balla solo come vuoi tu»: qui a ballare sono gli altri, costretti a ubbidire a chi detta il ritmo. Non dimentichiamoci che, nel nostro immaginario culturale, la danza è legata alla vita, alla nascita, alla natura (la danza della pioggia), alla fertilità, ma anche alla comunicazione con l’aldilà. Chi balla può essere molto sensuale (la danza del ventre), ma può anche entrare in trance e comunicare con gli spiriti. La danza può diventare professione, o semplicemente prestare conforto a una filosofia di vita, per portare buon umore e togliersi dalla testa i pensieri pesanti. Il ballo è anche un’anticamera della seduzione, come ci insegnano i maestri latino-americani, tanto della salsa quanto del più sofisticato, ma non per questo meno popolare, tango argentino. E anche in questo caso, film che mettono in scena la focosità del ballo non mancano certo. Ogni generazione ha le sue predi-
lezioni anche in fatto di ballo; le giovani generazioni, per esempio, hanno una spiccata propensione per i balli in stile hip hop, come testimonia anche la popolarità di film quali Save the Last dance, , Step Up, , e Street Dance, , che raccontano le vicende di ballerini o gruppi di ballo che cercano di imporsi all’attenzione di qualche produttore musicale o di diventare famosi vincendo una gara di ballo. E pazienza se la trama, gira e rigira, è quasi sempre la stessa. Quel che più conta è che i giovani rivendicano con forza la danza come strumento di affermazione identitaria. Del resto, sia giovani sia adulti, nessuno può dirsi completamente estraneo all’insieme di significati che il ballo mette in moto. C’è chi balla con convinzione e passione, e c’è chi invece si muove impacciato e quasi controvoglia. Nel bene e nel male, ognuno di noi ha dei ricordi preziosi legati al ballo. E in ognuno di noi, sono sicuro, c’è una pista da ballo, regolamentare o semplicemente improvvisata, che ha significato qualcosa di importante.
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TEMPO LIBERO
Le isole fortunate Reportage
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L’arcipelago di Madeira fu l’avamposto delle esplorazioni portoghesi
Paolo Brovelli, testo e foto
Antonio vive qui da tanto. Dai tempi dell’università, quando faceva ricerche per la sua tesi di laurea. C’è venuto in barca a vela, con un gruppo d’amici diretti ai Caraibi, salpando proprio dalla Doca de Belém, il porticciolo turistico del quartiere lisbonese da cui prendevano il largo i navigatori che nel XV secolo hanno cambiato il mondo. Voleva sentirsi un po’ nei loro panni, giungere all’isola dal mare. «Non erano molto più grandi della nostra le barche che ci hanno fatto arrivare fino qui, e poi fino in America, fino in capo al mondo. Le abbiamo inventate noi portoghesi, nel Quattrocento. Dovete ringraziarci se il pianeta è tornato a essere uno, se i continenti si sono ritrovati» mi dice allegro e trasognato guardando avanti a sé, in un copione che pare ripetere spesso.
Prospettiva sul Cabo Sao Lourenço; sotto a sinistra, il forte di Sao Tiago; a destra, il panorama da Ponta do Pargo.
Dicono che anche Colombo ci abbia abitato, sull’isola di Porto Santo, che dista un paio d’ore di traghetto da Funchal Sono due mattine che ci troviamo lì, al sole fresco di novembre, seduti su quella panchina del porto di Funchal, la capitale dell’isola di Madeira, al largo della costa Nord-occidentale dell’Africa, a osservare questo mare cangiante e quel cielo azzurro che paiono ancora caldi anche in pieno autunno. E, quanto a me, a fantasticare su quella caravella ormeggiata lì, a far da contrasto con uno yacht ultramoderno. Santa Maria de Colombo, dice il nome sulla prua. È una copia assai fedele: piccola e compatta, venticinque metri per sette, e tre alberi con le vele crociate col simbolo rosso dell’Ordine di Cristo. Un paio di volte al giorno porta a spasso turisti che hanno voglia di sentirsi come quegli antichi eroi dei mari. Antonio la sua tesi sulla Madeira antica l’ha finita quasi trent’anni fa, ma da qua non se n’è più andato. È stato un ritorno, dice lui. Secondo i racconti di famiglia i suoi avi s’erano trasferiti qui nel Cinquecento, da un villaggio povero del Minho, nel nord del Portogallo, la regione che ha fornito la maggior parte dei coloni all’arcipelago. Poi però cent’anni or sono il bisnonno era tornato in continente. Perché la prosperità del grano, della canna da zucchero, del pregiato Madeira (un vino simile al Porto e al Marsala) e poi del turismo aveva lasciato il posto a una crisi nera, alleviata solo un poco dal denaro portato dai frequenti, facoltosi visitatori (nobili europei, inglesi, tedeschi…) in cerca di cure termali, clima salubre e quiete. Ci aveva fatto scalo persino Napoleone nel , sulla via del suo esilio a Sant’Elena. «Le chiacchiere di famiglia sull’isola, sulla sua vegetazione subtropicale, le scogliere di vento a picco sull’oceano, le valli profonde che incidono scoscese i monti fino al mare, mi hanno segnato fin dall’infanzia» confessa. E così, sulle ali delle sue parole, scopro che Madeira fu la prima conquista portoghese sulla via delle Indie, nel . Merito della voglia d’oceano dell’Infante Dom Henrique, Enrico il Navigatore, figlio del re e massimo fautore della politica d’espansione marittima del Portogallo. I primi colonizzatori approdarono dove ora sorge Machico, in una baia protetta dell’est. Madeira divenne così subito testa di ponte e punto di
approvvigionamento per le navi alla ricerca del capo di Buona speranza e poi dell’India. Un crocevia lungo la rotta delle spezie e poi d’America. Dicono che anche Colombo ci abbia abitato, sull’isola di Porto Santo, a un paio d’ore di traghetto da Funchal, dove avrebbe perfezionato la sua idea di cavalcare gli alisei. Dicerie, forse, ma è un fatto che sua moglie Felipa Moniz era figlia di Bartolomeu Perestrello, governatore dell’isola nonché
uno dei suoi scopritori. Per inciso, a Porto Santo c’è una casa-museo del genovese. «É toda ela um jardín e tudo o que nela se aproveita é ouro»: «È un immenso giardino e tutto quel che vi si ricava è oro». Così Gaspar Frutuoso, storico cinquecentesco portoghese, definisce l’isola di Madeira del tempo suo. Meno noto dei suoi illustri vicini atlantici − Capo verde, Canarie, Azzorre − l’arcipelago di Madeira è reNuvole sul Pico Dos Areeiros.
gione autonoma dal , con la fine della dittatura di Salazar; comprende anche la minuscola e brulla Porto Santo, e un altro paio di gruppi di isolotti disabitati, le Desertas e le Selvagens, rotta alle Canarie. Tre volte la superficie dell’isola d’Elba, Madeira significa «legname», quella che fu la sua prima risorsa, prosciugata subito fin quasi all’esaurimento per farci navi e case; e per far posto ai coltivi, ricavati a forza di zappa e denti stretti sulle terrazze scavate sui ripidi pendii dei monti. Sì, perché Madeira è un’isola vulcanica senza un vulcano ma piena di strapiombi, con poche spiaggette e approdi, e quasi priva di pianure. Non vi scorrono fiumi, ma solo ribeiras, torrenti stagionali, e per portare l’acqua alle colture i padri han congegnato centinaia di chilometri di canali e canaletti, i preziosi acquedotti detti levadas. Passeggiando per le viuzze acciottolate della Funchal antica, dietro il famoso mercato dei Lavradores (gli agricoltori), la sera bisogna far gimcana tra i tavolini dei ristoranti, fitti fitti. L’atmosfera è rilassata e i turisti, per via della sua eterna primavera, ci vengono quasi tutto l’anno. Sui piatti spesso s’allunga un trancio di pe-
sce espada, una sorta di anguillona, specialità locale accompagnata da un contorno di banane fritte, un sapore che richiama il tropico d’America. I murales sono numerosi, i balconi e le case sbuffano buganvillee di mille colori. Come mille sono le altre specie vegetali, importate da ogni dove per rimpinguare la flora insulare spogliata delle sue specie autoctone all’inizio della colonia. Solo sull’alta serra, che taglia da ovest a est l’isola, esistono ancora scampoli di laurisilva, la foresta sempreverde di lauracee che un tempo copriva gran parte del bacino del Mediterraneo e che ora è tanto rara da esser diventata patrimonio dell’umanità Unesco. Affacciato sugli spalti del forte cinquecentesco di São Tiago, ora ristorante di livello, pirati non se ne vedon più, né navigatori. Ma a guardar bene, con gli occhi della suggestione, allora sì, vedi le flotte con le vele spiegate, il vento che gonfia le croci. Son tredici navi dirette al Brasile. Ci portan l’Europa, si prenderanno l’America. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica
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Lievito madre fai da te Gastronomia
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La ricetta è semplice: servono solo acqua, farina, un po’ di tempo e buona cura
la mia amica non usa fare, mi è stato raccontato da un’altra persona, anche se non l’ho mai testato personalmente), consiste nell’unire all’impasto iniziale di farina e acqua, vasetto di yogurt bianco intero e cucchiaino di miele o di malto d’orzo. Procedete poi come spiegato sopra. In questo caso, i tempi di trasformazione del composto in pasta acida, sono abbreviati di molto. Attenzione: quando incorporate l’ultima parte di lievito madre a un nuovo impasto, ricordate di staccarne un pezzo quando è già lievitato per avere poi del nuovo lievito madre da utilizzare. Già il giorno dopo dovreste avere pronta una nuova madre, se così non fosse, aggiungete la solita acqua e farina. Ma non finisce qui: è anche importante verificare la qualità del vostro lievito prima di utilizzarlo. Una buona madre deve avere un colore avorio e non grigio, una consistenza morbida ma non appiccicosa o viscida e con un’alveolatura fine e un sapore dolce-acido, non amaro o pungente. Come si conserva? Inserite la pasta acida in un contenitore di vetro avvolto in un tessuto a maglia larga che le permetta di «respirare» e conservatela in frigorifero fino al momento di servirvene. Ricordate di «nutrire» o «rinfrescare» la madre almeno una volta alla settimana, aggiungendo una quantità di farina pari al suo peso e il % di acqua tiepida, e di lavare il contenitore di vetro una volta ogni due mesi. Al momento di servirvi del lievito, prelevate la dose necessaria; di solito, per un pane da kg ne bastano g, e attivatelo unendo la metà del volume di acqua e la metà di farina. Non appena comincia a fare le bolle, unite ancora la stessa quantità di acqua e farina e il lievito è pronto.
Come si fa?
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Parliamo del lievito madre. Oggi, in Italia è di gran moda. Personalmente uso nove volte su dieci il lievito di birra, ma ogni tanto «faccio» quello madre. Faccio è tra virgolette perché me lo dà una cara amica, che ce l’ha sempre. Evviva gli amici! Per ottenere questo tipo di lievito, basta preparare un impasto semplice a base di farina e acqua, e lasciarlo riposare per almeno due settimane in un luogo tiepido e buio. Durante questo periodo l’impasto diventa la coltura ideale per due batteri, uno presente nella farina e l’altro nell’aria. A questo punto è sufficiente unire il lievito madre all’impasto desiderato per vederlo lievitare. Mediante l’ausilio di lievito madre, oltre alla già menzionata fermentazione alcolica, avviene anche una fermentazione lattica con la conseguente formazione di acido lattico. Questa procedura, lenta e impegnativa, rende però il pane molto più digeribile e lo fa durare molto più a lungo rispetto a un pane lievitato col lievito di birra. Solitamente lo si può riconoscere dal retrogusto lievemente acido della sua mollica e dal colore più scuro della crosta. Vediamo quindi come prepararlo. Versate nella ciotola del robot g di farina e unite , dl di acqua, dopodiché impastate a velocità moderata fino a ottenere un composto molto morbido. Conservate l’impasto in un luogo tiepido, buio e lontano da correnti d’aria per almeno dodici ore, coperto con un panno umido. Il giorno dopo aggiungete altri g di farina, impastando con , dl di acqua. Proseguite con la medesima procedura fino a quando il composto non prende un odore di acido. Un modo più rapido, meno «purista», ma ugualmente efficace (che
Propoli87
Allan Bay
Oggi, vediamo come si fanno due ricette vegane a base di riso. Riso con ragù di seitan (ingredienti per persone): g di riso, g di seitan, carota, cipolla grande, gambo di sedano, concentrato di pomodoro, chiodi di garofano, vino bianco, olio di oliva, sale, pepe.
Tagliate il seitan a pezzi piccoli. Tritate la carota, la cipolla e il sedano. Versate un filo di olio in una casseruola e unite il trito di verdure. Rosolatele per minuti e sfumatele con dl di vino. Aggiungete il seitan e una punta di concentrato di pomodoro stemperato in poca acqua; profumate con qualche chiodo di garofano pestato. Cuocete per minuti, scoperto a fuoco dolce, unendo acqua bollente se asciugasse troppo. Solo alla fine regolate di sale e di pepe. Intanto cuocete il riso a risotto con brodo vegetale. Alla fine mescolate il ragù e aggiungete un giro di olio. Arancine di riso e quinoa (per per-
sone): g di quinoa lessata, g di riso lessato, g di ragù di seitan (vedi sopra), g di piselli lessati, g di mozzarella vegana, pane grattugiato, latte di riso, olio di semi di arachide, sale e pepe. Mescolate in una ciotola la quinoa e il riso. Unite il ragù di seitan, i piselli e la mozzarella tagliata a cubetti. Regolate di sale e di pepe, amalgamate il composto e formate le arancine. Inserite in ogni arancina un po’ di piselli poi raffreddatele in frigorifero per un’ora. Trascorso il tempo passatele nel latte di riso e poi nel pane grattugiato e friggetele in olio di semi ben caldo, scolatele su carta per fritti. Servitele calde.
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Ballando coi gusti
Oggi, due tartare: quella con la salsiccia è un po’ anomala, quella di tonno è più classica.
Tartare di salsiccia, pane e crauti
Tartare di tonno in salsa agro-piccante
Ingredienti per 4 persone: 240 g di salsiccia a nastro (tipo luganega) – 8 fette di pane di segale – 1 confezione di crauti all’aceto – 1 cucchiaino di semi di finocchio – erba cipollina –noce moscata – formaggio grana – olio di oliva – sale.
Ingredienti per 4 persone: 280 g di filetto di tonno già pulito – 100 g di pomodorini – 50 g di arachidi salate – 1 cucchiaino di Tabasco – 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro – 1 cucchiaio di aceto – ½ spicchio di aglio – 1 cucchiaino di prezzemolo tritato – zucchero – olio di oliva – sale.
Togliete il budello alla salsiccia, mettetela in un piatto piano e sgranatela, per renderla spalmabile. Condite la pasta di salsiccia con i semi di finocchio, la noce moscata e l’erba cipollina, quindi lasciatela riposare a temperatura ambiente per minuti. Scolate i crauti dalla loro salamoia e conditeli con olio, sale e pepe. Cospargete le fette di pane con poco grana grattugiato e tostatele in forno a ° per minuti. Spalmate le fette di pane con la pasta di salsiccia e terminate con i crauti.
Lavate i pomodorini, tagliateli in parti, salateli, zuccherateli e poneteli a sgocciolare in un colino messo dentro a una tazza per ora. Frullate i pomodorini con il loro liquido rilasciato, il concentrato di pomodoro, l’aceto, l’aglio e il Tabasco. Passate il frullato ottenuto al colino fine e tenetelo in frigorifero fino al momento di servire. Tagliate il filetto a cubi molto piccoli e conditelo con cucchiai di olio, poco sale e il pepe macinato. Appoggiate un coppapasta quadrato o rotondo sul piatto, riempitelo con il tonno e livellate. Togliete il coppapasta, irrorate con la salsa e cospargete con le arachidi tritate grossolanamente e poco prezzemolo tritato.
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TEMPO LIBERO
Le lanterne di San Valentino Crea con noi
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Una semplice idea per riusare gli imballaggi di tetrapak e illuminare una serata romantica
Giovanna Grimaldi Leoni
Delle piccole lanterne, create recuperando gli imballaggi di tetrapak, per decorare la tavola e creare la giusta atmosfera per una cena romantica. Sono il progetto di questa settimana tutto dedicato a San Valentino. Un tutorial creato con materiale di riciclo che saprà decorare in maniera originale la vostra serata e accompagnare la vostra cena con la luce soffusa delle candele. Procedimento Tagliate la parte superiore dei tetrapak in modo da poterli lavare ed asciugare bene anche all’interno,
Sui lati più larghi disegnate la finestra a cuore che ritaglierete in seguito con le forbici. Tagliate i spigoli partendo dall’alto fino alla linea disegnata, ma asportate solamente i due lati più larghi (quelli delle facciate dove andrete a ritagliare la finestra). Fate invece un’incisione leggera sulla linea disegnata in coincidenza dei lati più stretti in modo da poter piegare il cartone in maniera «pulita» e ottenere il tetto. Formate il tetto e una volta definita la misura tagliate il cartone in eccesso lasciando un lato di cm più lungo. Per creare il tetto dovete tagliare il lato più lungo in modo da poter essere infilato in quello più corto (vedi dettaglio fotografia). In questo modo il tetto potrà essere aperto ogni volta per cambiare il lumino. Ritagliate ora dalla carta velina scelta rettangoli della misura occorrente per ogni lanterna e rivestite le finestre incollandoli dall’interno. Decorate l’esterno con nastri adesivi (washi tape) o passamanerie. Dai resti di tetrapak ritagliate dei cuoricini, rivestiteli con la carta velina e infilateli in -cm di filo di ferro. Fissateli alla casetta facendo un buchino con un ago e inserendo il filo (se necessario fissate ulteriormente con del nastro adesivo o un punto di colla all’interno).
quindi aiutandovi con un taglierino togliete/strappate lo strato esterno stampato in modo da far emergere lo strato neutro sottostante. Otterrete così una base che potrà essere bianca o color «carta da pacco» a seconda del tipo di imballaggio, entrambe si presteranno molto bene per realizzare le lanterne. Una volta ripuliti i cartoni, cominciamo a definire e dare forma alle casette. Per l’altezza consiglio una misura tra i e i cm (tetto non compreso). Con un righello segnate la misura scelta lungo tutto il perimetro del cartone e tracciate una riga a matita.
