Azione 22 del 30 maggio 2022

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700 prodotti a prezzi imbattibili


Ù I P I D O C C A S L E N

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Più qualità M-Budget è sinonimo della consueta qualità Migros. Anche in questo caso facciamo attenzione alla sostenibilità. Ne è un esempio il nostro succo d‘arancia provvisto del marchio di qualità Rainforest Alliance.

In collaborazione con un istituto di ricerche di mercato indipendente, dal 25 aprile 2022 al 29 aprile 2022 abbiamo confrontato i prezzi M-Budget con prodotti analoghi di Coop, Aldi, Lidl e Denner. Risultato: i prezzi dei 700 prodotti M-Budget sono imbattibili. Trovi ulteriori informazioni sul confronto dei prezzi e tanto altro su m-budget.ch. Inclusi nell’importo indicato: trio di affettati per 100 g fr. 1.25, yogurt al naturale 500 g fr. 0.80, succo d’arancia 1,5 l fr. 1.20, drink alle mandorle 1 l fr. 1.90, corn flakes 600 g fr. 1.50, confettura di ciliegie nere 450 g fr. 1.80, pane bianco di frumento per toast 500 g fr. 1.05


Anno LXXXV 30 maggio 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

Pagine 6 – 7 ●

SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Guardare indietro ci fa andare avanti: è il potere del rimpianto, come spiega Daniel H. Pink

La ventottenne di Cadro, Sylvie Corti, racconta la sua adrenalinica passione per le moto

Garantendo protezione militare a Taiwan, Biden segnala un cambiamento di rotta

Il pacifismo di Hermann Hesse e Stefan Zweig al centro di un convegno a Montagnola

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Un diverso mondo Giro del mondo botanico globalizzato alle Isole Borromee Peter Schiesser

La guerra in Ucraina, la pandemia, i mutamenti climatici non potevano mancare nell’agenda del Forum economico di Davos, con in sottofondo il conflitto fra Stati Uniti e Cina, primo sasso nelle scarpe dell’economia globale (con la guerra tariffale iniziata da Trump). Accanto agli accenti politici posti dai vari governanti mondiali, sono stati in particolare i panel di discussione a offrire uno sguardo approfondito sulla «Grande confusione» che investe il mondo. E che presenta, come ritengono alcuni economisti, le condizioni per una perfetta tempesta economica, con la concomitanza di una pandemia (in particolare con i continui lockdown in Cina), una guerra d’aggressione, i mutamenti climatici. Una questione di fondo, a Davos, è quindi stata: la globalizzazione dell’economia si sta inceppando? La maggiore ipoteca è di natura geopolitica. E si chiama guerra. Quella in Ucraina ha un impatto mondiale, per l’impennata dei prezzi dell’energia, per la sicurezza alimentare di molte popolazioni, private del grano dell’Ucraina, solo per nominare due aspetti. Ma quella che si delinea fra Stati Uniti e Cina avrebbe conseguenze ancora maggiori, vista l’interdipendenza fra le economie delle due superpotenze. Nel governo americano più voci hanno espresso l’obiettivo di indebolire la Russia di Putin – per potersi poi concentrare sul contenimento della Cina. Le rinnovate dichiarazioni del presidente Biden sulla volontà di difendere Taiwan, di cui Lucio Caracciolo scrive a pagina 25, intendono avere uno scopo deterrente, ma non sappiamo se a Pechino non vengano piuttosto interpretate come aggressive, acuendo il conflitto fra i due paesi. In gioco non c’è solo il destino di Taiwan, ma anche dell’area indo-pacifica, quindi il controllo dei commerci marittimi, senza contare l’importanza strategica rappresentata dalla rete di cavi sottomarini per il traffico di dati. Eppure, chi è coinvolto nella gran-

Matilde Fontana – Pagina 19

de macchina della globalizzazione vede altri aspetti, dati spesso in ombra, che parlano un’altra lingua. Certo, come ha affermato Loic Tassel, presidente di Procter&Gamble Europa, la globalizzazione si sta spostando («is shifting»): uno dei princìpi che ne sta alla base è l’affidabilità delle catene di fornitura, che con i lockdown in Cina è venuta a mancare, per cui si sta assistendo ad una loro regionalizzazione (in futuro Procter&Gamble conta di produrre in Europa il 90% di quanto consumeranno i suoi cittadini). La globalizzazione dunque sta mutando forma, in alcuni settori recede, in altri avanza, ma nel complesso resta in crescita, trainata dallo sviluppo della tecnologia (che rende tutto più globale) e da una demografia in crescita nei paesi emergenti. Come affermato dalla direttrice dell’International Trade Centre Pamela Coke-Hamilton, la narrativa è che la globalizzazione sta recedendo, ma i dati indicano che nel 2021 l’economia digitale è esplosa, trainata dalla pandemia, e la produzione di merci resta in crescita. Le ha fatto eco l’amministratore delegato della Borsa di Hong Kong Nicolas Aguzin: anche l’anno scorso le transazioni finanziarie sono cresciute in modo importante. Considerato poi che il 40% della popolazione non ha accesso a internet (di cui l’80% in Africa), esiste un potenziale enorme di sviluppo. Fondamentale, secondo i panelisti, è che possa avvenire quel transfer tecnologico verso i paesi emergenti che permetta loro di creare proprie, più regionali e più eque catene di produzione, e innovazioni che rendano possibile la transizione verso un’economia verde (che secondo Pamela Coke-Hamilton a causa della guerra in Ucraina sta avendo un’accelerazione). Per poterlo fare vanno però mobilitate enormi risorse finanziarie. Per quanto riguarda Stati Uniti e Europa, regionalizzare le catene di produzione significherebbe invece riportare «a casa» molti posti di lavoro, ma al prezzo di prodotti più cari.

RICHIAMO – VOTAZIONE GENERALE 2022

la votazione generale giunge al termine – Le schede di voto devono essere deposte nelle apposite urne delle filiali o spedite entro

SABATO 4 GIUGNO 2022


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azione – Cooperativa Migros Ticino

SOCIETÀ ●

Professione pompiere A Lugano è stata da poco creata l’Accademia per pompieri, è la quarta in Svizzera

I 25 anni di Ecer Il libro ripercorre la storia dell’associazione Echanges culturels avec les enfants de Roumanie

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Motori La nuova Megan E-Tech cento per cento elettrica: fiore all’occhiello di Renault

Carenza di vitamina D Il problema è ora al centro dell’attenzione di responsabili della salute pubblica e medici

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Abbiamo una tendenza inconscia a focalizzarci sugli elementi negativi del passato ma se sappiamo cosa rimpiangiamo possiamo capire cosa apprezziamo di più. (Shutterstock)

L’utilità del rimpianto

Psicologia ◆ Secondo Daniel H. Pink, autore bestseller americano, se riconsideriamo il nostro passato in maniera corretta, possiamo avere un presente migliore Stefania Prandi

«Non rimpiango niente. Ho pagato, spazzato via, dimenticato. Me ne frego del passato». Così cantava Edith Piaf nel celebre pezzo Non, je ne regrette rien. In realtà è quasi impossibile non avere qualcosa da recriminarsi. Anzi, la sensazione legata all’idea che si sarebbe potuto agire diversamente, evitando di perdere delle occasioni e cambiando il corso della propria vita, è tra le più logoranti. In un esperimento di qualche anno fa, è stato chiesto a un gruppo di persone di descrivere il loro peggior rimpianto prima di andare a letto. Chi lo ha fatto ha impiegato oltre il doppio del tempo per addormentarsi rispetto a chi ha semplicemente immaginato una giornata normale. Il problema è la tendenza inconscia a focalizzarsi sugli elementi negativi del passato, attraverso il cosiddetto «pensiero controfattuale», un processo col quale si smontano gli eventi già accaduti per ricostruire un futuro che si sarebbe potuto realizzare, ma che invece non c’è stato. Perché un’attitudine così sgradevole è onnipresente? Secondo Daniel H. Pink, autore bestseller americano, che ha trascorso anni in ricerche sul tema, la risposta è che il rimpianto è utile, se usato

in maniera corretta. In The Power of Regret: How Looking Backward Moves Us Forward (Il potere del rimpianto: come guardare indietro ci fa andare avanti), Pink ha esaminato dati e storie da tutto il mondo. Sul suo sito web, World Regret Survey – si può ancora partecipare al sondaggio, bastano tre minuti per compilare il formulario – ha raccolto più di diciannovemila testimonianze da oltre cento diversi Paesi, chiedendo di rispondere alla domanda: «Quanto spesso ti capita di ripensare al passato e desiderare di aver fatto le cose in modo diverso?». Oltre l’ottanta per cento delle persone ha raccontato che il rimpianto è una parte almeno occasionale delle proprie giornate, mentre un quinto ha detto di provarlo «continuamente». In Svizzera i rimorsi sono stati di non avere interrotto prima un matrimonio che non funzionava, di non essere stati abbastanza vicini ai figli durante l’adolescenza e di non essere riusciti ad essere «la versione migliore di se stessi». Più pragmatici altri popoli, come gli australiani, che si pentono di avere copiato agli esami, di non avere investito in criptovalute oppure di non avere cominciato prima a praticare yoga. «Il rimpianto è una delle emozioni

negative più comuni», spiega Pink ad «Azione». «È una caratteristica della condizione umana. Infatti, gli unici che non lo provano sono i bambini piccoli il cui cervello non si è ancora sviluppato del tutto, le persone con malattie neurodegenerative e i sociopatici. Tutti gli altri lo sperimentano, prima o poi, perché la nostra macchina cognitiva è pre-programmata in tal senso dato che, se lo trattiamo correttamente, può essere incredibilmente utile». La mancanza di coraggio è il rammarico più diffuso. Essere stati incapaci di uscire dalla propria comfort zone, osando qualcosa di nuovo, fa stare peggio degli errori commessi. «Se solo avessi colto l’occasione; se solo avessi chiesto a quella persona di uscire con me; se solo avessi viaggiato; se solo avessi parlato», si rimproverano in tanti. Ad esempio, una donna del Minnesota, negli USA, ha raccontato di non avere intrapreso una carriera artistica per colpa delle pressioni della famiglia. «E ora sono bloccata dietro una scrivania, impigliata nella burocrazia gestionale e la vita mi sta prosciugando». Il dispiacere per non avere osato è dovuto, secondo Pink, al fatto che a volte sopravvalutiamo i rischi e

le difficoltà e non riusciamo a passare all’azione. Un altro rimpianto frequente è legato alle relazioni: il dispiacere di non essere stati più gentili con il proprio partner e avere rovinato una storia d’amore oppure avere trascurato il legame con un genitore o un amico prima della sua morte. Molti rimpianti di «connessione» si sovrappongono a quelli «morali», in cui si è passati sopra i propri valori. «Sono rimasto sbalordito da quanta gente si è pentita di aver maltrattato dei coetanei, da giovane, oppure di essere stata infedele nel matrimonio», spiega Pink. Un quarto tipo è legato all’«incapacità di essere responsabili» per cui si è fatto qualcosa che ha influenzato il corso dell’esistenza in un modo che non piace. Un esempio classico è il rimorso di non avere studiato abbastanza oppure di non essersi trasferiti in una grande città, quando c’erano le condizioni adatte, per un capriccio. Anche il troppo lavoro è qualcosa che si può detestare, come ha scritto una giornalista e autrice americana che, a quarantacinque anni, si è pentita di avere dedicato tutta la sua esistenza al sistema mediatico, senza trovare tempo per il resto: «C’è una citazione di Dolly Parton a cui continuo

a pensare e che dice: non essere mai così impegnata a guadagnarti da vivere da dimenticarti di farti una vita». Di fronte a questo male comune, sostiene Pink, possiamo solo cercare di chiedere alla nostra voce interiore di smettere di lamentarsi e massimizzare quello che non abbiamo fatto, per un presente migliore. «Se sappiamo cosa rimpiangiamo, possiamo anche capire cosa apprezziamo di più. Ognuno dei quattro tipi di rimpianto rivela i nostri bisogni umani fondamentali; di apprendimento e di crescita; di bontà; di amore; di sicurezza. Dovremmo quindi evitare di cadere di nuovo negli stessi errori e non preoccuparci troppo di tutto il resto». Invece di crogiolarci nel passato, dobbiamo affrontarlo: «Quando proviamo un rammarico, occorre riconoscerlo e poi trattarci con gentilezza anziché con disprezzo. Bisogna parlarne o scriverne, per convertire l’astrazione emotiva in parole concrete che ci aiutino a dare un senso alle nostre scelte. E serve fare un passo indietro, guardando la nostra situazione dall’esterno. Se seguiamo questo semplice processo in tre fasi, possiamo utilizzare i nostri rimpianti come forza positiva nella nostra vita».


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Panchine gialle

Salute mentale ◆ La campagna di sensibilizzazione e informazione «Come stai?» del Canton Grigioni invita ad uscire dall’isolamento e stimola il sostegno reciproco Alessandra Ostini Sutto

È un luogo dove riposare o rilassarsi, dar vita a una conversazione o ancora lasciare che i pensieri corrano liberi: la panchina. Un oggetto comune, che diamo per scontato e che si ritrova un po’ in tutti i paesi e le città, in varie fogge e materiali. Un oggetto che è stato scelto come protagonista di un’iniziativa del Canton Grigioni che colpisce proprio per la sua semplicità: la posa di una, o due, panchine gialle, con la scritta «Come stai?», che si possono trovare in 31 villaggi del territorio retico, e che sono un invito a sedersi, a prendersi il tempo. A riflettere, anche, su quella domanda, che poniamo in modo automatico più volte al giorno, ma che in verità dovrebbe nascere da un reale interesse verso l’altro. Il «Come stai?» che sulle panchine in questione figura nelle tre lingue cantonali, diventa così un appello alla nostra coscienza collettiva. La stessa domanda la possiamo poi rivolgere a noi stessi, ed essere in questo facilitati proprio dal fatto di trovarci seduti su una panchina, senza far nulla in apparenza, e lasciando vagare la mente. L’idea delle panchine gialle nasce dalla constatazione che in Svizzera una persona su due soffre una volta nella vita di una malattia psichica. I disturbi d’ansia e panico e la depressione sono le manifestazioni più frequenti. Riguardo a queste difficoltà, esiste purtroppo ancora una certa reticenza, mentre in realtà, riuscire a condividere il proprio stato d’animo e il proprio disagio può essere di sollievo, oltre ad essere un primo aiuto. Avere un approccio più aperto nei confronti del delicato tema della salute mentale è l’obiettivo della campagna «Come stai?», promossa dall’Ufficio dell’igiene pubblica dei Grigioni, Cantone che ha ricevuto l’appoggio della Fondazione Pro Mente Sana e delle Associazioni dei medici e degli psichiatri svizzeri. Altri 12 Cantoni svizzeri hanno collaborato alla campagna grigionese che da giugno ad ottobre dello scorso anno ha proposto progetti di sensibilizzazione in tutte le regioni del Cantone e un pacchetto molto interessante ai Comuni aderenti. Il sito della campagna, www.

Lingua e sport si amplia

Estate ◆ I tradizionali corsi estivi quest’anno si rivolgono anche ai bambini ucraini e alloglotti Guido Grilli

come-stai.ch, sensibilizza e dà suggerimenti utili e concreti sul tema. Oltre a ciò, una delle misure accompagnatorie, che si protrarrà per più anni, è «l’azione panchina», attuata in collaborazione con i Comuni, come quello di San Vittore, le cui due panchine gialle fanno bella mostra di sé davanti all’ex stazione ferroviaria dal mese di ottobre. «Di questa iniziativa mi sono piaciuti in particolare i vari significati che vi si possono attribuire come pure la volontà di aiutare, di fare qualcosa per gli altri, che nella mia vita è stata una costante, sia nell’esercizio della mia professione di infermiera, che in svariati altri ambiti», afferma Nicoletta Noi-Togni, sindaca del Comune grigionese. Con le loro scritte nere sullo sfondo di un bel giallo paglierino, le panchine, nella voluta semplicità dell’iniziativa, hanno un deciso impatto visivo, che suscita una certa curiosità e stimola la riflessione su una domanda che quotidianamente poniamo e ci sentiamo rivolgere. Oltre a ciò, il loro intento dovrebbe essere quello di invitare i passanti a sedersi e conversare tra di loro, partendo proprio da un «come stai?», che non deve però in questo caso essere una domanda retorica, piuttosto un interrogativo che nasce da un interesse sincero. Un interesse che necessita di spazio e tempo, di un posto che favorisca le confidenze, il dialogo e l’ascolto. Come una panchina, appunto. «Oltre a trasmettere questo messaggio, quest’invito ad uscire dall’isolamento e cercare di aiutarsi e di sostenersi reciprocamente, le panchine di questa campagna che intende contribuire a rompere i tabù nell’ambito della salute mentale, offrono un aiuto concreto, essendo dotate di una cassetta contenente del materiale informativo sul tema», aggiunge Nicoletta Noi-Togni. Un ulteriore tassello voluto dall’Ufficio dell’igiene pubblica dei Grigioni, promotore del progetto, per incentivare i suoi fruitori a chiedere aiuto, reagire, piuttosto che nascondere problemi e difficoltà. «Le cassette di cui sono dotate le panchine, possono pure essere utilizzate per lasciare dei biglietti con i quali condividere le

Nel comune di San Vittore le panchine gialle si trovano davanti all’ex stazione ferroviaria

proprie emozioni o i propri stati d’animo con altre persone oppure per segnalare una difficoltà o richiedere un aiuto – continua la sindaca – richieste, queste ultime, alle quali noi del Municipio cercheremo sicuramente di dare seguito». Ai membri del Municipio di San Vittore stanno infatti a cuore i temi relativi al benessere e alla salute psichica; motivo per il quale lo scorso 25 novembre, in concomitanza con la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, hanno organizzato una serata di sensibilizzazione sul tema e sulla campagna «Come stai?». «La violenza sulle donne può portare, evidentemente, a problemi di salute mentale, per questo abbiamo pensato di unire i concetti e dare vita ad una ricca serata, costituita da diversi momenti, con lo scopo comune di chinarsi sui delicati temi in questione. La serata si è svolta presso la vecchia stazione della ferrovia, che abbiamo di recente fatto restaurare e che ospita attualmente la mensa scolastica e una sala per riunioni», spiega Nicoletta Noi-Togni. Come detto, anche le panchine gialle hanno trovato il loro posto davanti all’ex stazione della ferrovia, e questo per diversi significati collegati a questo luogo: «Innanzitutto abbiamo scelto quest’ubicazione perché, pur trovandosi ancora in paese, resta un po’ discosta. Ci piaceva poi il ricordo del fatto che sulle panchine poste di fronte alla stazione, nel tempo, numerose persone si sono sedute in attesa del treno. E, nell’attesa, parlavano e si scambiavano opinioni. Oltre a ciò, la stazione, per sua definizione, è un posto dove c’è chi parte, chi resta, chi ritorna, tutti gesti e momenti a cui sono legati sentimenti e stati d’animo, belli o brutti che siano», spiega la sindaca del Comune del Grigioni italiano, «un altro significato di questo luogo che mi è piaciuto in fase di scelta è che la ferrovia può rappresentare la vita e la stazione una delle sue tappe, uno di questi momenti in cui si ha bisogno di fermarsi e fare il punto della situazione, magari con qualcuno che sappia ascoltarci al nostro fianco».

Lingue e sport – il connubio vincente tra formazione e svago che si rinnova sin dal 1980 in estate a favore degli allievi delle scuole Elementari e Medie – quest’anno accoglierà anche gli allievi inseriti da oltre due mesi nelle diverse sedi cantonali dopo la loro disperata fuga dalla guerra in Ucraina e gli alloglotti vittime di altri conflitti. Sono oltre 800 i giovani ucraini assegnati al Ticino durante l’emergenza umanitaria, tuttora in corso, che hanno potuto beneficiare di una scolarizzazione. Il Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport – coordinatore, Emanuele Berger, direttore della Divisione della scuola, e Joel Rossetti, direttore della Fondazione Lingue e Sport – hanno messo a punto un progetto di corsi estivi addizionali facoltativi aperti ai bambini e ai giovani alloglotti in età scolastica. L’obiettivo dell’iniziativa? Valorizzare il loro tempo libero per approfondire l’apprendimento della lingua italiana e per favorire l’integrazione. Per quanto riguarda gli allievi ucraini inseriti nelle scuole ticinesi, il Decs, da noi interpellato, fa sapere che al momento, vista la complessa e incerta situazione in Ucraina, è difficile capire quale sarà il numero di iscrizioni al prossimo anno scolastico: «Vista la massa critica considerevole e considerata la probabilità ridotta di un ritorno di questi allievi in patria in tempi brevi e dunque una loro verosimile permanenza anche durante l’anno scolastico 2022-2023, il Decs ha ritenuto opportuno approntare in via eccezionale un’offerta straordinaria di corsi di italiano facoltativi per questi allievi durante il periodo estivo. Ciò allo scopo di consentire loro di sfruttare al meglio il tempo disponibile per velocizzare il processo di apprendimento della lingua italiana e di integrazione e semplificare così anche il prosieguo del loro percorso scolastico in Ticino da settembre». Per gli alloglotti, l’edizione ampliata di Lingua e Sport si offre sin d’ora come un’opportunità da cogliere. Il progetto in questi giorni sta per essere messo a punto in tutti i suoi dettagli. Il Dipartimento sta intanto reclutando docenti di italiano e di integrazione, di italiano L1 e L2, ma anche insegnanti con altri profili e di settori successivi alla scuola dell’obbligo, nonché docenti di educazione fisica per rispondere alle attività speciali di insegnamento rivolte agli allievi alloglotti, principalmente provenienti dall’Ucraina. La giornata

tipo dei corsi Lingue e sport prevede al mattino attività di ripasso di quanto appreso durante la frequenza scolastica e il pomeriggio attività sportive, culturali e ricreative. Per gli allievi con permesso S attribuiti al Canton Ticino ed eventuali altri allievi alloglotti, la partecipazione a Lingua e Sport viene offerta gratuitamente. Sono previste al mattino delle lezioni intensive di italiano curate da docenti assunti appositamente, mentre al pomeriggio si svolgeranno attività sportive e ricreative assieme agli altri iscritti, favorendo così uno scambio fra coetanei e preziosi momenti di integrazione e relazioni sociali. Le giornate, fra nozioni linguistiche e un ampio ventaglio di discipline sportive, inizieranno alle 8 e proseguiranno fino alle 17.30. Gli interessati ad aderire a Lingua e Sport potranno scegliere di prendervi parte per una o più settimane, tra luglio e agosto, e in diverse località: nelle sedi delle scuole Elementari di Comano, Cadro, Taverne, Melano e Palasio, nonché in quelle delle Medie di Gordola. Altre sedi sono da definire, di certo saranno dislocate nelle diverse regioni del Mendrisiotto, Luganese, Bellinzonese e Locarnese. A Olivone vi è pure la possibilità di partecipazione in internato. Il pranzo si svolge al sacco. Le sessioni si svilupperanno a gruppi, formati indicativamente da 7 a 14 allievi, un numero insomma ristretto per agevolare al meglio i fruitori nell’apprendimento delle nozioni di italiano e per snellire il lavoro degli stessi docenti e organizzatori della proposta estiva di lungo corso. Ma quest’anno l’offerta si amplierà oltre l’età di scolarizzazione obbligatoria: per gli allievi della fascia di età compresa fra i 15 e i 18 anni, infatti, il Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport ha deciso di approntare un progetto ad hoc, gestito dall’Istituto della transizione e del sostegno. In aggiunta all’insegnamento intensivo dell’italiano che proseguirà durante l’estate, per questo target è prevista un’offerta di una mezza giornata settimanale di attività sportiva all’aperto organizzata in collaborazione con Lingua e Sport. La sede scelta sarà quella del centro G+S di Giubiasco. Ulteriori informazioni sull’edizione 2022 di Lingua e Sport, il cui motto è «Muoviti impara divertiti», si possono ottenere visitando il sito web all’indirizzo www.linguesport.ch o scrivendo una e-mail a: corsi@linguesport.ch.


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azione – Cooperativa Migros Ticino

MONDO MIGROS

Piatti freddi estivi che delizia! Attualità

Sono diverse le specialità fredde dei banchi gastronomia ideali per la stagione calda

Azione 20% Vitello tonnato per 100 g Fr. 3.70 invece di 4.65

Azione 25%

dal 31.5 al 6.6.2022

Roast beef all’inglese in self-service per 100 g Fr. 4.90 invece di 6.60 dal 31.5 al 6.6.2022

Che sia per un picnic nella natura, la pausa pranzo in riva al lago o per una grigliata estiva in giardino, grazie alle nostre proposte fredde di gastronomia ognuno troverà di che soddisfare la propria voglia di piatti che siano al contempo gustosi, rinfrescanti e invitanti. Dall’insalata russa al cocktail di gamberetti, dalla trota in carpione alle insalate di polpo o di mare, passan-

do per le pietanze vegetariane come le insalate di patate, di pasta, di riso o di bulgur, fino al carpaccio di polpo e al cervelas e formaggio in insalata… la scelta è ampia e diversificata. Tutte le specialità sono preparate da esperti gastronomi con ingredienti di qualità e seguendo ricette della migliore tradizione culinaria. Tra le bontà più gettonate dell’estate da gustare fredde, vi sono sicuramente il roast beef di manzo all’inglese e il vitello tonnato, anch’essi disponibili bell’e pronti presso i banchi gastronomia Migros. Il primo è un grande classico della cucina internazionale che piace a grandi

e piccoli buongustai. Servito come si conviene ben colorito all’esterno e rosa nell’interno, si usa spesso gustarlo accompagnato da patatine fritte e da una deliziosa salsa tartara a base di maionese e cetriolini, capperi e cipolle tritati. Il vitello tonnato – o vitèl toné – è un saporito piatto freddo originario del vicino Piemonte. È preparato con la sottofesa, il magatello o la noce del vitello cotti lentamente in un brodo arricchito di verdure e aromi vari. Una volta raffreddata, la carne viene tagliata a fette sottilissime e servita ricoperta della tipica salsa tonnata.

Spremute fresche ora in qualità bio

Succo di alta qualità appena spremuto, ricco di vitamine e, come novità, ora solo in qualità biologica, ossia ottenuto da arance bionde coltivate senza l’utilizzo di fitofarmaci e concimi chimici. Nei maggiori supermercati Migros gli amanti delle spremute e della sostenibilità hanno di che rallegrarsi. L’esclusivo spremiagrumi di ultima generazione a disposizione della clientela permette di ottenere in men che non si dica una spremuta d’arance fresca, con il massimo gusto e con tutte le preziose sostanze benefiche per il nostro organismo, senza lo sgradevole sapore amaro della buccia. Il funzionamento è semplice: basta posizionare la bottiglia PET messa a disposizione sotto l’apparecchio – disponibile nei formati da 250 ml, 500 ml e 1 litro - e premere il pulsante «push». Una volta riempita, chiudere la bottiglia con il tappo a vite e recarsi alla cassa per il pagamento. Arrivati a casa, si consiglia di conservare la spremuta in frigorifero e consumarla il prima possibile affinché le pregiate sostanze salutari si preservino al meglio. Lo spremiagrumi è collocato all’interno del reparto frutta e verdura delle filiali Migros di Biasca, Crocifisso, Giubiasco, Taverne, Pregassona, Mendrisio Sud, Riazzino, Bellinzona, Locarno, Serfontana, Agno Uno, Lugano e S. Antonino.

