Anno LXXXV 7 febbraio 2022
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
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MONDO MIGROS
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SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
La vita felice dei single: intervista alla psicologa sociale americana Bella DePaulo
Al di là delle barriere fisiche: alla Ti-Rex Sport di Murat Pelit l’adrenalina è regina indiscussa
La svolta monetaria già in atto negli Stati uniti e le conseguenze sull’economia mondiale
A Bologna con Cavazzoni per ricordare lo spirito e la genialità dell’intellettuale Gianni Celati
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Keystone
L’Ucraina e lo scacchiere Europa
Lucio Caracciolo
Una giornata particolare
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Peter Schiesser
Non so se fosse nelle sue intenzioni, all’ultima conferenza stampa del governo sulla situazione pandemica, ma con quel suo «Oggi è una bella giornata» il neo-presidente della Confederazione Ignazio Cassis ha espresso un messaggio con molti significati e destinatari. È stato il segnale di chiusura di una crisi politico-sanitaria che ha portato il Consiglio federale a esercitare un potere senza precedenti nel dopoguerra, a malapena smussato dal parlamento e comunque ratificato dalle urne popolari e dal comportamento della maggioranza della popolazione. Il segnale di un ritorno alla democrazia come la conoscevamo. E se lo Stato si ritrae, abolendo (presto) tutte le misure restrittive, dalla quarantena (subito) al certificato Covid (in gran parte fra due settimane, se il picco dei contagi da Omicron sarà superato), in parte anche l’obbligo della mascherina, la gestione del virus torna, oltre che ai cantoni, essenzialmente nelle mani del singolo individuo. Come con una normale influenza, da malati si sta a letto, e forse d’ora in avanti con un raffreddore ci verrà più spontaneo metterci una
mascherina, per non contagiare il prossimo. E la frase di Cassis è stata anche il segnale che si può cominciare a sanare il fossato sociale che si è creato fra vaccinati e non, questi ultimi fortemente discriminati nelle loro libertà negli ultimi mesi. L’abolizione dell’obbligo del sempre più presente covid pass riporta tutti sullo stesso piano di libertà. Una buona cosa, anche perché dimostra che nell’animo dei nostri governanti non c’è un insaziabile istinto di potere e di controllo, di voler istituire una dittatura. I non vaccinati riguadagnano però solo la libertà in patria, all’estero il pass è ancora richiesto. Lo sappiamo, la pandemia non è terminata, abbiamo già scritto di come nella storia umana non terminano mai in un momento preciso, si sfilacciano. E la variante Omicron vi ha fortemente contribuito. Ha sparigliato le carte in tavola. Fonti dell’Amministrazione segnalano, e gli ospedali confermano, che in cure intense ci sono pochissime persone con la variante Omicron, i decessi sono una manciata. È sempre ancora la Delta la variante più letale, ma l’avanzata della
Omicron le lascia meno spazio. Inoltre, anche chi è triplamente vaccinato e chi risulta guarito da un’altra variante può facilmente contagiarsi con la Omicron, benché le probabilità di finire in ospedale siano minori (alla terza dose), e quindi anche infettare altre persone. E questo è il motivo principale per cui il G e il certificato Covid non hanno più senso, anche a parere di molti esperti: in una situazione in cui si contagia il per cento della popolazione alla settimana, è diventato una discriminazione inutile e quindi senz’altro ingiusta. Tanto più che i malati di Covid, o con il Covid (ma ricoverati per altre patologie) in cure intense stanno calando. Certo, anche questa volta ci sono voci del mondo della scienza medica che invitano alla prudenza, a scaglionare l’abolizione delle misure restrittive per non essere obbligati poi a reintrodurle, a considerare che potrebbe insorgere una nuova variante del virus, più letale. Il Consiglio federale sa che ogni decisione comporta una dose di rischio, vista l’imprevedibilità che connota una pandemia, ma penso che le sue decisioni ri-
specchino lo stato d’animo generale della popolazione, stanco di restrizioni che ora mancano l’obiettivo di contenere i contagi, mentre quello di non sovraccaricare gli ospedali si realizza quasi da sé, nonostante gli irrefrenabili contagi. Non siamo il primo paese ad essere entrati nella fase endemica del virus, Gran Bretagna, Danimarca e Spagna (che ora considera il coronavirus come una pura e semplice influenza) ci hanno preceduto, altri seguiranno. La stessa Organizzazione mondiale della sanità prevede che con la primavera in Europa ci sarà una lunga tregua che potrebbe anche essere definitiva (con qualche rigurgito nei mesi freddi). Quindi ora tocca a noi. Di uscire dal proprio stato mentale pandemico. Di riappropriarci delle libertà perse due anni fa. È stato strano e per taluni difficile abituarsi alla mascherina, riusciremo a sentirci sicuri senza, in futuro, nella folla? Quanto tempo servirà perché disagio, incertezza, chiusura in se stessi lascino il posto a fiducia, leggerezza e voglia di riscoprire il mondo e il prossimo?
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azione – Cooperativa Migros Ticino
MONDO MIGROS
Tutti ad Airolo per lo Ski Day 2022!
Eventi
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La giornata di sport sulla neve per tutta la famiglia a un prezzo imbattibile il prossimo 20 febbraio: iscrizioni aperte
Famigros, il Club per famiglie della Migros (famigros.migros.ch/it) che compie quest’anno dieci anni dalla sua nascita, propone ai suoi iscritti manifestazioni in tutta la Svizzera, concorsi, eventi per famiglie o riduzioni su prodotti e servizi selezionati. Tra le sue attività invernali più apprezzate e seguite è sicuramente il Migros Ski Day, un’iniziativa che coniuga il piacere per lo sport invernale con il divertimento vissuto in una giornata speciale trascorsa sulle nevi delle principali stazioni sciistiche svizzere. Il calendario degli Ski Days proposti da Migros è iniziato nel dicembre dello scorso anno e si concluderà il prossimo marzo ad Arosa. Il colorato circo sulla neve propone alle famiglie una competizione «di gruppo», in cui tutti i membri del nucleo famigliare si impegnano insieme in uno slalom gigante sulla pista. Ma non è la gara l’unico momento divertente della giornata. Tutta l’area della stazione sciistica viene infatti animata ogni volta da un variopinto villaggio in cui i partecipanti possono gio-
Info Covid-19 A causa delle attuali disposizioni COVID-19, il calendario degli eventi o la messa in atto dettagliata degli eventi possono subire modifiche con breve preavviso. Il Migros Ski Day Team controlla e valuta costantemente la situazione ed elabora piani di protezione e misure corrispondenti. Al momento attuale deve essere ancora stabilito se gli eventi legati al Migros Ski Day saranno realizzati con o senza certificato COVID. La comunicazione sarà data per tempo nel sito web. Tuttavia, per l’iscrizione le famiglie devono comunque tenere conto che all’evento sarà in vigore la regola delle 3G (= obbligo di certificato COVID dai 16 anni).
care, sperimentare attività, gustare buone cose da mangiare e raccogliere vari premi. Una giornata allo Ski Day, insomma, è un’esperienza davvero coinvolgente e originale da vivere in compagnia di tutta la famiglia ed è anche un’occasione per conoscere nuovi amici. A proposito: al Migros Ski Day sono benvenute anche le famiglie con bambini e giovani affetti da disabilità. L’iscrizione è possibile tramite Special Olympics o utilizzando l’apposito modulo del Migros Ski Day. Special Olympics sarà ufficialmente presente il febbraio ad Airolo. L’unica tappa dei Migros Ski Days in Ticino si tiene infatti da anni sulle bellissime piste della stazione sciistica leventinese. Proprio il .. sarà allestito qui il villaggio a cui tutte le famiglie di appassionati sono invitate. Ci si può iscrivere già da ora: possono partecipare alla giornata da a persone per famiglia, sugli sci o sullo snowboard. Requisito: almeno un bambino nato dal in poi e al massimo due adulti. La tassa d’iscrizione ammonta a Fr. .– per famiglia. I membri di Famigros e di Swiss-Ski usufruiscono inoltre di uno sconto di Fr. .– e pagano per la giornata sciistica con tutta la famiglia solo Fr. .–. Per i possessori della Leventina Card il costo è invece di Fr. .–. Per tutti i partecipanti ci sono biglietti giornalieri per il rispettivo comprensorio sciistico e un check gratuito last minute per sci e snowboard. La splendida giornata, poi, non rimarrà solo un ricordo: per tutti i partecipanti saranno messe a disposizione riprese video e fotografie che riprenderanno le prodezze sportive sul percorso verso il traguardo. Due giorni dopo l’evento il video personale e anche i migliori scatti saranno accessibili sul sito web ufficiale della manifestazione. Nella quota d’iscrizione sono incluse le carte giornaliere per tutti i partecipanti, la partecipazione alla gara amatoriale, il pranzo, una bevanda, una medaglia ricordo per ogni
– Un ingresso all’Europa-Park per una famiglia; – Un buono per un’altra partecipazione al Migros Ski Day. Ci si può iscrivere facilmente e comodamente online o utilizzando il QR Code pubblicato qui sotto. Attenzione: il numero dei partecipanti è limitato! Il termine d’iscrizione è il giovedì prima della gara, alle ore .. Un’iscrizione a posteriori è possibile anche sul posto, a condizione che vi siano posti liberi. In questo caso verrà riscossa una tassa d’iscrizione tardiva di Fr. .–.
bambino, un regalo per la famiglia di Famigros, nonché giochi e divertimento al Village. Vale la pena di rimanere al Migros Ski Day fino alla chiusura. Perché durante le premiazioni ci sarà molto da vincere: – Una carta regalo Migros del va-
lore di CHF .– per la famiglia vincitrice; – Una carta regalo SportXX del valore di CHF .– per le famiglie classificate al ° e al ° posto. Tra tutti i partecipanti presenti alle premiazioni saranno estratti:
Informazioni migros-ski-day.ch/it
Pronti, partenza, via: torna «Support your Sport» Sport amatoriale ◆ Migros dà il via alla seconda edizione della sua grande iniziativa: dal 15 febbraio al 25 aprile 2022 la clientela potrà nuovamente raccogliere i buoni sport
La prima edizione di «Support your Sport», tenutasi nella primavera del , è stata un vero e proprio successo e ha mostrato la grande importanza di cui gode in Svizzera la vita associativa. La clientela di Migros ha assegnato alle quasi associazioni iscritte oltre milioni di buoni sport. I milioni di franchi messi a disposizione da Migros sono dunque andati a favore delle organizzazioni sportive dilettantistiche. Inoltre, ai
club sono arrivati oltre ’ franchi di donazioni dirette. I contributi di sostegno hanno permesso alle associazioni di realizzare un loro desiderio come, per esempio, il finanziamento di un campo di allenamento o l’acquisto di nuove magliette. Anche nel nuovo anno Migros intendere esaudire, insieme alla sua clientela, i desideri delle associazioni sportive dilettantistiche svizzere. A partire dal febbraio la
azione
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)
Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Telefono tel. + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89
clientela dei supermercati Migros e del negozio specializzato per lo sport SportXX (escl. BikeWorld) nonché dei relativi shop online riceverà un buono sport ogni franchi spesi. I buoni sport raccolti in questo modo potranno in seguito essere assegnati alle associazioni prescelte utilizzando l’app apposita o via sito web ufficiale. Sarà inoltre possibile sostenere l’associazione preferita con una donazione diretta collegandosi al sito
web della campagna (www.migros. ch/sport). Migros invita le associazioni sportive dilettantistiche interessate a iscriversi subito a «Support your Sport»: sullo stesso sito web ufficiale sono messe a loro disposizione tutte le informazioni necessarie per inoltrare la richiesta.
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11
Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch
Informazioni www.migros.ch/sport
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Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938
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SOCIETÀ
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Pubblicazioni Un saggio di Pietro Montorfani e Mauro Baranzini ripercorre la storia della nostra Università
Le emozioni dei bambini Protezione dell’infanzia Svizzera ha ideato EMMO, un peluche che aiuta i bambini a esprimersi
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Regione Solidale Si sta sviluppando anche in Ticino il progetto di socializzazione che aiuta a combattere la solitudine
Fitoterapia Impariamo a conoscere le piante amiche del fegato, prime fra tutte le Erbe Amare
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Shutterstock
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Single e felici
Intervista ◆ Per stare bene non occorre sposarsi o vivere in coppia. Ne abbiamo parlato con Bella DePaulo, psicologa sociale considerata la principale pensatrice e scrittrice americana dell’esperienza single Stefania Prandi
Le persone single sono in aumento rispetto al passato. Vivere da soli, per alcuni, non è più considerato un ripiego ma una scelta, migliore di qualsiasi alternativa di coppia. Portavoce di questo movimento informale è Bella DePaulo, psicologa sociale, autrice di Singled Out: How Singles Are Stereotyped, Stigmatized, and Ignored, and Still Live Happily Ever After (Isolati: come i sigle vengono stereotipati, stigmatizzati e ignorati e comunque hanno una vita felice), definita dal mensile statunitense «The Atlantic» «la principale pensatrice e scrittrice americana dell’esperienza single». Bella DePaulo, in tutto il mondo ci sono sempre più single. Qual è la sua spiegazione a questa tendenza? Ci sono diverse ragioni. Rispetto a una volta, per gli uomini è più difficile trovare un buon lavoro perché servono istruzione e formazione, quindi spesso il momento del matrimonio viene rimandato. Per le donne, il matrimonio non è più necessario: lavorando, in genere, possono riuscire a guadagnare abbastanza da mantenersi e anche da provvedere a un figlio. Secondo me è interessante notare che sempre più persone scelgono questa condizione. Io le definisco «single di cuore»: preferiscono
stare sole, vivendo in modo autentico, significativo e appagante. Crede che essere single offra dei vantaggi? Sì, specialmente se è una scelta. Le persone single hanno la libertà di creare il tipo di vita che prediligono, decidendo cosa è importante per loro, senza il bisogno di mettere al centro dell’esistenza un partner romantico. Possono apprezzare e prendersi cura di chi vogliono. Amano la solitudine, il tempo per sé stesse e coltivano passioni e hobby. Perché la società sembra ancora riluttante ad accettare che ci siano single felici per scelta? Si vuole credere nelle favole: incontrerai la persona speciale, la sposerai e tutti i tuoi sogni si avvereranno. Chi si sposa, investe in quest’idea e pensa di stare meglio di chi fa scelte diverse. I media, la cultura popolare, la politica e le altre istituzioni non hanno ancora accettato che esiste una realtà più sfaccettata, lontana dalle rappresentazioni stereotipate e negative. Continuiamo a vedere valorizzate esclusivamente le storie di persone che aspirano a sposarsi. In molte società, come gli Stati Uniti, ci sono leggi e politiche che avvantaggiano e proteggono ancora solamente chi sceglie il matrimonio.
Essere single significa vivere senza amore? No, ci sono così tanti tipi di amore: amicale; familiare; per i bambini; per figure spirituali; per la terra; per le idee. Alcuni single vivono anche l’amore romantico, semplicemente non lo vogliono mettere al centro delle loro esistenze. Di recente ha scritto proprio un articolo sull’amore romantico. Perché siamo ancora fermi a questo concetto? Si è ancora innamorati dell’amore romantico. Lo si vuole, a volte disperatamente, come se trovarlo trasportasse magicamente in uno stato di beatitudine superiore (il che non succede). Eppure, le narrazioni romantiche sono soffocanti, riducono le infinite varietà degli esseri umani a una sola storia. Appena ci distanziamo dalla visione dominante, ci rendiamo conto che la nostra immaginazione ci può portare lontano dai sentieri logori. Gli scienziati sociali hanno contribuito in un certo modo alla mania per l’amore romantico, concentrandosi su questo concetto a discapito di altri. Tuttavia, sempre più spesso, stanno facendo emergere i potenziali svantaggi di un investimento eccessivo nelle relazioni esclusive. Pensiamo alla stessa idea di
amore: è recente, se la consideriamo da un punto di vista storico. Secondo Elaine Hatfield e Richard Rapson, autori di Love & Sex: Cross-Cultural Perspectives, per la maggior parte della storia occidentale, fino al diciottesimo secolo, l’amore non era destinato a finire bene. Si presumeva che la passione portasse alla vergogna, all’umiliazione e al disonore. In Marriage, a History: How Love Conquered Marriage, la storica sociale Stephanie Coontz ha scritto: «Certamente, gli esseri umani si sono innamorati nel corso dei millenni, a volte anche dei propri coniugi, ma il matrimonio non riguardava fondamentalmente l’amore». Le famiglie più abbienti consolidavano la ricchezza, univano le risorse, stringevano alleanze politiche e concludevano trattati di pace sposando strategicamente i figli e le figlie. I meno ricchi, invece, avevano altre preoccupazioni, come sposarsi con qualcuno che avesse i campi vicini ai propri oppure avere suoceri che fossero di aiuto e non di ostacolo alla famiglia. In altri tempi e luoghi, il più grande amore di tutti doveva essere riservato a Dio. L’amore romantico può essere dannoso? Le ricerche ci dicono che, nel tempo, le persone coinvolte in re-
lazioni sentimentali possono diventare più depresse di chi è single. È particolarmente probabile che gli adolescenti vengano condizionati in maniera negativa. Su questi ultimi è stato realizzato uno studio negli Stati Uniti: sono stati seguiti, per un anno, oltre ottomila giovani tra i dodici e i diciassette anni. Quelli coinvolti sentimentalmente si sono dimostrati più depressi degli altri anche se la relazione durava da un anno e non erano stati lasciati. Tenere troppo al romanticismo può limitare la vita delle donne. Secondo un esperimento, quando le donne osservano immagini romantiche stereotipate di tramonti o di cene, esprimono meno interesse per la scienza e la tecnologia. Le donne che al college sono fidanzate sono più distratte delle altre durante le lezioni di matematica. Nei giorni in cui mandano messaggi, chiamano o vedono il ragazzo trascorrono meno tempo a fare i compiti. E il calo di concentrazione aumenta ulteriormente il giorno seguente. Nota L’intervista è stata tradotta e in alcuni passaggi adattata dalla giornalista.
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MONDO MIGROS
Fiori per San Valentino
Attualità ◆ Il 14 febbraio si avvicina. Stupite la persona amata con un omaggio floreale dei reparti Florissimo Migros. E se ordinate su Smood.ch, la consegna a domicilio è gratuita
I reparti Florissimo sono pronti ad accogliere gli innamorati con un ricco assortimento di composizioni floreali per ogni gusto e budget. Dai rigogliosi mazzi di rose alle composizioni miste ad hoc, fino alle magnifiche orchidee con la loro grande varietà di colori, le idee non mancano di certo. Inoltre, se proprio non doveste trovare quello che cercate, potete sempre rivolgervi agli specialisti del reparto: sapranno aiutarvi al meglio non solo nella scelta dell’omaggio floreale più appropriato, ma anche consigliarvi su come prendersi cura dei fiori e delle piante affinché durino il più a lungo possibile, come anche confezionarli in maniera attraente e originale. Fiori e significato
Le rose e le orchidee sono sicuramente tra i fiori più gettonati come regalo per San Valentino. Quando si scelgono delle rose è importante prestare attenzione ad alcune regole affinché l’omaggio sia ben apprezzato da chi lo riceve. Innanzitutto, il mazzo di rose deve essere composto da un numero dispari di fiori. Per ciò che riguarda il significato dei colori, le rose rosse sono il simbolo per antonomasia dell’amore dichiarato e ricambiato. Quando si vuole invece farsi perdonare qualcosa, si regalano delle rose gialle. Con le rose arancioni si dichiara il proprio interesse. Le rose bianche simboleggiano innocenza, lealtà e purezza, mentre i fiori di color rosa esprimono un amore appena nato.
Chi invece preferisce l’orchidea, deve sapere che questo splendido fiore è considerato simbolo di passione, bellezza, amore e raffinatezza. Grazie alla sua molteplicità di colori e forme, non passa mai inosservata. La regina delle orchidee è indubbiamente la Phala-
enopsis, conosciuta anche come orchidea farfalla, che si caratterizza per la fioritura molto lunga. Affinché ciò avvenga, tenete il fiore in un posto luminoso, a normale temperatura ambiente, assicurandovi di annaffiarla una volta la settimana, evitando i ristagni d’acqua.
Il meglio del mare Freschezza
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Infine, ricordiamo che, quale alternativa al negozio, anche Smood.ch offre una selezione di fiori e piante ideali per San Valentino. Potete far consegnare gli articoli direttamente al domicilio della persona
prescelta accompagnati da un grazioso biglietto d’auguri personalizzato. Scegliendo questa modalità e immettendo il codice LOVESMOOD al termine dell’ordine, dall’ al febbraio vi offriamo la consegna gratuita.
Gli amanti del pesce questa settimana alla Migros trovano il delicato filetto di tonno ad un prezzo speciale
Il tonno è un pesce marino appartenente alla famiglia degli sgombri, pur essendo di dimensioni molto più grosse, diffuso in tutti i mari in diverse specie. La carne del tonno fresco somiglia al quella del vitello ed è quindi particolarmente apprezzata anche dai carnivori, soprattutto quando si tratta del filetto. Tra le varietà di tonno più diffuse in commercio, troviamo il tonno a pinna gialla, conosciuto anche come tonno albacore o tonno monaco. Vive soprattutto nei mari tropicali e subtropicali e può raggiungere una lunghezza di , metri ed un peso di kg. In cucina il filetto di tonno fresco è una vera prelibatezza, grazie alla sua carne rossa dalla consistenza soda, tenera, priva di lische e dal sapore delicato. Si sposa a meraviglia con aromi quali pepe, limone ed erbette fresche. Non andrebbe cotto troppo a lungo per evitare che secchi e diventi stopposo. L’interno dovrebbe infatti rimanere rosato. Il filetto può essere utilizzato anche per la preparazione di specialità crude, come il sushi, il sashimi o la tartare di tonno, pre-
Azione 20%* vio congelamento per almeno ore a - °C. Un piatto gustoso, leggero ma di semplice esecuzione? Pestate grossolanamente del pepe in un mortaio. Mescolatelo con un pizzico di timo fresco tritato e della scorza di limone grattugiata. Condite dei filetti di tonno con del fleur de sel e rosolateli nell’olio a fuoco medio circa - minuti per lato. L’interno deve rima-
nere rosa. Cospargete i filetti con la miscela di pepe, scorza di limone, timo e serviteli su un letto di insalata croccante. *Filetto di tonno (pinne gialle) Pacifico centro-occidentale, al banco e in self-service, per 100 g Fr. 5.–* invece di 6.25 dall’08.02 al 12.02.2022
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Una borsa di vitamine Attualità ◆ Dall’8 al 14 febbraio potrai riempire una Vitamin Bag di croccanti mele e pere e pagare un prezzo forfettario molto vantaggioso, senza bisogno di pesarle
Occasione imperdibile per fare il pieno di energia e freschezza quella proposta dai reparti frutta & verdura Migros questa settimana. Grazie alla promozione Vitamin Bag, potrai infatti riempire a piacimento una veggie bag (gratuita) con tutte le mele e pere che vi trovano posto e pagare un prezzo forfettario di soli Fr. ., che corrisponde circa a , kg di merce e a un ribasso minimo del %. Il tutto senza dover passare alla bilancia per pesare i prodotti. Hai la possibilità di scegliere tra diversi articoli in vendita sfusa, dalle mele Braeburn, Gala, Golden, Jazz, Pink Lady fino alle pere Kaiser, Conference e Abate.
Meno plastica con le veggie bag
Da un paio d’anni Migros ha introdotto con grande successo i sacchetti riutilizzabili per la frutta e la verdura veggie bag, un’alternativa sostenibile che consente di ridurre in modo rilevante il consumo di sacchetti in plastica usa e getta. Le veggie bag possono essere utilizzate minimo sei volte, sono composte al % da poliestere resistente privo di sostanze inquinanti e possono essere tranquillamente lavate in lavatrice a gradi. Il sacchetto è dotato di una fascetta per incollare l’etichetta con il prezzo dei prodotti e di un cordoncino per chiuderlo. Le veggie bag sono in vendita in tutte le filiali Migros al prezzo di Fr. . per pezzi. Annuncio pubblicitario
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SOCIETÀ
Trasporti pubblici, la quota di mercato ristagna Istantanee sui trasporti ◆ Come migliorarla? Uno studio dell’Unione dei trasporti pubblici e alcuni atti parlamentari ne perorano l’incremento Riccardo De Gottardi
In Svizzera dal 2007 la quota di mercato dei trasporti pubblici su ferro e su gomma non cresce più rimanendo intorno al 20% Agli inizi degli anni del secolo scorso il futuro della mobilità sembrava destinato al trionfo dell’automobile, alla scomparsa dei tram nei centri urbani, alla stentata sopravvivenza dei bus per i collegamenti suburbani e al progressivo declino della ferrovia, per non parlare degli spostamenti pedonali e in biciclet-
ta, destinati in prospettiva all’estinzione. Tuttavia a fronte della ininterrotta crescita generale della mobilità, del diffondersi dei fenomeni di congestione e dell’emergere dei problemi di natura ambientale e climatica, degli impatti sul territorio delle infrastrutture, del consumo di energia la politica svizzera dei trasporti ha cercato di sviluppare una strategia votata al coordinamento e all’integrazione tra i diversi mezzi di trasporto in funzione delle loro specificità. La ripartizione del traffico o modal split è così diventata un indicatore privilegiato per valutare l’evoluzione del mercato e la forza delle sue diverse componenti. I risultati sulla ripartizione modale dei trasporti pubblicati regolarmente dall’Ufficio federale di statistica hanno ora indotto l’Unione dei trasporti pubblici a dedicare al tema un interessante studio: Perspektiven zur Erhöhung des Modal-split des öffentlichen Verkehrs (Berna, giugno ). Come mai? La ragione sta nel fatto che in Svizzera dal la quota di mercato dei trasporti pubblici su ferro e su gomma non cresce più; la parte del leone la fa l’automobile con il %, segue il trasporto pubblico con il % e chiude la mobilità ciclo-pedonale, che tocca il %. Per le imprese di trasporto esiste dunque un potenziale di crescita ele-
vato ma ancora inespresso. Per l’ente pubblico la progressiva saturazione delle infrastrutture esistenti e la sfida energetica e climatica impongono uno sforzo per favorire un maggiore equilibrio. Una più grande quota di mercato della ferrovia e dei servizi su gomma è in grado di assorbire più traffico e nel contempo di contribuire al raggiungimento di una maggiore sostenibilità. Attualmente sono così in discussione in Parlamento quattro mozioni di analogo contenuto che chiedono l’elaborazione di un piano per l’incremento della quota del trasporto pubblico sul traffico complessivo. L’Unione dei trasporti pubblici ha così definito con la sua pubblicazione una strategia a tutto tondo che punta ad azioni mirate in diverse direzioni e con la collaborazione degli attori interessati. Il miglioramento dell’offerta costituisce un elemento centrale di questa strategia, da concretizzare attraverso l’aumento delle frequenze e maggiori linee dirette, una migliore accessibilità ai servizi (stazioni, fermate), una loro accelerazione attraverso corsie preferenziali e semaforizzazione prioritaria, una migliore informazione, e un potenziamento mirato dei veicoli e delle infrastrutture. Un campo d’azione rilevante è attribuito all’offerta di nuove prestazioni rivolte a gruppi di utenti speci-
Evoluzione della quota di mercato dei trasporti pubblici in Svizzera 25
in % sulle prestazioni in p-km
Anche nel campo dei trasporti l’uso o, secondo taluni l’abuso, degli anglicismi è sempre più esteso. Un esempio molto frequente è il termine modal split. Lo leggiamo su giornali, riviste e in documenti ufficiali e lo ascoltiamo nei dibattiti radiotelevisivi. È un termine che sa di scienza e nel contempo richiama qualcosa di esotico. Per chi non mastica tecnica ed economia dei trasporti il termine lascia interdetti. Nel gergo «trasportistico» sta a designare la ripartizione della domanda tra i diversi mezzi: ferrovia, bus, tram, autoveicoli, ciclisti e pedoni. Ciascuno di questi mezzi si ritaglia una quota del mercato complessivo degli spostamenti.