Giochi e passatempi Cruciverba
Il musicista Frederick Ouseley, anche se poco conosciuto, si dice sia il più giovane compositore al mondo. A quanti anni scrisse la sua prima composizione? Scoprilo a cruciverba ultimato, leggendo le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 3, 1, 10, 6)
ORIZZONTALI 1. Provocato da febbre alta 7. Valle percorsa dal Noce 10. Rivela ostacoli invisibili 11. Strumenti... nei prati 13. Lo erano Sartre e Pirandello 14. Scuri 15. Senatore in breve 16. Imperiali a Roma 17. Le iniziali dell’attrice Tyler 18. Due vocali 19. Unità di misura inglese 20. Gabbie per polli
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Sudoku
Inserite i vostri lumini in un bicchierino di vetro per maggior sicurezza e ponete quest’ultimo all’interno della vostra lanterna. Le vostre lanterne sono pronte per illuminare la più romantica delle serate. Buon San Valentino. Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi
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VERTICALI 1. Sussultare 2. Interesse mensile 3. Fu un paradiso per due 4. Neppure una volta 5. Nel torace e nel dorso 6. Sempre a Londra
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21. Triste, avvilita 23. Non si lascia a piedi! 25. Il riposo degli inglesi 26. Poco necessario... 27. Isole del Tirreno
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(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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• Tetrapak • Blocco di carta trasparente decorata I am Creative • nastri • lumini e vasetti in vetro • forbici, taglierino • filo di ferro • Pennarelli bianco e nero sottile
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku 6
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Materiale
7. L’io del Pontefice 8. Fine di giugno e inizio di luglio 9. Prive della tara 12. Nome femminile 14. Seguono gli ottavi 16. Ardore, slancio 17. Pronome personale 19. Levato, sottratto 21. Portò il popolo d’Israele fuori dall’Egitto 22. Superfici circoscritte di terreno 24. Precede un’ipotesi 26. Simbolo chimico del nichelio
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Soluzione della settimana precedente TRA AMICI – «Sai che hanno arrestato il meccanico qui all’angolo per spaccio di droga?» «Sono cliente da tanti anni…» Resto della frase: «…MA NON SAPEVO FACESSE IL MECCANICO!» M A S Z I U C E C A O T T T O I L
N O T O
A S T I O
G E R I A A V F A S A R I S T I R I T O E S C A N E R N E O M A
C P E E N A E M E L C I A T N E
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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TEMPO LIBERO / RUBRICHE
Viaggiatori d’Occidente
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di Claudio Visentin
Last Chance Travel ◆
Martedì novembre un gigantesco aereo di linea è atterrato per la prima volta in Antartide, dopo cinque ore di volo da Città del Capo, Sudafrica. Naturalmente non è il primo aereo che atterra tra i ghiacci del Polo sud. Già nel il pilota ed esploratore australiano George Hubert Wilkins arrivò qui col suo monoplano Lockheed Vega. Ma un Airbus A da duecentocinquanta tonnellate è un’altra cosa… In Antartide non ci sono aeroporti, solo qualche pista ricavata sul ghiaccio che tuttavia, quando fa abbastanza freddo, regge bene anche aerei molto pesanti. Il problema maggiore semmai è il riflesso del ghiaccio, che costringe i piloti a utilizzare occhiali speciali durante l’atterraggio. Il volo è stato organizzato da Hi Fly, una compagnia charter portoghese, in vista dell’apertura in Antartide di un nuovo campo avventura di lusso. Al
Polo sud non ci sono residenti, solo basi di ricerca internazionali dove vivono circa diecimila scienziati. Nella buona stagione, ovvero in questi mesi, si aggiungono quarantamila turisti. Arrivarci però non è facile. Ci si imbarca su moderne navi da crociera tascabili (solo cento passeggeri) nel porto di Ushuaia, nel sud della Patagonia, vicino alla punta estrema del Sud America. Si esce in mare aperto attraverso il canale di Beagle e poi per due giorni si attraversa il famigerato e tempestoso passaggio di Drake, un’autentica prova d’iniziazione quando il mare è in burrasca. Rimangono quattro o cinque giorni per ammirare iceberg, foche, pinguini, elefanti marini e balenottere. Naturalmente il costo è elevato: si fa presto a spendere diecimila franchi. Coi suoi quattrocentocinquanta posti per ogni volo l’Airbus A potrebbe aprire la via a un salto di scala
Passeggiate svizzere
nelle frequentazioni antartiche. È una buona notizia? È quasi inutile sottolineare quanto questi ecosistemi siano estremamente fragili. Si produce anzi un effetto opposto e paradossale, ovvero di favorire il cosiddetto turismo «prima che scompaiano» (Last Chance Travel): poiché siamo consapevoli che già tra qualche anno potrebbe essere troppo tardi per vedere alcune parti del mondo, cerchiamo di visitarle ora, con l’effetto di peggiorare la situazione. È la solita vecchia storia del turismo che uccide le sue mete per troppo amore. In passato non avrei esitato a condannare questo ingenuo desiderio di visitare luoghi estremi. Ma da qualche tempo qualcosa è cambiato. L’emergenza climatica si fa tragicamente pressante e, quel ch’è peggio, il Polo sud si riscalda in media cinque volte più velocemente del resto del pianeta. Gli effetti sono già visibili. Nei primi mesi del la piattaforma Larsen
B, una distesa di ghiaccio grande come la Valle d’Aosta, si staccò dall’Antartide squagliandosi nel mare. Inoltre, solo poche settimane fa gli scienziati hanno dato l’allarme per il troppo rapido scioglimento del fronte orientale del gigantesco ghiacciaio Thwaites, il ghiacciaio dell’apocalisse: da solo potrebbe far aumentare di oltre mezzo metro il livello di tutti i mari del mondo. A differenza del Polo nord, già per buona parte sommerso nell’acqua, i ghiacci del Polo sud si trovano invece sopra la terraferma e dunque aggiungono acqua al mare. Qualcosa di simile sta avvenendo anche tra i ghiacciai dell’Himalaya, anch’essi in rapida ritirata secondo una recente ricerca pubblicata su «Scientific Reports». E il ghiaccio dell’Himalaya alimenta il flusso di fiumi come il Gange e l’Indo, dai quali dipende la vita quotidiana di decine di milioni di persone.
Questi eventi decisivi per il nostro futuro sono causati da quel che facciamo qui e ora, dal nostro smisurato consumo di energia, ma le loro conseguenze si avvertono poi in zone remote e deserte del pianeta, come appunto l’Antartide o l’Himalaya. A causa delle barriere geografiche mancano però testimonianze dirette. Le nostre informazioni vengono tutte dai satelliti o dai pochi scienziati (non proprio i comunicatori più efficaci). Di conseguenza non c’è una sufficiente consapevolezza dell’importanza del problema, premessa necessaria per ogni intervento risolutore. Ecco perché in queste circostanze straordinarie potrebbe aiutare anche il turismo − naturalmente con buone guide e un ridotto impatto ambientale − se farà sentire più vicini questi luoghi estremi: perché alla fine del mondo si decide la fine del mondo.
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di Oliver Scharpf
L’orchestrion Solea del café Le Fribourgeois ◆
Bulle, per i cacciatori di eccentricità, oltre al divanetto color ciliegia a zigzag e la scena di caccia panoramica riflessa nello specchio del tea-room raccontato l’ultima volta, riserva altre sorprese. A balla. Addirittura qualcosa di unico, nell’ambito della bistrologia elvetica, in realtà, secondo alcuni, non troverete da nessun’altra parte del mondo niente del genere. Un orchestrion, costruito per il café Le Fribourgeois, ancora lì, dal , fedele al suo posto. Già fuori, sotto l’insegna dorata d’epoca, lo stucco-conchiglia che richiama moltissimo la superficie ondivaga delle meringhe, dessert regionale classico servito con la crème double della Gruyère, prelude a un ambiente rustico autentico. «Babette, deux ballons de vully»: dentro poi, questa ordinazione della cameriera rivolta alla signora che si occupa solo delle bevande, con quel tono tipico da bras-
serie quasi al completo, fermo, deciso, veloce, ma al contempo di una inconsapevole musicalità e teatralità naturale, la dice lunga sull’atmosfera, rarissima ormai, di certi ritrovi storici romandi in via di estinzione. Legno dappertutto, trofei di caccia, Aromat sui tavoli lucidi, dipinti murali alpigiani. Uno a tema poya, termine arpitano utilizzato per la transumanza friburghese. Sullo sfondo, sopra le mucche bianche e nere che salgono su all’alpe, in fila indiana, lungo il percorso serpeggiante solito, legato all’iconografia di questo motivo di arte popolare, svetta il Moléson. Montagna simbolo della regione che si ritrova anche nell’altro murale con soggetto l’Alpage des Colombettes, toponimo-punto di partenza del ranz des vaches, il richiamo melodico delle mucche. Mi capita, senza volerlo, il tavolo vista orchestrion. In un angolo, con-
Sport in Azione
tro il muro, un’orchestra intera si nasconde dentro quel magnifico mobile-buffet in quercia. Realizzato dalla ditta Weber Frères di Waldkirch, nella Foresta Nera, due vetrinette mostrano due paesaggi verdeggianti negli immediati dintorni e in uno mi sembra di riconoscere ancora il Moléson. Al centro, davanti a uno specchio, troneggia intagliata una ballerina con ali di fata. Sarà lei Solea? Affondo il primo pezzo di pane nella fondue. Aperto già alle otto, per bevute mattinali o il rito caffè-giornale, questo locale risalente al che serve piatti fuorimoda tipo pieds de porc au madère e langue de boef sauce Capri, è rinomato per la fondue moitié-moitié. M’informo su come funziona il Solea, ci vuole un franchetto. Vado verso l’orchestrion e Babette – il cui nome mi ricorda di colpo un film – m’intercetta dicendo che ci pensa lei. Jukebox vivente che si
occupa, oltre alle bibite e di ricordare Il pranzo di Babette (), di mettere in moto l’Orchestrion. Ed ecco, così, tornato in tempo al mio tavolo per godermi lo spettacolo, l’orchestrion Solea del café Le Fribourgeois ( m) di Bulle, tutto pieno all’ora di pranzo nel bel mezzo dell’inverno, sovrastare sorprendentemente la baraonda attraverso una specie di charleston. Meraviglia pura, non pensavo. Non la pensano allo stesso modo due lì vicino che dai loro piatti di spezzatino di non so cosa e tagliatelle in bianco, mi guardano in cagnesco. In quattro metri di lunghezza, due e mezzo di altezza e uno di profondità, si trovano un piano Feurich con cinquantadue note equipaggiato di effetto mandolino, quattro registri di ventotto canne d’organo, cimbalo, xilofono, grancassa, tamburo, tamburello, castagnette. Restaurato nel dai fratelli Baud, esperti di mu-
sic-box di L’Auberson, nel Giura vodese, il meccanismo a rullo con ottantotto fori è un po’ una lunga storia da riassumere. Arthemise fox, Estudiantina, Mon Paris, Nuits de Chine, Ich hab’ mein Herz in Heidelberg verloren, sono alcuni titoli del suo repertorio. Comunque alla fine tutta la mia attenzione è rivolta ai due paesaggi animati. Sul ponte sopra il Javro a Charmey, una dozzina di chilometri da qui, passa una sfilata di mucche e armaillis; nel cielo entrano in scena, grazie a un gioco di ombre cinesi, un biplano ubriaco, poi una mongolfiera e alla fine uno zeppelin. Nell’altro riquadro, localizzabile a Gruyères, borgo non lontano abbarbicato su una collina con castello medievale, il sole che dà il nome a questo automa musicale, alterna alba e tramonto in compagnia del Moléson. A questo punto mi aspettavo quasi un dessert a forma di Moléson.
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di Giancarlo Dionisio
Chi se le fila queste Olimpiadi lontane? ◆
Mancano quattro giorni all’accensione della fiamma olimpica (le Olimpiadi invernali si svolgeranno dal al febbraio ). Eppure, dalle nostre parti, il calore del fuoco sacro giunge in modo timido e tenue. Se ne è parlato poco. La scorsa estate la marcia di avvicinamento ai Giochi estivi di Tokyo fu sottolineata da una valanga di articoli, filmati, approfondimenti, racconti, interviste, pronostici. Sin dalla primavera i nomi di Noè Ponti, di Ajla Del Ponte e degli altri ticinesi qualificati, erano sulla bocca di tutti. Sulla via di Pechino, sembra invece essere calato il silenzio. Il Ticino sarà rappresentato da due atleti, una delle quali, Lara Gut-Behrami, andrà alla caccia dell’ennesimo riconoscimento da inserire nella sua già ricchissima bacheca. Dei Giochi si è parlato, è ovvio, ma soprattutto in relazione a eventuali atti di boicottaggio da parte di delegazioni nazionali
non sintonizzate con la «politica-caterpillar» della cosiddetta Repubblica Popolare di Cina. La partecipazione degli atleti non è mai stata messa in discussione. Siamo lontani mille miglia dai conflitti sull’asse Washington-Mosca, che avevano caratterizzato l’approccio ai giochi del e del . Abbiamo semplicemente appurato che alcuni paesi non manderanno un loro ambasciatore ad assistere alla cerimonia di apertura, che si annuncia più sontuosa che mai. Sappiamo anche che la Svizzera avrebbe inviato un suo rappresentante, se ragioni sanitarie non lo avessero impedito. Punto. Stop. In confronto alle polemiche e al dibattito suscitati dall’affare Djokovic, sembra quasi una notiziola da taglio basso. Perché? Difficile trovare una risposta. A me la tiepidità suona misteriosa. Cerco di farmene una ragione. Quel-
li di Pechino saranno i terzi giochi consecutivi disputati in Asia. I quarti consecutivi al di fuori dell’Europa, culla delle Olimpiadi antiche e moderne. Se pensiamo che prima di questo poker, l’ultima edizione nel vecchio continente si tenne nel a Sochi, sul mar Nero, in un clima da guerra fredda, dobbiamo tornare a Londra per ritrovare i profumi e i sapori della meravigliosa tradizione di fratellanza sportiva cominciata ad Atene nel . Mi sono anche chiesto se la mondializzazione dei Giochi non abbia stemperato l’interesse e l’entusiasmo del pubblico. Cosa c’entra Pechino con la neve e con lo sci? Recentemente Beat Feuz ha stigmatizzato il fatto che per la terza volta i Giochi invernali si svolgeranno senza l’emozionante, straripante, motivante bagno di folla. A causa del Covid, certamente, ma anche a Pyeong Chang e a Sochi, in epoca prepande-
mica, la partecipazione del pubblico fu piuttosto fiacca. Noi in Svizzera non abbiamo nulla su cui recriminare. In due occasioni il popolo, nella fattispecie quello grigionese, ha bocciato un’edizione dei Giochi che avrebbe potuto essere a dimensione d’uomo e, entro certi limiti, avrebbe rispettato meglio di altre i criteri di sostenibilità ambientale e finanziaria. Nell’attesa di vedere che cosa accadrà fra quattro anni sull’asse Milano-Cortina d’Ampezzo, apprestiamoci a godere le emozioni che ci giungeranno da Pechino. La Svizzera parte con una delegazione robusta, forte. Soprattutto nello sci alpino e nelle cosiddette discipline fun. Il Ticino sarà rappresentato da una stellina emergente e da due consumate megastar. Marco Tadè, nelle gobbe, assume l’eredità di Deborah Scanzio. I risultati recenti non sono brillantissimi, ma lui, in un passato non molto lon-
tano, ha dimostrato di poter duellare con l’élite mondiale. Per Lara Gut-Behrami la parola d’ordine potrebbe essere semplicemente cool. Con tutto ciò che ha già vinto non ha nulla da dimostrare. Ma io non ci credo. Lara è una lucida leonessa. Dopo le meraviglie disegnate ai Mondiali dello scorso anno, sfodererà gli artigli per andare a carpire il bottino più prezioso. Il bronzo di Sochi, conquistato in discesa libera, preceduta sul podio da Tina Maze e Dominique Gisin, appaiate sul gradino più alto, trasuda prestigio e onore. Ma sono certo che il focus di Lara, nelle tre o quattro gare alle quali parteciperà, sarà sull’oro. Oro che, per interposta persona, potrebbe gratificare anche Mauro Pini. La sua pupilla, la slovacca Petra Vlhová, pare proprio nelle migliori condizioni per brillare. Fra giorni ne sapremo di più. Le storie da raccontare non mancheranno.
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Anno LXXXV 31 gennaio 2022
ATTUALITÀ
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Un Paese che muore di fame Il blocco del flusso degli aiuti internazionali ha pesanti ripercussioni in Afghanistan
Storie di migrazione e riscatto Negli spazi de Il Tragitto, a Lugano, incontriamo donne fuggite dalla guerra e dalla miseria
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Se lo spazio è zeppo di detriti Dopo l’apertura del cielo ai privati si sono intensificati i lanci di satelliti e i problemi
A protezione dei giovani Il 13 febbraio la votazione federale sull’iniziativa popolare che chiede il divieto della pubblicità sul tabacco
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La politica energetica che divide
Prospettive ◆ Il modo di considerare nucleare e gas, il loro futuro e l’intricata diplomazia sia con la Francia di Macron sia con la Russia di Putin restano un pomo della discordia. Non solamente in Germania
A dar retta ai vocabolari, per «tassonomia» si intende la scienza che produce classificazioni, almeno se i dati si basano sull’anatomia, morfologia o biochimica. Se i «dati» invece sono le situazioni e convinzioni politiche, allora la tassonomia non produrrà che conflitti e malumori. Come vediamo da settimane non solo fra i ministri Verdi e i liberali della Fdp all’interno del «Governo semaforo» di Berlino. Ma soprattutto fra i Grünen e gli altri ambientalisti tedeschi da un lato e il cancelliere della Spd Olaf Scholz dall’altra. A cui soprattutto i movimenti di protesta giovanili contestano ora «di fare trucchi con la politica energetica», come annota su Instagram Luisa Neubauer, attivista di Fridays for future. A cosa si devono gli screzi e dissapori nell’Esecutivo di Berlino e tra il nuovo Cancelliere e la galassia Verde? Al semplice fatto che a Bruxelles la Commissione europea ha proposto per l’appunto una «tassonomia», sulla cui base classificare sia i futuri investimenti in energia e reattori nucleari, sia quelli nelle centrali a gas, come energie pulite e «sostenibili». La nuova classificazione di Bruxelles ha mandato su tutte le furie sia Steffi Lemke, ministra dell’Ambiente dei Grünen, che Robert Habeck, il nuovo ministro dell’Economia di Berlino e carismatico co-presidente dei Verdi. «Voler spacciare quella nucleare per energia verde – è sbottata Lemke – non è altro che “greenwashing” (ovvero una pratica ingannevole, usata come strategia di marketing per dimostrare un finto impegno nei confronti dell’ambiente con l’obiettivo di catturare l’attenzione di chi è attento alla sostenibilità). Una classificazione che supera ogni mia fantasia, specie considerando il fatto che le scorie nucleari restano attive migliaia di anni». Prima delle scorie finali in realtà bisogna considerare la pericolosità degli impianti stessi, si pensi ai disastri epocali di Chernobyl o Fukushima. Nonché, dal punto di vista strettamente economico – ha continuato Lemke – la questione se sia sensato, a giudicare da centrali nucleari sempre più costose in Francia, «investire tanto denaro pubblico in nuovi reattori». Ma la nuova tassonomia della Ue è controversa non solo per ciò che riguarda la «sostenibilità» del nucleare. Per Habeck infatti anche l’utilizzo del gas può ricevere «l’etichetta verde solo per un periodo limitato e transitorio». Per il ministro dell’Economia infatti a partire dal gas e metano «dovranno essere sostituiti dall’energia senza dubbio verde dell’idrogeno». Per il movimento ambientalista e per i Grünen – il partito nato negli anni Ottanta sulla scorta dello slogan
Shutterstock
Stefano Vastano
«Atomkraft? Nein, danke!» – non ci sono dubbi sul fatto che solo il mix di energie alternative e l’idrogeno siano il futuro; mentre puntare, come la Francia di Macron, sulle centrali nucleari solo «greenwashing». Risultato: già ora le questioni di politica energetica, come dice chiaramente Reinhard Bütikofer, eurodeputato dei Verdi, «si stanno trasformando in un banco di prova del nuovo Governo a Berlino». Oltre alle tassonomie di Bruxelles infatti di mezzo c’è anche il fatto che con le energie alternative una locomotiva industriale come la Germania non riesce a coprire neanche la metà del fabbisogno energetico nazionale. Anzi, l’anno scorso la quota delle energie verdi è scesa in Germania dal per cento del al per cento del . L’obiettivo dei Verdi dunque di fuoriuscire anche dal carbone per il si rivela molto ambizioso, se non poco realistico. È l’argomento a cui rimandano più voci all’interno della Fdp, il partito di Christian Lindner, il ministro delle Finanze a Berlino. «La Germania ha urgente bisogno di nuovi impianti a gas – dice Lindner – se vogliamo davvero rinunciare sia al nucleare che
al carbone». Wolfgang Kubicki, vicepresidente della Fdp, è ancora più perentorio: «Nel nostro Governo dobbiamo trovare un compromesso se vogliamo sia una riduzione del CO che una stabile copertura energetica. In politica energetica non aiutano né tabù né i dogmi». Non sono solo i liberali della Fdp a rinfacciare a loro volta ai Verdi forti dosi di dogmatismo nella loro «tassonomia» delle energie pulite, più un certo idealismo nelle loro critiche sia a Bruxelles che alla Francia di Macron.