Flavia Leuenberger Ceppi

Novità ◆ Grazie allo spremiagrumi presente nei maggiori supermercati Migros, potete prepararvi sul momento una spremuta fresca di arance biologiche


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MONDO MIGROS

Un mondo di aromi sostenibili

Attualità ◆ Migros vende erbe aromatiche fresche solo in qualità bio. Questa settimana l’ampio assortimento è in offerta speciale nei reparti fiori Migros Le erbe aromatiche da sempre sono imprescindibili in cucina, poiché sanno conferire a ogni piatto quel caratteristico tocco in più. Per poter mantenere bene le loro proprietà organolettiche e sprigionare al meglio i loro aromi, le erbe aromatiche dovrebbero essere utilizzate fresche. Una soluzione semplice e pratica per averle sempre a portata di mano, è per esempio quella di acquistarle in vaso. Posizionate sul balcone o sul davanzale, permettono inoltre di ricreare una profumata e gradevole oasi verde casalinga che può durare anche diversi mesi. Affinché ciò possa avvenire, le piantine devono essere annaffiate regolarmente – preferibilmente al mattino – evitando però di affogarle. Nei reparti fiori Migros attualmente è a disposizione della clientela una vasta selezione di erbe aromatiche in vaso, tutte coltivate in Svizzera in armonia con la natura secondo i criteri dell’agricoltura biologica, vale a dire esclusivamente con l’utilizzo di prodotti alternativi di origine naturale e senza sostanze chimico-sintetiche. L’assortimento include una ventina di prodotti, dai classici aromi quali basilico, aneto, origano, prezzemolo, menta, rosmarino, salvia, erba cipollina, timo, fino a quelli più esotici come coriandolo, basilico rosso, santoreggia e dragoncello. Non mancano nemmeno tipiche erbe officinali quali verbena e melissa.

turare la miscela per 4-6 settimane, quindi filtrare l’olio e imbottigliarlo di nuovo. Il sale permette di conservare bene gli aromi delle erbe aromatiche fresche. Tritare finemente le erbette, mescolarle con del sale grosso e far essiccare la miscela nel forno ventilato a bassa temperatura per una mezzoretta.

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Consigli d’utilizzo

Oltre ad essere impiegate fresche, direttamente nelle pietanze, le erbe aromatiche si prestano bene anche per la preparazione di oli aromatizzati e sali alle erbe per le pietanze più disparate. Gli oli alle erbe sono faci-

li da preparare e si conservano senza problemi per almeno un anno. Mettere in una bottiglia di vetro dell’olio – si possono utilizzare vari tipi di olio, ma quello di oliva è particolarmente indicato – e aggiungere le erbe aromatiche preferite. Lasciare ma-

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La nuova Accademia per i pompieri

Professioni ◆ A Lugano è stata da poco creata la nuova Accademia per pompieri professionisti, è la quarta in svizzera. Ne parliamo con Federico Sala comandante dei pompieri luganesi Stefania Hubmann

Grazie alla nuova Accademia per pompieri professionisti istituita dal Corpo civici pompieri della Città di Lugano è ora possibile seguire questa complessa formazione anche in italiano. La scuola è la quarta a livello svizzero, la prima ed unica in lingua italiana. I corsi hanno preso avvio all’inizio di quest’anno con l’obiettivo di preparare dodici aspiranti pompieri all’esame federale previsto nel novembre 2023. L’apertura di un’Accademia significa per Lugano e l’intero Ticino un impulso alla formazione sul territorio, allo scambio di esperienze sul piano nazionale e internazionale e allo sviluppo di nuove competenze che passano anche da un Centro di formazione in fase di pianificazione. Per il comandante dei pompieri luganesi, Federico Sala, il 2022 è un anno di svolta anche nell’ambito del Corpo stesso, con interventi che spaziano dall’introduzione della bodycam al distaccamento all’aeroporto di Agno, alla ristrutturazione della caserma con annessi appartamenti. L’Accademia rappresenta però un traguardo speciale, conseguito grazie al sostegno delle autorità cittadine e frutto di un impegno pluriennale. Spiega il comandante: «Per aprire un’Accademia è necessario ottenere l’autorizzazione dell’Organizzazione del Mondo del Lavoro Pompieri (OdMLP) che sovrintende alla formazione in tutto il Paese. L’accreditamento è stato confermato a fine 2020 dopo una lunga fase di preparazione sottoposta alla valutazione dell’Organizzazione. Affidata alla direzione di Ramon Petsch, la scuola è stata predisposta in tutti i suoi dettagli durante il 2021. Il primo corso è iniziato lo scorso febbraio, il secondo tre mesi dopo. Le due classi sono formate da sei aspiranti pompieri ciascuna, di cui cinque del nostro Corpo e uno del Centro d’intervento del San Gottardo». Va precisato che in Ticino la Città di Lugano è l’unica a disporre di pompieri professionisti. Nei corpi di centri quali Biasca, Bellinzona, Locarno e Mendrisiotto, oltre ai volontari

(il 90,1% dei pompieri attivi in Ticino) vi sono pompieri permanenti. Alcuni professionisti sono inoltre inseriti in corpi aziendali, come appunto quello della galleria del San Gottardo. Per la lotta contro gli incendi boschivi sono presenti su tutto il territorio del Canton Ticino Corpi pompieri o Sezioni di montagna (specialisti). Fino ad oggi l’aspirante pompiere professionista doveva seguire la formazione in uno degli altri tre centri nazionali. Ginevra e Zurigo sono le sedi storiche di questo iter formativo alle quali si è aggiunta Losanna. «Per chi parla italiano – prosegue Federico Sala – il percorso era ostacolato dall’impiego di due lingue differenti, benché avesse a disposizione un traduttore durante gli esami finali. L’obiettivo dell’Accademia è di facilitare la formazione per portare tutti i partecipanti a sostenere l’esame federale

con successo. Le classi sono piccole proprio per seguire bene ogni candidato, permettendogli di colmare eventuali lacune pur lavorando in gruppo. Lo spirito di squadra è infatti molto importante nell’attività pompieristica che spazia dal soccorso (anche in acqua) agli incendi, dalle alluvioni agli incidenti, dagli eventi naturali alla dispersione di sostanze pericolose». Quali quindi le tappe della preparazione necessaria per affrontare queste difficili situazioni ricche di incognite? Risponde il nostro interlocutore: «La durata della formazione è di diciotto mesi, di cui sette in modalità scolastica e undici sotto forma di stage. Le conoscenze acquisite nelle due modalità toccano tutti i campi di attività. Particolare attenzione viene inoltre accordata alla salute del pompiere con un’accurata preparazione fisica. Il percorso formativo è suddiviso in tre

sessioni con altrettanti stage ed esami. Questi ultimi permettono di effettuare due verifiche intermedie e una finale, in modo da arrivare all’esame federale preparati e sereni. Gli stage si svolgono sia nel proprio Corpo sia in esterno per alcune forme di perfezionamento. Ad esempio i pompieri di Lugano svolgono un periodo di pratica al Centro d’intervento del San Gottardo, specializzato nelle operazioni in galleria. Per tutti è pure previsto uno stage presso un ente sanitario, così da acquisire conoscenze basilari sui primi soccorsi. I pompieri devono inoltre essere in grado di guidare qualsiasi mezzo del proprio Corpo». Le specializzazioni e le relative collaborazioni sono sempre più importanti, perché assicurano proficui scambi di esperienze sulle tecniche d’intervento e sui materiali. Per la formazione sugli incendi al chiuso (appartamenti, scantinati, autorimesse) l’Accademia ticinese fa capo alla scuola di Zurigo, mentre a livello internazionale i pompieri luganesi sono gemellati con il corpo di Montecarlo con relativi scambi a livello formativo. L’Accademia è aperta a donne e uomini fra i 18 e i 35 anni in possesso di una formazione professionale conclusa. Sovente gli iscritti sono già attivi quali pompieri volontari. Gli spazi per le esercitazioni al momento sono limitati e per certi versi pericolosi, se si considera che una gran parte viene effettuata sul piazzale della caserma di Lugano, che riceve circa dieci chiamate al giorno. Precisa il comandante Sala: «Per alcuni addestramenti ci rechiamo già al Piano della Stampa dove la Città ci ha messo a disposizione l’ex depuratore. Al mo-

mento stiamo vagliando con le autorità la possibilità di trasformare questa struttura in un vero e proprio Centro di formazione. La nuova Accademia ne ha bisogno (tutti gli istituti svizzeri ne sono dotati), ma il Centro può fungere da punto di riferimento anche per altri enti». Per quanto riguarda la caserma, dovrebbero partire a breve i primi lavori di ristrutturazione che interesseranno anche i sedici appartamenti dei pompieri. Assicurare l’intervento in 10 minuti nel contesto cittadino e in 15 in quello extra urbano (come prevedono le disposizioni nazionali) diventa per il Corpo di Lugano una sfida crescente a causa del traffico. Ecco perché quest’anno è prevista la creazione di un distaccamento ad Agno, nella sede dell’aeroporto. Sarà così intensificata anche la collaborazione con i pompieri dello scalo. Altra questione in fase di valutazione, soprattutto per le implicazioni giuridiche, è l’uso da parte dei pompieri di una videocamera che registri l’intervento (tipo bodycam). Per il comandante questo apparecchio è utile a più livelli: formativo, investigativo e non da ultimo a tutela dei pompieri medesimi, chiamati a svolgere un intervento di forza maggiore che per sua stessa natura viola la sfera privata del cittadino. Malintesi e reazioni iniziano a farsi sentire e questo strumento favorirebbe i chiarimenti.

La durata della formazione è di diciotto mesi: sette in modalità scolastica e undici sotto forma di stage Assieme alla tecnologia e alle altre forme di progresso, la nuova Accademia è una tappa essenziale per rimanere all’avanguardia e confrontarsi ai massimi livelli con il resto della Svizzera e fuori dai confini nazionali. Il Ticino si sta muovendo unito pure per quanto riguarda il reclutamento dei pompieri volontari. A fronte di un notevole calo registrato nell’ultimo decennio, la Federazione pompieri Ticino (FPT) ha lanciato quest’anno una vasta campagna cantonale (www. diventapompiere.ch) che ha già fatto registrare ottimi riscontri per quanto riguarda la partecipazione alla serata informativa. Per i pompieri – forza di primo intervento in caso di pericolo in un vasto spettro di situazioni – formazione, aggiornamento, logistica e collaborazioni esterne diventano parametri sempre più importanti. Al centro resta però la persona, uomo o donna, che con colleghe e colleghi in un prezioso lavoro di squadra affronta le incognite di un’emergenza con competenza e dedizione. Informazioni www.pompierilugano.com Annuncio pubblicitario

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Dagli orfanotrofi agli stages: 25 anni di solidarietà Pubblicazioni

Un libro ripercorre l’attività dell’associazione Echanges culturels avec les enfants de Roumanie

Nicola Mazzi

«Tutto è cominciato il 17 agosto 1992. Alle sei del mattino mi sono trovata con alcuni volontari del Gruppo di auto aiuto alla Romania di Gordola, coordinato all’epoca da Silvia De Carli, che aveva organizzato la nostra prima missione a Buzǎu». Inizia in questo modo il libro Viaggio nel Paese delle meraviglie (pubblicato per celebrare i 25 anni di Ecer-Echanges culturels avec les enfants de Roumanie) e soprattutto il lungo viaggio di Gabriella Balemi, la presidente dell’associazione.

Nei primi anni l’attività di Ecer si concentra sugli orfanotrofi di Buzǎu. In basso, la copertina del libro

Il volume raccoglie la testimonianza del lungo «viaggio» di Gabriella Balemi, presidente dell’associazione, ma anche altre voci ticinesi e rumene Era un momento particolare per quel Paese dell’est Europa. Da soli tre anni era finito il regime comunista di Ceaușescu e la situazione era ancora piuttosto complicata. Basti pensare che nella sola capitale più di 5mila minorenni vivevano di espedienti nelle fogne o sotto la stazione centrale. Una situazione molto difficile che Gabriella Balemi ha vissuto in prima persona e che racconta in questo volume, insieme ad altre voci ticinesi e con testimonianze rumene. È operando con Michel Candolfi, vicedirettore del Centro Professionale Tecnico (CPT) di Locarno, che ha dato il suo contributo fondamentale alla pubblicazione del volume. Una storia che è mutata nel tempo anche in modo importante. Infatti, il libro (che contiene una prefazione di Cornelio Sommaruga) si divide in tre parti. Inizialmente vengono descritti i primi anni e si mette l’accento sulle visite agli orfanotrofi di Buzǎu (città di 150mila persone a un centinaio di km dalla capitale), dove l’associazione decise di intervenire. In che modo? Ce lo spiega la stessa signora Balemi: «All’inizio sono andata per studiare la situazione, per capire le priorità e soprattutto per ottenere la loro fidu-

cia. Ci è voluto del tempo, ma hanno imparato a fidarsi e hanno compreso che li volevo solo aiutare. In questo modo sono riuscita a entrare negli orfanotrofi dove ho visto situazioni davvero problematiche: molti bambini erano malati e trascurati, alcuni denutriti e soprattutto dimostravano una chiara mancanza di affetto e attenzione. L’acqua era razionata e disponibile solo qualche ora al giorno. In quei primi anni ci siamo attivati soprattutto portando beni di prima necessità e legando il nostro lavoro agli aiuti urgenti». Ma nel 1994 avvenne una svolta importante e iniziò la seconda fase del progetto: quella legata agli scambi culturali. «Era giunto il momento – spiegano Balemi e Candolfi – di aiutare oltre ai giovani anche chi lavorava negli istituti in modo più mirato e puntuale. Ecco perché è stata creata Ecer: un modo per sostenere la loro formazione professionale».

Da quel momento i contatti furono ancora più frequenti e nacquero iniziative interessanti come la creazione di un gruppo di giovani mandolinisti rumeni che fecero un tour in Ticino e nella Svizzera romanda o l’organizzazione di una mostra fotografica (di Mauro Minozzi) con relativa sensibilizzazione nelle nostre scuole. La collaborazione con il CPT di Locarno è un altro tassello che si aggiunse all’organizzazione e permise a Ecer di creare dei gemellaggi tra le scuole. Sempre nello stesso periodo anche Coiffure Suisse si fece avanti per lavorare insieme. Come evidenzia l’attuale presidente cantonale nel volume, fu l’allora presidente Alberto Jenni a iniziare la collaborazione fornendo materiale didattico e attrezzature professionali per la formazione di parrucchieri. Oltre a ciò, allievi e docenti del liceo di Buz ǎu furono accolti al Centro di formazione professionale di Giubiasco. A tale pro-

posito, ricorda Michel Candolfi, era stato organizzato un gemellaggio con una scuola rumena, organizzando per qualche anno degli scambi tra classi di apprendisti parrucchieri, con certamente dei momenti anche di carattere interculturale.

La terza fase si è svolta negli anni 2000 e grazie soprattutto alla sinergia con la Supsi la quale affiancò Ecer con stages di tre mesi per i futuri operatori sociali che ebbero così l’opportunità di andare sul terreno e toccare con mano i problemi concreti di una situazione, quella rumena, ancora piuttosto difficile anche se in via di miglioramento. In questo contesto gli stage per bambini e ragazzi con disabilità presso case-famiglia sono stati altrettanto istruttivi. Parallelamente Ecer venne riconosciuta ufficialmente come associazione umanitaria. Come aggiunge ancora Balemi, tra gli incontri che l’hanno segnata di più ci fu quello con il noto giornalista Mino Damato. «Mi ricordo che l’ho conosciuto al cantiere del villaggio per bambini in emergenza che stava costruendo. Mi venne incontro con una montagna di pane da distribuire agli operai e iniziammo a parlare come se fossimo amici di lunga data. Da quel momento i nostri rapporti si sono consolidati grazie alla sua assistente Aliz Duica che in seguito è diventata il nostro importante punto di riferimento». E oggi? «La pandemia ha fermato i nostri viaggi in Romania, ma la situazione sta lentamente ritornando come era prima (anche se la Guerra in Ucraina aggiunge altra preoccupazione) e noi cercheremo di tornarci, per magari iniziare una quarta fase. I rapporti comunque continuano costanti grazie alle nostre antenne a Buz ǎu. Il lavoro è ancora lungo ma io credo che il nostro modo di agire, e cioè entrare nel loro mondo in punta di piedi, senza modificare la loro cultura, sia stata la strada giusta e quella che intendiamo perseguire. Perché integrazione, a nostro avviso, significa preservare le proprie radici ed è quello che in questi anni abbiamo sempre fatto», conclude Gabriella Balemi. Chi volesse saperne di più e approfondire la tematica può consultare il sito: www.culturomania.ch. Il libro con la storia dell’associazione è acquistabile anche online a 25 franchi.

Viale dei ciliegi Alessandro Pasquinucci Alive Pelledoca. (Da 13 anni)

L’altra faccia dell’estate, l’altra faccia dell’isola vacanziera, l’altra faccia delle persone, l’altra faccia della realtà. Sul lato-ombra delle cose si gioca la trama di questo thriller del giovane scrittore italiano Alessandro Pasquinucci. Un lato-ombra proprio nel senso di oscuro (questo romanzo è in effetti innegabilmente un noir), ma anche di unheimlich, di perturbante, perché ciò che sembra familiare non lo è affatto. Un amico, una madre, un amore, chi sono veramente? Persino la «casa», quell’heim al centro del termine unheimlich, nell’accezione di Freud, può svelare insidie tra l’apparenza rassicurante e domestica delle sue pareti. E così la casa all’isola d’Elba, dove Pietro invita il suo amico Giulio, può essere gioioso e solare scenario di cene estive e di flirt tra adolescenti, ma diventa anche, nel buio di una notte d’inverno, temporalesca e sferzata dal libeccio, un luogo inquietante, gelido, polveroso e disordinato. Pro-

di Letizia Bolzani

prio il «disordine» assume valenza di metafora in questa storia, condotta in terza persona ma focalizzata attraverso la prospettiva di Giulio, perché i «pezzi» del passato e del presente sembrano non incastrarsi, tutto è dissonante e disarmonico, e i due piani narrativi (inverno presente e flashback nell’estate passata) accentuano questo labirintico effetto. Ciò che sta accadendo quell’inverno è per Giulio inspiegabile. Alice, la bella, carismatica, Alice, intenso amore di Giulio nell’estate precedente, non si è più fatta viva dopo il loro ultimo appuntamento estivo, al quale Giulio

non aveva potuto presentarsi. Neanche più un messaggio, anzi lei l’aveva addirittura «bloccato» nella chat. E poi, all’improvviso, dopo sei mesi, ecco riapparire un messaggio della ragazza, seguito da altri, sempre più enigmatici, nei quali lei chiede a Giulio di andare a salvarla, perché è in pericolo. Giulio tornerà all’Elba e si metterà sulle tracce di Alice (e anche di un senso da dare a questa storia). Verrà raggiunto da Pietro, e poi anche da Linda, la migliore amica di Alice. Ecco ricomposto il quartetto, quattro tipologie canoniche: Alice, la carismatica assente; Linda, l’amica meno bella ma eccentrica e «simpatica»; Pietro, l’amico timido e «sfigato»; Giulio, sfrontato, piacente e sicuro di sé. Più un comprimario, Massimo, ex di Alice, violento e stalker. Ma su tutti aleggia quella che forse è la presenza più importante nella storia, ossia la tecnologia pervasiva, per cui le barriere tra reale e virtuale tendono a cadere e il nostro vivere, secondo il celebre neologismo coniato dal filosofo Luciano Floridi, non è né offline né online, ma «onlife», ibrido.

Megan Hoyt-Iacopo Bruno La bici di Bartali HarperCollins. (Da 5 anni)

Il Giro d’Italia si è appena concluso e questo bell’albo può essere una buona occasione per prolungarne lo spirito, e prepararci all’imminente Tour, quel Tour de France in cui, in un torrido giorno dell’estate 1938, trionfò Gino Bartali, leggenda del ciclismo e «giusto tra le nazioni». Proprio questa seconda sfaccettatura eroica della sua persona è raccontata ai bambini nel libro, scritto a loro misura dall’autrice americana Megan Hoyt, ben tradot-

to da Enrico Brizzi e splendidamente illustrato dall’artista italiano Iacopo Bruno. Ciò su cui La bici di Bartali si concentra sono appunto le coraggiose imprese umanitarie di resistenza al nazifascismo che Gino compì in sella alla sua bicicletta, nel cui telaio nascondeva documenti di identità falsi da consegnare agli ebrei nascosti in diverse città italiane, per aiutarli a fuggire. Inoltre egli diede ospitalità a una famiglia ebrea nella sua cantina, e fece molte altre generose azioni in favore dei perseguitati, salvando più di ottocento vite, tanto che nel 2013 lo Stato di Israele gli attribuì lo stato di «Giusto tra le nazioni», come ci ricorda il sottotitolo di questo libro: la storia di un eroe segreto e di un giusto tra le nazioni. Anche se il mitico Gino, che tenne per sé tutto ciò che fece (e di cui si venne a sapere solo molto più tardi) non si sentiva un eroe. Gino diceva: «i veri eroi sono quelli che hanno sofferto. Io sono solo un ciclista». Frase che fa il paio con quell’altra, che ben rende il suo grande cuore: «Il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca».


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L’antenato degli chef viene dalla Valle di Blenio

Anniversari ◆ Quest’anno si celebrano i sei secoli dalla nascita di Maestro Martino, il «principe dei cuochi» originario di Grumo che per primo in Europa codificò e scrisse l’arte culinaria italiana Mauro Giacometti

È l’antenato di tutti gli chef e dei blasonati e televisivi «masterchef». È il capostipite della cultura del gusto in Europa. Originario del villaggio di Grumo, in Valle di Blenio, Martino de Rubeis, in arte Maestro Martino, nel XV secolo dettò le regole della buona cucina, scrivendole. Con il suo manoscritto Libro de Arte Coquinaria, primo testo di cucina per il quale si conosce il nome dell’autore, contribuì in maniera decisiva alla definizione del «modello italiano» di cucina. Insieme ad altri suoi corregionali che emigrarono, dando vita ad una vera e propria scuola di cucina bleniese, fu il cuoco personale di nobili e papi, ma con il suo ricettario Maestro Martino ebbe soprattutto il merito di accorciare la distanza tra le prelibatezze consumate nelle regali corti e la cucina popolare. Maestro Martino, insomma, può essere definito senza timori di irriverenza il «Leonardo da Vinci dell’arte gastronomica».

Carlo Cracco omaggia il cuoco bleniese Anche uno chef pluristellato come Carlo Cracco rende omaggio a Maestro Martino. Nel 2011 Cracco ha fondato infatti l’Associazione Maestro Martino per promuovere la filiera agroalimentare lombarda e ticinese attraverso la Cucina d’Autore. Obiettivi primari dell’associazione, attiva ancora oggi e presieduta sempre da Carlo Cracco, sono la promozione e la qualificazione dell’offerta enogastronomica territoriale che viene elevata a eccellenza culturale in Italia anche grazie all’istituzione di un’accademia dedicata alla Cucina d’Autore, magnete di attrazione nazionale e internazionale. Altre informazioni sull’associazione italiana dedicata a Maestro Martino sul sito www.maestromartino.it.