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fici e comprensive dell’uso di diversi mezzi di trasporto. Le nuove tecnologie mostrano interessanti potenzialità nel campo dell’informazione e del coordinamento dei servizi. Un tema che preoccupa è quello della gestione delle punte di traffico, che sono all’origine di costi elevati e di problemi logistici difficili. In questo senso si perora l’introduzione di orari differenziati per l’inizio scuola e modelli di lavoro più flessibili da adattare ai diversi settori. A un sistematico coordinamento tra pianificazione del territorio e organizzazione dei trasporti si attribuisce grosso rilievo, consci tuttavia dei risultati ot-
tenibili solo a lungo termine. Una direttrice di azione è infine dedicata all’automobile. A questo proposito si menziona la necessità di maggiore trasparenza e consapevolezza nella percezione dei costi, in generale sottostimati per il trasporto individuale e per contro sovrastimati nel caso dei trasporti pubblici, così come della presa in considerazione dei cosiddetti costi esterni. Infine una diversa attribuzione degli spazi urbani dovrebbe accordare la priorità ai servizi pubblici e agli spostamenti a piedi e in bicicletta così come contenere il dimensionamento dei parcheggi. Affaire à suivre. Annuncio pubblicitario
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SOCIETÀ
Il lungo cammino dell’Università ticinese ◆
Un saggio storico ripercorre le tappe che hanno segnato la nascita dei nostri istituti di studi superiori
Un ateneo universitario è un’istituzione di grande importanza per una regione: conferisce autorevolezza alla sua offerta educativa, fornisce una ricaduta di contenuti e di competenze di alto livello alla sua economia, si configura come incubatore di intelligenze di cui tutto il tessuto sociale può giovarsi. I anni trascorsi dalla nascita dell’Università della Svizzera italiana corrispondono a un periodo di tempo relativamente breve ma certo sufficiente ad abituarci all’idea che il Ticino ne possieda una. Qualcuno suggerisce che occorra ancora compiere un salto di qualità, e che il nostro paese dovrebbe passare dall’immagine di un «cantone che possiede un’università» a quella di «cantone universitario», guadagnando, con una sfumatura di significato, un prestigio e un ruolo da protagonista culturale che forse non è ancora universalmente sentito dai suoi stessi abitanti. Ma la nostra università sta comunque lentamente diventando patrimonio di tutti ed è importante che ogni abitante del nostro cantone la consideri con fierezza e orgoglio In tale contesto, giunge veramente benvenuto questo lavoro di Pietro Montorfani e Mauro Baranzini, perché, sottolineando la ricorrenza del venticinquesimo, ci permette di fare il punto della situazione, di guardare retrospettivamente alle difficoltà e all’acceso dibattito che ha circondato
la nascita della nostra Alma mater, e, in questo modo, di renderci ancor più prezioso il suo apporto alla nostra vita civile e culturale. Certo il volume, di primo acchito, intimidisce un po’, per dimensioni fisiche e per «portata» della sua osservazione storica. Il discorso attorno alla nascita di un’università autonoma nel nostro cantone parte da molto lontano e non ha trovato mai (se non negli ultimi decenni del ) una comunanza di intenti di forze politiche ed autorità tale da condurne in porto la realizzazione. La stessa copertina del volume fissa in immagine schematica cinque passaggi storici che hanno caratterizzato il dibattito sull’argomento. E il testo, da parte sua, ci presenta il progetto di Karl Konrad Von Beroldingen, che a metà del caldeggiava la nascita di un istituto scolastico per la formazione dei gesuiti, quello di Accademia cantonale, proposto da Stefano Franscini nel , per poi passare a riproporci i termini della discussione nata a inizio intorno alla «Questione universitaria ticinese» sollevata dalla «Voce» di Prezzolini e lungamente discussa nel nostro cantone. In seguito ci illustra altre iniziative poco conosciute (perlomeno dall’estensore di questa nota) che, passo dopo passo, hanno condotto a un movimento di idee sempre più consistente. Il quale, dopo la sconfitta in votazione cantonale del progetto di Centro Universi-
Ti-Press
Anniversario
tario della Svizzera italiana nel , ha poi portato, alla fine degli anni , alla nascita dell’Accademia di Architettura, dell’USI e della SUPSI, che sono andate a prendere forma per assumere la fisionomia con cui le conosciamo oggi. La ricostruzione di un complesso quadro storico-politico-economico su un arco di tempo così ampio, avrebbe potuto risultare magari un po’ indigesta: occorre dire invece che la trattazione dell’argomento tanto articolato è scorrevole e agile. Lo sforzo di offrire al lettore un percorso di approfondimento coerente e lineare riesce perfettamente ai due estensori, e la lettura corre con interesse, aprendosi anche a numerose sorprese, permettendo di tirare le fila di fe-
nomeni anche apparentemente slegati dalla discussione di merito (come ad esempio la nascita della Lega dei Ticinesi, oppure presentandoci il ruolo esercitato sul tema universitario ticinese da Flavio Cotti, quale Presidente della Confederazione nel ). Il libro, insomma, è un ottimo esempio di lavoro di ricerca che, nel suo rigore ineccepibile, non perde di vista l’importanza della capacità comunicativa. Citiamo volentieri, come esempio di questa attitudine, la presenza di alcuni schemi in cui vengono incasellate le posizioni di coloro che in vari momenti hanno preso parte al dibattito attorno all’università: divisi nei gruppi di «Favorevoli», «Possibilisti», «Titubanti», «Contrari» vediamo disporsi chiaramente le figure di intel-
lettuali ticinesi di varie epoche, scoprendo magari anche come, di volta in volta, abbiano cambiato fronte. Pur toccando un argomento settoriale molto specifico e apparentemente inerente al tema ristretto della storia dell’educazione, questo libro offre ai suoi lettori piuttosto un bello spaccato di storia ticinese di fine , meritevole di essere conosciuto e apprezzato da un largo pubblico, e non solo da quello degli addetti ai lavori. Leggendolo, molti potranno tornare a rispolverare i loro ricordi attorno a discussioni e dibattiti di grande vivacità, che la nascita dell’Usi ha poi reso inutili, relegandoli nel dimenticatoio. Oppure, e questo è ancora più interessante, venire a conoscere i retroscena delle complesse manovre politiche e istituzionali che, dall’elaborazione del progetto iniziale del , hanno portato attraverso successivi adattamenti e discussioni, alla situazione che conosciamo oggi. Insomma, e tornando all’argomento iniziale, per conoscere ed apprezzare il valore della nostra università, una ricostruzione storica di questa portata e con un taglio così sorprendentemente divulgativo, merita davvero l’interesse di tutti i ticinesi. / AZ Bibliografia Pietro Montorfani, Mauro L. Baranzini, L’università della Svizzera italiana, Dadò, 2021. Annuncio pubblicitario
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 7 febbraio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ
Il peluche delle emozioni
Protezione dell’infanzia Svizzera ◆ Il mostriciattolo EMMO rende esplicite le emozioni dei bambini, uno strumento semplice che intende ridurre la violenza nell’educazione
Qualcuno avrà presente il cartellone pubblicitario affisso lungo alcune strade del nostro Cantone che ha quale protagonista un mostriciattolo peloso di nome EMMO. Si tratta di un’iniziativa della Protezione dell’infanzia Svizzera, lanciata lo scorso mese di ottobre, la quale ha riscosso un buon successo, tanto che i primi pupazzi entro fine anno erano già stati venduti; una nuova serie è ora disponibile. «I primi mesi sono stati un successo completo, di cui siamo molto felici. Si tratta di un ulteriore strumento, semplice ma efficace, che aiuta a ridurre la violenza nell’educazione», commenta Tamara Parham, direttrice della comunicazione dell’organizzazione di utilità pubblica Protezione dell’infanzia Svizzera. Ma vediamo meglio di cosa si tratta. Il peluche – il cui nome deriva dalla parola emozione – nel suo stato originale ride allegramente; il cuore rosso cucito sul corpo colorato significa: «sto bene!». Il peluche può però essere rivoltato e allora si trasforma; quello che appare è un volto grigio e tetro. Il sorriso è sparito e il cuore rosso è spezzato in due. L’idea è che il bambino possa comunicare le proprie emozioni, anche senza parole, per mezzo del cambiamento di espressione del suo pupazzo. EMMO può cioè mostrare per lui ai genitori come si sente in quel momento permettendo così di riconoscere delle situazioni emotive che è giusto e importante vengano esplicitate e, soprattutto, fungendo da Stop prima che esse degenerino in atti violenti da parte degli adulti. Il fatto di vedere raffigurata sul peluche un’espressione felice o triste si auspica, infatti, possa fungere da stimolo per il genitore per rendersi conto che tutte le emozioni possono essere mostrate e sono permesse, ma non tutte le azioni. Purtroppo, la violenza fisica e psicologica sui bambini è tuttora parte della quotidianità; lo studio Comportamento punitivo dei genitori in Svizzera, condotto nel dall’Università di Friburgo su incarico di Protezio-
Kinderschutz.ch
Alessandra Ostini Sutto
ne dell’infanzia Svizzera, documenta che un bambino su venti – quindi, in grandi linee, uno in ogni classe scolastica – è vittima di punizioni corporali a casa. Addirittura un bambino su quattro subisce regolarmente violenza psicologica. Oltre alle forme di violenza citate, i bambini in famiglia possono subire abusi sessuali, deprivazione e trascuratezza. I figli poi non soffrono solo quando sono oggetto della violenza, ma pure quando assistono a episodi violenti tra i genitori. Lo studio – che è da considerarsi un seguito allargato di altre ricerche condotte nel , e – oltre a essere un’istantanea della situazione attuale, comprende un’analisi delle tendenze relative alla violenza fisica e psicologica sui figli e nelle coppie in Svizzera. Accanto ai dati sulla presenza e la frequenza degli atti violenti, i ricercatori hanno raccolto informazioni che potessero loro servire per capire meglio il contesto psicosociale della violenza in famiglia e nelle pratiche educative (per esempio le caratteristiche e le condizioni di vita dei genitori oppure la spiegazione e la valutazione soggettiva dell’uso della violenza). Lo studio si è basato su un campione
vario e rappresentativo di genitori di tutte le regioni linguistiche del Paese. Una delle più importanti conclusioni emerse è che l’uso della violenza da parte dei genitori tendenzialmente non è frutto di un atto educativo ponderato e voluto; i genitori sono piuttosto indotti a compiere azioni violente in situazioni educative difficili e stressanti. Quando ciò si verifica, essi in genere ne soffrono e si pentono. Protezione dell’infanzia Svizzera ha commissionato diversi studi per avere cifre affidabili sui fenomeni violenti nelle famiglie in Svizzera. Oltre a ciò l’organizzazione ha lanciato una campagna di sensibilizzazione pluriennale a livello nazionale sul tema dell’educazione, denominata «Idee forti di bambini forti per genitori forti: c’è sempre un’alternativa alla violenza». La campagna parte dal presupposto che purtroppo in molte famiglie che vivono in Svizzera le punizioni, che feriscono nel corpo e nella psiche, fanno ancora parte delle pratiche educative e si prefigge di stimolare il dibattito pubblico sull’argomento. «Idee forti» ha preso avvio nel , incentrandosi sui bambini; l’anno successivo il punto di vista adottato è stato quello di genitori e nonni,
mentre nel si è deciso di «dare voce» ai peluche, compagni fedeli dei più piccoli, nonché testimoni silenziosi in caso di episodi di violenza. La loro impotente fragilità riflette l’impossibilità di reagire dei bambini. «Con questa ulteriore prospettiva, desideriamo sensibilizzare la società affinché parli e agisca a favore dei bambini, invece di far parlare solo i loro peluche», aveva affermato Regula Bernhard Hug, direttrice dell’organizzazione Protezione dell’infanzia Svizzera, in occasione del lancio di questa fase della campagna. L’introduzione, nel , del mostriciattolo di peluche EMMO corrisponde a un’ulteriore evoluzione della campagna di prevenzione. «EMMO continuerà ad essere venduto nel – afferma Tamara Parham – oltre a ciò stiamo pianificando di proseguire lo studio sul comportamento punitivo, che ci darà una nuova base per continuare la nostra pluriennale campagna a favore dei più piccoli». Protezione dell’infanzia Svizzera è infatti consapevole di come crescere i bambini possa essere impegnativo. Le incomprensioni e i problemi di comunicazione fanno parte della vita quotidiana e, a volte, specie nel-
le situazioni stressanti, gli stati d’animo e i bisogni dei bambini possono non essere visti o adeguatamente compresi. Per questo, nella fase attuale della campagna di sensibilizzazione, il mostriciattolo di peluche dà voce ai bambini che non riescono a trovare il coraggio o le parole giuste in situazioni difficili. «Si tratta di uno strumento semplice, ma efficace, per una de-escalation – commenta Regula Bernhard Hug – se i genitori sono troppo concentrati sulle loro emozioni, EMMO media prima che accada un’azione violenta». Il pupazzo favorisce così un buon rapporto genitore-figlio, che, a sua volta, impedisce la violenza. EMMO è stato ideato ed è realizzato in Svizzera da Social Fabric – un’organizzazione indipendente non-profit, che si impegna per l’integrazione lavorativa e la formazione di persone con un passato di rifugiati nel nostro Paese – in collaborazione con il centro di formazione Nähwerk IDM di Thun e può essere acquistato sul sito di Protezione dell’infanzia Svizzera. L’organizzazione, sempre nel quadro della campagna «Idee di bambini forti per genitori forti», ha poi sviluppato delle utili «alternative alla violenza per i genitori». Si tratta di suggerimenti, affinché i genitori riescano a mettere un freno alla rabbia prima di perdere il controllo sulle proprie azioni. La regola è sempre la stessa: tutte le emozioni sono permesse ed accettate, ma non tutte le azioni. Protezione dell’infanzia Svizzera propone poi altre misure per migliorare e rafforzare il rapporto genitori-figli e avere una vita familiare più serena. Accanto ai corsi per genitori del programma «Genitori forti – bambini forti» (in tedesco e francese) ci sono dei workshop tematici oppure degli scambi online, ad esempio «Litigi tra fratelli», «Pubertà» o «Vie d’uscita dalla trappola dello stress», che trasmettono conoscenze specifiche. Informazioni www.protezione-infanzia.ch
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Viale dei ciliegi Attilio Spettacolo a sorpresa Lapis (Da 3 anni)
Ha una grazia innegabile questo nuovo libro del quasi centenario Attilio Cassinelli, in arte Attilio, pittore, designer, illustratore, classe , sulla scena della migliore editoria per l’infanzia dagli anni Sessanta, con il suo tratto raffinato e semplice, geometrico e vivacissimo, tenero ed energico al contempo. Contrasti ricomposti come solo un grande artista sa fare. In questo Spettacolo a sorpresa che, come gli altri suoi nuovi progetti che da qualche anno pubblica con la collaborazione della figlia Alessandra, esce per Lapis, Attilio ci racconta la storia di un circo… davvero sorprendente. Domatrici, funambole, pagliacci, giocolieri (tutti un po’ bambini) e vari animali addestrati: Gedeone il terribile leone, Salvatore cavallo imitatore, Genoveffa giraffona buona e molti altri. Tutti fanno numeri spettacolari, per divertire il pubblico. Ma saranno davvero animali? O c’è un trucco? E non è forse vero che l’animale deve sta-
di Letizia Bolzani
re / in terra, in cielo o dentro il mare / non nel circo certamente / per far ridere la gente? Al di là dell’apprezzabile messaggio, il valore di questo libro risiede però nell’armonia di testo e immagini, con un effetto attualissimo e vintage al contempo (un altro contrasto ricomposto!): ogni doppia pagina presenta a destra l’immagine, con una coerenza pulita e rigorosa di rimandi, perché ogni volta il bambino e l’animale si stagliano dentro un tondo su sfondo nero, come se fossero illuminati da un faro, un occhio di bue, nella loro esibizione sulla pista; e a sini-
stra il testo, brevissimo, solo quattro versi ottonari a rime baciate, per ogni vignetta, in perfetto stile «Corriere dei Piccoli» delle origini (qui comincia l’avventura / del Signor Bonaventura), che per la lettura ad alta voce è incanto puro: ecco qua la bella Alice / la famosa domatrice / che saluta riverente / tutto il pubblico presente // qua c’è Bobi che abbaiando / vuol raggiungere Rolando / che veloce su una ruota / fila via come un pilota… Metrica perfetta, rigore delle immagini: emozione per le orecchie e per gli occhi. Patricia MacLachlan Barkus HarperCollins (Da 5 anni)
È ai bambini più piccoli che si rivolge stavolta Patricia MacLachlan, con questo limpido libretto che racchiude cinque semplici e briose storie incentrate sul cane Barkus e sulla sua padroncina Nicky, la quale è anche l’io narrante delle vicende. Barkus esce nella collana «Questo lo leggo io!», di HarperCollins: libri in stampatello maiuscolo, per primi letto-
ri. È già vera e propria narrativa, nel senso che sono storie minimalistiche ma articolate, le quali, rispetto agli albi illustrati, non prevedono la mediazione del lettore adulto, ma possono, appunto, essere lette in autonomia dai bambini alle prime armi con l’apprendimento della lettura. In comune con gli albi illustrati, hanno invece il grande spazio riservato alle illustrazioni, e la scelta accurata degli illustratori. In questo caso a illustrare le storie di MacLachlan è il francese Marc Boutavant, il cui stile vitale e umoristico, caratterizzato
da grande espressività (soprattutto nei tondi occhi dei personaggi), dinamismo, colori vivaci e pieni, ben si sposa con la joie de vivre del cagnone marrone e della sua spigliata amica umana dai capelli rossi. Boutavant tra l’altro è l’illustratore della serie a fumetti dell’asinello Ariol (BeccoGiallo) e di quella di Cane Puzzone (TerrediMezzo), e quindi ben si presta a dare vita a un altro cane, il simpatico Barkus. Del resto quello per i cani è un amore condiviso dalla stessa MacLachlan, grande autrice americana che nella sua lunga carriera (costellata di prestigiosi riconoscimenti) ha spesso inserito, anche in romanzi più corposi e drammatici, la presenza di cani, come personaggi intensi e con un ruolo fondamentale nell’aiutare i protagonisti a curare le ferite dell’anima, penso ad esempio a Le parole di mio padre, o a Quel prodigio di Rex. Qui, in Barkus, non c’è nulla di drammatico, ma solo la vivace quotidianità di Nicky e della sua famiglia. Una quotidianità movimentata e illuminata dalla vivacità dei bambini e degli animali.
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SOCIETÀ
Regione Solidale combatte l’isolamento Solitudine e solidarietà ◆ Con il sostegno del DSS e dell’Atte si sviluppano in Ticino attività di prevenzione e socializzazione: gruppi di persone che si riuniscono per stare insieme e realizzano piccoli progetti secondo la metodologia comunitaria
Sara Rossi Guidicelli
Siamo soli, possiamo ritrovarci soli. A certi piace, altri ci si abituano, alla maggior parte della gente pesa. È per questo che nasce Regione Solidale, un servizio per persone senza un’attività lavorativa, che vogliono avere un punto di ritrovo e vedere cosa capita uscendo di casa e stando in compagnia. Sono gruppi che si ancorano al proprio territorio regionale sviluppando attività che mobilitano la partecipazione del singolo sotto la regia di un animatore. «È come andare al bar, solo che qui sono tutti motivati a fare qualcosa e possiamo organizzare attività che ci piacciono», mi spiega un partecipante. È giovedì, siamo a Olivone, sono stata invitata dall’animatrice Floriana Ciarpelli Bucovaz a trascorrere la giornata con lei e il suo gruppo all’Oratorio, luogo accogliente e riscaldato che affittano grazie a un contributo del Comune. «La mattina di solito ci troviamo per un caffè, due chiacchiere e qualche progetto», mi racconta. C’è un albo, con scritti i desideri (preparare una gita al Ballenberg, quando si potrà, andare a visitare la fabbrica di cioccolata della Lindt), c’è il mercatino (cerco orologio da parete, qualcuno ha una piccola libreria da regalare o vendere?), le offerte di aiuto (do lezioni di informatica, traduco dal francese/inglese, posso effettuare trasporto persone per piccoli tragitti, chi vuole può fare con me conversazioni in inglese, sono madrelingua). Una sorta di banca del tempo di paese, tra conoscenti, aperta a tutti.
Il progetto coinvolge persone di diverse età e favorisce una presa a carico vicendevole «I partecipanti hanno in genere dai cinquantacinque anni in su, ma chiunque è ben accetto. Se qualcuno è a casa e non sa cosa fare, può venire qui, in libertà, con la frequenza che desidera», mi spiega Floriana. Anche ad Airolo si è iniziato da alcuni anni questo percorso che, Covid a parte, sembra molto utile e riuscito. Alla parete sono appese alcune foto che testimoniano delle attività intraprese dal gruppo: c’è un appassionato di musica, Brenno Bolla, che regolarmente propone pomeriggi tra le note di Verdi, Modugno, Vivaldi o altri suoi autori preferiti; Silvano Scopetti, che in paese ha uno spazio espositivo per la sua collezione di immagini d’epoca, ha presentato alcune testimonianze fotografiche a tema; c’è stata la castagnata, vari pranzi in compagnia, una gita a Zurigo, una al museo della Scatola di Latta di Aquila, al Museo di Lottigna, passeggiate nella natura alla scoperta del territorio e così via. Beviamo il tè, vedo uno scaffale con dei libri da prendere o scambiare, l’ambiente è rilassato e famigliare. A pranzo andiamo a prendere un piatto caldo da un take away che ha aperto da poco a Olivone e che ha fatto comodo a molti soprattutto durante il lockdown e in tempi di restrizioni legate agli esercizi pubblici di ristorazione. «Gli scopi del progetto sono tre – illustra l’animatrice – combattere la solitudine sviluppando legami sociali, permettere alle persone di stare a casa propria il più a lungo possibile, portare benefici al territorio».
Da sinistra: l’animatrice Floriana Ciarpelli Bucovaz con Franca,Teresa, Irma e Brenno del gruppo Regione Solidale di Olivone.
Si cerca di offrire esperienze piacevoli senza spendere molto, ma si cerca di mangiare quello che offrono i locali punti di ristoro, di andare a visitare le mostre sul territorio, partecipare alle manifestazioni, coinvolgere le persone attive in loco, insomma far vivere quello che c’è. Al pomeriggio assisto a un esempio concreto di come i partecipanti attivano le proprie risorse personali coinvolgendo tutto il gruppo: oggi è Teresa Martinelli che conduce. Ha preparato giochi intelligenti per tutti: esercizi di carattere ludico per esercitarsi con i numeri, con le parole, giochi che divertono gli adulti di ogni età perché ne stimolano la riflessione, la memoria, la capacità di calcolo e ragionamento. E in più fanno ridere o sorridere. Teresa ci racconta un po’ della sua vita: nata nel Canton Nidvaldo, da anni vive in Ticino, cioè da quando si è sposata. Fino all’età della pensione ha vissuto nel Locarnese, dove è stata attiva professionalmente in ambito bancario e dove ha cresciuto i suoi tre figli. Poi il marito ha desiderato rientrare al suo paese d’origine, Olivone. «Per me all’inizio è stato un po’ difficile, perché qui non avevo una mia rete sociale, dovevo ricostruirla, a un’età in cui è più difficile, senza lavoro e senza figli a scuola. Ma piano piano mi sono trovata bene e adesso anche grazie a Regione Solidale posso conoscere qualche persona in più, partecipare a qualche bella uscita e anche esaudire un mio antico desiderio… fare la maestra», sorride. Un paio di volte al mese infatti porta i suoi «esercizi di memoria» che, come detto, sono un passatempo giocoso e stimolante a tutti i livelli. Gli altri si divertono, lei pure. Ma da dove nasce Regione Solidale? «Questa iniziativa l’abbiamo in qualche modo importata dalla Svizzera Romanda, personalizzandola alle peculiarità del Canton Ticino», mi dice Yves Toutounghi, ideatore della metodologia comunitaria per il progetto Regione Solidale. «Abbiamo
sperimentato questo progetto alcuni anni fa nelle zone più periferiche del Cantone, quelle con meno servizi già presenti sul territorio per combattere l’isolamento. Il progetto ha avuto un ottimo impatto e ora è inserito nella pianificazione integrata cantonale del - del Dipartimento Sanità e Socialità. «Se la persona è ben ancorata alla rete sociale del suo territorio, se è stimolata a essere propositiva e autonoma, migliora la propria qualità di vita, il proprio inserimento sociale e più facilmente resta a vivere al proprio domicilio più a lungo. Per questo usiamo la metodologia partecipativa che necessita di un lavoro di coordinamento specifico che è svolto da Floriana Ciarpelli Bucovaz». Per il momento il servizio è attivo nei Comuni di Blenio e Airolo, ma da quest’anno si entrerà in una visione meno comunale e più regionale, quindi si parlerà di Alta Valle di Blenio e Alta Leventina. «È importante perché nella nostra visione vogliamo rendere le persone protagoniste nel rendere migliore la propria qualità di vita e quella della propria regione; qui non si viene e si trova qualcosa già pronto da fare; ci si rimbocca le maniche per dare vita al proprio territorio. Ci sono persone che si sono isolate, anche per questioni economiche, e lo scopo del nostro progetto è andare a cercare queste persone e rimetterle sul territorio valorizzando le loro competenze e le loro conoscenze che certamente sono utili anche agli altri. Non facciamo prese a carico, ma favoriamo una presa a carico vicendevole, come avveniva nei paesi una volta quando le persone si sostenevano l’un l’altra, perché si conoscevano tutte». Il concetto della solidarietà è centrale: aiutarsi l’uno con l’altro, scambiarsi favori come frecce che si incrociano, io a te, tu a lui, lui a me. Tutti insieme. E poi è un’occasione per conoscersi, anche fra gente che ha sempre vissuto nella stessa zona, magari ha anche fatto il militare insieme come Brenno e Silvano, diventati ami-
ci solo adesso, all’Oratorio di Olivone. «Veniamo qui per bere un caffè in compagnia e poi nasce qualche idea che per pigrizia all’inizio sembra faticosa ma poi quando ci sei dentro, quando sei uscito di casa e dalle tue abitudini, pensi: ma perché non l’ho fatto prima? E un’uscita tira l’altra, con il piacere viene la voglia di stare insieme», mi raccontano. Toutounghi è anche il coordinatore del centro diurno socio-assistenziale Atte di Biasca e Valli; il progetto è stato fortemente voluto dall’Associazione ticinese Terza età anche se ha caratteristiche molto diverse e si indirizza a un altro tipo di utenza. Su questo punto bisogna essere chiari, mi spiegano sia lui sia Floriana: non si tratta di un centro diurno per anziani, dove vengono proposte attività agli utenti, bensì di un luogo dove i partecipanti (di varie età) vengono, propongono e si mettono in gioco attivamente per realizzare qualcosa che desiderano fare. Sono i partecipanti che danno spunti, idee, che mettono in piedi, se necessario con l’aiuto di Floriana, quello che vorrebbero organizzare. Prima di salutare e andarmene chiedo quali sono i prossimi progetti. Proiettare film con un beamer; fare sessioni di diapositive di vecchie fotografie di gente del posto, per ridere un po’, per ricordare e riconoscere qualcuno; magari invitare un amico che fa la mazza per un aperitivo nostrano; andare dagli amici di Airolo per qualche gita (loro stanno per iniziare un corso di disegno sotto la guida di un artista locale); mappare la zona segnalando al Comune dove si potrebbero aggiungere delle panchine, e magari proprio anche restaurare o costruire le panchine da posizionare nei punti con la vista più bella, dove si ha più voglia di sostare e tirare il fiato un attimo. La prossima manifestazione è una pizzoccherata in compagnia all’Oratorio di Olivone il febbraio. Prenotazioni a Floriana .