Lo scontro fra Spd e Grünen si riaccende ogni volta in particolare sulle forniture di gas che dovrebbero provenire da Nord Stream 2 Anche la Spd del cancelliere Scholz – che in campagna elettorale ha fatto di tutto per presentarsi ai tedeschi come «il cancelliere della svolta ecologica» – si basa su tutta un’altra visione geopolitica quando si tratta di fonti energetiche. Lo scontro fra Spd e Grünen si riaccende ogni volta in particolare
sulle forniture di gas che dovrebbero provenire da Nord Stream , la nuova e sempre più contesa pipeline della Gazprom che porterà direttamente (cioè bypassando l’Ucraina) il gas russo sull’isola di Rügen, sulle coste tedesche del Baltico. Annalena Baerbock, la enne ministra degli Esteri dei Verdi ha più volte dichiarato di essere contraria ai km della pipeline russa/tedesca di Gazprom. E non dimentichiamo chi è il presidente del Consiglio di Nord Stream : Gerhard Schröder, l’ex cancelliere della Spd. Durante la sua prima visita a Washington Baerbock ha ribadito al suo omonimo americano, Antony Blinken, tutti i suoi dubbi su Nord Stream, accresciuti ora dalla esplosiva crisi in Ucraina e dalle truppe che Putin vi sta ammassando ai confini. Due nevralgici punti su cui sia la Spd che il cancelliere Olaf Scholz la vedono alquanto diversamente dai Verdi e dalla ministra degli Esteri. Per il Kanzler infatti l’intricata questione di Nord Stream si riduce in sostanza a «una questione economica e di natura commerciale». In sé dunque Nord Stream non avrebbe a che fare né con le mire espansionistiche di
Putin in Ucraina, né con la politica della Nato. Certo, davanti a Jens Stoltenberg, segretario Nato, Scholz si è spinto a dire che in caso di un’invasione russa dell’Ucraina, «tutte le opzioni restano aperte», compreso lo stop del conteso gasdotto. Ma più in generale però, «dovremmo disinnescare il conflitto politico su Nord Stream», consiglia il giovane Kühnert, il nuovo segretario generale della Spd. E Manuela Schwesig, premier della Spd nel Meclemburgo, spera che «la nuova pipeline entri velocemente in funzione». Il modo di considerare energia nucleare e gas, il loro futuro e l’intricata diplomazia sia con la Francia di Macron che con la Russia di Putin, restano dunque un pomo della discordia non solo fra i Grünen, la Spd di Scholz e i liberali della Fdp a Berlino, ma nell’Europa intera, sostiene Omid Nouripour, portavoce di politica estera dei Grünen. «Nord Stream », scrive Nouripour su twitter, «è il fungo fossile che sta dividendo l’Ue. Questa pipeline deve essere fermata». La tassonomia insomma è una «scienza» ambigua se applicata alle complesse questioni politiche.
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Anno LXXXV 31 gennaio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
Nell’inferno di un ospedale afgano Reportage
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Le sanzioni internazionali contro i talebani bloccano il cruciale flusso di aiuti verso un Paese che muore di fame
Francesca Mannocchi
Il dottor Mohammad Sadeq ha l’aria stanca di chi non riposa da giorni. L’ospedale Mirwais, dove lavora, a Kandahar in Afghanistan, raccoglie tutti i pazienti delle province e dei villaggi circostanti. La parte pediatrica, quella di sua competenza, accoglie tre volte i pazienti che potrebbe ospitare. «Il nostro reparto può accogliere bambini ma stamattina ne abbiamo ». È così da mesi, dice Sadeq «ci sono due, tre, a volte quattro pazienti per ogni letto. E questo accade anche nei reparti di isolamento, in quelli per malattie infettive e in quelli che accolgono piccoli malnutriti». Esprimere numeri e statistiche non gli è sufficiente, così Sadeq cammina nei corridoi e mostra «i numeri» che poco prima ha elencato. Numeri che hanno i volti di bambini sofferenti e di madri che, a loro volta, affollano impotenti le corsie dell’ospedale. «Le temperature sono scese sotto lo zero –
Il dottor Mohammad Sadeq. (Romenzi)
racconta – e ci sono persone che non sanno come riscaldare le case e tenere i figli al caldo. Si ammalano e arrivano qui a cercare aiuto. Ma molte volte, troppo spesso, quando arrivano è già troppo tardi». Cinque mesi dopo la presa del potere da parte dei talebani l’economia afgana è al collasso: la Banca centrale afgana ha circa miliardi di dollari di asset negli Stati uniti che per ora sono stati congelati e non utilizzabili dai talebani perché inseriti nelle liste americane dei gruppi terroristici. Quindi nessuna banca può far transitare denaro in Afghanistan se non a rischio di pesanti sanzioni. Lo stesso vale per i milioni di dollari di riserve del Fondo monetario internazionale, anch’essi bloccati. «Per noi significa non avere stipendi, per le famiglie equivale a non sapere come fare a sfamare i propri figli», dice il dottor Sadeq, spiegando l’impatto delle sanzioni sulla popolazione civile. «Nella nostra comunità prima di agosto metà delle persone erano lavoratori pubblici, pagati in gran parte dai fondi internazionali. Queste persone ora hanno perso il
lavoro perché invise ai talebani, o se lo hanno mantenuto non vengono pagati e devono scegliere se scaldare o sfamare i propri figli». Parla, il dottore, scorrendo le corsie dell’ospedale che sembrano un girone dantesco: bambini scheletrici, madri piangenti, neonati già circondati da mosche, col corpo freddo a un passo dalla morte, come Fathallah, arrivato con sua madre dalla provincia di Ghazni, con il morbillo. Non mangia, a malapena respira. I dottori, alla richiesta di aiuto della madre, rispondono: possiamo solo aspettare. E non hanno il coraggio di pronunciare la continuazione della frase: …aspettare che muoia. L’Afghanistan sta scontando uno dei più grandi errori della guerra ventennale, cioè il fallimento nel costruire un’economia autosufficiente che ha portato, oggi, alla caduta libera finanziaria, a lavoratori non pagati e famiglie affamate. Il Governo del Paese è stato per anni (e quindi rimane) cronicamente dipendente dagli aiuti e incapace di generare entrate fiscali significative, con gravi ripercussioni su ogni aspetto della vita dei civili. Nel l’Afghanistan aveva più di strutture sanitarie funzionanti, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità. Da quando i talebani hanno preso il controllo di Kabul e del Paese ad agosto, solo il % degli ospedali del Paese era funzionante. Babar Baloch, portavoce dell’Agenzia Onu per i rifugiati, ha affermato che milioni di afgani vivono in uno stato di insicurezza alimentare e si stima che tale numero salirà a milioni entro la fine dell’inverno. Con milioni di persone prossime alla carestia, secondo un rapporto congiunto del Programma alimentare mondiale delle Nazioni unite e dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura. Il Programma di sviluppo dell’Onu stima che fino alla metà del prossimo anno il % degli afgani potrebbe sprofondare al di sotto della soglia della povertà. Dati alla mano, le organizzazioni umanitarie sostengono che le sanzioni internazionali contro i talebani stiano bloccando il cruciale flusso di aiuti verso un Paese che ne è storicamente dipendente. L’ostacolo più grande è che i donatori internazionali, che in precedenza avevano tenuto a galla il Governo afgano e la sua popolazione, sono riluttanti a soddisfare l’enorme bisogno umanitario per il timore che qualsiasi sostegno arrivi in Afghanistan fornisca potere indirettamente ai talebani, e dunque i soldi diano strumenti a chi sta imponendo una visione oscurantista dell’Islam e sta sistematicamente violando i diritti delle donne e delle minoranze. Il paradosso della fine della guerra, e della conseguente nomina del Governo talebano, è che i numeri della povertà e della malnutrizione non sono aumentati solo perché direttamente dipendenti dalle sanzioni, ma an-
Letti nel reparto pediatrico dell’ospedale Mirwais a Kandahar. (Romenzi)
che perché chi fino a pochi mesi fa non poteva spostarsi dai villaggi teatro di guerra, per farsi curare, oggi riesce a muoversi. «Il problema della malnutrizione c’è sempre stato – spiega ancora Sadeq – ma durante la guerra le persone non potevano muoversi per paura di attentati. Dalla mia prospettiva non è cresciuta la malnutrizione, bensì l’accesso dei bambini malnutriti agli ospedali». Il sottotesto è che non sapremo mai quanti ne siano morti in questi anni perché non potevano raggiungere cli-
niche mobili e ospedali, bloccati dai combattimenti. La comunità internazionale ha usato finora la leva delle sanzioni per cercare di ottenere delle garanzie sul rispetto dei diritti umani da parte dei talebani che avevano garantito un Esecutivo inclusivo e invece stanno dimostrando, man mano che passano i mesi, di non essere diversi nell’esercizio del potere dai tempi del primo Emirato islamico, nella seconda metà degli anni Novanta. Lo raccontano le scuole chiuse alle ragazze, i di-
vieti a muoversi se non accompagnate da un uomo, gli ostacoli per le donne nell’accesso al lavoro e la loro complessiva sparizione dalla vita pubblica. Per questo la diplomazia, nelle ultime settimane, ha tentato di intraprendere strade alternative: allarmati dai numeri i funzionari americani hanno allentato la stretta economica sull’Afghanistan liberando milioni di dollari per il Programma alimentare mondiale e l’Unicef. Una somma, però, del tutto insufficiente a far fronte al rigido inverno afgano.
Un regime spietato che punta alla legittimazione Settimana scorsa si è svolto a Oslo un vertice tra talebani e diplomatici occidentali (Usa, Francia, Germania, Norvegia, Italia e Ue). Il vicedirettore della cooperazione economica del Governo talebano, Shafiullah Azam, sostiene che sia un passo per legittimare il nuovo Governo di Kabul; sintesi smentita dalla ministra degli Esteri norvegese Anniken Huitfeldt. I talebani cercano la legittimazione diplomatica non solo perché ne hanno bisogno per mandare avanti la mac-
china dello Stato, ma anche perché si sentono sostenuti da una larga parte della popolazione. Consenso quanto mai evidente a Kandahar, seconda città dell’Afghanistan che è stata la capitale del primo Emirato islamico fino al e ha un’importanza simbolica visto che proprio a Kandahar, nel , il Mullah Omar diede vita al movimento. Il consenso si respira tra i giovani nelle piazze, che gridano la loro fiducia nei talebani, perché hanno «vinto
I giovani nelle strade di Kandahar esprimono la loro fiducia nei confronti dei talebani. (Romenzi)
la guerra contro gli invasori e riportato la sicurezza nei villaggi». Lo spiega Qarib, anni, gli ultimi passati a combattere. «Ho combattuto a Ghazni, Lashkar Gah e Kandahar, ho rischiato di morire solo per vedere Kandahar di nuovo in mano nostra, dell’Emirato islamico». Fathallah, un insegnante di inglese senza stipendio, gli fa eco: «L’Occidente ci ha bombardato e ora porta via i nostri soldi, ci hanno ucciso prima con le bombe e ora con la fame, solo i talebani garantiscono il bene del Paese». In strada, a Kandahar, non si vedono donne, né con il burqa, né senza. È preclusa loro ogni forma di vita pubblica. Molawi Abdul Ghafar Mohammadi è a capo delle unità di polizia della città da agosto, parla con i suoi uomini che lo circondano, armati: «Agosto è stato il momento della nostra indipendenza, abbiamo sconfitto chi è venuto ad occuparci. E oggi, come negli anni Novanta, non c’è nessuno, tranne noi, a pensare alle persone. Chiediamo per questo che l’Emirato islamico venga riconosciuto a livello internazionale. Non riconoscerci è una punizione per il popolo afgano, non per noi». Annuncio pubblicitario
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azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
Tra chi è scappato da guerre e miseria Migrazione
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A Lugano incontriamo Amy, con un passato di dolore in Senegal, e Mahjan che piange per la furia dei talebani
Romina Borla
Mentre nel Mediterraneo si continua a morire – annegati o assiderati – nel tentativo di raggiungere l’Europa, simbolo di una vita migliore o semplicemente di vita, in Bielorussia, nonostante il gelo, ci sono ancora gruppi di migranti accampati alla bell’e meglio in attesa di poter varcare il confine polacco (un paio di mesi fa erano migliaia). Donne, uomini e bambini in fuga dai conflitti e dalla miseria con una borsa di plastica in mano e tanta paura. Dal canto suo Varsavia, la settimana scorsa, ha avviato la costruzione del muro per fermarli. Una barriera alta oltre metri e lunga km, con torri di guardia e sensori di movimento. Una struttura costosa: circa milioni di franchi, quasi interamente coperti dallo Stato polacco. Sono immagini che sembrano giungere da troppo lontano e non riguardarci ma noi siamo parte di quell’Europa che in tanti sognano, talvolta parte di quell’Europa che invece di respingere accoglie. Per rendersene conto basta uscire di casa e incontrare chi ha vissuto esperienze che possiamo solo tentare di immaginare. Come ha fatto di recente «Azione» .
Il Tragitto accoglie donne di nazionalità diverse con i loro figli, i loro sogni e fantasmi. L’associazione promuove la formazione e la socializzazione «Noi stranieri non siamo come certi politici raccontano», esordisce Mhret, anni e quattro figli, un sorriso aperto su un mondo che non sempre le è stato amico. «Qui succedono cose belle. Ci si incontra e si impara dall’esempio delle altre. Qui si parla anche dei nostri diritti, dei diritti delle donne». «Qui» sono gli spazi de Il Tragitto, un’associazione «che promuove la socializzazione, la formazione e il sostegno alle famiglie», dove si incontrano donne di nazionalità diverse con i loro bambini, i loro sogni e tanti fantasmi. Oltre alle animatrici e ad alcune volontarie (www.iltragitto.ch). Nella sede Luganese de Il Tragitto, in via G. Stabile , c’è un bel movimento già di primo mattino (dal esiste un presidio anche a Locarno). «Per molte donne questa è una seconda casa», afferma Cecilia Testa, co-direttrice dell’associazione insieme a Fabia Manni-Moresi. «Oggi sono arrivate per partecipare al progetto Incontriamoci insieme ai loro figli, i quali giocano in spazi diversi accuditi da operatrici della prima infanzia. Intanto loro, le mamme, hanno la possibilità di parlare, condividere conoscenze ed esperienze, praticare l’italiano». Si discute insomma, ma non solo: si cucina, si cuce, si sperimentano soluzioni di estetica fai da te ecc. Creando – e questo è forse l’aspetto più importante – legami, contrastando così tristezza e isolamento. Le mascherine non celano gli occhi, per fortuna, e quelli delle donne che incontriamo raccontano, arrivano dove le parole non riescono a spingersi (c’è anche chi non padroneggia la lingua italiana). Alcune di loro portano il velo. Tutte sono curiose di capire chi siamo. Ci avviciniamo ad Amy, un concentrato di forza e malinconia. È la sportiva del gruppo: cintura nera di Karate, in Senegal faceva parte della nazionale di arti marziali. Nonostante il dolore, ci accompagna alla scoperta della sua realtà. A Dakar ha
IlTragitto dispone di uno sportello che offre consulenze individuali. Nella foto in basso: corso di italiano promosso dall’associazione.