Un ricettario ricco di dettagli il suo manoscritto, al contrario dei precedenti – quasi tutti anonimi – che erano indirizzati agli addetti ai lavori. Composto tra il 1450 e il 1467, il testo è considerato un caposaldo della letteratura gastronomica italiana che testimonia il passaggio dalla cucina medievale a quella rinascimentale. All’interno del libro, i piatti non compaiono come una semplice lista di ricette ma, come in un trattato, gli alimenti sono separati coscienziosamente, in ordine di portata e per tipologia di ingredienti, in modo molto moderno. Martino, inoltre, ci suggerisce il rapporto tra le quantità e il numero di commensali, indicando recipienti e tempi di cottura scanditi in preghiere – ad esempio recitare uno o doi pater noster oppure un Miserere per la finitura delle pietanze – ancora a sottolineare il valore popolare dell’opera. «Sono appassionato di storia bleniese e da tempo mi incuriosiva la figura di questo leggendario cuoco medievale. Qualche anno fa, visitando un museo nella Svizzera interna, ho visto per la prima volta il suo ricettario e ne sono rimasto affascinato. Così mi sono detto: Maestro Martino deve tornare nella sua valle. E da lì è cominciato un lungo percorso di ricerca e documentazione che sfocerà proprio quest’anno nella celebrazione del sesto secolo dalla nascita di Maestro Martino in Valle di Blenio per ricordare e valorizzare la figura di questo illustre emigrante che ha così profondamente segnato la storia della gastronomia italiana ed europea», spiega Egon Maestri, membro dell’associazione Blenio Bellissima e organizzatore degli eventi che in questo 2022 renderanno onore al «principe dei cuochi». Un’ulteriore spinta decisiva al progetto di valorizzazione della figura di Maestro Martino in Valle di Blenio è arrivata dall’incontro tra Egon Maestri e Anton Mosimann, uno dei maggiori chef svizzeri, arrivato a cucinare per la Corte d’Inghilterra ma soprattutto grande collezionista di libri di

L’unica immagine dalla quale si può dedurre la figura di Maestro Martino, a destra vestito di rosso, nella funzione di cuoco ducale alla corte degli Sforza (Massimiliano Sforza a Tavola, da Liber Jessus, Biblioteca Trivulziana, Milano).

cucina e proprietario del De Honesta Voluptate et Valetudine (Il piacere casto e la salute), primo testo gastronomico stampato nel 1475 con due ristampe del 1516 e del 1530, scritto da Bartolomeo Sacchi, detto il Plàtina, che s’è dichiaratamente ispirato al ricettario di Maestro Martino. «Anton Mosimann oltre che uno chef di prim’ordine, è veramente un personaggio incredibile e un collezionista raffinato. È grazie alla sua disponibilità che dal 15 maggio abbiamo potuto esporre le due ristampe del De Honesta al Museo storico etnografico della Valle di Blenio nella sede di Lottigna. E il 18 giugno, giornata ufficiale delle celebrazioni del giubileo del cuoco bleniese, Mosimann ha confermato che sarà con noi a festeggiare questo evento e ad illustrarci le peculiarità dell’eredità che ci ha lasciati il

suo illustre predecessore», sottolinea Egon Maestri. Oltre alle due mostre aperte a Palazzo dei Landfogti di Lottigna e al Museo Cà da Rivöi Olivone, il calendario di manifestazioni ed eventi in Valle di Blenio dedicate al cuoco medievale prevedono diversi appuntamenti. Come la proiezione al Cinema Teatro Blenio di Acquarossa (14 ottobre) di un documentario proposto dalla RSI del 2009 su Maestro Martino, realizzato dal regista bleniese Michelangelo Gandolfi, che sarà presente in sala. In precedenza, il 9 settembre, in una sala del Palazzo dei Landfogti a Lottigna, Federica Fanizza, laureata in Filosofia all’Università di Bologna e già curatrice degli archivi comunali di Riva del Garda, dove è custodito il manoscritto di Maestro Martino, tratteggerà

un ritratto del «cuciniere per papi e nobili». Ma l’omaggio all’antenato degli chef si estenderà anche fuori dai confini bleniesi. Al Castelgrande di Bellinzona, il 2 ottobre, è prevista infatti la conferenza di Bruno Laurioux sul tema «La cucina di Maestro Martino nel contesto delle cucine italiana ed europea (Medioevo-Rinascimento)». Tra l’altro, la rassegna gastronomica con alcuni piatti di Maestro Martino saranno proposti in diversi ristoranti della regione Bellinzona e Valli. Ma anche i più piccoli «corregionali» del cuoco bleniese gli renderanno omaggio. L’Escape room ambientata nel Medioevo, che sarà proposta nelle antiche prigioni del palazzo dei Landfogti di Lottigna, è stata preparata dagli allievi della terza elementare di Acquarossa. L’Escape room sarà inaugurata il 18 giugno, insieme alla mostra temporanea su Maestro Martino e verrà proposta nelle versioni per bambini e adulti. Sempre gli allievi di Acquarossa, poi, hanno lavorato a una guida a fumetti del museo e alla mostra temporanea su Maestro Martino allestendo un documento di 72 pagine ricco di immagini e di informazioni importanti, tradotto anche in tedesco. Uno dei momenti clou delle celebrazioni, però, è da considerarsi la giornata gastronomica con gita accompagnata in programma domenica 21 agosto, che ripercorre quella organizzata un anno fa, nel giugno 2021, che seppur in tempi di restrizioni pandemiche riscosse un notevole successo. Si parte da Motto-Blenio, si percorre la via Francisca del Lucomagno, si arriva a Grumo, paese d’origine di Maestro Martino, per pranzare in un rustico privato con le ricette originali dello chef medievale. Al pomeriggio visita guidata a Lottigna della mostra allestita sul «principe dei cuochi». Tutte le informazioni sulle iniziative collegate al giubileo di Maestro Martino sono reperibili sul sito ufficiale delle celebrazioni: www.maestro-martino.ch. Annuncio pubblicitario

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220 cavalli elettrici Motori

Renault presenta la sua nuova Megan E-Tech cento per cento Electric

Mario Alberto Cucchi

«From horse power to electric power» ovvero dalla potenza dei cavalli alla potenza dell’elettrico. Su questo concetto si basa il nuovo bellissimo film realizzato da Renault per mostrare la sua ultima creazione cento per cento elettrica: Megane E-Tech. L’auto si trova in un paesaggio urbano immaginario con edifici in tonalità contrastanti di chiaro e scuro. Nessun semaforo, nessun cartello stradale, senza pedoni né automobili. A incrociare Megane per le strade della città, decine di uomini e donne in sella ai loro cavalli. Tutti gli occhi sono per l’elettrica e addirittura gli equini si inchinano «esageratamente» in un ipotetico gesto di rispetto al suo passaggio. In un’alternanza tra passato e futuro, il meccanico diventa un maniscalco e le ragazze fanno shopping a cavallo con in mano un iPhone per scattarsi un selfie al passaggio dell’auto. Come colonna sonora il brano Power dei Pachanga Boys. Un film che indubbiamente non passa inosservato e si può vedere seguendo questo link: https://youtu. be/4crrnr036wo. Da decenni si parla di cavalli abbinati alle auto. Per trovarne le origini bisogna risalire al 1700. In quegli anni asini ed equini mettevano in movimento ruote e carrucole collegate a frantoi e mulini. Allora iniziarono le prime sperimentazioni dei motori a vapore, inizialmente alimentati a carbone, per so-

stituire la forza animale. James Watt determinò la potenza necessaria per mettere in moto la ruota di un mulino associata alla trazione di un cavallo e da lì derivò il c.v. (cavallo vapore) per gli inglesi H.P. ovvero Horse Power. Ecco allora che il filmato della

Renault porta a riflettere su come sia oggi in atto un’evoluzione che ci sta portando in una dimensione differente di mobilità ecologica e sostenibile. Megane vuole essere un’automobile di rottura con il passato. Una vettura che arriva oggi nelle concessiona-

rie forte di un nome che rappresenta milioni di esemplari venduti. Va messo subito in chiaro: non c’entra nulla con le sue sorelle ancora in vendita che hanno lo stesso nome ma differiscono completamente nell’estetica e nella tecnica. È così che

si crea quasi un equivoco. Facciamo chiarezza. Oggi parliamo di Renault Megane e-tech electric, una vettura che funziona utilizzando esclusivamente un propulsore elettrico. Poi c’è Megane «classica» che ha anche una versione e-tech Hybrid. Ovvero che è dotata di due motori, uno termico e uno elettrico e può funzionare con uno o con l’altro o con l’abbinamento di entrambi. La versione esclusivamente elettrica protagonista del filmato è in grado di erogare 220 cavalli con la coppia disponibile sin da subito: 300 Newtonmetro di coppia massima scaricati a terra attraverso le ruote davanti. Lo 0-100 viene completato in poco più di 7 secondi e la spinta è sempre lineare e fluida. Dalle palette dietro il volante è possibile regolare il freno motore su quattro livelli: si va dallo scorrimento massimo senza la minima decelerazione a una guida quasi a singolo pedale. La batteria della Megane E-Tech Electric è prodotta da LG, è alta solo 11 centimetri ed è disposta sotto il pianale. Megane è lunga poco più di 4 metri e 20, alta 1 metro e mezzo, larga quasi 1 e 80 ha un passo decisamente generoso di 2 metri e 70 e può trasportare cinque adulti. Insomma, sui numeri, Megane E-Tech ha vita facile e vince sui cavalli. Ma il cavallo, non quello vapore, stravince ancora per umanità e simpatia. Annuncio pubblicitario

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SOCIETÀ

Gravidanza e carenza di vitamina D

Ricerca ◆ Uno studio svizzero rivela che tre quarti delle donne in attesa ha una carenza medio-grave della vitamina: è necessario rivedere le linee-guida attuali

Il problema della carenza di vitamina D nella popolazione generale è al centro dell’attenzione dei medici e dei responsabili della salute pubblica. È ormai ben noto che anche nei Paesi sviluppati, una quota consistente di persone ha carenze moderate o anche gravi, riguardanti non solo l’età media e la vecchiaia ma anche parecchi soggetti giovani: il problema si accentua nei periodi meno soleggiati dell’anno, tra ottobre e marzo. La maggior parte della vitamina D (circa l’80 per cento) è prodotta nella pelle – precisamente nella parte più superficiale, l’epidermide – dove i raggi ultravioletti di tipo B (UVB) convertono il colesterolo in vitamina D che, dopo diverse trasformazioni, diventa la forma attiva della vitamina, il calcitriolo: la restante, e minoritaria, quota è introdotta con gli alimenti, in gran parte con quelli di origine animale.

La carenza medio-grave riguarda i tre quarti del campione di 1382 gestanti, e solo il 27 per cento ha valori ematici normali In Svizzera si stima che almeno metà della popolazione abbia una carenza di vitamina D, tanto che recentemente l’Ufficio della sicurezza alimentare (Osav) ha innalzato la dose raccomandata di supplementazione da 600 Unità Internazionali (UI) a 800 UI al giorno per le persone d’età superiore a 65 anni, su indicazione del medico. La vitamina D è ben nota come la «vitamina delle ossa». Il suo ruolo è fondamentale nell’assorbimento del calcio e del fosforo a livello intestinale: una buona parte della vitamina è depositata soprattutto nel tessuto adiposo (in misura minore nei muscoli) e viene rilasciata secondo le necessità dell’organismo. La vitamina D, secondo recenti studi, non è solo fondamentale per la buona salute di ossa

e muscoli, ma ha un ruolo molto importante in altri sistemi dell’organismo: è in grado, per esempio, di regolare il funzionamento dei linfociti del sistema immunitario e, nei muscoli, favorisce la contrazione del tessuto muscolare. Come ricordato prima, la maggior parte della vitamina è prodotta durante l’esposizione ai raggi UVB del sole. Quanto occorre esporsi per averne una quantità sufficiente? I prodotti di protezione (filtri solari) bloccano i raggi UV, quindi annullano quasi totalmente la produzione cutanea della vitamina: quindi occorre esporsi senza mettere sulla pelle i filtri di protezione, con le dovute cautele. Una ricerca (2019) del Fondo nazionale svizzero per la scienza ha calcolato quanto occorre esporsi per produrre 1000 UI di vitamina, secondo la regola del «poco e spesso». Per fototipi medi di pelle (II-III) sono sufficienti 15-20 minuti al giorno, avendo scoperti viso, braccia e gambe, con un moderato arrossamento cutaneo senza rischiare l’eritema: naturalmente, se si vuole continuare l’esposizione è indispensabile un’efficace protezione con i filtri. In autunno e inverno, la stessa quantità di vitamina è prodotta con una esposizione di 5-6 ore e con un decimo del totale di pelle scoperta. Gli anziani, in media, producono circa il trenta per cento in meno di vitamina rispetto a un soggetto più giovane, a parità di esposizione. Un aspetto finora poco noto è quello della carenza di vitamina D nelle donne in gravidanza. Diverse ricerche hanno constatato che questa condizione non solo può aumentare i rischi per la donna e il feto durante la gestazione, ma ha anche possibili conseguenze negli anni successivi: per esempio, è stato notato un aumento del rischio di osteoporosi nella mamma e conseguenze di vario tipo sullo sviluppo del bambino. Una recente ricerca svolta presso il Dipartimento di ostetricia e gineco-

Pxhere.com

Sergio Sciancalepore

logia dell’Università di Berna – pubblicata sulla rivista «Swiss Medical Weekly» – conferma i dati di precedenti studi. I medici hanno controllato 1382 gestanti seguite nel Dipartimento, rilevando l’eventuale stato di carenza e le conseguenze durante la gravidanza e il parto, sia per la donna sia per il feto/neonato. È stato misurato il livello di vitamina D nel corso del primo e secondo trimestre di gestazione: la carenza medio-grave riguarda i tre quarti del campione

di donne e solo il 27 per cento ha valori ematici normali, cioè 50 nmol/l (nanomoli/litro) o più. Il primo dato che emerge dallo studio è che la percentuale delle donne svizzere in gravidanza ha una carenza di vitamina D superiore a quello della popolazione generale. I ricercatori si sono concentrati sull’osservazione della relazione tra la carenza vitaminica, il corso della gestazione e le eventuali conseguenze per il feto e il neonato. Una rela-

zione significativa è stata rilevata tra carenza di vitamina e il cosiddetto diabete gestazionale, una condizione di mancata regolazione del metabolismo del glucosio con effetti negativi sulla regolarità della gravidanza, del parto e possibili – ma finora poco note – conseguenze a lungo termine sul neonato. Attualmente, le linee-guida raccomandano una supplementazione di 600 UI giornaliere di vitamina D per tutte le donne incinte e quelle che allattano, di 1500-2000 UI in caso di grave carenza: tuttavia, il dosaggio della vitamina nel sangue non è ancora di routine. Lo studio pone un’altra questione: è sufficiente la somministrazione di routine di 600 UI? La risposta è negativa. Se per aumentare di 10 nmol/l occorrono 400 UI, somministrandone (poniamo) 800 si calcola che oltre un terzo delle donne non avrebbero la quantità minima di vitamina D sufficiente. Da notare, a tale proposito, che recenti ricerche hanno dimostrato che la somministrazione giornaliera fino a 4000 UI non crea problemi di accumulo della vitamina con eventuali effetti tossici. Lo studio dei medici dell’Inselspital sottolinea altri tre punti importanti. Il primo, che è necessario moltiplicare gli studi e le sperimentazioni cliniche che coinvolgano molte donne, come quella pubblicata. Secondo, sono da rivedere le attuali linee-guida in materia che si rivelano non essere più adeguate: oltre all’opportunità di una somministrazione della vitamina con un dosaggio superiore (ma sicuro) rispetto a quello attuale, dovrebbe diventare di routine il controllo della quantità di vitamina D nel sangue per individuare precocemente le donne a rischio. Da ultimo, si propone che la somministrazione della vitamina inizi prima della gravidanza, come già avviene con la somministrazione dell’acido folico per la prevenzione della malformazione nota come spina bifida, nel feto.

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SOCIETÀ / RUBRICHE

L’altropologo

di Cesare Poppi

Termine inglese che contiene due asterischi ◆

Assente dal pur ricco vocabolario del Bardo e dunque a lungo bandito dall’Oxford English Dictionary anche se non dal peraltro meno nobile equivalente di Cambridge, da sempre più «di sinistra», il Termine è stato di recente sdoganato prima globalmente nella capitale della cultura pop dell’orbe, poi, come sempre in seconda battuta dopo aver visto l’effetto che fa, anche nella lingua di Dante. Prima i Maneskin sui terreni del peraltro poco popdemocratico Coachella Empire Polo Club e quindi il Komandante Vasco (Rossi) nella più prosaica Trento cisalpina, hanno fatto accorato appello ai fans affinché si adoperassero nel senso dal termine indicato e amplificato da chissà quanti decibel prima nei confronti di un Leader mondiale per poi passare ad una Guerra certo fra le meno dotate di un qualsiasi senso. Gli appelli hanno trovato eco ampia e solidale nei media di tut-

to il mondo, accolti e rimbalzati come un mantra ed oggi sventolati assieme all’eretto dito medio – altra new entry di ampio successo mediatico, accanto alle bandiere arcobaleno che invocano la Pace. Strani ed improbabili bedfellows, «compagni di letto» nell’idioma del Bardo, che consumano quella babelica confusione fra la Lettera e lo Spirito, il Significante ed il Significato, la Forma e la Sostanza, le intenzioni ed il loro risultato: insomma l’incongruenza che sta diventando cronica fra la semantica della comunicazione e i suoi effetti dei tempi che tocca vivere. Quello che chiamano l’Antropocene sarebbe caratterizzato dalla Comunicazione come forma suprema dell’attività umana. Comunico e dunque in qualche modo sono. Lo fanno nel loro piccolo anche le formiche, i polpi e i delfini e i Fuffi e Fido di casa. Solo che loro non si fraintendono mai e posso-

no ancora passare a calci e morsi mentre noi (ancora per quanto?) no, perché si va in tribunale e la Verità costa. In compenso gli antropocenici possono mentire, far finta di non sentire e anche perdere il filo di quanto viene loro comunicato. Non bastasse, a rendere la comunicazione tanto più problematica quanto più ne riversiamo bit e decibel nel mare magnum della mediana mediaticità senza preoccuparci dell’inquinamento, noi possiamo lodare come possiamo offendere – fare il doppio, triplo e X gioco fino a che ci sfugge di mano, non ci si capisce più niente e si passa dalle parole ai cazzotti: niente fa più audience di una rissa al talk show. Specie al di qua delle Alpi perché siamo più creativi e socievoli. Da Wittgenstein a McLuhan in poi si è scoperto (capirai…) che i limiti della nostra realtà coincidono coi limiti del nostro linguaggio, inteso in senso lato. Aggiungeteci che (si pensa che)

Einstein abbia dimostrato che la Realtà è un dipendente del Punto di Vista soggetta a negoziato sindacale e che Freud ha diagnosticato che il Sé è un fantasma di un Altro Invitato di Pietra – e forse due, Es e Id – che ci sfuggono (f**k the bastards) e ditemi voi come potremmo non essere confusi. Morale della favola. Si è lottato, ci siamo battuti, si è sofferto, altri hanno patito e ancora tanti temono per liberare usi, costumi, inclinazioni, preferenze, desideri, curiosità e pruriti connessi alla sessualità da stigmi, proibizioni, pregiudizi e condanne. Si è tranciato il cordone ombelicale fra genitalità, sessualità e procreazione. Perché, dunque «quella roba lì», quell’atto specifico – unico e fondante fra tanti modi di comunicare – rimane sempre e comunque sinonimo di bullismo, aggressione, violenza. Basti guardare al design di auto, barche, occhiali specchi, vetri fumé, tessuti mili-

tari, moto naked… «te lo sbatto in faccia». Potenza come aggressione. Non ci si venga a dire – a scanso di equivoci – che il significato simbolico/ traslato delle espressioni linguistiche diviene altro dal suo originale. L’ Altropologo ringrazia per l’ovvietà. Ma la semantica filologico/culturale certifica che – mettiamo – dall’ Ode alla Rosa si può arrivare all’Inno alla Pera ma non a quello del Somaro. Se dal mettere i fiori nei cannoni del Vietnam siamo approdati a bombardare di decibel incontri invasivi del XXX-tipo con Capi di Stato e/o Mostri di Guerra senza corpo né anima come propone il Termine qualcosa di radicalmente non antropogenico sarà pur successo. «To ---k or not to ---k? Not to-, thank you». Ovvero: «C’è qualcosa di marcio nel Regno di Danimarca» (Amleto, I: IV). Ma anche altrove – mentre nessuno più, nemmeno Damiano, raccomanda il condom.

La stanza del dialogo

di Silvia Vegetti Finzi

La pace delle donne

Cara Silvia, dopo la morte di mio marito e il trasferimento in Canada per lavoro del nostro unico figlio vivo da sola. Il meglio della nostra vita è alle spalle ma non per questo mi sento isolata. Il Ticino offre mille occasioni di spettacoli, arte, letteratura, sport e, finché sto bene, scelgo quello che mi interessa e lo seguo con piacere e profitto. Dopo la sospensione provocata dalla pandemia da Covid 19, mi sembra di ringiovanire. Con questo spirito non mi sono fatta mancare l’evento organizzato dall’Associazione NascereBene Ticino per festeggiare il suo decimo anniversario. L’occasione era data dalla premiazione delle miglior storie di parto, un’esperienza fondamentale della nostra vita, considerata invece un tabù. L’incontro è riuscito benissimo per l’organizzazione e per la qualità degli interventi. Visto il momento storico che stiamo attraversando, parlar di nascita vuol dire contrastare la Guerra. Sono d’accordo e vorrei, se pos-

sibile, approfondire questo tema. Grazie. Mariangela Cara Mariangela, colgo con piacere il suo invito a riprendere l’argomento anche se una delle fondatrici dell’associazione NascereBene, Delta Geiler Caroli, ha già pubblicato un efficace appello dal titolo Ucraina: la pace delle donne sul quotidiano «La Regione». Approvo il ragionamento di Delta ma con alcune specificazioni. Attribuisco alle donne il diritto specifico di parlar di Pace in quanto non hanno mai dichiarato Guerra. Ma non solo, contrariamente agli uomini che hanno da sempre provocato stragi con azioni militari, noi non portiamo la morte ma la vita. Questo onore non spetta solo alle madri di fatto, quelle che hanno effettivamente messo al mondo dei figli, ma a tutte le donne in quanto potenzialmente materne, vale a dire capaci di pensare e vivere ma-

Mode e modi

ternamente. Se ci definiamo soggetti creativi, portatori di progetti vitali, cadono le contrapposizioni geografiche, culturali, politiche e ideologiche che alimentano i conflitti ed emerge un soggetto universale: l’umanità. Ecco cosa scrive in proposito la femminista americana Adrienne Rich: «Tutta la vita umana sul nostro pianeta nasce da donna. L’unica esperienza unificatrice, incontrovertibile, condivisa da tutti, uomini e donne, è il periodo trascorso a formarci nel grembo di una donna… Per tutta la vita e persino nella morte conserviamo l’impronta di questa esperienza. Dimenticare la madre significa dimenticare se stessi» (Nato di donna, Garzanti, Milano 1977, p.7). Ma è possibile dimenticare di essere nati da donna? Non credo. Nel bene e nel male è l’incipit della nostra vita, l’inizio della nostra biografia. Quando si sogna un luogo che non conosciamo ma dove ci sembra di esserci stati, quello

è il grembo della madre. Uno spazio straordinariamente ospitale, disposto ad accogliere un organismo formato, per il 50%, da geni che gli sono estranei, quelli del partner. Mentre. Come sappiamo, i trapianti d’organo sono ostacolati dal rigetto immunitario, nel caso della fecondazione si attiva un’accoglienza incondizionata. Un paradigma biologico che dovrebbe orientare positivamente i rapporti sociali, come di fatto sta accadendo per donne e bambini in fuga dall’Ucraina. Come rappresentanti dell’umanità, le donne materne costituiscono una straordinaria opportunità di far risuonare, in modo trasversale, al di là delle divisioni storiche, politiche e ideologiche, parole di pace. Non c’è un dialogo diretto tra donne ucraine, costrette ad abbandonare le loro case e le e le donne russe, sperdute nel Paese più grande del mondo, eppure le une e le altre sono in pena o in lutto per i congiunti in battaglia o decedu-

ti. È, il loro, un sentimento universale che passa attraverso i corpi e, per essere condiviso, non ha bisogno di tante spiegazioni. Un sentimento che anche gli uomini possono provare in quanto nati da donna. Occorre però riconoscere le potenze psichiche in gioco: l’Odio che divide, l’Amore che unisce. Freud personalizza queste due forze nelle divinità di Eros e Thanatos e, di fronte al loro eterno conflitto, si limita ad augurarsi la vittoria di Eros. Credo però che questo esito vada propiziato con immagini, parole e azioni di pace. Magari con Voce di donna. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

di Luciana Caglio

Giovani e politica: distanze ravvicinate ◆

I più assidui alle urne sono adulti maturi e anziani, terza e quarta età comprese. Lo confermano le statistiche che, del resto, rispecchiano l’anagrafe attuale attribuendo, proprio al Ticino, la qualifica di «paese per vecchi», parafrasando il titolo di un film famoso, che si svolgeva in Texas. Ora, se i dati numerici sono inoppugnabili, non raccontano però la realtà vera del nostro vissuto quotidiano dove la categoria «giovani», cioè bambini, ragazzini, adolescenti, ventenni occupa un posto sempre più rilevante. Tanto da creare effetti collaterali quali il giovanilismo. Come dire, imitare comportamenti ispirati al modello delle nuove generazioni, promosse a locomotive del costume. Jeans e sneaker ne sono i simboli più visibili. Ma anche gli svaghi, la cultura e persino il linguaggio si adeguano esponendo gli imitatori al rischio del ridicolo.

È questione di moda, l’insinuante dittatura del momento, di cui adolescenti e giovani sono i protagonisti consumatori in prima linea. Da qui, però, conseguenze sul piano educativo e psicologico che, a loro volta rendono gli adolescenti sia protagonisti sia vittime di eccessi e abusi. In questo quadro di una realtà sociale, economica, culturale all’insegna di un dominio giovanile, almeno appartente, manca tuttavia un aspetto che, giustamente, preoccupa e cui si cerca di rimediare: concerne il rapporto con la politica. E la parola sottintende la conoscenza delle regole e dei meccanismi che la fanno funzionare: cioè la civica. In Ticino la parola si ricollega a un dibattito, avviato cinque anni fa, da un gruppo di promotori che, in termini perentori, esigeva uno spazio destinato alla civica a sé stante non più associato all’insegnamento del-

la storia. Fatto sta che, con propositi ideologici diversi, la causa della civica è tornata d’attualità. Due settimane fa gli allievi del quarto anno delle scuole medie ticinesi hanno affrontato la «Prova cantonale di educazione civica, alla cittadinanza e alla democrazia», decisa dal Decs. Il tema era, del resto, già nell’aria. Oltre Gottardo in varie città e cantoni gli elettori erano stati chiamati a esprimersi sul voto ai sedicenni, peraltro respinto. Rappresenta, però, un indizio da non sottovalutare. Non a caso, mentre, gli eventi mondiali tornano a dimostrare l’insostituibilità della democrazia, la Svizzera si mobilita per ridare ossigeno a un sistema politico anchilosato dall’abitudine, dato insomma per scontato. La partecipazione ai tanti, forse troppi, appuntamenti con le urne è in calo. Un 40% di votanti è già considerato un buon risultato. E, ov-

viamente, si punta sui giovani, gli svizzeri di domani. Si riapre così l’interrogativo: quando l’adolescente dev’essere considerato cittadino? Quando lui stesso ne avverte il bisogno e la responsabilità? Quali sono i limiti ragionevoli di un’età che, in tempi non lontani, si definiva «ingrata»? E nel nostro dialetto si chiamava, sia pure amabilmente, quella della «stüpidera». Al di là di queste divagazioni folcloristiche oggi più che mai agli adolescenti spetta un ruolo vitale in un paese a bassa natalità, che ripone le speranze in una generazione sin qui protetta dal benessere e dall’accondiscendenza dei «grandi». L’unico impegno, in ambito politico collettivo, si limitava sin qui al pomeriggio dell’ultimo venerdì del mese per la protesta ambientalista. Adesso da loro ci si aspetta di più. Che si mettano in gio-

co per uscire dal limbo di un’infanzia prolungata. Il problema, d’altronde, è di portata mondiale, più caldo evidentemente nei paesi benestanti e, in particolare, nel Regno Unito e negli USA. La dice lunga, in proposito, un libro dal titolo già provocatorio: The creation of youth culture, nella traduzione italiana pubblicata da Feltrinelli nel 2012 L’invenzione dei giovani. L’autore, Jon Savage, denunciava le derive del culto dell’adolescente a vita, un hippy o uno yuppie e via enumerando le definizioni affibbiate a una generazione per così dire immobile, sempre immatura. Con conseguenze persino tragiche: il culto dei giovani ha fornito la materia prima al nazismo e fascismo, arruolati inconsapevolmente nei ranghi delle camicie brune e nere. Ma per concludere più serenamente le sue osservazioni Jon Savage cita il mito di Peter Pan.


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TEMPO LIBERO ●

Lo stretto sentiero del Nord Il lungo cammino del poeta giapponese Bashō (1689) confluì nel suo libro di viaggio più famoso

Isole d’acqua dolce Prende il via dalle Borromee una serie dedicata al sorprendente «Arcipelago prealpino»

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Un delizioso antipasto Finocchi caramellati al burro e pomodori trasformati in salsa con aglio e scalogno

Pachidermi portafortuna Devono avere la proboscide rigorosamente all’insù, così dicono i collezionisti di elefanti

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Sylvie Corti in sella alla sua moto.

