Anno LXXXV 13 giugno 2022
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
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MONDO MIGROS
Pagine 4 – 5 ●
SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
Con le sue ricerche il professor Mark Leary cerca di capire perché essere rifiutati sia così doloroso
In gita a Gruyères per una fondue e per visitare il Museo dedicato all’artista Hans Ruedi Giger
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca non è un’ipotesi così remota. Vediamo perché
A colloquio con l’artista siciliana Silvia Giambrone, che ci racconta e spiega il proprio processo creativo
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Keystone
Sempre più preziosa rugiada
Alessandro Focarile
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Crisi alimentare, sfida globale Peter Schiesser
Niente da fare: i ministri degli esteri di Russia e Turchia non hanno trovato un accordo per permettere all’Ucraina di esportare grano dal porto di Odessa. Sarebbe comunque difficile concretizzarlo in breve tempo, poiché per sminare il Mar Nero ci vogliono mesi. Le alternative allo studio sono il trasporto per ferrovia verso la Polonia e la Romania, ma le infrastrutture mancano e la diversa ampiezza dei binari in Ucraina impone dei trasbordi costosi. Come scrive la Nzz (9.6.22), in tempi normali in maggio l’Ucraina esportava nell’Ue 10 milioni di tonnellate di grano, quest’anno solo 1,5 milioni, via terra. Così la maggior parte del raccolto dell’anno scorso resta nei silos, mentre a fine giugno comincia la nuova mietitura, circa 20 milioni di tonnellate (12 in meno dell’anno precedente), di cui 10 sono però previste per il consumo interno. E siccome molti paesi, soprattutto arabi e nel Nordafrica, dipendono dal grano dell’Ucraina, l’allarme è diventato mondiale. In realtà la guerra in Ucraina è solo l’ultimo fattore in ordine di tempo di quella che si pro-
spetta una crisi alimentare mai vista negli ultimi decenni. Già in precedenza il Programma Alimentare Mondiale aveva pronosticato che il 2022 sarebbe stato difficile, dopo che la Cina, maggiore produttore mondiale di grano, aveva preannunciato raccolti più magri a causa delle inondazioni dell’anno scorso. La situazione si è aggravata con le temperature estremamente elevate registrate in maggio in India (secondo produttore mondiale), che incideranno sui raccolti, tanto che il governo centrale ha deciso di bloccare le esportazioni di grano per garantire la sicurezza alimentare della propria popolazione. Tutto questo, assieme all’aumento del costo del carburante, ha fatto schizzare alle stelle il prezzo del grano, aumentato del 60 per cento dall’inizio dell’anno. Dunque, alla guerra si aggiungono i mutamenti climatici, che portano piogge eccessive qui e siccità là. Un esempio: il Corno d’Africa vive da mesi la peggiore siccità degli ultimi 40 anni. E a queste due catastrofi con matrice umana se n’è aggiunta una terza di origine naturale, il coro-
navirus, a completare un quadro fosco: secondo le stime dell’Onu il numero di persone sull’orlo della carestia è raddoppiato da 135 – prima della pandemia – a 276 milioni. Il 18 maggio il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha messo a fuoco lo stato delle cose e le molteplici conseguenze di questa crisi alimentare, aggravata dalla scarsità di fertilizzanti, da un lato perché delle componenti essenziali sono prodotte in Bielorussia e Russia, dall’altro perché manca il gas russo per produrli. Ma il segretario generale dell’Onu ha indicato anche la via per uscire dalla crisi. «Abbiamo i mezzi per porre fine alla fame, ma se non risolviamo questo problema oggi, saremo confrontati con lo spettro di una carenza alimentare globale nei prossimi mesi», ha messo in guardia, per poi ricordare che nel mondo c’è abbastanza cibo: si tratta di eliminare ogni ostacolo alla vendita e alla distribuzione, abolendo ogni dazio; di evitare qualsiasi impedimento all’esportazione di grano e fertilizzanti dalla Russia, la quale a sua volta deve permettere all’Ucraina di
esportare il suo grano via mare; vanno sostenute tutte le persone bisognose e le operazioni umanitarie finanziate a dovere; i governi devono favorire un’agricoltura più vicina ai piccoli produttori per rafforzare i sistemi alimentari; infine, per adempiere a questi compiti i paesi poveri devono poter avere accesso a sufficienti capitali, le istituzioni finanziarie mondiali sono quindi chiamate a investire generosamente. Tuttavia, l’Onu non è il governo mondiale, i suoi poteri sono limitati, gli appelli del segretario generale spesso cadono nel vuoto. C’è chi è pessimista: come detto in un’intervista dal presidente della Banca Mondiale David Malpass (Nzz 30.5.22): «Temiamo che il numero di persone in estrema povertà torni a salire. Pensavamo che l’aumento della povertà nel 2020 a causa della pandemia fosse un evento unico, ma questa seconda crisi rafforzerà ancora questa evoluzione». In effetti, nei paesi in via di sviluppo il reddito mediano è già diminuito negli ultimi tempi. Motivi in più per dare ascolto a Guterres, ma saranno sufficienti per essere ascoltato?
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VOI Migros Partner sbarca in Ticino
Punti vendita ◆ A settembre Migros Ticino aprirà nel Luganese il primo di una serie di nuovi supermercati di quartiere: vicini, freschi e simpatici Luca Corti*
«I punti di forza e le competenze dei supermercati Migros verranno integralmente mantenuti e declinati in questo moderno formato di vendita al dettaglio» ci spiega Daniele Bassetti, responsabile Dipartimento marketing e sponsoring di Migros Ticino. «Portiamo nel nostro territorio una ventata di novità nel settore del commercio di vicinanza», aggiunge con un sorriso. I nuovi negozi VOI sono molto apprezzati dalla popolazione e in altre regioni della Svizzera hanno da subito riscontrato il favore della critica: in poco tempo sono state più di 60 le nuove apertu-
Michele Pisani, responsabile operativo del progetto VOI Migros Partner per Migros Ticino e Daniele Bassetti, responsabile Dipartimento marketing e sponsoring di Migros Ticino.
re nelle Cooperative Migros di Aare, Ginevra, Lucerna e Zurigo, che con Migros Ticino condividono la ferma convinzione che questi punti vendita di nuova generazione vadano a colmare un’esigenza attuale della clientela, che da alcuni anni è tornata al concetto di spesa di prossimità e si rivolge ai negozi di quartiere per i propri acquisti. Nel concreto i supermercati VOI permetteranno all’utenza di soddisfare a pieno le proprie necessità quotidiane, in maniera semplice e razionale in termini di tempo e funzionalità. «Gli esercizi di vicinato VOI si distinguono dalle classiche filiali di Migros Ticino sia dal punto di vista dell’offerta sia per una differente concezione visiva degli spazi» precisa Michele Pisani, responsabile operativo del progetto VOI Migros Partner per Migros Ticino. Ciò che invece li accomuna, oltre all’ampiezza dell’offerta convenience, con diversi articoli di marca, e alla freschezza dei generi alimentari a marca Migros come pane, latticini, carni, frutta e verdura, con un occhio di riguardo e una particolare attenzione alla produzione locale, sarà l’ottimo rapporto qualità-prezzo, «inserito nell’ottica di una forte attenzione verso i mutevoli bisogni della clientela» aggiunge convinto Bassetti. Ai generi alimentari freschi e a lunga scadenza saran-
no affiancati tutta una serie di altri prodotti non alimentari e servizi: «a dipendenza delle necessità inseriremo dei servizi postali o il Toto-Lotto e la vasta scelta sarà ben completata dall’assortimento “Chiosco” e da una curata selezione di bevande alcoliche» afferma ancora Pisani. Insomma, VOI vuole offrire al
Sotto le stelle con i big Openair
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Zucchero, James Blunt e molti altri alla kermesse Moon&Stars
Forse al mondo non esiste un altro Paese che possa competere con la Svizzera per numero di festival openair sotto le stelle. E per le regioni interessate molte manifestazioni rappresentano ormai spesso un fattore irrinunciabile. Oltre a openair «classici» come Moon&Stars a Locarno, Openair Frauenfeld (vedi anche concorso a pagina 41) a Frauenfeld, Stars in Town a Sciaffusa, Paléo a Nyon, Gurtenfestival a Berna e Street Parade a Zurigo – solo per fare qualche nome – la Migros sostiene anche festival rivolti a un target più maturo e nei quali in primo piano si trovano l’esperienza musicale e una certa atmosfera. I festival per gli svizzeri e per Migros fanno dunque parte delle tradizioni estive, e ciò vale anche per Moon&Stars, la cui 17° edizione andrà in scena dal 14 al 24 luglio in una delle piazze più suggestive del nostro Paese, Piazza Grande a Locarno. E sempre come vuole la tradizione, a
vicinato un’esperienza d’acquisto al passo con i tempi: completa, buona, comoda e veloce. «E pure fresca e simpatica» concludono in coro i nostri interlocutori. * Responsabile Servizio comunicazione e cultura di Migros Ticino
Tutte in vetta Forum elle
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Invito a due nuovi appuntamenti te Generoso! Guya Bianchini di Erbe Ticino svelerà alle amiche presenti la modalità di coltivazione e di produzione della miscela che ha dato vita a questa deliziosa Tisana. Al termine della presentazione, seguirà un «Afternoon tea» (selezione di tè accompagnata da proposte dolci e salate).
Concorso
farla da padrona nella kermesse locarnese saranno grandi nomi nazionali e internazionali. Oltre al soul di Marc Sway, al reggae di Dodo e dei Seeed, al punk dei Toten Hosen, al pop romantico di James Blunt e al rap di Stress, sarà di nuovo in scena (per un appuntamento che si è ormai fatto imperdibile) anche il grande musicista italiano Zucchero Sugar Fornaciari.
Per ringraziare le sue lettrici e i suoi lettori, «Azione» mette in palio 25X2 biglietti per il concerto di Zucchero Sugar Fornaciari, che avrà luogo martedì 19 luglio 2022 alle 21.45 con uno special guest ancora da definire. Per partecipare all’estrazione è sufficiente inviare una mail con i propri dati (nome, cognome, indirizzo e numero di telefono) a giochi@azione.ch (oggetto: Zucchero) entro domenica 19 giugno 2022. Vincitrici e vincitori avranno così modo di trascorrere un’indimenticabile serata sotto le stelle, ballando sul sound inconfondibile e trascinante di Zucchero. Buona fortuna!
La piattaforma femminile Forum elle invita ai seguenti due appuntamenti: Mercoledì, 22 giugno 2022 (pomeriggio) Appuntamento in vetta al Monte Generoso per un Afternoon Tea alla scoperta delle preziose erbe della montagna. In collaborazione con Simone Galli di Erbe Ticino e Gabriele Bianchi dell’Azienda Agricola Bianchi è stata prodotta la Tisana Monte Generoso, miscela nuova e unica di erbe coltivate, raccolte ed essiccate in modo biologico. Un infuso che racchiude i profumi e i sapori del Mon-
Venerdì, 8 luglio 2022 – ore 18.00 Cena in Vetta al San Salvatore con Massimo Boni. Quest’anno l’ormai tradizionale cena in Vetta al San Salvatore vedrà un incontro con il nuovo direttore di Lugano Tourism, Massimo Boni. Conosceremo così il suo percorso professionale e scopriremo i progetti futuri per lo sviluppo del turismo nel Luganese. Informazioni Ulteriori dettagli degli eventi sono disponibili nella pagina www.forum-elle.ch, nella rubrica dedicata alla Sezione Ticino.
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azione
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Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Simona Sala, Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Natascha Fioretti Ivan Leoni
Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89
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Predisporre alla gioia I genitori possono aiutare i figli a essere positivi nei confronti della vita: lo spiega Federica Mormando
Dark Web È il titolo del romanzo giallo per ragazzi di Sara Magnoli, l’abbiamo intervistata
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Il nuovo Parco San Rocco Visita al grande cantiere di Coldrerio pensato come un villaggio intergenerazionale
Sopravvivere tra i fichi Nei luoghi aridi della Terra molti insetti e non solo si dissetano grazie alla rugiada
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Essere rifiutati fa parte della vita di tutti i giorni: ci sentiamo respinti quando gli altri non ricambiano l’apprezzamento che abbiamo per loro. (Shutterstock)
Perché essere rifiutati fa così male
Psicologia ◆ Il rifiuto – in amore, nell’amicizia, sul lavoro – è difficile da superare per ragioni legate all’evoluzione. Capire i meccanismi della nostra mente aiuta a non lasciarsi prendere dallo sconforto, come spiega il professor Mark Leary Stefania Prandi
Essere rifiutati è doloroso e provoca conseguenze negative: aumenta l’aggressività; favorisce comportamenti autodistruttivi; diminuisce l’autostima; fa perdere fiducia nel futuro. Diversi studi, negli ultimi anni, hanno analizzato le cause che rendono il rifiuto – in amore, nell’amicizia, sul lavoro – difficile da superare. Alla base sembrano esserci ragioni evolutive, apprese dagli esseri umani nel corso dei millenni. Capire i meccanismi della nostra mente può essere utile per non lasciarsi prendere dallo sconforto e non perdere nuove possibili occasioni, come suggerisce Mark Leary, professore di Psicologia e neuroscienze alla Duke University, negli Stati Uniti, tra gli esperti del tema. Mark Leary, perché essere respinti è così doloroso? Perché alla base ci sono ragioni evolutive. I nostri antenati non sarebbero sopravvissuti senza fare parte di un gruppo sociale solidale. Era impensabile vivere da soli nelle pianure dell’Africa. Nel corso del tempo, gli individui più motivati a essere apprezzati e benvoluti dai membri del gruppo sono sopravvissuti e si sono riprodotti a un ritmo più elevato rispetto a quelli a cui importava meno del giudizio altrui. Di conseguenza, i geni associati all’accettazione e al
senso di appartenenza sono stati trasmessi più velocemente, influenzando il cervello umano per motivarlo a cercare connessioni con gli altri. Le emozioni negative che sperimentiamo quando veniamo respinti esistono per aiutarci nel lungo periodo, anche se nel momento in cui le proviamo sono angoscianti. Dato che il rifiuto è particolarmente doloroso, siamo spinti a comportarci in modo da evitare di stare male, aumentando così la probabilità di essere accettati. A tutti capita di venire rifiutati? Sì, fa parte della vita di tutti i giorni. Naturalmente, non tutte le situazioni sono paragonabili: i grandi rifiuti come venire respinti in amore, licenziati da un lavoro oppure emarginati da un gruppo accadono solo occasionalmente. Nonostante le differenze di intensità, il meccanismo è lo stesso: ci sentiamo respinti quando ci rendiamo conto che gli altri non ricambiano l’apprezzamento che abbiamo per loro oppure non condividono la nostra stessa intensità nella relazione. Ogni volta che percepiamo il nostro «valore relazionale» in maniera inferiore a quello che vorremmo, ci sentiamo rifiutati. La vita di tutti i giorni è piena di situazioni in cui crediamo che il nostro «valore relazionale» sia inaccettabilmente
basso: non veniamo inclusi nei piani degli altri; qualcuno non risponde a una nostra telefonata; c’è chi non sembra interessato mentre parliamo; ci sentiamo ignorati. In questi casi tendiamo a sentirci feriti. Accade di provare lo stesso malessere anche con chi ci ama e ci apprezza se, in una situazione particolare, sembra non dare valore al rapporto che ha con noi. Anche il rifiuto delle persone che non conosciamo bene ci dà fastidio. Perché? Nel corso dell’evoluzione umana, i nostri antenati vivevano in piccoli clan formati da trenta o cinquanta persone e in quell’ambiente era importante essere accettati praticamente da tutti. Quindi, il nostro cervello si è evoluto per evitare il rifiuto della maggior parte delle persone con cui interagiamo. Non abbiamo un filtro automatico che ci permetta di selezionare l’importanza di essere accettati da una persona e non da un’altra, che magari non conta molto per noi. Il nostro cervello risponde in modo simile con tutti. E allora come possiamo cercare di gestire al meglio i rifiuti? Se ci rendiamo conto che la reazione di una certa persona non ha im-
portanza per noi, possiamo cercare di ignorare consapevolmente le nostre risposte automatiche. Dobbiamo provare a essere più razionali, per riuscire a valutare quanto effettivamente valga per noi un particolare rifiuto. In generale, è molto difficile determinare quanto siamo apprezzati e accettati perché gli altri, di solito, non ci forniscono un riscontro sociale esplicito. Inoltre, i segnali che utilizziamo per dedurre ciò che le persone pensano di noi sono spesso ambigui. A peggiorare le cose, secondo le ricerche, il fatto che tendiamo a sottovalutarci, interpretando, ad esempio, un feedback sociale relativamente neutro caricandolo di significati che non ha. Dato che spesso non sappiamo esattamente come ci vedono dall’esterno, un passo importante può essere quello di esaminare i segnali il più oggettivamente possibile, cercando di non caricarli di negatività. E senza addossarci la responsabilità o prenderla troppo sul personale. C’è un modo per liberarci dalla paura dei rifiuti e riuscire a vivere più liberamente? La verità è che non vogliamo smettere di avere paura del rifiuto. Le nostre resistenze rispetto al fatto di non venire accettati sono estremamente importanti per il nostro benesse-
re perché motivano comportamenti che rafforzano e proteggono le nostre connessioni con le altre persone. Se non ci preoccupassimo del rifiuto avremmo grandi difficoltà a fare amicizia, creare una relazione d’amore, trovare un lavoro e tenerci lontani dai guai perché non prenderemmo in considerazione le reazioni di rigetto a comportamenti inappropriati. Sebbene il rifiuto sia doloroso, la paura di quei sentimenti negativi ci aiuta a evitare di danneggiare le nostre relazioni sociali proprio come il timore del dolore fisico ci aiuta a evitare di farci male – pensiamo al fuoco: sapere che scotta ci distoglie dalla voglia di toccarlo. Detto questo, spesso siamo più preoccupati del rifiuto di quanto dovremmo esserlo, diventando ansiosi e arrivando a comportarci in modi poco efficaci. L’obiettivo, quindi, dovrebbe essere di avere la giusta quantità di preoccupazione: abbastanza per proteggere le nostre relazioni e il benessere sociale, ma non tale da essere inutilmente angosciati e socialmente inibiti, nel tentativo inutile di essere accettati sempre e comunque. Nota L’intervista è stata tradotta e in alcuni passaggi adattata dalla giornalista.
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Vendita sfusa di prodotti bio
Novità ◆ Nelle filiali Migros di S. Antonino, Locarno e Lugano si possono ora acquistare numerosi alimenti biologici non confezionati in self-service. Un’alternativa sostenibile che aiuta a ridurre il materiale d’imballaggio e a preservare le nostre preziose risorse
Riempire, pesare, fatto! Sono una settantina i prodotti Migros Bio a lunga conservazione che da subito si possono acquistare sfusi nelle cosiddette «stazioni di riempimento» posizionate presso le filiali Migros di S. Antonino, Locarno e Lugano. Dalla pasta al riso, dalla frutta secca & noci ai cereali per la colazione, fino ai dolciumi e ai legumi secchi, la scelta saprà soddisfare ogni esigenza in fatto di gusto e qualità. Tutti gli alimenti offerti sono di produzione biologica certificata, vale a dire prodotti senza l’impiego di sostanze chimiche dannose per l’ambiente e per l’uomo. La clientela ha la possibilità di riempire e pesare in modo autonomo i prodotti desiderati. Per questo vengono messi a disposizione dei sacchetti di cellulosa riutilizzabili, dei sacchetti di carta riciclata e una bilancia per pesare la merce selezionata. I sacchetti di cellulo-
sa sono particolarmente resistenti e possono essere riusati più volte. Inoltre sono lavabili in lavatrice a 30 gradi. Vi è anche la possibilità di portare da casa i propri contenitori da riempire, dal momento che la bilancia è dotata della funzione tara da selezionare direttamente sullo schermo digitale. Grazie alle stazioni di rifornimento si può contribuire in modo significativo alla sostenibilità ambientale, riducendo l’utilizzo di imballaggi monouso e contenendo gli sprechi alimentari, senza voler dimenticare la fattiva diminuzione della quantità di rifiuti casalinghi prodotti. Gli alimenti sono offerti allo stesso prezzo degli articoli bio confezionati. Con l’introduzione di questo servizio anche in Ticino, attualmente in Svizzera sono 30 le filiali Migros in cui è possibile acquistare alimenti biologici sfusi.