sposato, giovanissima, un uomo impostole dalla famiglia insieme al quale ha poi concepito un figlio. «Nel mio Paese quando partorisci non ti considerano più», spiega. «Ma io ero brava e ho avuto fortuna, così nel ho partecipato ai mondiali di Karate in Serbia». È partita da sola, affidando il suo piccolo alle cure della nonna. «Non stavo bene, avevo paura di tornare a casa, c’erano troppi problemi. Così sono scappata». Sempre sola, attraverso Bosnia-Erzegovina, Croazia e Slovenia, è giunta in Italia. Senza documenti è stata dura. Per fortuna, a Milano, ha incontrato persone che le hanno teso una mano, ospitandola e offrendole pasti caldi. Con lo scopo di guadagnare qualche soldo da spedire in Senegal, per il suo bimbo, vendeva libri per le strade, intanto seguiva i corsi di italiano dell’associazione Arcobaleno (www.associazione-arcobaleno.org). Nel ha conosciuto quello che sarebbe diventato il suo secondo marito; abitava in Svizzera. Amy è rimasta incinta e – attraverso il ricongiungimento famigliare – è arrivata in Ticino. Purtroppo il sogno si è trasformato in un incubo. Ma la
giovane è riuscita a reagire e a ricostruirsi una vita. Adesso ha un posto sicuro dove stare insieme ai suoi figli e sogna di trovare un lavoro come collaboratrice domestica, cassiera o barista. Ora può immaginare un futuro più sereno. Negli spazi dell’associazione incontriamo anche Winta, Brkti, Freweyni e Hosana che provengono dall’Eritrea, come Mhret. Sudi invece dalla Somalia, Zozan dalla Turchia, Ma-
riama dalla Guinea, Zeinab dal Libano, Amona dal Sudan. Poi c’è Doris, una nonna del Luganese che porta volentieri al centro sua nipote; Marie-Paule, un’insegnante di italiano del Canton Vaud che ha deciso di fare mesi di volontariato a Lugano. Volontaria anche Antonia, un’insegnante di Massagno in pensione piena di voglia di dare e ricevere. «Stare qui – dice – restituisce un senso di relazione». Presente anche Liana, arrivata in
Ticino nel dalla Russia, dopo il matrimonio con uno svizzero. Mentre Mahjan è nata in Afghanistan, dove faceva l’estetista a domicilio. È giunta in Ticino una decina di anni fa, ci racconta avvolta nel giallo vivo del suo hijab, per scappare dalla violenza. «Herat era una città bellissima», ricorda. «Ma viverci era diventato impossibile. E continuo a piangere per il mio Paese nelle mani dei talebani». La nostra interlocutrice si è sposata a anni e ha partorito figli, maschi e femmine. Suo marito, di anni più vecchio, era inviso ai fondamentalisti ed è stato incarcerato prima di riuscire a scappare – insieme a Mahjan e ad alcuni figli – percorrendo la tristemente nota rotta balcanica: Iran, Turchia, Grecia e poi su su fino ad arrivare in Svizzera. Con lo sguardo e i gesti delle mani tenta di farci capire quanto è stato doloroso. Ma il tempo sbiadisce anche i ricordi più terribili e lei – in Ticino – è riuscita a ritrovare il sorriso insieme ai suoi figli: due vivono nella Svizzera tedesca e hanno potuto studiare. Sono loro il suo vero riscatto. Ad un tratto si apre la porta ed entra una signora accompagnata da Beatrice Lafranchi, responsabile della sede di Locarno de Il Tragitto. Viene dallo Sri Lanka, parla solo tamil. Si guarda intorno, mani attorcigliate, saluta con un timido cenno del capo. A breve arriverà un’interprete, ma adesso è tempo di preparare tè, caffè e mousse di cachi. Un po’ di dolcezza aiuta a migliorare l’umore. È da un po’ che Alem vuole dirci qualcosa. Fa qualche passo nella nostra direzione. Di origini eritree, vive nel nostro cantone da anni. Ci parla della difficoltà di riuscire a trovare uno sbocco professionale: «Non abbiamo un diploma, nessuna esperienza e – con dei figli piccoli a cui badare – il tempo è poco. Tutte noi abbiamo voglia di fare, però ci mancano le possibilità». Poi mi chiede se conosco qualcuno che potrebbe aiutarla a trovare un lavoro. Un mestiere qualunque, per potersi inserire davvero nella società e guadagnare qualcosa per la famiglia e per inventarsi un futuro.
«Qui le donne scoprono di avere dei diritti» «Durante gli incontri possono emergere tematiche impegnative», osserva Beatrice Lafranchi, responsabile della sede di Locarno de Il Tragitto. «Matrimoni forzati, abusi di diverso tipo, terribili traversate del Mediterraneo in barcone…». «Non andiamo a cercare di proposito il vissuto di dolore», sottolineano le direttrici dell’associazione Cecilia Testa e Fabia Manni-Moresi. «Le confidenze arrivano spontaneamente. Noi le accogliamo. In un secondo momento, se necessario, indirizziamo la persona che esprime un disagio verso il servizio specializzato: Servizi sociali e psico-sociali, Consultori di salute sessuale dell’Eoc, Servizio per l’aiuto alle vittime di reati eccetera. Siamo insomma un ponte tra le utenti e il mondo esterno». Sempre più frequentemente nelle sedi de Il Tragitto si parla anche di violenza domestica, affermano le nostre interlocutrici. «Abbiamo notato un crescendo delle segnalazioni negli ultimi anni. Come mai? Da un lato le limitazioni dovute alla pandemia possono avere esasperato gli animi, peggiorando situazioni già problema-
tiche. Dall’altro Il Tragitto ha creato più momenti di incontro individuali dove queste esperienze di sofferenza possono venire alla luce. Negli spazi che abbiamo a disposizione si respira aria di fiducia, rispetto e reciprocità. È più facile vuotare il sacco qui che di fronte a funzionari di un ufficio che non si conosce». Sono in molte a chiedere ad esempio quali sono in Svizzera i diritti delle donne, delle donne separate, quelli del fanciullo ecc. «Qui si rendono conto di avere dei diritti! E desiderano ardentemente imparare. Dalle loro richieste si crea il programma de Il Tragitto, così si impostano le giornate che possono essere arricchite dal contributo di esperti. Le donne che incontriamo diventano quindi partecipanti e non utenti, hanno la possibilità di sentirsi accolte e coinvolte». Il Tragitto – nato nel come iniziativa di socializzazione e diventato associazione nel – promuove diversi progetti. Tra questi ricordiamo Incontriamoci e Ritroviamoci, momenti di incontro e scambio che, indirettamente, accompagnano le
partecipanti/i partecipanti alla scoperta degli spazi pubblici e dei servizi presenti sul territorio; corsi di italiano finalizzati all’integrazione; attività diverse gestite dai volontari (corsi di cucina, cucito e altre attività manuali). Nelle sale de Il Tragitto esiste anche uno sportello che offre aiuto nel disbrigo di pratiche amministrative (rinnovo del permesso di soggiorno, formulario di cassa malati ecc.) e – dal – la possibilità di un accompagnamento individuale finalizzato all’inserimento socio-professionale. Quest’ultimo è pensato per giovani donne in situazioni di vulnerabilità: dopo aver stilato un bilancio della situazione personale, si cercano di attivare soluzioni a corto o lungo termine in collaborazione con i servizi specializzati presenti sul territorio. Nel la sede luganese de Il Tragitto ha accolto quasi adulti e un centinaio di bambini e bambine mentre il presidio locarnese – che era una novità – circa donne e minori. Un grande risultato, sottolineano Testa e Manni-Moresi, calcolando che tra marzo e agosto i centri han-
no dovuto chiudere i battenti a causa del Coronavirus. «Abbiamo però mantenuto le consulenze telefoniche e implementato le attività del gruppo Whatsapp che raggruppava oltre famiglie, un canale utilissimo per la diffusione delle informazioni legate alla pandemia. Informazioni che abbiamo cercato di rendere più comprensibili a tutte». Sempre nel le famiglie de Il Tragitto appartenevano a una trentina di nazionalità, tra cui Eritrea, Somalia, Senegal, Sudan, Medio Oriente, Sud America. Le nazionalità dei e delle partecipanti cambiano a seconda dell’andamento delle crisi internazionali e dei flussi migratori verso il nostro Paese, sottolineano le intervistate. «C’è chi viene sempre e chi una volta al mese. La nostra idea è accogliere le famiglie, con o senza bambini e bambine, e permettere loro di incontrarsi e stare insieme. Alcune utenti arrivano e non conoscono una parola di italiano. Si nascondono dietro un muro di timidezza ma poi piano piano prendono confidenza, stringono delle amicizie e spiccano il volo».
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ATTUALITÀ
Scorie spaziali e responsabilità terrestri Il punto
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Dopo l’apertura del cielo ai privati e ai loro capitali si intensificano i lanci di satelliti. Una tendenza insidiosa, ecco perché
Il telescopio James Webb, arrivato a destinazione settimana scorsa (leggi box in basso), si va ad aggiungere alla moltitudine di oggetti che l’umanità ha lanciato nello spazio creando talvolta anche problemi. Pensiamo a quello che è successo nel novembre scorso. Un missile russo, scagliato da una base vicino a Mosca, ha distrutto un satellite militare di sua proprietà. Era in disuso e da circa anni girava indisturbato a qualche centinaio di km di quota. Era roba loro, si potrebbe pensare, ma perché lo hanno fatto? Ci riguarda? Purtroppo sì. Ciò che è avvenuto è un atto irresponsabile, un atto di «incoscienza spaziale», che proprio i russi – con la loro lunga storia astronautica – non avrebbero mai dovuto compiere. Il satellite militare russo colpito dal missile amico è andato in mille pezzi, per la precisione in frammenti, più decine e forse centinaia di migliaia di piccolissimi detriti spaziali. L’operazione ha messo in temporaneo pericolo persino la Stazione spaziale internazionale Iss
(che tra l’altro è anche russa) e quella cinese Tiangong: gli equipaggi hanno dovuto mettere in atto le procedure di urgenza previste in caso di minaccia diretta all’integrità delle stazioni stesse. Le dure rimostranze degli Usa sono state immediate. La Russia ha dichiarato che si trattava di un test per un’arma antisatellite e che non aveva messo in pericolo nessuno. Per la verità l’esplosione provocata è avvenuta in una fascia orbitale che da molti è giudicata pericolosa per la presenza di numerosi satelliti. Sta proprio qui il punto: non si è trattato del primo test di questo genere, in passato lo avevano fatto anche altri Paesi: gli Usa, la Cina, l’India e la stessa Russia, che volevano dimostrare la propria potenza militare. Forse anche quello di novembre è stato un segnale lanciato ai propri avversari, ma c’è un risvolto scientifico inquietante che non si esaurisce con le schermaglie politiche. Le scorie spaziali (pezzi di razzi, satelliti fuori uso, frammenti di oggetti vari), che orbitano per decine e cen-
Il telescopio James Webb è arrivato a destinazione Ha raggiunto la meta, dopo un viaggio lungo un mese, il più grande telescopio lanciato nello spazio dall’umanità. Lo ha annunciato la settimana scorsa la Nasa che gestisce la missione con l’Agenzia spaziale europea (European space agency) e quella canadese (Canadian space agency). Il James Webb space telescope (Jwst) ha infatti raggiunto il suo punto di osservazione a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra. Più precisamente si trova nella zona chiamata «Lagrange 2» dove le influenze gravitazionali di Terra, Luna e Sole si equilibrano, permettendo al prezioso strumento scientifico di restare stabile nella sua posizione con poco sforzo. Proprio in quell’orbita negli anni scorsi sono stati posizionati con successo altri telescopi con compiti particolari.
L’astrofisica della Nasa Amber Nicole Straughn, responsabile delle comunicazioni scientifiche, ha dichiarato: «Il primo anno di osservazioni è già stato pianificato. Guarderemo gli oggetti all’interno del nostro sistema solare, fino alla ricerca delle primissime galassie nate dopo il Big bang… Oltre a tutto ciò che si trova nel tempo e nello spazio tra questi estremi». Le prime immagini del nuovo telescopio dovrebbero arrivare per l’estate, tra circa cinque mesi. Il dispositivo – che permette di vedere le lunghezze d’onda dell’infrarosso – andrà ad affiancarsi nelle indagini cosmiche all’Hubble space telescope (Hst), il prestigiosissimo telescopio spaziale americano che ha regalato al mondo immagini di straordinaria bellezza e di grande importanza scientifica. / Red.
tinaia di anni prima di ricadere sulla terra e bruciare nell’atmosfera, sono un pericolo costante per i satelliti che operano per noi. Dal lancio del primo satellite, lo Sputnik sovietico nel , non abbiamo più smesso di portare oggetti nello spazio e di compiere missioni spaziali con uomini e robot. Il risultato è che oggi i satelliti sono diventati numerosissimi. Ci sono satelliti scientifici che osservano la Terra e ne registrano le modificazioni ambientali, come per esempio lo scioglimento dei ghiacci, l’inquinamento dei mari o la deforestazione; oppure satelliti che hanno scopi commerciali e servono per la meteorologia, le telecomunicazioni e altre applicazioni pratiche. Gli specialisti li conoscono bene, mentre il grande pubblico si gode i loro risultati pratici quasi senza accorgersene. Diamo spesso per scontati i cellulari, il Gps, le dirette tv che ci collegano col mondo: sono alcuni usi pratici dei cosiddetti satelliti civili. Poi ci sono quelli militari, che percorrono orbite basse per osservare punti strategici o sensibili in un’ottica di guerra. Quanti ne partono ogni anno? Impossibile saperlo, anche se pure questi entrano nel conteggio degli oggetti orbitanti che le agenzie spaziali tengono sotto continua osservazione. Infatti la problematica dei satelliti e soprattutto dei detriti spaziali preoccupa da tempo gli addetti ai lavori. I satelliti vivono parecchi anni nelle loro corsie fisse intorno alla Terra, poi si spengono e muoiono, ma restano lassù per tempi più o meno lunghi a dipendenza della loro quota e sono un pericolo potenziale per i nuovi satelliti che arrivano in orbita. L’ufficio americano dello spazio esterno e l’Esa nel catalogavano circa satelliti operativi e tonnellate di detriti spaziali. Di questi erano gli ultimi stadi dei razzi, i satelliti morti, mila i frammenti di cm, mila quelli da a cm, milioni quelli da mm fino a cm. Gli oggetti più piccoli non possono essere monitorati. Ma negli ultimi anni l’a-
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Loris Fedele
pertura dello spazio ai privati e ai loro capitali sta intensificando i lanci. Il miliardario Elon Musk, con la sua SpaceX, sta lanciando in orbite basse una nuova costellazione di satelliti chiamata Starlink, che permetterà di portare Internet in tutto il mondo, anche nelle zone più isolate. In due anni ha piazzato in orbita più di satelliti e ha già ottenuto dalla Fcc, la Commissione americana responsabile delle licenze, l’autorizzazione a lanciare mila satelliti di questo tipo. Il trenino luminoso di Starlink, nel , minacciò per volte la Stazione spaziale Tiangong, suscitando una protesta ufficiale della Cina presso l’Onu. Il Trattato sullo Spazio extra-atmosferico, sottoscritto dalle potenze interessate, ha sancito i fondamenti del diritto spaziale internazionale per le Nazioni, ma non prevedeva l’ingresso dei privati. Oggi ci si muove in una zona grigia ancora da definire con ulteriori accordi internazionali. Starlink ha subito pure la protesta degli astronomi, danneggiati nelle loro osservazioni dalla luminosità dei satelliti di Musk. Infine, oltre a SpaceX, altre società private come Amazon e OneWeb hanno fatto richieste per futuri lanci di satelliti. Di sicuro lo spa-
zio sarà sempre più inquinato da detriti spaziali, per cui si cerca di correre ai ripari. L’unica strada percorribile è la rimozione dei corpi di importanti dimensioni che orbitano obsoleti sopra le nostre teste (se ne discuterà anche il febbraio prossimo a Tolosa durante il summit dell’Ue sulla strategia spaziale). L’Europa spaziale è all’avanguardia in questo senso e già nel aveva lanciato l’iniziativa «Spazio pulito» che incitava tutti gli addetti ai lavori a sviluppare tecnologie innovative riguardanti i satelliti, con l’obiettivo di salvaguardare gli ambienti spaziale e terrestre. Si va dal design ecologico per i nuovi manufatti alle restrizioni nell’uso di particolari materiali e carburanti inquinanti, dalla riduzione dei consumi durante la vita attiva del satellite alla gestione della scoria. La Svizzera si è distinta e l’Esa nel novembre ha firmato un contratto da milioni di euro con la start-up Clear space Sa, uno spin-off del Politecnico federale di Losanna, per acquistare il servizio di un drone in grado di catturare i detriti per rallentarli, farli cadere e consumare nell’atmosfera. La prima missione di recupero partirà nel . Annuncio pubblicitario
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ATTUALITÀ
Si fuma a causa della pubblicità?