Motard, una passione coniugata al femminile Adrenalina

Complici papà e mamma entrambi motociclisti, Sylvie Corti fin da bambina ha mangiato pane… e moto

Moreno Invernizzi

«Quando ero piccola, mio padre passava parecchio tempo in officina a lavorare ai suoi mezzi; a me piaceva guardarlo per cercare di capire cosa facesse. È fra quelle quattro pareti che è sbocciato il mio amore per le due ruote. Se ho questa passione è in gran parte colpa loro», sottolinea con un sorriso la 28enne di Cadro, ma di origini momò, Sylvie Corti (nella foto). «Potrà sembrare scontato o banale da dire, ma per me le moto rappresentano tutto: sono ciò che mi rende felice! E adoro il fatto di potermene prendere cura, di poterci mettere le mani ed essere in grado di risolvere ogni problema meccanico». C’è chi muove i primi passi e chi fa le prime smanettate di gas: «Beh, ho iniziato con il cinquantino a sedici anni. Se parliamo di moto serie, invece, è stata una Triumph Speed Triple 955i». Moto che Corti ha smontato da cima a fondo per poi rimontarla: «Le sono molto affezionata: me l’aveva regalata un amico di mio padre, che ora non c’è più. Era rosa, non proprio il colore che più mi si addice. Così, anche perché necessitava di una bella revisione, l’ho smontata, fatta ridipingere (bianca e nera) e ho cambiato i pezzi che andavano sostituiti. Ci ho messo oltre un anno a riassemblarla, ma più che altro perché dovevo mettere da parte i soldi per i ricambi quando ero apprendista». Già, perché Sylvie Corti in fatto di chiavi ingle-

si sa il fatto suo, essendo meccanica di moto di professione. «Quello di seguire il tirocinio di meccanica di moto, in fondo, è stato un passo quasi naturale per me». «Moto» per lei, oltre a far rima con «professione», la fa anche con «passione». E qui, nel parlarne, il suo volto si accende: «Il circuito mi ha sempre attirato, ma non mi ero mai decisa a comperare una moto per poterci andare. Finché ho conosciuto Elia, il mio compagno: lui, sulle piste, ci va per le gare… Così, un giorno ho rotto gli indugi e mi sono decisa a seguirlo durante un allenamento». Anche se è passato un anno e mezzo, la prima volta in pista, Corti se la ricorda ancora bene: «Con il Motard

i miei primi giri di pista li ho fatti a Castelletto di Branduzzo (che per le sue caratteristiche è un’ottima palestra per gli aspiranti piloti di moto: è un circuito decisamente più dinamico rispetto a gran parte degli altri, che in pratica sono dei kartodromi), nell’estate del 2020. La moto me l’aveva prestata un mio amico». «Quel giorno ero un misto di sentimenti: da una parte non vedevo l’ora di provare quelle emozioni che solo una pista sa dare, ma dall’altra ero letteralmente terrorizzata. Ammetto che non è andato tutto perfettamente liscio: una delle prime curve, non avendo ancora sufficiente familiarità col gioco di equilibri e i relativi limiti, mi sono piegata troppo; la moto ha perso aderenza e ho finito per sdraiarla». Sbagliando si impara: «Poi, una volta presa confidenza col mezzo, la pista e i movimenti del corpo, è rimasta quasi solo l’adrenalina pura. E così, una volta finito il turno, ho deciso di prendere un Motard tutto mio, cosa che ho fatto nel giro di una settimana!». Ora, in pista Sylvie Corti ci va col suo Motard, un Kawasaki 450. «Mi sarebbe piaciuto prendere parte a un campionato, ma mi rendo conto che mi sono approcciata a questo mondo troppo tardi per poterlo fare: se non ti metti in sella già da bambino, praticamente poco dopo aver imparato a camminare, è difficile aspirare

al mondo delle gare. Il mio compagno, che ha iniziato a 14 anni, è quasi un’eccezione, riuscendoci solo con notevoli sacrifici: a quell’età sei già vecchio. Così mi limito a girare in pista senza gareggiare, per il piacere di farlo e di sfidare i miei limiti personali». Non di meno, le emozioni che prova quando gira in pista sono impagabili: «Quando penso a quei momenti, ciò che provo è un turbine di emozioni. In cima a tutte, però, c’è l’adrenalina: quando “stacchi” per affrontare una curva, provi una scarica che ti fa quasi vibrare. E poi, quando hai finito, le emozioni che prevalgono sono la felicità e la soddisfazione, soddisfazione di pensare a ciò che hai fatto e che stai migliorando sempre di più». E paura? «Sì, ovviamente anche un po’ di quella. Ma, del resto, quel pizzico di paura che provi ti fa sentire viva. A dirla tutta, ogni volta che devo andare sul circuito, già quando parto da casa sento dentro di me una certa tensione. Girare in pista è completamente diverso dall’andare in moto su una strada. Come diverso è farlo con un Motard anziché con la classica moto da strada: qui la guida è molto più tecnica. Infatti, quest’estate proverò il mille del mio compagno, non vedo l’ora, ma ho già l’ansia!». Gli sport adrenalinici si contraddistinguono per le grandi emozioni, e in sella a una moto quelle più importanti per Sylvie Corti arrivano «alla fine di

un rettilineo, quando freni per affrontare una curva cercando di disegnarne al meglio la traiettoria: quelli sono anche i momenti in cui sei al massimo della concentrazione»., mentre la situazione più delicata da gestire su un circuito ha che fare con «le basse temperature: sono insidiose. In generale, quando fa freddo, per poter avere un’aderenza ottimale devi scaldare parecchio le gomme, e per farlo si è costretti a girare più forte di quando fa caldo. È difficile anche quando si tratta di effettuare un sorpasso con qualcuno del tuo stesso livello. Bisogna calcolare bene come fare senza prendere il rischio di toccarlo». Sebbene la passerella del mondo delle corse non l’abbia calcata come pilota, Sylvie la vive comunque in qualità di meccanica del team 511 Racing Team, squadra italiana costituita da sole donne. «Alla squadra ci sono arrivata un po’ per caso, tramite una ex collega del garage in cui lavoravo: una sua amica le aveva accennato del progetto di creare un team di sole donne. Così me ne ha parlato, e mi sono detta: “perché no?” Ho sostenuto un provino e ho convinto i responsabili del team, che mi hanno ingaggiata! Con il 511 Racing Team (di cui sono l’unica ticinese) prendiamo parte alla Womens European Cup e pure al Campionato italiano di velocità (CIV), dove la nostra pilota è l’unica donna iscritta nella categoria 300».


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TEMPO LIBERO

Il cammino di Bashō Bussole

Il viaggio poetico del maestro dell’albero di banano

Claudio Visentin

Matsuo Munefusa era un samurai di basso rango, come tanti. Intorno ai vent’anni, insieme al suo superiore e coetaneo Yoshitada, cominciò ad affiancare la poesia all’esercizio delle armi. Quando nel 1666 Yoshitada morì in giovane età, Matsuo si trasferì a Edo (l’odierna Tokyo), dedicandosi interamente alla meditazione zen e agli studi di poesia e calligrafia. Dal 1680 abitò una piccola casa appartata, dono di un discepolo; nel giardino fu piantato un albero di banano (in giapponese bashō) e da quel momento Matsuo Munefusa fu per tutti semplicemente Bashō. Nel 1682 un violento incendio distrusse la casa del banano e da quel momento Bashō decise di trascorrere la maggior parte della sua vita in viaggio, convinto che i continui mutamenti della condizione del viaggiatore − indifeso di fronte agli uomini, ai pericoli e alle intemperie − rispecchino perfettamente la nostra condizione umana, anche quando ci culliamo in un’ingannevole sicurezza. Bashō trascorse in cammino la maggior parte del 1689, un’esperienza poi confluita nel suo libro di viaggio più famoso, Lo stretto sentiero del profondo Nord, pubblicato postumo nel 1702 dopo una lunga elaborazione negli ultimi anni di vita. Scrive nel prologo: «I mesi e i giorni sono eterni viandanti, e così gli an-

ni, che vanno e vengono, sono viaggiatori. Per chi trascorre la vita su una barca, per chi invecchia tirando il morso del cavallo, ogni giorno è viaggio, e il viaggio è la sua casa. E molti antichi, un tempo, in viaggio sono periti. Io pure, da chissà quando, sono stato preso dalla brama di errare, invogliato da una nuvola sperduta sospinta dal vento». Il bagaglio di Bashō è minimo e solo la sua delicatezza d’animo ne aumenta il peso: «Sarei voluto partire spoglio, ma ho dovuto portare con me una veste di carta di riso per proteggermi durante la notte, una di cotone leggero, qualcosa per ripararmi dalla pioggia, inchiostro, pennelli e simili, e infine i doni ricevuti per il viaggio dai miei amici, che proprio non potevo gettare via. Mi erano d’intralcio, ma non avevo altra scelta». Strada facendo Bashō compone veloci pagine in prosa che si concludono con raffinati haiku, i brevi componimenti poetici in tre versi di sole diciassette sillabe complessive, secondo lo schema 5-7-5. Per esempio intorno al tempio di montagna chiamato Ryūshaku-ji pini secolari si slanciano dal terreno ammantato di muschio vellutato. «In quel panorama magnifico, avvolto da un profondo silenzio, ho sentito il mio cuore farsi cristallino. Nel silenzio / penetra nella pietra / il canto delle cicale».

Le descrizioni di luoghi famosi si alternano a momenti delicati di vita quotidiana. Un’attenzione tutta particolare è riservata alla natura, dalla fioritura dei ciliegi in primavera al rosseggiare delle foglie d’acero in autunno: «Gli uomini del mondo / non notano i fiori / di castagno sulla gronda». Anche le fatiche del viaggio, i dolori del corpo, la pioggia, i miseri alloggi di fortuna sono occasione di poesia: «Pulci, pidocchi / e un cavallo che urina / accanto al guanciale». O ancora: «Notte sotto lo stesso tetto / con donne di piacere / lespedeza e luna». Tornato a Edo, i discepoli costruirono per lui una nuova dimora, dove il poeta visse per qualche tempo in modo ancora più solitario e frugale che in passato. Ma nella primavera del 1694, quando contava ormai cinquant’anni, Bashō partì nuovamente, questa volta diretto a sud. E proprio in viaggio la morte lo colse nei pressi di Osaka. Pochi giorni prima aveva scritto il suo ultimo haiku: «Malato durante un viaggio / sui campi riarsi i sogni / vanno errando».

Una statua del poeta Matsuo Bashō a Yamadera, nella prefettura di Yamagata. (Kimon Berlin)

Bibliografia Matsuo Bashoˉ, Lo stretto sentiero del profondo Nord, traduzione e cura di Chandra Candiani e Asuka Ozumi, Einaudi, pp. 124, € 14.–. Annuncio pubblicitario

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TEMPO LIBERO

Patrimonio verde sul Verbano Arcipelago prealpino

Parco inglese e giardino barocco alle Isole Borromee: un giro del mondo botanico in pochi passi

Matilde Fontana

Sir Peter Smithers (1913-2006), giardiniere, studioso e collezionista botanico, diceva che «il clima dei laghi prealpini è il migliore in Europa, forse il migliore del mondo per la coltivazione di una grande varietà di piante». Non a caso, Smithers, inglese di nascita, aveva affondato le sue radici nella terra della penisola formata dal Monte Arbostora, che, circondato dalle acque del Ceresio, si protende verso sud come una terrazza affacciata sulla pianura Padana. Praticamente a metà strada tra il lacuale Parco Scherrer di Morcote e il collinare Parco San Grato di Carona, l’ex diplomatico britannico e già Segretario generale del Consiglio d’Europa aveva scelto di stabilire il suo buen retiro a Vico Morcote, dove si dilettava nella cura e nell’arricchimento del suo lussureggiante parco domestico. Artista dell’innesto, Smithers era solito distribuire generosamente le sue preziose talee agli amici, vivaisti e appassionati. Una delle sue collezioni, quella dei glicini, oggi si trova sull’Isola Madre dell’arcipelago delle Borromee, circondata dalle acque del Verbano. Smithers l’aveva donata negli anni Novanta dello scorso secolo al suo amico Gianfranco Giustina, storico capo giardiniere, anzi curatore delle collezioni di essenze vegetali per l’appunto delle Isole Borromee. Lo racconta Luigi Fiorina, che di Giustina è il successore all’Isola Madre da un paio di anni, alla testa di una squadra di sette giardinieri. Altri dieci curano il giardino barocco dell’Isola Bella, l’altro possedimento «verde» dell’arcipelago del Verbano aperto al pubblico dalla famiglia Borromeo. La ventina di tipi diversi di glicini di Smithers, provenienti principalmemte dal Giappone, oggi arricchiscono dunque le rare collezioni dell’Isola Madre, fra cui spiccano per imponenza le quaranta varietà di camelie antiche e una trentina di specie di magnolie. Percorrere, catalogo alla mano, viali e vialetti dell’ottocentesco parco dell’isola più grande tra le isole del Lago Maggiore è come fare il giro del mondo botanico in pochi passi e quattro punti cardinali. Accompagnati dai colori e dai profumi che coprono un calendario di tre stagioni, si può passare, semplicemente girando l’angolo, dai bambù giganti della Cina al Taxodium disti-

L’Isola Bella dal lago. (Matilde Fontana)

chum della Florida, una conifera che vive fino a quattromila anni e che si distingue per i suoi «polmoni»: grosse protuberanze che le radici fanno spuntare dal terreno per respirare. In un attimo si attraversa l’isola dall’assolato sud degli agrumi e delle serre tropicali all’ombroso nord della Darsena, dove sulle rocce sempre umide crescono le Woodwardie radicans, rare felci preistoriche giganti che ogni inverno vengono accuratamente coperte dai giardinieri. «È soprattutto in inverno – racconta il capo giardiniere – che si perce-

pisce più intensamente la straordinaria varietà del microclima dell’isola, quando le viole fioriscono nelle aiuole affacciate sul lago mentre a duecento metri di distanza la brina ricopre ancora il prato». Ma anche un paradiso come l’Isola Madre subisce i contraccolpi del cambiamento climatico in atto: il segnale più violento dei mutamenti meteorologici lo ha dato la tromba d’aria che la notte del 28 giugno 2006 ha spazzato via più di duecento alberi, fra cui l’intera corona frangivento a nord e il mastodontico cipresso del Kash-

mir, tesoro vivente arrivato sull’isola nel giugno del 1862 sotto forma di un cartoccetto di «freschissimi semi» inviati dalla regione dell’Himalaya dal corrispondente dei Borromeo. L’antico cipresso, esemplare unico in Europa, oggi si è ripreso dallo shock del 2006 e si presenta ai visitatori come simbolo di resilienza, sorretto da una serie di tiranti e accompagnato da un cartello che racconta la storia dell’impegnativa operazione botanico-ingegneristica di salvataggio. Al di là dell’evento estremo del 2006, comunque, alcune specie di alberi ad alto fusto, come cedri e faggi, mostrano ormai segni di sofferenza dovuta all’innalzamento della temperatura e ai lunghi periodi di siccità. Non pare possibile, ma anche queste terre circondate dall’acqua soffrono la mancanza di precipitazioni. «Lo scorso inverno – ricorda Fiorina – abbiamo dovuto iniziare a bagnare le piante già a gennaio: erano tutte impolverate. Mai successo prima». Nelle attività regolari dei curatori rientra comunque anche il ringiovanimento del parco e quest’anno, ad esempio, sono state messe a dimora quindici conifere «allevate» nel vivaio dell’isola. «Nei nostri vivai – spiega il capo giardiniere – produciamo quasi

tutte le piantine, anche quelle stagionali per le aiuole, come le margherite per la prima fioritura di venti tipi da seme o talea, in varie altezze e diversi colori. Solo i bulbi dei tulipani arrivano dall’Olanda». Dal parco all’inglese dell’Isola Madre bastano pochi minuti di battello per approdare a tutt’altro universo botanico, quello del giardino all’italiana dell’Isola Bella, attorno alla quale ronzano le motonavi di linea e i motoscafi che traghettano i turisti all’arcipelago Borromeo dai porti di Stresa, Baveno e Pallanza. Le pennellate di colore di rose e azalee appaiono dal lago come in un enorme affresco cangiante. In studiata sintonia con il Palazzo Borromeo, autentica Wunderkammer artistica, e impostato secondo i rigidi criteri del giardino barocco, il percorso è una visita guidata a una mostra a cielo aperto in cui spalliere di cedri, limoni e aranci, ibischi e oleandri adornano scenograficamente, in perfetta simmetria con le statue e le fontane, le terrazze e le aiuole realizzate nel XVII secolo. Quella delle due isole Borromee è una concentrazione di meraviglie storico-botaniche difficilmente ripetibile in un raggio così ristretto, tanto da rientrare contemporaneamente nei circuiti dei Grandi Giardini Italiani e della prestigiosa Royal Horticultural Society. Un marchio che attira annualmente centinaia di migliaia di visitatori attratti dalle fioriture che si susseguono in un calendario che si prolunga ininterrotto da marzo a fine ottobre. Senza dimenticare che, risalendo il Verbano per pochi chilometri, il parco delle Isole di Brissago completa il tour dell’arcipelago verde, in un «distretto botanico» che sulla terraferma offre grandi e piccoli complementi agli appassionati: dai Giardini di Villa Taranto a Verbania all’orto medievale di erbe medicinali della Rocca d’Angera, su su fino al Parco delle camelie di Locarno, alla piantagione di tè del Monte Verità e al Parco botanico del Gambarogno, dove Smithers ha lasciato altre tracce delle sue collezioni. Informazioni isoleborromee.it; isoledibrissago. ti.ch; villataranto.it; parcobotanicogambarogno.ch Sul sito www.azione.ch si trova una galleria fotografica più ampia. Annuncio pubblicitario


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TEMPO LIBERO

Ricetta della settimana - Finocchi caramellati su salsa di pomodoro ●

Ingredienti

Preparazione

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Per 4 persone

1. Taglia i pomodori a dadini. Trita lo scalogno e gli spicchi d’aglio. Scalda poco olio e fai appassire lo scalogno e l’aglio. Aggiungi i dadini di pomodoro e lascia sobbollire a fuoco medio per circa 20 minuti. Condisci con sale e pepe.

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500 g di pomodori 1 scalogno 2 spicchi d’aglio 6 c d’olio d’oliva sale pepe 2 finocchi di circa 250 g ciascuno 2 c di burro 2 c di zucchero 1 cc di semi di finocchio ½ limone

2. Nel frattempo, metti da parte i ciuffetti verdi dei finocchi e taglia gli ortaggi a fette di circa 1 cm di spessore. Scalda poco olio e il burro in una padella bella ampia e rosola i finocchi da entrambi i lati a fuoco medio per circa 5 minuti, finché si colorano leggermente. Cospargi di zucchero e semi di finocchio e continua, finché lo zucchero non si è caramellato. Grattugia la scorza di limone e aggiungila, condisci con sale e pepe. 3. Accomoda i finocchi sul letto di salsa di pomodoro e guarnisci con i ciuffetti verdi dei finocchi messi da parte. Irrora con un filo d’olio e servi. Preparazione: circa 20 minuti. Per persona: circa 3 g di proteine, 18 g di grassi, 15 g di carboidrati, 260 kcal/1050 kJ.

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TEMPO LIBERO

La proboscide all’insù Collezionismo e buona sorte

Un’invasione di pachidermi per attirare saggezza

Maria Grazia Buletti

Una grande bacheca contenente ogni sorta di elefanti con la proboscide rigorosamente all’insù: è quanto ci si presenta dinanzi a casa di Pietro, il loro collezionista. E a guardar bene, quella vetrina straripante incanta e ipnotizza perché ve ne sono di ogni dimensione, dal più piccolo, che misura a malapena un paio di centimetri, a quelli che stanno nel palmo di una mano, fino ai più grandi che trovano spazio sopra la vetrina perché dentro proprio non ci stanno. Vien voglia di scrutare fra i vari pachidermi, per individuare quello più originale, più colorato, di materiale più strano e, lo ammettiamo, alla ricerca di quello che non abbia la proboscide rivolta verso l’alto. E in mezzo a tanti qualcuno lo troviamo, perché Pietro ne ha portati a casa pure due o tre che non sono omologati al rigore della «proboscide in su» di chi colleziona questo tipo di animale: «Sono pochi quelli con la proboscide abbassata, è vero, ma sono belli lo stesso». In totale, contiamo all’incirca trecento elefanti e ne additiamo qualcuno di cui ci intriga sapere come è arrivato fino lì. La risposta di Pietro ci sorprende un po’: «Nessuno ha una storia speciale: ricordo il primo perché me lo aveva venduto nel 1995, al bar, un signore che girava nei ristoranti a vendere chincaglierie». Ce lo

mostra ribadendo che non è affezionato in particolar modo a nessuno di essi. Pietro pare voler creare distanza emotiva fra sé e la sua collezione. Malgrado ciò, egli ricorda la storia di tutti quelli che gli indichiamo, come ad esempio quello a dondolo di legno e tanti altri: «Questo ricordo di averlo comprato a Bellinzona, al mercato. Penso sia un giocattolo per bambini». Chiediamo allora quale sia quello che viene da più lontano, l’elefante di maggior valore e via dicendo, uno dopo l’altro, fra i pachidermi che più ci incuriosiscono: «Alcuni me li hanno regalati, mentre quelli che hanno maggior valore sono due in avorio che ho acquistato a Lugano, durante una svendita. In realtà, dopo il primo, li ho comperati tutti io ovunque andassi: li andavo a cercare per negozietti e mercatini, ma nessuno viene da particolarmente lontano perché li ho trovati per lo più fra la Svizzera e l’Italia». La storia insegna che l’elefante gode di un significato positivo in tutto il mondo e non meraviglia la ricchezza estrema della sua simbologia. Nelle diverse culture questo animale può infatti rappresentare la saggezza, l’intelligenza, la sensibilità, la nobiltà, la famiglia, la longevità, la fedeltà, la determinazione, la pazienza, la devozione, e in alcune credenze anche la

fertilità e colui che porta la pioggia. Ma il significato positivo di maggior valenza riguarda il fatto che l’elefante con la proboscide alzata è considerato simbolo di portafortuna. L’origine di questa credenza arriva dall’India e dal sud-est asiatico, dove gli elefanti vengono venerati e rappresentati in molte raffigurazioni spirituali. Infatti, il Dio indù Ganesha è raffigurato come un uomo obeso con la testa da elefante ed è proprio considerato il Dio della fortuna, del successo e della saggezza. In seguito, nel XX secolo, gli americani trasferirono il simbolo della fortuna dal Dio Ganesha all’elefante. Per questo motivo si possono trovare statuette di elefante in casa dietro la porta, oppure una statuetta con l’elefante con la proboscide all’insù, a portare fortuna alla casa o al luogo in cui è posto. Tornando al nostro collezionista, quel primo elefante acquistato in un ristorante gli ha proprio portato tantissima fortuna: «Il mio primo elefantino è arrivato in un momento molto particolare della mia vita, quando mi sono ammalato gravemente e ho pure rischiato di morire. Tutto però è andato bene, e i medici mi hanno detto che sono stato molto fortunato. Allora ho pensato che forse fosse proprio quell’elefantino ad avermi portato fortuna e mi è venuta voglia di

Giochi e passatempi Cruciverba

Il camaleonte ha una particolarità che non tutti conoscono, ha la capacità di muovere… Trova il resto della frase a cruciverba ultimato leggendo le lettere evidenziate. (Frase:7, 6, 2, 9)

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fica dei Carabinieri 33. Fu amato da Cibele 34. In fondo al corteo 35. Trama nell’ombra VERTICALI 1. Un’abitante dell’Acaia 2. Le iniziali dell’attore Amendola 3. Cinta senza fianchi 4. Schiene 5. Metà ettari 7. Le iniziali dell’attrice Capotondi 8. Colpire inavvertitamente qualcuno

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Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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rebbe che qualcuno li possa tenere in un posto dove la gente possa vederli: una vetrina, un negozio? Così la fortuna che essi rappresentano potrà essere condivisa». Dice di aver «superato la fase del possesso» insita in ogni collezionista: «Non guardo più i miei elefantini, e allora perché tenerli rinchiusi in una teca? E poi, è passato più di un anno e mezzo da quando ho acquistato l’ultimo». Anche se: «Comunque, se vedessi un elefantino in un negozio o da qualche altra parte, lo comprerei ancora, sì, se dovesse piacermi». Fortuna che va, e fortuna che torna con un possibile nuovo acquisto, a una condizione, spiega Pietro: «Ma deve venire lui da me e non andrò a cercarlo apposta, come facevo, nei negozietti di roba usata e nei mercatini». Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

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9. Passano mormorando… 10. Priva di suono proprio 12. Verde nell’adolescente 15. Tre vocali 18. Le iniziali dello scrittore e filosofo Tommaseo 20. Nome maschile 22. Dignità 24. Risultati 26. Un condimento 28. Profeta biblico 30. Le iniziali del politico Salvini 33. Sono pari in campo

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ORIZZONTALI 1. Sostanza… corrosiva 6. Priva di luce 11. Gare di canto 13. Si ode rompendo il vetro 14. Macinato 16. Moto nervoso 17. La pena nel cuore 19. Piacevole venticello 21. Cortile centrale dell’antica casa romana 23. L’atmosfera del Pascoli 25. Un avverbio 27. Intervallo di tempo 29. Albero d’alto fusto 31. Le ciarle meno care 32. Sigla d’investigazione scienti-

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comprare elefanti dovunque andassi». Ma il colpo di scena arriva come un fulmine a ciel sereno quando Pietro ci confida che ora desidera separarsi dai suoi numerosissimi elefanti: «Da un paio d’anni non ho più quella passione di cercarli e comperarli. Mi sono stancato, ecco tutto, e forse è arrivato il momento di passarli a qualcuno che può apprezzarli più di me, perché oggi li sto trascurando, non li spolvero più con la costanza di sempre e non sto nemmeno più a guardarli come state facendo voi ora». Un’affermazione che permette di comprendere come anche un collezionista possa, a un certo punto, volersi separare dai suoi beniamini. Ma questi oggetti sono speciali perché portano fortuna e ci chiediamo se sia saggio cedere la propria fortuna ad altri: «Non sono particolarmente scaramantico e ritengo di aver già avuto abbastanza fortuna perché sono guarito e sono vivo. Ora mi piace-

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku 6

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Pietro, il collezionista di elefanti. (Vincenzo Cammarata)

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Soluzione della settimana precedente TRA AMICI – «Ieri la mia ragazza mi ha lasciato mentre ordinavamo una pizza!» – «E tu come l’hai presa?» Risposta risultante: “BIANCA CON PROVOLA, SALMONE E RUCOLA” B I N A A C A C B D N A R I E E A S A L G A L A L X U O N I O L G A

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettwori che risiedono in Svizzera.