Tre giorni per cambiare il Ticino Politica ◆ Sono aperte le iscrizioni per partecipare al Consiglio Cantonale dei Giovani
Avvicinare i giovani alla politica e farli partecipare al processo democratico, incoraggiare l’incontro e lo scambio di idee fra i giovani e le autorità su temi scelti dai giovani stessi. È questo lo scopo fondamentale del Consiglio Cantonale dei Giovani, al quale lo stesso Consiglio di Stato del canton Ticino riconosce la funzione propositiva impegnandosi a rispondere alle risoluzioni da esso adottate. Il lavoro del Consiglio dei Giovani è articolato su tre giornate. Durante la prima giornata i partecipanti all’Assemblea avranno la possibilità di proporre le loro idee per cambiare il Ticino e parteciperanno alla stesura della prima bozza di risoluzione. Nella seconda giornata, gli stessi discuteranno e voteranno la Risoluzione, ovvero il documento ufficiale con tutte le proposte definitive che verranno votate e inviate al governo. La risoluzione verrà in seguito inviata all’attenzione del Consiglio di Stato che leggerà e risponderà alle proposte e, durante la terza giornata, l’Assemblea discuterà la rispettiva risposta e fornirà le necessarie modifiche, avendo inoltre l’occasione di confrontarsi e discutere con i rappresentati dei vari dipartimenti sui diversi temi. Il Consiglio propone un’esperienza unica a livello cantonale per promuovere e portare all’attenzione del governo ticinese tematiche e problemi sentiti e ritenuti importanti dai giovani. Lo scorso gennaio il Comitato organizzativo del Consiglio Cantonale dei Giovani ha lanciato la campagna « Giorni per cambiare il Ticino» per promuovere il Consiglio e permettere a tutti i giovani, tra i ed i anni d’età residenti nel Canton Ticino, di iscrivervi alla sessione . La campagna è condotta tramite cartoline postali che verranno recapitate dai Comuni presso il domicilio dei giovani residenti; sul retro delle cartoline è possibile esporre la propria idea ed iscriversi al Consiglio. In alternativa, è possibile utilizzare il sito internet del CCG (ccg-ti. ch/iscrizioni). Ai partecipanti verrà offerta la trasferta ed il pranzo. Inoltre, in conformità alla Legge giovani, i partecipanti verranno dispensati dall’attività lavorativa e/o scolastica. Informazioni www.ccg-ti.ch
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Erbe amiche del fegato
Fitoterapia ◆ Esistono piante che donano un prezioso sostegno: non ci liberano completamente da tutti gli effetti negativi degli eccessi a tavola, ma ci offrono comunque il loro aiuto
Quando ci si riunisce con amici, il piacere della condivisione ci porta a tavola ed eccedere con i cibi è spesso una tentazione irresistibile, ma la trasgressione inevitabilmente ci presenta poco dopo il conto, quando ci si ritrova sazi e appesantiti, con il forte bisogno di ritornare leggeri. Il fegato, che è il più grande laboratorio di trasformazione chimica e di disintossicazione del nostro corpo, accusa per primo tali eccessi: è l’organo che regola l’equilibrio degli ormoni sessuali, e produce la bile che attraverso la cistifellea contribuisce alla digestione e all’eliminazione delle sostanze tossiche. Come noto molti fattori possono disturbare la sua funzione di regolatore dei processi digestivi, come l’abuso di alcolici, troppo cibo, stress, e a volte anche emozioni represse come ad esempio la rabbia. Il linguaggio lo testimonia: non a caso esiste l’espressione «mi mangio il fegato», o anche «la tal cosa o persona mi sta sullo stomaco». Per fortuna esistono piante che ci donano un prezioso sostegno: non ci liberano completamente dalle emozioni negative ma ci offrono comunque il loro aiuto. Sono molte le piante che all’occorrenza curano gonfiore, acidità, pesantezza, bruciore, insomma tutta la gamma delle difficoltà digestive dell’apparato gastro-intestinale. Dobbiamo solo imparare a conoscerle, e scegliere quelle speciali che funzionano proprio per noi; la sensibilità degli individui è molto diversa. A tal proposito, come sempre, avvertiamo del rischio in cui incorre chi si vuole curare da sé senza prima consultare persone competenti come un medico, un farmacista o un erborista, poiché c’è molta differenza tra il consumare una innocua bustina di tisana e invece intraprendere una vera e propria cura con le piante. Ogni pianta ha virtù multiple e può essere usata per affezioni diverse, ad esempio ipertensione, febbre, disturbi respiratori,
dell’apparato digerente, del fegato. Le più grandi protettrici del fegato sono le Erbe Amare; il loro forte sapore favorisce e accelera i processi digestivi e agisce a livello epatico stimolando la produzione della bile. L’Anice stellato (nella foto) è fra le maggiori. Si tratta di una pianta conosciutissima nella medicina tradizionale cinese, in Corea, Indocina, Giappone e in tutto l’Estremo oriente. Giunta in Europa sul finire del XVI secolo, per la sua curiosa forma stellare e l’aroma dolce, quasi inebriante, dei suoi frutti, diventò un oggetto di grande commercio nelle farmacopee del vecchio continente sostituendo il già usato Anice verde. L’Anice stellato, presente nell’industria dolciaria al pari dell’Anice verde, era usato come stomachico carminativo (che sgonfia e promuove l’espulsione dei gas), contro i problemi addominali e digestivi. L’infuso di Anice verde o di Anice stellato (che cura anche tosse e raffreddore) si assume lontano dai pasti, da - tazze al dì. Un’altra famosa Erba amara è il Carciofo, della famiglia delle Composite (Asteraceae), pianta erbacea perenne dalle pungenti foglie a rosetta. Nel Medioevo si proibiva alle ragazze di mangiarlo perché si riteneva producesse effetti afrodisiaci. Le prime coltivazioni di carciofi avevano costi elevatissimi. Tra le curiosità, si racconta che Caterina De Medici abbia rischiato di morire per averne mangiati troppi. Il Carciofo cura stitichezza, cattive digestioni e affezioni epatobiliari, inoltre sembra che stimoli la rigenerazione delle cellule del fegato esposte a diverse tossine, favorisce la secrezione biliare, è diuretico, depurativo, digestivo. Per beneficiare delle sue virtù, si prepara un decotto bollendo per qualche minuto grammi di foglie essiccate per una tazza di acqua - volte al dì; in alternativa si assumono - gocce di tintura madre. Un’altra pianta amica del fegato
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Eliana Bernasconi
è il Cardo mariano (Silybum marianum) o Cardo della Madonna. Una leggenda racconta che Maria, nella fuga in Egitto, si sia fermata a riposare vicino a quest’erba lasciando alcune gocce del suo latte materno sulle frastagliate foglie della pianta che portarono da allora delle macchie bianche. Il Cardo mariano stimola il funzionamento della cistifellea, aiuta nell’insufficienza epatica e nei calcoli biliari, ed è un emostatico naturale nei casi di frequenti emorragie; si assume in polvere, come decotto o Tintura madre. Un’altra pianta amarissima, e da avvicinare con cautela, è l’Assenzio, detto anche Artemisia, o erba dei vermi perché antiparassitario. Di questa pianta, che cresce spontanea in tutta Europa nei luoghi incolti, secchi e argillosi, si impiegano le radici e le parti aeree. La sua fama oscilla tra due estremi: quella di erba molto benefica,
magica, quasi taumaturgica, e quella invece di pianta amara e intossicante. In Francia nel era diffusissima una bevanda alcolica a base di Assenzio consumata da scrittori e artisti, eccitante in piccole dosi ma pericolosa in quantità esagerate. L’Assenzio esiste come polvere, o per infusi e decotti. È antisettico, febbrifugo e tonico, stimola l’appetito e l’attività epatica; si utilizza anche per combattere le pulci dei cani. Vi è poi il Tarassaco, o Dente di Leone, o Soffione, pianta spontanea diffusa ovunque. È un potente depurativo e diuretico, le sue radici stimolano la secrezione biliare, la funzione dell’apparato digerente e dei reni: si usa in infuso e decotto o come succo fresco delle foglie, ricche di potassio e vitamine. Altra efficace erba digestiva è il Finocchio: il decotto con i suoi semi combatte il gonfiore e la digestione
lenta, è antiossidante e antinfiammatorio. Per digerire a fine pasto è utile invece un infuso versando acqua bollente su alcune foglie di Basilico. Tra le altre, possiamo nominare anche Melissa, Genziana e Liquirizia. Siccome le tisane di erbe amare sono usate da secoli per curare le funzioni digestive, da un vecchio testo vi proponiamo questo composto: «Miscelare parti uguali di Anice, Maggiorana, Menta, Tiglio, Tarassaco; lasciare in infusione minuti in una tazza di acqua bollente e bere prima dei pasti principali». L’Anice è carminativo, la Maggiorana e il Tiglio sono sedativi nervosi, il Tarassaco agisce sul fegato e la Menta favorisce la digestione. Bibliografia Jean-Luc Roger, 250 tisane per la tua salute, Musumeci Editore, 1990.
L’irriconoscibile Kia Sportage Motori
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La tecnologia sempre più avanzata modifica i modelli in serie che mantengono il nome ma diventano altro
Mario Alberto Cucchi
Le automobili sono sempre uguali a loro stesse? Decisamente no. Se da una parte anche la Ford Model T del aveva quattro ruote, dall’altra ha ben poco in comune, oltre agli pneumatici e al volante, con le sue pronipoti di oggi. In realtà, se un viaggia-
tore del tempo venisse catapultato dai primi del Novecento ai giorni nostri, molto probabilmente sarebbe in grado di guidare nonostante i grandi cambiamenti tecnologici che hanno avuto luogo da allora. Importante testimone dell’evoluzione automobili-
stica degli ultimi decenni è la coreana Kia Sportage. Ne sono stati venduti , milioni di esemplari nel mondo e la quinta generazione è stata mostrata proprio in questi giorni. Torniamo per un attimo al , anno in cui in Corea debuttò la prima Sportage. Era un fuoristrada compatto lungo quattro metri e trentatré centimetri che aveva in dote la trazione integrale inseribile e le marce ridotte. Aveva persino una ruota di scorta esterna montata posteriormente su un cancello che si appoggiava al portellone d’accesso del baule. Il propulsore era esclusivamente alimentato a benzina, il diesel arrivò solo in un secondo momento. Il successo fu immediato e nel arrivò anche la versione cabriolet a passo corto. Gli automobilisti con il passare degli anni cambiano gusti ed esigenze ed ecco allora che Sportage si è ingentilita «perdendo» nel la ruota di scorta e un po’ di ruvidità. Così facendo diventava un po’ più Sport Utility Vehicle e un po’ meno fuoristrada. Alla trazione integrale si aggiungeva an-
che la possibilità di acquistare la versione a trazione anteriore. D’altronde non tutti hanno bisogno di avere un wd ma la posizione di guida rialzata tipica dei suv piace sempre di più. La Sportage che debutta oggi è stata progettata specificamente per il mercato europeo ed è caratterizzata da soluzioni decisamente high-tech. Tra queste spicca nell’abitacolo il display curvo integrato che include gli ultimi sistemi tecnologici legati a connettività e sicurezza. Seguendo i desideri degli automobilisti in Kia hanno deciso di equipaggiare Sportage con una gamma completa di propulsori ecologici, al cento per cento elettrificati. Unità ibride all’avanguardia e motori a benzina con tecnologia Mild Hybrid di ultima generazione. Nella versione Hybrid, il . T-GDI è affiancato da un motore elettrico da , kW con una batteria ai polimeri di ioni di litio da , kWh per un sistema efficiente e reattivo. La potenza totale è di cavalli. La versione plug-in da cavalli, che ver-
rà introdotta tra qualche mese, è una novità assoluta per Sportage: permette di percorrere la maggior parte dei trasferimenti quotidiani in modalità esclusivamente elettrica. Come per la recente Kia EV, la completa dotazione di ADAS (DriveWise), contribuisce a innalzare il livello di sicurezza intervenendo in ausilio del conducente per evitare potenziali collisioni, a tutela dei passeggeri e degli altri utenti della strada. A tutte le ultime tecnologie disponibili si unisce il Remote Smart Parking Assist che consente di parcheggiare o uscire da un parcheggio stando all’esterno del veicolo. Le manovre di parcheggio sono ulteriormente migliorate con l’aggiunta della tecnologia Surround View Monitor, che visualizza immagini video in tempo reale del veicolo e dei suoi dintorni. I prezzi partono da poco più di mila franchi per la versione a due ruote motrici. Insomma, è chiaro che a distanza di quasi anni dalla prima Sportage di uguale è rimasto il nome e poco più.
Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 7 febbraio 2022
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azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ / RUBRICHE
L’altropologo
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di Cesare Poppi
Narrazioni e narrative ◆
L’appetito vien mangiando. E così l’Altropologo ci ha preso gusto. Dopo essersi inventato una personalissima Quaresima che gli imponeva l’astensione da qualsiasi dibattito, polemica ovvero controversia che agitasse anche se solo lontanamente temi legati al cicaleccio più o meno di moda. Poi la tentazione di un pronunciamento relativo all’innominabile tema del giorno (ma ormai peraltro sono anni) ha avuto la meglio. Così, assieme ai riscontri di un pubblico preferito poiché attento e dialogante, ha deciso che forse valga la pena allentare le restrizioni ed esplorare nuovi orizzonti altropologici. Sono ormai anni che nel linguaggio dei mezzi di comunicazione è comparso il termine «narrazione». Presente peraltro ab immemorabili nelle lingue neolatine e cognate indoeuropee, il termine ha acquisito una valenza semantica nuova ed oggi in
costante espansione come una supernova che inglobi e travolga ambiti di significato via via più ampi e polimorfi fino a non capirci più niente. Destino comune a quei neologismi di successo che nascono come strumenti espressivi necessari a denotare e connotare aspetti inediti della realtà «là fuori» per poi diventare vittime del proprio successo e finire logorati dal tritacarne mediatico fino a non riuscire ad esprimere più nulla ed essere buttati via assieme all’acqua sporca. «Narrazione»: oggi imperversa in Italiano – anzi: Itagliano – per indicare (mi addentro nella palude guardingo, consapevole e vaccinato) qualsiasi resoconto di una qualsiasi sequenza di causa-effetto che non abbia la cogenza incontrovertibile di una martellata nelle gengive, evento qualsivoglia ovvero sulla «realtà/verità» del quale ci sia ben poco da discutere. Qualora l’accidente X non sia connotato da
La stanza del dialogo
quel grado di cogenza, il suo gradiente di realtà/verità/attendibilità viene derubricato da «fatto reale» che impone – come dicono gli Alpini dalle mie parti – «porchi e sacramenti» a «narrazione». Termine leggero ed accattivante che evoca affettuosi scenari da veglia invernale nella stalla a lume di petrolio quando si filava e si pipava facendo una corte di sguardi, sorrisini e languide carezze alle ragazze. Erano storie improbabili e provate di streghe e di Anguane, di rospi e cavalieri, di zucche, zucconi e principesse – ma anche di sbronze colossali e altre meravigliose improbabili imprese – con quant’altro fosse passato per la testa dell’affabulatore di turno. Narrative che tutti sapevano benissimo dove iscrivere nel registro della «realtà» quotidiana e praticabile. Ovvero fra parentesi e in un posto apposta che non venisse a interferire col fatto che domattina bisognasse munge-
re le vacche. Tali fantasie sono divenute di recente misura della Realtà – o forse è meglio dire che la Realtà stessa è divenuta potenziale Fantasia. Cominciò tutto – ricorda l’ Altropologo – ai tempi della Thatcher. Sì, poiché fu proprio in quello strano Regno di Mezzo Tolkeniano dove è nata la Cultura Moderna Europea (che forse, Dio non voglia, lì morirà) che matura negli anni del secolo scorso l’idea che la rappresentazione della Realtà sia come una Narrazione che ciascun attore della scena racconta democraticamente a modo swicciando/zapp(ing)ando faticosamente fra un canale e l’altro fino a quando non trova la Narrazione che mi trova d’accordo pur se dormo per quella serata-ora-minuto per poi accorgermi che è ora andare a dormire. Chi può. Poi seguirono i giorni di Saddam. Quei giorni costrinsero i sopravvissuti e più incalliti cronisti della BBC
(forse ormai i più rintronati ovvero resi saggi dalla farsa ComiTragica delle Falkland) credenti e praticanti in una qualche residua nozione di Realtà Reale ad arrendersi. Il concetto di Narrative/ Narrazione nacque allora per allertare chi trovasse il messaggio in bottiglia che quanto scritto lo fosse sulla base di «narrazioni» governative ufficiali, esclusive e controllate – ovvero credute e praticate – la falsità delle quali produsse, deo gratias, la disgrazievole caduta di Tony Blair e dei suoi affabulanti spin doctors. Esportata sul Continente, ultima deteriorata merce di un mercato mediatico bulimico, il concetto «Narrazione» è oggi quotatissimo urbi et orbi. Nei giorni, minuti e secondi dove il poco, minimo e sia pure infimo che forse-chissà-speriamo è l’Ombra che resta della Verità ovvero Narrazione. Opinione. In sostanza e probabilmente balle.
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di Silvia Vegetti Finzi
Il mondo è un videogioco? ◆
Cara Professoressa, buongiorno, vorrei condividere con Lei questa riflessione. Quando esco a correre, corricchiare (dato che con gli anni il fiatone è sempre più frequente) sul lungolago, mi capita di ascoltare parole delle persone che incrocio, che supero, che scanso. Giovani coppie che si fanno i selfie, anziani con il cane a passeggio, amiche ingioiellate e impellicciate sottobraccio… Le parole non m’ interessano… Magari osservo come sono vestiti, approvo mentalmente l’accostamento di colori e tessuti, faccio le solite riflessioni su chi usa la mascherina e chi no… Di questa mattina, però, ho un ricordo più forte. Una frase che mi gira in testa da quando l’ho sentita. Una bimbetta di circa cinque-sei anni e il suo papà: «papà, ma allora tutto il mondo è un videogioco!». Ho rallentato appena il tempo di sentire la risposta: «non credo…». Chissà se il dialogo fra i due si è limi-
tato a queste due battute. Se il papà ha dato alla bambina una risposta soddisfacente (per lei). Di certo, in me quella bambina ha lasciato una domanda: come le avrei risposto io? Perché, visto con gli occhi di una bambina di cinque-sei anni, il mondo può essere davvero un videogioco. E SE AVESSE RAGIONE? Sì, bambina mia, il mondo è come un videogioco. Dove tanti personaggi si muovono, tanti paesaggi si aprono ai nostri occhi, tante cose succedono. Uno scenario bellissimo di cui noi, per un attimo, siamo le comparse. Un gioco in cui, quando tocca a noi, possiamo fare la cosa giusta o quella sbagliata, immergerci nella bellezza che ci circonda o distruggerla, amare o odiare, correre o stare fermi a guardare. E, un giorno, quando rallenteremo un po’ la nostra corsa, chiederci: chi ha in mano la consolle? Chi ha inventato il videogioco? Come finirà? Un cordiale saluto e... complimenti per la rubrica. Carlo B.
Mode e modi
Gentile signor Carlo, benvenuto nella «Stanza del dialogo». La sua persona è davvero esemplare: è in ottima forma fisica, nonostante si limiti a «corricchiare», e soprattutto in ottima forma psichica. Mantiene viva la curiosità per ciò che la circonda, è attento, empatico, capace di ascoltare e di interrogarsi. Chi non vorrebbe essere come lei? Certe volte gli anziani sono più giovani dei giovani. Leggendo la sua lettera viene voglia di conoscerla meglio, di saperne di più della sua vita, passata e presente. Sarebbe bello se potessimo proseguire la corrispondenza. La sua lettera ci coinvolge nel quesito posto da una bimbetta di - anni, proprio l’età in cui i bambini osservano, riflettono e chiedono. La loro profondità di pensiero è stata rilevata da psicologi e filosofi ma, nella vita di ogni giorno, viene spesso liquidata in modo sbrigativo: «lo capirai più tardi;
ma cosa vuoi saperne tu; possibile che non stai mai zitto/a?». Lei invece ha saputo cogliere l’importanza di questo scambio: una generazione chiede, un’altra si sente in dovere di rispondere, anche ammettendo i propri limiti. Quanto a me, provo a intervenire, anche se non è facile soddisfare un bambino perché la sua domanda ne presume tante altre. Comunque credo che, sinché i contatti della ragazzina con la realtà virtuale si limiteranno ai videogiochi, il suo corpo sarà in grado di non confondere i due ambiti. Benché i programmi siano ideati da altri, da tecnici altamente specializzati, lei può operare delle scelte, vincere, perdere, decidere di smettere, padroneggiare la situazione. La risposta quindi potrebbe anche essere: «No, tutto il mondo non è un videogioco finché tu ne resti fuori e lo controlli. Ma stai attenta, non farti incantare!».
Ciò che la fantasia infantile presagisce è il prossimo futuro, l’immersione nella sfera virtuale. La mia nipotina di anni, ad esempio, ha già provato i caschi elettronici che ci trasportano in un altro mondo. Una volta indossati, sorvoliamo le Piramidi, attraversiamo la foresta tropicale, ci troviamo nel Centro di New York, pur restando nella nostra camera. Sinora lo schermo separa i due ambiti e noi torniamo a terra. Ma sarà sempre così? La domanda della piccola resta aperta. Ascoltiamola e riflettiamo insieme. Grazie del suo intervento. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
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di Luciana Caglio
La lingua in più: a che prezzo? ◆
Si chiama «survival English» quel bagaglio di parole, ormai indispensabile nella professione, nel tempo libero, in viaggio, a ogni latitudine. È il nuovo latino, simbolo di un imperialismo che ha spostato l’epicentro: dal Mediterraneo all’Atlantico angloamericano. Volere o no, ne siamo diventati sudditi, e quindi alle prese con un idioma standard, a uso globale, accessibile grazie alle proposte di un enorme mercato ad hoc. Come dire, l’inglese, già di per sé linguaggio attuale, reso popolare da cantanti, attori, campioni sportivi, persino astronauti, insomma gente di successo, appare un obiettivo a portata di mano. Lo garantiscono scuole specializzate, corsi serali per giovani e anziani, vacanze linguistiche oltre Manica e oltre Oceano, DAD la didattica a distanza sperimentata con il covid, libri che propongono classici in versione facilita-
ta e, non da ultimo, le lezioni private che riuniscono un piccolo gruppo di allievi intorno a un insegnante scelto liberamente, sulla scorta di eventuali raccomandazioni. In proposito, sull’arco dei decenni, inseguendo l’esigenza-speranza di migliorare il mio «survival English», ho accumulato una singolare esperienza, come si suol dire, di varia umanità. Risale a oltre mezzo secolo fa, l’incontro con la mia prima maestra d’inglese: si chiamava Mrs Masotti, impersonava lo stereotipo britannico tradizionale, quando la «Swinging London» era di là da venire. Mi riceveva nella mansarda di un albergo, a Paradiso, dove campava in una dignitosa povertà, impartendo lezioni di un inglese in parte superato. Ricordo che la parola pregnancy, gravidanza, andava sostituita con delicate health. In seguito, è stata la volta di altre «miss», più aggiornate e guar-
da caso, ticinesi emigrate negli USA, dove si erano appassionate di Emily Dickinson e della scuola poetica del Massachusetts. E ci trasmisero il loro entusiasmo, durante le lezioni, che si tenevano nei locali della redazione di «Azione», nello storico edificio di via Bossi. Ultimo, nella lunga serie d’insegnanti, l’indimenticabile Norman Hewitt, l’ideatore delle stagioni luganesi di Blues to Bop. E fu lui a emanare, sia pure in tono scherzoso, un giudizio definitivo sul nostro «survival English»: «Il vero inglese è un’altra cosa. Una questione anche fonetica, e per chi non è nato sulla sponda nord della Manica, una questione di talento». Ora, ho ritrovato questo termine in un servizio, pubblicato il gennaio scorso, dal domenicale della NZZ, con un titolo esplicito: «Non dipende dal maestro». Secondo i dati raccolti da ricercatori dell’università di Fri-
borgo, a determinare successo o insuccesso nell’apprendimento di una lingua è «un dono», una predisposizione naturale, una sensibilità alle parole in quanto suoni. Certo, ai buoni risultati scolastici, in generale, contribuiscono l’ambiente familiare e sociale, i libri a disposizione, il sostegno dei genitori. Con ciò, nei confronti di un idioma straniero, interviene l’incognita di una capacità istintiva, persino irrazionale. Ripescando nel serbatoio dei ricordi, ritrovo la tipica figura del poliglotta spontaneo nel fotografo Valdemar Salomon, che lavorò per questo settimanale, negli anni /. Non era bravissimo con la Leika ma imbattibile come poliglotta. Nato in Danimarca, cresciuto a Roma, nell’ambiente diplomatico, trasferitosi con la famiglia a Lugano, parlava scorrevolmente, con l’accento giusto, i più disparati idiomi, dialetti compresi. Dopo poche settimane,
imitava alla perfezione l’accento dei nostri poliziotti. Con ciò, il plurilinguismo, invidiata prerogativa elvetica, sta subendo i contraccolpi dell’inglese che la fa da padrone nell’ambito finanziario e influisce sulle scelte degli scolari, a danno del francese. Lingua, quest’ultima, che in Ticino, durante l’era fascista, assunse connotati politici: la francofilia come simbolo di libertà. Alla stessa stregua, oltre Gottardo, lo Schwyzerdütsch s’impose come segno distintivo rispetto alla Germania nazista. Oggi, in una Svizzera babele, risuonano gli idiomi più inattesi e indecifrabili. Le autorità sono corse ai ripari: dal , la Costituzione federale sancisce l’obbligo di abbinare l’insegnamento di una lingua straniera a quello di una lingua nazionale. E c’è perfino chi rilancia la proposta del dialetto a scuola: lingua, a sua volta, straniera per molti giovani ticinesi.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 7 febbraio 2022
TEMPO LIBERO I ricchi conchiglioni Pasta con saporito ripieno a base di salsiccia, peperone e provolone, per un primo da acquolina in bocca
La terra dei bianchi fermi Più di seimila ettari vitati fanno di Soave la D.O.C. italiana con la più alta produzione di questi vini
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Il brivido del monosci
azione – Cooperativa Migros Ticino 13
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Mistra, la città fortificata Visita al sito archeologico posto in cima a una collina a cinque chilometri dalla bianca polis
Milano di fine Novecento Il ritratto appassionante e stratificato della città lombarda tra gli anni Cinquanta e Novanta
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Adrenalina ◆ Intervista a Murat Pelit, atleta paralimpico fondatore di Ti-Rex Sport, associazione che stimola le persone con disabilità motoria alla pratica di sport impensabili Moreno Invernizzi
L’adrenalina scorre a fiotti nelle vene. Né più né meno di quanta potrebbe scorrerne nelle vene dei vari Marco Odermatt o Beat Feuz lanciandosi a capofitto dalla mitica pista austriaca Streif di Kitzbühel con due sci ai piedi. Anche il monosci sa regalare le stesse emozioni e le medesime sensazioni che provano i protagonisti del Circo Bianco quando si presentano al cancelletto di partenza di una gara. E pure le velocità che si possono raggiungere, con picchi di chilometri orari, sono molto simili. «Al punto che in certe discese i tempi rilevati con il monosci sono paragonabili a quelli delle velociste di Coppa del mondo», premette Murat Pelit, atleta paralimpico che da diversi anni rappresenta il Ticino e la Svizzera in Coppa del mondo e pure alle principali manifestazioni internazionali.
re il maggior numero di persone con disabilità motoria alla pratica di sport impensabili. Complessivamente, in tre anni, tra sport estivi e sport invernali, dalla nostra associazione saranno passate duecento persone circa».