Foto: AdvAgency.ch/Däwis Pulga
Per un futuro più sostenibile
Fin dalla sua fondazione, Migros ha un particolare occhio di riguardo per la sostenibilità. Ogni giorno si impegna a proporre alla clientela articoli prodotti secondo i più rigorosi criteri sociali ed ecologici. Un impegno che tocca numerosi ambiti, come ad esempio quello della riduzione degli imballaggi usa e getta. Negli ultimi anni Migros ha ottimizzato in chiave ecologica molte confezioni, utilizzando sempre più spesso materiali riciclati, riducendo l’impiego di materia plastica o trovando alternative più sostenibili per i propri prodotti. Un’ulteriore possibilità per ridurre la quantità di rifiuti e risparmiare sugli imballaggi, è quella di optare per l’acquisto di prodotti sfusi, che Migros vuole rafforzare nel prossimo futuro. Per saperne di più sulla sostenibilità Migros Generazione-m.ch
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Croccante tentazione ai multicereali
Pane della settimana ◆ Il Pane Passione Rustico IP-Suisse si caratterizza per la ricchezza dei suoi ingredienti e l’aroma intenso
Una fascetta di carta per l’avocado bio
Flavia Leuenberger Ceppi
Conformemente alla legge, Migros deve vendere i prodotti bio in modo tale da differenziarli dagli articoli convenzionali. Al fine di sostituire le fascette di plastica, Migros ha testato per diversi mesi la marchiatura al laser degli avocado bio (il cosiddetto «natural branding»). Purtroppo le prove non hanno dato l’esito sperato, poiché i frutti tendevano a seccare più rapidamente, aumentando il rischio di doverli buttare. Per ridurre gli sprechi alimentari senza dover ricorrere alla plastica, gli avocado bio sono ora stati etichettati con una fascetta di carta, facilmente riciclabile.
Per fare un buon pane ci vuole non solo la maestria del panettiere, ma anche degli ottimi ingredienti e il tempo necessario affinché l’impasto possa sviluppare nel migliore dei modi tutti i suoi aromi caratteristici. Il Pane Passione Rustico rispecchia pienamente questi criteri, poiché è fatto con savoir-faire artigianale dai panettieri della Jowa utilizzando solamen-
te farina ottenuta da cereali svizzeri IP-Suisse – provenienti da coltivazioni esenti da fungicidi, insetticidi e regolatori della crescita – e richiede una lunga e accurata fase di lavorazione. Questa specialità dalla crosta croccante viene ancora attorcigliata a mano ed è arricchita con farina di segale macinata grossolanamente, semi di sesamo, semi di lino, semi di gi-
rasole e spelta frantumata, ingredienti che donano al pane delicati sapori dolci e tostati. La mollica risulta particolarmente morbida, ben areata, con aromi di grano in evidenza. Il Pane Passione Rustico è preparato seguendo una ricetta originale di lunga data, ma applicando le tecniche produttive odierne che valorizzano nel migliore dei modi le qualità organolettiche del
Pane Passione Rustico 380 g Fr. 3.30
prodotto finito. Questo gustoso pane convincerà i buongustai come elemento essenziale per la cucina quotidiana, ma si presta perfettamente per realizzare sfiziosi panini, oppure come accompagnamento per le più classiche pietanze estive, dai piatti freddi mediterranei alle grigliate miste fino alle croccanti insalate stagionali e ai formaggi del nostro territorio. Annuncio pubblicitario
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SOCIETÀ
Educare alla gioia Il caffè delle mamme
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La psicoterapeuta Federica Mormando spiega come aiutare i figli a costruire una predisposizione alla gioia
Simona Ravizza
La felicità è un picco, la gioia una disposizione dell’animo. In che modo noi mamme e papà possiamo contribuire a svilupparlo? Il nostro ruolo è fondamentale perché possiamo aiutare i bambini e gli adolescenti a costruire una predisposizione alla gioia. Innanzitutto, dobbiamo cercare di essere figure di riferimento che rispondono ai bisogni dei figli. Il desiderio indubbiamente c’è, più difficile riuscirci. Concretamente cosa bisogna fare? Non vuol dire stare tutto il giorno in casa, ma esserci quando i bambini ci cercano magari con una scusa: un taglietto, un disegno da mostrare, una richiesta. Quando siamo fuori, ri-
spondere con pazienza se ci chiamano al telefono oppure chiamarli noi. Tutto ciò serve per permettere loro di sviluppare un attaccamento sicuro che li porta a sentirsi amabili, avere fiducia in sé e non soffrire del timore dell’abbandono, anche da adulti. Che cos’è l’attaccamento sicuro? Il periodo dell’attaccamento inizia dalla primissima infanzia e si prolunga per i primi 3 anni circa, evolvendo in attaccamento sicuro o insicuro. Con quello sicuro i bambini possono a poco a poco introiettare una presenza positiva e acquisire la base di fiducia in sé necessaria per affrontare la vita. Vuol dire sviluppare dentro di sé una sensazione di sicurezza: i bambini esplorano, si staccano, e poi ritornano per accertarsi che anche se loro si allontanano la persona di riferimento c’è ancora. Quali comportamenti invece possono essere causa di un attaccamento insicuro? Se il bambino alle sue richieste di aiuto e di vicinanza si sente respinto o non trova nessuno che lo ascolti, sviluppa insicurezza, la sensazione di non essere amabile, la sospensione delle richieste di aiuto che pensa non accolte, l’ansia da separazione. È questo l’attaccamento insicuro. Superati i primi tre-quattro anni di vita, cosa ci consiglia di fare per educarli alla gioia? Favorire l’autonomia dei bambini, renderli coscienti delle proprie capacità e capaci di usarle secondo scelte pensate, dipendendo il meno possibile da altri. Ma anche stare attenti a non trasmettere la nostra insofferenza quando stiamo troppo tempo con loro e magari non ne possiamo più; oppure al contrario i nostri sensi di colpa quando non ci siamo abbastanza. Questi comportamenti trasmettono ansia e incertezza che è il contrario della gioia. La quotidianità della vita spes-
Pixabay
Sulla mia scrivania, dove si accumulano in modo disordinato ritagli di giornale e appunti, c’è da 10 anni un articolo della psichiatra e psicoterapeuta Federica Mormando (datato 10 dicembre 2011) che s’intitola: La gioia si insegna. È rispuntato fuori per caso l’altro giorno e mi sembra che il tema sia più d’attualità che mai. Dopo due anni di pandemia e una guerra nel cuore dell’Europa, aiutare i nostri figli a essere positivi nei confronti della vita deve essere messo all’ordine del giorno: «È necessario ritrovare in noi e insegnare ai bimbi e ai giovani la gioia, che è un modo di essere, un’atmosfera in cui srotolare la vita, diversa dai picchi della felicità e dalle trappole del benessere – scrive la psicoterapeuta –. È un patrimonio di forza e di capacità di resistere. È libertà». Ho deciso così di invitare Federica Mormando, che per anni ha insegnato Educazione al pensiero creativo alla SUPSI di Lugano, a Il caffè delle mamme: «Quando mi chiedono quale sia lo scopo finale del mio lavoro rispondo sempre che è aumentare i gradi di libertà e le possibilità di gioia. Consapevole che invece da troppo tempo ci viene ammannita, anche dai media, l’educazione alla depressione».
so rischia di schiacciarci e tutte le buone intenzioni vanno a farsi friggere. Vero. Ma bisogna stare attenti a non trasmettere l’idea che lavoro e casa siano dei gran pesi. Un consiglio, per esempio, può essere trascorrere tranquilli a casa qualche giorno di vacanza o non scappare sempre altrove nei fine settimana. Altrimenti l’impressione che diamo ai bambini è di insoddisfazione e stanchezza perenne nella quotidianità. Che invece bisogna insegnare ai nostri figli ad apprezzare. Come? Con semplicità. Non parliamo di soldi, ma facciamo notare il cielo azzurro, il sole al tramonto, i fiori spuntati in un’aiuola. Il gusto di una cena buona consumata chiacchierando con calma. La bellezza di una tavola apparecchiata insieme con cura. Un film. Il messaggio dev’essere: «È stata una giornata pesante, ma guardiamo gli aspetti positivi». Senza dimenticare che l’educazione alla bellezza va di pari passo con l’educazione alla gioia.
Allenarli alla bellezza vuol dire anche insegnare ai bambini ad apprezzare l’arte? Senza dubbio. Vedere insieme una mostra o ascoltare la musica sono esperienze che allargano il cuore. Altri consigli? Predisporli alla gioia vuol dire anche fare loro sentire che ci teniamo davvero a farci capire e a comprenderli, spiegando loro il significato di parole che noi utilizziamo ma di cui possono non conoscere il significato; oppure chiedendo loro cosa vogliono dire espressioni che utilizzano e che noi non mettiamo bene a fuoco. Poi c’è il piacere del dono, ma allo stesso tempo è utile allenare il desiderio: avere tutto e subito porta i bambini a dare tutto per scontato senza nessuna gioia. E ancora: trasmettere il valore della fatica, che porta gioia quando viene raggiunto un obiettivo. Ed è una bella cosa farli sentire utili, dando una mano in casa. I comportamenti sbagliati? Non mantenere le promesse: bisogna farne poche, ma che poi vengono
mantenute. Non dire bugie, ma aiutarli a capire le situazioni. Ed è sbagliato coccolarli solo se stanno male o si lamentano. Alla fine dell’intervista Federica Mormando fa cenno anche ai neuroni specchio. L’autore della scoperta è lo scienziato Giacomo Rizzolatti, che tempo fa per farmi capire cosa fossero me li aveva spiegati così: «Sono una particolare classe di neuroni che si attiva sia quando una persona compie un’azione sia quando la vede fare. Permettono, in altre parole, di capire subito quel che fanno gli altri. Un meccanismo fondamentale non solo per apprendere attraverso l’imitazione (come fa una ballerina che impara un passo nuovo) ma anche per rendere partecipe l’osservatore delle emozioni altrui. È il meccanismo dell’empatia (dal greco en, dentro, e pathos, sentimento), che ci permette di commuoverci se vediamo uno spettacolo drammatico o di immedesimarci nelle azioni in campo della squadra del cuore». Ecco, per educare alla gioia, ricordiamoci che anche i nostri bambini sono empatici!
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Viale dei ciliegi Paolo Proietti Il vaso di Peng La Margherita Edizioni (Da 4 anni)
È un albo molto bello. Tanto per cominciare c’è una storia, cosa non scontata negli albi recenti, dove spesso quello che manca è la presenza di azione, di un plot, anche minimo, insomma. Poi c’è un contenuto etico profondo ma che emerge in modo implicito, attraverso la storia e le illustrazioni, e anche questa è una cosa non scontata, perché troppi sono i libri per l’infanzia costruiti «a tavolino», a partire dal messaggio che si vuole (con proterva pesantezza) comunicare. Invece qui c’è umiltà, eleganza, leggerezza. Già a partire dalla copertina, sui toni di ocra delicato, con il titolo in rosso, rosso come il vaso di Peng, titolo e fulcro del libro. E il nome dell’autore, Paolo Proietti, figura in piccolo e «solo» come illustratore, in omaggio al fatto che la «storia è tratta da una favola tradizionale cinese», ma non è prassi comune. L’illustratrice americana Demi, ad esempio, che aveva pubblicato una sua versione di questa storia (The Empty Pot) nel 1990,
di Letizia Bolzani
poi tradotta da Rizzoli, figura come autrice a tutto tondo. E rispetto a quell’edizione, è più felice anche il titolo di questa, un titolo che mette in evidenza il protagonista, il piccolo Peng, evitando di «spoilerare» la vicenda. Che il vaso di Peng resti vuoto lo scopriamo solo inoltrandoci nella storia, che parte presentandoci i due personaggi principali: il vecchio imperatore alla ricerca di un erede a cui affidare il regno – tema classico delle fiabe – e il piccolo Peng, che ama prendersi cura di piante e fiori. Poi l’editto dell’imperatore a tutti i bambini del regno: «darò a ciascuno di voi un seme. Lo
pianterete in un vaso […] tra un anno esatto tornerete qui con il vostro vaso e io sceglierò fra voi il mio erede!». Nonostante tutto l’amore che Peng mette nel prendersi cura del suo seme, nel suo vaso non cresce nulla. «Che cosa ho sbagliato? Perché non cresce nulla?» si chiede. La storia darà a lui, e a tutti noi, la risposta. E ci lascerà nel cuore tanti messaggi profondi: l’importanza di prendersi cura di ciò che si ama, sapendo però anche che ciò che conta è aver fatto del proprio meglio, al di là del risultato ottenuto. E il valore della sincerità e del coraggio. E la condivisione della bellezza, e la sua gratuità. Chiara Lorenzoni-Margherita Allegri Zeffirina dove sei? Collana «Piccole Piume», Edizioni Pelledoca (Da 6 anni)
È nata quest’anno la collana «Piccole Piume», che la casa editrice Pelledoca, specializzata in storie da brivido, rivolge ai lettori più piccoli. Ottima scelta quella di rispondere all’esigenza dei primi lettori di avere dei «gialli» pensati per loro: di let-
tura semplice, senza contenuti troppo inquietanti, ma con un intreccio non banale, che rispetti le regole del giallo d’indagine e che sappia tenere comunque con il fiato sospeso. Tra i vari titoli finora usciti, segnalo Zeffirina dove sei?, una storia condotta con brio da Chiara Lorenzoni, che già avevamo apprezzato per I misteri del Circo Trepidini (anch’esso edito da Pelledoca ma per ragazzini più grandi, dai 10 anni). Qui invece l’autrice, nel rivolgersi ai bimbi più piccoli, fa leva su un umorismo molto efficace, legato anche alla voce narrante, che è quella del simpatico e intraprendente Sgombro, cane del piccolo Pappi e
socio a pieno titolo dell’Agenzia Investigativa P.A.P.P.I & S., da loro due composta. Oltre all’umorismo, è anche ovviamente la storia stessa ad appassionare il lettore, sin dall’idea di partenza, incisiva e originale: la signora Berenice, amica della nonna di Pappi, non si capacita del ritorno dall’oltretomba della sua pappagallina Zeffirina. Eppure le due anziane signore l’hanno amorevolmente sepolta sotto il cespuglio di lavanda del giardino, com’è possibile che ora svolazzi tutta arzilla nella sua voliera? Cane e bambino ascoltano la conversazione delle signore (origliare a volte può essere necessario, recita la regola n.1 del «perfetto piedipiatti»; seguita però dalla regola n.2: «mai origliare più del necessario») e si lanciano all’indagine. Indizi, sospetti, ricerche, inseguimenti, deduzioni… fino alla soluzione del caso! Il carattere ad alta leggibilità, le vivaci illustrazioni di Margherita Allegri, la scansione dei capitoli nelle dieci regole del perfetto piedipiatti (fino alla regola n.10: «festeggia sempre la soluzione di un mistero!») renderanno, se mai ce ne fosse bisogno, questo piccolo delizioso libro ancora più gradito.
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L’immagine di copertina del libro pubblicato da Pelledoca Editore.
La ferrovia e il trasporto merci Istantanee sui trasporti ◆ In Svizzera c’è una grande differenza tra il trasporto di merci in transito e quello interno tra le diverse regioni Riccardo De Gottardi
Adolescenti ◆ Intervista alla giornalista e scrittrice Sara Magnoli autrice del romanzo per ragazzi Dark Web Roberto Porta
«L’intimo, vorrei vederlo» scrive in chat il «ragazzo del destino» in uno scambio di messaggi la cui destinataria è Eva, una ragazza di quattordici anni che sogna di diventare una influencer. Ed Eva confessa a sé stessa la sua incapacità nel resistere alla tentazione: «Una forza misteriosa spinge la mia mano ad aprire la zip della felpa». E così alla prima fotografia ne seguiranno altre, sempre più audaci e sempre indirizzate a lui, il «ragazzo del destino» che promette di aprire le porte giuste per permetterle di sfondare nella carriera che tanto la fa sognare. Un rapporto virtuale e spregiudicato attorno al quale ruota il romanzo per adolescenti Dark Web, della scrittrice e giornalista varesina Sara Magnoli. Un racconto, un giallo per ragazzi che può di certo essere molto utile anche agli adulti, in particolare ai genitori, quando vedono i loro figli attraversare l’età dell’adolescenza. Ma perché, chiediamo all’autrice, questo titolo Dark Web? Perché scrivere un racconto che scandaglia il lato più oscuro della grande rete di internet? «Eva di per sé non va nel dark web ma nel dark web finiscono le sue foto. Il titolo in realtà non l’ho scelto io ma mi è stato proposto dalla casa editrice. Visto che si tratta di un giallo, di un crimine che si svolge nel dark web questo titolo calza davvero a pennello. La parola web ha poi una doppia valenza, è la ragnatela che ti imprigiona ma è anche la rete che ti salva. Dark non è solo la parte oscura di questa rete ma rappresenta anche le zone d’ombra e le debolezze di molti dei personaggi di questo mio racconto. E quindi quel titolo mi sembrava azzeccato perché dava più interpretazioni, più possibilità di lettura». Il racconto che vede protagonista Eva ha un lieto fine, malgrado un percorso che la porta dentro il ventre oscuro di Internet e la spinge persino ad accettare un appuntamento al buio in un albergo malfamato, e non di lusso come promessole in chat. Seppur a fatica questa ragazza quattordicenne riesce a salvarsi grazie ai genitori e ai suoi amici, anche se a molti di loro tutta questa vicenda rimane a lungo nascosta. Vista la reazione di Eva, viene dunque da chiedersi quanto sia diffusa nei giovani la consapevolezza dei pericoli che si celano nella grande rete. «Tra ragazzi questa consapevolezza si sta sviluppando, sta
crescendo – fa notare Sara Magnoli – E questo anche grazie all’impegno della scuola, che organizza regolarmente giornate di sensibilizzazione. Al di là di questo noto che, tra i ragazzi che incontro quando vengo invitata a parlare di questo argomento, c’è voglia di conoscere di più, di non essere degli sprovveduti. E questo perché c’è una percezione sempre più diffusa dei rischi che si corrono, e quindi c’è più attenzione. Ma c’è anche il rovescio della medaglia. C’è ancora poca consapevolezza, tra i giovani ma anche tra gli adulti, del fatto che determinati atteggiamenti possano essere motivo di rischio o addirittura di reato. Faccio un esempio: l’avere in memoria sul proprio cellulare delle immagini o dei filmati senza rendersi conto che possono essere oggetto di reato e portare a una segnalazione alla polizia. Su questo tema la soglia di allarme è ancora troppo bassa. C’è invece una maggiore attenzione al rischio in quanto tale, al tentativo di adescamento, ad esempio, o al concedere i propri dati. Detto questo la cosa che più mi preoccupa è il fatto che si stia abbassando l’età dei ragazzi che vengono adescati. E che si stia abbassando anche l’età degli adescatori. Sono aspetti su cui dovremo riflettere perché vuol dire che si sta acquisendo un nuovo modo di rapportarsi in cui non si sa più bene quale sia il limite tra la bravata e il reato, dove finisce lo scherzo e dove invece inizia qualcosa che scherzo non è». Resta il fatto che c’è anche un altro rischio ormai sotto gli occhi di tutti, quello della dipendenza, del non riuscire a staccare gli occhi e il cervello dagli strumenti che permettono di navigare su internet. «Su questo punto ho visto dei ragazzini delle scuole elementari perdere completamente il controllo perché sarebbero usciti da scuola con 20 minuti di ritardo rispetto all’inizio di una sfida di gruppo su un videogioco. Ed è solo un esempio tra tanti altri. So benissimo che non è semplice gestire il rapporto dei propri figli con le nuove tecnologie. Penso però che sia il caso di dare dei tempi di utilizzo per tutti questi strumenti, soprattutto ai bambini più piccoli, perché emerge proprio una dipendenza da questo mondo spesso basato sul divertimento e sul gioco. Tra l’altro non dobbiamo dimenticare che nel gioco si abbassa anche la capacità di reazione
ai rischi, perché stai giocando e quindi non immagini che ci possano essere dei pericoli. Il computer o il telefonino ci fanno vivere questa dimensione virtuale, che in verità è anche molto reale. Non è come guardare un cartone animato, perché sul web tu sei dentro un gioco, sei dentro una chat, ci sei tu, non un’altra persona, e quindi c’è anche una dimensione reale in tutto questo. È essenziale dare dei limiti di tempo, come del resto capitava alla mia generazione con la televisione. Limiti di tempo da indicare ai nostri figli ma da dare anche a noi adulti». E qui tocchiamo un altro argomento delicato, quello del comportamento degli adulti e nello specifico dei genitori, perché, a ben guardare, il primo cellulare di cui dispone un bambino è quello del papà o della mamma. Dal loro primo vagito i figli vedono i propri genitori con questo strumento in mano, una sorta di chiave segreta che permette l’accesso a un mondo sconosciuto ai più piccoli, ma che esercita su di loro una grande attrazione. «Credo che questo sia vero. Ci accorgiamo un po’ poco che alla fine i ragazzi sono lo specchio degli adulti. Se vedono papà e mamma con il cellulare anche quando stanno mangiando è chiaro che diventa per loro normale comportarsi così. Sono però convinta di una cosa: è forse la prima volta che i ragazzi sono più adulti di noi nell’uso di uno strumento. Loro sanno benissimo quello che c’è nel web, noi adulti lo sappiamo un po’ meno. Le loro competenze sono superiori e questo può anche portarli a mettersi nei pasticci, spesso eludendo i nostri controlli. In altri termini noi adulti abbiamo spesso un uso limitato delle nuove tecnologie, non ci spingiamo così in là nell’affrontare spazi virtuali ad alto rischio». Nella speranza che dal dark web si riesca a stare alla larga, perché in gioco c’è la vita dei ragazzi, e con loro, anche quella degli adulti. Ma in gioco c’è pure la capacità di riuscire a non perdere del tutto il contatto con la realtà. E qui usiamo le parole di Eva, formulate al termine del giallo di Sara Magnoli: «E finalmente scoppiamo a ridere. Perché, a essere sinceri, da quanto tutto è finito, o forse tutto è ricominciato, ho deciso di ricominciare a sorridere». Quel sorriso che era rimasto imbrigliato nelle false promesse di una chat.
generale ha conosciuto grossi problemi finanziari. Quello in transito, fino ad allora redditizio, si è visto ridurre drasticamente i margini di profitto dalla concorrenza stradale. Il trasporto interno e quello legato all’import-export si è vieppiù confrontato con le cifre rosse. Ottemperare all’obiettivo strategico assegnato alle FFS dalla Confederazione, ossia una gestione votata alla copertura integrale dei costi, si è rivelata una sfida estremamente difficile. A più riprese si sono attuate riorganizzazioni aziendali, vi sono state aperture a collaborazioni con i trasportatori privati, si sono registrati rapidi avvicendamenti di dirigenti e si sono operate riduzioni dell’offerta. Il problema non è stato tuttavia risolto. Ora la situazione si avvicina alla crisi, tanto che il Consiglio federale, rispondendo con un recente Rapporto a un postulato parlamentare, ha prospettato la necessità di una decisione di fondo sul futuro del servizio a carri completi isolati. Ha così valutato due possibili orientamenti: l’abbandono dell’intero settore dei carri gestiti in modalità isolata per concentrarsi sul traffico con treni completi oppure il suo mantenimento attraverso l’indennizzo di alcune prestazioni rispettivamente la concessione di contributi per investimenti a sostegno di innovazioni tecnologiche per migliorare la produttività. Di rilievo è in questo senso l’introduzione dell’aggancio automatico dei vagoni abbinato all’automazione della disposizione dei treni e della sorveglianza degli invii. Il Governo ha ora deciso di avviare una consultazione e ha incaricato il Dipartimento competente di elaborare un documento in cui figurino due indirizzi strategici di fondo: l’uno che assegna la priorità all’equilibrio finanziario e l’altro orientato all’ammodernamento del settore attraverso il sostegno finanziario della Confederazione. Risulterà centrale la ponderazione tra i costi del nuovo servizio di interesse pubblico, che dal Rapporto, pur se ancora incompleti e da approfondire, sembrerebbero situarsi attorno ai 100 milioni di franchi all’anno, e i vantaggi. Si tratta essenzialmente del contributo al raggiungimento degli obiettivi della politica climatica ed energetica e della salvaguardia della funzionalità e sicurezza della rete stradale, in parecchi tronchi già satura o minacciata di diventarlo, che altrimenti sarebbe sottoposta a un nuovo traffico pesante. Il Parlamento dibatterà la proposta verosimilmente nel 2023.