In palio premi per un valore complessivo di 2 milioni

Dal 31 maggio 2022 Solo dal 31.5.2022 al 20.6.2022. I premi vengono consegnati sotto forma di buoni acquisto. Condizioni di partecipazione su migros.ch/win


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ATTUALITÀ ●

Quanto servono le sanzioni? Ideate un secolo fa per impedire o fermare un conflitto armato, non raggiungono quasi mai lo scopo

Sulle tracce dei traditori A Kharkiv, terminati i combattimenti, una speciale unità va a caccia dei collaborazionisti

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Il liberalismo a rischio Intervista a Vittorio Parsi sui pericoli che l’ordine mondiale corre per pressioni interne e esterne

60 anni di indipendenza L’Algeria celebra l’anniversario della fine del dominio francese, segnato da lunghi conflitti

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Joe Biden con i primi ministri di Australia, Giappone e Cina. (Keystone)

L’America sfida la Cina su Taiwan Geopolitica

Riconoscendo che Taiwan è sotto la protezione militare americana, Biden compie un cambiamento strategico

Lucio Caracciolo

Si può mutare la strategia della superpotenza americana nei confronti del suo massimo rivale con un monosillabo? Parrebbe di sì. Quel «sì» pronunciato da Biden nella sua recente tournée asiatica in risposta al giornalista che gli chiedeva se Taiwan potesse considerarsi sotto protezione militare a stelle e strisce. Violazione del principio della «Cina Unica», acrobazia diplomatica che ha finora consentito ad americani e cinesi di fingere il consenso sull’esistenza della sola Repubblica Popolare Cinese come rappresentante della Cina sulla scena internazionale. E annuncio che in caso di attacco di Pechino a Taipei gli Stati Uniti non staranno a guardare. Come ad ogni dichiarazione impegnativa di Biden, le strutture alte del suo Stato sono intervenute per reinterpretarla e spiegare che nulla di sostanzialmente nuovo è accaduto. Falso. Per quanto possa valere un monosillabo di un presidente non sempre presente a sé stesso, si tratta pur sempre della parola del comandante in capo delle Forze armate americane. E per Pechino si tratta della conferma di quel che da sempre teme: la volontà degli Sta-

ti Uniti di risolvere la partita per l’egemonia mondiale con tutti i mezzi necessari, se serve anche con la forza militare. Il fatto che il «sì» di Biden sia stato pronunciato nel contesto di un suo impegnativo viaggio destinato a riannodare i fili del cosiddetto Quad – l’alleanza informale fra Stati Uniti, India, Giappone e Australia destinata a contenere e poi strangolare l’Impero del Centro – lo rende ancora più inquietante. Perché le gaffe bideniane (ammesso che di gaffe si sia trattato) esprimono il clima dei dibattiti negli apparati strategici washingtoniani, sempre concentrati sulla sfida del secolo con Pechino. E comunque la festosa gratitudine manifestata dai vertici taiwanesi all’uscita del presidente Usa rafforza la sensazione che Taipei qualche promessa di intervento in caso di aggressione di Pechino l’abbia ricevuta. D’altronde, la presenza di assetti e uomini in divisa americani nell’arcipelago prospiciente la Cina continentale è in crescita palese. Subito dopo l’annuncio di Biden, una formazione aerea congiunta russo-cinese ha sorvolato il cielo del

Giappone, mandando un messaggio non amichevole al Quad riunito in conclave. Dimostrazione che la strana coppia russo-cinese resiste alla crisi e alla guerra ucraina. Chi pensasse che la dimostrazione di debolezza delle truppe russe nel teatro d’Ucraina possa spingere Pechino a staccare la spina a Mosca, sbaglia di grosso. Almeno per il breve periodo. Infatti un impegno decisivo attende Xi Jinping a novembre. Il Congresso del Partito comunista cinese è chiamato a confermarlo al vertice di Partito, Forze armate e Stato (in ordine di rilievo), prolungando la sua stagione da Grande Timoniere. Negli ultimi tempi sono emerse, sia pure filtrate, alcune critiche dall’interno del sistema riguardo alla prestazione del Capo e dei suoi fedelissimi. In particolare: primo, la discutibilissima gestione dell’emergenza Covid. In Cina la risposta all’attacco del virus è stata di tipo militar-disciplinare piuttosto che sanitario. Anche per carenza di un vaccino efficace. Centinaia di milioni di cinesi sono stati costretti a tempo indeterminato a passare mesi chiusi in casa, sot-

to stretta sorveglianza – e assistenza – delle strutture deputate ad affrontare la crisi. Oggi ancora le grandi metropoli politico-economiche – Pechino e Shanghai – sono in severo lockdown. La gente è costretta a file impossibili per sottoporsi a test quotidiani. Qui e là, ma sempre più apertamente, si levano proteste, si accennano rivolte. Semplicemente, al terzo anno di Covid non se ne può più. Tutto questo mette in questione il consenso intorno al regime, quindi al suo leader. Secondo, la correlata modesta prestazione dell’economia cinese. Chiaro che tutto il modo di produzione locale soffre della crisi della globalizzazione, dell’accorciamento delle catene del valore, della riduzione dei commerci e del clima di sfiducia dominante intorno alla ripresa rapida dopo l’assalto del virus. Davanti ai porti cinesi stazionano in permanenza migliaia di navi mercantili in attesa di caricare e scaricare le stive. Tutto ciò contribuisce a rallentare il ritmo di crescita dell’economia. Malgrado le iniezioni di commesse infrastrutturali pubbliche, il Pil ha perso slancio e sta entrando in una fase di effettiva anche se non nominale

stagnazione (in Cina le statistiche sono aggiustate secondo necessità, entro certi limiti). E poiché il consenso al regime è correlato alla prestazione economica, le fibrillazioni ai vertici del potere si fanno più acute. Terzo, l’impantanamento dei russi in Ucraina mette comunque in questione il senso strategico della strana coppia Russia-Cina. Contro il parere di molti fra i dirigenti del suo partito, Xi ha sempre puntato sull’intesa con Putin. A gennaio, entrambi i leader avevano definito «senza limiti» il loro patto. I limiti della Russia, palesati dalla prestazione delle sue Forze armate e dall’esposizione alle sanzioni occidentali, sono sotto gli occhi di tutti. Qualche voce si è pubblicamente levata a denunciare il senso della coppia, a metterne in dubbio l’utilità per la Cina. Non occorre particolare finezza filologica per leggervi il segnale a Xi Jinping: correggi la rotta, o andiamo a sbattere. Ma Xi non può smentirsi ora, a pochi mesi dal decisivo appuntamento congressuale. Ammesso che davvero intenda farlo. Di qui a novembre, il dibattito interno cinese si farà sempre più interessante.


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Anno LXXXV 30 maggio 2022

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ATTUALITÀ

Sanzioni economiche, un’arma spuntata

Dibattito ◆ Quelle multilaterali erano nate sull’onda dell’idealismo che permeava la Società delle Nazioni, ma raramente hanno impedito o portato a concludere una guerra, perché restano sempre varchi per aggirarle Federico Rampini

Un regime autoritario lancia una guerra feroce contro una nazione sovrana. La comunità internazionale vara sanzioni economiche contro l’aggressore ma non riesce a fermarlo. Perché? Le sanzioni sono un’arma inefficace? Oppure il fiasco è dovuto al fatto che il castigo è stato applicato in modo parziale, perché sono intervenuti troppi interessi a limitare l’embargo? Questo dibattito non nasce con la guerra russo-ucraina di oggi ma con l’invasione italiana dell’Abissinia (Etiopia) nel 1935. Lo ricorda uno storico olandese, Nicholas Mulder, docente negli Stati Uniti alla Cornell University. Il suo saggio The Economic Weapon ricostruisce la storia delle sanzioni economiche e ne esplora i limiti.

L’embargo petrolifero contro l’Italia di Mussolini per la guerra in Abissinia non venne adottato a causa dei francesi e dei britannici, tantomeno venne impedito il transito delle navi italiane nel Canale di Suez perché per Londra la libertà di navigazione era sacra L’idea di fare la guerra con mezzi economici è antica quanto l’umanità. Per lo meno da quando l’assedio è una delle tecniche belliche: tra i suoi scopi c’è lo strangolamento economico del nemico. In epoca moderna un’applicazione fu fatta dall’Inghilterra e da Napoleone con sanzioni economiche incrociate. Cominciarono gli inglesi lanciando il blocco navale dei porti francesi dal 16 maggio 1806. La risposta di Napoleone fu il «blocco continentale» decretato contro l’Inghilterra nel decreto di Berlino del 21 novembre 1806. Gli uni e gli altri riuscirono ad aggirare in parte le sanzioni, che non furono risolutive per decidere l’esito del conflitto. L’opera di Mulder si concentra su una storia più recente, quella delle sanzioni multilaterali, applicate non da una sola potenza ma da una vasta coalizione. Quando nasce la speranza che la pressione economica possa sostituirsi alla guerra? È figlia dell’idealismo che ispira la Società delle Nazioni, organismo multilaterale che prefigura le odierne Nazioni Unite, voluto dal presidente democratico americano Woodrow Wilson dopo la prima guerra mondiale per impedire il ripetersi di una simile deflagrazione. Le sanzioni economiche nell’accezione contemporanea hanno compiuto cent’anni. Le potenze vincitrici della prima guerra mondiale – Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia – escogitano questo deterrente contro i trasgressori del nuovo ordine internazionale: un arsenale di misure economiche da applicare congiuntamente. L’uso collettivo delle sanzioni viene inserito all’articolo 16 della

Lo yacht Sheherazade, attribuito a Putin, sequestrato dalle autorità italiane nel porto di Marina di Carrara. (Keystone)

carta della Società delle Nazioni. Se uno Stato aggredisce un’altra nazione, i membri della Società devono interrompere ogni relazione commerciale e finanziaria contro il colpevole. Prima ancora che le sanzioni entrino in vigore, chi le ha ideate spera che l’esistenza stessa di questa minaccia sia abbastanza dissuasiva da prevenire ogni guerra futura. Così un secolo fa insieme con il Trattato di Versailles che mette fine alla prima guerra mondiale nasce una teoria della deterrenza economica. Subito si affaccia una contro-teoria legata alle clausole di Versailles: il timore che un eccesso di sanzioni inflitte ex post alla Germania, alimenti un revanscismo foriero di future catastrofi. Americani e inglesi a Versailles hanno dubbi sulla sostenibilità degli indennizzi imposti alla Germania ma i francesi tengono duro. La credibilità delle sanzioni riceve un colpo quando in America prevale l’isolazionismo dei repubblicani e Washington decide di non aderire

alla Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti negli anni Venti del secolo scorso sono già la prima economia mondiale e si ritirano a casa propria. Mulder ricorda qualche esempio minore in cui la minaccia delle sanzioni ha un effetto deterrente contro Stati piccoli e deboli come Iugoslavia e Grecia. Il fiasco arriva al momento di applicarle a una delle potenze fondatrici della Società delle Nazioni, l’Italia. La decisione di Benito Mussolini di lanciarsi alla conquista dell’Abissinia fa scattare quelle che lui definisce «le inique sanzioni». Nella propaganda fascista sono «l’assedio societario», con riferimento alla delibera della Società delle Nazioni nell’ottobre 1935. L’impatto economico è pesante, i disagi per la popolazione sono reali, ma senza un effetto dissuasivo sulle operazioni militari. Perché lo strumento è inadatto, o al contrario perché non viene applicato abbastanza? Le eccezioni nel 1935 sono vistose. L’embargo sulle forniture di petrolio all’Italia non viene adottato perché inglesi e

L’embargo petrolifero decretato dall’Opec contro l’Occidente nel 1973 portò in Europa alle prime domeniche senz’auto. (Keystone)

francesi non vogliono mettersi contro l’industria petrolifera americana. In quanto all’idea di chiudere il canale di Suez alle navi italiane, bloccando così la rotta più breve verso l’Abissinia, viene respinta da Londra che non vuole venir meno al principio della libertà di navigazione, protetta da leggi internazionali e sacra per un impero marittimo.

Le sanzioni danneggiano anche chi le impone: a fronte di 640 miliardi di dollari di beni russi sequestrati a fine aprile ci sono 566 miliardi di investimenti occidentali in Russia che rischiano di andar persi Il caso successivo di sanzioni è considerato da alcuni peggio che un fiasco, un boomerang. Nel luglio 1941 Franklin Roosevelt costruisce una coalizione di nazioni occidentali che applicano un embargo petrolifero contro il Giappone per castigarne le aggressioni in Asia. Sarà proprio quello strangolamento energetico a spingere Tokyo verso l’attacco a Pearl Harbor nel dicembre di quell’anno? Esistono obiezioni fondate. L’accesso limitato alle materie prime era già una motivazione dell’espansionismo giapponese molto prima di quell’embargo. E le sanzioni economiche contro Tokyo arrivano con dieci anni di ritardo visto che la prima aggressione nipponica risale all’invasione della Manciuria nel 1931. Nel capitolo finale Mulder ricostruisce il ruolo delle «armi economiche positive» nello svolgimento della seconda guerra mondiale. Se le sanzioni sono state inefficaci per

prevenire conflitti, in compenso l’economia si rivela decisiva per vincerli. Tutto comincia con la legge Lend-Lease («presta-affitta») che Roosevelt vara prima ancora di entrare in guerra, per accelerare le forniture di armi made in Usa a Londra: una legge che Joe Biden ha riesumato per l’Ucraina. La superiorità produttiva dell’industria americana fa la differenza in tutta la seconda guerra mondiale, fino a consentirle aiuti militari all’Armata Rossa sovietica. Se Mulder non si fermasse al 1945, un capitolo aggiuntivo dovrebbe includere il Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa come il non plus ultra della sanzione economica positiva. Già al vertice di Bretton Woods nel 1944 Roosevelt ha prefigurato un nuovo ordine internazionale in cui la pace andava favorita con la diffusione della prosperità. Tre quarti di secolo dal dopoguerra hanno arricchito la casistica delle sanzioni. Sono state usate anche dagli altri contro di noi. L’esempio più importante è l’embargo petrolifero decretato dal cartello dell’Opec nel 1973, quando i paesi arabi vogliono castigare le nazioni occidentali che hanno appoggiato Israele nella guerra dello Yom Kippur: segna l’inizio della nostra stagflazione. Più di recente la Cina fa un uso chirurgico e spietato delle sue sanzioni economiche, per colpire paesi che hanno preso posizioni politiche sgradite a Pechino: ne hanno già fatto le spese Australia, Filippine, Norvegia, Lituania. Il dubbio che le sanzioni facciano più male a chi le applica fu discusso tra europei e americani in un episodio che Mulder ha ricordato di recente sul Wall Street Journal. Il presidente repubblicano Ronald Reagan negli anni Ottanta tentò di dissuadere gli europei dal costruire oleodotti e gasdotti con la Russia e applicò sanzioni contro le aziende coinvolte. La Germania, ma anche il Regno Unito della conservatrice Margaret Thatcher, non ne vollero sapere e convinsero Reagan a eliminare quelle misure. Da allora l’Europa ha continuato a costruire legami di dipendenza con Mosca, con il risultato che le sanzioni di oggi sono ambivalenti. Una stima dello stesso Mulder indica che l’insieme dei beni russi sequestrati in Occidente a fine aprile valeva 640 miliardi di dollari; a fronte dei quali secondo lui ci sono 566 miliardi di dollari di investimenti occidentali in Russia che rischiano il sequestro, la nazionalizzazione, o la perdita di valore. Lo storico britannico Paul Kennedy ha una lezione generale: «Le sanzioni non funzionano quando nel cordone dell’embargo ci sono varchi che permettono di aggirarle. Né funzionano se un’altra superpotenza si fa avanti per vanificarle, offrendo il proprio sostegno al paese in castigo, come fecero già in passato Cina e Russia con Iran e Corea del Nord».

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Caccia ai collaborazionisti

Ucraina ◆ Terminati i combattimenti a Kharkiv e dintorni, si comincia a fare i conti con chi ha salutato e favorito l’avanzata dell’esercito russo, con una speciale unità del ministero dell’interno ucraino Daniele Raineri

Kharkiv. Roman, ucraino di 28 anni, ha passato una settimana da prigioniero della Russia. Oggi fa parte di un’unità speciale del ministero dell’interno ucraino che si occupa di dare la caccia ai collaborazionisti che si sono schierati con le truppe russe durante l’occupazione. Non è un fatto insolito qui nella vasta area tra la città di Kharkiv, la seconda dell’Ucraina per popolazione, e il confine russo circa un’ora di strada più a nord – in tempi normali. I russi hanno fatto irruzione fin dal primo giorno, il 24 febbraio, non sono riusciti a conquistare Kharkiv ma hanno preso tutto il territorio nei dintorni a nord e a est – e si sono ritirati soltanto all’inizio di maggio. Accompagniamo Roman con una pattuglia a Ruska Lozova, a pochi chilometri dalle posizioni dei russi. È un’area liberata da poco, non si vedono quasi civili e in compenso si vedono i soldati ucraini, seminascosti fra le case. Sulla strada passano i veicoli delle cosiddette unità Kraken, sono una costola di quel reggimento Azov che è diventato celebre in passato per le sue posizioni di ultradestra e poi per la sua resistenza a oltranza dentro l’acciaieria Azovstal di Mariupol. Il tetto di una casa è in fiamme, ogni tanto arrivano colpi d’artiglieria russi, un proiettile ha colpito un tratto di gasdotto che adesso brucia con costanza in mezzo a un prato in mezzo a una nebbiolina bianca. A metà del giro

con Roman e i suoi commilitoni arriva un proiettile di mortaio, così vicino che si sente il fischio. È una situazione di quasi liberazione, non del tutto compiuta. Come fate a riconoscere i collaborazionisti, quindi le persone che accusate di avere lavorato al fianco degli occupanti russi? «Hanno fatto tutto il possibile per convincere gli abitanti di questo villaggio ad appoggiare i russi. Continuavano a ripetere la loro propaganda, che gli ucraini filogovernativi sono nazisti, che a Kharkiv ci sono i nazisti e che i russi li hanno liberati dai nazisti. Gli ultimi li abbiamo presi alle cinque di questa mattina, a casa loro». Fate sempre questi arresti prima dell’alba? «A volte partiamo alle tre del mattino, o alle cinque, può essere in qualsiasi momento. Giorno o notte, dipende. Una volta siamo andati a Mala Rohan – un villaggio a est di Kharkiv, occupato a lungo dai russi – alle quattro del pomeriggio, ma c’era un bombardamento pesante in corso e siamo riusciti ad andare via soltanto alle due del mattino». L’unità di Roman è fatta tutta da volontari, e sono locali perché così sanno muoversi meglio nelle decine di villaggi attorno a Kharkiv. Sul braccio hanno lo stemma delle «Slobozhanshchyna», la squadra speciale – ma la qualifica «speciale» non deve trarre in inganno, non sono teste di cuoio. Alcuni sono smilzi altri un po’ appesanti-

Finito l’assedio russo, seppur fra sporadici bombardamenti, Kharkiv riprende a vivere, ma si fanno anche i conti con i collaborazionisti. (Keystone)

ti, girano con scarpe da ginnastica e se vedono una scatola di munizioni lasciata dai russi la prendono per tenerla di scorta. Mezzi poliziotti, mezzi militari, alcuni usano un passamontagna. La loro specialità è muoversi nel paesaggio umano, traumatizzato e diviso, che resta dopo il ritiro dei russi. La zona di Kharkiv è russofona, per una parte della gente di qui la Russia è sempre stata una presenza naturale e forte, molte famiglie hanno parenti dall’altra parte del confine. Nei piani di Mosca Kharkiv avrebbe dovuto celebrare l’arrivo delle truppe russe con festeggiamenti e commozione, ma non è andata così. La città ha opposto una resistenza feroce e

ha resistito a mesi di bombardamenti senza pause – come tutto il mondo sa, i tunnel della metropolitana sono stati trasformati in rifugi. Alcuni abitanti nei villaggi credevano che gli invasori avrebbero vinto e sono saliti sul loro carro, altri invece speravano, chiusi in casa, che finisse tutto. Adesso nemmeno tre mesi dopo i collaborazionisti hanno scoperto di avere fatto la scommessa sbagliata ed è cominciato il regolamento di conti. «Quando gli occupanti sono arrivati – continua – hanno obbligato tutti a indossare fasce bianche al braccio. Le persone che rifiutavano di indossare la fascia bianca erano portate fino al

confine e picchiate. I russi mettevano i civili in una fossa con le braccia legate dietro e un sacco sulla testa, li torturavano, li costringevano a svelare le nostre posizioni. Hanno preso tutti i giovani attorno ai trent’anni, alcuni li hanno rilasciati, di altri non si sa più nulla. Il capo di questo villaggio ha dato ai russi tutte le informazioni sui soldati che abitano in zona e che hanno partecipato alla guerra civile contro i separatisti nel Donbass e i russi hanno preso anche loro». Non pensi sia strano andare a trovare questi collaborazionisti mentre ancora arrivano i colpi dell’artiglieria russa sulle case? «In effetti più lavoriamo vicino al confine, più alta è la possibilità di finire sotto il tiro dei russi. Non si può pianificare nulla con molto anticipo, certe volte lasciano le posizioni e poi tentano di ritornare. A volte facciamo le nostre operazioni a poche centinaia di metri dai russi e dai separatisti, il nostro mestiere è fare indagini ma a volte tocca combattere, ci finiamo in mezzo. Gli scontri possono essere brevi o lunghi, per questo ci portiamo dietro la maggior quantità di munizioni possibile quando andiamo a prendere qualcuno. E sempre tutto abbastanza pericoloso». E cosa ne fate di questi collaborazionisti? «Li consegnamo ai servizi di sicurezza, sono loro poi a decidere che cosa fare, ma non è affar mio». Annuncio pubblicitario

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L’ordine liberale? Un Titanic

Crisi ideologica ◆ Intervista a Vittorio Parsi, autore di un saggio critico sui pericoli che sovranismi, autoritarismo e ingiustizie sociali derivanti da un capitalismo selvaggio rappresentano per l’Occidente Vastano Stefano

«L’iniquità e il populismo sono cresciuti tanto nelle società democratiche da metterne a repentaglio la tenuta». Parole del politologo italiano Vittorio Parsi, docente di Relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano e direttore del Master in Economia e Politiche internazionali dell’USI e dall’Alta scuola di economia e relazioni internazionale. Autore di Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale, edizioni Il Mulino. Un saggio in cui Parsi analizza gli «iceberg» contro cui l’ordine liberale internazionale sta andando a cozzare. Non c’è solo lo scoglio dell’ingiustizia economica o i sovranisti a erodere dall’interno il sistema liberale - osserva l’esperto - «modelli autoritari come quello cinese e russo sono minacce sempre più gravi per l’Occidente». L’ordine liberale globale o il Titanic, come lo chiama nel libro, sta già naufragando? Il naufragio è una delle prospettive all’orizzonte del nostro Titanic. Ed è legato al crescere delle minacce esterne all’ordine liberale, in particolare all’allineamento russo-cinese. E alle debolezze interne alle società democratiche, come la perdita di inclusività e di rappresentatività delle istituzioni democratiche e statali. A mettere in crisi le società aperte è l’equilibrio precario fra economia e politica, la democrazia e il mercato? Sì, siamo in crisi perché il mezzo del mercato si sta «mangiando» il fine, e cioè le istituzioni del welfare e le regole democratiche. Mercato e democrazia sono due forze poderose che devono esser condotte a collaborare, ma l’era neoliberale ha sciolto le briglie alla pura logica del mercato, ciò che sta generando nei cittadini disaffezione verso le istituzioni e il fenomeno corrosivo del populismo. Il 9 novembre 1989 crolla il Muro di Berlino. E da allora il sistema liberale entra in crisi, giusto? Da quella data i grandi operatori del mercato hanno avuto la percezione di non avere più vincoli sociali al capitalismo nella sua ideologia neoliberale. Di fatto, la forma finanziaria del capitalismo sfrenato ha messo in difficoltà, dopo l’89, le società aper-

Berlino, 10 novembre 1989: il Muro crolla, non divide più le due Germanie. Nel mondo il capitalismo selvaggio prende sempre più piede, minando con il tempo la coesione sociale. (Keystone)

te, avvantaggiando i sistemi autoritari. Il caso Cina è emblematico al riguardo. Le ricette dei sovranisti - nazionalismo, protezionismo, il Muro contro migranti e minoranze - servono a risolvere la crisi sul Titanic? Schiacciandola su definizioni strettamente identitarie, razziali o di sangue, la cittadinanza a cui si riferiscono populisti come Salvini o Le Pen è una soluzione molto debole per riconquistare potere politico contro lo strapotere tecnocratico dei mercati. Lo vediamo nell’Ungheria di un autocrate razzista come Orban, che sforna leggi che favoriscono lo sfruttamento del lavoro, dai salari congelati all’obbligo di straordinari. Sovranisti a parte, non è la crisi della leadership americana a far temere oggi il naufragio del Titanic delle società aperte? Certo, la crisi della leadership de-

gli Stati Uniti enfatizza i pericoli esterni, e rende più complicato metter mano alle riforme strutturali del Titanic. Il consensus di Washington dell’immediato dopoguerra era progressista. Con Trump a Washington, autocrati come Putin hanno visto la conferma di un ritorno a una concezione di puri rapporti di forza nell’arena internazionale. L’invasione della Crimea e dell’Ucraina oggi è, da parte di Mosca, la lettura di una debolezza sistemica degli Stati Uniti accentuata nell’era Trump. E alla quale oggi Biden cerca di porre rimedio.

sciato che sul Titanic si creasse così tanta diseguaglianza sociale e sfiducia nelle istituzioni, che la gente ha perso quasi il contatto col valore della libertà.