Non c’è differenza tra sci classico e monosci, all’origine di una caduta c’è sempre un errore di impostazione o simile
Murat Pelit è il primo e finora unico ticinese ad aver calcato le piste di Coppa del Mondo e delle Paralimpiadi nel monosci «Ovviamente le alte velocità non sono per tutti, ma quando sai padroneggiare l’attrezzo, puoi veramente provare lo stesso brivido dei discesisti “normali”. Il vento gelido che ti sbatte in faccia quando ti butti in un canalone ti fa gelare il sangue nelle vene… In gara, nel circuito di Coppa del mondo, ho già raggiunto i - km/h». Le barriere, quelle fisiche, sono quelle che spesso ci poniamo noi. Soprattutto nel pensare. Perché con un po’ d’ingegno e la classica «voglia di fare» all’atto pratico queste barriere possono essere aggirate, o perlomeno appiattite, fino a rappresentare un’alternativa, altrettanto valida, per gustarsi fino in fondo quanto la vita ha da offrire. Lo sanno bene le persone con disabilità, che quotidianamente sono confrontate con tutta una serie di sfide, ma che al tempo stesso riescono a godere delle medesime sensazioni che una persona «normale» può provare. Ciò vale per la vita di tutti i giorni, ma anche, e soprattutto, quando si parla di sport. E Murat, in questo senso, è una sorta di esempio vivente. Dalla malattia, un raro condosarcoma diagnosticatogli a anni che l’ha reso paraplegico, ha saputo risollevarsi, fino a raggiungere un apice sportivo per certi versi inaspettato e che in molti credevano a lui precluso. «L’andicap non deve appunto rappresentare un ostacolo, ma lo spunto per trovare una soluzione alternativa», sottolinea l’oggi enne momò, che lungo questo percorso alternativo
Murat Pelit ai freschissimi Mondiali di Lillehammer. (Swissparalympic.ch)
si è già tolto diverse importanti soddisfazioni a livello internazionale: «In carriera, di podi in Coppa del mondo ne ho già centrati parecchi. Nel ho partecipato alle Paralimpiadi di Pyeongchang, in Corea del Sud: già il fatto di essere stato selezionato è stato un bel successo!». L’apice sportivo, in fatto di risultati, l’ha però toccato nella stagione /, con il secondo posto nella classifica finale di Coppa del mondo di superG, il terzo in discesa e il quinto nella generale, «piazzamenti che purtroppo non sono riuscito a difendere la passata stagione visto che
cadendo col monosci ho riportato la parziale rottura del bacino, cosa che mi ha tenuto lontano dalle gare. L’incidente si è verificato in una gara di Coppa del mondo, in Russia, atterrando sul piano dopo un salto piuttosto lungo; un punto in cui del resto diversi altri atleti hanno avuto problemi». Il monosci è dunque da considerare uno sport pericoloso? «Tanto quanto lo sci classico: all’origine di una caduta generalmente c’è sempre un errore di impostazione o qualcosa di simile. Chi pratica il monosci non deve mettere a preventivo più ri-
schi, ma deve prestare sempre la massima attenzione e cura nei dettagli, specie quando viaggia ad alte velocità: etichettarlo come pericoloso non sarebbe veritiero, ma, come in tutti gli sport, quando si superano determinati limiti, ogni dettaglio viene amplificato». Parallelamente alla sua attività agonistica, Murat (primo e finora unico ticinese ad aver calcato le piste di Coppa del Mondo e quelle delle Paralimpiadi nel monosci) nel dicembre ha fondato Ti-Rex Sport, associazione che, come recita il suo slogan, si premura di stimola-
Tra la gamma delle attività proposte, al capitolo sport invernali, ci sono appunto monosci e dualsci (in collaborazione con la Scuola svizzera di sci di Lugano, che dispone di monitori appositamente formati). «Il primo, apparecchio a seduta ammortizzata, è generalmente impiegato da persone che riescono a sciare in modo autonomo. Le prime volte sulle piste ci si va accompagnati da un maestro a cui si è assicurati mediante una corda. Il dualsci è invece già un po’ più dedicato, e di norma è rivolto alle persone che a causa della loro disabilità non sono in grado di poter sciare in modo indipendente. La struttura, numero di sci a parte, è simile, con una seduta, ma in più c’è la barra di pilotaggio che viene utilizzata dall’accompagnatore per guidare la discesa. Quando ci si trova seduti sugli sci, anziché in piedi, c’è qualche timore in più, specie per i contraccolpi che si ricevono affrontando i dossi, soprattutto in gara. Qui non ci sono le ginocchia ad ammortizzare le irregolarità del terreno, ma si salta: in discesa, di balzi se ne fanno anche di molto lunghi, fino a - metri, che sono grossomodo le distanze raggiunte dalle sciatrici in Coppa del mondo. Ma, appunto, questo è un discorso che concerne solo chi questo sport lo pratica a un livello competitivo: in generale, i “rischi” sono contenuti, praticamente i medesimi che deve mettere in conto chi pratica lo sci alpino classico». Dove si pratica il monosci alle nostre latitudini? «Non c’è differenziazione tra sci classico e monosci, per cui lo si può praticare su tutte le piste. In questi anni, anche con l’associazione, abbiamo però stabilito un’ottima collaborazione con i gestori degli impianti di Airolo, dove sono pronti e preparati in modo specifico per ricevere una persona disabile». Nel contesto storico, il monosci ha fatto la sua prima apparizione oltre mezzo secolo fa. «Del resto, lo sci è stata una delle prime discipline inserite nel palinsesto delle Paralimpiadi invernali. Poi, chiaramente, col tempo l’evoluzione del monosci ha fatto passi da gigante, diventando ancora più performante».
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azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO
Ricetta della settimana - Conchiglioni gratinati ●
Ingredienti
Preparazione
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Per 4 persone
1. Scaldate il forno a 180 °C. Intanto, tagliate il peperone a dadini. Incidete la pelle delle salsicce ed eliminatela, poi spezzettate la carne delle salsicce. Tritate la cipolla.
I membri del club Migusto ricevono gratuitamente la nuova rivista di cucina della Migros pubblicata dieci volte l’anno. migusto.migros.ch
1 peperone, ad es. verde 3 salsicce ticinesi di 180 g ciascuna 1 cipolla 4 c d’olio d’oliva 1 mazzetto d’origano 120 g di provolone 350 g di conchiglioni sale 4 dl di salsa di pomodoro
2. Scaldate l’olio in una padella ampia e rosolate la carne delle salsicce, il peperone e la cipolla per 10 minuti circa a fuoco medio. 3. Trasferite in una scodella e aggiungete la metà delle foglioline di origano. 4. Grattugiate il provolone a scaglie grosse e mescolatelo con la carne. 5. Nel frattempo, lessate la pasta in abbondante acqua salata. Scolatela al dente e lasciate sgocciolare. Riempite i conchiglioni con la farcia di salsiccia aiutandovi con un cucchiaio. 6. Versate la salsa di pomodoro in una pirofila e disponete i conchiglioni ripieni sulla salsa. Gratinate al centro del forno per circa 20 minuti. Guarnite la pasta con il resto dell’origano e servite. Se vi avanzasse un po’ di ripieno, mescolatelo con la salsa di pomodoro. Preparazione: circa 30 minuti. Cottura in forno: circa 20 minuti. Per persona: circa 46 g di proteine, 44 g di grassi, 73 g di carboidrati, 870 kcal /3650 kJ.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 7 febbraio 2022
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azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO
Da Soave ai Colli Euganei Bacco giramondo del Veneto
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PRO SENECTUTE
informa
Prosegue il viaggio enogastronomico nella regione
Davide Comoli
Ripresa attività sportive e corsi di formazione e cultura
I vigneti di Soave. (Alessandro Pighi)
A gennaio sono riprese le attività sportive di alcuni gruppi nel Cantone, rispettando le disposizioni delle autorità federali. – Per le attività che si svolgono in spazi al chiuso (ginnastica in palestra, ginnastica dolce, danze popolari) l’accesso è consentito unicamente con «certificato 2G», al quale si aggiunge l’obbligo di indossare la mascherina. – Le attività all’aperto (ginnastica presso i Fitness Park e Nordic Walking) sono già iniziate il 10.01.2022. ma, spumante e passito. Noi abbiamo avuto la fortuna di poter gustare anche il Vin Santo di Gambellara, prodotto solo nelle annate migliori, dopo aver goduto del bianco locale con il classico «Riso e bisi». Ritorniamo sulla SR, attraversiamo Montecchio, dove dai due castelli intitolati a Romeo e Giulietta, si ha una bella vista sulla pianura e su Vicenza. Dopo qualche km, svoltando a sinistra, prendiamo la in direzione Thiene e poco prima del grosso centro manifatturiero svoltiamo a destra in direzione di Breganze. La zona della D.O.C. Breganze è situata su un’area collinare con dei tratti pianeggianti, tra i fiumi Astico e Brenta, favorita da un clima mite, dove crescono anche gli olivi. Molto diversi sono i terreni che troviamo in quest’area, infatti i suoli sono vulcanici-calcarei, di colore giallo-biancastro, fertili, compatti e ricchi di ghiaia lungo il corso dei due fiumi. In questa zona i vitigni internazionali hanno trovato un luogo ideale per la loro maturazione. Oltre a questi, sui ettari vitati, troviamo il Bianco Friulano, i rossi locali come il Marzemino, il Gruaja, il Pedevenda e il Groppello. Ma il vero gioiello della D.O.C. Breganze è il vitigno Vespaiola. Da notare che vitigni con il nome simile li ritroviamo anche in altre parti d’Italia e si possono accomunare per la predilezione delle vespe, dovuta alla ricchezza di zuccheri propria del frutto. Da questo vitigno si ottiene il Vespaiolo, un bianco molto indicato con le preparazioni a base di asparagi, ma soprattutto, elaborato con i grappoli più spargoli, letteralmente attorcigliati a coppie di lunghe fila di spaghi (localmente chiamati torcolati), lasciati appassire, appesi alle travi delle soffitte e vinificati il febbraio successivo alla vendemmia. Il Torcolato è invece il vino immagine di questa zona. Dal colore ambrato, ricco di sentori di frutta candita, rose appassite, fiori d’arancio, uva passa e miele speziato, è un vino ricco che non finisce di stupirci, lungo sia all’olfatto sia al gusto. I vini rossi di prestigio in questa zona sono prodotti con le internazionali uve Merlot e Cabernet, vinificati sia come monovitigno, sia in «blend», che non hanno niente da invidiare ai «cru» bordolesi. Degno di nota è pure il Pinot Nero (la zona vanta una delle superfici più coltivata a questo vitigno della penisola), che con le sue note di fragoline di bosco e lamponi, è stato l’ottimo compagno dei «Torresani allo spiedo» (piccioni cotti al fuoco di legna), gustati alla sera a cena a cui hanno fatto seguito le ciliegie sotto grappa della non lontana Marostica.
Ritornando verso Thiene abbiamo preso la S direzione Vicenza e quindi la S. A sud di Vicenza si estende un paesaggio modellato dai Colli Berici, caratterizzato da un alternarsi di pianura e colline immerse nei vigneti: qui sorgono alcune tra le più belle ville del Palladio. Dal punto di vista vinicolo la zona è la patria della D.O.C. Colli Berici, dove vengono coltivati oltre ai soliti «internazionali» la Garganega e il Manzoni Bianco (Riesling Renano x Pinot Bianco) e il Tai Rosso, che degusteremo dopo aver visitato la stupenda Villa Valmarana ai Nani, immersa tra le vigne e aver goduto, «gioia per gli occhi», lo straordinario ciclo di affreschi di Giovan Battista e Giandomenico Tiepolo e subito dopo una delle migliori opere del Palladio: la Rotonda di Villa Almerico Capra. Dopo aver nutrito lo spirito, passati per Castegnero, procediamo verso Nanto, lungo la Strada del Tocai Rosso, ci immettiamo di nuovo sulla S e dopo un paio di chilometri giriamo a destra, dove situato sulle pendici orientali dei Monti Berici arriviamo a Barbarano Vicentino, comune di tradizione vinicola, dove si coltiva il vitigno simbolo della zona, il Tai Rosso, che in questo luogo prende il nome di Barbarano. I vari formaggi e salumi locali, tra cui il prosciutto crudo Veneto Berico-Euganeo, sono i degni compari dello spuntino che esaltano i fragranti ricordi di ciliegia e viole ritrovati nel nostro Tai Rosso. A Ponte di Barbarano si gira a destra e si entra in provincia di Padova, siamo nella zona dei Colli Euganei, famosi per le terme, ma pure per i vini. Isolati sia dalle Prealpi sia dai Monti Berici, i Colli Euganei con un’altezza massima di m, si trovano a sud di Padova. Siamo a Rovolon, da cui si gode un magnifico panorama su Abano Terme e la pianura sottostante. L’ottima esposizione e le rocce sedimentarie marine rendono possibile la coltivazione di numerosi vitigni e la conseguente produzione di molti vini diversi, da bersi giovani. Amici di lunga data ci hanno accolto al Montegrande di Rovolon. Un floreale Pinello (l’autoctono Pinella) ha aperto le danze, il Serprino Frizzante (Glera) ha accompagnato una «torta salata alle erbette», il Manzoni Bianco è stato il compare delle «seppie al tegame», il Rosso Gemola (Merlot %, Cabernet Franc %), caldo, balsamico con ricordi di resina, sposo del «fegato alla veneta con cipolle bianche», il famoso Moscato Fior d’Arancio D.O.C.G., dagli avvolgenti profumi di zagara, l’ideale partner della «Tarte Tatin».
– I corsi di Yoga, Pilates, rinforzo muscolare e ginnastica per la schiena riprendono (con un minimo di iscritti) da fine gennaio. Possono partecipare solo persone vaccinate ed è obbligatoria la mascherina. Tutte le attività che si svolgono in un ambiente chiuso sono dirette da personale vaccinato. – Aperte le iscrizioni anche per i corsi sul Docupass (direttive anticipate) in tutto il Cantone.
Fatture QR Pro Senectute sensibilizza la popolazione a questo importante cambiamento, che sarà definitivo dal 1° ottobre 2022. – Sul sito www.prosenectute.ch/it/polizza-di-versamento é possibile trovare tutte le informazioni, risposte a domande frequenti e un video di spiegazione. In Ticino, in collaborazione con La Posta (e Postfinance) e GenerazionePiù verranno organizzate delle conferenze nei maggiori centri del Cantone a partire da marzo.
Contatto: Pro Senectute Ticino e Moesano Via Vanoni 8/10, 6904 Lugano Tel. 091 912 17 17 – info@prosenectute.org Le nostre sedi regionali si trovano anche a: Balerna, Bellinzona, Biasca e Muralto www.prosenectute.org Seguiteci anche su Facebook
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Sul numero del gennaio , giunti con il nostro viaggio tra le regioni vitivinicole italiane nel Veneto, avevamo concluso la giornata a Pescantina. Lasciandoci alle spalle Verona, imbocchiamo la SR. Superato San Martino Buon Albergo, nota località termale, arriviamo a Soave, cinta da turrite mura medievali, dalla cui Rocca lo sguardo spazia sulle circostanti colline ricoperte da una fitta selva di vigne. Sono ben più di seimila gli ettari vitati che fanno di Soave la D.O.C. italiana con la più alta produzione di vini bianchi fermi. L’importante Cantina Sociale ci ospita per una visita. Qui, sui rilievi collinari delle valli d’Alpone, del Tramigna, dell’Illasi e di Mezzane, il vitigno Garganega ha trovato l’habitat ideale per la produzione di grandi vini bianchi: le radici di questo vitigno traggono infatti nutrimento da suoli di origine vulcanica, ricchi di calcare e fossili marini. Appena aperto al naso è leggermente chiuso, il nostro Soave Classico ricorda lo zolfo, ma subito dopo ci dona un’esplosione di fiori di campo e si percepisce in modo chiaro la mela renetta. Diverso è il Soave Superiore D.O.C.G., che oltre alla Garganega %, contiene una parte di Trebbiano Veronese, che dona struttura, e Chardonnay con profumi di frutta tropicale e note di ginestra dal lungo finale. I biscotti secchi appena sfornati fanno da corona a un vero principe: il Recioto del Soave, ottenuto da grappoli fatti appassire sui graticci o appesi ai fili (picai); dal colore dorato, è un concentrato di frutta disidratata e miele, dolce e vellutato, emana poi note di fiori d’arancio e l’inconfondibile finale di mandorle. Ci dirigiamo verso nord, attraversiamo Monteforte d’Alpone risalendo l’omonima valle tra vigne e frutteti, svoltiamo a destra e arriviamo a Roncà, situata su un antico cono vulcanico, della parte più orientale dei Monti Lessini, ma la nostra meta è il vicino borgo di Santa Margherita, famosa per il suo vino bianco Durello, prodotto con % dell’autoctona uva Durella e il restante % di Pinot Bianco. Lo Spumante Lessini Durello D.O.C. è stato un aperitivo molto apprezzato, soprattutto per la sua mineralità che svela la natura vulcanica del «terroir». Lasciamo la provincia di Verona ed entriamo in territorio vicentino. La distanza dalla zona del Soave è minima e la liaison tra le due zone è data dal vitigno Garganega, che però in questa zona matura su terreni calcarei-argillosi. A Gambellara questo vitigno è senz’altro il simbolo del territorio: viene prodotto in versione fer-
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 7 febbraio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO
Giganti in salotto Mondoverde
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Terra e verità
Un visibile narrare ◆ Flannery O’Connor
Il tocco tropicale di sempreverdi da città
Anita Negretti
Manuela Mazzi
Si sa che per rendere più accogliente un’abitazione nulla è più adatto di una bella pianta in grado di donare grazia e di suggestionare gli ospiti facendoli accomodare in un ambiente colorato. Se lo spazio lo permette, si può osare con alcune specie particolari, che si faranno immediatamente notare per le enormi foglie: una soluzione in grado di regalare quel tocco tropicale anche in città. Regina indiscussa di questo gruppo di piante è senz’altro la sempreverde Monstera deliciosa, con fogliolone in grado di superare i cinquanta centimetri di lunghezza, color verde scuro. Originaria del centro America, è semplice da coltivare: ha una crescita rapida, raggiunge i due metri sviluppandosi su un palo tutore muschiato ed è l’ideale per le stanze con i soffitti alti; ovviamente può essere potata nel caso diventasse eccessivamente ingombrante. Le foglie più giovani della Monstera, chiamata anche filodendro (con il rischio di confonderla con i veri Philodendron!), sono cuoriformi e solo in seguito, crescendo, si frastagliano dall’interno. Questa strategia di auto crearsi dei fori nelle foglie è molto utilizzata nelle piante tropicali nei loro luoghi di origine, così facendo riescono a sopportare meglio le forti piogge torrenziali. In casa mia ospito un esemplare di Alocasia macrorrhizos, da molti conosciuta con il simpatico nome di «orecchio d’elefante»: si tratta di una pianta asiatica, anch’essa molto semplice da tenere, e in grado di produrre rizomi facilmente divisibili, per ottenere nuove piante. Avevo infatti ricevuto in regalo una porzione di radice, lunga non più
Un esemplare in natura di una bella Monstera deliciosa. (Smatu)
di venti centimetri: prontamente interrata e tenuta umida, dopo poche settimane sono comparse le prime foglie e ora, dopo poco più di cinque anni, la mia Alocasia vive in un grande vaso accanto al camino, regalandomi foglie verdi brillante lunghe cinquanta-sessanta centimetri, provviste di un lungo stelo carnoso, in grado di superare il metro di altezza. Ho recentemente scoperto che vi è un’altra pianta che condivide con l’Alocasia il soprannome di «orecchio d’elefante»: si tratta di Kalanchoe beharensis, una succulenta del Madagascar che, come le altre piante sopra descritte, va coltivata in vaso poiché deve esser ritirata in casa durante l’autunno e per tutto l’inverno.
Presenta grandi foglie triangolari, color grigio, lunghe una quindicina di centimetri e dotate di piccoli peli che donano alla pianta un aspetto vellutato, argenteo e un poco marziano. Questa Kalanchoe non raggiunge dimensioni proibitive per chi ha appartamenti non troppo spaziosi: arriva infatti all’altezza massima di sessanta centimetri e ha il pregio di riuscire a fiorire in primavera, tra marzo e aprile, con boccioli dai petali gialli all’esterno e viola all’interno. Tutte queste piante hanno necessità minime: vanno tenute in casa nei mesi freddi, lontano dalle correnti d’aria e, se possibile, all’esterno ma all’ombra in estate, questo per permettere loro di beneficiare delle piog-
ge estive che laveranno le larghe foglie dalla polvere, ridonando a queste un colore brillante. Le bagnature dovranno essere settimanali e proporzionate al contenitore, per evitare ristagni d’acqua nel sottovaso, mentre le concimazioni sono da eseguirsi con un prodotto liquido per piante verdi (andrà diluito nell’acqua ogni due settimane). Raramente vengono attaccate da insetti o funghi, ma bisogna prestare attenzione alla cocciniglia, un parassita animale che si annida nella pagina inferiore delle foglie o lungo i piccioli e si presenta come piccoli batuffoli di cotone. Per eliminarla si potrà utilizzare uno straccio imbevuto di alcool o un prodotto antiparassitario specifico.
La carica degli Anagr-Anni Giochi di parole
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Un divertimento per celebrare il neo arrivato duemilaventidue
Ennio Peres
Come scomporre il Duemila – Ventidue? (Pixabay.com)
Qui di seguito, riporto la poesia anagrammatica appena scodellala (fresca di… annata). L’anno duemilaventidue è arrivato (Prima quartina – Il Passato) Ieri, avuta l’onta d’un demone virale, il Mondo vedeva lutti e un’aria nera; ardeva, in età, l’iter di un nuovo male e un volo derideva l’Umanità intera! (Seconda quartina – Il Presente) Enumerava dolori avuti dal niente: adunava tante noie, il lurido verme! Nell’Era, Dio udiva una Vita morente; Lui avvide tuonare l’ondata, inerme…
(Terza quartina – Il Futuro) E un odio rimanda avventure letali? L’invertano melodie d’un’aurea Vita! Un Domani va e inoltra vedute reali; lì, nel Mondo, una Verità vera è udita? Per darvi un piccolo assaggio della mia passata produzione e, al tempo
stesso, proporvi un gioco da eseguire, vi sottopongo un elenco di sedici versi, tratti dalle poesie relative ad altrettanti diversi anni. Cercate di individuare a quali si riferiscono. . Attenti: l’evento contò molto! – . Avvolto in comete, l’anno venne. – . Data nuovi deliri, il coreano matto… – . Dolci, vini, danari, salute e Amore! – . E, da martedì uno in là, l’Euro va. – . Indi, ora decolli un’Umanità vera! – . L’anno conta, mentre lo vivete! – . L’evento va colto intensamente. – . L’ora è data! Entra il nuovo mito? – . La Vita dà lume a nordici e terroni! – . Lo so, la Vita è un mare d’Eternità. – . Ora, tra litri d’acqua, il Domani è venuto. – . Qua, l’anno vince: è molto vincente! – . Quante volte l’anno mi trova con te! – . Qui, al via, rientrano domani di Luce. – . Torni la Vita d’un Amore reale!
Soluzione . () Millenovecentoottantotto – . () Millenovecentonovantanove – . () L’anno duemiladiciotto è arrivato – . () L’anno duemilasedici è arrivato – . () L’anno duemiladue è arrivato – . () L’anno duemilaundici è arrivato – . () Millenovecentonovantatré – . () Millenovecentonovantasette – . () L’anno duemilaotto è arrivato – . () L’anno duemilatredici è arrivato – . () L’anno duemilasette è arrivato – . () L’anno duemilaquattordici è arrivato – . () Millenovecentonovantacinque – . () Millenovecentonovantaquattro! – . () L’anno duemilaquindici è arrivato – . () L’anno duemilatré è arrivato.
Le maggiori soddisfazioni, nell’ambito delle composizioni anagrammatiche, le ho cominciate a ottenere quando mi è venuto in mente di celebrare l’arrivo di un nuovo anno con una poesia, ogni cui verso contenesse tutte le lettere del suo nome (italiano). Dopo alcuni primi tentativi (a versi scombinati e senza rime) effettuati verso la fine degli anni Ottanta, ho iniziato a realizzare questi Anagr-Anni, con un più valido criterio, dal . Fino al , ho goduto di una discreta libertà di azione, in quanto tutti i nomi da prendere in considerazione contenevano una consistente quantità di lettere. A partire dall’anno , però, avendo a disposizione nomi notevolmente più corti, sono dovuto ricorrere ad alcuni espedienti, per riuscire a ottenere dei risultati analoghi ai precedenti. Ma, dal in poi, anche per impormi un vincolo stilistico, ho deciso di utilizzare costantemente questa formula: «L’anno X è arrivato», inserendo ogni volta al posto della X, il nome dell’anno in oggetto. Ho scelto anche di creare sempre dei componimenti di tre quartine rimate. Per tacita convenzione, in linea di massima, la prima di queste allude al passato; la seconda allude al presente; la terza allude al futuro.
«Un buon racconto è letterale come è letterale il disegno di un bambino», così scrive Flannery O’Connor nel suo libriccino intitolato Nel territorio del diavolo – Sul mistero di scrivere (Minimum Fax). La scrittrice statunitense che visse tra il e il , è ancora oggi ritenuta da molti una «maestra di scrittura» e non a caso questa sua raccolta di testi è considerata alla stregua di un «manuale» per chi si diletta nell’arte del racconto e cerca insegnamenti utili per migliorarsi. È una raccolta di riflessioni e trascrizioni di incontri sul tema della scrittura tenuti dall’autrice negli anni Cinquanta-Sessanta. La prima parte – su natura, scopo della narrativa e sui racconti – è molto interessante, forse più tecnica o meno profilata (nata a Savannah nello Stato della Georgia, O’Connor fu dichiaratamente una scrittrice cattolica). Eppure, a noi che lo abbiamo già goduto, ha toccato di più la seconda parte, perché indaga la sua doppia matrice: donna del Sud e per l’appunto cattolica convinta. In queste altre pagine, l’autrice dedica molta passione a elogiare la ricchezza di storie della sua terra, che non va persa, e a mostrare il senso, la natura, la possibile espressione, il valore, lo scopo primo di una scrittura (o di una fotografia) che può fare da modello grazie a una visione universale, comprensibile e soprattutto condivisibile. E contiene, per questo, passaggi molto istruttivi, che fanno riflettere sulle scelte tematiche che un narratore, foss’anche in erba, è tenuto a fare. A tal proposito è utile la sezione dedicata ai commenti che fa sui suoi racconti; qui spiega molto bene le scelte fatte da lei. Va a fondo anche quando dice che non è utile farlo. A costo di contraddirsi. Centrale è la manifestazione della grazia in contrapposizione al peccato, al diavolo… (da cui il titolo del libretto). Non è un discorso facile quello che fa, e vale la pena rileggere più volte, magari fermandosi a riflettere su quel che dice, ad esempio, quando afferma che: «Il romanziere cattolico crede che il peccato distrugga la libertà; il lettore moderno (…) che sia quello il modo di ottenerla». Parla di «grazia» quindi, ma anche di «verità». Tra le domande che ci si pone infine ve n’è una su tutte: si narra (o illustra) per mettersi in mostra?, o per raccontare ciò che la O’Connor chiama in un certo qual modo «verità»? Per lei contava molto di più la storia, perché risponde – se non ci inganniamo – allo scopo originario del narrare. A ognuno le proprie riflessioni. Bibliografia Flannery O’Connor, Nel territorio del diavolo – Sul mistero di scrivere, Minimum Fax.
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TEMPO LIBERO
Una «perfetta» città fortificata Reportage
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Costruita su un’altura ripida, Mistra fu fondata in Grecia nel 1249 dal principe franco Guglielmo II di Villehardouin
Simona Dalla Valle, testo e foto
Percorrendo la E in direzione sud lo sguardo si perde sulle cime della catena del Taigeto, che domina il paesaggio e offre un’alternativa bucolica al cemento, la cui quantità aumenta in misura proporzionale all’aumento della vicinanza a Sparta. Snobbata dai turisti, la città greca sembra perennemente congestionata dal traffico di automobili e motorini che si muovono pigramente nelle strade ortogonali. Circondati da edifici chiari, i sensi di marcia sono separati da aiuole decorate con palme e cespugli. L’improvvisa ondata di calore sembra rendere il traffico ancora più aggressivo. I pochi forestieri a Sparta sono qui non tanto per visitare la città dominata dalla statua di Leonida I, quanto per una visita al sito archeologico di Mistra, costruito in cima a una collina a cinque chilometri dalla bianca polis.
Il bisogno di sicurezza era un fattore decisivo per la costruzione di una città fortificata, non solo in epoca bizantina; per questo motivo, i luoghi che beneficiavano di una protezione naturale erano preferiti. Un’altra necessità era la disponibilità di acqua dolce, oltre che di pietra e legname per la costruzione, così come la vicinanza di terre fertili e coltivabili. Costruita su un’altura ripida che offriva una protezione naturale, la città fortificata di Mistra, fondata nel dal principe franco Guglielmo II di Villehardouin, soddisfaceva tutti i requisiti. L’acqua dolce era assicurata dalla presenza di sorgenti naturali e da piogge frequenti. Il vicino monte Taigeto forniva le materie prime per la costruzione, con varietà di pietre e legname, e anche le
Il sito archeologico di Mistra è stato incluso nella lista Unesco dei monumenti del patrimonio culturale mondiale dal . Il piano urbanistico dell’insediamento e l’architettura del castello franco, il palazzo bizantino, le case e le chiese, con i loro importanti dipinti, ne fanno una fonte inestimabile per lo studio della cultura medievale di Bisanzio e dell’Europa in generale. La disposizione dello spazio nelle città fortificate bizantine seguiva un piano di base a tre sezioni. L’acropoli in cima alla collina, insieme a due linee successive di difesa più in basso, dividevano il sito in città superiore e inferiore. Ogni spazio disponibile nella città murata era occupato da case, dando un’impressione generale di casualità. Per la maggior parte, le grandi città della tarda antichità tra il IV e il VI secolo si attenevano al sistema romano di due strade principali che portavano da una porta all’altra, incrociandosi nel centro della città, con tutte le altre strade in parallelo a esse. Nelle città fortificate bizantine la conformazione del terreno rendeva impossibile aderire strettamente a questo piano geometrico di strade. L’arteria principale della città era detta «strada reale», «dispotica» o «di mezzo». Intorno a essa si sviluppò una rete di strade secondarie e vicoli di larghezza irregolare e spesso disordinati, labirintici o senza uscita. A differenza delle strade carrabili paleocristiane, le strade delle città fortificate, ancora oggi note come καλντερίμια (strade acciottolate), rendevano difficoltoso il passaggio dei veicoli a ruote. I regolamenti edilizi bizantini prevedevano la semplicità di movimento all’interno della città fortificata. Una delle clausole era che al piano terra di tutti gli edifici vi fosse una zona adibita alla libera circolazione del pubblico. Gli accessi di questo tipo erano chiamati διαβατικά (passaggi), δρομικές (vicoli) o δημόσιες καμάρες (portici pubblici). Per facilitare il movimento delle persone lungo le strade strette, tortuose e acciottolate, era pratica comune tagliare gli spigoli delle sezioni inferiori degli edifici: un arguto stratagemma che rendeva la strada più larga.