Quota di mercato complessiva della ferrovia nel traffico merci (rispetto alle tonnellate – km nette) 60 50 40
in %
La ragnatela che ti imprigiona e la rete che ti salva
Il trasporto delle merci su ferrovia svolge in Svizzera un ruolo rilevante. Nel complesso la sua quota di mercato ha sfiorato nel 2020 il 37% a fronte del 63% assunto dal trasporto su strada. In nessun Paese europeo la posizione della ferrovia è così forte. La sua evoluzione a partire dal 1980 è tuttavia al ribasso. Cosa sta succedendo? Per capirlo meglio occorre distinguere tra i diversi generi di trasporto: quello in transito tra il nord Europa e l’Italia, quello interno tra le diverse regioni del nostro Paese e quello legato alle importazioni e alle esportazioni con l’estero. Sul fronte del transito il ruolo della ferrovia è dominante e in ascesa da oltre un decennio; nel 2021 il 75% del volume trasportato attraverso le Alpi ha infatti scelto la rotaia invece della strada. Carichi elevati su treni completi a lunga distanza le consentono di offrire prestazioni competitive, rafforzate recentemente dalla nuova trasversale alpina al San Gottardo e dall’apertura del corridoio per il traffico dei semirimorchi con altezza laterale fino a 4 metri. Inoltre il trasporto in transito è sostenuto fino al 2030 da contributi pubblici decisi nell’ambito della politica di trasferimento del traffico. Per i trasporti interni e quelli legati all’import-export il quadro è ben diverso. Sulle brevi e medie distanze l’offerta stradale risulta più flessibile, rapida e capillare; quella ferroviaria opera invece in modo più rigido e risulta economicamente efficiente solo se i volumi da movimentare sono consistenti. Per questo genere di trasporto la quota di mercato della rotaia si aggira così attorno al 20%. Oggi in questo campo le FFS offrono due tipi di servizio: il trasporto combinato, che veicola sui cosiddetti «treni-blocco» container, casse mobili e semirimorchi, oppure il trasporto con i tradizionali carri completi. Quest’ultimo servizio fa capo a sua volta a «treni-blocco» da origine a destinazione oppure, deve provvedere alla movimentazione di singoli carri attraverso i binari di raccordo di cui dispongono molte aziende oppure attraverso punti di raccolta presso una rete di stazioni. I carri vengono assemblati nei centri di smistamento per essere indirizzati verso la loro destinazione finale, dove l’operazione di distribuzione ai diversi recapiti si ripete scomponendo i treni in piccoli invii. Nel 2019 i carri trattati in questa modalità erano circa il 60% del totale. A partire dall’inizio degli anni ’70 del secolo scorso il trasporto merci in
30 20 10 0 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012 2014 2016 2018 2020
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Un villaggio intergenerazionale
Coldrerio ◆ Visita al cantiere del nuovo Parco San Rocco, un vero e proprio «quartiere per tutti» nato dalla collaborazione tra pubblico e privato Stefania Hubmann
Lo stato attuale del grande cantiere che prevede una casa per anziani, un centro polivalente comunale e un edificio con appartamenti a misura di anziano (Comune di Coldrerio), in basso: render della grande area comune nell’edificio che ospiterà la Casa per anziani. (Architetti Tibiletti Associati)
Una casa per tutti in un quartiere per tutti. L’innovativo concetto di villaggio intergenerazionale promosso dalla Fondazione Parco San Rocco di Morbio Inferiore sta per realizzarsi a un duplice livello. Da un lato la storica struttura per persone anziane di Morbio Inferiore aprirà in autunno una seconda sede nel vicino Comune di Coldrerio con la quale opererà in rete; dall’altro il nuovo Parco San Rocco è inserito in un progetto urbanistico che va a riqualificare l’intero comparto pubblico adiacente al nucleo del villaggio. Scuola dell’infanzia, scuola elementare e stabile amministrativo formeranno con i tre edifici nuovi – casa per anziani, centro polivalente comunale e complesso della Fondazione Ing. Giuseppe Croci-Solcà con appartamenti a misura d’anziano – il cuore pulsante della vita comunitaria locale. Dai più piccoli fino alle persone della quarta età, ognuno troverà spazi per le proprie esigenze e luoghi d’incontro interni e all’aperto che contribuiranno al benessere individuale e collettivo. Con John Gaffuri, direttore del Parco San Rocco, e gli architetti Catherine e Stefano Tibiletti dello studio Architetti Tibiletti Associati di Lugano, vincitore nel 2016 del concorso per il nuovo quartiere, abbiamo visitato il cantiere, in fase di ultimazione dopo tre anni di attività. I lavori all’interno dei tre edifici sono ancora intensi in vista delle consegne ai rispettivi committenti. Il Comune prenderà possesso del centro polivalente a luglio, così come la Fondazione Ing. Giuseppe Croci-Solcà dello stabile con otto appartamenti per anziani ancora autosufficienti, mentre la Fondazione Parco San Rocco (che ha beneficiato di un diritto di superficie da parte del Comune) accoglierà a inizio ottobre i primi ospiti nella casa per anziani. Quest’ultima è l’edificio più grande e articolato. Potrà ospitare 79 residenti, ma soprattutto sarà in grado di offrire servizi aperti al pubblico di cui alcuni all’avanguardia per una simile struttura. Il primo colpo d’occhio cade sull’ampiezza dell’area comune al pianterreno. John Gaffuri indica la suddivisione prevista: salone + ristorante per residenti ed esterni, bar, panetteria-pasticceria (già presente a Morbio Inferiore), gelateria, spazio riservato al preasilo, area di co-working, due ampie sale modulabili destinate anche ad uso pubblico. Il direttore pre-
cisa il concetto: «La casa vuole essere, oltre ad un invitante luogo d’incontro, uno spazio collettivo. Anche i locali amministrativi sono in parte concepiti secondo il principio della condivisione con postazioni di lavoro utilizzabili da più persone». Uno studio medico e un salone da parrucchiere completano i servizi pubblici al pianterreno. La trasparenza delle due pareti vetrate dell’area comune, dal lato dell’entrata e da quello rivolto verso il giardino della scuola dell’infanzia, è evidenziata dal direttore Gaffuri così come dagli architetti Tibiletti. Rappresenta infatti uno dei punti forti del progetto, ossia garantire la visuale verso l’esterno con l’effetto di una continuazione del parco attraverso l’ampia sala. «Questa soluzione sfrutta al meglio la luce solare – precisano i progettisti – collegando idealmente l’area verde della scuola dell’infanzia con quella ricavata nella corte formata dai due edifici più grandi (la casa per anziani e il centro polivalente). Un secondo spazio esterno è costituito dalla nuova piazza». Tornando all’interno della casa per anziani, da rilevare la collaborazione fra settore pubblico e privato – che riprende il concetto di condivisione – per quanto riguarda, oltre alla vasta sala, la cucina (che da settembre fornirà i pasti alla scuola dell’infanzia) e le camere mortuarie ricavate nel piano interrato. Nel sottosuolo trova posto anche il parcheggio dal quale si potrà accedere sia al Parco San Rocco, sia al centro polivalente. L’intera zona esterna del nuovo quartiere è invece pedonale con la rampa di accesso all’autosilo ricavata con discrezione ai margini della medesima. Anche ai piani superiori, riservati principalmente agli alloggi dei re-
sidenti, sono stati applicati nuovi approcci che lasciano intravvedere come potrà evolvere in futuro la vita in una casa per anziani. Al primo piano il reparto Alzheimer beneficia di un apposito giardino per questa tipologia di residenti (tredici posti) ricavato alla medesima altezza grazie allo sfruttamento del dislivello naturale del terreno. Innovativa, sempre al primo piano, l’area concepita per gli anziani che godono di maggiore autonomia (otto posti) con camere separate ma salone in comune. «Il progetto – spiega il direttore Gaffuri – si inspira a un’iniziativa austriaca incentrata sulla Wohngemeinschaft, esperienza che valorizza l’aiuto reciproco e la solidarietà tra persone residenti in una comunità. Questa offerta rappresenta una tappa intermedia fra l’appartamento indipendente e l’accoglienza nella casa per anziani». I vicini servizi di fisioterapia, ergoterapia e podologia assicurano un flusso quotidiano di persone, contribuendo così ad animare la casa pure al primo piano. Un balcone a ogni livello superiore, ma soprattutto spazi generosi per saloni e camere caratterizzano la parte residenziale del Parco San Rocco di Coldrerio. Sono frutto della precisa volontà di offrire un ambiente simile a quello domestico, volontà controbilanciata nei costi dalla decisione di utilizzare materiali semplici. Catherine e Stefano Tibiletti sottolineano come non si sia però rinunciato al pavimento in legno, essenziale nel conferire alla struttura l’aspetto di un’abitazione privata piuttosto che di un istituto sanitario. Siccome le esigenze degli anziani sono in veloce evoluzione, le camere sono state suddivise a due a due da pareti in cartongesso facilmente rimovibili, in modo da po-
terle trasformare senza ingenti spese in un mini appartamento. Spazi ampi e modulabili sono quindi una precisa strategia per affrontare le sfide dei prossimi decenni. All’esterno la scelta dei materiali è un ulteriore elemento che riflette il pregio architettonico dell’intero quartiere. La distinzione fra le parti private e quelle a uso pubblico, ad esempio, è di facile percezione, poiché le prime sono intonacate, mentre le seconde sono caratterizzate dal cemento armato faccia a vista. Così per il Parco San Rocco, la casa di appartamenti e il centro polivalente. Quest’ultimo ospita al pianterreno il centro giovanile con un suo spazio esterno, un asilo nido pure dotato di giardino e una sala per l’organizzazione di eventi pubblici; al primo piano trovano posto ludoteca, biblioteca e spazi riservati alle attività extrascolastiche; l’ultimo piano è invece riservato alla cancelleria comunale. Per realizzare il nuovo quartiere intergenerazionale è stata determinante la collaborazione fra fondazioni private ed ente pubblico che condivideranno alcuni servizi. In effetti anche gli appartamenti per persone ancora autonome potranno beneficiare di alcune prestazioni garantite dalla casa per anziani. Ogni ente si è inoltre assunto una parte dell’investimento: circa 32 milioni di franchi la Fondazione Parco San Rocco per la casa per anziani, 8 milioni il Comune di Coldrerio per il centro polivalente e 2 milioni la Fondazione Croci-Solcà. Riprendendo il titolo del progetto nell’ambito del concorso pubblico, si può affermare che lo spirito del «Marigold Hotel» – film in cui un gruppetto di pensionati britannici desidera trasferirsi in un esotico albergo in India – sta per essere tradotto in realtà. La nuova residenza si vuole appunto più albergo che casa per anziani con l’obiettivo di continuare ad amare la vita nella terza e quarta età proprio come sostiene il credo della Fondazione Parco San Rocco. L’edificio solo all’apparenza è posizionato in modo divisorio rispetto al parco, perché grazie all’uso delle trasparenze riesce ad unire visivamente spazi diversi occupati in gran parte, ma non solo, da bambini e anziani. I primi già vivono le loro scuole e continueranno ad animare il quartiere, i secondi sono attesi fra qualche mese, una volta concluse le rifiniture dei tre edifici.
La sorte delle piante Botanica ◆ Diversi appuntamenti alle Isole di Brissago in occasione della rassegna nazionale
La complessità e le conseguenze del cambiamento climatico sono al centro delle riflessioni proposte dalla rassegna BOTANICA che si svolge dall’11 giugno al 10 luglio e coinvolge tutti i giardini botanici della Svizzera. Per l’occasione, come comunica il Dipartimento del Territorio, anche le Isole di Brissago offrono diverse attività sul territorio. Il tema della rassegna è Il cambiamento climatico e il regno vegetale, in questo ambito i giardini botanici della Svizzera si impegnano a coinvolgere il grande pubblico con l’obiettivo di informare e sensibilizzare su argomenti legati alla natura e alla botanica. Quest’anno si esplora dunque soprattutto la relazione tra cambiamento climatico e regno vegetale, con un’attenzione particolare alle piante alpine. Il programma del Giardino botanico cantonale prevede una serie di eventi di vario genere: escursioni, conferenze e visite guidate speciali. Dopo l’escursione La vegetazione forestale della Valle Onsernone: cent’anni fa, oggi e nel futuro, svoltasi sabato scorso in compagnia dell’ingegnere forestale Gabriele Carraro, sabato prossimo, 18 giugno, Marco Gaia, responsabile centro regionale sud MeteoSvizzera, terrà la conferenza Il
clima cambia, anche da noi, soffermandosi sull’impatto che ha oggigiorno il cambiamento climatico sui nostri paesaggi, gli ecosistemi, la fauna e la flora. Mentre domenica 3 luglio Ivan Scotti, direttore di ricerca INRAE, condurrà l’evento Foreste e cambiamento climatico: vincerà l’adattamento o l’estinzione? Le due conferenze si terranno presso l’Aula Magna del DFA della SUPSI di Locarno (orario: 10.00-12.00). Infine, sulle Isole di Brissago, sarà proposta sull’arco di cinque giornate la visita guidata speciale Ginestre e arachidi, che consentirà di scoprire il mondo delle leguminose (la prossima è prevista il 15 giugno alle 14.30, durata 1 ora). Tutte le attività proposte sono gratuite. Per motivi organizzativi, è obbligatoria l’iscrizione alle visite guidate tramite il sito internet delle Isole di Brissago: www.isoledibrissago.ch
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Fichi d’India e deserti rugiadosi
Biologia ◆ Sebbene occulta, la rugiada è un’essenziale fonte di rifornimento idrico: ettolitri di acqua che nessuno strumento può registrare Alessandro Focarile
Ustica, con una superficie di otto chilometri quadrati, è un’isoletta vulcanica a Nord di Palermo, in Sicilia. È la primavera, il periodo propizio per realizzare un’esplorazione naturalistica dell’isola, che si esprime con il giallo delle cespugliose euforbie, delle esili ferule (cugine dei finocchi), e delle sgargianti ginestre. Il tutto circondato da un mare di cobalto. Qui regna il fico d’India (Opuntia ficus-indica), una vistosa e singolare cactacea caratteristica per il suo sviluppo cespuglioso e per le sue grandi «pale». Con innumerevoli fiori gialli che, durante la prossima estate, si trasformeranno in scialbi frutti dolciastri, con molti semi e pericolosamente spinosi. Originaria del Messico, reminiscenza dei primi conquistatori spagnoli (che credevano di trovarsi nelle «Indie occidentali»), l’Opuntia si è rapidamente diffusa e naturalizzata lungo tutte le coste del Mediterraneo diventando emblematica del paesaggio. Verso Nord si è spinta fino a occupare le aride pendici nel Sud Tirolo (Alto Adige) e in Valtellina, lungo le rotte degli uccelli migratori, veicolatori dei semi prelevati dalle coste del Mediterraneo. È ottima come frangivento e per delimitare i confini delle proprietà, formando una barriera impenetrabile.
Animali e piante che popolano le zone aride e desertiche hanno elaborato efficaci meccanismi fisiologici per utilizzare la rugiada Dopo una notte calma e serena, le «pale» condensano notevoli quantitativi di acqua sotto forma di rugiada, e questa è quanto basta per lavarsi al mattino. È «acqua dolce» che ha origine da un mare di «acqua salata». Chi ha montato la tenda nel bosco, in riva al mare, oppure attraversa un prato di prima mattina, conosce la rugiada. «Anche la superficie della mia tenda l’ho trovata bagnata al mattino» scriveva Umberto Mònterin durante la sua spedizione scientifica nel Sahara libico del 1938. Infatti, le regioni desertiche, e le montagne oltre una certa altitudine – sottoposte a un brusco ricambio termico della temperatura al suolo tra il giorno e la notte (che può raggiungere i 60°C) – presentano tutte le condizioni che favoriscono la condensazione notturna del vapore acqueo, la sua trasformazione in rugiada, il suo deposito sugli affioramenti rocciosi, al suolo e sulla vegetazione sotto forma di goccioline. Stiamo parlando di migliaia di ettolitri di acqua dolce che nessuno strumento può registrare. Ma, nondimeno, costituiscono un notevole e prezioso apporto al bilancio idri-
co di una regione. Nelle zone desertiche, come il Sahara, è l’unica fonte di alimentazione delle falde freatiche profonde, come ebbe la possibilità di verificare Mònterin (1938) nel deserto libico. Esperienze condotte in talune regioni caratterizzate da particolari condizioni climatiche e di terreno, hanno dimostrato che la formazione della rugiada può talvolta superare la quantità delle precipitazioni registrate dai pluviometri (strumenti per raccogliere e calcolare la quantità di pioggia e di neve). E questo può verificarsi in modo particolare nel Sahara, deserto che è stato considerato come un tipico bacino collettore di assorbimento del vapore acqueo. Un apporto non indifferente alle riserve idriche nel sottosuolo viene fornito dalle precipitazioni occulte (Mònterin, 1938). La grande superficie di condensazione di questo deserto, con la sua area di migliaia di chilometri quadrati, e la durata plurimillenaria del fenomeno, possono ben spiegare l’origine delle falde freatiche profonde, senza ricorrere a una ipotetica origine sotterranea delle stesse. Le quantità di rugiada possono variare da uno a tre millimetri (un millimetro è uguale a un litro d’acqua per metro quadrato). Quantità che si aggiungono all’eventuale e aleatoria quantità di pioggia. Con la fondamentale differenza che la rugiada è permanentemente assicurata, mentre le precipitazioni meteoriche sono notevolmente precarie e irregolari. Insetti, ragnatele, e rugiada. Animali e piante, che popolano le zone aride e desertiche presenti sulla Terra, hanno elaborato nel corso della loro evoluzione efficaci meccanismi fisiologici per utilizzare la rugiada. In Sud Africa esiste una vasta regione desertica che si affaccia sull’oceano Atlantico. È la Namibia, una terra che si estende lungo una fascia di 1500 chilometri e larga fino a 150 chilometri: un deserto immutato da 80 milioni di anni; l’età giurassica dei dinosauri, tuttora uno zoo di arcaici esseri viventi. Il deserto più arido e desolato tuttora esistente, che riceve 10 miseri millimetri di pioggia all’anno. Eppure, anche in situazioni ambientali così estreme, c’è vita vegetale e animale grazie alla rugiada notturna che consente la sopravvivenza in questi luoghi. Un esempio è offerto dalla presenza di 200 specie di coleotteri: i tenebrionidi. Singolari esseri «deserticoli», che sono evoluti attraverso milioni di anni, realizzando sofisticati meccanismi fisiologici di sopravvivenza. La loro unica fonte di alimentazione è costituita dai detriti vegetali trasportati dal vento, e la loro unica fonte di acqua è la rugiada notturna. Essi inclinano il corpo verso il capo, e le
(Pixabay.com)
goccioline di rugiada condensate sulle elitre raggiungono la bocca! Il più grande pericolo, che le formiche incontrano nell’ambiente che le ospita, non è l’eccesso di caldo oppure di freddo, o l’annegamento (la maggior parte può vivere sott’acqua per ore, o addirittura per giorni), ma la siccità che provoca la letale disidratazione. Le colonie della maggior parte delle specie hanno bisogno di una umidità ambientale più elevata di quella presente nell’aria esterna. Possono morire entro poche ore se sono esposte a un’aria molto secca. Per tale motivo, talune specie di formiche realizzano una varietà di tecniche (alcune rasentano la bizzarria) per innalzare e regolare l’umidità dell’aria nel nido. Per esempio: i monticelli sembrano essere costruiti per mantenere non solo la temperatura, ma anche l’umidità entro limiti tollerabili all’interno del formicaio. Inoltre, le operaie nutrici spostano continuamente le uova e le larve attraverso i corridoi verticali per assicurare l’umidità ottimale. Una forma di regolazione molto differente dell’umidità è praticata da una formica cacciatrice gigante dell’America centro-meridionale. Durante
la stagione secca, le colonie che vivono in ambienti aridi sono in costante pericolo di disidratazione. Per tale motivo, squadre di formiche operaie compiono ripetuti viaggi per raccogliere la rugiada dalla vegetazione prossima al nido. Conservano le goccioline tra le mandibole spalancate senza rompere la membrana di tensione superficiale delle stesse, e le trasportano nel nido alle compagne assetate. L’acqua che avanza viene quindi offerta alle larve, cosparsa sui bozzoli che contengono i futuri adulti. Grazie a queste brigate di «addette ai secchi», le foraggiatrici mantengono la parte interna del nido molto più umida del suolo circostante (Hölldobler & Wilson, 1997). Il sistema Warka-Water, progettato e realizzato dall’architetto italiano Arturo Vittori in Etiopia, ha la forma stilizzata di un albero, grazie a speciali reti che richiamano la condensazione della rugiada sulle ragnatele dei ragni. Appositamente ideate per una alta efficacia di condensazione, queste strutture sono in grado di produrre fino a 100 litri di acqua al giorno ottenuti dall’atmosfera per condensazione notturna del vapore acqueo in ambienti aridi come quelli presenti in Etiopia. (Mancuso, 2017).