Ma il sistema russo o quello cinese possono mai essere delle alternative a quello occidentale? Dipende dal valore che siamo disposti a dare alla libertà. Se la libertà nelle nostre vite e società è un optional, allora i due vascelli russi e cinesi possono trasformarsi in alternative al Titanic. Il punto è che abbiamo la-

Con l’invasione in Ucraina non si è cacciato in un vicolo cieco? Si potrebbe dire della Russia quel che Bismarck diceva dell’Italia: ha un grande appetito, ma i denti guasti! Anche l’apparato militare russo si sta rivelando inferiore a quanto stimassimo. Certo, mai sottostimare la capacità dei regimi autoritari di

Già, ma qual è realmente l’obiettivo di Putin in questa orrida guerra in Ucraina? Il suo è un messaggio chiaro: il mondo deve contemplare la Russia allo stesso livello di Cina e Stati Uniti. La guerra di Putin dunque è destabilizzante non solo per gli Usa e l’Ue, ma anche per la leadership sino-americana.

creare distopie orwelliane, e neanche Stalin sfornava più menzogne di Putin. Ma l’esercito che lui aveva in mente sferrando la guerra in Ucraina esisteva solo nei report falsati dei suoi generali, ostaggi di bugie e corruzione pazzesche. Di fatto, dal giorno in cui Putin ha sferrato il suo attacco la Nato si è rinvigorita, Finlandia e Svezia chiedono adesioni rapide… Nulla più di una aggressione russa al cuore d’Europa poteva spingerci a riconsiderare quanto sia importante rinsaldare la leadership occidentale. Persino in Svizzera il 56 per cento dei cittadini vorrebbe ora un legame con la Nato. L’invasione dell’Ucraina da parte di Putin è di fatto peggio di quella della Polonia da parte di Hitler, perché la Russia è membro fondatore e permanente del sistema di sicurezza uscito dalla guerra mondiale. Come fidarsi ora che Mosca rispetti mai qualche regola? Ma perché allora la guerra di Putin ha portato tanto scompiglio nelle file della sinistra? L’anti-americanismo è un assioma di tanta sinistra, insieme all’ossessione per il passato sovietico. Quali che siano i tuoi dogmi e miti, non è mai possibile però metter sullo stesso piano la violenza dell’aggressore e quella dell’aggredito. Fra tutti i premier della Ue, è il cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz quello entrato più in crisi rispetto alla guerra di Putin. Come mai? L’ombra di Gerhard Schröder (ex Kanzler della Spd, oggi manager di Nord Stream, il gasdotto russo, Ndr) è nefasta sulla Spd. Anche i 16 anni di Angela Merkel hanno finito per soporizzare la politica tedesca. Con il Covid e la guerra è andato in frantumi il lungo sonno in cui la Germania ha vissuto dall’89 ad oggi. Eppure non è pessimista, il Titanic liberale può «cambiare rotta», come suona il titolo del libro… L’ottimista è un pessimista che non molla: prima di salpare ti prepari alle circostanze avverse, e poi ti apri al futuro. Per questo sono convinto che per il liberalismo vi sarà un futuro. Annuncio pubblicitario


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Una decolonizzazione tormentata Algeria

Il paese maghrebino celebra i 60 anni dell’indipendenza, ottenuta dopo decenni di oppressione e conflitti armati

Venturi Alfredo

L’Algeria è uno dei Paesi più direttamente coinvolti nelle conseguenze della guerra d’Ucraina. Lo è per due ragioni: si tratta di uno dei maggiori produttori di petrolio e gas (dunque viene sollecitato ad aumentare le esportazioni per soppiantare le forniture russe) ed è particolarmente esposta, come tutto il Maghreb, alle imminenti carenze di cereali. Fra i contrastanti problemi del grano che scarseggia e degli idrocarburi che abbondano, ma che non sarà facile estrarre ed esportare in misura corrispondente alla nuova domanda mondiale, il Paese si appresta a celebrare il sessantesimo anniversario dell’indipendenza.

Il generale Charles de Gaulle, fautore della decolonizzazione dell’Algeria, in visita nel paese maghrebino nel 1958. Sotto, la popolazione di Algeri saluta i soldati dell’Armata di liberazione nazionale il giorno dell’indipendenza, 5 luglio 1962. (Keystone)

La decolonizzazione fu controversa, poiché in Algeria risiedevano un milione di coloni che consideravano il paese come parte integrante della Francia L’Algeria si affaccia dunque sulla sua storia tormentata, che comprende la lunga vicenda coloniale iniziata nel 1830. Ci vollero quarant’anni di guerriglia, attentati e massacri perché la Francia di Carlo X, poi di Luigi Filippo e quindi di Napoleone III potesse controllare l’intero territorio. Il secolo successivo ce ne vollero altrettanti perché i primi vagiti indipendentisti si traducessero nella sovranità nazionale. Fu così che i pieds-noirs, i coloni così definiti da un’espressione inizialmente spregiativa ma più tardi adottata come formula identitaria, lasciarono in massa quella che si ostinavano a considerare l’Algeria francese. All’inizio della crisi di rigetto, un milione di coloni convivevano con otto milioni di arabi e berberi fra la verdeggiante striscia costiera e l’immensità del Sahara: nel 1962, anno primo dell’Algeria sovrana, ne erano rimasti centomila. La storia ha alimentato un massiccio flusso umano da queste terre verso quella che fu a lungo la madrepatria europea, non soltanto di pieds-noirs in fuga né soltanto dopo l’indipendenza. Vivono oggi in Francia settecentomila cittadini di nazionalità algerina, senza contare i francesi che hanno laggiù le loro radici: un milione e mezzo dicono le statistiche di Parigi, quattro milioni secondo i dati provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo.

Tutto cominciò con uno sgarbo abilmente sfruttato dalla diplomazia francese. Il 30 aprile 1827 il Dey Hussein che governava Algeri per conto dell’impero ottomano, teorico titolare della sovranità, ricevendo il console Pierre Deval gli chiese se il re Carlo X avesse risposto alle lettere che gli aveva mandato. Il console rispose in modo considerato offensivo e il Dey lo colpì con lo scacciamosche. Poi rifiutò di scusarsi e una squadra navale che incrociava al largo bloccò i por-

ti. Tre anni più tardi 38 mila soldati francesi sbarcavano sulle coste algerine. Il 5 luglio 1830 Algeri fu occupata. Lo sarà per 132 anni, fino a quando Charles de Gaulle, l’eroe della France libre, sarà chiamato a governare la Francia e a sciogliere, per cominciare, l’intricatissimo nodo africano. Gli invasori non ebbero vita facile. Le «campagne di pacificazione» lanciate per fronteggiare la resistenza armata si protrassero fino alla caduta del Secondo Impero, immorta-

lando la figura guerriera dell’emiro Abd el-Kader. Un milione le vittime, un terzo dell’intera popolazione dell’Algeria ottocentesca. Più tardi un decreto tenterà di nascondere la realtà coloniale con il velo dell’annessione: il territorio diventerà un insieme di dipartimenti d’oltremare. Gli spazi compresi fra la Cabilia e il deserto saranno considerati terra di Francia non diversamente dalla Bretagna o dalla Provenza, nonostante l’atteggiamento non proprio amichevole della popolazione arabo-berbera. I nodi vengono al pettine dopo la prima guerra mondiale, nella quale hanno combattuto 250 mila algerini lasciando sul terreno 40 mila morti. Nascono i primi movimenti che associano alla rivendicazione indipendentista quella sociale. Anche la seconda guerra vede una forte presenza algerina nelle forze francesi e un pesante tributo di sangue. Il diffuso sentimento nazionalistico e l’aspirazione alla sovranità devono fare i conti nel 1945 con la dura repressione dei moti scoppiati fra i berberi della Cabilia. Si affacciano sulla scena gli uomini che si preparano a governare il Paese come Ferhat Abbas, Ahmed ben-Bella, Houari Boumédienne. Nel 1954 nascono il Fronte (FLN) e l’Armata di

liberazione nazionale. Ormai è guerra aperta: i francesi mettono in campo le loro truppe migliori, compresa la Legione straniera che proprio in Algeria, a Sidi bel-Abbés, ha il suo quartier generale. Le Nazioni Unite suggeriscono una soluzione diplomatica e nel 1955 Tunisia e Marocco tentano la mediazione. Purtroppo non è tempo di pacifiche trattative: ben presto la Francia dovrà vedersela non soltanto con gli arabi e i berberi che vogliono l’indipendenza ma anche con i coloni che non ne vogliono sapere. Parigi incarica due generali, Raoul Salan e Jacques Massu, di reprimere con pieni poteri la rivolta ormai dilagante. Nel ’57 l’esercito irrompe nella Casbah di Algeri ma la resistenza sopravvive agli arresti di militanti e dirigenti. Si fa ricorso alla tortura e alle esecuzioni sommarie, il mondo osserva inorridito e preme per il solo sviluppo che può portare la pace: rendere definitivo il governo provvisorio che il FLN ha nominato nel ’58. Ma i coloni non ci stanno, un gruppo di militari assume il controllo di Algeri. A Parigi le istituzioni vacillano, ogni potere viene delegato al generale De Gaulle, che nel ’58 sarà il primo presidente della Quinta Repubblica. Tocca a lui compiere il grande passo che porta la Francia fuori dal pantano algerino. Nel ’59 riconosce il diritto dei colonizzati all’autodeterminazione: i pieds-noirs rispondono con barricate e attentati. Alcuni generali riuniti attorno a Salan danno vita all’Organisation de l’Armée Secrète, ben decisi a difendere con le armi l’Algeria francese. Parigi indice un referendum e gli elettori scelgono di rispettare la volontà degli algerini. L’OAS reagisce tentando l’insurrezione e ricorrendo al terrorismo, che prende di mira anche i francesi tacciati di filo-arabismo. Ma ormai De Gaulle ha conquistato la fedeltà degli alti comandi e procede verso l’ineludibile conclusione. Mentre i coloni fuggono in massa i dettagli del trasferimento dei poteri vengono definiti nel negoziato di Evian, dove il 19 marzo 1962 si firma il trattato che riconosce il FLN e decide il cessate il fuoco. Ormai la strada è sgombra, anche l’OAS depone le armi e il 5 luglio 1962 nasce il nuovo Stato nordafricano. Si conclude così la più cruenta fra le decolonizzazioni che hanno segnato il Novecento. Annuncio pubblicitario

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 30 maggio 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

MONDO MIGROS

Spasso (gratuito) all’Europa-Park

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Come si chiama il parco acquatico che sorge accanto all’Europa-Park?

Istantanee di vacanza: sulle montagne russe, spasso a Rulantica e nell’hotel quattro stelle all’interno dell’Europa-Park (sotto)

Partecipare è semplice non devi far altro che comunicarci la risposta giusta, indicando come oggetto «Concorso Europa-Park», insieme al tuo nome e indirizzo completo, entro la mezzanotte del 5 giugno all’indirizzo e-mail giochi@azione.ch.

Il settimanale Azione e il parco divertimenti Europa-Park mettono in palio un breve soggiorno famiglia per quattro persone del valore di 1042 Euro: due notti con colazione in un hotel quattro stelle del parco, due giorni nell’Europa-Park e un giorno nel parco acquatico Rulantica

L’Europa-Park è l’indirizzo giusto per una breve ma intensa vacanza all’insegna del puro divertimento. Nel parco acquatico Rulantica sirenette e tritoni possono tuffarsi in un mix unico di scenari da leggenda nordica e atmosfere mistiche, mentre all’Europa-Park si può fare, in un solo giorno, il giro dell’intero continente. Le diverse aree tematiche, studiate con cura fin nel più piccolo dettaglio, garantiscono divertimento per ogni età e per tutti i gusti. Dai patiti dell’azione agli amanti del passatempo tranquillo, nessuno rimane a bocca asciutta.

Alla scarica di adrenalina provvedono le 13 spettacolari montagne russe dell’Europa-Park, una più spettacolare dell’altra, e i 27 scivoli d’acqua di Rulantica, trascinanti nel vero senso della parola. I meno avventurosi, invece, hanno la scelta tra svariate saune e aree relax, possono godersi gli spettacoli unici che si tengono nel parco divertimenti e coccolare il palato con una vasta gamma di proposte gastronomiche. Nell’area tematica dedicata all’Austria, poi, l’intera famiglia ha la possibilità di concedersi una romantica gita in barca.

Termini e condizioni i vincitori saranno avvisati per iscritto. Non è prevista la corresponsione in contanti. È escluso il ricorso alle vie legali. Non si tiene alcuna corrispondenza sul concorso. I collaboratori della Federazione delle cooperative Migros sono esclusi dal concorso. Le partecipazioni multiple non sono ammesse e vengono escluse dal concorso. I premi non riscossi entro tre mesi dall’estrazione decadono senza possibilità di sostituzione.


Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 30 maggio 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

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ATTUALITÀ / RUBRICHE

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Chi frena le riforme dell’AVS? ◆

Il vocabolario della politica si arricchisce, di tanto in tanto, di nuove espressioni. Il «conflitto generazionale» è un’espressione che ha cominciato a venir impiegata da quando la popolazione ha iniziato ad invecchiare. Da allora infatti si è fatta larga l’opinione che, per il peso sempre maggiore delle classi più anziane nella popolazione, potesse nascere un conflitto per la distribuzione di risorse scarse tra le classi più giovani e, per l’appunto, quelle più anziane della popolazione. In Svizzera l’inasprirsi di questo conflitto viene descritto dal progressivo declino del valore del rapporto tra popolazione in età lavorativa e popolazione con 65 anni e più. Questo perché il finanziamento dell’assicurazione vecchiaia e superstiti e, per molto tempo, anche del secondo pilastro pensionistico, era largamente assicurato dai contributi sui salari e gli stipendi pagati da coloro che lavoravano, cioè dalle persone più

giovani. Quando, nei primi anni dopo il secondo conflitto mondiale, un po’ in tutte le nazioni dell’Europa occidentale, furono introdotti gli schemi assicurativi che garantivano a coloro che avevano lavorato tutta una vita una rendita di vecchiaia, gli esperti pensavano che, anche in futuro, il rapporto tra le classi di età della popolazione non sarebbe cambiato, vale a dire che ci sarebbero sempre state abbastanza persone in età lavorativa per finanziare le rendite di vecchiaia di chi andava in pensione. Di fatto però, il rapporto tra anziani e persone in età lavorativa ha continuato a diminuire. Per esempio in Ticino il valore di questo rapporto che nel 1980 era ancora di 4.2 persone che lavoravano per un pensionato, è sceso, nel 2020, a 2.7. Il peso dei pensionati sulle spalle di chi lavora è aumentato in proporzione e continuerà ad aumentare se non si prendono provvedimenti correttivi.

Non sorprende quindi di sentir parlare, in toni sempre più preoccupati, di conflitto generazionale. Questo anche perché, quasi sempre, le soluzioni che attualmente vengono proposte per migliorare il finanziamento delle pensioni chiedono a coloro che lavorano sacrifici maggiori, non da ultimo quello di lavorare qualche anno in più prima di andare in pensione, risparmiando invece i beneficiari delle rendite di vecchiaia. Non ci si deve quindi stupire che vengano rifiutate, una dopo l’altra, in votazioni popolari. Alt, alt: stando a quanto hanno scritto di recente nella NZZ due economisti dell’Università di Friburgo sembra che questo modo di interpretare l’opposizione popolare alle riforme dell’AVS non sia esatto. Secondo il professor Reiner Eichenberger e una delle sue dottorande, Patricia Schafer, il conflitto generazionale costituito dalla redistribuzione del reddito dai gruppi di popolazio-

ne più giovani a quelli più anziani di fatto non esisterebbe. Questo almeno per la popolazione di nazionalità svizzera. La redistribuzione del reddito si farebbe invece tra i lavoratori stranieri che non hanno genitori al beneficio della pensione in Svizzera e la popolazione anziana che riceve una rendita dall’AVS. In altre parole, stando ai due economisti friburghesi le riforme del sistema pensionistico non possono passare il capo delle votazioni popolari perché non solo sono combattute da chi è già al beneficio della pensione, ma anche dagli svizzeri che lavorano, che hanno genitori che ricevono la rendita AVS e che si sentono perciò di dover solidarizzare con loro. I lavoratori stranieri, che non hanno genitori in Svizzera, invece, pagano i contributi per l’AVS e non possono pronunciarsi su eventuali riforme del sistema pensionistico nazionale, perché non hanno il di-

ritto di voto. Stando a Eichenberger e Schafer, per questi lavoratori i contributi all’AVS devono essere considerati come un’imposta implicita sull’immigrazione. Questa «imposta» fa sì che la redistribuzione del reddito si fa, non tra i giovani e gli anziani, ma tra i lavoratori stranieri che non hanno genitori in pensione e non possono votare in Svizzera, da un lato, e il complesso dei titolari di rendite AVS e loro figli che invece possono votare, dall’altro. Così, proposte come quella di alzare l’età del pensionamento non avranno mai successo alle urne perché il gruppo di popolazione che ne potrebbe profittare, vale a dire gli stranieri che lavorano in Svizzera e non hanno genitori in pensione nel nostro paese, non hanno il diritto di voto. L’argomentazione dei due economisti di Friburgo sembra dunque suggerire che per risanare le casse dell’AVS dovremo dare il diritto di voto agli stranieri.

Affari Esteri

di Paola Peduzzi

I calcoli sbagliati di Putin ◆

A fine giugno a Madrid si riunirà la famiglia allargata della Nato: il premier spagnolo, Pedro Sánchez, ha detto che darà il benvenuto ai nuovi arrivati, la Svezia e la Finlandia. L’Alleanza atlantica, che era nata proprio come strumento militare difensivo nei confronti dell’allora Unione sovietica, ha attraversato una grande crisi di identità nell’ultimo decennio: il presidente francese, Emmanuel Macron, era andato molto oltre, sentenziandone la morte cerebrale. L’aggressione della Russia all’Ucraina ha cancellato tutto, la crisi e il coma, e l’Alleanza ha ritrovato la dimensione strategica che era alla base della sua stessa fondazione. E lo ha fatto in tempi straordinariamente ridotti se si pensa a quanto le riforme delle istituzioni internazionali sono lunghe e controverse: l’adesione formale ancora non c’è ma Regno Unito e Stati Uniti hanno già detto di essere pronti a difendere i due nuovi paesi fin da subito se dovessero essere aggrediti. I problemi di convivenza ci sono an-

cora, naturalmente e riguardano in particolare la Turchia, che vede l’allargamento della Nato come un’opportunità per far pesare il suo voto e ottenere un tornaconto (in particolare: nuove forniture militari e la possibilità di colpire i curdi), ma sono pochi in confronto ai timori di Vladimir Putin. Di tutti gli effetti non calcolati dal presidente russo in questa sua guerra il rafforzamento della Nato è forse il più spettacolare. La propaganda putiniana dice che l’aggressione all’Ucraina è stata determinata dall’accerchiamento operato dalla Nato: se si guarda la cartina geografica, si capisce che non c’era alcun accerchiamento, si trattava soltanto di retorica vittimistica per ribaltare le categorie aggressore-aggredito a vantaggio di Mosca. Eppure questa finzione ha causato il raddoppiamento dei confini che ora la Russia condivide con la Nato, l’esatto contrario di quello che voleva Putin, cioè creare territori-cuscinetto (sotto la sua influenza) tra sé e l’Occidente.

Le conseguenze dell’ingresso della Finlandia e della Svezia nella Nato sono ampie, e quando Mosca dice che non è affatto preoccupata di questo nuovo assetto, mente. Due esempi. Al momento il confine nord della Russia con la Nato, cioè con la Norvegia, è lungo 150 chilometri, ma concretamente un accesso militare via terra sarebbe possibile soltanto in un breve tratto di circa trenta chilometri ben presidiato dai battaglioni russi della divisione artica. In altre parole: la Russia respingerebbe facilmente un eventuale sconfinamento della Nato (come si sa non è nelle intenzioni dell’Alleanza intervenire direttamente contro Putin, gli sconfinamenti registrati a bizzeffe in questi anni sono sempre stati dei russi, per lo più nello spazio aereo della Nato). Con l’arrivo della Finlandia, si aggiungono 1.300 chilometri di confine, prevalentemente foreste che però corrono lungo una delle arterie strategiche per la logistica militare russa: una strada e una fer-

rovia che collegano il mare di Barents, dove ci sono basi militari rilevanti, con il sud e che con l’allargamento della Nato diventano vulnerabili. Non serve un’invasione per sabotare una strada o una ferrovia: bastano dei blitz, ma per la Russia i danni sarebbero ingenti. Un altro esempio, che riguarda il mare: al momento, stando fuori dalle acque territoriali dei paesi della Nato che si affacciano sul Mar Baltico, i sottomarini russi possono arrivare fin quasi all’Oceano Atlantico senza essere intercettati (nell’oceano ci sono i sonar americani). Con l’arrivo di Svezia e Finlandia, le possibilità di nascondersi dei sottomarini russi crollano di molto, al punto che molti si sono messi a definire il Mar Baltico «il lago della Nato». Se a questo si aggiungono l’avanzamento tecnologico degli eserciti svedesi e finlandesi e i processi di integrazione con gli standard Nato già avviati da molto tempo, diventa chiaro l’errore commesso da Putin. La minaccia pri-

ma non c’era, ora volendo c’è. Questa trasformazione non riguarda soltanto l’Alleanza atlantica, ma anche i singoli paesi. Basti guardare la Germania, che dal punto di vista diplomatico-strategico è forse il freno più rilevante all’azione occidentale sull’embargo energetico alla Russia. In questo senso, Berlino sembra il punto debole del fronte occidentale, o di certo il punto di rallentamento. Ma se si va a vedere che cosa è successo all’esercito e alle spese di difesa della Germania ecco che si trova una rivoluzione: ricordate quando Trump si infuriava con gli alleati che non pagavano la loro quota alla Nato (il 2 per cento del pil)? Oggi Berlino ha disposto questi investimenti e altri ancora, sta ristrutturando il suo esercito, sta addestrando soldati ucraini sul suo territorio, sta uscendo, dopo ottant’anni, dal suo senso di colpa storico legato al nazismo. Una rivoluzione politico-culturale enorme, con effetti duraturi – e Putin, non c’è bisogno di dirlo, non l’aveva calcolata.

Zig-Zag

di Ovidio Biffi

Sarà dura senza Leroy Jethro Gibbs ◆

Forse non sapete, o non ricordate, chi sia Leroy Jethro Gibbs. È un personaggio televisivo e per me è diventato un mito. Al punto che quando il parrucchiere che mi chiede quale taglio dei capelli facciamo, rispondo «Alla Gibbs», indicazione ormai automatica (almeno fintanto che i capelli resistono). C’è chi in televisione non perde una partita di calcio, chi segue imbesuito i giri della F1 o delle moto e chi magari riesce a non perdere nemmeno un collegamento con le fiere notturne del trash o le isole dei famosi. Un caro collega mi ha confessato che, andato anche lui in pensione, si è lasciato irretire da una passione «vergognosa» per le trasmissioni, spesso anche in ore proibite, dei tornei di snooker (specialità del biliardo). Io invece fagocito telefilm polizieschi. Potrei stilare un lungo elenco di serie tv,

partendo dai «medioevali» Maigret, Nero Wolf e Colombo della gioventù per arrivare ai più recenti CSI, Elementary, Blacklist ecc. La serie prediletta, quella che è riuscita a farmi sviluppare sintomi decisamente morbosi, è la NCIS originale, denominata «Unità anticrimine» e giunta ora alla 19.ma serie. È infatti iniziata nel 2003 come «spin-off» (nel gergo televisivo: sceneggiatura derivata da personaggi di un’altra serie) della serie «JAG Avvocati in divisa» e deve il suo successo essenzialmente a due personaggi: l’ideatore Donald Bellisario e l’attore Marc Harmon che, dall’inizio e sino alle prime puntate dell’ultima edizione, ha interpretato la parte del protagonista Leroy Jethro Gibbs, detective ex-cecchino dei Marines. Ed è di lui che voglio parlare, anche per elaborare un po’ il dispiacere di averlo visto

uscire di scena (pare per sempre, ma non c’è certezza) nel corso della quarta puntata della 19.ma serie, cioè dopo oltre 400 episodi. Lo sceneggiatore ha lasciato Gibbs in Alaska dove, al termine dell’ennesima inchiesta, si congeda dicendo di aver trovato, finalmente, un’inattesa pace. In realtà (notizie reperite sul web) pare che sia Marc Harmon ad aver raggiunto la serenità: l’attore era infatti deciso a non più far parte del cast della diciannovesima stagione, ma poi ha cambiato idea dopo aver saputo che senza il suo iconico protagonista la CBS avrebbe cancellato la serie. Di certo si sa che è stato lui a chiedere comunque una via d’uscita ed è stato accontentato: prima Leroy Jethro Gibbs viene esautorato per aver aggredito un assassino; poi seguendo le indicazioni di un serial killer da lui spedito in pri-

gione (e con la sua squadra che lo aiuta in segreto assieme a un agente dell’Fbi che diventerà poi suo successore), arriva in Alaska dove, una volta risolto il caso, decide di lasciare l’NCIS e di dedicarsi alla pesca a mosca (stranamente mi ha subito ricordato il collega che ogni notte «pesca» in tv incontri di snooker!). Chi la serenità l’ha persa, e ora fatica a ritrovarla, sono io dopo tanti anni in cui ho seguito Gibbs e un’infinita serie di suoi magnifici aiutanti quasi tutte le puntate della serie televisiva. Qualche rimpianto l’avverto ancora, non tanto vedendo lo scarso carisma del suo successore (bravo solo nel farlo rimpiangere), ma quando torno a seguire le vecchie edizioni ripresentate su canali «minori» e con successo: su Italia 1 che ripropone una serie di NCIS, di quasi 10 anni fa, un

episodio a inizio mese ha fatto registrare 1.669.000 telespettatori con uno share del 7.8%. Ma devo aggiungere che queste rivisitazioni, forse perché trama e colpevoli non sono più tra le priorità da seguire, mi consentono anche di apprezzare meglio alcune delle «finezze» che Mark Harmon ha saputo dispensare durante la sua lunga presenza tra i personaggi delle serie televisive. Ne ho scelte tre: «Ziva: “Mi chiedo come mai nel berretto c’è questo foro prodotto da una 9 millimetri”. Gibbs: “Ventilazione”». Proverbiale richiamo di Gibbs: «Regola numero sette: dare molti particolari, quando si mente». O ancora: «La sola cosa necessaria perché il male trionfi è che gli uomini buoni non facciano niente», detto da Gibbs che citava Edmund Burke dopo aver salvato il suo amico dottore patologo.