Votazione popolare 13 febbraio ◆ Fra i 4 oggetti, anche l’iniziativa popolare «Sì alla protezione dei fanciulli e degli adolescenti dalla pubblicità per il tabacco», che attualmente gode dei favori dei sondaggi
Alessandro Carli
I fautori dell’iniziativa popolare «Sì alla protezione dei fanciulli e degli adolescenti dalla pubblicità per il tabacco», in votazione il febbraio prossimo, sono convinti che vietando gli annunci pubblicitari si possa effettivamente proteggere queste fasce della popolazione, particolarmente vulnerabili. Gli avversari – Consiglio federale e maggioranza parlamentare in primis – pur sottolineando la necessità di proteggere meglio i giovani dagli effetti nocivi legati al consumo di tabacco, sostengono che il divieto della pubblicità chiesto dall’iniziativa vada troppo lontano: vieterebbe infatti anche le forme pubblicitarie rivolte principalmente agli adulti, ma ugualmente accessibili a fanciulli e adolescenti. Vi è dunque scetticismo sui risultati che si possono ottenere attraverso una massiccia riduzione del flusso pubblicitario. Inoltre, un divieto troppo esteso costituirebbe un’ingerenza eccessiva nella libertà economica. Perciò, Berna preferisce puntare sulla nuova normativa sui prodotti del tabacco, adottata dalle Camere federali nell’ottobre , quale controprogetto indiretto all’iniziativa popolare. Questa legge federale prevede limitazioni pubblicitarie per rafforzare la protezione dei minorenni e preservare gli interessi economici. L’iniziativa ha comunque il vento in poppa: secondo i primi sondaggi, i favorevoli sono nettamente in maggioranza, tanto che l’industria del tabacco potrebbe perdere una battaglia a causa delle restrizioni pubblicitarie volte a proteggere gli adolescenti. È però notorio che, man mano che si avvicina l’appuntamento con le urne, le iniziative popolari tendono a perdere consensi. Vedremo se ciò si avvererà anche questa volta. Un adolescente che fuma è quasi sempre un cruccio per i genitori. Statisticamente, un giovane di anni su quattro consuma tabacco, in una forma o nell’altra. Di chi è la colpa? Per le organizzazioni sanitarie e le federazioni giovanili e sportive, all’origine dell’iniziativa, essa va ricercata in gran parte nella pubblicità. Numerosi studi attestano infatti che la pubblicità per il tabacco esercita una grossa influenza sui minorenni, che necessitano quindi di una protezione particolare. Tuttavia, la nuova legge sui prodotti del tabacco autorizza ancora forme di pubblicità accessibili a fanciulli e adolescenti, inducendoli al consumo nocivo di tabacco e nicotina, affermano ancora i fautori dell’iniziativa. Gli adolescenti, sovente alla ricerca d’identità, sviluppano rapidamente una dipendenza e costituiscono dunque un obiettivo perfetto. Per i difensori dell’iniziativa – sostenuti dalla sinistra e dai Verdi liberali – è logico che i pubblicitari abbiano impostato la strategia di vendita su di loro. Fanno leva su personaggi astuti, attraenti, con molto sex appeal o sulla libertà. Circa la metà di chi fuma abitualmente ha iniziato prima dei anni. Il tabagismo precoce – sottolineano i medici – è problematico. Iniziare a fumare da giovani, significa accrescere la probabilità di sviluppare una dipendenza e malattie croniche, potenzialmente mortali. Nel , secondo studi citati dai due schieramenti, le imprese del tabacco hanno investito poco meno di milioni di franchi per pubblicità fatte nella stampa scritta e sui ma-
La consegna delle firme per l’iniziativa popolare il 12 settembre 2019, avvenuta a Berna, volutamente avvolta dal fumo. Sotto, Alain Berset: il Consiglio federale e le Camere sono contrari all’iniziativa e prediligono il controprogetto indiretto votato lo scorso autunno. (Keystone)
nifesti. In Svizzera, una persona su quattro fuma, per un totale di circa due milioni di fumatori. Questa cifra è rimasta più o meno invariata negli ultimi dieci anni. Tra i giovani si registrano livelli analoghi: quasi ’ giovani tra i e i anni fumano. Tumori, infarti e malattie dovute al tabagismo sono all’origine di ’ decessi all’anno in Svizzera. Un numero volte maggiore rispetto ai morti della strada, sottolineano i fautori dell’iniziativa. Tutto ciò grava pesantemente sulla società, sui premi delle casse malati e sull’economia: le cure mediche e le perdite di ore di lavoro generano costi annui per almeno miliardi di franchi. Stando a studi, sempre condivisi sia dai fautori che dagli oppositori dell’iniziativa, i costi diretti (medicinali e ospedalizzazioni) ammontano a miliardi di franchi, pari al per cento delle spese per la salute. I costi indiretti (sospensioni per malattia o perdite di produzione) si situano, per il governo, tra e miliardi di franchi e, per i fautori dell’iniziativa, a miliardi. Ecco perché i sostenitori dell’iniziativa chiedono il divieto di ogni forma di pubblicità che possa raggiungere i minorenni. Ma per il Consiglio federale e i partiti borghesi, tutto ciò è troppo restrittivo. Infatti, i luoghi e i media riservati agli adulti sono rari. In pratica, ciò si tradurrebbe in un divieto totale che, per gli oppositori dell’iniziativa, rappresenta un attacco sproporzionato alle libertà economiche e d’informazione, garantite dalla Costituzione. Il tabacco – ricordano – è
un prodotto legale che deve poter essere promosso. La sua pubblicità è del resto una fonte di reddito per i media, gli ambienti culturali e i piccoli commerci. Vietarla significa «infantilizzare» i consumatori, sostengono ancora gli oppositori, rilevando che ciascuno è responsabile della propria salute e dei prodotti che consuma, per dannosi che siano. L’estensione del divieto, praticamente generalizzata, di ogni forma di pubblicità per il tabacco introdurrebbe un pericoloso precedente: infatti, altre pubblicità potrebbero essere vietate, come quelle per i generi alimentari troppo grassi o dolcificati (formaggio, patatine chips, cervelas, pasticcini e via dicendo) o per le bevande alcoliche, sebbene non possano essere vendute ai giovani sotto i anni. Per il governo, è meglio attenersi alla nuova legge sui prodotti del tabacco, adottata dalle Camere, appunto a titolo di controprogetto indiretto. Il testo costituisce un «buon compromesso», che protegge efficacemente i giovani, preservando gli interessi economici. La legge contiene limitazioni pubblicitarie per rafforzare la protezione dei minorenni, applicabili per la prima volta in tutta la Confederazione. Tra l’altro, disciplina la composizione, l’imballaggio, la pubblicità, la distribuzione e il controllo dei prodotti del tabacco e delle sigarette elettroniche, che non possono essere venduti ai minorenni, pena una multa salata. Inoltre, la pubblicità per il tabacco sui manifesti, nei cinema, presso i
campi sportivi, negli edifici pubblici e nei mezzi di trasporto è vietata, come pure la pubblicità rivolta ai minorenni. Vietata anche la sponsorizzazione di manifestazioni destinate ai giovani o di manifestazioni a carattere internazionale. La nuova legge sottostà a referendum e, se non viene chiesto o non avrà successo, potrebbe entrare in vigore verso la metà del , indipendentemente dall’esito della votazione sull’iniziativa. Con la legge, la vendita di sigarette sarà vietata ai minori e la pubblicità regolata meglio. Ma tutto ciò non sarà sufficiente per ratificare la convenzione dell’OMS sulla lotta contro il tabagismo, firmata dalla Svizzera. Se invece l’iniziativa fosse accolta, obbligherebbe il Consiglio federale e il parlamento ad adeguare la legge. Il controprogetto indiretto messo a punto dal parlamento, sebbene contempli disposizioni concrete, è respinto dai medici. Essi ricordano che il tabacco è una sostanza che crea assuefazione ed è ben diverso dai generi alimentari. Per loro, la gioventù va meglio protetta e il controprogetto indiretto non è in grado di farlo, appunto perché autorizza ancora forme di pubblicità (nei giornali gratuiti, sulle reti sociali, in Internet e nei festival), accessibili ai fanciulli e agli adolescenti. Per i sostenitori dell’iniziativa, non è quindi il benessere dei nostri figli a prevalere, bensì gli interessi dell’industria pubblicitaria e del tabacco. Ma la problematica degli adolescenti che fumano è esclusivamente dettata dalla pubblicità o va risolta anche a livello educativo e familiare? La società non dovrebbe attivarsi maggiormente? Oltre alla prevenzione del tabagismo, l’iniziativa chiede a Confederazione e Cantoni di promuovere anche la salute di fanciulli e adolescenti, pur senza definire precise modalità di attuazione. Per riuscire, l’iniziativa necessita della doppia maggioranza di popolo e cantoni. Prima di mettere la scheda nell’urna, l’elettore dovrà convincersi che, con un divieto della pubblicità per il tabacco praticamente generalizzato, l’iniziativa permetterà effettivamente di raggiungere gli obiettivi voluti. Insomma, se questa proposta, al di là dei provati danni che il tabacco provoca, rappresenti la sola e più opportuna via da seguire.
Mondo accademico in allarme CH-UE ◆ L’esclusione da Horizon Europe si fa concreta e penalizza i ricercatori svizzeri
A poco a poco le conseguenze della rottura dei negoziati su un accordo quadro con l’Ue voluta dalla Svizzera si fanno sentire. Dapprima è toccato al settore MedTech, con problemi di certificazione dei prodotti esportati in Europa, poi mitigati da una serie di eccezioni e dall’apertura di sedi nell’Ue: ora l’impatto si fa sentire sul mondo della ricerca scientifica, creando allarme negli atenei svizzeri. Nel luglio del l’Unione europea ha escluso la Svizzera dal suo programma di ricerca scientifica Horizon Europe -, dotato di miliardi di euro. Da membro a pieno titolo è stata degradata a Stato terzo non associato. E ora il conto sta arrivando: il gennaio il Consiglio della Ricerca Europeo (ERC) ha comunicato la prima distribuzione di fondi di Horizon Europe, e i ricercatori svizzeri che avevano vinto il concorso indetto dall’ERC, e quindi diritto ai fondi, sono stati esclusi. Non solo: lo ERC ha specificato che i concorrenti svizzeri potrebbero ottenere i sussidi richiesti (in totale milioni di franchi) se con i loro progetti migrassero in un’istituzione europea. Il Segretariato per la formazione, la ricerca e l’innovazione ha immediatamente ricordato che la Confederazione garantisce l’erogazione dei fondi per poter svolgere in Svizzera i progetti approvati ma non sussidiati dall’Ue. Il mondo accademico ha ringraziato, ma ha ricordato che questo non risolve il problema di fondo. In una risoluzione indirizzata al Consiglio federale, firmata il gennaio , tre alti esponenti del mondo della ricerca scientifica sottolineano che la Svizzera rischia di perdere ricercatori di spicco e aziende innovative. Michael Hengartner, presidente del consiglio dell’ETH, Matthias Leuenberger, presidente di Scienceindustries e Yves Flückiger, presidente di Swissuniversities, hanno ricordato che i ricercatori svizzeri non solo non ottengono più i fondi richiesti, ma non possono neppure più dirigere i progetti a livello europeo. Inoltre la Svizzera viene esclusa anche dalla ricerca nel campo spaziale e della fisica quantistica. I tre segnalano che professori e ricercatori prendono seriamente in considerazione l’ipotesi di migrare in università europee, qualcuno l’ha già fatto. La Svizzera rischia di perdere l’aggancio con la comunità scientifica, ciò che potrà spingere aziende innovative a migrare a loro volta, inoltre risulterà meno attrattiva per ricercatori e aziende innovative stranieri. L’appello dei tre accademici al governo è: riportare la Svizzera allo status di Paese associato. Non sarà facile, Bruxelles non intende negoziare. Inoltre, in questo semestre la presidenza dell’Ue spetta alla Francia, la quale ha il dente avvelenato con la Svizzera per il mancato acquisto degli aerei militari Rafale. Parigi si è sentita presa in giro, dopo aver acconsentito, come controparte dell’acquisto dei Rafale, a delle concessioni politiche che avrebbero facilitato il riavvicinamento di Berna all’Ue. Come primo segnale, la Francia non ha invitato la Svizzera a due summit ministeriali su ricerca e ambiente. / PS
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ATTUALITÀ
«Posso dedurre dalle imposte la mia postazione di lavoro in home office?» La consulenza della Banca Migros ◆ Attualmente non esiste un forfait deducibile per l’home office, ma restano possibili altre deduzioni, anche durante la pandemia
Fra non molto arriverà il modulo per la dichiarazione d’imposta. Come bisogna comportarsi rispetto all’home office nel ? Ho allestito una postazione di lavoro con il computer in camera da letto. Posso dedurre dalle imposte il relativo costo anche se l’obbligo del telelavoro non valeva tutto l’anno? Ha altri consigli da darmi sulle possibili deduzioni come impiegato con domicilio nel Canton Zurigo? Nel suo caso, la durata dell’obbligo del telelavoro è irrilevante. Ma le autorità fiscali non accettano l’utilizzo della camera da letto come ufficio. Per poter dedurre i costi di una stanza privata a uso ufficio, il locale deve essere utilizzato essenzialmente per scopi professionali. Questa è solo una delle condizioni da soddisfare.
In compenso, in molti casi è possibile dedurre come in passato le spese di trasporto e i costi supplementari per i pasti fuori casa, a prescindere dal fatto che l’anno scorso si lavorasse in sede o meno. La maggior parte delle autorità fiscali, infatti, semplicemente non considera la pandemia. Questo è accaduto anche nel , ad esempio nel Canton Zurigo e nel Canton Lucerna. In futuro forse verrà introdotto un forfait deducibile per l’home office. Tale forfait è perlomeno oggetto di discussione, secondo quanto riferiscono le varie autorità fiscali. Oltre alle spese professionali e a eventuali costi di formazione e perfezionamento professionale, le deduzioni per la previdenza sono quelle più importanti per i lavoratori dipendenti. Chi ha pagato i contri-
FabioThaler, consulente alla clientela presso Banca Migros Regione Svizzera orientale.
buti AVS arretrati – è possibile farlo entro cinque anni – può dedurre tali importi dalle imposte sul reddito.
Inoltre, è possibile dedurre anche eventuali riscatti nella cassa pensione e i versamenti nel pilastro a effettuati nel . L’anno scorso i dipendenti potevano versare fino a franchi, i lavoratori autonomi senza º pilastro il % del reddito netto da attività lucrativa, fino a un massimo di franchi. Gli importi rimangono invariati nell’anno in corso. La definizione di previdenza è ampia. Infatti, è possibile dedurre dall’imposta sul reddito anche i premi della cassa malati, i premi assicurativi e gli interessi sui risparmi – sia a livello federale che cantonale. Si arriva così presto a una cifra di varie migliaia di franchi. A determinate condizioni possono essere dedotte dall’imposta sul reddito anche le spese di malattia sostenute personalmente. Inoltre, sono previste dedu-
zioni per chi ha figli, debiti o possiede immobili. Infine, è sempre bene chiedere consiglio alla propria banca e leggere attentamente le istruzioni per la compilazione della dichiarazione d’imposta del cantone di domicilio o eventuali schede informative. Ciò consente di rimanere sempre aggiornati e di evitare seccature in seguito. Informazioni Un’ampia panoramica di tutte le deduzioni è disponibile ai link seguenti: Deduzioni fiscali per le finanze private: https://blog.migrosbank.ch/ consigli-fiscali-finanze-private Deduzioni fiscali per la vita professionale: https://blog.migrosbank.ch/ consigli-fiscali-vita-professionale
COVID-19 e un’inflazione poco sorprendente Politica monetaria
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Ritenuta un «relitto del passato», in epoche di tassi d’interesse ai minimi storici è tornata alla ribalta
Edoardo Beretta
Farebbe sorridere (se non avesse ripercussioni sul tenore di vita di ogni individuo) leggere con quale sorpresa la recente fiammata inflazionistica con rialzi dei prezzi al consumo del % su base annua nel negli USA sia stata accolta. Da un lato, è sì vero che le previsioni di crescita dei prezzi stilate nel ed in parte nel rilevassero una crescita piuttosto modesta dei prezzi − talvolta, anche negativa − imputabile alla contrazione del PIL globale (–,% nel su base globale) ascrivibile ai lockdown generalizzati. Ad esempio, il gennaio le autorità americane prevedevano ancora un prezzo del Brent di circa -$ al barile per tutto l’anno appena passato quando è da febbraio che ha superato tale livello, raggiungendo più di $ al barile. Dall’altro, la storia economica − remota così come recente − avrebbe dovuto insegnare come la crescita dei prezzi sia un fenomeno assai frequente ogni qual volta un territorio (anche circoscritto regionalmente) si ri-
trovi in situazioni gravi ed inaspettate come incendi devastanti, carestie, periodi di siccità estrema etc. In altre parole, ad una «piaga» è frequentemente seguito un vigoroso rialzo dei prezzi come i lettori di «Azione» potevano anzitempo leggere nel mio articolo del luglio dal titolo eloquente Dopo la pandemia, l’inflazione?. Le ragioni sono semplici: innanzitutto, i prezzi (a prescindere dal ritmo di crescita più o meno pronunciato nel decennio recente) sono nel loro complesso soggetti a un trend secolare al rialzo, che nei Paesi avanzati è in particolar modo trainato da quelli dei beni immobili e titoli finanziari (cioè degli asset) non inseriti nell’indice dei prezzi al consumo. Nel contempo, si assiste al verificarsi di due altri fenomeni che determinano tali rialzi: le imprese vogliono rapidamente rifarsi delle perdite subite nel lockdown o a causa delle restrizioni tuttora in vigore, mentre gli individui «smaniano» di tornare a vivere «normalmente» e fanno convergere
Previsione di crescita dei prezzi su base annua (%)* 2020
2021
2022
Argentina
+40,4
+49,1
+44,4
Eurozona
+0,3
+2,4
+2,7
Francia
+0,5
+2,1
+2,3
Germania
+0,4
+3,1
+2,8
Italia
–0,2
+1,8
+2,2
Regno Unito
+0,9
+2,4
+4,4
Spagna
–0,3
+2,9
+3,2
Stati Uniti d’America
+1,3
+4,6
+4,8
Svizzera
–0,7
+0,6
+1,0
le (tante o poche) risorse economiche risparmiate durante la fase della pandemia sull’offerta presente sul mercato. Del resto, anche a livello «spannometrico», il periodo natalizio con le file di avventori nelle attività commerciali più disparate è stato sufficientemente eloquente. Nel contempo, anche afflussi importanti di «curiosi» (sebbene non clienti) può rinfocolare aspettative di crescita dei prezzi rendendole «auto-
realizzantisi». In altre parole, erano le previsioni di ribasso dei prezzi rilasciate in quel frangente di pandemia ad essere irrealistiche a prescindere dal fatto che in quel momento la produzione nazionale si stesse contraendo: del resto, «prevedere» significa per antonomasia «intuire il futuro alle nuove condizioni vigenti» (e non a quelle presenti in quel momento). E, invece, per anni l’economia si è «cullata» nella convinzione di trovarsi durevolmente in epoche di bassa inflazione con tassi d’interesse da mantenersi altrettanto a lungo ai minimi storici. La tabella qui riportata con le previsioni d’inflazione è dunque da prendersi «con le pinze»: che quella riguardante gli USA non corrispondesse ai valori di crescita effettivi nel (+,% versus ,%) è altrettanto palese. Poco intellegibile è, se poi i rialzi dei prezzi − soprattutto, di quelli al consumo ed energetici rispetto agli asset in quanto è ai primi che è venuto a mancare l’accesso regolare durante il lockdown − derivino da: ) iniezioni di
liquidità delle banche centrali; ) provvedimenti fiscali quali «ristori» ad esercizi commerciali ed il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) in ambito europeo; ) transizione energetica; ) rapporti con la Russia fornitrice di materie prime, ma anche di vaccini (questi ultimi poco strategicamente presi in considerazione dal mondo occidentale). Rimane il fatto che un’evoluzione economica − prevedibile anzitempo − sia stata diffusamente non prevista ed altrettanto non riconosciuta. Se può «consolare», c’è da però dire che − quando nell’estate le case farmaceutiche produttrici del siero contro il SARS-CoV- segnalarono che sarebbe stata necessaria una terza dose per ristabilire la risposta anticorpale dopo un certo periodo di tempo − si levarono molte ed illustri le voci di scetticismo… Come, poi, sia andata è storia. Nota * https://data.oecd.org/price/ inflation-forecast.htm. Annuncio pubblicitario
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 31 gennaio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
21
ATTUALITÀ ●
Il Mercato e la Piazza
di Angelo Rossi
Ticino, cantone innovativo ma a bassa produttività ◆
Tra i grandi interrogativi che, nelle diagnosi del momento, pesano sul futuro dell’economia ticinese vi è quello relativo all’evoluzione della produttività. Da anni il tasso di crescita di questa grandezza è in diminuzione. La spiegazione più diretta di una simile evoluzione (fatta naturalmente a occhio e croce come la può fare un commentatore economico esterno alla ricerca) è che il tasso di variazione della produttività diminuisce perché l’economia ticinese è estremamente orientata verso le attività ad alto contenuto di lavoro. Dei due fattori che influenzano la produzione, lavoro e capitale, in Ticino ad essere particolarmente abbondante è il primo. L’economia ticinese è dunque un’economia fondata sul lavoro. Data per acquisita questa verità, che cosa ne facciamo degli studi che, in questi ultimi tempi, hanno dimostrato che, se comparata con le altre regioni europee, la capacità innovativa dell’economia ticinese è particolarmente elevata e, a livello nazionale, si trova più o meno nella media? Gli economisti sono infatti abituati a considera-
re l’innovazione come una grandezza che incrementa in particolare la produttività del capitale. In via di principio dunque, un’economia sempre più basata sul lavoro e, in particolare, sul lavoro a buon mercato dovrebbe essere, invece, un’economia, a un tempo, con tassi di variazione della produttività in diminuzione e poco innovativa. Arrivato a questo punto il lettore avrà afferrato che nell’interpretazione tradizionale della crescita economica un’economia che basa la sua crescita, quasi esclusivamente sul fattore lavoro, non dovrebbe avere né tassi di aumento elevati della produttività, né una capacità innovativa largamente superiore alla media (almeno nel confronto internazionale). L’economia ticinese fondata sul fattore lavoro la capacità innovativa invece ce l’ha. Come la mettiamo dunque? Per rispondere a a questa domanda dobbiamo ottenere maggiori informazioni sul processo innovativo nell’economia ticinese. È quello che si sono proposti di fare Vincenza Giancone e Erich Stephani in un loro contributo dal titolo Innovazio-
ne in Ticino, ora disponibile sul sito dell’Ufficio cantonale di statistica. Nella loro analisi essi hanno ripreso i risultati dell’inchiesta biennale sull’innovazione del KOF che, nell’edizione più recente (-), ha, per la prima volta, pubblicato dati per grandi regioni, fra cui il Ticino. Il KOF ha diviso le attività innovative nei due classici gruppi dell’innovazione di prodotto e dell’innovazione di processo. Detto in parole povere, l’innovazione di prodotto si propone di incrementare le vendite aprendo nuovi mercati con nuovi prodotti, mentre l’innovazione di processo è orientata a ridurre i costi di produzione. I risultati dell’inchiesta mostrano che le aziende ticinesi, a differenza di quelle nazionali, si orientano maggiormente verso l’innovazione di processo. L’innovazione di prodotto è però presente nel settore dei servizi: nello stesso la prestazione in materia di innovazione di prodotto delle aziende ticinesi è addirittura superiore al valore medio nazionale. L’informazione stando alla quale nelle aziende ticinesi sono le innovazioni
di processo, in generale, a prevalere, potrebbe però contribuire a spiegare, in parte, la contraddizione ricordata all’inizio dell’articolo. Vediamo di spiegarci meglio. In un’economia labor oriented come quella ticinese i costi di produzione – in particolare quelli del fattore lavoro – sono importanti. È quindi più che naturale che le aziende si preoccupino di contenerli e concentrino le loro attività di innovazioni nel campo delle innovazioni di processo, ossia di innovazioni che si propongono di ridurre i costi di produzione e, in pratica, di aumentare la produttività. Tuttavia, a inficiare, almeno in parte, questa conclusione viene il dato concernente il settore dei servizi nel quale è l’innovazione di prodotto a primeggiare. Questo settore, ricordiamolo, è, sia per numero di aziende che per quota nell’occupazione, il più importante dell’economia ticinese. Insomma, gli approfondimenti dei collaboratori dell’USTAT danno una pista ma non bastano per sciogliere la contraddizione di un’economia altamente innovativa nella quale però
la produttività è stagnante. Andando un po’ oltre la loro analisi si potrebbero però suggerire un paio di ipotesi che potrebbero aiutare a spiegare l’arcano. La prima l’abbiamo già ricordata. Nel settore più importante, quello dei servizi, è l’innovazione di prodotto a prevalere, un tipo di innovazione che forse influisce meno sull’aumento della produttività dell’innovazione di processo. La seconda spiegazione ipotetica si basa sul fatto che solo un terzo circa delle aziende dell’economia ticinese (come anche dell’economia svizzera) perseguono attività innovative. È addirittura possibile che la loro taglia sia inferiore alla media. In altre parole l’innovazione tecnologica, in Ticino come in altre regioni del paese, viene fatta dalla piccole e piccolissime aziende. Per questa ragione, forse, le innovazioni di processo, che pure sono presenti in misura superiore alla media, specie nel settore dei servizi, non riescono a tener alta la marcia della produttività. Si tratta di conclusioni un po’ spicce che andranno verificate con i risultati di ulteriori inchieste e adeguate analisi.