Vista sulla città bassa dall’acropoli. Si vedono la cattedrale di Agios Dimitrios e il Palazzo del Despota. Sotto a sinistra, Mistra bassa: vista sulla cattedrale di Agios Dimitrios (San Demetrio). A destra, Le mura esterne del Castello di Villehardouin.
rovine della Sparta medievale erano una fonte di materiali da costruzione. La fertile valle del fiume Evrotas, sulla quale si affacciava il castello, forniva alla città prodotti agricoli e bestiame. Una volta assicurata la presenza di acqua, bisognava poterla distribuire. Per trasportarla fino alla città e smistarla in ogni quartiere era necessaria la costruzione di un sistema di acquedotti e cisterne per lo stoccaggio dell’acqua piovana. Costruita su un punto alto della città di Mistra, la cisterna di Santa Sofia era una delle più grandi della città fortificata. Altre cisterne più piccole, di proprietà privata, furono costruite nel seminterrato delle case. I tubi sotterranei in terracotta tuttora visibili in alcune strade di Mistra facevano parte di una rete
di approvvigionamento idrico la cui estensione rimane sconosciuta. Le prime città dell’impero bizantino furono costruite su un terreno pianeggiante, di solito sul sito di quelle più antiche, mentre le città costruite dopo il VII secolo furono fortificate secondo i principi delle tecniche di fortificazione greco-romane. Situata sul punto più alto della città, l’acropoli era il centro delle fortificazioni, e le porte scavate nelle mura permettevano il movimento di persone e merci tra la città e l’area circostante. La sicurezza richiedeva che vi fosse un numero ridotto di porte, di solito di grandezza limitata in modo da impedire il passaggio di molti soldati in caso di assedio. Le porte erano considerate uno dei punti più vul-
nerabili delle fortificazioni, ed erano dunque rinforzate da una (sopra) o due torri (ai fianchi), predisposte all’uso di macchinari come la catapulta o la ballista. L’acropoli della città fortificata bizantina era l’ultima linea di difesa contro gli attacchi nemici. Qui si trovava il posto di comando della guardia, così come la residenza del capo delle forze armate e il quartier generale della guarnigione. Gruppi più piccoli di soldati erano dislocati anche in altri punti della città. Per l’intera durata del Despotato, le truppe erano composte principalmente da mercenari stranieri, per lo più turchi, latini o albanesi mentre, all’apice di Bisanzio, l’esercito era solitamente composto dalla popolazione dell’impero stesso.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 7 febbraio 2022
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azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO
La Milano di ieri Itinerari di carta
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Storie, luoghi e personaggi di una città che non c’è più, nel nuovo libro di Alberto Saibene
Manuel Rossello
«È Milano quel paese / tutto pien di ragionieri, / messi a guardia dei forzieri / dove stanno i panettòn». La filastrocca di Paolo De Benedetti è ludica, ma coglie con arguzia alcune peculiarità milanesi: lo sviluppo tecnico-industriale, il primato finanziario e le eccellenze gastronomiche. È lunghissimo l’elenco di testi (da citare almeno il medievale De Magnalibus urbis Mediolani di Bonvesin, l’intimo Ascolto il tuo cuore, città di Alberto Savinio, l’ormai classico Milano in mano di Guido Lopez, fino al recente e impietoso Le rovine di Milano di Giovanni Agosti) che si cimentano nell’impresa pressoché impossibile di raccontare il capoluogo lombardo. E forse è proprio la mancanza di un disegno unitario che rende affascinante il libro di Alberto Saibene da poco uscito presso Casagrande (Milano fine Novecento. Storie, luoghi e personaggi di una città che non c’è più): un calibrato assemblaggio di testi (disiecta membra, le definisce l’autore) compongono un ritratto appassionante e stratificato della città tra gli anni Cinquanta e Novanta del ventesimo secolo (Saibene, partecipe della vita culturale ed editoriale della città, ha conosciuto non pochi dei protagonisti). La Milano di quei decenni fu davvero una vorticosa fucina di episodi, riviste, movimenti, tendenze, creatività, stili… insomma di cultura. Non che non lo pensassi, ma il libro di
Saibene è così ricco di informazioni e personaggi che anche chi, come chi scrive, si piccava di essere un discreto conoscitore della metropoli, deve fare ammenda e riconoscere la competenza considerevole riversata sulla pagina con scrittura avvincente (illuminanti le pagine su Giancarlo Iliprandi, una figura ancora tutta da scoprire). La Milano di quegli anni era una città effervescente, in cui il design si chiamava ancora grafica e decorazione, in cui l’apporto di innumerevoli «immigrati» milanesizzati (il pugliese Celentano, i triestini Strehler e Dorfles sono esempi emblematici) fu il lievito che la trasformò in una metropoli. E i cui sindaci (Greppi, Bucalossi, Aniasi) erano personaggi autorevoli, non le «figure di cartone» di oggi. Dopo le distruzioni della guerra si respirava un’aria carica di entusiasmi e astratti furori. Il Piccolo Teatro acquisì una risonanza europea con i suoi cicli brechtiani; Brera era un calderone, con gli allievi dell’Accademia che dopo le lezioni si ritrovavano al bar Giamaica per cambiare il mondo tra fiumi di Barbera. Ma vanno citati almeno due altri luoghi che hanno fecondato la modernità milanese: la Fiera Campionaria, destinata a diventare il principale Salone del mobile a livello mondiale, e la Rinascente, che con il suo Ufficio Stile fu l’incubatrice di molte futu-
Milano, Piazza del Duomo nel marzo del 1984. (Chaim Revier)
re star della pittura, del design, della fotografia, della moda, della scenografia e dell’architettura (negli anni vi collaborarono Gio Ponti, Marcello Dudovich, Massimo Campigli, Max Huber, Albe Steiner, Bruno Munari, Helmut Newton, Giancarlo Iliprandi, Mario Bellini, Bob Noorda, Ugo Mulas, Oliviero Toscani… un gruppo formidabile che contribuì a formare l’Italian Style). Si dice che per scoprire le bellezze di Milano bisogna scavare sotto il suo grigiore apparente. Ciò è vero anzitutto per una ragione geologica: nel terreno paludoso in cui è sorta Me-
Giochi e passatempi Cruciverba
La sindrome di Cotard è una singolare patologia per la quale... Termina la frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 2, 2, 11, 2, 6, 5)
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23. Articolo spagnolo 24. L’inizio del Risorgimento 25. Matilde per gli amici 27. Vendono svariate merci 28. Lo amò Cibele VERTICALI 1. Cellule destinate alla riproduzione agamica 2. Se è caldo è fresco 3. Isola in Francia 4. Le iniziali del politico Alemanno 5. Stato dell’Africa
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Bibliografia Alberto Saibene, Milano fine Novecento. Storie, luoghi e personaggi di una città che non c’è più, Bellinzona, Casagrande, 2021.
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ORIZZONTALI 1. Si mietono 6. Parte terminale del remo 7. Le iniziali del Carducci 9. Primo cardinale inglese 10. Si incrocia in città 11. Il vertice della nobiltà 12. Conosciuti 13. Appagate, soddisfatte 17. Calcolo aritmetico 18. Meraviglioso giardino 19. L’attore Abatantuono 20. Uomini inglesi 21. Universo, spazio siderale
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diolanum non c’è un sasso, ogni pietra è stata portata da lontano e ogni costruzione antica è diventata la cava da cui trarre i materiali per edificare il palazzo successivo. Quindi per vedere la città romana bisogna scendere sottoterra (posso testimoniare che per accedere a uno dei siti più affascinanti della città è necessario far bloccare una linea del tram e infilarsi attraverso una botola posta tra i binari). Un’altra peculiarità milanese sono le case-museo, luoghi esclusivi che i raffinati proprietari hanno lasciato in eredità alla cittadinanza (la rinascimentale Poldi Pezzoli, la folle Bagatti
Valsecchi, la futurista Boschi Di Stefano, la novecentesca Necchi Campiglio, la maniacale Mangini Bonomi). Se è vero che a ogni città tocca il suo decennio di splendore, dopo il decennio di Berlino, dopo quello di Barcellona, si potrebbe pensare che la pandemia abbia interrotto sul più bello il decennio milanese. Soprattutto dopo il boom dell’Expo essa appariva infatti come una piccola Parigi, con le sue quasi infinite occasioni di arricchimento culturale come il Mudec, l’Hangar Bicocca, il distretto del design di via Tortona, la Triennale, Brera valorizzata dal nuovo direttore James Bradburne, il Fuorisalone, la Milanesiana, le Gallerie d’Italia, la Fondazione Prada, il Museo del cinema, il Museo del fumetto, la Fondazione Forma, i sei musei del Castello Sforzesco, i cinquanta teatri, le millecinquecento case editrici, le sei università, la Scala, il Cenacolo… In un momento così cupo, il bel libro di Alberto Saibene è un segno di speranza: tornare a visitare una città così culturalmente vicina a noi e così stimolante che quando ci si va, come ha detto una volta Christian Marazzi, ci si sente più vivi.
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8. Persona indeterminata 10. Bivalve marina 12. Canta Makumba 13. Lo avvolge il pericardio 14. Nome femminile 15. Forma di buddismo giapponese 16. Preposizione 17. Cavità organica patologica di contenuto vario 19. Venne sostituito ad «ut» 21. Pronome dimostrativo 22. Un numero 24. Le iniziali di Papaleo 26. È detta senza età...
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Soluzione della settimana precedente UN VERO PRODIGIO! – A quanti anni F. Ouseley scrisse la sua prima composizione? Resto della frase: TRE E NOVANTOTTO GIORNI. T R A S A L I R E
R A T E O
E M O R E N D A R V I O E I N E R I N F O R I T O N S T M O G I A S O L A R N E E S T E O L I E
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 7 febbraio 2022
ATTUALITÀ
azione – Cooperativa Migros Ticino 23
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Italia, partiti allo sbaraglio Mattarella presta giuramento come presidente della Repubblica bis in un contesto politico desolante
«La ricreazione è finita» La svolta monetaria in atto negli Usa avrà pesanti ripercussioni sull’economia mondiale
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Appuntamento alle urne Il 13 febbraio si vota anche sugli aiuti ai media e sul divieto di sperimentazione sugli animali
Anziani e benestanti In media i pensionati in Svizzera godono di un buon capitale, spesso ereditato, ma non per tutti è così
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Militari russi si addestrano alla guerra. (Keystone)
La vera posta in gioco in Ucraina L’analisi
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La crisi tra Stati uniti e Russia è la più acuta dalla fine della Seconda guerra mondiale e la più preoccupante per l’Europa
Lucio Caracciolo
L’Ucraina è l’occasione ma non la causa e nemmeno il fine della crisi fra Stati uniti e Russia, in corso ormai da mesi. La più acuta dalla fine della Seconda guerra mondiale e la più preoccupante per la pace in Europa. Concentrati sulla pressione militare russa ai margini della frontiera ucraina e dalla dura reazione americana, rischiamo di perdere di vista la vera posta in gioco. Niente meno che l’equilibrio di potenza in Europa. E dato che il nostro Continente, malgrado tutto, resta di fondamentale rilievo per gli equilibri planetari, la questione investe la gerarchia del potere globale. Per capire l’importanza della partita in corso occorre partire dalla fine della guerra fredda. Ovvero della pace in Europa dopo la fine della guerra, basata sulla secca bipartizione del Continente, a sua volta incardinata sulla divisione della Germania, simboleggiata dalla spartizione della sua storica capitale Berlino fra i quattro vincitori: due veri (Stati uniti e Urss) e due formali (Francia e Regno unito).
Il crollo repentino di quel patto non scritto, dovuto al suicidio dell’impero e poi dello Stato sovietico, colse tutti di sorpresa. A cominciare dagli Stati uniti. I quali fino all’ultimo avevano puntato sull’indebolimento ma non sulla scomparsa dell’Unione sovietica. Presto però Washington decise di cogliere l’occasione per liquidare una volta per sempre la minaccia russa, sotto qualsiasi forma e regime. La sostanza vera della guerra fredda non era affatto ideologica, ma essenzialmente geopolitica. Per l’America, padrona dell’Europa occidentale, si trattava di spingere la frontiera del suo impero europeo il più possibile a ridosso delle mura del Cremlino. Alcuni pensavano, e ancora pensano, che si potesse addirittura dare la spallata finale alla Russia, anche se non era né resta chiaro che cosa avessero in mente di fare una volta distrutto lo Stato più grande del mondo. La Russia si trovava negli anni Novanta al nadir della sua parabola moderna. Alla mercé degli Stati uniti,
senza alleati nel mondo. Dopo l’avvento di Putin al potere nel , la Federazione russa, avanzo d’impero, è riuscita a ricompattarsi, ad evitare il crollo finale. Nel frattempo però la Nato, cioè gli Usa in Europa, era a poche centinaia di chilometri da Mosca. Dalla fine degli anni Duemila a oggi, il Governo russo ha cercato di frenare l’avanzata atlantica, senza riuscirci.
Più in generale, Putin intende spaccare di fatto la Nato, sollecitando le linee di faglia che dividono gli europei fra loro e dall’America La sconfitta subìta in Ucraina nel , che ha costretto la Russia a mollare la presa sulla più importante delle repubbliche ex sovietiche, si è risolta nella spartizione di quel Paese cerniera in tre. Il grosso, imperniato su Kiev, è ormai largamente distaccato dalla Russia e vicino all’America,
da cui si aspetta prima o poi la formalizzazione dell’accoglimento nella famiglia atlantica; la Crimea è stata rapita dalla Russia, per la quale si tratta di nient’altro che il ritorno a casa; infine il Donbass, arrugginita e devastata base industriale dell’Ucraina, è contesa fra Kiev e le milizie filorusse, che ne controllano gran parte. L’obiettivo di Putin è di impedire che l’Ucraina diventi americana, visto che non potrà tornare russa. L’intenzione di Biden è di tenere aperta la possibilità di integrare l’Ucraina nella Nato. Non sarà per domani e nemmeno per dopodomani, ma l’importante è tenere questa carta sul tavolo, così riducendo la Federazione russa a potenza secondaria. Più in generale, Putin intende spaccare di fatto la Nato, sollecitando le linee di faglia che dividono gli europei fra loro e dall’America. Il suo obiettivo non è entrare a Kiev, perché rischierebbe la guerra atomica, ma di congelare lo status quo ucraino. E costringere Washington al dialogo di-
retto, scavalcando gli europei. Alla fine, della Nato resterebbero le strutture, ma non l’anima, dunque l’efficienza. E gli armamenti oltre che le basi avanzate americane in Europa orientale dovrebbero essere arretrati. Biden non può accettare questa prospettiva, che secondo i russi dovrebbe essere ratificata per trattato. Il rischio che la situazione sfugga di mano, che provocatori russi o ucraini decidano di giocare il tutto per tutto, è ancora debole ma non del tutto impossibile. In ogni caso è molto probabile un nuovo giro di sanzioni e controsanzioni, dal quale uscirebbero penalizzati soprattutto i Paesi europei che dipendono di più dall’energia proveniente dalla Federazione russa. Ciò che porterà i soci europei della Nato ad accentuare i loro dissensi. In gioco sono insomma le gerarchie geopolitiche europee. Posta talmente alta da non poter escludere che i piani su accennati sfuggano di mano ai loro ideatori. O dovremmo scrivere apprendisti stregoni?
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In Italia tanti sconfitti e nessun vincitore L’analisi
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Dopo la rielezione di Mattarella al Quirinale i partiti si sforzano di ragionare su un futuro che nemmeno intravvedono
Alfio Caruso
Artisti sotto la tenda del circo: perplessi fu un famoso film tedesco occidentale del , quando esistevano due Germanie e niente lasciava presagire un’unione. Vinse anche il Leone d’oro a Venezia e oggi potrebbe attagliarsi quale titolo del caravanserraglio dei partiti italiani, dove ciascuno non ha ancora compreso che cosa sia esattamente accaduto e si sforza di ragionare su un futuro che nemmeno intravvede. La rielezione alla presidenza della Repubblica di Sergio Mattarella (che ha prestato giuramento giovedì scorso) lascia dietro di sé tanti sconfitti e nessun vincitore. Al massimo hanno pareggiato Enrico Letta, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. È però l’assetto politico ad essere stato terremotato in vista delle elezioni nella primavera del , allorché entrerà in vigore la drastica riduzione di deputati (da a ) e senatori (da a ). Il MS, sulla carta la forza di maggioranza relativa, s’interroga su quale fosse il proprio candidato – probabilmente non lo sapeva neppure Giuseppe Conte – e su quale sarà il proprio destino: dal % abbondante del le previsioni ora lo danno al % con il timore di franare al % e la concreta prospettiva di una scissione, se Conte e Luigi Di Maio non fingeranno di trovare un’intesa. Alla prova della realtà lo slogan dell’esordio «uno vale uno» si è palesato del tutto fasullo. La Lega alle Europee del aveva superato il % e racimolato quasi dieci milioni di voti. Significava il raddoppio dei consensi dell’anno prima: fu il risultato che rovinò Matteo Salvini. Tentò di far cadere il Governo di coalizione con il MS e cadde soprattutto lui. Da quel dì una sconfitta dopo l’altra fino alla catastrofe della scorsa settimana. Aveva annunciato un presidente di centrodestra e si è unito a quanti hanno scongiurato il cattolico «sinistrorso» Mattarella di rinunciare alla caparra versata per
Sergio Mattarella aveva altri piani ma, ha detto, «non ci si può sottrarre ai doveri». (Keystone)
l’affitto della nuova casa ai Parioli e di rientrare al Quirinale. Aveva preteso di voler distribuire le carte e non si era accorto che si trattava di un solitario. Stilava rose, che appassivano prima ancora di essere annunciate, e per trovare nomi da proporre ha preso a consultare l’elenco telefonico. Adesso tenta di riemergere intestandosi un antico disegno di Berlusconi – il partito repubblicano a impronta Usa – con il retropensiero d’inglobare Forza Italia. Fratelli d’Italia potrebbe perfino toccare il % alle prossime consultazioni, ma non riesce a entrare nella stanza dei bottoni. Giorgia Meloni è stata assai abile nel lasciare il cerino accesso in mano a Salvini, è rimasta coerente con quanto affermato nell’ultimo anno, tuttavia la scomposizione del vecchio centrodestra rischia di confinarla dentro il ghetto: tonitruante, caparbia, polo di attrazione di molti antagonisti, però – come dicono nella «sua» Roma – tutti la vogliono e nessuno la piglia per paura di contaminarsi con quanto
di antieuropeismo, di novax, di neo fascismo alligna all’interno di Fdi. Finita la tregua elettorale, il Partito democratico è già una polveriera. Ci sono le contrapposizioni insanabili dei boss, che interpretano la colleganza come odio vigilante. Ci sono le dispute fra gli ex colleghi democristiani, intenti a farsi fuori, mentre gli ex comunisti s’interrogano dubbiosi su quale può essere l’utile idiota da appoggiare. E ci sono le contrapposizioni con i fuoriusciti, che occupano un piccolo spazio alla sinistra del partito e che per riaccasarsi chiedono la luna. E dire che sulla carta il Pd sarebbe il partito uscito meglio dalla contesa presidenziale. Mattarella, infatti, era il piano B di Letta, acceso sostenitore di Draghi. Il segretario potrebbe dunque vantare di avere azzeccato il cavallo di riserva, viceversa deve preoccuparsi di salvaguardare il cammino del Governo, sottoposto alle bizze umorali dei leghisti, e d’individuare un nuovo, possibile alleato. La strombazzata unione progressista con il MS è minata dall’inaffidabilità di
Conte. L’allargamento ai cespugli del centro sconta la difficoltà d’intendersi con Renzi, che anni addietro lo detronizzò dalla presidenza del consiglio con il famoso tweet: «Stai sereno Enrico». E così siamo a Renzi: nella settimana delle votazioni si è confermato il più abile, il più spregiudicato, il più voltagabbana. Puntava su Pier Ferdinando Casini e ha provato a intestarsi Mattarella. Ha il talento del mestierante, ma i suoi partner temono la spregiudicatezza di chi non si rassegna ad avere un grande avvenire dietro le spalle. Si ama e si corrisponde sorprendendosi che i colleghi non provino lo stesso sentimento, anzi avvertono, appena si avvicina, puzza di fregatura. Vorrebbe raggruppare attorno a sé il centro, ma è scoperto nel desiderio di sottomettere gl’improvvidi che accettino il suo progetto. Si muove con la sicumera di un capopopolo, però è zavorrato dal % scarso dei sondaggi. È convinto di ripartire con la prossima tornata elettorale, viceversa potrebbe esser costretto
a fungere da ruota di scorta. Bocciata con gusto la propria presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati; boicottati i disegni di Salvini; fatto asse con il Pd prima per poi stoppare la capa dei servizi segreti, Elisabetta Belloni, per votare Mattarella, Forza Italia è vicina allo spappolamento. Il motivo sono gli anni, , e la cagionevole salute di Berlusconi. Il Tutankhamon di Arcore aveva assestato una legnata ai presunti alleati Salvini e Meloni obbligandoli ad assecondare l’inverosimile sceneggiata dell’autocandidatura. In seguito si è messo di traverso all’insegna del «dopo di me, il diluvio». In effetti è il cataclisma, in cui potrebbe incappare la sua creatura, dalla quale molti preparano la fuga sperando di essere ancora in tempo a trovare asilo nei gruppuscoli moderati. D’altronde, negli anni, Berlusconi ha segato quanti aveva designato alla successione: prova evidente dello scarso, se non nullo interesse per ciò che accadrà alla sua scomparsa. Nonostante il geniale colpo di ergersi a supremo facitore del rientro di Mattarella, anche l’austero Mario Draghi figura tra gli sconfitti. Ambiva alla presidenza della Repubblica, si dovrà accontentare della presidenza del Consiglio. La crisi dei partiti e il dichiarato sostegno di Mattarella inducono molti a ritenere che tornerà a essere il decisionista dei primi mesi di Governo, con in più il sottile piacere di far pagare a diversi ministri la dichiarata ostilità alla sua scalata. Ma nemmeno per lui sarà un anno facile: deve mostrare all’Europa che sa spendere bene i miliardi di aiuti; deve affrontare la riforma fiscale, la riforma della giustizia, la riforma del catasto, l’ennesima riforma del sistema elettorale; deve apparire agli italiani così bravo e insostituibile da indurre i partiti a scongiurarlo, fra mesi, di rimanere alla guida del Governo, qualunque fosse l’esito delle elezioni. Insomma, ci divertiremo.
Come rimuovere la «sporcizia» nella Chiesa? Baviera
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Riemerge la constatazione di un errore generalizzato da parte dell’istituzione cattolica nella gestione dei casi di pedofilia
Giorgio Bernardelli
cerdoti () e negli altri casi diaconi, altri incaricati pastorali o insegnanti. Sono in particolare i casi che si riferiscono ai quattro anni e mezzo tra il e il in cui l’allora arcivescovo Joseph Ratzinger guidò la più importante diocesi della Baviera. Il papa emerito ha riconosciuto di aver preso parte a una riunione in cui la Curia di Monaco decise di accogliere un sacerdote della diocesi di Essen accusato di pedofilia. Ma sostiene che si trattò di un’ospitalità finalizzata a un «trattamento terapeutico», anche se poi più
Keystone
Il nome che si temeva, puntualmente è arrivato, provocando reazioni durissime non solo nell’opinione pubblica tedesca. Chiama in causa infatti anche Joseph Ratzinger, il papa emerito Benedetto XVI (nella foto), oggi enne, il dettagliato rapporto che ricostruisce senza sconti le omissioni e le contraddizioni nell’operato dell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga nell’affrontare la questione degli scandali legati alla pedofilia. L’indagine – commissionata dalla stessa arcidiocesi bavarese allo studio legale indipendente Westpfahl Spilker Wastl – prende in esame un arco temporale molto lungo, dal fino al . E come era già accaduto qualche mese fa per un rapporto analogo affidato a un altro osservatorio indipendente dalla Conferenza episcopale francese, i risultati sono sconcertanti: in poco più di settant’anni in questa sola arcidiocesi tedesca sono state almeno le vittime di abusi sessuali compiuti da persone legate alla Chiesa cattolica. Per il % si tratta di ragazzi maschi di età compresa tra gli e i anni. E nelle oltre pagine del rapporto vengono identificati ben responsabili di abusi, in gran parte sa-
tardi, quando lui non era più arcivescovo, il prete in questione ricevette nuovamente un incarico pastorale in una parrocchia nella quale avrebbe poi commesso nuovi abusi. Ratzinger – ha spiegato il suo storico segretario mons. Georg Gänswein – «sta leggendo attentamente» il rapporto che «lo riempie di vergogna e di dolore per le sofferenze inflitte alle vittime». E preannuncia che fornirà una «dichiarazione dettagliata» una volta terminato l’esame della documentazione. Fu proprio l’allora cardinale Ratzinger nel – pochi giorni prima della morte di Giovanni Paolo II – a sollevare in un contesto solenne come le meditazioni per la Via crucis del Venerdì santo, al Colosseo, il tema della «sporcizia nella Chiesa», con un riferimento per nulla velato al comportamento dei sacerdoti. E una volta divenuto papa Benedetto XVI fu sempre lui a emanare norme canoniche più stringenti sulla tolleranza zero nei confronti dei preti pedofili, oltre a incontrare per primo personalmente le loro vittime. Proprio questo accostamento, però, rende le accuse contro Ratzinger qualcosa di particolarmente duro per la
Chiesa. Sbaglia chi le liquida evocando il complottismo o possibili «avvertimenti» nei confronti di papa Francesco stesso. Il problema vero posto da questi rapporti è la constatazione di un errore generalizzato da parte della Chiesa cattolica nella gestione dei casi di pedofilia che coinvolgevano membri del clero. Emerge una sottovalutazione del problema a ogni livello: la tendenza a pensare più alla salvaguardia dell’istituzione, che a prendersi cura delle ferite subite dalle vittime; non era il caso isolato di qualche vescovo che cercava goffamente di coprire gli scandali. Fino all’inizio del Duemila, quando le cronache giornalistiche hanno portato alla ribalta il problema, era una prassi diffusa nelle diocesi. Che preferivano allontanare i sacerdoti cercando (con scarso successo) di metterli in condizione di «non nuocere» piuttosto che fare davvero i conti con il problema. Per questo oggi la questione non è puntare il dito contro Ratzinger, ma prendere coscienza che in quegli anni questo comportamento era la regola. E che – nonostante le nuove norme canoniche varate da Benedetto XVI stesso prima e da papa Francesco poi – questo tipo di mentalità non è affat-
to debellata tra i «quadri» della Chiesa cattolica. Alla fine è la retorica delle poche «mele marce» a non reggere più di fronte a questo susseguirsi di ricostruzioni. Sarebbe profondamente ingiusto attribuire a tutti i preti cattolici la responsabilità di questi reati gravissimi. Ma dopo vent’anni di scandali rilanciati dai media è un dato di fatto che nella Chiesa cattolica si fatica ancora a promuovere un confronto interno serio sulla natura del sacerdozio, sulla solitudine dei preti e la loro vita affettiva, sull’ideale proposto nei seminari. E questo mostra come il problema vada ben al di là delle azioni disciplinari esemplari da adottare nei confronti di comportamenti umanamente intollerabili. A combattere la pedofilia non basta il carisma personale di papa Francesco; servono riflessioni e scelte radicali fondate non su una dotta teologia, ma sul confronto con le fragilità umane che non si capisce bene perché non dovrebbero toccare anche i sacerdoti. Forse per la Chiesa cattolica è tempo di riportare i preti con i piedi per terra. Per usare una parola cara a papa Francesco, di renderli fratelli molto più che padri spirituali.
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ATTUALITÀ
Svolta monetaria: è l’inizio di una nuova era Prospettive
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Il cambio di paradigma è già in corso negli Usa e riguarda anche la politica di bilancio. Le ricadute a livello mondiale
Federico Rampini
«Quando arriva la bassa marea si scopre chi stava nuotando senza il costume da bagno». Se non l’ha coniata lui, di sicuro questa metafora l’ha usata più volte Warren Buffett, il leggendario «nonno» degli investitori americani. Ci siamo: sta arrivando la bassa marea, questo significa che scopriremo presto chi nascondeva le proprie debolezze grazie a condizioni eccezionalmente facili. Gli attori deboli includono famiglie, imprese o intere Nazioni ad alto debito. Il cambio di paradigma è già in corso negli Stati uniti: cambiano il segno simultaneamente sia la politica monetaria sia la politica di bilancio. È finita, almeno per un po’, l’epoca del denaro facile che ha condizionato molti comportamenti e ha attutito molti problemi. Non solo i tassi d’interesse salgono, ma si ritira quella esondazione di moneta che ha sommerso l’economia dal ad oggi. Gli europei possono illudersi che la cosa non li riguardi? Sarebbe imprudente. L’esperienza passata indica che l’Europa tende a seguire le tendenze americane, solo con un po’ di ritardo. Già Londra ha mostrato la strada visto che la sua banca centrale gioca d’anticipo e rialza i tassi prima ancora della Fed. Nell’immediato almeno l’Europa continentale può godersi qualche beneficio: l’euro s’indebolisce visto che sono i rendimenti americani i primi a salire; è un bene per gli esportatori italiani e non solo. Ma ben presto il cambio di paradigma avrà altre conseguenze sull’economia mondiale. Dal debito di una famiglia a quello di un’impresa decotta o dello Stato italiano, molti dovranno fare i conti con la nuova stagione che si annuncia.