Persino strutture all’apparenza delicate, come sono le ragnatele, possono essere motivo di ispirazione per realizzare strumenti tecnicamente perfetti per ottenere acqua. Per molti secoli, fin dall’epoca dei Sumeri (5mila anni or sono), queste tecniche a lungo dimenticate hanno fornito l’approvvigionamento di acqua alle popolazioni stanziate in molte aree del Medio Oriente, e hanno consentito la sopravvivenza dell’uomo anche in zone inospitali come il Sahara. Dalle «pale» dei fichi d’India e dall’ispirazione tratta dalle ragnatele, molte sono le opportunità che offre la Natura all’uomo assetato. «Le parti dirette delle loro foglie stanno volte verso il cielo per ricevere il nutrimento della rugiada che cade la notte» (Leonardo da Vinci, 1452-1519) Bibliografia Bert Hölldobler e Edward O. Wilson, Formiche. Storia di un’esplorazione scientifica, Adelphi Edizioni (Milano), 1997, 350 pp. Leonardo da Vinci, Trattato della pittura. Condotto sul Codice urbinate-1270, ristampa anastatica, Newton Compton Editore (Roma), 2015, 324 pp. Stefano Mancuso, Plants Revolution. Le piante hanno inventato già il nostro futuro, Giunti Editore (Firenze), 2017, 265 pp. Umberto Mònterin, Questioni termiche e idrologiche del deserto libico, Bollettino Società Geologica Italiana (Roma), 1938, 116-150. Annuncio pubblicitario
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Settimanale di informazione e cultura
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SOCIETÀ
È possibile dimagrire con le erbe?
Fitoterapia ◆ Alcune saziano e tolgono l’appetito, dando un senso di pienezza, altre sono drenanti e agiscono sulla ritenzione idrica
La preoccupazione, o a volte si potrebbe definire ossessione, per il proprio peso riguarda un numero considerevole di persone. Si moltiplicano nella rete sempre più allettanti offerte di dimagrimenti miracolosi. Qualcuno si è già spinto a definirlo «male del secolo»; per molti, essere magri significa essere belli. Da un punto di vista medico va anche detto che non raramente dimagrire è indispensabile, quanto a riuscirci il discorso cambia. Molti i fattori che causano il sovrappeso: cattiva o eccessiva alimentazione, ridotto dispendio energetico, vita troppo sedentaria, stress, carenze affettive varie che inducono a ricercare compensazione nel cibo. Il trascorrere degli anni favorisce questo rischio; molte donne in età di menopausa subiscono a questo proposito gli effetti della modificazione ormonale. Fabio Firenzuoli, docente di Fitoterapia clinica all’università di Firenze e autore di testi e pubblicazioni scientifiche e divulgative, nei suoi libri si avvale della sua esperienza di lavoro in una struttura ospedaliera. Con Francesco Epifani e Valeria Severi ha pubblicato Dimagrire con le erbe (edizioni Lswr, 2016), libro purtroppo difficilmente reperibile che è un resoconto, rigoroso da un punto di vista clinico, di storie di vita di pazienti che sono riusciti a perdere peso. Gli abbiamo chiesto se con le sole piante si riesce a dimagrire e in che modo queste producano effetti sul nostro organismo: «Occorre diffidare – ci ha spiegato – di certe facili offerte di pillole, beveroni, compresse varie che se usati incautamente possono addirittura compromettere lo stato di salute. Le erbe vanno utilizzate co-
me complemento e sempre inquadrate in un programma che aiuti il nostro organismo e lo indirizzi verso sani e corretti comportamenti alimentari, nel contesto dello stile di vita, del rispetto del proprio corpo e delle proprie condizioni di salute; anche le erbe possono avere effetti collaterali. Ci sono erbe specifiche per ogni caso, ad esempio – continua Firenzuoli – ci sono erbe che saziano e tolgono l’appetito e hanno un’azione simile alle anfetamine perché danno un senso di sazietà, altre che sono drenanti e agiscono sulla ritenzione idrica. Altre piante ancora che sono ricche di fibre vanno assunte prima dei pasti se ci sono soggetti che hanno una funzione intestinale molto lenta». Le erbe drenanti agiscono sul sistema linfatico, eliminano scorie e tossine (rimaste da un drenaggio insufficiente e causa della ritenzione idrica con gonfiori in diverse zone del corpo, come ad esempio la cellulite che riguarda particolarmente le donne. Piante drenanti o diuretiche sono il ciliegio, la betulla l’orthosiphon, la pilosella, l’ortica; molto amata è la linfa di betulla, prelevata direttamente dagli alberi, che si consuma fresca o fermentata. La betulla è inoltre ricca di antiossidanti e vitamina C. Anche il tarassaco, altresì detto dente di leone, l’equiseto o coda cavallina, sono pure drenanti e mineralizzanti. Inoltre agiscono a livello epatico. Con la bollitura dei peduncoli di ciliegio si ottiene un ottimo decotto diuretico. Fra le erbe sazianti, che cioè agiscono anche sul controllo della fame, troviamo l’ananas, la quercia marina, la garcinia cambogia, e la rodiola che interviene anche sul normale to-
Pxhere.com
Eliana Bernasconi
no dell’umore. Dell’ananas si utilizza il gambo ricco di un enzima che ha un effetto antiedematoso e antinfiammatorio, inoltre combatte la cellulite. La garcinia cambogia, che è il frutto di una pianta subtropicale originaria della Cambogia provoca sazietà e controlla la fame nervosa. Stimolano il metabolismo lento e sono ricche di minerali e fibre che aumentano il senso di sazietà anche la quercia marina (fucus) e altre alghe come quelle marine ricche di iodio, che agiscono sulla sintesi degli ormoni tiroidei e favoriscono il metabolismo I benefici del tè verde sono ben noti a chi lo consuma da sempre e ne è entusiasta: ha un spiccata azione antiossidante, è drenante e accelera il metabolismo corporeo favorendo la combustione dei grassi in eccesso. Un
effetto simile lo produce anche il caffè verde, composto da semi di caffè crudi e non tostati che non hanno subìto il processo di torrefazione: aiuta la digestione, agisce sul metabolismo, aumenta l’energia corporea e favorisce la concentrazione. Un’altra efficace erba drenante è la pilosella, della famiglia delle asteraceae. Pianta dai caratteristici piccoli fiori gialli presente in tutta Europa, era consigliata già nel Xll secolo da Santa Ildegarda di Bingen come tonico del cuore e diuretico; la tintura madre è usata nel trattamento dell’obesità. La centella asiatica stimola la circolazione degli arti inferiori ed è un drenante naturale contro il gonfiore delle gambe e la cellulite mentre ripara e protegge i tessuti, stimola la secrezione e il corretto deflusso della bile.
Anche il guaranà, ricavato dai semi di un rampicante sempreverde originario dell’Amazzonia, può essere un sostegno complementare per chi vuol perdere peso, contiene caffeina ed è per questo stimolante; i suoi frutti, quando si aprono, assumono la forma di un occhio con l’iride nera. Leggiamo che un’antica leggenda indio narra che la dea della bellezza fece nascere la pianta di guaranà dagli occhi di una fanciulla che morì strangolata da un serpente insieme al suo innamorato. A conclusione di queste informazioni, come sempre, sottolineiamo che le piante non sono certo sempre innocue, possono avere effetti collaterali e interagire con altri farmaci, quindi per la loro scelta, uso e dosaggio occorre sempre consultare e farsi seguire da un medico.
Gli uccelli dei nostri giardini Mondoanimale
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È stata un successo la computa dei volatili che frequentano gli spazi verdi privati, svizzeri e ticinesi
Maria Grazia Buletti
«È di nuovo il momento di preparare il binocolo e drizzare le orecchie!». Questa l’esortazione di BirdLife Svizzera e Ficedula che durante la prima settimana di maggio hanno invitato la popolazione a partecipare all’iniziativa «Uccelli dei nostri giardini». Il progetto chiedeva di passare un’ora a contare gli uccelli intorno a casa o in un parco vicino. Una partecipazione a priori definita facile e divertente dai due sodalizi: «Partecipare a questo tipo di azione permette di sperimentare qualcosa di coinvolgente, e di scoprire se l’habitat attorno a casa propria è adatto agli uccelli». C’è sempre qualcosa di interessante da osservare: «La famiglia di passeri sul tetto della vostra casa o i rampichini e le tortore dal collare sugli alberi del giardino». È un’attività sempre consona a tutti, giovani e meno giovani: «Questo tipo di partecipazione è facile e non sono necessarie conoscenze particolari; coloro che non hanno un giardino proprio possono registrare gli uccelli dal loro balcone o in un parco vicino, mentre le osservazioni vanno segnalate comodamente su www.birdlife.ch/azione o con la nuova app «Vogelführer BirdLife Schweiz». Questo è l’anno in cui BirdLife Svizzera festeggia il suo centesimo
compleanno, con l’obiettivo di superare il precedente record di 7072 partecipanti fra persone, famiglie e classi scolastiche. Dal canto suo, anche Ficedula nel nostro Cantone ha spronato la popolazione a esplorare le aeree verdi della propria abitazione (sempre per un’ora fra il 4 e l’8 maggio), anche solo affacciandosi dal balcone o passeggiando in un parco, per vestire i panni di un birdwatching occasionale ma non per questo meno attento, dato che tra le richieste vi era quella di evitare i conteggi multipli degli stessi individui. Dopo l’ora di osservazione, le segnalazioni sono state inoltrate a chi di dovere e i dati valutati e poi condivisi coi partecipanti. A conti fatti, sono comunque notevoli i risultati di questo 2022, anno particolare che segue il lunghissimo periodo pandemico. Per quanto attiene a BirdLife, in Svizzera, «più di 4200 persone sono uscite a cercare gli uccelli intorno alle loro case». Insieme hanno riportato 135’4 45 uccelli, le cui specie più frequenti sono state, in ordine: «Merlo, Passera europea e Cornacchia nera, seguite da Cinciallegra, Gazza e Codirosso spazzacamino». In termini di numero di individui segnalati, tuttavia «i Passeri europei sono in testa con 26’867 soggetti, mentre negli ultimi anni sono state
registrate sempre più Cornacchie nere e Tortore dal collare. Viceversa, è diminuito il numero di segnalazioni di Martin pescatore e Verdone». Secondo gli esperti la valutazione dei risultati mostra anche altro: «Gli uccelli preferiscono giardini naturali con piante autoctone e molte strutture come cataste di legno o anche uno stagno». Strutture che forniscono, tra le altre cose, anche un habitat per gli insetti come importante fonte di sostentamento per gli uccelli, soprattutto durante la stagione della nidificazione: «In media, in questi giardi-
Una cinciallegra sul binocolo. (BirdLife)
ni naturali sono state registrate 12,3 specie. Al contrario, sono state contate solo 7,2 specie nei giardini dove mancano questi importanti elementi di habitat». Per quanto attiene all’iniziativa svoltasi nel canton Ticino, Chiara Scandolara di Ficedula dice che si sarebbe aspettata una maggiore partecipazione: quest’anno infatti è stata un po’ debole rispetto al record raggiunto nell’anno di pandemia e di lockdown quando, spiega, «le persone avevano più tempo da mettere a disposizione». A ogni modo, la più che soddisfacente partecipazione si è attestata attorno alle 200 persone, che hanno osservato un totale di 3508 individui di ben 89 diverse specie, spiega Chiara: «Al primo posto sempre il Merlo. Poi, invece della Passera europea in Ticino abbiamo naturalmente la Passera d’Italia». Il resto della classifica rispecchia più o meno quella di BirdLife del resto della Svizzera: «Seguono Cinciallegra e Codirosso spazzacamino; al posto della Cornacchia nera c’è quella grigia. Infatti, sia per i Passeri sia per le Cornacchie, la Svizzera italiana ha queste sue specie diverse, tipiche di quest’area biogeografica, ma rimangono comunque molto comuni». A suffragio di ciò, la nostra esperta spie-
ga: «La Gazza è molto più comune al nord delle Alpi che non in Ticino (la ritroviamo rispettivamente dal quinto all’ottavo posto). Anche se negli ultimi anni si è notata una sua grande espansione pure nel nostro Cantone». Così come BirdLife, anche Ficedula ha sempre molto a cuore il miglioramento dell’habitat degli uccelli dei giardini, e si batte a favore della biodiversità: «Realizziamo numerosi progetti di conservazione per le specie in pericolo e i loro habitat, dalla Civetta al Martin pescatore, passando per l’infrastruttura ecologica». L’obiettivo generale è quello di rendere tangibile la natura, motivando le persone a proteggerla. Questo è possibile con differenti iniziative anche a livello nazionale: «Dai centri natura BirdLife, alla rivista “Ornis” e a una vasta gamma di corsi». Interessante, a questo proposito, la mostra itinerante In volo per la biodiversità attualmente in viaggio in circa cinquanta località della Svizzera: «Il fulcro della mostra interattiva sulle infrastrutture ecologiche è un simulatore di volo che permette ai visitatori di volare come una farfalla attraverso un prato». Un’esperienza virtuale che, secondo il sodalizio promotore: «Scatena una sensazione molto simile alla felicità».
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SOCIETÀ / RUBRICHE
L’altropologo
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di Cesare Poppi
L’Anatroccolo che non tornò mai più ◆
Shams al-Din Abu’Abdallah Muhammad ibn’Abdallah ibn Muhammad ibn Ibrahim ibn Muhammad ibn Yusuf Lawati al-Tanji ibn Battuta (l’Altropologo chiede scusa, ma l’anagrafe richiede precisione), vissuto fra il 13041368 o ’69, è una delle figure più affascinanti dei secoli d’oro dell’Islam. Allora la dottrina del Profeta – sicura del suo progresso trionfante e libera da complessi di sorta – poteva permettersi dispute teologiche nelle quali i nomi di Platone e Aristotele – i testi dimenticati dei quali, occorre ricordare, venivano trascritti dal greco e interpretati dagli Ibn Sinna (Avicenna) e dagli Ibn Rosh (Averroè) del mondo islamico per poi essere trasmessi all’Occidente cristiano – figuravano autorevolmente nelle librerie dei maggiori interpreti dell’ortodossia coranica. Secoli di grande apertura, di dispute anche aspre condotte da spiriti liberi di chi sa che i sette fondamentali pilastri dell’Islam non saranno comunque mi-
nati alle fondamenta. Dall’Africa alla Cina e all’Indonesia il libro faceva più convertiti della spada: e parlo qui non solo del Libro per eccellenza, ma anche dei libri contabili di quella classe di mercanti globali che poteva contare sulla forza persuasiva di piastre e piastroni che da Venezia alle Molucche liquidavano attriti, disaccordi e contenziosi in contante sonante piuttosto che veder scorrere sangue. Ibn Battuta – lo chiameremo (con rispetto) secondo il suo nomignolo che significa «Anatroccolo» – era nato a Tangeri il 24 febbraio 1304 da una famiglia di origine Berbera (come la madre di Sant’Agostino) che praticava la professione di giudici secondo la giurisprudenza coranica. Educato anch’egli nella professione di famiglia, sedere in giudizio a dirimere questioni di lana caprina non era per lui. Nel giugno del 1325, all’età di 21 anni, decise di compire l’haji alla Mecca e salutò la madre in lacrime il 13. Nella
La stanza del dialogo
primavera del 1326 arrivò ad Alessandria, essendosi lasciato alle spalle il primo di una serie di «matrimoni da viaggio» contratto a Sfax. A 3500 km da casa, il vecchio saggio Sheikh Burhanuddin ne divinò la natura di viaggiatore vocato alla conoscenza di luoghi e popoli lontani «Vai in Cina da mio fratello Fariduddin, da mio fratello Rukonuddin in Sindh (Pakistan) e da mio fratello Burhanuddin in India e porta loro i miei saluti – tanti auguri a te e buon viaggio». Cairo, Damasco, Gerusalemme, Medina, Mecca: il prestigioso titolo di Al Haji lo compensava degli slalom fra predoni e ostacoli di ogni sorta. Tempo di andare oltre nel nome di Allah Onnipotente e Misericordioso. Decise di proseguire verso Nordest, attratto da quanto si andava raccontando nei caravanserai sui misteriosi e crudeli Mongoli. Jeddah, Baghdad, Basra, Isfahan per poi virare di nuovo verso Baghdad che descrive ancora sofferen-
te dalle devastazioni dei Mongoli cinquant’anni prima. Era il 1327. Tornato alla Mecca per una seconda visita esausto per una diarrea durata mesi, nel 1328 era di nuovo on the road. Prima a Sana’ (Yemen), poi Aden e l’imbarco verso il Sud: Mogadiscio viene descritta come una città grande e ricchissima, Malindi e Zanzibar come avamposti del commercio di avorio e schiavi con l’interno dell’Africa. Fra il 1332 e il 1347 vediamo Ibn Battuta incassare l’oracolo alessandrino: Antalya e l’Anatolia verso Azov per poi piegare a Sud-Est. Bukhara, Samarcanda e finalmente il Pakistan. Da qui passò in India. Il sultano mongolo Mohammad Ibn Tughlaq che governò Delhi fra il 1325 e il 1351 lo nominò giudice. Finì che Ibn Battuta non facesse pane con quello che era considerato l’uomo più ricco del mondo islamico e, dopo sei anni, Ibn Battuta si trovò in rotta col Sultano con l’accusa di tradimento. Ora di cambiar aria.