●
In&Outlet
di Aldo Cazzullo
Nessuna alternativa al suffragio universale ◆
L’elezione del presidente della Repubblica in Italia è una tappa importante. E i suoi poteri non sono piccoli; soprattutto da quando i partiti non esistono quasi più. Nella Prima Repubblica tutto ruotava attorno alle segreterie, in particolare a quella della Democrazia cristiana. La poltrona più importante, più ancora di quella rotante di Palazzo Chigi e di quella più stabile del Quirinale, era la poltrona di Piazza del Gesù: il segretario della Dc era (con l’avvocato Agnelli) l’uomo più potente d’Italia. Tutto cambiò con il crollo del Muro, la fine della Prima Repubblica, e la metamorfosi di Francesco Cossiga: da presidente silente a picconatore. Oscar Luigi Scalfaro contò molto, anche perché usò sino in fondo l’arma che la Costituzione assegna al capo dello Stato: sciogliere le Camere. Scalfaro rifiutò le elezioni a
Berlusconi, caduto nel Natale , rinviandole alla primavera del , quando vinse Prodi. Carlo Azeglio Ciampi fu un ottimo presidente, anche se rinunciò a dare battaglia sulla legge elettorale ribattezzata dal suo stesso autore «Porcellum». Giorgio Napolitano ebbe un ruolo maieutico nel Governo Monti, Sergio Mattarella in quello Draghi. Insomma il presidente conta, e molto. Anche per questo gli italiani sono stati molti infastiditi dallo spettacolo un po’ grottesco di settimana scorsa, dalle manovre barocche, dai riti arcaici. E se il capo dello Stato lo eleggessero i cittadini? Sarebbe possibile anche senza trasformare l’Italia in una Repubblica presidenziale. In molti Paesi europei, dal Portogallo all’Austria, sono i cittadini a eleggere il presidente; che però in nessun Paese europeo è an-
che capo del Governo. Non credo che del voto popolare si debba avere paura. Mai. Consideriamo l’esempio della Francia, che è una Repubblica semipresidenziale. Questo vuol dire che il presidente eletto dal popolo è il capo dello Stato, ma non il capo del Governo. Il Governo è legato da un rapporto di fiducia all’Assemblea nazionale; se questa esprime una maggioranza ostile al presidente, ci sarà un Governo di segno diverso se non opposto a quello del presidente. È accaduto in passato, più volte. Tra il e il ci fu una coabitazione tra un presidente socialista, François Mitterrand, e un primo ministro di destra, Jacques Chirac. Tra il e il Mitterrand dovette coabitare con un altro primo ministro di destra, Edouard Balladur. Nel Chirac sciolse l’Assemblea nazio-
nale, nella convinzione di stravincere, e invece perse le elezioni legislative, e dovette convivere per ben anni con il premier socialista Lionel Jospin. I due non si sopportavano, e decisero insieme una riforma per limitare a anni (da che erano, come in Italia) il mandato del presidente della Repubblica. Ma ora – ci scommetto – i francesi sono alla vigilia di una nuova coabitazione. Perché a mio avviso Emmanuel Macron sarà rieletto nel prossimo aprile, ma non vincerà le elezioni legislative; e dovrà convivere con una maggioranza parlamentare, e quindi con un Governo, della destra repubblicana. Mi ha sempre affascinato il fatto che durante il secondo conflitto mondiale ci fosse nel Regno unito un Governo guidato da un conservatore come Churchill che aveva come vice un labu-
rista, Clement Attlee. Finita la guerra, Attlee vinse le elezioni e prese il posto di Churchill, salvo poi cedergli di nuovo Downing Street dopo anni. I due rivali sono ricordati entrambi nell’abbazia di Westminster: una lapide di marmo verde, posta dalla regina Elisabetta nel settembre per il . anniversario della battaglia d’Inghilterra, reca l’incisione «Remember Winston Churchill», sepolto con i genitori nel cimitero della chiesa di San Martino a Bladon, Oxfordshire. Una lastra più piccola, in marmo nero indiano, protegge le ceneri dello storico capo laburista: «Clement Attlee -, prime minister -, for twenty years leader of the Labour Party». Senza offesa, qualcuno riesce a immaginare un segretario del Pd, o di qualsiasi altro partito italiano, sepolto a Santa Croce?
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Il presente come storia
di Orazio Martinetti
Una collezione che fa impressione ◆
Le controversie in corso sul significato dei monumenti eretti nelle città e nei luoghi considerati pregni di storia offrono l’occasione per rimettere a fuoco presenze mute e solitamente ignorate. Mute infatti non sono; anzi, statue, targhe e lapidi parlano, basta scrutarle e interrogarle a fondo, senza farsi sviare dalle apparenze e dalle giustificazioni di comodo. A questo compito, non sempre facile ma necessario, si sta dedicando con tenacia ammirevole la città di Zurigo, prima indagando le implicazioni dei maggiorenti cittadini nella tratta degli schiavi tra Sette e Ottocento, e poi rivolgendo l’attenzione alla provenienza della collezione d’arte di Emil Georg Bührle (-). In entrambi i casi, ha affidato le ricerche a studiosi attivi nella facoltà di storia dell’università, confidando nel-
le loro competenze scientifiche e nella loro indipendenza di giudizio. I risultati hanno dato luogo ad un’ampia discussione. Il primo soggetto di questa ricognizione critica è stato il casato degli Escher, in particolare i predecessori del figlio più illustre e influente della città, ossia Alfred Escher, il «barone delle ferrovie», personalità vigorosa dell’élite liberale dell’Ottocento, finanziere e cofondatore del Politecnico. Lo studio ha evidenziato interessi e affari degli zii nell’isola di Cuba, dove nella piantagione di caffè di cui erano proprietari lavorava un certo numero di schiavi. Ma gli Escher non erano gli unici attori ad operare in questi promettenti mercati d’oltremare (caffè e cotone). Altri importanti esponenti della città avevano saputo inserirsi nei traffici che allora garanti-
vano lauti profitti, intessendo relazioni con i poteri locali e con il sistema bancario. Certo, come hanno spiegato i ricercatori, si trattava di un «colonialismo senza colonie», ossia di una partecipazione indiretta alla deportazione dei neri dall’Africa verso le Americhe. Certo era comunque il ricorso allo schiavismo, mediato da fiduciari attivi sull’isola caraibica. Il secondo tema che turba il sonno degli zurighesi riguarda il citato industriale Bührle, figura davvero singolare del Gotha cittadino: noto e omaggiato in vita non tanto come storico dell’arte (materia da lui effettivamente studiata in due atenei germanici) quanto piuttosto come fabbricante d’armi. L’azienda da lui fondata, la Oerlikon-Bührle, gli permise di accumulare un’enorme fortuna durante la fase di riarmo della Germania
nazista. I cannoni Bührle erano molto richiesti, precisi e affidabili. Si calcola che tra il e il Bührle riuscì ad acquisire dipinti, con una predilezione per l’impressionismo francese (Monet, Renoir, Degas, Cézanne). Tredici di questi, siccome provenienti da depredazioni, dovette poi restituirli ai legittimi proprietari. Alla fine la sua collezione d’arte raggiunse la ragguardevole cifra di opere, un patrimonio inestimabile ora gestito dalla fondazione che porta il suo nome e che il Kunsthaus ha il compito di valorizzare. Gli appassionati d’arte ne possono ammirare una larga parte nella nuova ala del museo progettata dall’architetto inglese David Chipperfield. Problema: come far capire ai visitatori che questo tesoro è stato accumulato con i proventi derivanti dalla vendita di materiale bel-
lico al Terzo Reich? Come rendere consapevole il pubblico che ogni quadro incorpora vicende oscure, drammi familiari, persecuzioni? Alfred Escher ha avuto la sua statua sulla Bahnhofplatz e lì rimarrà anche se una parte della cittadinanza vorrebbe rimuoverla; la collezione Bührle è stata trasferita in un edificio che è esso stesso un capolavoro dell’architettura contemporanea. Rimane la questione morale. Si può alzare le spalle e passare oltre, oppure interrogarsi sugli intrecci del «Bührle-Zürich-Komplex», come lo chiama il responsabile della ricerca, lo storico Matthieu Leimgruber. Un complesso che chiama in causa non soltanto i singoli destini, ma anche l’intera élite industriale e finanziaria della città, teatro non innocente di molte operazioni rimaste sinora nell’ombra.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 31 gennaio 2022
CULTURA
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Il Realismo Magico a Milano Un’importante mostra a Palazzo Reale propone le opere fondamentali di questa corrente
Riflettere sulla Memoria Seconda parte dell’intervista alla storica Anna Foa, che lancia un appello agli intellettuali
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Canova e Bologna Mostre
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azione – Cooperativa Migros Ticino 23
Italofonia a Soletta Grazie a Soudani e a Pellerani anche un po’ di Ticino alla kermesse cinematografica
Svizzeri straordinari L’incredibile vicenda umana di Richard Norris Williams, dal Titanic ai campi da tennis
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Intrigante mostra alla Pinacoteca Nazionale di Bologna
Gianluigi Bellei
Bologna fino ad alcuni decenni fa era una piccola città un po’ provinciale, con molti monumenti e opere d’arte indimenticabili. In Piazza ritrovavi sempre diversi capannelli di persone che discutevano animatamente chi di politica, chi di calcio. Tutti i fine-settimana si incontrava Beppe Maniglia, con la sua Harley Davidson, che a torso nudo, anche d’inverno per la gioia delle ragazze, suonava musica e faceva scoppiare con il solo fiato della bocca una borsa per l’acqua calda. Pochissimi i turisti. Via Indipendenza (la strada ove vivevo a pochi metri dalla Piazza) era ancora abitata da anziani cittadini. La Pinacoteca di via Belle Arti si poteva ammirare quasi in solitudine e le mostre in città erano eccezionali. Basti ricordare le Biennali d’arte antica, presiedute da Cesare Gnudi, che indagavano gli artisti locali quali Guido Reni, i Carracci, il Guercino, Federico Barocci; con cataloghi scientifici, precisi e rigorosamente in bianco e nero.