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Settimanale di informazione e cultura

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CULTURA ●

Da Cannes In concorso quest’anno anche quattro produzioni svizzere, tra queste il film di Lionel Baier

La bacchetta di Claire Gibault Per add editore è uscita l’autobiografia della prima direttrice d’orchestra di Francia

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Vedo rosso La collezione Olgiati omaggia il colore rosso con i maestri del Novecento e della contemporaneità

Pink Floyd dal vivo Una registrazione non ufficiale del 1971 restituisce un momento cruciale della loro carriera

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Gli intellettuali Hesse e Zweig amici per la pace Feuilleton

Un convegno nella Sala Boccadoro a Montagnola ne ha ricordato il sodalizio di spirito e di penna, l’attualità delle idee

Natascha Fioretti

«Guardando indietro negli anni avverto anch’io uno strano avanzare insieme in lontananza. Non è un caso che entrambi abbiamo iniziato il nostro percorso 20 anni fa, che alle domande cruciali sulla guerra abbiamo trovato risposta in Romain Rolland… un destino comune aleggia su di noi e si manifesta in certe segrete affinità che mi fanno amare in modo inaudito un’opera come Klingsor». Scrive così Stefan Zweig al suo amico Hermann Hesse il 13 dicembre del 1922. L’inizio del sodalizio fu la lettera di Hesse del 1903 in cui l’allora assistente della Libreria Reich a Basilea scrisse allo studente viennese, traduttore di poesie di Paul Verlaine inviandogli un suo volumetto di poesie e implorandolo della sua amicizia. Ascetico, schivo e riservato il primo, disinvolto e socievole il secondo, figure fondamentali della letteratura del Novecento, Hesse e Zweig sono stati al centro di un Convegno tenutosi dal 19 al 22 maggio. Germanisti e letterati di grande spessore coinvolti dagli organizzatori Regina Bucher (Fondazione Hesse di Montagnola) e Arturo Larcati (direttore del Stefan Zweig Zentrum di Salisburgo), hanno messo a fuoco il concetto di giustizia dei due scrittori (Roberto Cazzola), la natura della loro profonda amicizia (Volker Michels), l’amore per l’Italia e per il viaggio (Hermann Dorowin), la ricerca dell’identità spirituale (Karl-Josef Kuschel) e la loro idea di pacifismo (Stéphane Pesnel). Quest’ultimo intimamente legato al cosmopolitismo e all’europeismo di Zweig e di Hesse ci è sembrato quello più attuale – seppur quando si parla di Weltliteratur tutto perdura e permane. Intellettuali, espressione della borghesia colta germanofona, quando scoppia la Prima guerra mondiale Hesse e Zweig sono mossi da un forte spirito patriottico «l’evoluzione dei due è molto interessante – spiega Pesnel – Hesse vive in Svizzera da due anni ed evolve più rapidamente di Zweig. Mosso da spirito di lealtà verso il suo Paese come tanti altri intellettuali vuole arruolarsi; si reca al Consolato a Berna ma lo respingono per la sua miopia. Finisce per dirigere un’organizzazione per i prigionieri di guerra tedeschi in Francia e Inghilterra per i quali prepara e invia dei pacchi di libri. In questo periodo comprende l’importante ruolo della letteratura e si allontana dal sentimento patriottico della prima ora. In Zweig invece l’idea pacifista matura più lentamente. Quando scoppia il conflitto si trova a Ostende, torna subito in Austria e scrive una lettera aperta in cui si distanzia da scrittori e colleghi inglesi e francesi (Lettera agli amici in terra straniera). Interrompe ogni dialogo con loro; per lui, dice, è

A sinistra Hesse, a destra Zweig ritratti sulla copertina del libro di Volker Michels dal titolo Die Tat beginnt immer mit dem Traum. Sotto la copertina della Novella degli scacchi, l’opera in cui Zweig parla apertamente della distruzione morale dell’Europa da parte di Hitler.

arrivato il momento del silenzio. Evidentemente non è ancora l’umanista che sarà dopo la Prima guerra mondiale e negli anni 30 quando scriverà le biografie su Erasmo da Rotterdam e Castellio». Zweig scopre il suo spirito pacifista nel 1915 e questo – come ci spiega il professore della Sorbona – per tre motivi. «Romain Rolland critica subito il suo testo, gli dice che deve cambiare atteggiamento e lo inizia al pensiero pacifista. Pensiero che Zweig approfondisce attraverso la lettura dei testi di Bertha von Suttner, premio Nobel per la pace, in particolare rimane affascinato dalla loro forza espressiva. Decisiva, infine, è l’esperienza in Galizia, nei dintorni di Leopoli, quel

territorio che Joseph Roth definì “il grande campo di battaglia” dell’Europa». Inviato dall’archivio di guerra di Vienna per il quale scrive testi di propaganda, Zweig si imbatte per la prima volta in soldati feriti e mutilati, sente l’odore del sangue e dei farmaci, il puzzo dei cadaveri. Vede con i propri occhi il paesaggio distrutto e ne rimane sconvolto. Legge Über dem Schlachtgetümmel (Al di sopra della mischia) di Romain Rolland, una raccolta di articoli in cui il premio Nobel per la letteratura si appella agli artisti, agli intellettuali e agli scrittori perché siano al di sopra della guerra e non si lascino contaminare dall’ideologia nazionalista e sciovinista. Li esorta a mantenere uno sguardo sempre alto, a contribuire allo sviluppo del senso dell’umanità. «Rileggendo il carteggio tra Hesse e Zweig si evince come il ruolo di Rolland sia stato fondamentale nella formazione pacifista dei due» dice Pesnel. Ne è un esempio la lettera di Zweig a Hesse del 9 novembre 1915 «Carissimo Signor Hesse, (…) sento il bisogno di esprimerle la mia riconoscenza. Sin dai primi giorni della guerra sono rimasto colpito dal suo atteggiamento umano e poetico, ogni sua parola, nel mezzo di tante altre che mi hanno ferito, mi ha profondamente commosso. Poi mi ha raggiunto la lettera del mio amico Rolland, con il quale anche lei è diventato intimo, e di nuovo ho avuto un sussulto di felicità».

Nel 1922 quando pubblica Siddharta, Hesse diviene il propagatore di una nuova concezione pacifista e individualista. Durante il Secondo conflitto mondiale resterà a Montagnola, Zweig invece nel 34 lascia la sua favolosa residenza salisburghese sul Kapuzinerberg e va in esilio in Inghilterra dove resterà fino al 1940. In seguito, con la seconda moglie Lotte Altman, andrà a vivere prima a New York e poi a Petrópolis in Brasile. A questo punto Zweig è un Weltautor di successo sempre in movimento tra conferenze e apparizioni pubbliche, lontano dall’Europa eppure attento al suo destino, a quello di famigliari e amici. Come racconta il volume uscito per Castelvecchi che raccoglie il carteggio inedito dell’ultimo periodo (dal 7 luglio del 40 al 21 febbraio del 42) di Zweig e Lotte con gli amici amici Hannah e Manfred, lo scrittore cosmopolita che credeva nella riunificazione intellettuale dell’Europa fu molto generoso nel sostenere le comunità ebraiche e nell’aiutare scrittori in esilio in lotta per la loro sopravvivenza. Gli furono però mosse diverse critiche. Hannah Arendt lo definì «un letterato ebreo borghese che non si era mai occupato degli affari della sua gente». Altri dissero che non sfruttava abbastanza la sua notorietà per promuovere la causa antinazista, altri ancora definirono ingenuo il suo pacifismo. Le sue origini borghesi e la sua condizione

di esiliato benestante con passaporto britannico forse non gli permettevano di comprendere fino in fondo quella precarietà economica ed esistenziale che attanagliava autori come Roth e Benjamin. A questo proposito Stéphane Pesnel chiama in causa «la fiducia di Zweig nel potere della letteratura, la sua convinzione ereditata dall’Illuminismo di poter educare l’uomo attraverso la letteratura. Si pensi solo alle grandi biografie dedicate agli umanisti Erasmo da Rotterdam e Sebastian Castellio. Nella prima Zweig critica il Terzo Reich, nella seconda attacca le dittature fasciste e nazionalsocialiste. Queste opere sono per lui lo specchio in cui riflettere e mettere a nudo la propria epoca. Anche il suo amico Joseph Roth lo critica, gli rimprovera di essere un irenista, di pensare che si debba mantenere la pace a ogni costo, di essere troppo passivo». Di certo anche l’immagine idilliaca del Brasile dipinto nelle sue lettere come «meraviglioso dal mattino alla sera» denota un certo distacco, soprattutto politico e sociale, dalla realtà. Ma nutriva una fiducia incondizionata nella letteratura e nell’umanità: «Nessuna idea è una verità intera, ma ogni essere umano è un’intera verità» scrisse durante la Prima guerra mondiale. Credeva fortemente nell’amicizia, quella che Rolland definì «la sua religione» vedendovi quello spirito di mediazione sovranazionale e costruttivo comune a tutti gli scritti di Zweig. Cosmopolita, esiliato senza patria, viaggiatore instancabile (Hesse lo chiamava il «salisburghese volante»), morto suicida nel 42, Zweig sognava un’Europa unita, libera e senza passaporto. Le cose sono andate un po’ diversamente. «Prima della Grande Guerra i grandi borghesi come Zweig o Rilke erano abituati a viaggiare senza passaporto. C’è stata questa speranza con Schengen ma ora gli scenari sono nuovamente cambiati». Zweig diceva che gli scrittori avrebbero documentato quanto accaduto, abdicato ai romanzi per raccontare la realtà della guerra come un qualcosa che non si sarebbe mai più ripetuto: «lo stesso discorso si era fatto negli anni 20, tante furono le testimonianze, i romanzi pubblicati e invece è successo quello che successo. C’è stato anche il periodo in cui abbiamo sognato la Società delle nazioni. Il pacifismo di Zweig – conclude Pesnel – non è un pacifismo teorico, è un pacifismo emozionale e spirituale». Bibliografia Stefan e Lotte Zweig. La vita stessa è già tanto in questi giorni. Ultime lettere dall’esilio americano, Castelvecchi Editore, Roma, 2022


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CULTURA

Il serial-killer di Ali Abbasi ha scosso la Croisette Cannes / 1

Holy Spider un film da Palma d’oro

Nicola Falcinella

Cannes / 2

Tre in particolare ci sono piaciute

Nicola Mazzi

Il regista di Holy Spider Ali Abbasi

L’unica volta che un film iraniano ha vinto la Palma d’oro a Cannes è stato nel 1997 con Il sapore della ciliegia di Abbas Kiarostami. Questo potrebbe essere l’anno del bis per il cinema persiano che ha presentato le pellicole più interessanti e convincenti tra le 21 in lizza. Holy Spider di Ali Abbasi, già noto per Border – Creature di confine prodotto in Svezia è stato senza dubbio il più convincente. È la storia vera di un assassino seriale di prostitute nella città santa di Mashhad nel 2001. Si prende a cuore il caso la giornalista Arezoo che fa di tutto per incastrare il colpevole, nonostante il pregiudizio e il maschilismo che condizionano il suo lavoro. Abbasi svela presto il colpevole, il suo intento va oltre l’indagine. C’è la follia criminale di un veterano di guerra contro l’Iraq negli anni ’80, tanto ossessionato da lanciare una jihad contro le «donne corrotte» e «pulire» la città. Il film parte con un prologo durissimo, l’omicidio del-

Quattro produzioni svizzere al Festival

la nona vittima della serie, si chiude in maniera sorprendente e lascia un’ombra minacciosa. Abbasi non si tira indietro nel mostrare la violenza (l’impiccagione è simmetrica ai singoli omicidi, quasi a metterli sullo stesso livello) e inquieta nel descrivere moglie e figlio dell’assassino. Altra dura critica alla società iraniana, rigida, classista e maschilista, viene da Leila’s Brothers di Saeed Roustaee. Un dramma familiare molto lungo e molto parlato, elaborato nelle sfumature dei dialoghi che fanno emergere sogni e rancori. Alla morte del cugino, l’anziano Esmail vuole diventare patriarca della sua famiglia. È il suo ultimo sogno dopo una vita di umiliazioni che ha spesso cercato di nascondere. Per essere designato deve però promettere di regalare 40 monete d’oro a un parente che si sposa. I suoi cinque figli, che sono tutti disoccupati e vivono con i genitori, non sono d’accordo, giacché vorrebbero utilizzare la somma per comprare un negozio. Un film

sulla ricerca di riscatto e su condizioni sociali difficilissime, ma anche con momenti di tenerezza, come la fotografia di famiglia prima del matrimonio. A caratterizzare molti dei film in competizione sono stati il ridotto utilizzo di scene di massa con grande uso di interni o di ambienti molto aperti (probabilmente per praticità girando in condizioni di pandemia) e le trame incentrate su pochi personaggi. L’unico in cui si parla di Covid è Stars at Noon di Claire Denis, un rarefatto thriller politico dalle atmosfere esotiche girato in Nicaragua. È la storia della giovane giornalista americana Trish (la bellissima Margaret Qualley) che, in cerca di notizie, si mette nei guai. La Denis sa creare tensione e belle immagini, ma forse non ha moltissimo da dire, se non la pervasiva presenza statunitense in America Centrale. Non deludono i fratelli Dardenne, già due Palme d’oro all’attivo con Tori et Lokita. Siamo a Liegi e Lokita è una giovane proveniente dal Benin che viene interrogata dai servizi sociali, che vogliono conoscere i dettagli su come avrebbe ritrovato il fratello minore Tori in un orfanotrofio. I due sono ospiti di un centro di accoglienza, il piccolo ha un permesso di soggiorno perché perseguitato come «figlio di una strega», l’altra aspetta i documenti. Nel frattempo eseguono consegne per un ristorante e recapitano droga per conto del cuoco. Indebitata con i passatori che li hanno fatti arrivare in Belgio, la ragazza accetta un compito delicato. I Dardenne confermano il loro stile essenziale, non mollano un istante i loro protagonisti, mostrano una storia attualissima, seguendo i fatti e proponendo dilemmi, come sempre senza fare prediche ma con una morale solida e sempre dalla parte di chi ha meno diritti.

I maligni potranno dire che da diversi anni i film svizzeri non accedono al concorso principale sulla Croisette. Vero, salvo l’ultima incursione di Godard nel 2018, di film svizzeri è da tempo che non se ne vedono nella sezione principale. Altri potranno ribattere che la presenza del cinema svizzero (o di coproduzioni) nelle sezioni parallele è sempre costante e importante. Lo scorso anno si è distinto Olga di Elie Grappe, ambientato durante la rivoluzione di Piazza Maidan del 2014, che era poi stato scelto per rappresentare la Svizzera agli Oscar. In questa 75esima edizione sono ben quattro le produzioni che arrivano dal nostro Paese. A cominciare da La derive des continents (au sud) di Lionel Baier (nella Quinzaine des realisateurs, già conosciuto da noi per essersi fatto notare a Locarno nel 2008 con Un autre homme. Baier, questa volta, rivolge lo sguardo a sud appunto e segue le vicende di Nathalie, in missione per l’Ue in Sicilia, incaricata di organizzare l’imminente visita di Macron e Merkel in un campo di migranti. Malgrado il tema trattato il tono è lieve e leggero; infatti, il regista losannese non drammatizza mai, anzi non perde occasione per inserire qualche tocco

El Agua, di Elena López Riera.

umoristico. Peccato per qualche piccolo ed evitabile luogo comune (la solita Bella Ciao e l’amore degli italiani per il cibo), molto riusciti alcuni tocchi poetici e l’intuizione di girare una scena meravigliosa nel monumento di Alberto Burri a Gibellina. Un film degno della sezione in cui è inserito che segna un ulteriore passo avanti nella crescita di Baier. Anche una delle sorprese internazionali arriva dalla Svizzera ed è 99 Moons di Jan Gassmann, inserito nella sezione Acid. Ha fatto molto parlare i media di tutto il mondo per l’alto tasso di scene erotiche, anche piuttosto crude. Racconta la storia di Bigna, una scienziata di 28 anni che ha una vita sessuale molto attiva e con desideri particolari, fino a quando si innamora di Frank. Ma la vera forza sta nella bravura del regista capace di trascinarti dentro l’essenza dei personaggi mostrandoli nella loro vera natura, con i lati belli e quelli più oscuri. Di tutt’altra pasta è fatto El Agua di Elena López Riera – una coproduzione svizzera presentata sempre alla Quinzaine des realisateurs. Molto apprezzato il lavoro autobiografico della regista spagnola che da un paio di anni vive a Ginevra. L’opera prima di López Riera convince per il sapiente mescolamento di generi diversi (il documentario, il filmato storico, la fiction, il mistery con un tocco di leggenda). Ambientato a Orihuela, una piccola città spagnola fuori Madrid, il film segue la diciassettenne Ana, che tenta di emanciparsi da una leggenda, nella quale si narra che le donne del Paese spariscono improvvisamente a causa delle inondazioni. Una leggenda che la stessa regista ha ancora dentro di sé: «È vero – ci ha confessato – che in me c’è sempre stato e ancora sopravvive un sentimento d’inquietudine verso l’acqua: il film è il mio tentativo di superare questa paura, non so se ci sia riuscita completamente». Annuncio pubblicitario

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Storia della prima direttrice d’orchestra di Francia Musica

A dieci anni dall’uscita in francese, l’editore add pubblica il resoconto intimo e onesto di Claire Gibault

Davide Fersini

Claire Gibault non ama parlare. O forse non ama parlare del suo libro. Risponde ad ogni domanda in maniera concisa, asciutta, lapidaria. Il suo rapporto con la parola, del resto, si è interrotto molti anni or sono, quando il padre le chiese di mantenere un piccolo segreto. Era il 1949. Mentre rientravano da una festa di piazza, incontrarono una signora con cui lui scambiò due chiacchiere; dopo averla salutata guardò la figlia negli occhi e sussurrò: «Non dirlo alla mamma!». Per un lungo periodo, quindi, la piccola Claire smise di comunicare del tutto e iniziò ad esprimersi solo attraverso la musica. Si apre così Direttrice d’orchestra, il libro confessione con cui la Maestra prova a liberarsi di tutti i fantasmi del suo passato. Un racconto duro, scarno, roccioso in cui al trauma iniziale si aggiungono via via le umiliazioni, le sofferenze e le fatiche di una scelta professionale all’epoca inaudita. Questa, infatti, non è la storia edificante e felice del superamento di quel trauma, di come gradualmente Claire abbia ricominciato a parlare e di come si sia infine trasformata in una donna realizzata e consapevole. Piuttosto sembra una dolorosa riflessione sul significato reale della parola «carriera». Un romanzo di de-formazione in cui sopravvivere vuol dire sacrificare, giorno dopo giorno, le migliori parti di sé. Ed ecco, allora, la signorina Gibault salire con entusiasmo sul podio di un’orchestra studentesca e scoprire, con orrore, che tutti i suoi spietati compagni del corso di direzione si sono radunati nella prima fila. «Da quel momento non avrei mai più messo una gonna in vita mia!» O ancora, eccola, unica donna ai prestigiosi corsi di perfezionamento di Franco Ferrara: «Dopo dieci minuti di direzione, la

Primo piano di Claire Gibault, classe 1945, nel 1969 è diventata la prima direttrice d’orchestra di Francia. (© Masha Mosconi)

prima cosa che mi aveva detto il maestro era stata: “Signorina, apra meno le gambe quando dirige!”». E ai pantaloni si aggiunse da allora una lunga giacca nera per obliterare, se possibile, ogni aspetto esteriore della sua femminilità e conformarsi all’unico mo-

dello esistente, quello maschile: «Ho rifiutato di essere amabile, ho cancellato ogni pensiero di affascinare». Gradualmente la musica passa in secondo piano, perché nel mondo dei direttori uomini conta solo il grande repertorio, cui si associano fama, po-

tere e soldi. Di conseguenza a Mademoiselle Gibault vengono offerti i lavori di corvée – «la cucina» – come la musica contemporanea, l’operetta e i progetti per le scuole. Ma lei non demorde, anzi, rilancia! A Lione fonda un Atelier per giovani cantanti lirici e diventa l’assistente di John Eliott Gardiner, al quale oggi, tuttavia, dedica pensieri al vetriolo: «Aveva un ego ingombrante. Immaginava che ci fosse una congiura contro di lui per privarlo di chissà quale potere. Doveva essere l’unica star; non sopportava che nel cast ci fossero cantanti più famosi di lui. Era un uomo insicuro». Poi, però, nel 1983, per puro caso – «mais le cas, c’est Dieu» – incontra Claudio Abbado, direttore «gentile e umile», che le chiede di assisterlo nella preparazione della celebre produzione del Pelleas et Melisande di Debussy alla Scala. Il lavoro serrato e fecondo di quei mesi ha un effetto catartico su Madame Gibault; la aiuta a riconciliarsi con la musica e in parte anche con la propria umanità. «Non volevo più essere condannata al successo per esistere. In modo ancora confuso, sentivo di voler cominciare un’altra vita. Il successo nel dirigere un’orchestra, come in molti altri lavori ha un prezzo altissimo. Bisogna rimanere sulla breccia, sempre al massimo della forma e performanti, passare in continuazione sui media, coltivare in qualche modo la popolarità, pur non essendone ossessionati, perché è indispensabile per la carriera». Tutto questo non fa più per lei. Come al termine di un riuscito percorso psicoanalitico, l’armatura si sgretola e Claire torna progressivamente a dialogare coi sembianti rimossi del suo desiderio. Adotta due bambini – «I miei figli mi hanno salvato tan-

to quanto io ho salvato loro» – si converte alla religione ortodossa – «una strada diversa dall’arte per avvicinarsi all’assoluto» – ed entra con successo in politica, paladina di una missione scomoda – «per tutti i miei cinque anni al parlamento europeo, mi sono occupata dello statuto sociale degli artisti». Quando finalmente ritorna alla musica, lo fa in maniera determinata. Nel 2011 fonda la Paris Mozart Orchestra e si impegna a rispettare i principi di una Carta dei musicisti modellata sul concetto dell’autorità condivisa. «Non avevo intenzione di riprodurre le discriminazioni che avevo incontrato durante la mia carriera di direttrice e volevo ancora una volta esprimere tutta la mia passione per la musica». Per dieci anni costruisce programmi musicali incentrati sull’impegno sociale, in cui il successo, seppur enorme, viene «continuamente subordinato al confronto con la povertà, la miseria, la solitudine, la sofferenza e la paura». Ma un tarlo continua a tormentare Claire Gibault, i numeri: «Nel 2020 esistevano nel mondo 778 orchestre sinfoniche permanenti, di cui solo 46 dirette da una donna, ossia il 5,9 %. Occorreva porre rimedio. Urgentemente!» Insieme ad un tenace e combattivo gruppo di amiche, dà vita a La maestra, laboratorio di specializzazione indirizzato esclusivamente a giovani direttrici d’orchestra, cui si associa un concorso che l’anno prossimo giungerà alla terza edizione. «La dittatura è finita. Il frac è fuori moda. E la bacchetta? La discussione è ancora aperta». Bibliografia Claire Gibault, Direttrice d’orchestra. La mia musica, la mia vita, add editore, Torino, 2022

Sol Gabetta e l’OSI al LAC per il Festival Presenza Musica

La violoncellista argentina sarà protagonista venerdì e domenica di due importanti concerti sinfonici

Enrico Parola

«Non ballo il tango, con la famiglia abbiamo lasciato l’Argentina quando avevo 12 anni e quindi non ho assorbito molto le tradizioni del mio Paese; e poi sono timida: se proprio dovessi ballare, non lo farei con un uomo, ma col mio violoncello». Col suo prezioso Guadagnini del 1759 ha danzato sui palcoscenici più prestigiosi, solista con i Berliner Philharmoniker e la London Symphony, e nei prossimi giorni Sol Gabetta sarà protagonista al LAC di Presenza, una sorta di festival di Pentecoste: due serate con l’Orchestra della Svizzera Italiana diretta da Markus Poschner, venerdì e domenica, sabato doppio appuntamento cameristico. «Più che un festival vorrei fosse visto come una carte blanche che mi viene concessa e che ho concepito sia con mio marito sia con Poschner: un musicista che conosco bene – ricordo uno splendido Concerto di Dvorak con lui a Brema – e con cui è facile lavorare perché ha una mente molto aperta; quando mi proposero questo progetto triennale – avrebbe dovuto partire nel 2020, ma la pandemia ha ritardato la prima edizione – posi come condizione che non fossi sola a pensarlo, ma che si potesse instaurare un confronto costruttivo con Poschner». Per la violoncellista

Sol Gabetta e Markus Poschner. (© OSI L. Sangiorgi)

argentina emigrata prima in Spagna e poi a Basilea, dove ha studiato ed è cresciuta non solo come musicista («immergendomi in un mondo nuovo: a pochissimi chilometri c’erano i confini con Francia e Germania, lingue e mondi diversi, in Argentina potevo percorrere 1200 chilometri rimanendo nello stesso ambiente e sentendo sempre parlare spagnolo»), un aspetto fondamentale è «riflettere sulla formula del concerto, che negli ultimi settant’anni si è mantenuta praticamente invariata, con il dittico

concerto solistico – sinfonia al massimo preceduto da un’ouverture, e dove i programmi sono prestabiliti dal direttore o dal sovrintendente. Quando faccio un bilancio dei concerti cui partecipo, constato che la quasi totalità segue questo schema; tutto mi sembra terribilmente fisso, rigido, non si possono cambiare neppure le luci della sala o le posizioni delle sedie. Durante la pandemia ho seguito alcuni concerti in streaming, con le sale vuote, e ho notato che i musicisti, tra un brano e l’altro, non sape-

vano che cosa fare. Penso che il rituale del concerto vada ripensato in tanti aspetti: come si entra ed esce, come si possa vivere l’intervallo, anche curando particolari che qualcuno giudicherà accessori come la qualità del bar». Sicuramente non ordinari sono i programmi che Gabetta ha pensato assieme a Poschner e di cui è protagonista assoluta: venerdì serata tutta francese con l’ouverture Le Roi d’Ys e il Concerto di Lalo accostati alla seconda suite dalla Carmen di Bizet e al secondo Concerto di Saint-Saëns, che Gabetta affronterà assieme al Primo domenica, intervallati dalle ouverture La tempesta e Romeo e Giulietta ispirate a Ciajkovskij da Shakespeare, col gran finale del Guglielmo Tell rossiniano; nel mezzo, sabato, rileggerà il repertorio cameristico di Rossini. Con alcuni professori della Osi. «Il Primo di Saint-Saëns tenne a battesimo il mio debutto con orchestra: era la Kammerorchester di Basilea, dove studiavo, lo preparai per quasi un anno e lo conoscevo tutto a memoria, potevo cantare ogni parte degli altri strumenti. Mi trovai a mio agio perché conoscevo benissimo l’orchestra: vivendo a Basilea, ero andata a decine di suoi concerti. E continuo a farlo: abbiamo inciso insieme il Concerto di

Schumann». Su quelli di Saint-Saëns, Gabetta sottolinea come «siano da alcuni ritenuti di secondo livello rispetto a quelli più eseguiti, come Dvorak, Elgar, Haydn; invece sono splendidi, ricchi di melodie luminose e ariose; lo stesso si può dire di Lalo, caratterizzato da un linguaggio appassionato, originale e immediatamente riconoscibile. Anche perché il nostro repertorio non è vasto come quello di pianisti e violinisti, e non si può non considerare questi concerti dei capitoli fondamentali per la storia e la letteratura del violoncello».

Con «Azione» al LAC «Azione» mette in palio alcuni biglietti per il concerto dell’Orchestra della Svizzera italiana diretta da Markus Poschner con la grande violoncellista Sol Gabetta in programma domenica 5 giugno alle ore 11.00. Per partecipare al concorso inviare una mail con oggetto «Sol Gabetta» all’indirizzo giochi@azione.ch con i propri dati (nome, cognome, indirizzo, numero di telefono) entro le 24 di mercoledì 1 giugno 2022.