Nel 1341 il Nostro partì per la Cina. Pechino, Quanzhu, Malesia, Sumatra… poi Sri Lanka e Damasco ancora: tempo di rientrare a casa. Dopo un detour in Sardegna, così, tanto per…, nel 1349, 25 anni dopo la sua partenza, riapparve a Tangeri dove scoprì che sua madre era morta solo qualche mese prima. Tempo di appendere gli scarponi al chiodo? Nient’affatto. Fra il 1349 e il 1354 Ibn Battuta compì un viaggio che ha ancor più del leggendario di quanto da lui fino allora percorso. La misteriosa, sfuggente e remotissima Timbuktu fu la meta di un viaggio lungo le rotte carovaniere del Sahara che resta ancor oggi iscritto nell’albo d’oro dei Grandi Viaggi. Si calcola che laddove Marco Polo abbia viaggiato 24’000 km e Zheng He 50’000, Ibn Battuta ne abbia percorsi 117’000. Non male per un Anatroccolo a piedi che – si dice – non fosse poi nemmeno quel capolavoro di bellezza…
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di Silvia Vegetti Finzi
Gli adolescenti e le identità sessuali fluide ◆
Cara Silvia, sono una nonna in difficoltà con la nipote Laura (nome di fantasia) che vive con me e mio marito, due musicisti in pensione. La ragazzina ha 16 anni, frequenta il Liceo con buoni risultati e, a dir la verità, da piccola non ci ha mai dato problemi. Chi ce ne ha dati troppi è invece sua madre che, per una delusione d’amore, è precipitata anni fa nell’inferno della dipendenza. Laura è stata concepita, non si sa con chi, proprio in quel periodo e, sin dalla nascita, ci è stata affidata mentre la madre scompariva per tornare solo ora, rimessa in sesto ma non del tutto. Di quel doloroso passato permangono conseguenze fisiche e psichiche incancellabili. Laura si rifiuta di avere rapporti con lei, che considera estranea e inopportuna. Gli insegnanti consigliano una psicoterapia ma restano inascoltati, convinta com’è di non avere problemi. Invece ne ha eccome! Nonostante un corpo molto femminile si
dichiara maschio e, da un anno, si fascia il seno, indossa pantaloni e magliette larghissimi e pretende di essere chiamata Kalvin. Eppure è brava a scuola, dolce, obbediente ma terribilmente chiusa, isolata, infelice. Che ne pensa professoressa? / Una nonna Cara nonna, questa situazione, che può sembrare rara, risulta invece sempre più frequente in entrambi i sessi: ragazze che si sentono ragazzi e viceversa. Definire la propria identità, liberandola dalle attribuzioni familiari, è un compito specifico dell’adolescenza. Lo è sempre stato ma, in passato, erano già pronti gli stampi della tradizione. Per le fanciulle: la fidanzata, la suora, la zitella, l’insegnante tutta dedita alla scuola, l’artista ribelle o l’intellettuale, come Jo in Piccole donne crescono. Ora invece, nella società delle scelte, sembra possibile tutto e il contrario di
Mode e modi
tutto. La libertà è diventata irrinunciabile ma dobbiamo riconoscere che rende la vita difficile, una sorta di corsa a ostacoli. A ogni snodo dell’esistenza si presenta un’alternativa: quale scuola? quale professione? sposarsi o convivere? madre o non madre? E così via sino all’estrema vecchiaia, che scende inesorabile per tutti. Poiché a sedici anni è facile sentirsi soli, ignorati e insignificanti, può darsi che Laura cerchi, esibendosi come maschio, di dare scandalo per suscitare interesse e acquisire tra i coetanei quella popolarità che costituisce, per le ultime generazioni, un valore aggiunto. Ma vi è anche una sottocultura che predispone i giovani alle metamorfosi di genere. Social e mass-media mostrano ogni giorno l’immagine di personalità di successo che, ricche e felici, ostentano identità sessuali fluide, relazioni variabili, corpi plastici e malleabili, apparen-
temente sottratti all’usura del tempo e della vita. Una magia che seduce il narcisismo degli adolescenti, l’onnipotenza della loro fantasia. Può darsi che questa suggestione risulti particolarmente avvincente per Laura, una figlia che si trova nell’impossibilità di confrontarsi con una madre che non c’è, che non c’è mai stata, incapace di affrontare un conflitto che costituisce una tappa di crescita: essere e non essere come lei. Inoltre la società invia ai giovani, soprattutto alle ragazze, ingiunzioni stereotipate e contraddittorie: vestiti come ti pare ma segui la moda, mangia quel che preferisci ma non ingrassare, sii spregiudicata ma resta nel tuo ruolo. Un ruolo che continua a proporre una femminilità rosa shocking che induce le adolescenti a sentirsi sbagliate e a ribellarsi dicendo: io sono diversa, anche se non vi va bene. Una certa ribellione fa parte dell’a-
dolescenza, costituisce un ingrediente necessario per diventare sé stessi, ma se avete l’impressione che Laura la viva con sofferenza, c’è qualcosa che non va ed è giusto aiutarla a fare chiarezza. Inutile criticare, proibire e condannare, meglio ascoltarla perché possa, in un clima di confidenza, comprendere il senso e le conseguenze della sua scelta. Sappiate che sarà una scelta reversibile finché non s’innamorerà davvero di una persona del suo stesso sesso e non per rendersi interessante o indurvi a occuparvi di lei, ma perché solo così si sente autentica. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
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di Luciana Caglio
Giocare con le parole: non solo uno svago ◆
È ormai un rito irrinunciabile, una gradevole dipendenza, l’appuntamento che, nei giorni feriali, dopo le 18, mobilita molte famiglie ticinesi davanti al teleschermo per seguire un programma di cui saranno spettatori direttamente coinvolti. Qual è Zerovero, un gioco dove i concorrenti si cimentano con parole: da decifrare e coordinare, secondo criteri sia logici sia stravaganti. Lo conduce Luca Mora, con un’affabilità tutta nostrana. Aggettivo che, qui, non è sinonimo di provincialismo. Definisce la capacità professionale di farci sentire a proprio agio, in una famiglia allargata. Negli studi della RSI, dove i partecipanti affrontano l’incognita di una gara, in cui è questione di memoria, prontezza, cultura generale e fortuna. Mentre, sul divano del soggiorno, gli spettatori si mettono alla prova, attingendo al serbatoio delle nozioni scolastiche e delle informazio-
ni sull’attualità politica, lo spettacolo, lo sport, diffuse da giornali e notiziari. Il nostro simpatico Luca deve, tuttavia, affrontare la concorrenza degli agguerriti conduttori d’oltre confine che, fra le 19 e le 20, guidano sui canali della RAI trasmissioni analoghe che, grazie a un’inimitabile prerogativa italiana, riescono a scovare veri e propri personaggi da commedia dell’arte. E così la gara diventa spettacolo. Come, a volte, avviene con L’Eredità, affidata a Flavio Insinna, che d’estate cede il posto a Reazione a catena, guidata da Marco Liorni. Di stagione in stagione, al di là della bravura di conduttori e concorrenti, il filone «parole» si conferma un successo, va di moda. E, come ogni moda popolare, non manca di suscitare reazioni di segno opposto. Scontate, le critiche che denunciano i danni di un tipico fenomeno contemporaneo: la smania di
comparire in giochi che banalizzano la cultura. Ma, in questo caso, la saggezza «o tempora o mores» inganna. Qui non si tratta di una pericolosa invenzione di oggi. Le sfide a base di parole hanno alle spalle quasi settant’anni di vita. Un capitolo di storia che ha caratterizzato la nostra quotidianità nei più svariati aspetti, cultura compresa. Nel 1955, Mike Bongiorno, italoamericano, nato e cresciuto a New York, propose alla RAI una primizia europea: Lascia o raddoppia, un gioco che vide protagonisti cittadini comuni, impegnati non soltanto in una competizione mnemonica e nozionistica. Doveva rivelare conoscenze, frutto di curiosità in settori particolari: poemi omerici, film hollywoodiani, calcio, archeologia, strumenti musicali. Fra i quali il controfagotto, che rese famoso il concorrente in grado di identificarlo. Non a caso, con Lascia e raddoppia era
nata una forma di svago che rispecchiava l’ambizione di farcela, di arrivare, tipica del dopoguerra. Il fenomeno meritò l’attenzione di Umberto Eco: gli dedicò un saggio intitolato, appunto, Fenomenologia di Mike Bongiorno. Sta di fatto che il giovedì sera l’appuntamento con Lascia o raddoppia accaparrava, quasi all’unanimità, il pubblico italiano e ticinese. A Lugano, come ricordo, i proprietari dei cinema decisero di chiudere sale senza spettatori. Folle di curiosi si assiepavano davanti alle vetrine che esponevano mastodontici televisori accesi. O chiedevano ospitalità nelle abitazioni già dotate di quel magico scatolone. Non fu un’infatuazione passeggera. Se ne resero conto studiosi del costume e del linguaggio. Gian Luigi Beccaria, nel 1985, decise di scendere, direttamente, in campo con la trasmissione Parola mia, condotta dal presentato-
re Luciano Rispoli. Si trattava di una gara sui generis: «Il grande gioco della lingua italiana dove si vince sempre». Per dire che qui si esplora un territorio ricco di segreti che ci concerne tutti quanti. Qual è il linguaggio, alle prese con una realtà in incessante cambiamento. L’italiano dell’OK, che subisce l’invasione dell’inglese, veicolato dalla tecnologia e dal divismo americano. E che, con la pandemia, ci ha imposto covid e lockdown. Impossibile citare i tanti modi di dire imposti da eventi del momento, e poi dimenticati. Nel 68 imperversarono «nella misura in cui» e «la fantasia al potere». Oggi, è la volta di «narrazione», in uso fra i commentatori della guerra. Anche «giovanilismo», «quarta età» e «verdismo» vanno per la maggiore. Mentre i giovani si salutano con «Bro»: cioè Brother. C’è da sperare che esprima un sentimento reale.
Settimanale di informazione e cultura
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azione – Cooperativa Migros Ticino 13
TEMPO LIBERO ●
Le orme di Francesco di Paola Un cammino tra i paesini di lingua e cultura arbëreshë attraverso una Calabria poco nota e lussureggiante
Bletilla, erbacea perenne Non sempre ciò che pare raffinato e delicato come un’orchidea necessita di cure continue
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Un tributo di sapori italiani Fagiolini piattoni con un gustoso condimento a base di acciughe, aglio, olio d’oliva e succo di limone
Nintendo Switch Sports Una collezione di giochi attivi divertenti: calcio, bowling, badminton, pallavolo e chanbara
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Quando gli alieni atterrarono a Gruyères Itinerari ◆ Nelle Prealpi friborghesi, uno dei luoghi più importanti del formaggio svizzero, sono ospitate le opere del noto artista fantascientifico Hans Ruedi Giger Nicola Mazzi, testo e foto
I contrasti, spesso e volentieri, generano meraviglia e bellezza. È un meccanismo comune che tutti noi abbiamo sperimentato nel corso della vita. Un sentimento che può essere risvegliato visitando il piccolo villaggio di Gruyères, nelle Prealpi friborghesi, uno dei luoghi più importanti del formaggio svizzero e quindi una località simbolo del nostro Paese. Un’ottima fondue fumante, in uno dei molti ristoranti situati sulla piazza principale del paese, può essere accompagnata da una visita al Museo dedicato ad Hans Ruedi Giger: artista svizzero, tra i più noti al mondo. E per chi conosce, anche un minimo, le sue opere, può ben intuire il genere di contrasto di cui si è parlato all’inizio di questo nostro articolo. I disegni di Giger, le sue sculture e le invenzioni sono apparentemente freddi e dallo stile industriale; un immaginario che entra per l’appunto in totale frizione con l’incantevole e incantato villaggio, e soprattutto con la calda e avvolgente esperienza culinaria offerta dal ristorante vicino. Vale la pena salire a piedi dal parcheggio alla base della rocca (il paese è off-limits ai veicoli) per accedere al borgo medievale (che ottenne nel 2014 l’attestato quale più bel villaggio della Svizzera romanda). C’è da restare esterrefatti quando, attraversata la porta incastonata tra le mura del villaggio, ti si apre davanti una bellissima piazza in leggera salita e delimitata da ristoranti e piccoli alberghi di due o tre piani, con, lassù in cima al paese, il castello del XIII secolo che ospita un museo dedicato a otto secoli di architettura, storia e cultura della regione. Un paesaggio bucolico, ancorato in un tempo lontano ma che vive ancora oggi grazie alla genuinità dei suoi prodotti caseari, da cui derivano varie specialità come la doppia panna, la raclette e la fondue. Ma, come si è detto, Gruyères è diventata terra ospitale anche di un artista come Giger. Nato a Coira nel 1940 e morto nel 2014, studia architettura d’interni e disegno industriale; una formazione che influenzerà tutte le sue opere. Premio Oscar per gli effetti speciali di Alien nel 1980, diventa famoso in tut-
to il mondo con una miriade di imitatori e ammiratori. Dopo il successo, nel 1997 acquista un altro castello del paese (il St-Germain) e nel giugno del 1998 lo trasforma in museo. Il museo è segnalato in modo inequivocabile: all’entrata ci sono un paio di statue, tipiche dello stile Giger, che ti fanno subito entrare nel suo mondo irreale, futurista e visio-
La porta oltre la quale si accede al borgo medievale. A sinistra, il mostro di Alien; sotto, scultura surrealista di una donna aliena.
nario. Poi varchi l’uscio e la ragazza addetta ai biglietti ti informa che l’esposizione può essere troppo violenta o sessualmente esplicita per i ragazzi e i bambini. Non c’è nessun divieto, ma un avvertimento che un genitore può seguire o no. Inizia con queste premesse il viaggio all’interno delle oscure visioni di questo grande pittore, designer e scultore svizzero. Il museo si sviluppa in diverse sale su più piani, sino alla mansarda. L’esposizione parte dai suoi primi lavori in china d’inchiostro (degli anni Sessanta) dove mescola le angosce personali alla paura prodotta da bomba atomica e guerre. Le sale successive mettono in evidenza il periodo più importante (gli anni Settanta e Ottanta) quando Giger, usando tra le altre tecniche l’aerografo, esplora e sviluppa un immaginario unico: sua è infatti l’invenzione dei biomeccanoidi, delle macchine organiche in cui il metallo e la carne si fondono per creare esseri spaventosi e inquietanti. L’impressionante cura dei detta-
gli (puoi stare a guardare un quadro per decine di minuti senza averlo scoperto del tutto) e la passione per i sogni e l’interno del corpo umano, oltre all’ammirazione per le macchine e il loro funzionamento sono il suo marchio di fabbrica, che riesce a traspor-
tare anche sul grande schermo. Nel 1975 arriva infatti una chiamata del tutto inaspettata: il cineasta e drammaturgo Alejandro Jodorowsky sta preparando un film tratto dal romanzo di fantascienza scritto da Frank Herbert: Dune. Anche se mai ultimato, questo lavoro gli permetterà di farsi conoscere da Ridley Scott che gli chiederà di realizzare appunto Alien con Carlo Rambaldi. A ciò succederanno altri lavori come Specie Mortale e, seppur in misura minore, due Alien vs Predator degli anni Duemila. Da quel momento, oltre al cinema, stringe altre collaborazioni come quella con i cantanti Emerson Lake & Palmer, Milène Farmer e Debbie Harry (Blondie). Proprio a quest’ultima, il museo dedica una parte dell’esposizione insieme a una collezione privata di artisti ammirati da Giger. Usciti da questo viaggio mostruoso, per finire in bellezza, si attraversa la stradina e si può entrare nel bar che l’artista ha costruito e modellato in stile gotico e che rappresenta l’in-
terno di un corpo: una sorta di cattedrale d’ossa che non puoi far altro che ammirare a bocca aperta e alzando la testa. Per terminare l’immersione nel mondo di quest’uomo visionario si può anche andare a rendergli omaggio sulla sua tomba, situata nel cimitero del paese. Anch’essa realizzata nello stesso inconfondibile stile delle sue opere. Gruyères è un luogo ameno, che ti abbraccia come faceva il nonno con Heidi quando le correva incontro. Ma nello stesso tempo ti mostra l’umano lato oscuro, che solo una mente libera e geniale come quella di Giger poteva far uscire e mostrare a tutti noi. Quando te ne vai, scendendo dal villaggio, ti resta attaccata una sensazione indescrivibile: un misto di dolcezza e angoscia. Un sentimento sfaccettato, ricco e profondo. Proprio quello che genera meraviglia e bellezza. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
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TEMPO LIBERO
Monumento a San Francesco camminatore; sotto e in basso: Cerzeto, canti arbëreshë; San Marco Argentano, veduta dalla torre normanna.
A piedi sui monti della Calabria Reportage
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Un viaggio nelle serre cosentine sulle orme di san Francesco da Paola
Natalino Russo, testo e foto
I cammini sono di moda, a cominciare dal celebre cammino di Santiago, che attrae ogni anno centinaia di migliaia di moderni pellegrini. In Italia invece sono assai popolari la via francigena e i diversi cammini legati a san Francesco. Tutto ben conosciuto, tracciato, descritto. Tanto che a volte mi sono chiesto se fosse ancora possibile fare nuove esperienze, percorrere sentieri meno battuti, itinerari quasi sconosciuti. Ho scoperto così che in Calabria le serre cosentine, tra Cosenza e il mar Tirreno, sono attraversate da un nuovo itinerario, ideato da un’associazione locale e dedicato a san Francesco da Paola (1416-1507). Negli anni Trenta del Quattrocento, Francesco Martolilla visse da eremita in un bosco nei dintorni di Paola. Presto la sua fama di santità richiamò numerosi compagni, poi raccolti nell’ordine dei minimi, detti anche paolotti, austera filiazione dell’ordine francescano: ai tre voti comuni a tutti i religiosi (povertà, obbedienza, castità) Francesco aggiunse infatti un’estrema frugalità, astenendosi dalla carne in una perpetua quaresima. Grazie ai numerosi miracoli – il più celebre è l’attraversamento dello stretto di Messina sul suo mantello disteso – san Francesco da Paola è diventato il protettore della gente di mare e il santo patrono della Calabria, venerato in tutta l’Italia meridionale.
San Francesco da Paola diventò protettore della gente di mare e santo patrono della Calabria dopo l’attraversamento miracoloso dello stretto di Messina che avrebbe compiuto distendendovi sopra il suo mantello Il cammino valorizza un entroterra tradizionalmente al margine dei flussi turistici. Certo, la cittadina di Paola è ben nota soprattutto ai calabresi e ai fedeli di buona parte dell’Italia meridionale, che vanno in pellegrinaggio al grande santuario dedicato al santo; ma i paesini dell’interno sono pressoché dimenticati. Il percorso si articola in sei tappe ed è diviso in due segmenti. La via del giovane, da San Marco Argentano a Paola, tocca i luoghi della giovinezza e dell’inquietudine del santo; mentre
la via dell’eremita, da Paola a Paterno Calabro, è il percorso che Francesco percorreva abitualmente tra i due conventi da lui fondati. Poco più di un centinaio di chilometri in tutto, la misura perfetta per una settimana di cammino. Si riceve una credenziale dove raccogliere i timbri (tra l’altro molto belli), corrispondenti a ciascuna tappa; una volta completato il cammino si ottiene un attestato (testimonium). L’itinerario è alla portata di chiunque abbia un minimo di allenamento e l’abitudine a camminare in montagna. La segnaletica è eccellente e dal sito ufficiale (www.ilcamminodisanfrancesco.it) si può scaricare la descrizione dettagliata del percorso e anche un’app ben fatta con le mappe e le tracce gps. C’è anche un servizio di guide, per chi vuole farsi accompagnare lungo il percorso. Pasti e pernottamenti sono garantiti da una rete di ostelli, B&B e osterie locali.
La partenza è a San Marco Argentano, dove una torre normanna testimonia l’importanza del centro nella storia di questa parte della Calabria. In particolare il cammino inizia dal convento della Riforma, dove si trova il pilastrino del chilometro zero. La prima tappa conduce all’ombra di alcuni colossali castagni, tra cui uno millenario chiamato patriarca di Kroj Shtikàn, e si conclude nel paesino di Cerzeto. Qui vivono poco più di mille persone; la maggior parte di loro parla arbëreshë, la varietà linguistica caratteristica degli eredi di una migrazione albanese risalente al XV secolo, ormai strettamente intrecciata alla cultura calabrese. Alcune donne del luogo vestono ancora l’abito tradizionale e conoscono i canti albanesi. Anche la cena a Cerzeto alterna prodotti calabresi e arbëreshë. La prosecuzione del cammino svela il carattere selvaggio di questa parte di Calabria. Si avanza in montaCerzeto, castagno secolare chiamato Patriarca di Kroj Shtikàn.
gna tra maestosi castagneti e faggete a perdita d’occhio, fino al rifugio di bosco Cinquemiglia. In alternativa si possono usare le strutture agrituristiche della zona, che offrono anche un servizio navetta per i camminatori. Pure la terza tappa si svolge in montagna, lontano dai centri abitati, e offre lo spettacolo della vista del mare dalla cresta delle Serre cosentine, dove è stato costruito un monumento a san Francesco in cammino. Nelle giornate limpide all’orizzonte si vede il vulcano Stromboli, nelle isole Eolie. Questa tappa si conclude con una lunga discesa che giunge al grande santuario di Paola, un concentrato di storie, episodi e simboli legati al santo. Il cammino prosegue con la via dell’eremita; una lunga salita riguadagna i monti coi loro placidi boschi. Oltre la cresta, il percorso scende dolcemente fino al paesino di San Fili, raccolto intorno a un colle sul percorso della statale silana-croto-
nese. All’uscita dal borgo il castagno secolare chiamato Curcio ’e Catalano precede di poco un ponticello in pietra e una salita fino a un ampio e piacevole altopiano, per poi ridiscendere a Cerisano. L’ultima tappa attraversa Mendicino, con la sua tradizione di lavorazione della seta, per poi proseguire alla volta di Paterno Calabro, dove il cammino si conclude presso il convento voluto dal santo quando già aveva fondato l’ordine dei minimi. Il cammino di san Francesco di Paola permette di immergersi in luoghi insoliti e inaspettati di una regione conosciuta spesso soltanto per il suo mare; e riporta vita nei piccoli centri dell’entroterra, oltre a soddisfare il desiderio di novità dei moderni viaggiatori e camminatori. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
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TEMPO LIBERO
Un’orchidea in giardino
Mondoverde ◆ Non servono molte cure alla Bletilla, erbacea perenne bella, elegante e rustica Anita Negretti
Mi tranquillizza sapere che i miei famigliari, in caso di emergenza, conoscano già i miei desideri e le mie esigenze.