Gaetano Maria Monti Erma di Antonio Canova Bologna, Pinacoteca Nazionale marmo 1809-10. (© Pinacoteca Nazionale di Bologna, su concessione del Ministero della Cultura)
Antonio Canova incontrò per la prima volta la città di Bologna nel 1779, durante un viaggio da Venezia a Roma Poi è arrivata la Ryanair e con essa gli «stramaledetti» turisti. Il centro si è trasformato in un grande bancone alimentare dove si mangia e si bivacca a ogni angolo di strada. Una cosa però sembra essere rimasta quasi identica: la ricerca di esposizioni di qualità e con precisi intenti. In questi ultimi decenni i musei generalmente hanno preso la brutta abitudine di organizzare esposizioni, più che altro per richiamare turisti e rimpinguare le casse. Alla Pinacoteca Nazionale c’è un’esposizione nata e cresciuta «attorno al desiderio di rievocare la prima grande mostra d’arte organizzata dalle istituzioni cittadine quando all’inizio del venne presentata nella chiesa dello Spirito Santo una scelta dei capolavori bolognesi recuperati da Antonio Canova in Francia», scrive la direttrice del museo Maria Luisa Pacelli in catalogo. Ma soprattutto, ed è l’aspetto maggiormente interessante, le opere dedicate a Canova e i relativi documenti sono esposti lungo il precorso permanente della Pinacoteca in un dialogo all’insegna della «complementarità». Ma cosa ha a che fare Canova con Bologna? Antonio Canova nei primi decenni dell’Ottocento è uno scultore famoso e riconosciuto in tutta Europa. È un uomo di cultura e soprattutto un diplomatico. Viaggi e contatti lo vedono protagonista a Venezia, Roma, Parigi e Londra, senza dimenti-
care la sua Possagno. La mappa delle città canoviane include anche Napoli, Firenze e, in questo caso, Bologna. Il primo incontro con la città avviene nel nel tragitto da Venezia alla volta di Roma. Il giovanissimo scultore si entusiasma al Compianto di Alfonso Lombardi e alla Decollazione di Battista di Alessandro Algardi. Grazie al suo diario conosciamo tutti gli artisti scoperti: dai Carracci a Tiarini, dal Cavedone al Domenichino, dal Guercino a Guido Reni. Ammira gli Scorticati di Ercole Lelli ed entra in contatto con artisti viventi del luogo, come il ceroplastico Giambattista Manfredini del quale descrive (interessi giovanili) i modelli uterini, i genitali maschili e femminili. Durante i suoi successivi soggiorni conosce lo scultore Giacomo De Maria, l’architetto Giovanni Antonio Antolini e l’incisore e docente dell’Accademia Francesco Rosaspina; le persone della buona società e la «magnetica figura» di Madame Cornelia Barbara Rossi, contessa di Lugo, allieva di Giuseppe Mezzofanti, musa di Ugo Foscolo, confidente di Stendhal, amica negli anni successivi di Giacomo Leopardi
e moglie di Giovanni Battista Martinetti, architetto e ingegnere originario di Bironico trapiantato dal a Bologna. Nel lo scultore Giacomo Rossi, segretario dell’Accademia di Bologna, avanza formale richiesta a Giuseppe Bossi, omologo milanese, per avere qualche nuovo calco per la gipsoteca tra i quali il Busto di Napoleone di Canova. Tra il e il Pelagio Pelagi ottiene in dono da Canova i calchi della Concordia e un’altra Testa di Napoleone. Diversi sono i gessi canoviani presenti all’Accademia di Belle Arti. Tra questi citiamo la Maddalena penitente della quale Quatremère de Quincy, amico dello scultore, disse: «Quella è un’opera figlia del cuore»; due le opere realizzate in marmo e quattro i calchi in gesso a oggi noti – ricavati da uno stampo a tasselli effettuato sul marmo originale della seconda versione – dei quali quello dell’Accademia è sicuramente di qualità superiore. Nel settembre-ottobre del Canova è tra gli invitati al Congresso di Parigi che sancisce la sconfitta di
Napoleone. È il capo della Delegazione pontificia che deve ottenere la restituzione dei beni sottratti in virtù del Trattato di Tolentino del con il quale la Francia asporta alcuni beni della chiesa e li porta a Parigi: manoscritti, libri, beni archeologici, dipinti. Dopo Roma, la città maggiormente depauperata è Bologna. Canova riporta tele bolognesi più provenienti da Cento. Sabato dicembre i quadri vengono ricoverati nella chiesa sconsacrata dello Spirito Santo e sballati alla presenza di Luigi Salina, «il potente commissario pontificio», e dello stesso Canova. Il marchese Antonio Bolognini Amorini nella sua Descrizione de’ quadri restituiti a Bologna… del scrive: «Bello fu vedere quell’immortale uomo del Canova dar mano premurosa agli altri operai, e schiodare e aprire le grandi casse che racchiudevano li riportati quadri». In gennaio, e per otto giorni, nella stessa chiesa viene organizzata una mostra con esposti dei quadri restituiti. Al posto d’onore la Pala dei mendicanti di Reni, poi il San Bruno di Guercino, la Santa Cecilia di Raffaello, La voca-
zione di Matteo di Ludovico Carracci e via via tutti gli altri. L’odierna esposizione ricostruisce tutta la vicenda e in più fa rivivere l’ambiente della mostra allo Spirito Santo del attraverso la proiezione della sua ricostruzione digitale in D a scala ambientale. La prima inquadratura, scrivono gli autori, riprende la Ichnoscenografia di Bologna del di Filippo de’ Gnudi fino a scendere a volo d’uccello a inquadrare la porzione urbana che accoglie la chiesa per abbassarsi ad altezza d’uomo, entrare nella chiesa stessa e ammirarne l’allestimento con l’illuminazione naturale. Bel catalogo contenente oltre al prospetto dei materiali esposti anche un’appendice documentaria che riunisce le testimonianze maggiormente significative inerenti il legame tra Canova e la città felsinea: lettere e testimonianze. Dove e quando Antonio Canova e Bologna. A cura di Alessio Costarelli. Pinacoteca Nazionale, Bologna. Fino al 20 febbraio 2022. Catalogo Electa, euro 25
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 31 gennaio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
CULTURA
Una realtà intrisa di mistero, ambiguità e sogno Mostra ◆ Negli spazi di Palazzo Reale a Milano un ricco percorso espositivo rivalorizza il Realismo Magico, significativa corrente artistica italiana degli anni Venti Manuela Mazzi
«La magia – scrive nel lo scrittore Massimo Bontempelli, che per primo parlò di Realismo Magico come concetto militante – non è soltanto stregoneria: qualunque incanto è magia; il fondo dell’arte non è altro che incanto. Forse è l’arte il solo incantesimo concesso all’uomo: e dell’incantesimo possiede tutti i caratteri e tutte le specie: essa è evocazione di cose morte, apparizione di cose lontane, profezia di cose future, sovvertimento delle leggi di natura, operati dalla sola immaginazione» (Maurizio Fagiolo dell’Arco, Classicismo pittorico. Metafisica, Valori Plastici, Realismo Magico e , Costa & Nolan, Genova, , pag. ). Proprio al Realismo Magico è dedicata l’omonima mostra allestita a Palazzo Reale di Milano (fino al febbraio ). A cura di Gabriella Belli e Valerio Terraroli, esibisce oltre capolavori dei più brillanti artisti che adottarono questo stile, anche solo per poco. Un’esposizione preziosa non solo per rivalorizzare, dopo trentacinque anni di oblio (risale al l’ultima mostra dedicata a questa corrente), un momento significativo dell’arte italiana, ma anche perché alcune di queste opere – quelle della collezione privata del noto gallerista e studioso d’arte milanese, Emilio Bertonati (-) – sono mostrate per la prima volta al pubblico. Tra
questi anche alcuni pezzi della Neue Sachlichkeit, «Nuova oggettività», movimento tedesco coevo del Realismo Magico, con il quale condivide alcuni tratti, pur divergendo nel contenuto e nel valore. A coniare l’ossimoro Realismo Magico, in effetti, non fu Bontempelli, ma l’artista tedesco Franz Roh, anche se ne parlò solo a titolo descrittivo nel suo Nach-Expressionismus – Magischer Realismus. Probleme der Neusten Europäischen Malerei (, Leipzig, Klinkhardt & Biermann), di cui la versione italiana, Post-Espressionismo. Realismo magico. Problemi della nuova pittura europea, è a cura di Sara Cecchini (Liguori, , Firenze). Così si legge a pagina : «Con la parola “magico” in opposizione a “mistico” si vorrebbe indicare che il mistero non si inserisce nel mondo rappresentato, ma che si nasconde dietro di esso». Non fu tuttavia un vero e proprio movimento artistico. Ad appartenere al Realismo Magico furono singoli artisti che mantennero la loro individualità senza mai creare un vero e proprio manifesto, per cui più che aderire a una teoria estetica o a una dichiarazione di intenti, ad attribuirne l’appartenenza di un pittore è un «clima», una percezione che le opere stesse suggeriscono. Da qui la ragione per cui quella che viene chiamata «grammatica espressiva» è spesso im-
pastata di Novecentismo, Metafisica, Art Déco e Surrealismo, tutti movimenti artistici (questi, sì) coevi. Nato negli anni Venti, questo stile originò opere fino alla prima metà degli anni Trenta, ovvero dopo le avanguardie futuriste e cubiste. A cavallo tra le due guerre mondiali. Più che un movimento, si diceva, il Realismo Magico è dunque «un modo di sentire, percepire, leggere e interpretare il contingente, la quotidianità, il qui e ora, il cui medium è una pittura che, opponendosi alle tensioni dinamiche futuriste e alle sensibilità deformanti espressioniste, si colloca in una posizione equidistante sia da un generico ritorno all’ordine antimodernista (…) sia dalle invenzioni metafisiche dechirichiane» come spiega Valerio Terraroli, nel saggio scritto per il catalogo della mostra (edito da ore Cultura e Palazzo Reale). «Eppure – prosegue – essa vive di un’imprescindibile relazione con ambedue questi percorsi, dai quali, con gradazioni diverse, trae sunti, formule e idee». Tra queste, il ritorno figurativo, con la ripresa e semplificazione del «reale», attraverso una nitidezza di dettagli che, per paradosso, genera un effetto straniante d’ispirazione onirica. Obiettivo di questi pittori: scoprire e rivelare il senso del magico (dell’incanto, del miracolo) nella vita quotidiana, come reazione post-decadentista. Ep-
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L’alzana, Cagnaccio di San Pietro, 1926, olio su tela (Collezione Fondazione di Venezia).
pur tuttavia: «Il Realismo Magico è caratterizzato dal mistero e dal sogno rivestiti di rimandi alla classicità. È una pittura sapiente, immacolata, algida, oggettiva, ma intrisa di mistero e ambiguità», spiega Terraroli. Visitando la mostra si intravvedono, infatti, schemi prospettici quattrocenteschi, figure monumentali, atmosfere surreali, personaggi dai gesti e dalle espressioni impassibili, il tutto avvolto da una sorta di immobilità d’azione, e tanta malinconia. Ma anche oggetti divisi, tangibili e levigati. Ritratti e natura morta sono di fatto i principali soggetti attraverso i quali gli artisti hanno espresso questa arte. Quasi a costruire realtà che appaiono artificiali, più che naturalistiche. Artificiali perché «congelano» o «sospendono» le relazioni tra familiarità ed estraneità, innescando quel che Freud chiamò il perturbante, nel suo omonimo saggio che data . Elementi caratterizzati da una quasi totale assenza di chiaroscuro, e rafforzati da una pulizia formale data da contorni ben delineati e materie chiare, per non dire delle posture dei ritratti che assecondano i loro sguardi persi: hanno infatti spesso occhi chiusi o rivolti in un altrove mentale, fissi e assenti; non osservano un paesaggio, appoggiano lo sguardo su muri o pavimenti, oppure lo lasciano vagare nel vuoto. Tre, gli ambasciatori italiani del Realismo Magico: i primi due sono i più ortodossi, ovvero Antonio Donghi e Natalino Bentivoglio Scarpa (noto dal , con lo pseudonimo Cagnaccio di San Pietro), loro rimarranno sempre fedeli a questo stile; il terzo è Felice Casorati che divenne alfiere del «movimento» nel grazie alla XIV Biennale internazionale d’arte di Venezia, all’interno della quale gli fu dedicata una personale che si fece ben notare. Sono tutti presenti alla mostra milanese con i loro capolavori. Nelle sue opere, Donghi esprime una venatura sognatrice e surreale (come nel dipinto Ragazzi alla finestra); è moderato, almeno in apparenza, ma comunque sempre «in fuga dalla verità», come scrive Gabriella Belli, nel catalogo della mostra.
Casorati è più tornito e plastico, ma anche più autobiografico e malinconico. Mentre il Cagnaccio non fa sconti: il suo capolavoro è di certo Dopo l’orgia, che esprime una crudezza non volgare, spesso presente anche in tutti i suoi altri dipinti. È lui, l’artista che oserà di più in termini di critica sociale, denunciando con la sua poetica il degrado morale di quegli anni. Basti pensare a L’alzana, che presentò alla Biennale di Venezia del . Il dipinto che ritrae l’omonima fune da ormeggio usata per trainare in laguna le imbarcazioni a rimorchio da uomini impiegati come animali da tiro, restituisce la fatica del popolo, sia inserendo il dettaglio dell’immagine devozionale sulla prua della barca, sia restituendo lo sforzo estremo, umile e degradante messo in evidenza dalla definizione di muscoli ed espressioni, ma anche dall’immobilità resa da una sorta di sospensione del movimento. Ebbene, proprio questo «monumentale dipinto spinge al limite estremo la “nuova oggettività all'italiana”». Cosa che infastidirà non poco il regime fascista, il quale attraverso le opere del Cagnaccio di San Pietro – che biasima il perbenismo, il moralismo e il machismo di quell’Italia fascista – si sentirà criticato tanto da censurarlo, impedendogli di mostrare alla Biennale del le sue opere più estreme come, oltre il citato capolavoro Dopo l’orgia, anche Zoologia e Primo denaro. Tra gli altri esposti vale la pena citare: Carlo Carrà, Gino Severini, Achille Funi, Ubaldo Oppi, Mario Broglio e, tra tanti altri, si trova anche il quadro Autoritratto del notissimo pittore metafisico Giorgio de Chirico. Dove e quando Realismo Magico, Palazzo Reale, Milano. Fino al 27 febbraio 2022. La mostra è curata da Gabriella Belli e Valerio Terraroli ed è promossa e prodotta dal Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e 24 ORE Cultura-Gruppo 24 ORE. Orari: martedì-domenica 10.0019.30 / giovedì chiusura alle 22.30. Ultimo ingresso un’ora prima.
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CULTURA
La Memoria come opportunità
Giorno della Memoria ◆ La storica Anna Foa lancia un appello ai colleghi israeliani: tocca a voi prendere la palla, mandate un messaggio di libertà agli intellettuali europei (Seconda parte) Sarah Parenzo
La rivincita della platea In scena ◆ Convincenti segnali di ripresa Giorgio Thoeni
Recentemente hai curato per Laterza l’edizione italiana di un libro sulla storia mondiale degli ebrei. Un titolo molto ambizioso, ma sei riuscita a far passare il messaggio che desideravi? Il messaggio era già presente e forte nell’edizione originale francese, curata dallo storico Pierre Savy. Per l’edizione italiana abbiamo aggiunto alcuni saggi relativi non solo all’Italia, ma anche alle percezioni italiane di quali sono gli argomenti importanti qui per il mondo ebraico, come l’opera di Hannah Arendt per esempio. Ma soprattutto abbiamo scelto di far sì che il libro terminasse con l’istituzione della Giornata della memoria come giornata di promozione di un’immagine non razzista e non antisemita dell’Europa, una giornata attraverso la quale l’Europa assume la memoria della Shoah a propria base etica. L’edizione originale francese invece finiva con un attentato antisemita di matrice islamica. Devo aggiungere che, rispetto a Israele, in Italia la storiografia è ancora molto indietro, in ritardo, ancora molto occupata dall’assimilazione e dai problemi identitari. Effettivamente da Israele, nonostante il cupo clima politico dominante, si ergono voci di intellettuali e accademici che dimostrano una libertà di pensiero molto maggiore che in Italia, anche quando si parla di Shoah. Sempre in Israele, per esempio, già da anni si discute del rischio di diventare professionisti della memoria. Parlare di «shoah business», ossia degli investimenti di danaro intorno al ricordo dell’Olocausto è fondato, ma sembra che per affermarlo senza farsi spaventare dall’antisemitismo sia meglio detenere un passaporto israeliano. L’anno scorso ho intervistato Yishai Sarid, che nel
Commemorare ma anche riflettere: Monumento alla memoria delle vittime dell’Olocausto di Berlino. (Keystone)
suo libro, Il mostro della memoria, affronta proprio questi temi senza peli sulla lingua. Cosa ne pensi? In Israele questo tipo di intellettuali sono una minoranza, ma restano l’intellighenzia del paese, mentre in Italia no. Cioè in Israele, la maggior parte dell’accademia e degli intellettuali in senso tradizionale, ovvero quelli che si aprono ai giornali, ai dibattiti politici, i grandi scrittori, ecc. hanno un ruolo, mentre in Italia non lo hanno più. Inoltre quando si trattano simili argomenti hanno tutti timore di apparire antisemiti. Per questo noi, come intellettuali italiani, abbiamo bisogno che da Israele ci mandino un messaggio di libertà. Libertà di parlare, di osare, di collegare il passato con il presente, proprio perché se arriva da loro è in qualche modo legittimato. Personalmente quando ho l’occasione scrivo sempre della libertà di parola e del pluralismo israeliani, e penso: «Se dobbiamo essere tutti sionisti, perché poi quando viene una parola
di libertà da Israele non la raccogliamo?» Inoltre, qui si ha spesso una visione monolitica di un Israele senza sfumature, quindi far passare un’immagine della grande varietà di opinioni nel Paese è di per sé un traguardo. Con l’appoggio degli intellettuali israeliani si potrebbero organizzare delle discussioni e riflessioni, e non solo sulla Shoah, anche di carattere profondamente ebraico ma universalistico. E soprattutto indipendentemente dalle istituzioni ebraiche italiane, se queste non li ritengono abbastanza kosher. Insomma vorrei trasmettere agli intellettuali israeliani l’idea che adesso tocca a loro prendere in mano la palla, perché la diaspora potrà aiutarli a sua volta contro l’occupazione, ma solo se prima viene aiutata a riflettere. Il problema è che da tempo gli israeliani tendono ad andare per i fatti loro, trascurando la diaspora. Quest’ultima a sua volta, pur essendo subordinata, dal punto di vista intellettuale a Israele, non lo è di fatto ai suoi
intellettuali, così che se anche tutti qui leggono i libri degli autori israeliani, i romanzi, alla fine la riflessione vera non la fanno. Penso che le tue risposte, dalle quali trapela una certa tristezza, stimolino molte riflessioni. Vorrei farti un’ultima domanda in tema di identità. Tu, come me, provieni da una famiglia ebraica per parte di padre, e in età adulta hai scelto anche di convertirti formalmente all’ebraismo. Cosa pensi che oggi possa contribuire a determinare un’identità ebraica, su quali basi si poggia un’appartenenza nel complesso contesto che si è creato? Guarda, quando penso all’identità ebraica mi ricordo sempre di uno studioso che sosteneva che gli ebrei tedeschi nel secondo Ottocento, a un certo punto si sono identificati come ebrei, non per la terra né per la religione, ma per la storia, perché avevano una storia da ebrei. E quando tu prima parlavi della Shoah e della famiglia Parenzo, mi è venuta in mente questa cosa. Ovvero, io sento molto che quello che mi ha portato all’ebraismo è la mia storia, il fatto di guardare indietro a quello che è successo, capendo che c’era una storia che non era diversa dall’altra grande storia, ma era comunque una storia con cui mi identificavo, la mia storia, che poi era la storia di tanti altri. Certo, anche questo presenta dei rischi, perché può farti pensare che la tua storia sia diversa da quella degli altri, il che non è assolutamente vero. Oppure può farti pensare che sia una storia privilegiata, o che tutti quelli che non hanno la tua storia non valgano come te. Un rischio reale. Tuttavia mi sembra si tratti di rischi inferiori a quelli dell’appartenenza fondata sulla religione, la terra o il sangue, almeno credo… (Fine)
Il pubblico ha bisogno di teatro e quando gli viene messo a disposizione si lascia piacevolmente catturare. Lo sta dimostrando in questo periodo una platea non più sottomessa a regole di distanziamento ma che, certificato permettendo, può ormai accedere in sala liberamente. Sull’arco di nemmeno una settimana la stagione del LAC ha proposto spettacoli che in qualche modo dimostrano un’apparente ripresa. Già a partire dal passaggio al Teatro Foce di Il nulla – The Void, spettacolo che qualche anno fa siglò il debutto alla regia di Massimiliano Cividati. Definito al contempo lacerante e divertente, seppur rappresentativo di un processo creativo originale, ci è però sembrato accusare qualche segno di vecchiaia. Basato sul tema della rimozione, Cividati ha lavorato su una struttura narrativa non tradizionale e sul modello di una play list dove situazioni e azioni accompagnano il physical theater dei protagonisti in un racconto a spirale nel grottesco della ripetizione, metafora del rischio di lasciare la vita imprigionata in un vuoto incolore. Cinque valenti attori hanno offerto un bell’esempio sulle regole per stare in scena. Un affollato raduno di famiglie ha poi accolto Alice nel paese delle meraviglie della Compagnia delle Formiche nella grande sala luganese. Un gran classico del reverendo Carroll adattato a musical da Andrea Cecchi e Alessio Fusi attorno a siparietti ad effetto per gli affascinanti incontri di Alice con il Bianconiglio, la Regina di Cuori, il Bruco e gli altri. Una sonorizzazione imperfetta ha purtrop-
Fra mal d’amore e combattimenti Balletto
◆
In prima mondiale all’Opernhaus il nuovo balletto di Christian Spuck
Marinella Polli
Una serata, per la vista, l’udito e l’intelletto, molto coinvolgente e piena, quella attualmente offerta dal Teatro dell’Opera di Zurigo; una serata all’insegna del nuovo balletto di Christian Spuck, su musiche di Monteverdi: prevalentemente da quel capolavoro che è l’Ottavo libro dei Madrigali () che, riunendo varie opere emblematiche della maturità del grande compositore, ne articola il materiale sonoro per le categorie Madrigali guerrieri, Madrigali amorosi, Madrigali rappresentativi. Spuck ha dichiarato che subisce il fascino della musica monteverdiana da tempo e che considera i testi più conosciuti delle sue opere molto moderni. Monteverdi si intitola appunto l’ultimo balletto della sua proficua permanenza a Zurigo, prima della partenza per la Germania, dove dalla stagione / sarà sovrintendente dello Staatsballett Berlin. Un balletto non tipico, questo nuovo del direttore del Ballett Zürich, in quanto non è la danza ad essere posta in primo piano, ma anche altre forme espressive quali il tea-
tro e il canto. Canto, in quest’occasione mirabilmente interpretato dai soprani Lauren Fagan e Louise Kemeny, dal mezzosoprano Siena Licht Miller, dal controtenore Aryeh Nussbaum Cohen, dai tenori Edgaras Montvidas e Anthony Gregory e dal basso Brent Michael Smith accompagnati dall’Orchestra La Scintilla, preparata e diretta dal Maestro Riccardo Minasi.