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Nel segno del rosso Mostre

La Collezione Olgiati di Lugano omaggia il colore dalla più grande potenza espressiva

Alessia Brughera

Rosso: il colore del sangue, del fuoco, della passione, della collera, del potere, della sofferenza. Ci sono artisti che lo hanno prescelto per le sue molteplici valenze simboliche, altri che ne hanno sfruttato le qualità estetiche dall’energia seducente. Al tema del rosso è dedicata la rassegna organizzata presso la Collezione Giancarlo e Danna Olgiati di Lugano, un vero e proprio viaggio nella varietà di significati e di modalità espressive di questo colore all’interno della ricerca di maestri del Novecento e della contemporaneità. «Abbiamo radunato circa quaranta lavori appartenenti alla nostra raccolta, alcuni dei quali sono presentati per la prima volta al pubblico» ci spiega Danna Olgiati, accogliendoci nello spazio espositivo. «Il percorso coniuga due intenzioni allestitive, da una parte quella di privilegiare un rapporto tra le opere che si sviluppa per corrispondenze visive e associazioni semantiche, dall’altra quella di raggruppare i lavori in base ai movimenti a cui fanno riferimento». La mostra diventa così un’occasione per approfondire la conoscenza delle correnti e degli artisti che hanno suscitato maggiormente l’interesse dei due collezionisti. «Abbiamo raccolto testimonianze del contemporaneo riallacciandoci costantemente alle avanguardie storiche» ci racconta la signora Olgiati, facendoci strada per illustrarci di persona le opere. «Quello che mio marito e io volevamo fare era differenziarci dalle altre collezioni d’arte elvetiche. Abbiamo quindi puntato molto sull’arte italiana e del sud delle Alpi». Non ci stupiamo allora che all’inizio dell’itinerario espositivo la potenza del rosso venga sprigionata dalle opere di due protagonisti della Transavanguardia, Francesco Clemente e Mimmo Paladino, per i quali questo colore diviene depositario di riferimenti iconografici e di emozioni personali. «Del lavoro di Clemente qui presentato ci hanno colpito le geometrie create dai corpi nudi. Si trat-

è un artista molto presente nella nostra collezione», ci racconta. «È uno di quegli autori che definisco autobiografici perché hanno saputo far confluire la loro storia nelle proprie creazioni. L’oro della sua tela forata incorniciata con legno laccato di rosso instaura un fecondo dialogo con il lavoro di Merz, un igloo realizzato in Giappone usando il rame, ossia il «rosso» del metallo».

Fortunato Depero, News Auto Atlas – progetto per copertina, 1929. Collage di carte colorate (© 2022 ProLitteris, Zürich)

«Abbiamo raccolto testimonianze del contemporaneo riallacciandoci alle avanguardie storiche»

ta di una tela densa di richiami autobiografici e di suggestioni legate alla cultura orientale. L’opera è posta in dialogo con un quadro di Paladino, un omaggio a Matisse dal cui sfondo rosso intenso emerge un ricco repertorio di elementi desunti dalla tradizione mediterranea». Poco oltre la signora Olgiati ci mostra alcuni lavori accostati seguendo un’affinità tematica che indaga il rosso in rapporto al mondo dell’automobile, metafora di dinamismo e velocità. Ecco allora, tra gli altri, il progetto del 1929 di Fortunato Depero per la copertina dell’atlante per automobilisti, un pezzo significativo della collezione poiché la galleria d’arte milanese di cui era titolare Danna Olgiati era conosciuta per le sue ricerche sul Futurismo. E poi Salvatore Scarpitta, con una composizione realizzata con le fasce di stoffa dei motori delle macchina da cor-

sa, Michelangelo Pistoletto, con uno dei suoi celebri quadri specchianti, acquisto recente degli Olgiati, e Alighiero Boetti, con un Parallelepipedo luminoso per cui è stata usata la vernice industriale rossa della Fiat. «In questa sezione», continua a farci da guida la signora Olgiati, «abbiamo esposto anche un’opera di Jimmie Durham, l’artista statunitense da poco scomparso che fa parte di una serie per la Biennale di Venezia del 2019, anno in cui è stato insignito del Leone d’Oro alla carriera. In questa scultura, componenti di automobili si mescolano a ossa animali, creando un contrasto visivo e concettuale che porta a riflettere sulla società consumistica». Mentre osserviamo le opere di uno dei movimenti più rappresentativi della collezione, il Nouveau Réalisme, troviamo particolarmente interessante il lavoro di Arman, artista

che Giancarlo Olgiati aveva conosciuto in gioventù a Düsseldorf e che è stato uno dei suoi più cari amici: nel suo Colère de violon, datato 1970, il rosso impetuoso dello sfondo accoglie un violino frantumato, diventando simbolo di una volontà distruttiva che porta però con sé il desiderio di una nuova ricostruzione. Proseguendo, scopriamo con piacere un suggestivo angolo del percorso che raduna tre opere di Anish Kapoor, artista anglo-indiano per cui il rosso è una vera e propria ossessione, emblema, nel suo universo creativo, della nascita e della morte, delle viscere e delle emozioni più intense. La signora Olgiati ci conduce poi in una delle sale più riuscite della rassegna, dove un Teatrino di Lucio Fontana, maestro dello Spazialismo, e un’opera di Mario Merz, esponente dell’Arte Povera, creano un poetico gioco di assonanze visive. «Fontana

Mentre seguiamo la collezionista, davanti a noi sfilano le opere di Giulio Paolini, Tano Festa e Mario Schifano, quest’ultimo collocato con un paesaggio dei primi anni Settanta accanto al dipinto Aurora boreale del 1938 di Luigi Russolo, a spartire con esso la medesima visione di un cielo infuocato di rosso. Giungiamo così all’ultima sezione della mostra, dove risalta il rosso utilizzato dagli artisti della stretta contemporaneità, allusivo della condizione di oppressione dell’uomo e della sua fragilità. Ne sono un esempio le opere di Kelley Walker e di Wade Guyton, protagonisti della scena New Pop americana, o, ancora, il lavoro della palestinese Mona Hatoum, piccole sculture in vetro di Murano dalla forma di gocce di sangue che si trasformano in corone. Come ci spiega la signora Olgiati, partendo dalla vicenda personale di esiliata dell’artista, l’opera si fa espressione della violenza della guerra. Con il colore rosso a evocare scenari oggi più che mai attuali. Dove e quando Vedo Rosso. Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, Lugano.Fino al 12 giugno 2022.Orari: da venerdì a domenica dalle 11.00 alle 18.00. www.collezioneolgiati.ch Annuncio pubblicitario

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Ritornano i Pink Floyd dal vivo versione 1971

Anche i dottorandi vanno in scena

Benedicta Froehlich

Giorgio Thoeni

Sarà anche vero che, nei cosiddetti «magici anni 70», il sud dell’Europa continentale – nello specifico, l’Italia – poteva forse apparire artisticamente meno all’avanguardia rispetto a Paesi come il Regno Unito e gli USA, dove in quel periodo la musica pop-rock era al suo massimo picco di eccellenza, sperimentazione e genialità; eppure, nonostante questo, il pubblico italofono è sempre stato molto reattivo e sensibile nei confronti delle novità che arrivavano dal mondo anglofono – tanto che, a cavallo tra gli anni 60 e 70, legioni dei gruppi musicali più in voga toccarono la penisola nell’arco delle loro tournée internazionali, sebbene si sia oggi persa traccia di molte di quelle esibizioni. È anche per questo che l’uscita di quest’album dal vivo dei Pink Floyd è particolarmente significativa come testimonianza di un momento per molti versi unico nella carriera della band, senz’altro considerabile come una delle più importanti e influenti nella storia della musica leggera; e questo fa sì che sia possibile passare sopra al fatto che non si tratti di un album ufficiale, e che il gruppo non abbia quindi avuto alcun ruolo nella pubblicazione (inevitabilmente sottotono) di questo CD, dato alle stampe dall’etichetta Audio Vaults. In effetti, The Return of The Sun – Live in Italy 1971 è un classico esempio di ciò che in gergo si definisce bootleg, ovvero una registrazione «clandestina», di solito realizzata artigianalmente dal pubblico, e per questo dalla qualità sonora spesso non eccelsa (come, infatti, avviene in questo caso). Tuttavia, documenta una serata quantomeno speciale: quella dello show tenutosi il 19 giugno di quell’anno a Brescia, all’interno del palazzetto allora noto come Esposizione Industriale Bresciana; ed è nientemeno che un doppio album, la cui tracklist suona assolutamente succosa per qualsiasi vero fan della formazione. Difatti, questo show si concentra quasi esclusivamente su brani del periodo per certi versi più sperimentale e avanguardistico della band – quando, dopo l’uscita dal gruppo del geniale ma tormentato Syd Barrett, il timone creativo venne gradualmente impugnato dalla coppia composta da Roger Wa-

Nella nostra regione, avere una sede fuori mano rispetto a centri più blasonati e facilmente raggiungibili può davvero significare molto quando si vuol dare rilevanza a certi eventi che hanno un carattere inedito. Soprattutto quando si tratta di un’università dedicata ad artisti che si confrontano con un ciclo di formazione teatrale professionale. Alludiamo al physical theater, in altre parole a quel genere di performance che privilegia il movimento come vettore della comunicazione teatrale che, per l’area italofona, ha la sua capitale a Verscio.

Musica ◆ Una registrazione non ufficiale restituisce un’istantanea di un momento cruciale nella carriera della rock band britannica

Da sinistra Richard Wright, David Gilmour, Nick Mason. (Keystone)

ters e David Gilmour, i quali avrebbero presto abbandonato gli accenti da pop psichedelico dei primi due dischi a firma Pink Floyd per prendere una direzione in seguito destinata a essere etichettata come puro «art rock», esemplificata da indimenticabili concept album, talmente avanguardistici da cambiare per sempre la storia della musica popolare. E se il culmine assoluto (almeno dal punto di vista della popolarità internazionale) sarebbe giunto con il celeberrimo The Dark Side of the Moon (1973), già i precedenti Ummagumma (1969) – e, soprattutto, Atom Heart Mother (1970), vero punto di svolta stilistica della band – avrebbero, per così dire, «mostrato la strada» a legioni di contemporanei e di successori, ben oltre i confini europei. In questo set dal vivo, la band si concentra quindi su brani simbolici di tale particolare corrente stilistica personale, abbracciata tra la fine della propria prima fase creativa (’67-’69) e l’inizio della seconda, nel ’70; il che fa del doppio album un’istantanea perfetta di un momento di svolta quantomeno seminale, in cui alla capacità dei Pink Floyd di attagliarsi a un genere relativamente nuovo si univa la palese volontà, da parte dei loro membri, di prepararsi a stravolgerne i dettami, così da giungere a vette artistiche ben più alte di quelle toccate dai propri predecessori – riuscendo inoltre a portare un genere per certi versi «di nicchia» in cima alle classifiche mondiali.

Ecco quindi che la tracklist di The Return of the Sun vede pezzi dal minutaggio insolitamente lungo, quasi esclusivamente strumentali (sebbene qua e là, come ad esempio nel maestoso Set the Controls for the Heart of the Sun, ci sia la concessione ai tipici, ossessivi e ipnotici vocals del tempo); e uno dei pezzi forti è senz’altro costituito dall’eccelso The Return of the Son of Nothing, una sorta di prima versione di Echoes la cui magnificenza si esprime in un tripudio di sonorità via via più estreme e quasi dodecafoniche. Di fatto, l’intero set bresciano è condotto in modo assolutamente magistrale, a partire dalla solennità della quale ogni brano è ammantato, fino all’impeccabile esecuzione di pezzi che quasi nessuna giovane band attuale sarebbe oggi in grado di riprodurre dal vivo a causa della complessità tecnica e degli incredibili arabeschi strumentali – basti pensare a un capolavoro assoluto come l’onirico A Saucerful of Secrets, pezzo che si estende per oltre trenta minuti e che, secondo molti, rappresenta la prima, esplicita sortita della band nel genere «progressive». E sebbene, come logico, questo doppio CD non sia facilmente reperibile quanto un album ufficiale dei Pink Floyd, una cosa è certa: per chi porta tuttora nel cuore la magnifica formazione di allora, qui immortalata in uno dei suoi maggiori momenti di gloria, questo è senz’altro un acquisto imperdibile.

Spettacoli ◆ All’Accademia Dimitri si è svolta la prima edizione del Master Festival

Accanto agli spettacoli, il festival ha voluto riflettere sul futuro del teatro e del suo insegnamento Ma lo sappiamo: per una buona iniziativa occorre tempo prima di conquistare un certo seguito. Come nel caso della prima edizione del Master Festival promosso dall’Accademia Dimitri, un ciclo di appuntamenti che ha permesso di poter assistere con una certa continuità alle esibizioni di otto dottorandi. Una prova pubblica scelta per chiudere il cerchio su candidati che, pur avendo già un bagaglio di esperienza nel settore, per alcuni semestri decidono di perfezionare la loro maestrìa con progetti concordati affidandosi a docenti specializzati nelle varie discipline

contemplate da quella formazione supplementare. Accanto agli spettacoli, il festival ha voluto riflettere sul futuro del teatro e del suo insegnamento organizzando alcune tavole rotonde con ospiti internazionali su temi legati al teatro non-verbale: un confronto fra diversi approcci didattici sull’insegnamento anche in relazione alle frequenti crisi che stiamo attraversando. Siamo riusciti a seguire due spettacoli in coda alla manifestazione che comunque offrono un’idea delle varie specificità artistiche. Con MATR. di Isabella Giampaolo, l’attrice originaria di Mendrisio ha scelto il tema della madre e della maternità con, sullo sfondo, la paura della morte. Un argomento impegnativo e sviluppato con un bel senso estetico attorno all’iconico bianco della purezza per i simboli disposti sulla scena per vestire un progetto in cui una studiata eleganza con la giusta fisicità dei movimenti prevalgono su una vocalità ancora da impostare. Di segno opposto, con My house is full of fish (la mia casa è piena di pesci), l’uruguaiana Agustina Pezzani in un certo senso abbandona la sua creatività nell’espressività della sua ingenuità clownesca sommata a quella dei personaggi che la circondano. Un percorso surreale, assurdo e onirico e ancora troppo scomposto nella sua architettura drammaturgica: limiti certamente colmabili con l’esperienza ma con una guida più severa.

Il manifesto del Festival

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 30 maggio 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

CULTURA / RUBRICHE

In fin della fiera

47

di Bruno Gambarotta

Il Signor Brusapaglione ◆

Prima o poi capita a tutti. Voglio dire: il penoso compito di sostenere ad ogni costo una conversazione fra persone che fino a pochi minuti prima non si conoscevano. Per rimediare a un imbarazzante silenzio che si sta prolungando oltre il lecito, c’è sempre qualcuno che rialza la testa e domanda: «Voi siete di Torino, vero?». Alla risposta ovviamente affermativa parte l’affondo: «Allora conoscerete certamente Sebastiano Brusapaglione». «Veramente no, ci dispiace, è la prima volta che sentiamo il suo nome». L’interlocutore, incredulo, scuote la testa: «Se uno vive a Torino è impossibile che non lo conosca, è una tale sagoma!» Cerchiamo di giustificarci: «Non siete tenuti a saperlo, ma gli abitanti della nostra città, seppure in calo costante, sono quasi 900mila. È un’impresa arrivare a conoscerli tutti». «Tutti no, ma Sebastiano Brusapaglione sì, è la prima volta che

incontriamo dei torinesi che non sanno chi è». A questo punto l’unica via percorribile è dimostrare un vivo interesse: «Cosa fa di preciso questo signore?», sottinteso: per essere così conosciuto? «È un vigile del fuoco ma nel tempo libero dipinge». «E dovremmo conoscerlo come pompiere o come pittore». Interviene la moglie: «Pittore non è la parola giusta». «L’ha detto suo marito che dipinge». «Per dipingere dipinge, ma non quadri sul cavalletto. Va in giro con il pennello e un barattolo di vernice indelebile, entra nei portoni delle case e disegna dei ghirigori artistici sui vetri delle portinerie». «E i padroni di casa sono d’accordo?» «Per farlo aspetta che la custode sia su per le scale a passare lo straccio. Non firma mai le sue opere e così non l’hanno ancora scoperto». La moglie riprende la parola: «Anche vigile del fuoco non è la parola giusta. Più che altro è un

Un mondo storto

volontario. Fa parte di un’associazione di cittadini che vigilano sui possibili focolai d’incendio. Però è strano che non lo conosciate o che almeno non abbiate mai sentito parlare di Sebastiano Brusapaglione. Siete proprio sicuri di essere di Torino? Tante volte uno pensa di essere di una città e poi invece è di un’altra». Li rassicuriamo, ci dichiariamo disposti a mostrare le nostre carte d’identità. Non superiamo l’esame: «Si vede che state tutto il tempo chiusi in casa e non vedete mai nessuno. Quando tornate chiedete in giro chi è Sebastiano Brusapaglione e scoprirete che tutti lo conoscono». Ecco uno di quei casi nei quali la menzogna è una virtù. Se avessimo detto, mentendo, che quel tale lo conoscevamo benissimo, non saremmo finiti mortificati in un angolo. La scorsa settimana s’è svolta una cena di lavoro fra quattro astigiani e quattro alessandrini in un paese a

metà strada fra le due città. Prima di approfondire la reciproca conoscenza, fra i commensali è iniziato il solito gioco. Una signora astigiana ha dato fuoco alle polveri: «Se siete di Alessandria conoscerete certamente l’insegnante d’inglese di mio figlio». «Come si chiama?» «In questo momento il nome non me lo ricordo, ma prima o poi mi verrà in mente. So che ha sposato un inglese ed è stata per vent’anni in Birmania con suo marito». Una signora alessandrina tenta un cauto sondaggio: «Conoscerla proprio non direi, ma certamente ne ho sentito parlare da più di una persona, anche se in questo momento non mi ricordo da chi. Dove abita questa professoressa?» La signora astigiana manifesta un vivo e sincero stupore: «Ma lei non abita in Alessandria, è venuta via con la sua famiglia che non aveva ancora tre anni e non è mai più ritornata a vivere nella vostra città. Mi

stupisco, credevo che, visto ce la conosce, lo sapesse». «Per saperlo lo sapevo, solo credevo che…» La prossima mossa tocca agli alessandrini: «Voi ad Asti avete quel farmacista che conosce a memoria tutte le tragedie di Vittorio Alfieri». I quattro astigiani si guardano e dai loro sguardi smarriti si capisce benissimo che ignoravano fino a quel momento l’esistenza di un tale fenomeno. «Un farmacista, avete detto?» domanda uno dei quattro per guadagnare tempo. «Sì, anche se poi l’ha venduta per aprire un ristorante dove ogni piatto è ispirato a una tragedia di Alfieri». Un grido di trionfo: «Ho capito di chi state parlando. In questo momento non mi ricordo il nome, ma so benissimo chi è . È stato compagno di scuola di Paolo Conte». È fatta, uno a uno e palla al centro. Dite cosa volete ma avere tra i propri concittadini un Paolo Conte è una gran bella risorsa.

di Ermanno Cavazzoni

Come non esistere

Ho conosciuto una persona che è riuscita a non esistere e che continua tuttora. Non esiste ma è al mondo, vivo e vegeto. Non è facile non esistere senza essere morti. Per non esistere bisogna essere in salute; meglio cominciare a non esistere nella tarda primavera, quando il tempo diventa clemente. L’ideale è non avere proprietà, ma nel caso uno ne avesse, può ugualmente avviare la procedura di non esistenza. Se era in affitto, lascia al proprietario un biglietto: Egregio proprietario, da domani lascio l’appartamento, lascio a lei tutti i mobili e le suppellettili, le auguro una felice settimana, le chiavi sono sotto lo zerbino. Non ci si deve preoccupare delle forniture di gas, acqua, luce ecc.; le bollette continueranno ad arrivare e si accumuleranno nella cassetta della posta, finché torneranno indietro, non ci si preoccupi della futura moro-

sità, dell’azione legale, perché la persona in questione è diventata irreperibile. Non ci si preoccupi dell’auto; starà per strada a marcire, finché sarà piena di foglie e di polvere, i vandali storceranno i tergicristalli, romperanno un vetro per frugare all’interno, si accumuleranno multe, finché sarà così orrenda da vedere che la porteranno via col carro attrezzi per la smania del lavaggio stradale. Cercheranno il proprietario, perché l’auto è una fonte di reddito per tutte le pubbliche amministrazioni, ma il proprietario sarà irreperibile, e tutte le tasse, multe, assicurazioni, collaudi, prove emissioni ecc. resteranno inevasi, con grave scorno per i pubblici erari; si impossesseranno dell’auto, e questo è un bene, dell’appartamento di proprietà, lo metteranno all’asta per rifarsi delle imposte e di tutti i gravami (passo carraio, pattume, TV, messa a norma di questo o di quello),

ma anche questo è un bene, perché agevola la via verso la non esistenza. Intanto l’aspirante non esistente si è allontanato da casa con un paio di scarpe resistenti alle intemperie; sconsiglio zaini e riserve alimentari; per la non esistenza bisogna essere leggeri, non avere denaro, non avere documenti, e anche dimenticarsi il proprio nome e il passato. Ed ecco che il mondo si apre in tutte le direzioni. Si può vivere in una grande città con un certo agio, ci sono le mense dei poveri, che preparano eccellenti pranzetti che servono a smaltire una parte dei prodotti alimentari in scadenza; il povero è utile perché trasforma sostanze putrescibili in sterco comune, utilizzabile per concimare la terra e riavviare il ciclo produttivo; ed è utile per chi debba soddisfare il proprio senso di carità. Naturalmente il povero non esistente

di tutto questo non si interessa. Evita le guardie, evita i poveri col patentino di poveri, che spesso costituiscono un racket, perché anche il povero nelle odierne classificazioni sociali è una figura inquadrata e assistita, su cui si può fondare la carriera di certi politici. Il non esistente invece non può essere agganciato da niente, sempre che sappia mantenersi non esistente, non si faccia fermare dagli agenti per il controllo della popolazione. Nel caso lo fermino le sue risposte siano talmente evasive e stupide da fare perdere la pazienza. «Come ti chiami?»«Evagrio». «E di cognome?» «Adesso non me lo ricordo; se mi date tempo mi tornerà in mente». «Professione?» «Nullatenente». «Residenza?» «La sto cercando». «Un documento!» «Mi dispiace, me l’hanno rubato»; arriva intanto una chiamata urgente dalla centrale, gli agenti lo mollano: «Va via

per piacere!», lui se ne va. Raccatta un giornale di due anni prima, ma non fa niente, le notizie più o meno sono sempre le stesse, scandali, malversazioni, previsioni economiche, anche le previsioni del tempo sono interessanti perché più o meno confermano il ciclo delle stagioni, e se deve piovere si prevede che poi smetterà. Ma si può condurre la non esistenza anche seguendo l’alveo di un fiume, che non è di nessuno, qui si conduce una non esistenza più ariosa, ci si può fermare coi piedi nell’acqua, vicino ci sono orti dove si può prelevare una zucca, dei pomodori, una melanzana. La dieta è molto variata, nel senso che varia con le occasioni, in campagna si tende ad essere vegetariani, a meno che il non esistente s’impossessi di un pollo e lo faccia alla brace. Risalendo il fiume si arriva ai monti, discendendolo al mare. Sta all’estro la scelta.

Voti d’aria

di Paolo Di Stefano

Molto furore (etico) per nulla ◆

Si chiama sensitivity reader, ovvero lettore sensibile, quel lettore incaricato dagli editori di vagliare se nei manoscritti in attesa di pubblicazione ci sono passaggi che potrebbero essere offensivi per le minoranze. È una pratica in auge presso le case editrici inglesi e americane, attente a dosare ogni parola in fatto di origini etniche e di orientamento sessuale, di identità di genere e di disabilità. Non so fino a che punto si arrivi nel purgare i testi da tutti gli elementi di disturbo, ma immagino che il clima generale suggerisca severità. «Progresso o censura?» si chiedeva qualche tempo fa il «Times». I casi più clamorosi di «pulizia etica» sono noti e arrivano a «correggere» anche i classici. Dieci anni fa, un professore dell’Alabama decise di intervenire su Le avventure di Huckleberry Finn sostituendo «nigger» con «schiavo». Poco importa che al tempo

di Mark Twain «nigger» fosse usato abitualmente. Nel 2020 il romanzo di Jeanine Cummins American Dirt, acquistato con un anticipo a sette cifre, scatenò un pandemonio quando fu scelto dalla celebre conduttrice Oprah Winfrey per la sua rubrica Book Club e spacciato per il nuovo Furore, il capolavoro di John Steinbeck, romanzo-simbolo della grande depressione degli anni Trenta (voto: 30 e lode). American Dirt, tradotto in italiano da Feltrinelli con il titolo Il sale della terra, era mediocre (3+) non tanto perché scritto da un’autrice statunitense che raccontava maldestramente fatti relativi al mondo messicano, ma perché più semplicemente era un libro mediocre. Letterariamente mediocre. Diventato subito un bestseller, il romanzo si è guadagnato accuse varie: di appropriazione culturale (indebita), di sensazionalismo, di abuso

di stereotipi, e la sua autrice è stata persino minacciata fisicamente. Non c’era nessuna ragione per minacciarla fisicamente: tanto meno per il fatto che lei bianca si era identificata nella storia di una madre messicana che, scampata a una strage, si mette in fuga con il suo bambino sulla rotta dei migranti. Fatto sta che l’editore fece autocritica e annullò il tour di presentazioni. È stato detto da tanti che se a uno scrittore fosse vietato l’esercizio dell’immaginazione e dell’empatia, cioè la facoltà di vestire panni altrui, la letteratura non esisterebbe. E non esisterebbero parecchi capolavori, a cominciare dall’Otello, dove il bianco Shakespeare mette in scena un condottiero «moro» tormentato dalla gelosia. Non esisterebbe neanche Madame Bovary di Flaubert, che come noto si identificava con la sua infelice eroina Emma al punto da confessa-

re: «Madame Bovary c’est moi» (6+ al coraggio, oggi impensabile). Come reagirebbe un sensitivity reader trovandosi di fronte a un’invettiva del grandissimo Thomas Bernhard (5½) contro Vienna: il fatto che sia la sua città lo autorizza a definirla una «malattia mortale», una «terra di morte» che costringe i suoi abitanti al suicidio? Dunque, che si fa? Si taglia, si riduce, si corregge, si lima? E come ci comportiamo con Carlo Emilio Gadda che definisce Mussolini un «Batrace Stivaluto», cioè un rospo con gli stivali? Come reagiranno gli animalisti? E di fronte al «Gran Correggione del Nulla» che cosa dirà l’Associazione Nazionale dei Colitici? E se persino Dumbo, Gli Aristogatti e Peter Pan sono da censurare in quanto variamente razzisti, che ne facciamo di tutti i «machisti» della letteratura, da Petrarca a Tolstoj a Nabokov?

Rimane un dubbio. Questa lodevole delicatezza nel trattare ogni tipo di minoranza e nell’opporsi a ogni tipo di discriminazione e di offesa rimane incredibilmente confinata alla letteratura e a poco altro. E nella vita reale? Si può mentire, sparare, allontanare, cannoneggiare, insultare, discriminare, oltraggiare a piacimento. Impunemente. Non nei libri, però. Lì va tutto censurato, tagliato, sforbiciato, ripulito. Ma perché, nella vita reale, ogni fortunato tycoon, tipo Elon Musk, può esibire sfacciatamente tutta la sua strabordante ricchezza che per definizione è discriminante e offensiva per milioni di poveracci? E non è «politicamente scorretto» permettere ai propri cittadini di detenere le armi con cui in un giorno di follia entrare in una scuola elementare e aprire il fuoco? Un «sensitivity reader» che intervenga prima?


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