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Prevenire anziché curare
Esemplari di Bletilla striata. (Takashi Hososhima)
belle erbacee riescono a riprodursi velocemente, creando in pochi anni aiuole rigogliose. Se non disponete di un giardino, è possibile coltivarle in vaso, ottenendo ugualmente buoni risultati: basterà riempire per qualche centimetro il fondo di un contenitore con del materiale drenante (si possono usare i classici ciottoli, oppure servirsi di argilla espansa o ancora e più semplicemente si possono mettere sullo sfondo sassolini o ghiaietto). Fatto questo, si procede creando un secondo strato con terriccio universale, vi si posa la pianta e si completa con altro terriccio facendo attenzione a pigiare bene la terra ai lati del pane di radici.
A nessuno piace pensare alle difficili decisioni relative al fine vita. Nemmeno ai vostri famigliari. Mettendo per iscritto cosa conta per voi in caso di emergenza solleverete i vostri cari da un grosso peso.
Una manciata di concime e una buona irrigazione (soprattutto durante la primavera e l’estate) garantiranno lo sviluppo delle radici, mentre una posizione soleggiata favorirà la crescita. Ricordiamo, infatti, che sono amanti del pieno sole, ma anche della mezz’ombra purché sia luminosa. Tra le Bletille, la più facile da trovare in commercio è la Bletilla striata, chiamata anche Bletilla hyacinthina, dai bei colori rosa; ma si trova anche la varietà a fiore bianco chiamata «Alba», mentre con più difficoltà si trova Bletilla formosana, anch’essa facile da coltivare, ma poco richiesta dai giardinieri e dunque più rara.
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Ennio Peres
splendor… del secolo ventesimo. (Garisendo); 6. Polisenso (9) – Una spia tra le fila di Nelson – È un brillante ufficiale, di valore; ma se dintorno non ha altre persone, da singolare verme traditore, fa solo il gioco di Napoleone. (Mister Aster); 7. Cambio d’accento (4) – Allarme in America Latina – Gira a Santiago come a Bogotà, l’avviso d’una certa gravità. (Happy); 8. Spostamento d’accento (8) – Una donna fatale – Possiede un corpo davvero attraente ed è fonte di guai per molta gente. (Alf & Jolly).
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nico (ad esempio: àncora / ancòra). Qui di seguito, riporto alcuni esempi costruiti su tali schemi, sia di tipo popolare, sia di tipo classico. In questo secondo caso, il diagramma numerico è costituito da un unico numero indicante la lunghezza comune a tutte le parole da trovare (ogni gioco è seguito dall’indicazione del relativo autore). 1. Bisenso – Artigianato meridionale – La xxxxxxx di quella chiesa toscana venne fusa da un’azienda xxxxxxx. (JoKolog); 2. Polisenso – Amori a palazzo – L’astronomo di xxxxx fa la xxxxx a quella damigella lì seduta al centro della xxxxx, bella e muta, le trecce xxxxx e le guancette smorte. (Andronico); 3. Cambio d’accento – Ladruncolo di campagna – M’ha spogliato tutto il xxxxx, quel birbone: se lo xxxxx… (Variante Ascari); 4. Spostamento d’accento – Uno strappo improvviso – Mi sono alzato a chiuder le xxxxxxx e al xxxxxxx ho sentito un gran dolore: dovrei fare palestra, alla fin fine, ciò mi farebbe bene pure al cuore… (Il Cherubino); 5. Bisenso (5) – Marconi – È lo
Soluzione 1. campana: strumento musicale / della Campania); 2. corte: reggia / corteggiamento / cortile /poco lunghe; 3. pèsco /pèsco; 4. tendine / tèndine; 5. lustro: lucentezza / spazio di cinque anni (ventesima parte di un secolo); 6. solitario: pietra preziosa / isolato / tenia / passatempo con le carte; 7. péso (unità monetaria) / péso (forza di gravita); 8. calamita / calamità.
Le parole che possiedono significati diversi pur essendo composte da una stessa sequenza letterale, costituiscono un materiale prezioso per la composizione di giochi enigmistici, di tipo popolare (dove le parole da indovinare sono indicate da una serie di lettere incognite) o di tipo classico (dove le parole da indovinare devono essere ricavate interpretando opportunamente un soggetto apparente). Allo scopo, viene usata la seguente terminologia: – bisenso: insieme di due parole che, oltre alla stessa grafia, presentano anche un’identica accentazione (ad esempio: rombo: rumore /figura geometrica); – polisenso: insieme di più di due parole, che, oltre alla stessa grafia, presentano anche un’identica accentazione (ad esempio: mora: bruna / frutto / sanzione pecuniaria); – cambio d’accento: insieme di due parole la cui grafia differisce solo per il tipo di accento tonico (ad esempio: vènti / vénti); – spostamento d’accento: insieme di due parole la cui grafia differisce solo per la posizione dell’accento to-
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Non sempre ciò che appare raffinato e delicato necessita di cure continue: ne è un esempio la Bletilla, un’erbacea perenne bella, elegante e rustica, che grazie alla facile coltivazione crea in poco tempo colorate aiuole. Appartenente alla famiglia delle orchidee terrestri, è originaria di Cina e Giappone, tuttavia la sua diffusione in Europa è stata veloce, grazie alle sue caratteristiche di pianta resistente al freddo e molto ricca di fiori. I pseudo bulbilli, da cui si riproducono le Bletille, hanno una forma allungata e sono molto simili a tuberi; si interrano nei mesi invernali a circa quattro-cinque centimetri di profondità in luoghi luminosi. Per i primi mesi vanno tenuti al riparo dal gelo con un semplice strato di foglie secche, almeno fino alla metà di aprile. Fortunatamente in queste settimane primaverili, si trovano in vendita piante già in vegetazione, pronte da interrare o da ricoltivare in vasi più grandi. Senza grandi pretese, le Bletille vivono in terreni comuni, con l’eventuale aggiunta di un po’ di letame maturo o concime chimico a lenta cessione e torba, per rendere il substrato più morbido e poter dare alle radici il giusto nutrimento. Le foglie, che si sviluppano direttamente dal suolo, sono lanceolate, di un colore verde scuro a volte puntinate di bianco, decidue e arrivano a misurare fino a quaranta-cinquanta centimetri di lunghezza. Dal centro di ogni rosetta di foglie si sviluppa un fusto carnoso ed eretto da cui a maggio si schiudono le gemme fiorali, regalandoci per ogni stelo cinque o sei fiori molto profumati, dal colore rosa malva che sfuma verso l’ametista, ma soprattutto dalla classica forma di orchidea. Grazie alla loro rusticità queste
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TEMPO LIBERO
Ricetta della settimana - Fagiolini piattoni alle acciughe ●
Ingredienti
Preparazione
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2. Scalda l’olio. Unisci l’aglio schiacciato e le acciughe e soffriggi tutto brevemente. Bagna con il succo di limone e insaporisci con sale e pepe. 3. Servi il condimento alle acciughe con i fagiolini piattoni. Accompagna con pane, risotto o polenta. Preparazione: circa 20 minuti. Per persona: circa 9 g di proteine, 23 g di grassi, 21 g di carboidrati, 360 kcal/1500 kJ.
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azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO
È arrivato Nintendo Switch Sports Videogiochi
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Per una serata con gli amici: un’attività immediata e spassosa per variare un po’
Davide Canavesi
versi, mimando le azioni che farebbe se stesse davvero giocando. Il tennis è la disciplina che più di tutte si presta a essere ambasciatrice del motion gaming. Tenendo il controller come una racchetta ci ritroveremo a competere in tesissimi doppi. Il giocatore controlla i due personaggi dal suo lato della rete, permettendoci quindi di ribattere agli avversari sia a fondo campo sia sotto rete. Il gioco è piuttosto semplice ma c’è la possibilità di imprimere un effetto alla pallina, principalmente in base alle tempistiche dei colpi e, purtroppo, non in base alla direzione. Non è uno dei giochi più innovativi ma di sicuro tra i più immediati e divertenti della collezione, basta ricordarsi di fare un po’ di riscaldamento prima di giocare! Bowling è un’altra di quelle discipline che si adatta molto bene a essere trasposta in salsa videogioco. Divertente, specialmente perché non richiede troppa attività da parte nostra e specialmente non troppo spazio libero per giocare, il bowling fa parte di quelle attività perfette per una serata giochi in compagnia. La precisione dei controller di Nintendo Switch permette una certa accuratezza nei tiri, con tanto di effetti impressi alla palla. La disciplina è disponibile in modalità classica oppure con uno speciale percorso a ostacoli, parecchio impegnativa. Il calcio è un’inclusione ovvia ma la messa in pratica è particolare. Per ovvie ragioni non
dovremo correre davvero su e giù per il campo ma piuttosto usare i joystick del controller. Il pallone poi è gigantesco, più simile a un pallone da spiaggia che a uno da calcio. Inizialmente un po’ caotico, piano piano è possibile impararne i trucchi e le strategie per diventare più efficaci. Ben presto saremo in grado di fare passaggi, pallonetti e tiri potenti per poi lanciarci in rovesciate e tuffi di testa (anche se non sarà davvero richiesto di tuffarsi di testa, per fortuna). L’inclusione della pallavolo è per coloro che sono stufi di giocare a tennis. Partendo da un concetto tutto sommato abbastanza simile, la pallavolo richiederà ai giocatori maggiore
Giochi e passatempi Cruciverba
Insieme al ponte detto dei Dardanelli in Turchia, dove si trova l’altro ponte sospeso più lungo del mondo? E quanto è lungo all’incirca? Lo scoprirai a cruciverba ultimato, leggendo le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 2, 8 – 7, 10)
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Sudoku
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impegno fisico. Le diverse tecniche prevedono di ricevere la palla, di alzarla, di schiacciarla e di fare muro quando è il turno dell’altra squadra di attaccare. Meglio però seguire la guida in gioco prima di lanciarci perché i movimenti devono essere abbastanza precisi ma specialmente con le giuste tempistiche per fare di noi dei veri campioni della pallavolo. Il badminton è fin troppo simile al tennis e al massimo potrà fungere da variante per il primo sport. Intendiamoci, nella realtà ciascuna di queste discipline ha un mondo intero attorno, ma la trasposizione in Nintendo Switch Sports fa al massimo del badminton un clone inferiore del tennis. Per finire chanbara, una disciplina che as-
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
21. Di scarsa durata 23. Preposizione francese 24. Una donna fra i Titani 25. Un canto solenne 27. Il conduttore Papi 28. Ingrediente del cocktail VERTICALI 1. Pezzo di tessuto 2. Eccesso nei prefissi 3. Niente in latino 4. Le iniziali dell’attore Scarpati 5. Un concorso con la sella 8. Un cereale
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ORIZZONTALI 1. Grassi 6. Toro sacro agli egizi 7. Nel tempo e nello spazio 9. Dentro 10. Dispari in capire 11. Le iniziali di un famoso trombettista... Rosso 12. Indovinello 13. Si lava con la lingua 17. Nativo di Ankara 18. Oscuri, tenebrosi 19. Succo gastrico 20. Mia in latino
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somiglia allo scherma ma nettamente più caotico e meno pericolosa! Armati di mazze di gommapiuma dovremo parare i colpi avversari e mandare a segno i nostri per gettare l’avversario fuori dal ring e in una piscina sottostante. Divertente e allena i riflessi ma non molto complesso. Nintendo Switch Sports è divertente sia giocato da soli sia in compagnia con qualcuno di fianco a noi, ma anche online con giocatori sparsi in tutto il mondo. Il numero di giocatori locali dipende ovviamente dalla disciplina scelta: solo uno per chanbara e badminton ma di più per bowling, tennis e via elencando. Il calcio funziona assai bene, visto che ci ritroveremo in partite di quattro contro quattro, mentre per altri giochi, ad esempio per il bowling, c’è un po’ più da aspettare, per come funzionano le regole del gioco. L’online ci è sembrato comunque il meglio per condividere l’esperienza con un amico presente in salotto con noi, è un modo per aumentare l’esperienza pur mantenendo quel senso di condivisione che solo il multiplayer locale sa offrire. Per ora l’offerta di Nintendo Switch Sports è buona ma essenziale. Divertente per un po’ ma senza la profondità di un Ring Fit Adventure. Sono già previste espansioni e nuovi sport ma fondamentalmente questo gioco è divertente per una serata con gli amici: un’attività immediata e spassosa per variare un po’.
Nintendo Switch Sports
L’uscita di Nintendo Wii, quasi una decina d’anni fa, portò nelle case di tutto il mondo la novità del motion gaming. Bastava agitare i controller della console per partecipare in modo del tutto intuitivo a partite di tennis, di bowling, baseball e via dicendo. Un successo travolgente per almeno due motivi ben precisi. Fu in grado di abbattere una delle barriere più grandi tra non giocatori e giocatori, il controller di gioco. Tutti sappiamo impugnare una racchetta da tennis, o per lo meno è immediatamente chiaro cosa dovremmo fare. L’altro fattore di successo fu l’integrazione del gioco con ogni console venduta; il gioco perfetto per dimostrare le potenzialità di Wii. Sono passati nove anni da quel primo fenomeno e i giocatori hanno potuto sperimentare negli anni diversi prodotti dall’animo sportivo: Wii Sports Resort, Ring Fit Adventure, Just Dance, Beat Saber e moltissimi altri. Ma non la si fa a Nintendo che per questa primavera ha deciso di proporre una versione aggiornata di Wii Sports, chiamata semplicemente Switch Sports. Nintendo Switch Sports è una collezione di giochi attivi per la console ibrida Nintendo Switch e propone diverse discipline sportive: tennis, calcio, bowling, badminton, pallavolo e chanbara. Ogni disciplina ha le sue peculiarità per quanto riguarda controlli, obiettivi e tecniche, ma richiede sempre al giocatore di muo-
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10. Gioco invernale simile alle bocce 12. In questo luogo… poetico 13. Un tempo del set 14. Sede dell’Areopago 15. Preposizione 16. Tutti in fondo 17. Articolo inglese 19. Rovina, fallimento finanziario 21. Lo sono i tempi andati 22. Davanti al nome degli ecclesiastici 24. Un terzo di trenta 26. Simbolo chimico del nichelio
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Soluzione della settimana precedente CIAK SI GIRA – Vittorio de Sica aveva altri nomi. Nomi risultanti: DOMENICO, STANISLAO, GAETANO, SORANO.
D E C I S I O N E
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Il nemico numero uno resta la Cina L’obiettivo americano? Trattenere la Russia nella trappola ucraina, indebolirla e renderla un peso per il vero avversario: Pechino
Tensione esplosiva in Asia Mentre Pyongyang si avvicina sempre di più a Cina e Russia, l’approccio del governo di Seul ai test nordcoreani sta cambiando
Tra miseria e suggestioni jihadiste Chi sono i Fulani e cosa c’è dietro il massacro di Pentecoste avvenuto in una chiesa cattolica di Owo, in Nigeria
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Se Trump tornasse alla Casa Bianca Stati Uniti
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Joe Biden arranca mentre il partito repubblicano riacquista vigore e guarda con ottimismo alle elezioni di novembre
Con Joe Biden che fatica a raggiungere il 40% di consensi nei sondaggi, e il partito repubblicano favorito per la riconquista della maggioranza parlamentare alle elezioni di novembre, un ritorno di Donald Trump (nella foto) alla Casa Bianca non è un’ipotesi remota. L’armata dei suoi elettori – pur perdendo contro Biden lui ne conquistò 11 milioni in più dal 2016 al 2020 – ha nostalgia di lui. Rimpiangono il boom economico durante la sua presidenza (pre-Covid, certo). Considerano sacrosante le scelte che fece per penalizzare la Cina con i dazi e per limitare l’immigrazione. Nella pandemia fu lui a dare aiuti per la scoperta e produzione dei vaccini, anche se poi si spaventò per la diffusione dei no-vax nella sua base e cominciò a girare senza mascherina. E la guerra in Ucraina? Lui non ripudia il filo diretto che ebbe con il presidente russo, ma si vanta di averlo tenuto a bada. «Lo minacciai come non era mai stato minacciato prima, per dissuaderlo dall’invadere l’Ucraina. Dobbiamo vergognarci per non aver saputo fermare questa guerra». Cioè: deve vergognarsi Biden. «Se alla Casa Bianca ci fossi io, e Putin osasse ancora parlare di nucleare, gli risponderei: non ci provare, siamo molto più forti di te». Dopotutto, sottolinea, le due invasioni di Putin in Crimea nel 2014 e in Ucraina nel 2022 sono avvenute sempre con un democratico alla Casa Bianca. I problemi che portarono Trump alla Casa Bianca nel 2016 sono ancora tutti lì, come documenta la giornalista Farah Stockman nel libro-inchiesta American made: what happens to people when work disappears. Nel dopoguerra il «sogno americano» era una realtà: il 90% dei giovani nati negli Stati Uniti avevano la certezza di un lavoro e di un reddito migliori rispetto ai propri genitori. Oggi questo è vero solo per il 50% dei giovani, gli altri devono rassegnarsi a stare peggio delle generazioni precedenti. La teoria della «grande sostituzione» (i bianchi messi in minoranza dagli immigrati) viene evocata tra le farneticazioni deliranti dell’estrema destra. Ma la classe operaia black è stata essa stessa l’oggetto di una sostituzione reale, con operai cinesi in Cina o messicani negli Usa; non a caso il protezionismo di Trump gli ha consentito di raddoppiare la sua quota di elettori ispanici e afroamericani da un’elezione all’altra. Nel biennio in cui il Muro col Messico e la pandemia hanno ridotto l’immigrazione, i salari operai sono cresciuti come non accadeva da quarant’anni, confortando le ragioni del voto popolare per Trump. L’establishment della sinistra globalista preme su Biden perché riapra le frontiere, sia al made in China sia agli immigrati. Sarebbe un’ulteriore emorragia di voti tra i lavoratori, e non solo
Keystone
Federico Rampini
bianchi. La rappresentanza sociale dei due partiti si è rovesciata: ormai il partito repubblicano è una coalizione fatta da classe operaia e Stati del sud, mentre i democratici fanno il pieno tra la tecno-élite manageriale e intellettuale delle due coste, e le minoranze etniche. Durante il secolo da Abraham Lincoln a Franklin Roosevelt a John Kennedy fu vero il contrario.
Il partito democratico moltiplica le azioni che alimentano la psicosi da stato d’assedio fra i trumpiani Biden vorrebbe evitare di regalare per sempre la classe operaia alla destra. Però i sospetti contro il «complotto delle élite progressiste» si sono rafforzati da quando Trump è censurato dal capitalismo digitale su tutti i principali social media. È scomparso da Twitter e Facebook, e non solo. «Che Trump sia candidato alla Casa Bianca nel 2024 oppure no, il trumpismo dentro il partito è più forte che mai», sostiene lo stratega dei repubblicani Ken Spain. Questo ha una conseguenza inquietante per la tenuta delle istituzioni e la solidità della democrazia americana. Quando Trump non è in giro per gli States
a far campagna in favore di qualche candidato a lui fedele, come passa il tempo? «Sto scrivendo – ha rivelato – un libro che intitolerò Il crimine del secolo, su come hanno rubato le elezioni del 2020». Proprio così, la teoria della grande truffa elettorale è viva e vegeta: nella sua propaganda e nella sua base. Il partito democratico moltiplica le azioni che alimentano la psicosi da stato d’assedio fra i trumpiani. Un tema rovente è l’insegnamento anti-razzista nelle scuole pubbliche, trasformato da una leva di professori militanti in una demonizzazione dei bianchi, all’insegna della Critical race theory che denuncia il «razzismo sistemico». Durante la pandemia, con la didattica a distanza, molti genitori hanno scoperto che i propri figli venivano colpevolizzati. L’altro cavallo di battaglia della sinistra radicale è l’identità sessuale fluida, che partendo dai diritti dei transgender si allarga fino a combattere ogni identificazione sessuale, imponendo pronomi neutri plurali. L’ambientalismo a oltranza che impedisce di aumentare l’estrazione di gas e ostacola per motivi paesaggistici perfino centrali idroelettriche o eoliche, in piena crisi energetica fornisce altri argomenti alla destra. Biden e il centro moderato del partito sono penalizzati da una polarizzazione speculare a quella
dei repubblicani. Così come i fanatici del trumpismo continuano a esercitare un’influenza forte a destra, anche a sinistra gli elettori più mobilitati per la selezione dei candidati sono spesso le frange radicali. La stagione delle primarie ha dato questa indicazione: la partecipazione al voto dei repubblicani è in aumento, quella dei democratici in leggero calo. Tuttavia una novità ha ridato speranza alla sinistra, per fermare la rimonta repubblicana nel prossimo Congresso. È la fuga di notizie dalla Corte suprema, secondo cui la maggioranza dei giudici sarebbe pronta a revocare il diritto costituzionale all’aborto (che risale a una sentenza del 1973). Trump è il vero regista di questo probabile ribaltone. Le sue nomine di tre giudici conservatori alla Corte suprema sono state decisive per cambiare gli equilibri. Trump non è mai stato un vero anti-abortista, è un ex-democratico senza una fede religiosa, con una serie di matrimoni e relazioni extra-coniugali che fecero la felicità dei tabloid. Però ha mantenuto la promessa fatta nella campagna elettorale del 2016, di nominare giudici anti-abortisti. Ora su quel tema è cauto, perfino reticente. Dal suo entourage trapela che l’ex presidente teme di perdere quota nell’elettorato femminile. I democratici puntano proprio su questo per ribaltare le previ-
sioni sull’appuntamento elettorale di novembre. Però l’eventuale defezione di una fascia di donne – soprattutto le laureate del ceto medioalto – può essere compensata dalla mobilitazione compatta della base religiosa: cattolici conservatori, evangelici, dove si ritrovano anche tante elettrici ispaniche e afroamericane. Un’osservatrice acuta della destra americana è Peggy Noonan. Autorevole opinionista conservatrice (ma non trumpiana), Noonan fu consigliera di Ronald Reagan. Lei è convinta che nella base del partito «c’è una gran voglia delle politiche trumpiane, ma non necessariamente che sia lui ad applicarle, perché Trump è il caos, e i repubblicani devono guardare al futuro». L’alternativa più forte rispetto a un Trump II oggi si chiama Ron DeSantis. L’italo-americano che governa la Florida ha fatto di questo Stato l’anti-California per eccellenza: meno tasse, meno burocrazia, meno spesa pubblica, pochi homeless. L’esodo di popolazione dalla California alla Florida lo sta premiando e ne fa una star. Sui temi valoriali – l’indottrinamento anti-bianco nelle scuole, le identità sessuali fluide insegnate ai bambini, l’aborto – DeSantis è perfino più intransigente di Trump. In compenso non si porta appresso il bagaglio ingombrante dell’ex presidente, a cominciare dal carattere.