L’esperienza passata indica che l’Europa tende a seguire le tendenze americane, solamente con un po’ di ritardo La fotografia della situazione globale risente ancora dell’alta marea che è stata con noi per tutto l’anno scorso. Il Pil americano ha chiuso il con un aumento del ,%. Una crescita così forte si verificò l’ultima volta nel sotto il primo mandato presidenziale del repubblicano Ronald Reagan. Ma contemplare quel-
Edificio della Federal reserve bank. Nel marzo di quest’anno l’attuale presidente della Fed, Jerome Powell, decreterà nei fatti che «la ricreazione è finita». (Shutterstock)
sciato quei miliardi di cui sopra nelle tasche dei cittadini e nei bilanci delle imprese: uno sforzo equivalente alla spesa bellica nella Seconda guerra mondiale. Ma adesso «la ricreazione è finita» anche qui. Non ci saranno altre manovre di spesa di quelle dimensioni, al massimo qualche mini-spesa, da qui alle elezioni di metà mandato tra nove mesi. La fine della spesa pubblica facile si comincia già a vedere nei bilanci delle famiglie. I salari continuano a crescere soprattutto nelle mansioni basse, ma i risparmi stanno già decrescendo. E l’inflazione si mangia una parte degli aumenti salariali.
Non sappiamo se sul versante sociale il finale sarà eguale a quello degli anni Settanta. Allora stravinse il capitale
la crescita record nello specchietto retrovisore non ci aiuta a capire né il presente né il futuro. Quel boom – che ha consentito di ricreare milioni di posti di lavoro sui milioni distrutti nel durante la prima fase della pandemia – era figlio di due politiche economiche eccezionali. La politica di bilancio ha riversato nell’economia americana miliardi di spesa pubblica, in gran parte aiuti alle famiglie (anche al ceto medio). La politica monetaria, oltre a mantenere il costo del denaro ai minimi storici, ha pompato liquidità con gli acquisti di bond da parte della banca centrale. Oggi la Federal Reserve ha «nella sua pancia» miliardi di dollari di titoli, in cambio dei quali ha fornito altrettanta moneta all’economia reale. Siamo stati per anni le cavie di un esperimento senza precedenti. Da quando ebbe inizio la crisi del , l’America ha reagito con innovazioni inaudite nella sua politica monetaria (poi è stata copiata dal resto del mondo, Bce in testa). La strategia usata da Ben Bernanke, presidente della Fed nel , e proseguita dai suoi successori, senza dichiararlo mescolava
due dottrine molto eterogenee o addirittura antagoniste: da una parte il monetarismo di Milton Friedman (neoliberista di destra), dall’altra la Modern monetary theory che piace a Bernie Sanders e all’estrema sinistra. Non entro nei dettagli ma la sostanza è che la Fed pur di rianimare un malato terminale – l’economia stremata del – iniziò a usare l’arma monetaria con un vigore senza precedenti, rovesciando liquidità con l’acquisto dei bond. Mai le banche centrali avevano «stampato» così tanta moneta, neppure in tempi di guerra (naturalmente l’immagine dello stampare è una metafora, visto che la moneta si genera virtualmente nei bilanci digitali delle banche). Dopo averlo anticipato già da qualche mese, nel marzo di quest’anno l’attuale presidente della Fed Jerome Powell decreterà nei fatti che «la ricreazione è finita». La banca centrale più potente del mondo cesserà di immettere nuova moneta, anzi ben presto comincerà a ritirare gradualmente quella che aveva creato nei anni precedenti. In più alzerà il costo del denaro. È la marea che si abbassa. Chiunque abbia bisogno di credito lo
pagherà sempre più caro, via via che i tassi si alzeranno. È il modo in cui la banca centrale spera di domare un’inflazione che ha già toccato il % alla fine del . Generazioni di adulti non hanno mai conosciuto né un’inflazione così alta, né la «cura monetaria» dei tassi d’interesse in forte risalita che si profila all’orizzonte. Dalla spesa con la carta di credito alle ipoteche per la casa, alle formule di pagamento rateale per le auto o l’arredamento, tutto costerà più caro. Ripeto, per adesso questa sterzata è americana, ma è improbabile che prima o poi non contagi l’Europa. L’inflazione dell’Eurozona pur essendo meno forte di quella americana ha comunque toccato un record a quota ,%. Del resto il Fondo monetario già prevede un rallentamento della crescita ovunque, nel : America, Cina, Europa. È implicito il fatto che a questo rallentamento, almeno in America e in Europa, contribuiranno delle politiche monetarie più restrittive. Il cambio di paradigma monetario coincide con lo stesso tipo di capovolgimento nella politica di bilancio. Per contrastare la recessione da pandemia Trump e Biden avevano rove-
Se stiamo facendo le prove generali per un remake degli anni Settanta, ricordiamoci che allora la spirale inflazionistica traduceva un forte conflitto distributivo. Era un periodo di mobilitazioni sindacali, scioperi, lotte sociali. Capitalisti e lavoratori si contendevano la ricchezza nazionale, ciascuno cercava di aumentare la propria quota. Nel braccio di ferro tra profitti e salari, l’inflazione era il termometro della tensione. Oggi qualcosa di simile è stato scatenato dalla pandemia, che ha creato scarsità di manodopera e ha migliorato il potere contrattuale dei dipendenti. Il meccanismo è questo: grazie ai sussidi abbondanti i lavoratori americani hanno avuto un cuscinetto di risparmi che ha consentito loro di diventare più selettivi, rifiutando proposte di lavori troppo faticosi o non abbastanza pagati. Questo ha costretto le aziende ad alzare i salari, in maniera più accentuata per le mansioni meno qualificate. La banca centrale interviene sull’inflazione in modo indiretto: il rincaro del costo del denaro riduce il potere di spesa, raffredda la domanda, nel caso estremo può perfino provocare una recessione. Non sappiamo se sul versante sociale il finale sarà eguale a quello degli anni Settanta. Allora stravinse il capitale, con il neoliberismo reaganiano s’inaugurò un’epoca di bassa inflazione, alti profitti. Annuncio pubblicitario
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ATTUALITÀ
Un salvagente per i media
Votazione federale 1 ◆ Il 13 febbraio al voto il pacchetto di aiuti supplementari ai media, soprattutto alla carta stampata, anche per compensare gli aumenti dei costi di distribuzione postali Alessandro Carli
Calo della pubblicità e degli abbonati, con problemi finanziari non indifferenti: i giornali sono alle corde. A quasi quatto anni dalla netta bocciatura dell’iniziativa «No billag» (con il ,% dei voti) per lo smantellamento del canone radio-TV, il settore dei media deve nuovamente affrontare un voto popolare. Il prossimo febbraio, gli Svizzeri dovranno dire se vogliono aumentare di milioni di franchi l’aiuto annuo concesso ai media, contro il quale è stato lanciato il referendum. Secondo i primi sondaggi, questo sostegno finanziario non è scontato. Nel corso degli anni, gli introiti dei media tradizionali si sono sciolti come neve al sole. Ne è conseguito un impoverimento del paesaggio mediatico svizzero, in particolare dell’informazione locale. Il Consiglio federale ricorda che i media locali e regionali contribuiscono al processo di formazione dell’opinione politica e alla coesione sociale, ma versano in difficoltà finanziarie: gli introiti della pubblicità confluiscono sempre più nelle casse delle grandi piattaforme Internet internazionali. A causa della difficile situazione finanziaria, dal sono scomparsi più di giornali. Senza sostegno, altre testate rischiano di dover chiudere i battenti, mentre radio locali, televisioni regionali e media digitali saranno sempre di più in difficoltà. La copertura degli avvenimenti svizzeri si è ridotta, provocando una carenza informativa, segnatamente regionale e
locale, sostiene la ministra della comunicazione Simonetta Sommaruga. Il pacchetto di aiuti mira a consolidare i media locali e regionali, affinché «gli abitanti di tutte le regioni continuino a essere informati su quanto accade nelle loro vicinanze». Prevede anche una riduzione per la distribuzione di quotidiani e settimanali in abbonamento, nonché per la stampa associativa e per quella delle fondazioni. Il testo comprende pure il sostegno alle agenzie di stampa, dato che distribuiscono ad altri media informazioni provenienti da tutta la Svizzera, nonché alle scuole di giornalismo e al Consiglio svizzero della stampa, con un contributo annuo di milioni. Inoltre, viene aumentato il sostegno alle radio locali private e alle televisioni regionali. Come ora, unitamente ai giornali e ai media digitali, sono libere di informare in ogni ambito. Le autorità non potranno influenzare i contenuti degli articoli o delle trasmissioni. L’indipendenza dei media è garantita. Il pacchetto di misure è finanziato, nella proporzione di /, con il canone radiotelevisivo esistente e, di /, attingendo alle finanze federali. Non sono necessarie nuove imposte. In tutto è previsto un aiuto annuo massimo di milioni di franchi. Per il comitato referendario «No ai media finanziati dallo Stato», che riunisce una settantina di deputati dell’UDC, del PLR e del Centro e che si è costituito lo scorso giugno dopo l’adozione parlamentare del-
Il pluralismo dell’informazione ha sofferto negli ultimi vent’anni a causa delle ristrettezze finanziarie: dal 2003 sono scomparsi oltre 70 giornali. (Keystone)
le misure di sostegno alla stampa, questi aiuti sono «inutili e dannosi» e screditano i media, che perdono la loro indipendenza e non possono più fungere da «quarto potere». Ma l’autonomia dei giornalisti «non è assolutamente messa in causa», ha replicato Simonetta Sommaruga. Il progetto si basa infatti su strumenti comprovati, in vigore da tempo, che non hanno mai destato sospetti sul lavoro dei media. La stampa scritta disporrà complessivamente di milioni per la distribuzione dei quotidiani in abbonamento o dei giornali associativi. Una novità: altri milioni serviran-
no a sostenere i media online. Questo importo, che costituisce anche uno dei punti più contestati del pacchetto di aiuti, sarà prelevato dalle risorse generali della Confederazione. Sin dalla metà degli anni Novanta, le emittenti radiofoniche locali private e quelle televisive regionali ricevono contributi per il loro servizio pubblico. Ora ammontano a milioni di franchi annui e saliranno a milioni (+). La ministra della comunicazione ha ribadito che «senza i media, mancano informazioni importanti». Google o Facebook non riferiscono sui fatti regionali, sottolineano anche gli editori, gli ambienti culturali e spor-
tivi, la sinistra e i Verdi liberali. Per costoro, le radio, i giornali locali, le televisioni regionali o i media online restano mezzi indispensabili. Coprono avvenimenti politici, economici, culturali, sportivi e sociali. Proprio i dibattiti politici e sociali hanno bisogno di un’informazione diversificata, credibile, fondata e a volte provocatoria. Un punto di vista contestato dagli oppositori, secondo i quali i media finanziati dallo Stato «impediscono un dibattito pubblico diversificato e minano la libertà d’espressione». Secondo loro «si tratta di un veleno per la democrazia». Il comitato di referendum vede in questi aiuti soprattutto uno sperpero di denaro dei contribuenti che «non sono il bancomat dei gruppi editoriali», come CH-Media o Ringier, che metterebbero le mani sul % del pacchetto. «Il progetto non migliorerà la capacità di adattamento dei media e questo aiuto finanziario supplementare – avverte economiesuisse – «manca l’obiettivo e introduce un precedente». Infatti, perché iniettare fondi direttamente in un determinato settore economico e non in un altro? In caso di bocciatura del progetto, i media svizzeri non riceveranno alcun sostegno finanziario supplementare, con il rischio di veder scomparire altre testate e di assistere all’indebolimento di radio e tv locali. Ma la decisione spetta al cittadino e, come detto, il dato non sembra ancora tratto.
Contro ogni sperimentazione animale
Votazione federale 2 ◆ Respinta alle Camere federali da tutti i partiti poiché considerata troppo radicale, l’iniziativa popolare lanciata da un gruppo di cittadini sangallesi imporrebbe persino l’importazione di determinati farmaci dall’estero
Il divieto della sperimentazione animale è destinato a raccogliere un’ennesima bocciatura. In votazione federale il prossimo febbraio, l’iniziativa popolare «Sì al divieto degli esperimenti sugli animali e sugli esseri umani» non dovrebbe raggiungere la maggioranza dei voti. Il testo, ritenuto troppo radicale, è respinto da tutti i partiti e divide addirittura gli attivisti della causa animale. Le opinioni sull’iniziativa sembrano già sin d’ora fatte, perché su questa tematica, anche se le mentalità cambiano, gli schieramenti restano ben distinti. Il progetto esige il divieto di tutti gli esperimenti sugli animali e sugli esseri umani, come pure dell’importazione di nuovi medicinali sviluppati grazie a queste pratiche. È la quarta volta che il popolo svizzero si pronuncia su questo tema. Nel , la Confederazione si era dotata di una prima legge federale sulla protezione degli animali, che contemplava anche norme concernenti la sperimentazione. Dopo le bocciature delle iniziative per l’abolizione della vivisezione (nel con il % di No), per la riduzione progressiva della sperimentazione animale (nel con il % di No) e per l’abolizione totale della vivisezione ( con il % di No), questa è la quarta del genere. È stata lanciata da un gruppo di cittadini sangallesi, so-
stenuti da organizzazioni che operano per la causa animale e dai medici alternativi. Per i fautori dell’iniziativa, è inammissibile che si continui a condurre esperimenti su animali e pazienti non in grado di esprimere la propria volontà. Essi chiedono che gli esperimenti su esseri viventi, praticati in «modo crudele», siano considerati alla stregua dei crimini. Secondo loro, il % dei principi attivi che, in base ai test sugli animali, sembrano promettenti, non superano la sperimentazione umana, in quanto ritenuti troppo pericolosi o inefficaci. I promotori criticano anche il concetto delle R, conosciuto da oltre anni e che, nel limite del possibile, promuove la sostituzione, la riduzione e l’affinamento delle sperimentazioni animali. Per loro, questo concetto serve solo a «mettersi la coscienza in pace, senza far progredire la causa animale». Ogni anno, gli animali vittime di esperimenti in laboratorio sono più di ’ e il % subisce pratiche ritenute troppo crudeli. Eppure, per gli iniziativisti le alternative alla sperimentazione animale ci sono: dalla cultura cellulare in vitro alla donazione di organi umani. «Basta avere la volontà politica!». Nelle due Camere, l’iniziativa non ha raccolto un solo voto a favore. Il testo è stato giudicato estremo, anche
dalla sinistra, solitamente più sensibile su questo problema. L’iniziativa è persino contestata dalla Protezione svizzera degli animali, secondo la quale «manca il bersaglio». Il comitato interpartitico che vi si oppone, e che spazia dall’UDC ai Verdi, ha messo in campo l’artiglieria pesante: sostiene, senza mezzi termini, che il progetto è pericoloso per la salute della popolazione. Infatti, i nuovi medicinali sviluppati grazie alla sperimentazione animale, per esempio per combattere il cancro o per mettere a punto i vaccini contro il Covid-, non soltanto non potrebbero più esse-
re prodotti in Svizzera, ma nemmeno importati. Dal canto suo, il Consiglio federale ricorda le ripercussioni negative dell’iniziativa: se accolta, limiterebbe fortemente la ricerca medica e lo sviluppo di prodotti a uso medico. Molti programmi di ricerca sarebbero trasferiti all’estero. Diverse aziende lascerebbero il Paese con la perdita di posti di lavoro e conseguente indebolimento della piazza economica. Il ministro della sanità pubblica Alain Berset ha sottolineato che la Svizzera ha una delle regolamentazioni più severe al mondo in materia di speriCavie in un laboratorio di un centro di ricerca sul cancro a Losanna. (Keystone)
mentazione, che garantisce agli individui e agli animali la migliore protezione possibile. Inoltre, la Confederazione sostiene finanziariamente la ricerca che non fa capo alla sperimentazione animale. Quest’ultima è autorizzata solo se non si può procedere in altro modo e le costrizioni inflitte agli animali (dolori, danni, stato d’ansietà) devono essere, nel limite del possibile, ridotte al minimo. Nel , una parte degli esperimenti sugli animali concerneva la ricerca sul Covid-. Nel quadro di sperimentazioni autorizzate dalle autorità cantonali sono stati utilizzati animali. Stando ai dati dell’Ufficio federale della sicurezza alimentare e di veterinaria (USAV), sempre nello stesso anno, per le sperimentazioni sono stati impiegati complessivamente ’ animali, cifra in calo del ,% rispetto al . Riassumendo, per il comitato d’iniziativa gli esperimenti sono inammissibili e inutili, dato che non sono in grado di fornire «previsioni attendibili per un altro essere vivente». Per gli oppositori, il divieto assoluto degli esperimenti sugli animali chiesto dall’iniziativa è troppo radicale: limita la ricerca, il progresso medico e la disponibilità dei farmaci di ultima generazione (per uso umano e veterinario). Perciò, una bocciatura appare inevitabile. / AC
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ATTUALITÀ
Il tesoretto di molti pensionati
Terza età ◆ Secondo uno studio, la sostanza media a 65 anni sarebbe di 400’000 franchi, per i coniugi perfino di 660’000 franchi. Molto deriva però da eredità o donazioni Ignazio Bonoli
Lo studio realizzato da due ricercatori della Scuola universitaria professionale del Nord-Est della Svizzera, i cui risultati sono stati pubblicati dalla «NZZ am Sonntag» il dicembre scorso, hanno destato una certa sorpresa e anche qualche reazione. Secondo l’indagine, infatti, ogni persona che vive sola in Svizzera, all’età di anni, dispone in media di una sostanza di ’ franchi. Per le coppie sposate questo capitale potrebbe salire, in media, a ’ franchi. Queste cifre derivano dalle tassazioni nei cantoni di Argovia, Berna, Ginevra, Lucerna, San Gallo e Vallese. Dai dati emersi risulta inoltre che questa sostanza disponibile continua a crescere negli anni. Ciò è dovuto al fatto che durante il periodo lavorativo si tende a risparmiare proprio per costituire un capitale di cui disporre durante la vecchiaia. L’indagine non nega però che in molti casi di pensionamento questo capitale non c’è. Queste cifre possono tuttavia creare un netto contrasto, proprio con le discussioni in Parlamento sulla riforma dell’AVS e gli sforzi per combattere un eventuale «impoverimento» dei pensionati. Questo potrebbe anche essere l’effetto degli incentivi, non solo finanziari, per costituire il cosiddetto «terzo pilastro», il cui scopo è quello di garantire al pensionato un
tenore di vita simile a quello del periodo lavorativo. Le assicurazioni di base spendono già molto: l’AVS versa miliardi di franchi ai circa milioni di pensionati. A questi si aggiungono miliardi di franchi della previdenza professionale. Cifre che, però, non sempre bastano per realizzare lo scopo di avere almeno il % delle disponibilità finanziarie precedenti. Da qui appunto la necessità di disporre di un complemento, che può assumere diverse forme, dall’abitazione in proprio al risparmio bancario investito. A livello globale, le cifre assumono proporzioni impressionanti. Secondo lo studio citato, staremmo anche assistendo a un fenomeno insolito: la disponibilità finanziaria, dopo il pensionamento, aumenta. Il gruppo d’età dei novantenni potrebbe raggiungere la cifra di quasi ’ franchi, che oltre i anni salirebbe perfino a un milione. Cifre che potrebbero perfino essere superiori, se si considera che i valori fiscali degli immobili si situano di regola fra il e l’% del valore commerciale. Anche il ricercatore losannese Marius Brülhart conferma, nelle sue ricerche sull’evoluzione del benessere, che una gran parte dei pensionati dispone di redditi che permettono ancora di risparmiare e aggiunge, un
po’ cinicamente, che le persone meno benestanti muoiono generalmente prima, il che – statisticamente – diminuisce il numero di beneficiari e aumenta la ricchezza distribuita. Effettivamente, i pensionati svizzeri hanno ammassato negli anni capitali ingenti. Lo si può dedurre anche dall’ammontare delle eredità e delle donazioni. Ma già gli eredi, in media, hanno raggiunto l’età di anni. Secondo i calcoli del professore losannese, il volume delle proprietà trasferite in questo settore raggiunge una media di miliardi di franchi. In soli quindici anni questa cifra è raddoppiata. Si può perciò considerare che la metà dei patrimoni in Svizzera è frutto di eredità o donazioni. E questa è una delle critiche che possono essere mosse nei confronti dello studio in questione perché non tiene conto della provenienza dei mezzi a disposizione. In secondo luogo si deve anche tener conto del calcolo delle medie. E qui risorge il trilussiano dilemma del pollo da dividere. È tuttavia evidente che il divario tra i più fortunati e quelli che devono accontentarsi della pensione, in questo caso, è di molto superiore alla media generale. Sono, infatti, molto pochi coloro che superano i anni e, quindi, statisticamente, possono condividere un patrimonio molto elevato.
Metà degli anziani in Svizzera godono di una pensione dorata. (Keystone)
Della sorte dei meno fortunati si è occupato uno degli autori dello studio, constatando statisticamente che, per esempio, fra le persone sole, una su cinque non dispone di nessun capitale. Per contro solo il quinto più ricco dispone di un patrimonio di un milione. Tra le coppie, il % dispone invece di , milioni in media, mentre il secondo % dispone pur sempre di un patrimonio di ’ franchi. In ogni caso un «terzo pilastro» appare sempre più necessario. In caso di bisogno, i costi ospedalieri e anche quelli di un eventuale ricovero in casa
per anziani sono enormi. Bisogna pure tener conto del fatto che oggi i rendimenti degli investimenti finanziari sicuri sono quasi nulli, che la gestione del patrimonio costa sempre di più, che le imposte e perfino la retta della casa per anziani aumentano in proporzione al capitale posseduto. Non a caso Avenir Suisse suggerisce l’idea di una assicurazione generale delle spese di cura per anziani, soprattutto considerando che nel , gli ottantenni e più in Svizzera saranno circa ’. I miliardi oggi stanziati per gli aiuti complementari all’AVS potrebbero non più bastare. Annuncio pubblicitario
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 7 febbraio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
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ATTUALITÀ / RUBRICHE ●
Il Mercato e la Piazza
di Angelo Rossi
A Dubai, l’avvenire e il passato ◆
Fino alla fine del prossimo mese di marzo si può visitare l’esposizione mondiale di Dubai, l’emirato che, con i suoi grattacieli, spunta come i fiori di ibisco, tra la riva del mare e il deserto. L’Expo era prevista per il , ma la pandemia ha obbligato gli organizzatori a rinviarla di un anno. Ed è purtroppo sicuro che la pandemia influenzerà negativamente buona parte dei suoi risultati. Ho passato, all’inizio di gennaio, tre giorni all’interno del recinto di questa manifestazione il cui motto «connecting minds, creating the future» sembrerebbe di fatto proiettarla verso i nuovi mondi straordinari e anche problematici promessi dalle nuove tecnologie. La prima esposizione mondiale ebbe luogo a Londra nel . Vi partecipò anche il bleniese Carlo Gatti che, con il convallerano Bolla, mostrava sul posto come si produceva il cioccolato, attirando verso il suo stand folle di visitatori. Naturalmente le spe-
cialità culinarie di questo o di quel paese continuano a far parte dell’offerta di ogni esposizione mondiale. A Dubai, per esempio, i visitatori del padiglione svizzero terminano la loro visita passando per la boutique della Sprüngli dove possono gustare tutti i classici di questo produttore zurighese, tra cui i famosi «Luxemburgerli» e le praline dai gusti più sofisticati. Tuttavia a differenza di Gatti che il suo cioccolato lo produceva seduta stante, i delicati prodotti della Sprüngli vengono importati (pare giornalmente) con l’aeroplano, direttamente da Zurigo. Quando si parla di progresso…! Sono due i fili rossi che corrono attraverso quasi tutti i padiglioni nazionali. Il primo è quello della storia. La storia come generatrice di tradizioni e valori che, ancora oggi vengono rispettati quando non formano addirittura la ragione d’essere del paese espositore. Altrettanto impor-
tante delle vicende che hanno portato alla creazione dello Stato sono i reperti storici, le rovine e i monumenti che oggi possono essere visitati da, si spera, sempre più numerosi turisti, in tutte le parti del globo. Da questo profilo, un padiglione che si distingue dal resto è, a mente mia, quello del Pakistan. Realizzato dall’artista Rashis Rana, si distingue da quelli che lo attorniano per la sua architettura moderna e colorata. Chi lo visita si trova però, all’interno, confrontato soprattutto con il passato. Certo ci sono accenni alle nuove tecnologie e a quello che il Pakistan ha realizzato negli ultimi decenni in materia di infrastruttura. Ma che colpiscono il visitatore sono i rimandi alla tradizione e al passato, che si realizzano anche mostrando le attività artigianali di quel paese e i loro prodotti. Il secondo fil rouge è quello delle tecnologie moderne. Impressionante, per quel che mostra in materia tecnologi-
ca, il padiglione della Cina anche se lo fa con una grafica da anni Cinquanta del ventesimo secolo. Il padiglione svizzero, invece, si distingue dal resto per la sua concezione ludica. La stessa si realizza già con la facciata a specchio, un po’ obliqua, che consente al visitatore di fotografarsi o filmarsi nel momento in cui si avvicina all’entrata. Ancora più originale è l’idea di avvicinare il visitatore alle caratteristiche paesaggistiche del nostro paese, facendolo salire per una specie di sentiero alpino, attraverso la nebbia, per raggiungere poi la cima, situata sopra il mare di nebbia, e godersi lo spettacolo delle Alpi che lo circondano a raggiera. Non mancano nel padiglione né la storia, né l’accenno alle tradizioni e alle nuove tecnologie. Però è l’elemento ludico che resta impresso. Le frequenze (il padiglione svizzero è tra più visitati) hanno dato ragione agli organizzatori. Da che cosa i visitatori sono maggior-
mente colpiti nel loro giro dell’esposizione? Difficile dirlo. Forse dalle magnifiche fotografie e filmografie che riproducono i paesaggi dei paesi espositori, oppure dai progressi annunciati nelle scoperte scientifiche – dalla medicina ai viaggi nello spazio per arrivare alle trasformazioni nella mobilità urbana e interurbana. Di sicuro tutte queste informazioni stimolano positivamente la fantasia anche di coloro che, come il sottoscritto, non avranno, per l’età avanzata, la possibilità di vederle realizzate. Ricorderò ancora che sul sedime dell’esposizione sorgerà, a partire dalla primavera di quest’anno, ossia dalla fine dell’Expo, un nuovo quartiere-modello. Come nelle nuove città inglesi del secondo dopoguerra mondiale, anche qui si cercherà di creare un’unità urbana contenuta, che offra non solo residenze ma anche posti di lavoro. Quanto all’esposizione mondiale l’arrivederci è per Osaka, tra un paio di anni.