Un momento del balletto Monteverdi. (Gregory Batardon)
Il risultato è innanzitutto un approfondimento psicologico della musica e della poetica monteverdiana, grazie a eloquenti immagini coreografiche che, a loro volta, diventano non soltanto madrigali, ma anche musica. Per circa due ore il pubblico si trova confrontato con un vertiginoso, talvolta anche ironico, ma sempre malinconico caleidoscopio di vibranti siparietti e di spaccati di vita amorosa e quotidiana che si collegano e ricollegano, si intrecciano all’improvviso per poi subito dissolversi nello spaccato successivo. Lo spettacolo, più teatro in musica che balletto, è un puzzle costituito da tessere che rappresentano i vari aspetti della vita, dei combattimenti amorosi in particolare e del mal d’amore soprattutto. Le giustapposizioni, anche quelle scenografiche (di Rufus Didwizus, luci di Martin Gebhardt, mentre i costumi sono di Emma Ryott) appaiono ardite, ricche, addirittura troppo ricche: troppa carne al fuoco, forse? Eppure il contrasto fra parola, immagine e musica ribadisce subito anche una certa sin-
tonia, magari anche soltanto sul filo della «malinconia», denominatore comune di tutte le epoche, remote e vicine. Dunque, anche tra il passato remoto del Combattimento fra Tancredi e Clorinda (magnifici Lucas Valente e Michelle Willems) e il presente di Azzurro di Celentano o altre canzoni che conferiscono un soffio di leggerezza a lamenti e mal d’amore, si può gettare un ponte di analogie e similitudini. Come Monteverdi, che aveva inventato tutta una serie di nuovi espedienti musicali, anche Christian Spuck dà prova di inesauribile inventiva e, come Monteverdi, senza tralasciare di indagare a fondo anche possibilità, senso e significato di teatralità e teatro. Davvero in grande forma tutti i ballerini dello Zürcher Ballet. Il Maestro Riccardo Minasi dirige l’Orchestra La Scintilla con entusiasmo e precisione lungo la ricca e complessa strumentazione della partitura. Lunghi applausi entusiastici provenienti da ogni ordine di posti per tutti i partecipanti. Le repliche di Monteverdi si protrarranno ancora fino al febbraio.
Una scena di Aucune Idée di Marthaler. (LAC/Julie Masson)
po spesso coperto le voci cantate e recitate di un allestimento concepito per i bambini. Anche se, da quel punto di vista, il successo non è mancato. Ma continuiamo a rimpiangere la Compagnia della Rancia di Saverio Marconi. Ciliegina sulla torta, le ultime righe le vogliamo dedicare a Christoph Marthaler tornato sulla scena del LAC con Aucune idée (Nessuna idea). Già nel titolo il geniale autore, regista e musicista zurighese si propone di destabilizzare il senso comune dello spettatore. Quasi come se l’assenza di un vero titolo volesse suggerire il soggetto dello spettacolo: la lacuna. Marthaler dedica la sua assurda esplorazione sul deficit di conoscenza a Graham F. Valentine, l’eccezionale attore e cantante scozzese che lo ha accompagnato sin dagli esordi in scena con Martin Zeller al violoncello. Ripetizioni, dialoghi insensati e surreali per uno straniamento che allontana dagli schemi mentali del teatro di parola rimettendo al centro l’avanguardia. Un gioiellino!
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E se fossero le donne a salvare il mondo? Cinema
◆
Presentati a Soletta i documentari degli italofoni Pellerani e Soudani
Nicola Mazzi
Tra le presenze italofone alle esime Giornate di Soletta anche due documentari: L’Afrique des femmes di Mohammed Soudani e Sognando un’isola di Andrea Pellerani. Due produzioni molto diverse tra loro che hanno però anche un paio di elementi in comune: anzitutto la dedica a Tiziana Soudani, la produttrice di Amka Film (e moglie di Mohammed) scomparsa nel . In secondo luogo, entrambi hanno voluto filmare luoghi lontani e molto diversi dai nostri: il Giappone e l’Africa. Pellerani (classe ) è andato nella terra del Sol levante a documentare una situazione a dir poco surreale: ha infatti filmato l’isola giapponese di Ikeshima, dove i pochi abitanti vivono in un luogo quasi post-apocalittico, dopo che la miniera di carbone, fonte di reddito e ricchezza per decenni, fu chiusa nel . Un viaggio – filmato in modo pulito e con movimenti di macchina lenti e rispettosi di quei paesaggi – fatto di lunghi silenzi e soprattutto assenze, che ci costringe a pensare al nostro rapporto con il pianeta così come all’isolamento sociale e alla solitudine. Osservare l’abbandono di palazzi in cui vivevano centinaia di famiglie, campi incolti e una scuola con undici docenti per soli due bambini provoca una sensazione straniante e insolita. L’intenzione del regista è quella di invitare gli spettatori a riflettere sul rapporto tra l’uomo e la
L’isola giapponese di Ikeshima. (Solothurner Filmtage)
natura e in proposito dice: «Penso che il rapporto tra essere umano e natura sia la più grande questione in sospeso del nostro secolo. Domandarsi quale sia la nostra posizione in rapporto alla natura e al nostro pianeta è imperativo se si vogliono trovare delle soluzioni che rendano migliore il nostro futuro. Possiamo davvero continuare a vivere, consumare e prosperare seguendo questo sistema in eterno?». Soudani (classe ) si è invece immerso nei colori e nei suoni dell’Africa attraversando diversi Paesi alla ricerca di donne da raccontare. Dal Senegal al Ruanda, dal Mozambico al Kenya, passando per la Costa d’Avorio e il Burundi, ha incontrato di-
verse protagoniste della vita sociale di quelle nazioni. E lo ha fatto a distanza di anni dall’indipendenza dalle potenze coloniali. Un momento giusto per fare il punto della situazione e comprendere l’evoluzione di questi Paesi negli ultimi decenni. Ne emerge un racconto sicuramente interessante e variegato che dimostra come nel continente africano sia la donna il vero pilastro della società. Come ha detto il regista (sicuramente più a suo agio col documentario che con la fiction): «ho cercato di mettere in immagini le storie di donne che lavorano, che lottano quotidianamente, che non pensano alla sconfitta e non si arrendono mai nonostante la loro sofferenza, le
Uno still dal documentario di Soudani sulle donne africane. (Solothurner Filmtage)
loro lotte, la desolazione che le circonda. Sono loro la speranza di una nuova Africa». Seguiamo le vicende della direttrice del grande mercato Gourò (di frutta e verdura), interamente gestito da donne; quella che gestisce una piccola piantagione di cacao, o ancora l’attivista umanitaria che sfida la discriminazione etnica. Storie di donne vere che hanno qualcosa da dire e soprattutto dimostrano un amore incondizionato per la propria terra. Sia il documentario di Pellerani sia quello di Soudani testimoniano delle realtà lontane e molto diverse tra loro, ma entrambe sono di sicuro impatto e interpellano lo spettatore. Utilizzano uno stile classico (anche se Pellerani
ha un modo di girare più pulito e lineare, mentre Soudani è più realistico e «sporco») senza quindi osare troppo a livello formale. Ecco, forse è questo l’unico piccolo appunto che si può fare ai due registi: la mancanza di una qualsivoglia sperimentazione formale. Anche se questa scelta è comunque comprensibile e giustificabile perché in entrambi i film si è scelto di puntare tutto o quasi sul messaggio. Da segnalare infine, a proposito di italofonia, che durante la manifestazione la Ticino Film Commission ha presentato il nuovo Fondo (di mila franchi per l’anno pilota) a sostegno della lingua italiana nel cinema svizzero. Annuncio pubblicitario
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Di nuovo notti insonni? Questo renderà le vostre notti di nuovo ristoratrici
Ti rigiri spesso nel letto di notte senza riuscire a dormire? Scopri cosa si nasconde spesso dietro questo fastidio e come sia possibile riprendere il controllo sulle tue difficoltà di addormentamento. La situazione pandemica in corso, uno stress costante e la paura del futuro possono generare inquietudini interiori. In questo modo, circa l’85 % degli svizzeri si è sentito stressato nel corso dell’ultimo anno. Questi fattori possono spesso rappresentare anche la causa di una mancanza di sonno. Ma si può fare qualcosa.
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Una notte da (non) dimenticare
Personaggi ◆ Richard Norris Williams, il tennista ginevrino che sopravvisse alla tragedia del Titanic per diventare un campione internazionale Benedicta Froelich
Si potrebbe dire che siano molti i motivi per i quali, a oltre un secolo di distanza dai fatti, il dramma del Titanic occupa tuttora un posto così importante nell’immaginario collettivo. La vicenda, in fondo, contiene in sé tutti gli ingredienti di una tragedia greca: non solo l’idea della disgrazia incombente, ma anche il senso dell’ineluttabilità del fato avverso, per un evento il cui impatto emotivo sul pubblico è stato così forte da segnare simbolicamente la fine di un intero mondo e stile di vita, di lì a poco destinati a essere del tutto spazzati via dalla Prima Guerra Mondiale. E sebbene spesso non vi si pensi, in quella fatale notte dell’aprile a bordo del Titanic c’erano anche passeggeri di nazionalità svizzera – di cui quattro ticinesi, appartenenti allo staff responsabile della ristorazione a bordo della nave e, purtroppo, destinati a perire nel naufragio, come accadde a tutti gli stranieri impiegati nelle cucine del Titanic. Di questi passeggeri registrati come provenienti dalla Svizzera, particolare attenzione merita il giovane Richard Norris Williams II, il quale, pur essendo nato da genitori appartenenti all’upper class americana, aveva visto i Natali a Ginevra. Classe , Richard mostrò presto un brillante talento atletico; dopo aver frequentato un collegio svizzero, iniziò a giocare a tennis, e in breve tempo si dimostrò degno di una carriera come professionista, vincendo i Campionati Svizzeri all’età di anni. La primavera del vide così il ventunenne Richard e suo padre, l’avvocato Charles Duane Williams, imbarcarsi sul Titanic come passeggeri di prima classe diretti a New York: una volta raggiunta l’America, Richard intendeva dirigersi in Pennsylvania e partecipare a diversi tornei
tennistici, per poi entrare alla prestigiosa università di Harvard. Ma intorno alle . del aprile si compì la tragedia: dopo lo scontro con l’iceberg, ci vollero solo due ore e quaranta prima che la nave si inabissasse – e al pari di oltre passeggeri che, come loro, non poterono o non vollero salire sulle scialuppe di salvataggio, i due Williams si ritrovarono condannati a quella che appariva come una morte atroce nelle gelide acque dell’Atlantico. E si può solo immaginare cosa padre e figlio debbano aver provato mentre, seduti sulle cyclette della palestra – dove molti avevano trovato rifugio – avvertivano il transatlantico inclinarsi sempre di più contro la superficie stranamente calma del mare; finché un suono assordante, riecheggiante nella notte come il lamento stesso della nave morente, segnalò il momento in cui il Titanic si spezzò letteralmente in due, per poi affondare del tutto. A quel punto, Richard si era già buttato fuoribordo con un salto di oltre metri nell’acqua ghiacciata; ma all’incubo di tentare di mantenersi a galla ed evitare il congelamento, si aggiunse, per lui, il dramma di dover assistere alla morte di tanti nella stessa situazione – compreso il padre, il quale rimase schiacciato dalla caduta in mare del primo degli enormi fumaioli. L’onda che ne risultò sospinse Richard contro il fianco di una scialuppa di salvataggio (la famosa «collapsible A», la cui quasi totalità degli occupanti sarebbe presto morta di ipotermia), il che gli permise di venire issato a bordo. Ma la lunga permanenza in acqua, immerso fino alla vita anche all’interno della scialuppa, finì per congelare i suoi arti inferiori; al punto che, una volta tratto in salvo a bordo della nave Carpathia, responsabile del recupero dei (pochi)
Lo svizzero Richard Norris Williams nacque a Ginevra nel 1891. (Wikipedia)
superstiti, venne informato dai medici che sarebbe stato necessario amputare entrambe le gambe. Ma Richard ebbe la presenza di spirito di rifiutare una soluzione tanto definitiva – una scelta destinata a rivelarsi lungimirante, dato che un semplice regime personale di esercizio sul ponte della nave gli avrebbe presto restituito del tutto la mobilità. E sebbene molti potessero sup-
porre che un’esperienza tanto traumatica fosse in grado di compromettere per sempre la vita del giovane Williams, ebbene, questo determinato quanto cocciuto atleta avrebbe invece finito per divenire un esempio pressoché esemplare di assoluta tenacia: dopo una convalescenza di poche settimane, riuscì infatti a partecipare alla Longwood Challenge Bowl di Boston, giocando contro Karl Behr,
un altro sopravvissuto del Titanic e suo frequente avversario in campo. Soprattutto, ai Campionati Nazionali Americani (oggi noti come U.S. Open) del , Richard, in coppia con Mary Browne, si aggiudicò il primo posto nel doppio misto. Da lì, avrebbe inanellato molti altri successi: nel (e di nuovo nel ), arrivò infatti un primo posto ai medesimi U.S. Nationals, e negli anni tra il ’ e il ’ altri tre titoli (di cui uno a Wimbledon) e cinque vittorie alla Coppa Davis, a cui avrebbe partecipato ben sette volte. Nel mezzo, le Olimpiadi di Parigi del , durante le quali nemmeno una caviglia slogata riuscì a impedirgli di aggiudicarsi l’oro nel doppio. Tuttavia, le imprese di Williams non si sarebbero limitate alla scintillante carriera tennistica: infatti quando, appena pochi anni dopo la tragedia del Titanic, egli prese parte alla Grande Guerra, combattendo sotto la bandiera americana, si distinse al punto da ottenere sia la Croce di Guerra che la Legion d’Onore. Dopo la fine della sua carriera tennistica, Richard condusse una vita tranquilla in Pennsylvania, dove morì nel ; ma prima di allora, fece in tempo a conoscere Walter Lord, autore di un celeberrimo libro sul dramma del Titanic (A Night to Remember, del ), al quale raccontò quanto da lui vissuto nel . Oggi, a distanza di tanti anni da quei tragici fatti, la vicenda di Richard Norris Williams rimane un esempio invidiabile: non soltanto della cosiddetta «resilienza» – dote che ha permesso a questo giovane coraggioso di rifarsi una vita dopo quella che potrebbe definirsi come un’apocalisse di proporzioni bibliche – ma anche del potere dello spirito umano, in grado di innalzarsi al di sopra dell’indicibile.
On the road con Mencarelli Pubblicazioni
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Nell’ultimo romanzo dello scrittore romano Daniele Mencarelli il viaggio (anche interiore) di un diciassettenne
Angelo Ferracuti
Con Sempre tornare (Mondadori), Daniele Mencarelli chiude la trilogia degli Anni giovani iniziata con La casa degli sguardi (Premio Strega Giovani, ) e Tutto chiede salvezza, tutti dall’editore di Segrate, tre libri uniti dallo stesso conio linguistico e taglio autobiografico in presa diretta, una caratteristica di questo poeta convertitosi tardivamente alla narrativa. Anche in questo nuovo libro prevale la confessione, il disvelamento di un travaglio interiore che lo scrittore romano intreccia tra disagio esistenziale e generazionale, tensione mistica e tormento religioso, che vive come senso di colpa, in un’epoca di disimpegno e disincanto dopo quella turbinosa degli anni , dove «la nuova gioventù» vive l’abisso e l’alienazione senza rivoluzione dello sballo. Quel sentimento e bisogno d’assoluto che l’autore restituisce così al lettore: «Io è come se c’avessi dentro un cane che s’è perso il padrone, con quella nostalgia, come se c’avesse vissuto insieme. E lo cerca ovunque». Ed è proprio da uno dei luoghi allora cult della Riviera romagnola, il
Cocoricò di Misano Adriatico, che dopo una burrascosa e alcolica notte di Ferragosto del passata con i «nuovi libertini» sulle piste psichedeliche, il fallimento di un rapporto occasionale con una ragazza, Daniele, diciassettenne autore del libro e al contempo protagonista del romanzo, abbandona il gruppo e torna in autostop verso Roma in una giornata afosissima di caldo torrido, in mano una valigia che pesa come il piombo, ai piedi le «affezionate Superga», e una tremenda sete spia del suo disorientamento esistenziale. Lì comincia il suo ondivago pellegrinaggio, e l’autostop diventa incontro con l’altro da sé, segno del destino, quella cosa misteriosa che il grande reporter polacco Ryszard Kapuściński chiamava «un indovinello», diventa ricerca interiore e naturalmente racconto, con quello stile ritmico, serrato, che è una caratteristica di Mencarelli, fatto di una lingua che di rado si concede divagazioni ed è tutta concentrata e al servizio della storia e della materia narrata, una lingua scarna, essenziale, mai leziosa, a togliere, co-
me quella di alcuni maestri ispiratori, Penna e Saba in primis, naturalmente lirica quando l’acme dei sentimenti interiori irrompe all’improvviso sulla scena dei rapporti umani. Infatti, questo più che un romanzo a trama come quelli precedenti, è un on the road con innesti anche reportistici e un libro di incontri, ma anche un racconto di formazione, un diario di viaggio, scoperta e catarsi,
Daniele Mencarelli durante una presentazione sul canaleYouTube di Mondadori. (YouTube)
dove Mencarelli attraversa anche alcune geografie italiane riconoscibili e provinciali (Morciano, Urbino, Città di Castello, Gubbio, Assisi, Foligno, Spoleto, Terni), tra le Marche e l’Umbria, luoghi dove è ancora forte la misura umana, dentro paesaggi naturali di grande fascino e bellezza, scenari di incontri del destino, relazioni fugaci e allo stesso tempo profonde, irripetibili di un’estate mitica, da sempre e per tutti «la stagione degli estremi, delle vacanze gioiose, degli amori improvvisi». Tra gli strani personaggi che Daniele incontra e che gli danno asilo negli abitacoli delle loro automobili, Volvo, Ritmo, Tipo, piccole Fiat , Renault , o che lo alloggiano nelle loro abitazioni o in posti di fortuna, come tanti racconti conchiusi, racconti d’empatia, ci sono la solitaria Annamaria, che sembra il personaggio di un racconto de I veri credenti dell’irlandese Joseph O’Connor, Emma, un amore mai vissuto o, invece, talmente vissuto intimamente che diventa una poesia della «nuda bellezza», Veleno, l’allevatore rude che puzza di ca-
pra, il tappezziere Emilio, l’ex centauro Gianni, Agata, Manlio il postino erotomane, alla guida di un’Alfa, tra gli altri. Daniele li incontra arreso, raccoglie le loro testimonianze, quelle di vedovi, separati, orfani, di persone sconfitte dalla vita che hanno subito offese o che sognano la fuga; sembra attraversarli, lui che dice di sé essere «capace di trasportarmi nelle vite degli altri senza mai chiedermi il permesso», che poi vive la gioia e il tormento di trasformare quelle esistenze in racconto, di portarle dentro la sua per farle vivere più che se fossero vere in carne ed essa dentro lo spazio della letteratura. Mencarelli scrive un libro di grande forza espressiva, dove il protagonista, il suo doppio nella finzione romanzesca, prende coscienza di sé attraverso le vite degli altri, come in un gioco di specchi, perché proprio gli altri, umani e troppo umani, molte volte siamo noi. Bibliografia Daniele Mencarelli, Sempre tornare, Milano, Mondadori, 2021.
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