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ATTUALITÀ
Il premier britannico ha salvato la poltrona, per ora. (Keystone)
La vera guerra è contro la Cina
Strategia ◆ La crisi ucraina e gli obiettivi a lungo termine degli Stati Uniti d’America Lucio Caracciolo
Le nubi su Boris Johnson non si diradano
Londra ◆ Prospettive dopo il voto di fiducia e possibili successori del premier Barbara Gallino
«Niente e nessuno può impedirmi di continuare a fare il primo ministro». Boris Johnson ha mostrato i muscoli nel corso del primo «Question time» alla Camera dei Comuni, dopo essere sopravvissuto a un voto di sfiducia istigato da membri del suo stesso partito. Sostiene di essere uscito più forte dalla sfida rivoltagli dalla crescente fronda nella maggioranza, ma la verità è un’altra. Il cerchio si stringe intorno al premier britannico: fra i 359 deputati conservatori che hanno preso parte al voto a Westminster, 211 si sono espressi a suo favore, ma ben 148 contro. Un consenso di appena il 59% che non promette nulla di buono. Basti pensare alla ex premier Theresa May che, dopo avere riscosso un più elevato 63% dei suffragi in una votazione analoga nel 2018, si era trovata costretta a dare le dimissioni solo sei mesi dopo. Tra i «traditori» di Johnson ci sarebbero non solo «peones» e componenti di spicco del partito apertamente ostili, come Jeremy Hunt, ex ministro degli Esteri e della Salute, rispettivamente nei governi May e Cameron, che è ora assurto a paladino dei ribelli. Ma anche sottosegretari ed esponenti dello stesso governo di Johnson, che avrebbero approfittato del segreto dell’urna per pugnalare alle spalle il leader, la cui popolarità fra gli elettori è ormai a picco sulla scia del «Partygate». Che scenario si prospetta adesso per lui? A detta dei detrattori il suo premierato «imploderà» senza bisogno di trame o complotti. Il prossimo banco di prova saranno le elezioni suppletive del 23 giugno. In gioco ci sono i seggi di Wakefield nel West Yorkshire e di Tiverton e Honiton, nel Devon, lasciati vacanti da due deputati Tories costretti a dimettersi: uno in seguito a una condanna per violenza sessuale e l’altro per essere stato sorpreso a guardare siti porno alla Camera dei Comuni. Secondo le ultime rilevazioni, il seggio di Wakefield dovrebbe tornare in mano ai Laburisti, ai quali era stato strappato nel 2019, mentre i Lib-Dem sono dati per favoriti a Tiverton e Honiton. Se i pronostici si rivelassero corretti, aumenterebbe notevolmente la pres-
sione su Johnson. È convenzione che il voto di fiducia non si possa ripetere prima di 12 mesi dall’ultimo. Tuttavia una sconfitta alle suppletive potrebbe di fatto indurre il Comitato 1922 – organismo del partito deputato a supervisionare l’elezione del leader Tory e a raccogliere formali manifestazioni di dissenso nei suoi confronti – a rivedere le regole in modo da consentirlo. Si tratta di un’eventualità improbabile ma non impossibile. Quando? Prima del Congresso annuale del partito il prossimo ottobre, perché altrimenti Johnson si troverebbe in pieno lancio della campagna elettorale per le elezioni del 2024. Tuttavia un cambio delle regole non è visto di buon occhio da alcuni membri del partito. Non solo tra i fedelissimi, ma anche fra gli oppositori. Per il vice-primo ministro Dominic Raab «giocherellare con le regole quando non si condivide un risultato» è discutibile, mentre per l’ex ministro della Brexit, David Davies – che sull’onda delle violazioni delle restrizioni Covid da parte del premier aveva chiesto qualche mese fa le sue dimissioni – un’anticipata votazione di fiducia rischierebbe di destabilizzare qualsiasi futuro nuovo leader Tory.
In Gran Bretagna sono aumentati i tassi d’interesse e la pressione fiscale, mentre l’inflazione è schizzata al 9 per cento. Le cause? La crisi ucraina e l’uscita dall’Ue Johnson ha indicato che con il supporto incassato pur sempre da 221 compagni di partito (la soglia minima per restare in sella al governo era di 180), è giunto il momento di porre fine al dibattito sul «Partygate» e concentrarsi sulle esigenze del paese: miglioramento delle infrastrutture e del servizio sanitario nazionale, riduzione delle disuguaglianze sociali, attivazione di misure contro l’incalzante caro vita. Il premier ha fatto sapere di voler tagliare le tasse per riconquistare il consenso degli elettori che – dopo il trionfale risultato alle elezioni del 2019 – sono andati perduti dopo la pande-
mia (la quale ha portato alla più alta pressione fiscale dagli anni Quaranta) e lo scandalo dei festini in Downing Street quando il resto del regno era in lockdown. Ma una riduzione delle tasse è impensabile nel breve periodo. Nel frattempo l’aumento dei tassi d’interesse e della pressione fiscale, nonché l’inflazione schizzata al 9% dopo il conflitto russo-ucraino (e, benché Boris non lo ammetta, pure per effetto dell’uscita del Regno Unito dalla Ue) hanno complicato il quadro economico del paese. Secondo gli ultimi dati Ocse, l’economia britannica quest’anno avrà un’espansione più lenta delle previsioni e nel 2023 andrà in stagnazione con la conseguenza di passare da seconda del G7 per crescita con un +3,6% del Pil, a penultima nel gruppo dei paesi industriali composto da Stati Uniti, Canada, Germania, Giappone, Francia, Italia e giustappunto Gran Bretagna. Oltre alla difficile congiuntura economica, pende su Johnson un’ulteriore inchiesta legata al «Partygate», condotta da una commissione parlamentare bipartisan per accertare se ha ingannato il Parlamento con le sue ripetute affermazioni di non essere a conoscenza di illeciti raduni a Downing Street durante il lockdown. L’esito non sarà noto prima dell’autunno, ma se la mendace condotta fosse confermata, il primo ministro sarebbe probabilmente costretto a lasciare. Mentre Johnson si batte per conservare la leadership, è già cominciato il toto nomi per i candidati alla successione. Oltre all’ovvio contendente Jeremy Hunt, acquista forza la possibile discesa in campo dell’attuale ministro della Difesa, Ben Wallace. Ex militare, Wallace ha raccolto molti consensi per la sua gestione della crisi ucraina, divenendo uno degli esponenti del governo più graditi fra i tesserati del partito Conservatore. Pur difendendo l’operato del premier e avendo sempre dichiarato di non aspirare al «top job», il ministro della Difesa alla domanda se considererebbe di candidarsi in presenza di un supporto adeguato, di recente ha risposto: «Sono un politico e alla fine la mia priorità è quella di provare a risolvere i problemi e rendere questo paese migliore per chi ci vive».
L’altra faccia della guerra in Ucraina è nell’Indo-Pacifico. Nel triangolo Cina-Russia-Stati Uniti, sono i mari cinesi il vero teatro centrale. Ne è riprova il fatto che il presidente Biden abbia sentito la necessità di un rapido giro nella regione per mobilitare i suoi alleati nel contenimento della Cina. Lo schema seguito finora dagli americani è infatti abbastanza chiaro: trattenere la Russia nella trappola ucraina, indebolirla, demoralizzarla e renderla più un peso che una risorsa per il vero nemico, quello cinese. Contrariamente alle aspettative della Casa Bianca, il fronte anticinese emerge meno compatto di quanto si potesse immaginare dalla guerra ucraina. Colpisce soprattutto la posizione dell’India. Ormai da molti anni, almeno a partire dalla presidenza di George W. Bush, gli strateghi americani davano per scontato l’allineamento di Delhi con Washington. Intesa sostanziata sotto vari profili, dall’economia alla difesa. Tuttavia l’India non è disposta a rinunciare alla sua libertà di manovra, ovvero al bilanciamento tra potenze in competizione. Il rapporto storico che Delhi ha con Mosca, e soprattutto gli armamenti che acquista dai russi, sono un argomento troppo rilevante per essere scartato. Di qui anche il voto di astensione dell’India all’Assemblea generale delle Nazioni Unite sulla condanna dell’invasione russa. Più confortanti le notizie sul fronte giapponese. Washington considera Tokyo – cui è legata da impegnativi trattati e sul cui territorio staziona il meglio delle sue truppe e dei suoi schieramenti aeronavali asiatici – alleato indispensabile nel contenimento della Cina. Tanto da non solo tollerare ma incentivare l’interpretazione che ormai da anni i governi giapponesi danno dell’articolo 9 della loro Costituzione (scritta più o meno interamente dagli americani). Ossia che il divieto ad avere un esercito consente di averne uno, e particolarmente potente. Al punto che oggi il Giappone è senz’altro, dopo gli Usa, la più importante potenza militare dell’Asia orientale. Probabilmente è anche dotato della bomba atomica, o in ogni caso è in grado di produrne in quantità dato il materiale di cui dispone e la conoscenza delle tecnologie necessarie a produrre gli ordigni definitivi. Al doppio perno indo-nipponico Washington aggiunge, anche per via britannica, l’Australia. Qui siamo in piena Anglosfera. L’Australia partecipa con Regno Unito, Canada e Nuova Zelanda, sotto la guida degli Usa, al sistema dei «five eyes», la struttura tra gli alleati più stretti del «numero uno» che condividono le informazioni strategiche decisive. Il recente cambio di governo a Canberra non dovreb-
be portare a mutamenti sostanziali nell’approccio australiano. Infine c’è un quinto membro che si aggiunge al quartetto (Quad) formalmente all’opera in funzione anticinese: il Regno Unito. Londra ha ormai scelto la strada dell’allineamento totale con gli Stati Uniti. Anzi, tiene a stare sempre un passo più avanti del suo riferimento transatlantico, come conferma anche il caso ucraino. Forse l’aspetto più rilevante del viaggio del presidente americano è stata la scelta di rispondere con un secco «sì» alla domanda di un giornalista sulla disponibilità degli Usa a difendere militarmente Taiwan. Se non una vera e formale alleanza con Taipei, poco ci manca. Non a caso il monosillabo di Biden ha provocato una dura reazione cinese. E anche, come ormai prassi, la reinterpretazione delle parole del presidente da parte delle sue strutture di comunicazione. Non si tratta solo di correggere la tendenza a straparlare che da sempre distingue Biden, ma qualcosa di più profondo. Dentro all’amministrazione e ai laboratori strategici americani è aperta una discussione animata sull’approccio da tenere nei confronti della Cina, anche in conseguenza della guerra in Ucraina. Lo testimonia ad esempio il fatto che nella comunicazione ufficiale del dipartimento di Stato sia stata prima abrogata poi reintegrata una piccola frase riguardo al mantenimento della politica della «Cina unica», dunque al non riconoscimento di Taiwan come Stato indipendente. Con ciò si intende la circonvoluzione diplomatica che da mezzo secolo consente ad americani e cinesi di far finta di convergere sull’esistenza di un solo rappresentante della Cina, Pechino. Ma ormai, al di là delle sfumature semantiche, è del tutto evidente che gli Stati Uniti si preparano allo scontro con la Cina su Taiwan. Secondo alcuni esperti del Pentagono è probabile che la guerra avvenga intorno al 2030. Al Pentagono si studiano gli scenari bellici e le possibili reazioni americane a un attacco di Pechino contro Taipei. Perché è ormai acclarato che Washington non potrebbe assistere passivamente all’aggressione. Tanto che sull’isola contesa la cauta presenza militare americana comincia a essere percepibile. Di questo passo è probabile che nei prossimi anni assisteremo all’installazione sul suolo taiwanese di vere e proprie basi a stelle e strisce. Potrebbe essere questa la scintilla capace di incendiare la regione. Molto, ma molto peggio del conflitto in Ucraina. Come si vede, chi pensava che la guerra in Ucraina potesse essere contenuta nel perimetro dei combattimenti deve ricredersi. Non è (ancora?) una guerra mondiale, ma è una guerra in Europa che si riflette in tutto il mondo. Joe Biden, a destra, e il primo ministro giapponese Kishida Fumio. (Shutterstock)
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Una nuova guerra di Corea? Asia
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Il regime di Pyongyang – sempre più vicino a Pechino e Mosca – continua a lanciare missili mentre Seul cambia marcia
Giulia Pompili
A missile si risponde con missile. L’approccio della Corea del Sud – e anche dell’America – ai test nordcoreani, che nell’ultimo anno hanno raggiunto una frequenza inquietante, sta cambiando. La strategia del nuovo presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol è molto diversa da quella del suo predecessore, il democratico Moon Jae-in. Niente più «sunshine policy», la politica di apertura e dialogo nei confronti del regime di Pyongyang. In una recente intervista alla Cnn, Yoon – che si è insediato il 10 maggio scorso – ha detto che il dialogo portato avanti «solo per sfuggire temporaneamente alle provocazioni o al conflitto con la Corea del Nord è sbagliato; questo tipo di approccio negli ultimi cinque anni si è dimostrato un fallimento».
La Corea del Nord fa affidamento sulla Russia per parecchie attività illegali e di cooperazione nel campo della Difesa La Corea del Nord ha effettuato test missilistici una ventina di volte sin dall’inizio del 2022 e da mesi ormai si parla di una sospetta attività nell’area di Punggye-ri, il sito degli esperimenti nucleari situato nel nord-est del paese. È lì che sono stati eseguiti tutti i test nucleari nordcoreani (ce ne sono stati sei dalla fine della Guerra di Corea, il primo nel 2006, l’ultimo il 3 settembre del 2017). E di recente, dall’analisi delle immagini satellitari, è stato rilevato che i nordcoreani stanno lavorando a nuovi tunnel a Punggye-ri, il sito che dopo gli accordi tra l’allora presidente americano Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-un era stato parzialmente demolito. Un eventuale esperimento atomico da parte di Pyongyang aprirebbe una nuova crisi per la stabilità della regione e metterebbe ancora una volta in discussione tutte le politiche diplomatiche finora impiegate per risolvere la questione nordcoreana. Le sanzioni internazionali, quelle approvate dal Consiglio di sicurezza dell’Onu negli anni di maggiori provocazioni belliche da parte della Corea del Nord, e le sanzioni unilaterali, soprattutto quelle americane, non bastano più. E a quanto pare non basta più nemmeno il dialogo.
Aerei da combattimento americani, alleati di Seul, sorvolano il Mare Giallo a inizio giugno. (Keystone)
Si ricomincia quindi con la strategia della deterrenza. Dopo l’ultimo test missilistico nordcoreano, quando Pyongyang ha dato l’ordine di lanciare otto missili dalla sua costa orientale, la Corea del Sud e gli Stati Uniti, che effettuano regolarmente esercitazioni militari congiunte nell’area della penisola, hanno lanciato altrettanti missili terra-terra. È la seconda volta che i due alleati si danno da fare per mostrare i muscoli e quindi minacciare ritorsioni alla Corea del Nord, che però finora non è sembrata intimidita. Nemmeno quando i due alleati hanno fatto volare una ventina di aerei da combattimento sul Mare Giallo, a ovest della penisola coreana. Sotto la leadership di Kim Jong-un la Corea del Nord è riuscita a giungere dove avrebbe sempre voluto arrivare. Ha ottenuto il riconoscimento formale da parte della comunità internazionale quando, il 12 giugno del 2018, per la prima volta nella storia un presidente americano in cari-
ca, Donald Trump, ha incontrato un leader nordcoreano. Dal punto di vista dell’arsenale missilistico e nucleare la leadership di Pyongyang afferma di avere la capacità di produrre missili balistici intercontinentali di ultima generazione, anche dotabili di testate nucleari. Per decenni gran parte delle sanzioni internazionali sono state eluse dalla Corea del Nord grazie a un efficace sistema di amicizie diplomatiche e supporto logistico da parte di paesi alleati. Tutto il denaro pompato dentro ai confini nazionali è servito non a sfamare i cittadini e a condurre riforme economiche efficaci, ma a far sopravvivere il regime e il suo potenziale bellico. Parlando durante un evento a Seul, il presidente sudcoreano Yoon ha detto che i programmi nucleari e missilistici della Corea del Nord «hanno raggiunto un livello tale da essere una minaccia non solo per la pace nella penisola coreana, ma anche nel nord est asiatico e nel mondo». L’America
e i suoi alleati del Pacifico, Corea del Sud e Giappone, sanno che più Pyongyang aumenta la pressione e fa salire la tensione, più si allontana la possibilità di risolvere definitivamente, dopo settantasette anni, la cosiddetta questione nordcoreana. Anche perché il Coronavirus e la guerra in Ucraina non hanno fatto altro che avvicinare sempre di più Pyongyang ai suoi due tradizionali paesi amici: la Cina e la Russia. Pechino e Mosca, per la prima volta dal 2006, hanno usato il loro diritto di veto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite di fine maggio per fermare una risoluzione che avrebbe imposto nuove sanzioni contro Pyongyang. La decisione è stata molto criticata da parte occidentale ma è stata soprattutto simbolica, per mostrare che anche nell’istituzione più importante dell’Onu, il suo braccio operativo, c’è un allineamento tra potenze autoritarie e antiamericane. Per la sua sopravvivenza la Corea
del Nord ha bisogno di tutti gli alleati possibili. Nei due anni di pandemia i funzionari nordcoreani hanno sempre negato di aver avuto casi di Covid nel paese, grazie anche a una tempestiva strategia di chiusura completa dei confini. Poi all’improvviso, all’inizio di maggio, la leadership di Kim Jong-un ha annunciato che l’epidemia era arrivata in Corea del Nord. Un disastro annunciato, per il fragile sistema sanitario nordcoreano e per i 25 milioni di abitanti del paese, la maggior parte dei quali malnutriti. Pyongyang ha però rifiutato l’aiuto di Seul e ha preferito quello di Pechino: nel giro di tre settimane il paese ha dichiarato il virus sotto controllo. È un gioco delle parti, dicono gli analisti e gli osservatori. Molto spesso Pyongyang fa annunci simili per poter godere degli aiuti internazionali. Allo stesso tempo, però, continua a foraggiare il suo programma missilistico e nucleare, probabilmente per rimanere in una posizione di forza in eventuali nuovi negoziati con America e Corea del Sud. Dal punto di vista diplomatico Pyongyang continua a bilanciare il suo sostegno tra Cina e Russia, le autocrazie che potrebbero aiutarla non chiedendo nulla in cambio sul tema dei diritti umani e della denuclearizzazione. Una fonte nordcoreana, intervistata di recente dal media giapponese «Nikkei Asia», spiegava che la Corea del Nord si è quasi sempre affidata all’aiuto cinese per superare le crisi, ma non vuole essere completamente dipendente dalla Cina. È per questo che, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ha giocato la carta di Mosca. In tutte le occasioni in cui in questi mesi, alle Nazioni Unite, si sono votate risoluzioni contro la Russia, la Corea del Nord ha votato a sostegno del Cremlino. Le serve. Pur non essendo dipendente economicamente dalla Russia, con cui condivide un confine molto strategico di una ventina di chilometri, la Corea del Nord fa affidamento sul paese di Putin per parecchie attività illegali e di cooperazione nel campo della Difesa. La guerra poi è stata uno spot propagandistico perfetto: Pyongyang sta usando tutte le teorie russe contro la Nato e l’America per giustificare l’aumento del suo arsenale. Nel frattempo la tensione, anche in Asia orientale, continua ad aumentare. Annuncio pubblicitario
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Chi sono i Fulani e cosa c’è dietro la strage di Pentecoste nella chiesa cattolica San Francesco Saverio di Owo
Pietro Veronese
Si diffonde sui social l’hashtag #PrayforNigeria e davvero, col passare dei giorni dalla strage di Pentecoste nella chiesa cattolica San Francesco Saverio di Owo, poco altro sembra ci sia da fare. Le autorità non hanno nemmeno divulgato un elenco delle vittime, con nomi e cognomi. Tanto che diverse associazioni di donne si sono unite per lanciare una sorta di ultimatum al governo, affinché almeno questo modesto passo sia compiuto. Nel frattempo il bilancio, ancora provvisorio, è di una quarantina di morti e una sessantina di feriti. Ma nessuno dubita che sia destinato a salire.