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Affari Esteri
di Paola Peduzzi
Chi affosserà Boris Johnson? ◆
Ancora non è chiaro se il «partygate», lo scandalo delle feste a Downing street durante il lockdown del e del , è l’ultimo atto del Governo di Boris Johnson o il passaggio a un’altra fase di sopravvivenza. Sue Gray, la funzionaria che ha condotto l’inchiesta sul «partygate», ha pubblicato il rapporto finale, nel quale evidenzia «il fallimento della leadership» di Johnson, la violazione degli «standard alti» richiesti a chi guida un Paese e il clima nell’ufficio del premier, dove contraddire il capo è difficile perché si temono rappresaglie. Dal punto di vista dell’etica di Governo l’esito è inappellabile: Johnson avrebbe dovuto evitare e scoraggiare le feste, non l’ha fatto e la sua credibilità ne esce molto ridimensionata (va detto che non è per la sua credibilità che è stato votato e messo a capo del Governo, la sua natura inaffidabile è
nota da sempre, ma è stato comunque scelto dagli elettori nel ). Gray però ha potuto prendere in considerazione nella sua inchiesta soltanto una parte delle tante feste (una quindicina) che si sono tenute a Downing Street perché le altre sono al vaglio di un’altra inchiesta condotta dalla polizia di Scotland Yard. Quest’ultima era stata coinvolta all’inizio del «partygate» ma aveva dichiarato che non c’era nulla di rilevante, per quel che riguardava le sue competenze, nell’inchiesta, che infatti era passata a Gray, una civil servant. Poi però la polizia è rientrata, prendendosi in carico l’indagine su molti festini ( foto da valutare, pagine di documenti), ottenendo in realtà l’effetto opposto a quello desiderato: ha perso credibilità perché è sembrata poco indipendente, e nell’insistente chiacchiericcio da fine di un’epoca si parla anche della sosti-
tuzione della capa di Scotland Yard, Cressida Dick. Johnson aspetta di capire il suo destino combattendo. Ai Comuni ha detto che non ha alcuna intenzione di andarsene, che il report di Gray ha dato un segnale chiaro che è stato compreso. «I get it and I’ll fix it», ha detto il premier, proponendo come aggiustamento una riforma organizzativa del suo staff. Intanto il Labour non perde la presa e continua a chiedere le dimissioni di Johnson come sanzione per la sua «vergogna morale», come l’ha definita Keir Starmer, leader laburista. Ma sono i Tory stessi, compagni di partito che hanno finora beneficiato della popolarità di Johnson, a segnarne il destino. Ogni giorno un nuovo parlamentare conservatore decide di sganciarsi e di essere pronto a mandare una lettera di sfiducia nei confronti di Johnson. Per aprire la procedura ne servono . Ora pare che si sia lontani
dalla soglia, ma i colpi di scena sono dietro la porta, li orchestra Dominic Cummings, ex consigliere di Johnson vendicativo e meticoloso, nonché gran maestro di colpi di scena spettacolari, la vittoria della Brexit soprattutto. Dove porterà questa «congiura»? L’esito più dibattuto riguarda il cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, considerato il più papabile dei sostituti del premier, in particolare perché, in questa crisi cosiddetta morale, lui rappresenta una leadership antitetica, fatta di ordine, di rispetto delle regole, di compostezza, di numeri e di piani strategici. Questa sua caratterizzazione è la sua forza e al contempo la sua debolezza, perché al bravo e giovane ragazzo Sunak forse manca il guizzo per sapersela prendere la leadership, ed esercitarla. Un altro nome è quello della ministra degli Esteri, Liz Truss, donna determinata e abile, che ha un buon sostegno in Par-
lamento ma è meno solida nella base del partito. Base i cui umori in realtà nessuno è ancora riuscito a intercettare, perché le divisioni al livello più alto dei Tory precipitano verso il basso in modo confuso: si registra solo una grande insofferenza e pochi in grado di indirizzarla. Mentre si formano tante «bolle» nel partito, quella di Sunak, quella di Truss, ma anche quella attorno alla ministra dell’Interno Priti Patel e all’ex ministro della Salute Matt Hancock, alcuni dicono che in questo momento è importante decifrare le mosse e la strategia di Theresa May. L’ex premier ha tenuto un discorso bello e brutale contro Johnson ai Comuni e per quanto non sia riuscita a trovare un equilibrio tra i suoi quando gestiva la Brexit come capa del Governo, oggi ha un peso specifico non indifferente nei Tory. È una che ha perso molte battaglie e molti consensi ma non la credibilità.
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Zig-Zag
di Ovidio Biffi
Non solo mercanti dell’informazione ◆
La notte di Capodanno ho iniziato a leggere Mercanti di verità, libro di oltre pagine. È insolito che decida di inoltrarmi in questi tomi. Di sicuro per pigrizia, ma anche per questioni più banali. Come gli spigoli che offendono gli appoggi su braccia o petto, oppure la difficoltà di memorizzare le decine di nomi dei personaggi che si incontrano. Con questo libro poi vado a rilento perché praticamente da inizio anno giornali e web propongono ogni giorno una marea di articoli sull’argomento (editoria, giornalismo) che hanno appannato le attese iniziali desunte da un commento «flash» di Gay Talese poi ritrovato anche sulla retrocopertina del libro: «Scritto benissimo e ricco di ritratti affascinanti, è un saggio importante uscito in un momento cruciale». L’autrice è Jill Abramson, brillante e molto considerata giornalista americana, prima direttrice don-
na sino a pochi anni fa del «New York Times». Come in altri suoi saggi parla della sua professione, in questo caso della guerra che ormai da diverso tempo coinvolge in tutto il mondo «old versus new media», cioè l’editoria basata sui giornali di carta contro quella che invece sfrutta la rete digitale. Una contesa che la stessa Abramson ha così sintetizzato in una recente intervista: «Internet ha cancellato la necessità delle macchine da stampa. Chiunque poteva pubblicare notizie. Il problema è che questo cambiamento è avvenuto molto rapidamente e le compagnie di giornali sono state lente a capire che Internet ha distrutto quello che era il modello di business dei giornali». Quando avevo ordinato Mercanti di verità non l’avevo collegato al nostro referendum sull’accettazione del pacchetto di aiuti alla stampa. Invece mi sono trovato con le quasi mille pagi-
ne che mi rimandavano di continuo a situazioni e temi della votazione del prossimo fine settimana. Avendo appena oltrepassato la metà del libro, non mi permetto giudizi ma solo un consiglio, rivolto a chi vorrà leggere Mercanti di verità: non saltate l’introduzione dell’edizione italiana, perdereste l’indispensabile calibratura per confrontare la situazione dell’editoria in Europa con quella degli Stati Uniti. La maggiore differenza? Mentre oltre Oceano ormai da decenni si assiste a manovre finanziarie e ad avvenimenti assai più politicizzati e spregiudicati – tanto più ora che, come evidenzia la Abramson, tra i mercanti che recitano ruoli dominanti e globali nell’informazione ci sono anche Google e Facebook –, da noi le preoccupazioni sono ferme all’aspetto imprenditoriale e ci si limita a capire o copiare ciò che sperimentano grandi e piccoli
editori americani, ovviamente in scala ridotta. Cercando un’immagine più semplice, i contendenti dell’industria dell’informazione, cioè i nuovi media e i vecchi giornali, potrebbero essere paragonati a due nuotatori che nel mezzo del guado dello stesso fiume reso impetuoso da Internet, sono impegnati a lottare ognuno contro differenti e mutevoli correnti, ma anche pronti a cogliere e ad avviare, se necessario, soluzioni in comune pur di tentare di salvarsi. Da noi di sicuro – e parlo della Svizzera volendo tornare all’imminente appuntamento con le urne – non c’è ancora una percezione esatta dei pericoli che un acuirsi della crisi dell’editoria potrebbe arrecare all’intera società. E il fatto che siamo fermi ai pacchetti di aiuti indiretti, basati essenzialmente su ristorni per i costi di distribuzione, lo dimostra. Si tamponano le perdite,
ma non si curano le cause e nemmeno si prendono in considerazione le insidie che potranno derivare in futuro da un’informazione prevalentemente digitale, eticamente fragile, priva di autorevolezza. Una situazione riassunta in modo chiaro in una recente newsletter de «Il Post» online che parlava degli aiuti alla stampa: ovunque, quindi anche da noi, sarà sempre più necessario «concordare dei criteri per cui questi contributi incentivino e premino un giornalismo di qualità piuttosto che “qualsiasi giornalismo” o persino un giornalismo pessimo, mendace o pericoloso». In altre parole, indipendentemente dall’esito del voto, da domenica sera occorrerà studiare il modo per identificare e premiare solo mercanti in grado di essere, oltre che «oggetti» dell’informazione, anche «soggetti» di certezze e di verità affidate a giornalisti e non ad algoritmi.
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Anno LXXXV 7 febbraio 2022
CULTURA
azione – Cooperativa Migros Ticino 35
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Mal d’Africa Alla Cons Arc di Chiasso gli scatti «animaleschi» del ticinese Alberto Bernardoni
Bisogno di leggerezza Un Festival che non è solo canzonette, ma racconta di un bisogno di normalità
Elene l’attivista A colloquio con la regista di origini georgiane Elene Naveriani, vincitrice del Premio di Soletta
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Un momento della commemorazione in Sala Borsa a Bologna, lo scorso 21 gennaio: sul palco, da sin.: Marco Belpoliti, Ermanno Cavazzoni e Filippo Milani. Alle loro spalle un’immagine del fotografo Luigi Ghirri con Gianni Celati. (U. Wolf)
Ricordo di Gianni Celati Letteratura
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Scrittori e studiosi hanno rievocato a Bologna la figura del grande scrittore italiano, scomparso lo scorso 3 gennaio
Alessandro Zanoli
Potrà sembrare un po’ fuori tema o fuori luogo, ma prima di prendere parte alla manifestazione in ricordo dello scrittore italiano Gianni Celati, iniziativa che si è tenuta a Bologna in Sala Borsa lo scorso gennaio, chi scrive ha avuto l’idea di passare un momento a dare un’occhiata alla Casa-museo di Giosuè Carducci. In particolare, colpisce il visitatore il giardino commemorativo, imponente, monumentale, costruito lì a fianco. Oggi pare completamente inutile e grottesco e dà l’idea di quanto transitoria possa essere la gloria letteraria. Confrontare i due scrittori è sicuramente assurdo, ma l’associazione di idee nata per istinto forse fornisce qualche spunto di riflessione. Nell’enorme differenza, culturale e personale, delle due fisionomie è quasi divertente andare a cercare analogie e richiami, in un gioco di rispecchiamenti e rifrazioni a un secolo di distanza. Ma torniamo all’omaggio ufficiale a Celati. L’atmosfera che si respirava nella bella sala liberty bolognese era
triste ma lucida. Il momento di ricordo promosso da Ermanno Cavazzoni e da altri amici di Celati era del tutto privo di retorica e commozione di circostanza. Occorre dire che in conseguenza della lunga malattia di cui Celati soffriva, da tempo la sua figura era assente dalla scena culturale. Cavazzoni si è assunto quindi il compito di ripercorrere la carriera di Celati con un affettuoso ritratto cronologico, arricchito anche da significative fotografie e da video. Il ritratto ha offerto ai presenti un quadro generale della multiforme attività dello scrittore, della sua vivacità e attitudine a infrangere ogni barriera, ogni convenzione, letteraria, sociale e accademica. «Celati era uno che scappava; quando le cose si stabilizzavano a lui gli veniva da scappare»: con questa frase scherzosa lo scrittore emiliano ha descritto l’irrequietezza dell’amico. Un’attitudine che l’ha portato più volte a rimettere in discussione la propria vita. Così per la la sua carriera universitaria: aveva rinunciato alla docenza
al Dams perché non gli era stato concesso un anno sabbatico. Studioso di una levatura straordinaria (testimone in questo senso l’apprezzamento e l’affetto che Italo Calvino gli aveva dimostrato), Celati ha gestito le sue doti in modo anticonvenzionale e libero. Cavazzoni ha voluto in questo senso citare le parole rivolte da Celati agli allievi in chiusura del suo corso al Politecnico di Zurigo, qualche anno fa: «Chi me l’ha fatto fare di stare sui libri quarant’anni? Non lo so, mi è sembrato il modo meno indecente di stare al mondo». Alla testimonianza di Cavazzoni sono seguiti poi gli interventi di amici e collaboratori di Celati. Molto sentito il ricordo di Carlo Ginzburg che ha letto una lettera inedita scrittagli dall’amico in cui lo esortava a partecipare a un’iniziativa editoriale. Lettera molto significativa che sottolineava di nuovo l’attenzione precisa verso il mondo della ricerca manifestato da Celati. Hanno parlato in seguito Marco Belpoliti che, con ragione ha invitato
a leggere il carteggio tra Celati e Daniele Benati (https://site.unibo.it/griseldaonline/it/gianni-celati/) in cui si coglie un’angolatura diversa della sua personalità, quella del «conversatore». Lo stesso Benati ha proposto un testo da lui scritto in occasione di un passato compleanno di Celati: la descrizione grottesca di una loro passeggiata invernale attraverso la cittadina inglese in cui entrambi abitavano e insegnavano. Jean Talon, dal canto suo, ha ricordato uno dei viaggi in Africa compiuto con Celati (raccontato in Avventure in Africa) e ha proposto la lettura del significativo Esercizio autobiografico in battute che è un esempio perfetto dell’understatement ironico di Celati. La studiosa Nunzia Palmieri (che insieme a Belpoliti ha curato il Meridiano Mondadori celatiano), ha poi condiviso i suoi ricordi circa l’avventurosa preparazione di una lettura pubblica dei celebri «poemi» di Vecchiatto, organizzata insieme a Celati qualche anno fa. Significativo e divertente, il ricordo conclusivo dello scrittore Ugo Cor-
nia: «Senza Celati sarei una persona diversa e non avrei fatto varie cose che ho fatto nella mia vita. Direi che Celati è stato per me lo stupefacente più potente (non che ne usi molti): direi che mi ha aperto il pensiero». Proprio questo ricordo di Cornia, così sintetico ed efficace, ci permette una considerazione finale. Ricordare Celati significa apprezzare il suo ruolo di «maître à penser», cioè il contributo che ha dato a una generazione di scrittori e studiosi, di cui ha orientato il modo di vedere il mondo: un’attenzione disincantata alla realtà, ma permeata da uno sguardo poetico, come nelle foto dell’amico Ghirri. Un atteggiamento concreto, impegnato, da animatore culturale (si pensi ai suoi ormai imprescindibili Narratori delle riserve). Un lavoro di rinnovamento e apertura che ha, senza dubbio alcuno, imposto una svolta alla letteratura italiana di fine . In questo senso, e fatte le debite differenze, sembra un po’ meno peregrino accostare la sua figura a quella di Carducci. Anche se entrambi inorridirebbero all’idea…
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CULTURA
Bernardoni l’Africano Fotografia
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Una sfida che si ripete
Alla ConsArc di Chiasso una serie di scatti di animali
In scena ◆ Opera RetablO, arte in tempo di crisi
Giovanni Medolago
Per la prima volta in oltre anni di attività, i protagonisti di una mostra alla Cons Arc di Chiasso sono esclusivamente gli animali: quadrupedi, volatili e fiere africane. Il merito è di Alberto Bernardoni, fotografo quasi per caso, come spiega lui stesso: «Ero in rotta con mio padre, e al termine dell’ennesima lite gli urlai “scappo a Timbuctu!”. È probabile che all’epoca manco sapevo dove fosse Timbuctu…».
Giorgio Thoeni
In trent’anni di attività è la prima volta che la Galleria Cons Arc di Chiasso dedica una mostra fotografica agli animali Se la passione per l’Africa scaturì da quella estemporanea invettiva contro il suo babbo, quella per la fotografia si deve molto probabilmente a Sulla fotografia, il saggio di Susan Sontag apparso nel e che nei decenni si è rivelato imprescindibile per gli amanti di quest’Arte, tanto da competere con l’immancabile Camera chiara (Roland Barthes, ) tra i testi fondamentali nell’indagine sul rapporto tra realtà e immagine, comunicazione e rappresentazione fotografica. Anni prima d’imbattersi nella Sontag, tuttavia, Bernardoni (classe ) aveva già affrontato il suo primo periplo africano: è il quando parte da Lugano in compagnia del campione di rally Bruno Martignoni (due volte primo nel massacrante Algeri-Città del Capo). Al termine di quel raid, Bernardoni è vittima del proverbiale Mal d’Africa, cui cerca di porre rimedio con una serie di altri viaggi che lo portano dall’Egitto e il suo Nilo fino al Mozambico – ancora alle prese con la guerra civile – e all’Uganda che si è appena messa alle spalle quella (feroce) caricatura d’un Idi Amin Dada, passando dal Ruanda sull’orlo del baratro. Diventa amico di Kenneth Kaunda, primo presidente dello Zambia, e del fotografo statunitense Peter Beard, il quale lo
Alberto Bernardoni, Egretta Alba, Moremi Okavango (1991). (© Alberto Bernardoni)
illumina con un pensiero ancora oggi caro a Bernardoni: «Laggiù non capita nulla fuori dall’ordinario, è semplicemente l’Africa!» È però stra-ordinario l’approccio del fotografo luganese con la fauna della savana africana: poco amante degli obiettivi a lunga gittata, riesce ad avvicinarsi così tanto a bestie feroci (leonesse&leoni) da strappar loro degli incredibili quanto ammalianti camera look. «Occorre molta pazienza – spiega ancora Bernardoni – e sapere da che parte spirano le brezze per avvicinarsi all’animale, che non deve percepire l’odore dell’umano, seppur armato solo di un apparecchio fotografico e non certo d’un fucile». Pazienza, certo; ma occorre anche un bel talento – e un po’ di fortuna! – per cogliere una leonessa appena destatasi e con gli occhi ancora
cisposi. Oppure un elefante che, barrendo, sbadiglia fiero delle sue zanne non ancora fatte preda dai bracconieri; per non dire della lince che, fissando il fotografo prossimo allo scatto, sembra chiedersi «Ma che vuole questo da me?». O ancora un macaco che, la mano sul viso pensoso, a sua volta sembra domandarsi se Darwin avesse davvero ragione… Bernardoni spazia dalle mere immagini naturalistiche a quelle poeticamente sfuocate di giraffe felici di galoppare nella savana o gazzelle in volo. «Non potevo avvicinarmi di più – spiega in quest’ultimo caso – perché tra noi c’era uno stagno, anzi un pantano impraticabile, ma i miei click non hanno disturbato il loro volo!», commenta per sottolineare pleonasticamente il rispetto che sempre nutre
verso i suoi soggetti fauneschi. Coglie uno zebù nella sua corsa sfrenata che, a dispetto della specie differente, potrebbe figurare nelle creazioni che Picasso ha dedicato alla tauromachìa. «L’animale come teofania», ha scritto lo psicanalista junghiano James Hillman, aggiungendo poi «il racconto come mistero». Ci sembra il miglior viatico per lo spettatore che vorrà visitare l’esposizione alla Galleria chiassese. Dove e quando In Eden. Fotografie di Alberto Bernardoni. Chiasso (Via Borromini 2), Galleria Cons Arc. Fino al 25 febbraio 2022. Orari: me-ve 10.00-12.00 / 15.00-18.00; sa su appuntamento; do-lu chiuso. www.galleriaconsarc.ch
Invito all’autenticità In Galleria
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Il periodo pandemico ha evidenziato alcune tendenze già in atto. Non è stato come scoperchiare il vaso di Pandora perché, per alcuni aspetti, il fenomeno è purtroppo già noto, ma se ci riferiamo all’arte, la crisi ha paradossalmente riproposto un processo di svalutazione della sua importanza. Un fenomeno che, come sappiamo, ha colpito in buona misura l’ambito teatrale e le sue programmazioni, dalle compagnie alle produzioni e agli artisti, soprattutto indipendenti, che hanno dovuto fare i conti con una precarietà generata dalla situazione, ponendosi domande esistenziali sul proprio lavoro: è da cestinare, svendere o trascurare? Quesiti al centro di una dinamica creativa che ha generato Requiem For My Dream, una riuscita performance realizzata da Opera RetablO andata recentemente in scena in due parti negli spazi del Museo di Villa dei Cedri. A sollevare i dubbi attorno al valore e al destino del proprio essere ci hanno pensato Ledwina Costantini con Daniele Bernardi e Raissa Avilés, evidenziando una realtà che ha origine già con le avanguardie storiche del ’ che avevano messo in atto dinamiche e problematiche creative destinate a rigenerarsi periodicamente. «Sempre, quasi in ogni epoca ci si è lamentati e si è detto che la cultura stava morendo», scriveva Tadeusz Kantor nel (Il teatro della morte), «le stesse preoccupazioni hanno toccato anche l’arte».
Ledwina Costantini in Requiem For My Dream.
A Lugano le opere dell’artista ticinese Gabi Fluck
Alessia Brughera
È un universo immaginifico e gioioso quello rappresentato da Gabi Fluck. Un universo in cui l’artista ticinese, nata in Germania nel , è capace di attribuire una nuova identità agli elementi del reale, catapultandoli in una dimensione dominata dalla leggiadria del sogno. Fluck crea lavori che seguono lo scorrere delle sue emozioni affidandosi a un linguaggio in cui la verità si fonde poeticamente con la finzione per dimostrare come nel fantastico si possano trovare molte affinità con le vicende umane: basta aprire la mente e varcare la soglia che separa questi due mondi solo in apparenza inconciliabili. Con un approccio ludico e uno stile dal sapore naïf, l’artista raffigura il fluire della vita con i suoi simboli, con le sue presenze, elaborando un vocabolario di immagini sempre ben ancorato alla realtà, mai avulso dall’esperienza vissuta. Per questo le sue opere, pur nella loro valenza metaforica, non sono mai ermetiche ma mantengono un alto grado di spon-
Gabi Fluck, Donna con cappello, specchio e borsetta in alto, 2004.
taneità e di schiettezza. Fluck fa di ricordi e di stati d’animo il punto di partenza per generare delicate fiabe che regalano il piacere dell’inatteso.
Come emerge dalla rassegna che lo Spazio Espositivo La Cornice a Lugano le dedica fino alla fine di febbraio, la visione divertita e fanciullesca che caratterizza la sua arte è per lei, e per chi osserva i suoi lavori, sinonimo di leggerezza e di libertà, ma anche di riflessione sull’esistenza che nasce dai sentimenti più autentici. In questo, di sicuro, la sua attività di illustratrice di libri per bambini è stata fondamentale, permettendole di osservare tutto ciò che ci circonda con uno sguardo puro e meravigliato. Le opere della Fluck radunate in mostra, in prevalenza tecniche miste su carta eseguite negli ultimi trent’anni, sono composizioni dai tratti essenziali studiate con estrema attenzione, dove nel ritmo armonioso delle parti e nell’accostamento delicato dei colori si dispiegano racconti che appartengono alla nostra quotidianità. Ecco le stravaganti figure femminili in carboncino e in china, le intime tempere della seconda metà degli an-
ni Novanta, i collage astratti su carta giapponese ispirati ai numerosi viaggi in Africa e in Grecia e i più recenti lavori di piccolo formato che testimoniano un forte legame con la natura: sono brani di vita in cui l’artista raccoglie i propri pensieri e le proprie sensazioni rassicurandoci sul fatto che non esistono meditazioni profonde che non possano essere vissute ed espresse con positività. Nelle sue storie senza un quando e senza un dove la Fluck è alla ricerca di un sentire archetipico che non può essere indagato attraverso la razionalità, ma soltanto avvertito con stupore emotivo. Dove e quando Gabi Fluck… Negli anni. Spazio Espositivo La Cornice, Lugano. Fino al 26 febbraio 2022. Orari: lunedì-venerdì 8.00/12.0014.00/18.00; sabato 9.00/12.00. Per informazioni: lacornicelugano @bluewin.ch; +41 91 923 15 83.
Ecco dunque Requiem For My Dream proposto come rituale di riflessione e condivisione. Si riflette percorrendo le stanze della villa con gli artisti in azione e si condivide esplorando un tema sul quale è sempre opportuno soffermarsi: ora liberando Ledwina Costantini, giullare senza tempo, imprigionata da una tomba di sassi, ora tagliando lembi del vestito di carta di Daniele Bernardi (citando una antica provocazione di Yoko Ono) o ascoltando Raissa Avilés declamare i Versus de Nummo dei Carmina Burana fra lo sgretolamento di maschere di sabbia candida e immacolati echi di frasi enigmatiche e un time-lapse simbolico di Massimiliano Rossetto. Una simbiosi animata dal respiro teatrale di un lavoro esemplare, raffinato, realizzato con intelligenza. Un progetto insomma che, accanto al tema evocato, mette in risalto accuratezza, sia nella scelta dei materiali sia nella complessiva messa in scena. La performance verrà riproposta dall’ al febbraio allo Studio Foce di Lugano, al Ghisla Art Collection di Locarno ( marzo) e al Domus Poetica di Bellinzona ( giugno).
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CULTURA
Un mondo fatto di luce
Il beato rito
Marco Horat
Marco Züblin
Il bello di un’esposizione, oltre che allietare il visitatore, è che dovrebbe arricchirlo nelle sue conoscenze, aprirgli la mente verso nuovi orizzonti e indurlo a porsi qualche domanda sulla propria condizione. Prendiamo il caso della mostra alla Fondazione Baur di Ginevra (istituzione dedita alle culture dell’Estremo Oriente), intitolata Elogio della luce: qualche reperto della tradizione giapponese pescato nelle proprie collezioni quale prezioso supporto per la luce, accanto alle opere di due artisti moderni, Pierre Soulages e Tanabe Chikuunsai IV. Sicuramente a noi più noto il primo, protagonista tra l’altro di una grande retrospettiva alla Fondazione Gianadda nel , che non il secondo. E qui iniziano le scoperte. Soulages è stato definito come colui che nelle sue tele, «permette al nero di uscire dall’ombra per entrare in un mondo di luce», mettendo così in discussione alcune nostre certezze. È capitato anche a me quando mi sono trovato per la prima volta di persona davanti alle sue opere. Lo stesso autore parla di uno «spazio di meditazione» nel quale gioca un ruolo importante tanto chi guarda quanto chi ha tracciato i segni sulla tela. Il colore nero prende vita e sembra fondersi con la luce, trasportandoci verso un orizzonte spirituale. Un paradosso che fa riflettere e che ci riporta all’Oriente.
Per le coscienze non c’è nulla di più consolatorio, ma anche di ottundente, di un rito. E la kermesse sanremese è un rito che permette di scacciare a colpi di inezie i demoni dell’inverno e di far tacere per qualche giorno le angosce del quotidiano. Sanremo ha una sorta di ambizione universalistica, cioè quella di diventare piazza di incontro per istanze sociali varie; ma tutto in tono lieve, di programmatica superficialità, senza disturbare troppo né gli spettatori né i sempiterni referenti, cioè tra gli altri i manovratori della politica reduci dalle figuracce quirinalizie. L’edizione di quest’anno (di cui, per esigenze di chiusura redazionale, posso parlare solo delle prime tre serate) ha appunto raccolto una serie di temi e di stimoli, tutti omologati e depotenziati nella solita melassa di un entusiasmo un po’ fasullo. Di qui le provocazioni «telefonate» di Fiorello e di Zalone, anch’essi coinvolti in questo mood festivaliero che li ha privati di qualche artiglio e di parecchia capacità di stupire. (Drusilla Foer, invece, ci ha ricordato che altro è possibile nell’intrattenimento, in termini di stile e di intelligenza.). Cerimoniere ancora Amadeus, quest’anno in veste di autore, di direttore artistico e di presentatore: sempre felice ed
Mostre ◆ Alla Baur di Ginevra le opere della collezione a confronto con quelle di due artisti
I giochi di luce in mostra alla Fondazione Baur mettono in dialogo mondi e modi di fare solo apparentemente lontani Parlando di Giappone, viene subito in mente il capolavoro di Jun’ichirõ Tanizaki, nell’originale Elogio dell’ombra, poi pubblicato in italiano con il titolo Libro d’ombra. Un trattato sulla cultura del Paese del Sol Le-
Smart TV ◆ L’appuntamento nazionalpopolare di Sanremo non delude
Tanabe Chikuunsai IV, Mononofu (Spirito Samurai), 2021. (©Tadayuki Minamoto, courtesy Galerie Mingei, Paris)
vante messo a confronto con l’Occidente, ma anche sulla convivenza naturale tra luce e buio, con considerazioni sull’armonia che dovrebbe stare alla base della nostra quotidianità: architettura e mobili, sistemi di riscaldamento e di illuminazione, gabinetti e ristoranti, stoviglie, ricette di cucina e generi teatrali…. Il gabinetto ideale? «Sono necessari: una lieve penombra, nessuna fulgidezza, la pulizia più accurata, e un silenzio così profondo che sia possibile udire lontano un volo di zanzare», dice Tanizaki. Coprotagonista della mostra alla Fondazione Baur è un illustre artista che lavora il bambù, creando volumi e spazi intriganti: Tanabe Chikuunsai IV, dove il numero sta a indicare la quarta generazione della sua famiglia dedita a un’arte che non potrebbe che essere figlia dell’Oriente. Intrecci di sottili strisce di bambù tagliate a mano e lavorate con maestria che creano spazi di luce-ombra ed effetti ottici che ci riportano al tema della meditazione e agli intrecci che caratterizzano il mondo nonché la vita di ciascuno. Un artista che lavora una materia
nobile e umile al tempo stesso, molto amata anche per le cerimonie del tè al tempo dei samurai; e che si riallaccia a una tradizione secolare, se è vero che un capolavoro letterario del X secolo, di autore ignoto, è il Taketori monogatari, tradotto in italiano con Storia di un tagliabambù. Vi si narra di un anziano taglialegna che adotta una misteriosa creaturina alta tre pollici trovata all’interno di un bambù, la principessa Kaguyahime, che alla fine della storia tornerà sulla Luna da dove proveniva e della quale rimane solo «quel fumo che ancora oggi sale alle nuvole dal monte Fuji, il più vicino al cielo». Una mostra che da una parte soddisfa dunque lo spirito, dall’altra apre uno squarcio di luce sui collegamenti tra culture apparentemente lontane tra di loro, ma che sanno dialogare e trovare punti in comune quando la mente e il cuore si muovono nella stessa direzione. Dove e quando Eloge de la lumière, Ginevra, Fondation Baur; orari: ma-do 14.00-18.00; fino al 23 marzo 2022. fondation-baur.ch
L’elegante e colta Drusilla Foer ha dato una lezione di stile. (@drusillafoer)
entusiasta di ogni piccola cosa, grandi risate e complimenti sperticati, in un’ecumenica positività che parrebbe stolida in altro contesto, ma che qui ci stava. «Grazie Amadeus a nome degli italiani che fai sentire tutti geni», gli ha lucidamente detto Zalone, agitando così lo spettro della «fenomenologia di Mike Bongiorno». Nel contenitore festivaliero abbiamo trovato di tutto, dalla celebrazione degli eroi sportivi bellocci ai lanci delle novità del palinsesto RAI, dalla presentazione di eventi a qualche riflessione minima su temi di società (il razzismo, le questioni di genere, il cyberbullismo, la criminalità, l’omofobia), dal ricordo dei defunti alle ospitate italicamente autarchiche, fino alle «papaline» del Fantasanremo. Una vetrina omogeneizzata, con un occhio attento alla sensibilità del pubblico-target, cioè di quei consumatori da divano con le fodere e da pelliccetta di rat musqué; un parterre fedele, che occorre trattare da persone di ampie vedute, ma non troppo né per troppo tempo, perché l’insofferenza è in agguato, con l’ansia di essere scaldati e sedati a suon di balli di gruppo e di battimani, di registri bassi. E la musica? C’è anche quella, certo. Non esprimo giudizi se non per dire che vi erano anche canzoni di qualità autoriale, di notevole complessità strutturale, vere sfide a livello vocale (Noemi, Mahmood-Blanco, Truppi, Irama, Sangiovanni). E poi Emma ed Elisa con intelligenti riletture dell’italica tradizione canora. Sanremo è una macchina perfetta, e una grande sfida tecnico-organizzativa per il servizio pubblico; ha unito «arte», tecnologia, creatività e industria in una sintesi ideale, specchio della professionalità degli operatori. Più che il mainstream della grancassa osannante dei media, sono gli ascolti trionfali – che, come si sa, sono l’unica cosa che conta – a beatificare anche l’edizione di quest’anno del rito nazionalpopolare sanremese. Annuncio pubblicitario
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CULTURA
Il cinema come atto militante Cinema
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A colloquio con la regista georgiana Elene Naveriani, vincitrice del Prix de Soleure 2022 con Wet Sand
Muriel Del Don
Nata e cresciuta in Georgia dove ha studiato pittura all’Accademia di Belle Arti di Tbilisi, Elene Naveriani è una nomade che ha scelto come nutrimento creativo il mondo e la sua brillante diversità. Un Bachelor in regia cinematografica all’HEAD di Ginevra, Elene esprime nei suoi film la bellezza di una multiculturalità che rivendica come dono e forza vitale. Il suo universo artistico popolato da personaggi «atipici», coscienti e fieri della loro diversità ma anche consapevoli del rischio che essa implica, diventa manifesto contro un conformismo caustico e soffocante che reprime ogni tentativo di rivolta. Che si tratti di sessualità, genere o etnia, Elene stravolge le regole di una società eteronormativa patriarcale che rifiuta l’alterità, che tenta di imporre una forma di amore univoco e stereotipato. Quattro anni dopo il successo di critica del primo potente lungometraggio I Am Truly A Drop Of Sun On Earth, Elene ha presentato quest’anno a Locarno nel Concorso Cineasti del presente il suo secondo lungometraggio Wet Sand, un grido catartico che riecheggia nel profondo di ognuno di noi, un atto artistico militante che dà voce a tutti coloro che hanno dovuto soffocare la propria identità a causa di una società conformista e spietata che vuole imporre con violenta arroganza il proprio pensiero egemonico. Sorta di (anti)eroi romantici versione queer, Eliko e Amnon, incarnano le sofferenze di una comunità, quella LGBTIQ+ georgiana (ma il discorso si potrebbe ampliare a molte, troppe, altre realtà), soffocata da una società che vede la «diversità» come una tara inaccettabile da rimuovere a tutti i costi. Con il suo ultimo film Elene ci insegna che la verità, l’espressione incondizionata dei propri sentimenti, ha un prezzo che vale la pena di pagare se si vuole conquistare la libertà di esistere. Grazie a una fotografia elegante e potente (di Agnesh Pakoz-
di) che riflette come un prisma multicolore il mondo interiore dei personaggi, Wet Sand tocca nel profondo raccontandoci una storia personale che diventa universale. Elene descrive il suo ultimo film come un «atto di empowerment per le nuove generazioni alle prese con la questione dell’identità», un (contro)manifesto nel quale i sentimenti, quelli profondi, incandescenti di verità, diventano vere e proprie armi con le quali combattere un conformismo che si crede invincibile. Wet Sand è un film necessario che permette di sognare un futuro migliore nel quale vivere la propria identità con fierezza ma anche tenerezza, un futuro nel quale i così detti «mostri» si liberano dalle catene imposte dalla società. Con il suo nuovo progetto, che sta attualmente sviluppando, basato sull’adattamento cinematografico del romanzo Blackbird Blackbird Blackberry della scrittrice e attivista femminista georgiana Tamta Melashvili, Elene intende portare avanti il discorso sulla «diversità», mostrandoci quanto sia importante dare voce a discorsi dissidenti che della norma si prendono allegramente (e coscientemente) gioco. L’abbiamo incontrata per discutere del suo universo artistico, delle sue passioni e soprattutto del suo impegno nella comunità LGBTIQ+. Potresti parlarci brevemente del tuo percorso artistico? Cosa ti ha spinto a girare il tuo primo film e quali sono le tue influenze? Ho studiato pittura per cinque anni a Tbilisi. A un certo punto mi sono resa conto che non potevo esprimere quello che sentivo attraverso l’arte visiva. Dipingo ancora, ma solo per me, esclusivamente per un piacere personale. E poco a poco, senza aver mai veramente pensato di esprimermi attraverso la settima arte, mi sono trovata a girare dei film. Ho sempre amato il cinema, era il mio «mondo
Una scena dal film Wet Sand. (wetsand-film. com)
al contrario» quand’ero adolescente. Mi piaceva avventurarmi in universi destabilizzanti. Ogni film possedeva un universo diverso, una storia differente. Uno di questi film mi ha davvero marcata a fuoco, mi riferisco a Miracolo a Milano di Vittorio De Sica. Questo film mi ha ridato fiducia nell’umanità. Posso dire che il Neorealismo italiano è stato il mio grande amore d’infanzia. In Wet Sand metti in scena con poesia e una necessaria dose di umorismo un dramma sentimentale che ricorda Romeo e Giulietta versione queer. Come hai affrontato lo scottante tema della repressione nei confronti della comunità LGBTIQ+ in Georgia, anche se potremmo tristemente ampliare il discorso alla nostra società nel suo insieme? Per me questo tema non è solo d’attualità, l’ho vissuto sulla mia pelle e ne sono stata testimone. È stato un problema nel passato, lo è oggi e purtroppo lo sarà ancora in futuro. È una questione personale che mi fa male e mi preoccupa enormemente. La storia narrata in Wet Sand non concer-
ne solamente la comunità LGBTIQ+ ma l’umanità nel suo insieme, le persone che provano dei sentimenti che la società considera «differenti» rispetto alla norma e che alimentano senza paura la loro immaginazione. Purtroppo la società non gli permette di vivere liberamente per bigotteria o paura. Gli attori di Wet Sand sanno di incarnare i difensori.e.x della diversità, erano coscienti del contenuto del film e hanno accettato di farne parte. Alcuni di loro erano alla loro prima esperienza cinematografica, altri sono attori.rici.x professionisti.e.x. Avevamo tutti.e.x lo stesso obiettivo: dare voce all’amore che la società d’oggi non vuole ascoltare e regalare alla comunità LGBTIQ+ un po’ di speranza nel futuro. Per quanto riguarda la rappresentazione queer, ci sono film o registi.e.x che ti hanno ispirato (ad es. Almodovar con il suo lato melodrammatico o Yann Gonzalez con l’ossessione per la dimensione del fantasma)? Guardo di tutto, il cinema mi ossessiona. Tranne ovviamente i film violenti, eteronormativi e sessisti, che
mi annoiano e disgustano. Adoro entrare in altri universi. Non voglio fare nomi, anche se ci sono molti registi.e.x queer davvero interessanti: Monika Treut, Cheryl Dunye o Alain Guiraudie. Il queer non riguarda solamente la sessualità, ma anche lo sguardo e il punto di vista. In che misura le tue origini e il tuo percorso cosmopolita hanno influenzato il tuo universo artistico? Consideri il tuo cinema come militante? Penso di sì. Il fatto di essere nata in Georgia mi ha regalato qualcosa di unico. Il mio essere «multiculturale» è un privilegio e ne sono riconoscente. Cambiare nazione e cultura forma e al contempo trasforma gli individui. Il nostro passato influenza il nostro presente. Credo che se De Sica mi ha aiutata ad alzarmi dal letto e a sentirmi meglio, forse anche i miei film daranno speranza a chi ormai l’ha persa. Giro i miei film perché mi sento di farne parte e spero, come i miei personaggi, che le cose cambino. Forse è anche questa una forma di attivismo attraverso il linguaggio cinematografico.
Nella mente che soffre Pubblicazioni
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Barbara O’Brien ci permette di confrontarci con la salute mentale… da dentro
Laura Marzi
Se c’è un dato scientifico che anche i profani e le profane della medicina conoscono e accettano è che del funzionamento del cervello si sa ben poco. Di conseguenza, è molto difficile stabilire le cause specifiche dell’insorgere di una malattia mentale, senza considerare poi lo stigma che tuttora affligge coloro che soffrono di disturbi psichici. Operatori e cose. Confessioni di una schizofrenica edito da Adelphi offre la possibilità unica di compiere un viaggio all’interno di una mente. Barbara O’Brien è lo pseudonimo utilizzato dall’autrice per scrivere questo testo stupefacente, nel , a seguito della sua guarigione dalla schizofrenia. La giovane donna, il giorno in cui ha visto comparire per la prima volta Burt, Nicky e Hinton, cioè le sue allucinazioni, era nel pieno della sua carriera in una grande azienda statunitense. Da tempo, la sua maggiore difficoltà consisteva nell’evitare le strategie dei colleghi, che nel testo vengono definiti «operatori dell’uncino»: coloro che trascorrevano il loro tempo a ordire strategie per far cadere le teste dei loro superiori e prenderne il posto. Da quella mattina in cui sveglian-
dosi ha sentito le voci per la prima volta, per sei mesi ininterrottamente, Barbara O’Brien ha attraversato gli Stati Uniti, in lungo e in largo su una stessa linea di autobus, seguendo le indicazioni delle sue voci, per sfuggire ai pericoli che queste paventavano. Infatti, la fantasia psicotica della donna prevedeva l’esistenza di «operatori», definiti così in un’appendice posta alla fine del testo: «essere umano dotato di una conformazione cerebrale che gli permette di esplorare e influenzare la mente altrui» e di «Cose»: «essere umano sprovvisto dell’attrezzatura mentale degli Operatori». Barbara era una Cosa, ovviamente, mentre gli uomini e le donne che esistevano solo nella sua mente erano per la maggior parte «operatori», che la indirizzavano o le davano la caccia. Una volta guarita da sola, Barbara si è resa conto, grazie a una capacità analitica e una lucidità fenomenali, che le parti del suo sé si erano manifestate sotto forma di presenze estranee, di voci e allucinazioni, come estremo sintomo di una sofferenza psicologica, della quale in qualche modo erano state anche la soluzione. Non c’è, sia ben chiaro, un solo
L’immagine di copertina del libro.
passaggio in cui l’autrice definisca la schizofrenia come null’altro se non una grave malattia mentale: questo non è un testo new age o che proponga prospettive misticheggianti. Sarebbe invece più adeguato definirlo una sorta di diario di guerra. Verso la fine dell’episodio schizofrenico, la donna, seguendo il suggerimento di uno degli «operatori» che le parlavano nella testa, aveva contattato uno psicanalista, che aveva compreso le possibilità di guarigione e aveva evitato di farla internare.
Il racconto del rinsavimento e le immagini che O’Brien utilizza per descrivere la ripresa del funzionamento «regolare» della sua psiche sono di una chiarezza strabiliante. O’Brien definisce la mente conscia durante l’episodio schizofrenico come: «unico spettatore in tutto il teatro, costretta ad assistere senza poter lasciare la sala» al dramma che l’inconscio mette in scena, quando «si ribella, assume il controllo, crea la persona che desidera essere, rinchiude il controllore conscio in uno spazio angusto, […] e infine gli ruba la scena». Alla scomparsa delle allucinazioni la mente conscia diventa «una spiaggia deserta», in cui per vari giorni non avviene assolutamente nulla, mentre poi col passare del tempo insorgono dei pensieri: «le onde». Davvero sorprendente è anche la descrizione di «Qualcosa», il nome che O’Brien attribuisce al proprio inconscio quando, una volta tornata in sé, assume il ruolo di una guida veggente, in attesa che la parte conscia riprenda definitivamente il controllo. Nel negli Stati Uniti ad ammalarsi di schizofrenia era un individuo su e tali cifre sono aumen-
tate fino a che non sono stati trovati dei rimedi farmacologici, che hanno permesso di evitare l’internamento. Questo testo ha il merito indiscusso di riportare la malattia psichica a una dimensione di comprensibilità, dimostrando come una struttura mentale «normale», se sottoposta a uno stress inadeguato, può reagire con l’autoisolamento. O sarebbe meglio dire che, in determinate condizioni, può capitare che l’inconscio metta in atto una vera e propria presa della Bastiglia. Con la sua testimonianza, Barbara O’Brien permette l’esperienza unica di vedere vivisezionato il funzionamento di una mente. Lo fa non dal punto di vista di uno scienziato, le cui parole risulterebbero probabilmente di difficile comprensione per i non addetti ai lavori, ma da quello di un’impiegata, particolarmente dotata e ligia al dovere, che ha visto il proprio sé ribellarsi, auto-sabotarsi e infine trovare la strada, per un’esistenza più adeguata a sé stessa e ai suoi limiti. Bibliografia Barbara O’Brien, Operatori e Cose. Confessioni di una schizofrenica, Adelphi, 2021, pp. 251.
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CULTURA / RUBRICHE
In fin della fiera
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di Bruno Gambarotta
Colazione precoce ◆
Sollecitati da una grande massa di stimoli, molti bambini entrano in prima elementare sapendo già leggere e scrivere. Io no. La mia lingua materna era il piemontese, tuttora nella pratica della vita quotidiana mi accade di pensare e di nominare azioni e oggetti in dialetto e doverli tradurre mentalmente prima di parlare. Posseggo una collezione di vocabolari e sempre ne tengo uno nei paraggi per evitare gli svarioni. La mia scoperta della lingua italiana avvenne in classe e mi colmò il petto di un entusiasmo travolgente al punto che, condotto per mano da mia nonna paterna, leggevo ad alta voce tutte le parole – insegne, slogan, scritte sui muri – che incontravo per strada, sfinendo quella povera donna. Se m’impadronivo di una parola lunga e difficile non la mollavo più, la ripetevo all’infinito. Mia madre, al colmo della disperazione, strillava: «Se dici ancora una volta prolegomeni ti ammazzo!» E io, a distanza di sicurezza: «Procrastina-
re… procrastinare…» Sono entrato in prima elementare nell’autunno del , avevo sei anni. Per le vie di Asti girava un terzetto di giovanotti in divisa, con un secchio di vernice nera e un pennello da imbianchino. Uno reggeva un grande foglio rettangolare di compensato intagliato all’interno seguendo il profilo di lettere e di disegni. Procedevano lentamente e tutte le volte che scoprivano ad altezza d’uomo una porzione sgombra del muro di una casa si mettevano all’opera. In due tenevano fermo il compensato mentre il terzo, intinto il pennello nel secchio di vernice, lo passava sul foglio, tolto il quale comparivano sul muro il disegno dello scheletro di una testa con le ossa incrociate e in basso una scritta in lettere maiuscole. Mia nonna mi strattonava ma io, affascinato da quella magia, non mi schiodavo, dovevo prima leggere sillabando quelle parole nere: «Morte a chi sente radio Londra!». Lasciandomi trascinare dissi a
Un mondo storto
mia nonna, ad alta voce: «Mio papà l’ascolta sempre!», fiero di avere un padre che rischiava la vita per ascoltare la radio. Uno dei tre, forse il capo pattuglia, si voltò di scatto per vedere chi aveva parlato e, incrociando lo sguardo con quello di mia nonna, si bloccò: i due si conoscevano. Lasciò trascorrere qualche secondo prima di incitare i due compari: andiamo! A quella data l’esercito alleato aveva già liberato l’Italia del Sud, nessuno poteva farsi illusioni sulle sorti della guerra. Forse quello sconosciuto capo pattuglia pensava di crearsi qualche attenuante al momento della resa dei conti. Da quel giorno sono trascorsi quasi ottanta anni ma quel piccolo mostro saccente è ancora presente. È seduto su una panchina, sempre con la nonna, sotto la pensilina della fermata dei mezzi pubblici. Sosta un autobus di un’altra linea e sulla sua fiancata è incollato un grande cartellone pubblicitario di un servizio sanitario. L’immagine è quella di due fiammi-
feri su un letto matrimoniale, seduti con la schiena appoggiata ai cuscini; la capocchia del fiammifero di sinistra ha preso fuoco. Nella parte alta del disegno campeggiano due parole. Il nostro eroe le legge a voce alta e domanda, sempre al massimo volume: «Nonna, cosa significa eiaculazione?». La nonna sa per esperienza che il tentativo di zittire il nipote produrrebbe l’effetto contrario e improvvisa una definizione basata sull’assonanza: «Significa colazione». «E precoce cosa vuol dire?». Qui la nonna va sul sicuro: «Precoce significa troppo presto». Il piccolo Bruno sospetta che non gliela contino giusta: «E tu come fai a capire quando questa eiaculazione arriva troppo presto?». La nonna cerca soccorso nella figura: «Non vedi il disegno? Quei due fiammiferi sono ancora a letto; è evidente che a quello di sinistra hanno portato la colazione troppo presto e lui ha preso fuoco». La logica esige rispetto: «Se ha preso fuoco significa che
non gli è arrivata una colazione precoce, ma se mai troppo calda». L’autobus con la fiancata occupata dalla pubblicità progresso nel frattempo è ripartito ma la nostra piccola carogna ha memorizzato la scritta: «Sotto eiaculazione precoce c’era scritto parlane al tuo medico. Perché il nostro medico dovrebbe sapere come a casa nostra facciamo eiaculazione?». «Ai medici bisogna sempre dire tutto se si vuole guarire». «Perché, fare eiaculazione troppo presto è forse una malattia? Perché il dottore, quando mi visita, non mi domanda mai come va con l’eiaculazione?». Il nostro tram si ostina a non passare, sotto la pensilina s’è radunata una discreta folla; nessuno perde una sillaba del dialogo fra i due. La nonna prende l’unica decisione possibile: «Il nostro tram non passa più, si è fatto tardi, torniamo a casa». Bruno è d’accordo: «Sì. Dirò alla mia mamma che d’ora in poi anch’io alla domenica voglio avere un’eiaculazione precoce».
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di Ermanno Cavazzoni
I terrapiattisti ◆
C’è qualcosa nei terrapiattisti che fa ridere, ma anche qualcosa di sconcertante, perché immaginare una terra piatta è molto più problematico della terra sferica. Per sostenere che la terra è piatta occorre uno sforzo tale di immaginazione che questa idiozia diventa interessante, come sono interessanti le favole. La terra piatta dovrebbe estendersi all’infinito in ogni direzione, fatta di oceani e di terre che si succedono e che quindi non arriveremo mai ad esplorare tutte perché ci sarà sempre altra terra e altro oceano. Il che sarebbe affascinante, altre popolazioni da conoscere, altri usi e costumi, altri regni, all’infinito, niente globalizzazione, la terra non sarebbe già tutta scoperta; ci si potrebbe mettere in marcia e viaggiare in una direzione per tutta la vita, sperando di non incontrare gente ostile e di trovare alimenti; si
potrebbe andare anche in aereo, ma, come si sa, un aereo o un’automobile hanno un’autonomia limitata, qualche migliaio di chilometri, poi deve rifornirsi; anche secondo i terrapiattisti è difficile si trovi sempre una pompa di benzina. Meglio quindi andare a piedi, se uno parte a anni e per anni cammina, calcolando una media di chilometri al giorno, fa circa mila chilometri, poi torna, per riferire, altri anni, quando arriva avrà anni e può scrivere una relazione. Ma resta da esplorare la maggior parte. Se la terra è piatta all’infinito, il cielo come sarà? Sarà una tela che scorre da est a ovest, su cui è incollato il sole, poi di seguito le stelle, poi un altro sole, un’altra notte di stelle e così all’infinito; cioè non c’è un sole, ma tanti soli quanti i giorni, tutti identici, come fotocopie, tanto da far credere che sia lo stesso; ma i ter-
rapiattisti dicono che è un’illusione. Altro problema: la terra è un foglio o scavando c’è sempre terra? Se è un foglio e uno scava, a un certo punto cade di là, e se non c’è niente cadrà all’infinito. Per fare l’esperimento può farsi calare con una corda, e poi farsi tirare su, e raccontare com’è fatta la faccia sottostante del foglio, sarà roccia compatta, ma soprattutto sarà buia, perché il sole è di sopra, quindi meglio si cali con una pila, e poi tornato su, si chiuda il buco se no qualcuno potrebbe caderci e sparire per sempre. Ma in genere i terrapiattisti, spaventati dalle lunghezze infinite, concepiscono la terra come un foglio delimitato, circolare o poligonale. L’idea è bella, l’oceano che ci circonda a un certo punto finisce; l’acqua cadrebbe oltre l’orlo e gli oceani si sarebbero già svuotati precipitando nell’abisso: quindi deve esserci tutt’attorno un
muro di contenimento, la nostra terra è un catino. Bisogna sia garantito che il catino non si corroda, se no restiamo senz’acqua, sarebbe un problema grave. Lungo l’orlo si può passeggiare, c’è una ringhiera, perché qualcuno non cada. Ci si può affacciare sul vuoto, il cielo continua anche sotto. Ma allora la terra cos’è? È un foglietto che vola? o è un cubo e noi stiamo su una faccia? Un cubo non è accettato, perché già gli alpinisti più arditi si sarebbero calati lungo i lati, ci sarebbero grotte, ci andrebbero gli anacoreti, e magari scavando troppo si arriverebbe a forare il fondo del mare creando un buco di scarico, con tutte le conseguenze tremende già dette. Quindi siamo su un foglio volatile, sulla pagina strappata da un grande libro, e poiché ci sono montagne, sarà una pagina accartocciata, che poi qualcuno ha cercato di ridistendere, ma non
avendo un ferro da stiro, le pieghe ci sono rimaste. E così volano nell’universo questi fogli spiegazzati che sono i pianeti, certuni hanno preso fuoco, sono il sole e le stelle. Nell’ultimo congresso di terrapiattisti si è stabilito che all’origine c’era un quaderno. Un essere enorme con una mano enorme ha scritto su ogni foglio un pensiero, il primo che gli è venuto, letti di seguito formano un grande poema che sarebbe il significato di questo universo. Secondo altri sono disegni osceni; l’universo è osceno perché invece di stare nascosto, si è spudoratamente manifestato. Altri sostengono che in ogni foglio è ripetuta l’equazione fondamentale che spiega tutto. Si è deciso per votazione che bisogna scavare sotto le sabbie dell’Asia, là c’è la frase, il disegno o l’equazione risolutiva sepolta. E sono partiti a scavare!
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Voti d’aria
di Paolo Di Stefano
I Måneskin al colle ◆
Usciti sfibrati dalle elezioni presidenziali (+ complessivo) per precipitare nella settimana del Festival di Sanremo (+ la media delle cinque serate) e riemergerne inesorabilmente ammaccati, non è inopportuno chiedersi: che cosa abbiamo fatto di male per meritarci tanto strazio in questo inizio di ? Orietta Berti vestita da Pokemon… Achille Lauro a torso nudo tatuatissimo e scalzo (mamma mia, che scandalo!)… Come se non bastassero la pandemia infinita e la minaccia bellica in Ucraina, e come se non bastasse l’iperattivismo di Salvini, abbiamo scoperto con angoscia di essere circondati dai contiani (i seguaci di Giuseppe Conte), dai dimaiani (i seguaci di Di Maio), dai fichiani (che si allineano con il presidente della Camera), dai dibattistiani (i più estremisti dei grillini), dai giorgettiani (gli adepti del ministro Giorget-
ti), dai franceschiniani (gli amici del ministro della Cultura), dai renziani (quelli vicini a Renzi), dagli ex renziani (quelli che lo erano) e dagli ex bersaniani (quelli che pendevano dalle labbra del vecchio segretario democratico). Per non parlare dei berlusconiani e dei draghiani: pare peraltro che circolino ancora sparute schiere di sopravvissuti prodiani e dalemiani. E per ogni aggettivo c’è un aggettivo opposto e speculare, basta aggiungere un prefisso: gli anticontiani, gli antidimaiani, gli antigiorgettiani, gli antifranceschiniani, gli antidraghiani e ovviamente gli antiberlusconiani… Vanno aggiunti i presidenzialisti e gli antipresidenzialisti, i semipresidenzialisti, gli antisemipresidenzialisti e magari i semiantipresidenzialisti… Da perdere la testa, la semitesta e l’antisemitesta. Tuttavia, il legittimo sospetto è che ciascuna particel-
la di questo pulviscolo atmosferico possa vantare mediamente non più di tre-quattro aderenti (il titolare e un paio di compagni di lotta) anche se molto agitati e chiassosi, e soprattutto molto intervistati dai giornali e dai telegiornali impazienti di annunciare per primi le microscissioni epocali (i sette contiani da una parte e i quattro dimaiani dall’altra: lo scoop rimarrà inciso nei libri di storia!). In compenso, l’«alto profilo» del futuro presidente era il primo requisito fortemente auspicato dall’intero arco parlamentare. Strano che, in tutto il dibattere e il polemizzare, nessuno abbia dichiarato: «Il nuovo presidente dovrebbe essere una personalità di basso o bassissimo profilo». Sconcertante che, contro ogni evidenza, persino i fedelissimi berlusconiani abbiano rivendicato l’alto profilo (con i tacchi?) del loro candidato. Natu-
ralmente sul concetto di «alto profilo» non tutti concordavano. Nessuna meraviglia se Salvini, nella frenetica e angosciosa ricerca di un alto profilo, avesse proposto per il Colle, tra i tanti nomi scelti un po’ a caso, i Måneskin (+). Qualora l’autorevole costituzionalista Sabino Cassese (–, candidato il giorno prima dallo stesso Salvini) gli avesse mai fatto notare che la carta costituzionale non prevede un presidente collettivo (i Måneskin sono quattro), il leader della Lega avrebbe prontamente obiettato che comunque avrebbero potuto alternarsi di trimestre in trimestre. Aggiungendo che, anzi, la nomina di una donna, la bassista di alto profilo Victoria De Angelis, avrebbe rappresentato una dirompente novità in quanto, appunto, donna. Fantasie? Fino a un certo punto. Del resto, quei burloni avevano inserito nell’ur-
na tanti nomi divertenti e fantasiosi rigorosamente di altissimo profilo: gli attori Lino Banfi, Sophia Loren e Rocco Siffredi, gli eroi nazionali Trapattoni e Zoff (qualcuno si è ricordato anche di Falcao), Vasco Rossi e Guccini, nonché due vette dell’intellighenzia televisiva, ovvero Barbara d’Urso e Bruno Vespa. «Bisogna recuperare un certo standing», ha ammesso qualcuno nel pandemonio delle innumerevoli maratone (a parte l’inutile anglicismo, – per l’utile auspicio). Incredibilmente, l’elezione di Mattarella (+ alla sua ammirevole dedizione) ha prodotto, oltre al recupero dello standing, anche una standing ovation di qualche minuto al presidente eletto. Un po’ meno lunga di quella che avrebbe poi salutato i Måneskin al teatro Ariston di Sanremo, ma sfibrati come siamo conviene accontentarsi.
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