Sangue nella chiesa di Owo. (AFP)
Nel solo primo trimestre di quest’anno circa tremila persone sono state uccise da gruppi armati in varie regioni della Nigeria Non si capisce se la gigantesca Nigeria, il più popoloso paese africano, sia tramortita dall’inaudita violenza perpetrata contro inermi fedeli cattolici domenica 5 giugno. O se sia viceversa assuefatta, ormai indifferente di fronte alle sofferenze degli innocenti. Non solo chiese, anche scuole, collegi, autobus, mercati sono stati presi di mira in tempi recenti. Nel solo primo trimestre di quest’anno, calcola il centro di ricerche americano Council on Foreign Relations, circa tremila persone sono state uccise da gruppi armati in varie regioni del Paese. Il senso di insicurezza è diffuso. Eppure il massacro di Pentecoste non ha precedenti per gravità, premeditazione, spietatezza. È stato un atto di guerra contro famiglie in preghiera, vestite con gli abiti della festa. Gli assalitori, invece, avevano tute militari, dicono i testimoni. Hanno colpito prima con granate esplosive, poi con le armi automatiche hanno infierito sulla gente che scappava o cercava di nascondersi. Molti i bambini presi di mira. Chi può avere agito così ferocemente e perché? Anche su questo silenzio ufficiale. E anche qui non si capisce se sia dovuto a senso di responsabilità – il timore che additare un colpevole suoni come un invito alla vendetta – o a paralizzante sgomento. O, peggio ancora, a inettitudine. Le uniche a parlare sono le autorità religiose, cri-
stiane e musulmane, ansiose di far passare il messaggio che non si tratta di una guerra tra fedi diverse. La preoccupazione è fondata. «In Nigeria siamo più o meno metà cristiani e metà musulmani e viviamo insieme e vorremmo farlo in pace», ha detto al «Corriere della sera» il cardinale John Onaiyekan. Considerato che il Paese ha circa 200 milioni di abitanti, non è rassicurante immaginare il formarsi di milizie di autodifesa su base confessionale, intente a dare la caccia ai credenti di fede opposta, sul tragico modello della Repubblica Centrafricana. In questa atmosfera di inquietante indeterminatezza, in assenza di rivendicazioni, l’opinione diffusa appare invece sicura e concorde. Sono stati i Fulani, dicono gli abitanti di Owo, i parenti delle vittime e a mezza voce anche i rappresentanti della Chiesa locale. I Fulani sono una delle maggiori etnie che compongono il mosaico nigeriano. Insieme agli Hausa – cui sono legati da ramificati vincoli di sangue, dalla lingua e dalla stessa fede musulmana, tanto da venir spesso indicati come un’unica famiglia umana, gli Hausa-Fulani – sono di gran
lunga il più numeroso gruppo etnico della Nigeria. Da tempo immemore i Fulani sono allevatori, in perenne movimento dietro al loro bestiame in cerca di acqua e pascoli, nomadi per stile di vita e per mentalità, insofferenti di norme, vincoli e precetti che non siano quelli del Corano e del benessere delle loro mandrie. Per questo sono presenti un po’ ovunque nel Paese, pur essendo gente del nord; e per questo sono invisi a chi non condivida il loro stile di vita, cioè a quasi tutti gli altri. In special modo agli agricoltori, che vedono i campi seminati finire sotto gli zoccoli delle bestie, le riserve d’acqua prosciugate da mille abbeverate, i confini delle piantagioni invasi. Il dualismo delle società tradizionali africane, divise tra coltivatori e allevatori, è onnipresente, dal Sudan al Kenya, dal Ruanda all’Uganda, dal Mali allo Zimbabwe. Così come lo sono i conflitti tra le opposte esigenze di questi due modi di vita. Da sempre i capi villaggio, gli anziani, sanno come ricomporre le tensioni originate dalla perdita di una parte di raccolto, o dall’abbattimento di un capo ad opera di agricoltori esasperati. Da qualche anno però questo mon-
do è andato in frantumi. La scarsità e l’irregolarità delle piogge, la sete crescente degli armenti, la miseria dei raccolti, l’alternarsi di siccità e alluvioni, la penuria che serpeggia nei villaggi, sono andate trasformando le tensioni in una crescente lotta per le risorse, una guerra strisciante.
La scarsità delle piogge e la penuria che serpeggia nei villaggi hanno trasformato le tensioni in una crescente lotta per le risorse Su questo terreno disposto all’incendio ha poi preso a soffiare la predicazione jihadista. Le bande armate che sognano di asservire l’intera Africa occidentale al Califfato, riccamente finanziate e rifornite dalle organizzazioni-madre, hanno trovato a quanto pare seguaci tra i Fulani, non soltanto in Nigeria. Le armi automatiche hanno sostituito i vecchi fucili da caccia, le moto fuoristrada i cammelli. Oggi gli allevatori Fulani, la cui economia tradizionale è al tracollo, sono accusati di comportamenti malavitosi, dai rapimenti a scopo di riscatto al fur-
to sistematico, alle vessazioni contro gli abitanti dei villaggi. Il governatore dello stato di Ondo, dove si trova Owo, aveva avuto con loro un confronto molto duro l’anno scorso, invitandoli a lasciare il territorio dello stato. La strage di Pentecoste sarebbe la loro vendetta, lungamente meditata e preparata. È un’opinione diffusa, alla quale mancano prove. Non gli indizi, però. Formazioni paramilitari Fulani sono attive da tempo nel nord nigeriano: è possibile immaginare che siano scese a colpire molto lontano, quasi sulla sponda del Golfo di Guinea, trasformando anche i Fulani del sud da malviventi in terroristi. La stessa domenica del bagno di sangue a Owo, un attacco è stato compiuto più a nord, nello stato di Kaduna, contro alcuni villaggi. Il bilancio dichiarato è di 32 morti. I sopravvissuti sono sicuri che gli assalitori fossero Fulani, in sella alle motociclette e armati di kalashnikov. Stessa identica modalità degli attacchi dei jihadisti di etnia Peul (così vengono chiamati i Fulani nell’Africa francofona) contro gli agricoltori Dogon in Mali. Dunque #PrayforNigeria e non solo. Annuncio pubblicitario
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 13 giugno 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ / RUBRICHE
Il Mercato e la Piazza
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di Angelo Rossi
La storia non si ripete
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Uno dei fattori che maggiormente aiutano la crescita demografica ed economica di una determinata regione è la sua accessibilità rispetto al resto del mondo. Di conseguenza gli specialisti pensano, in generale, che la realizzazione di grosse infrastrutture per il traffico stradale, ferroviario o aereo, possano facilitare lo sviluppo sostanzialmente perché riducono i tempi di accesso, e quindi i costi del trasporto, per le persone e per le merci. Il contributo che la realizzazione di una data infrastruttura che riduce i tempi del trasporto può dare allo sviluppo di una regione è sempre stato uno degli argomenti forti per sostenere la sua utilità. Anche l’utilità della realizzazione dei tunnel ferroviari di base del Lötschberg e del San Gottardo e del Monte Ceneri è stata propagandata con questo tipo di argomento. Tuttavia quello che, a priori, si pensa possa avvenire, per effetto
dell’investimento nell’infrastruttura di trasporto, a posteriori non sempre si realizza . È questa la conclusione che si può trarre dalla comparazione di quanto è successo, sin qui, in Vallese, per esempio nella regione di Visp, dopo la realizzazione del tunnel di base ferroviario del Lötschberg, e, in Ticino, dopo la conclusione dei lavori della NEAT. La galleria ferroviaria di base del Lötschberg è stata aperta nel 2007, quella del San Gottardo nel 2016 e quella del Ceneri due anni più tardi. In generale si può notare che dopo l’apertura del tunnel ferroviario di base del Lötschberg, che facilitava le comunicazioni della parte nord del Vallese con Berna e il resto della Svizzera tedesca, questa regione ha conosciuto un periodo di forte sviluppo demografico ed economico. In Ticino, invece, finora l’apertura dei due tunnel di base ferroviari non ha avuto un impatto significativo né
Affari Esteri
sullo sviluppo della popolazione né, ad eccezione del turismo di giornata, su quello economico del Cantone. A titolo di esempio compariamo l’evoluzione della popolazione residente, a Visp e a Lugano, all’apertura del tunnel e 4 anni dopo. La direzione che ha preso lo sviluppo demografico in questi due centri, dopo l’apertura dei tunnel di base ferroviari, non potrebbe essere più antitetico. Mentre nei 4 anni che hanno fatto seguito all’apertura del tunnel ferroviario del Lötschberg la popolazione di Visp è cresciuta a un tasso annuale pari all’1.2%, tasso di crescita che ha conservato sino ad oggi, quella di Lugano è diminuita a un tasso annuale pari a –0,4%. Se invece di Lugano prendiamo Bellinzona o Locarno per il paragone, la conclusione non cambia. Anche queste due città registrano, 4 anni dopo l’apertura della NEAT una stagnazione demografica.
Notiamo ora che il primo impatto di una variazione demografica – positiva o negativa – si manifesta nel mercato immobiliare. Visp e i comuni dei suoi dintorni conoscono da anni una penuria assoluta di alloggi. Secondo gli esperti sembra che sia addirittura superiore a quella che si registra nella città di Zurigo. Lo si deduce dalla bassissima percentuale di abitazioni disponibili che vengono pubblicizzate. A Visp, Naters e Briga questa percentuale è scesa sotto il 2% mentre a Zurigo, dove il mercato immobiliare è pure molto teso, la percentuale di abitazioni che vengono pubblicizzate è invece ancora pari al 3%. Nella zona di Visp appena un appartamento è terminato viene direttamente occupato dal proprietario o dal primo inquilino. A Lugano, invece, come nel resto del Ticino, il numero delle abitazioni vuote non cessa di aumentare. E, in Ticino, quello dell’immobiliare è
il solo ramo pubblicitario in crescita. Come mai la realizzazione della gallerie di base della NEAT ha avuto, in Vallese e in Ticino, effetti così diversi? Si sa che la crescita dell’Alto Vallese è legata all’aumento dei posti di lavoro e che questo aumento è dovuto, in buona parte, allo sviluppo delle attività della fabbrica di prodotti chimici Lonza. Si parla di diverse migliaia di posti di lavoro creati nel corso degli ultimi anni. A Lugano e a Locarno, dal 2016, anno di apertura della NEAT, l’occupazione ristagna. Salvo a Bellinzona, per l’occupazione, non si trovano quindi tracce di un effetto NEAT. È possibile che l’apertura dei tunnel ferroviari di base abbia avuto altri effetti economici positivi in Ticino. Come si è già ricordato i flussi di turisti sono aumentati dopo il 2016 anche, occorre riconoscerlo, per effetto della pandemia. Ma un boom come nell’Alto Vallese, finora, non s’è visto.
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di Paola Peduzzi
Umiliare Putin è necessario? ◆
Emmanuel Macron ha detto più volte che è necessario, nella gestione compatta della crisi ucraina, non umiliare Vladimir Putin. Questo significa lasciare uno spiraglio aperto sulla possibilità di negoziare, mantenere degli spazi in cui il dialogo tra Occidente e Russia sia possibile. Il presidente francese è stato molto criticato, a partire dall’Ucraina stessa, per questa sua convinzione, che – affermano i suoi detrattori – è smentita dai fatti: è Putin che vuole umiliare l’Occidente, non il contrario. Le parole brutali utilizzate da Dmitri Medvedev, ex presidente russo che in passato è stato considerato un argine al putinismo (un’altra illusione sulla leadership russa), confermano l’obiettivo finale di Mosca: Medvedev ha dichiarato che si augura che gli occidentali scompaiano, cioè che siano umiliati al punto da non avere più né potere né voce in capitolo. Macron si è ritagliato uno
spazio in questo lungo confronto con la Russia ed è quello della diplomazia. Gli inglesi armano e formano gli ucraini; gli americani armano, finanziano e sostengono la ricostruzione ucraina; i tedeschi cercano un complicatissimo equilibrio tra il sostegno senza fraintendimenti a Kiev e il contenimento delle conseguenze economiche della guerra; i francesi alzano il telefono. È una posizione in continuità con l’ambizione storica di Parigi di creare una leadership riconoscibile all’interno di un coordinamento con gli alleati europei e americani. Ambizione che però non ha sempre avuto successo. Ora Macron si ritrova con il peso di non riuscire né a essere più un sostenitore limpido dell’Ucraina, né a convincere Putin a qualsivoglia battuta d’arresto, ed è un peso che non sostiene con facilità. C’è chi è sicuro, al contrario, che l’unico modo per costringere la Russia
a un negoziato sia l’umiliazione. Così come il Cremlino applica una forza bruta per piegare l’Ucraina (i continui bombardamenti oltre la zona della cosiddetta riorganizzazione in Donbass ne sono la prova più evidente), allo stesso modo confonde con le menzogne i suoi possibili, a noi imperscrutabili, obiettivi. Un esempio: il grano è bloccato nei porti e nei sili ucraini e Putin dice che la colpa è delle sanzioni internazionali, quando ogni giorno vediamo le immagini di missili russi che colpiscono depositi di grano e le immagini dei convogli di Mosca che trasportano il grano ucraino in territorio russo, una razzia di fatto. E sì che proprio la catastrofe alimentare generata dalla guerra pareva un punto d’incontro possibile tra Occidente e Russia. Sono state proposte molte alternative, con missioni internazionali per scortare le navi-cargo, ma ogni cosa si è impan-
tanata nella mediazione turca che, come si sa, è molto ambigua e forse anche pericolosa. Per quanto si provi a trovare una via d’uscita per Putin dall’isolamento in cui è finito dopo l’invasione dell’Ucraina, è difficile individuarne una con qualche probabilità di efficacia. E così il fronte degli «umiliatori» dice: non perdiamo tempo, con concediamo nulla, cerchiamo di rendere militarmente ed economicamente insostenibile l’aggressione russa. «Umiliare» non è un termine felice, richiama episodi storici di cui noi stessi occidentali non andiamo fieri e alimenta la propaganda russa che punta il dito contro l’accerchiamento e appunto l’umiliazione. Ma proprio queste remore linguistiche fanno il gioco se non di Putin dei putiniani, che è un gioco che ha che fare con le cosiddette provocazioni. Se dici «umiliare Putin» provochi e maga-
ri poi Putin reagisce male; se mandi armi più potenti per contrastare l’esercito russo provochi e magari poi Putin reagisce male; se allarghi la Nato perché l’esigenza di sicurezza è aumentata enormemente provochi e magari poi Putin reagisce male; se acceleri l’adesione dell’Ucraina all’Ue provochi e magari poi Putin reagisce male. Poiché ci sono di mezzo le armi atomiche, l’attenzione e la cautela sono alte, ma sempre da questa parte di mondo. Per il Cremlino si può colpire obiettivi civili, violentare, saccheggiare, rubare, deportare, persino augurarsi la fine del popolo ucraino e di tutto l’Occidente, mentre nessuno utilizza mai il termine provocazione. Se fosse soltanto una questione semantica potremmo soprassedere. Ma c’è di mezzo la tenuta strategica dell’Occidente e quindi si può anche non umiliare Putin, ma vincere la guerra, questo sì.
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Zig-Zag
di Ovidio Biffi
In valle tra lucertole e liane ◆
Ancora una volta vengo omaggiato di un numero della rivista svizzero-tedesca «Landliebe». È l’ormai abituale promozione (settanta palanche per 7 numeri all’anno) per la fornitura a domicilio di cose straordinarie: servizi giornalistici, argomenti e foto del nostro territorio, zaffate di nostalgia e testimonianze quasi ricamate sulle pagine. Insomma, roba sempre più rara: qualcosa che oscilla fra amore per le nostre radici e carezze a valori che non vorremmo mai veder svanire. Torno a parlarne per rinnovare ammirazione verso il prodotto giornalistico e per un paragone di quelli che ogni tanto mi frullano in testa. Stavolta mi limito a cercare qualcosa che leghi quanto «Landliebe» riferisce dal nord delle Alpi con una personale scoperta fatta di recente in una delle nostre valli. Per il nord il servizio che prendo in esa-
me proviene dall’ampia vallata che, nel canton Nidvaldo, scende dal Titlis verso Stans e il lago dei Quattro Cantoni. Per il sud niente nomi: non vorrei che la localizzazione possa punire qualcuno o creare disturbo a chi comunque già fatica a sopravvivere. Storia ticinese dapprima. Ancor prima della pandemia, e in periodo turisticamente morto, con mia moglie ho trascorso alcuni giorni nel Locarnese. Non propongo itinerari o escursioni che, grazie ai social, tutti già conoscono. Racconto un episodio capitato dopo aver percorso l’intera valle toccando i due o tre luoghi che frequentavamo con i figli ogni estate. Nel nucleo di un paese scopriamo un negozietto chiuso che in vetrina, oltre a specialità gastronomiche della valle, mostra anche prodotti di artigianato. Ed è su alcuni oggetti di déco murale, statuine di animali da
appendere in terrazza, che si sono soffermati i nostri occhi. Il negozio era chiuso, ma è stato facile rintracciare la gerente che gentilmente ci ha permesso di acquistare tre di questi oggetti: una lucertola, una farfalla e una salamandra, con variopinte decorazioni. Avevamo pensato che fossero oggetti, se non proprio «made in val», riconducibili a uno dei benemeriti laboratori protetti attivi nel cantone. Ricordo di aver esternato un elogio per un’offerta che usciva dai soliti clichés turistici. Portate a casa ben impacchettate, al momento di appenderle un’etichetta spunta fra la carta per imballare le tre statuine di terracotta e smonta tutto: la lucertola, la salamandra e la farfalla erano giunte in valle… dal Perù! Storia nidvaldese, ora. Racconta di una signora, madre di tre bimbi e moglie di un allevatore di Ennet-
moos. Lei è anche la fioraia della borgata e nel suo «Lädeli» offre una serie di composizioni in vasi e altri contenitori decorati da lei con speciali rivestimenti. I suoi vasi sono di plastica ma la fioraia crea un «tocco rurale» (la rivista mostra come bisogna procedere) facendo ricorso a particolari liane – credo siano vitalbe, colte nei boschi, oppure essiccate e poi macerate nell’acqua – che usa, oltre che per rivestire i contenitori rotondi, anche per contornare i lati delle cassette in cui colloca non orchidee o fiori esotici, ma umili piantine di fiori di campo, come fiordalisi e aquilegie, che in città abbelliranno balconi o giardini. L’offerta nidvaldese è sostanzialmente diversa da quella fantozziana «scoperta» in una nostra valle e, mettendole a confronto, sarebbe poco corretto pensare di invitare i negozietti di «souvenir» turi-
stici a bandire oggetti di artigianato di paesi del Terzo Mondo. Tuttavia è innegabile che dal «Lädeli» di Ennetmoos giunge l’invito a valorizzare maggiormente il grande potenziale delle nostre valli e della civiltà rurale in genere, magari per aggiungere un po’ di pervicacia al nostro spirito imprenditoriale. Ed è sorprendente scoprire che gli stessi orientamenti trovano riscontro anche nell’attualità culturale: c’è la val di Blenio premiata in Svizzera romanda per l’edizione francese de La pozza del Felice di Fabio Andina e rievocata da Sara Catella ne Le malorose (Casagrande ed.); e c’è la Val Colla palcoscenico di un originale e stravagante universo di uno dei libri più «cult» del panorama editoriale italiano: Il Tullio e l’eolao più stranissimo di tutto il Canton Ticino (ed. Minimum/Fax), primo romanzo di Davide Rigiani.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 13 giugno 2022
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CULTURA ●
Un deludente Houellebecq Lo scrittore aveva abituato i suoi lettori a ben altro, ecco forse perché Annientare non convince
Lugano e la danza Si è svolta la prima edizione di Lugano Dance Project, interessante vetrina sulle produzioni più recenti
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Alla Scala di Milano David Livermore è il regista della Gioconda in scena alla Scala fino al 25 di giugno
In ricordo di César Franck Duecento anni or sono nasceva il compositore, organista e docente di musica belga
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Le verità nascoste
Arte ◆ Silvia Giambrone esplora la complessità delle relazioni umane Alessia Brughera
Un uomo dai modi gentili e paterni cuce sulla pelle di una donna un colletto ricamato: con due punti di ago e filo imbastiti ai lati della gola, salda al suo corpo uno degli oggetti più emblematici di una tradizione tanto familiare quanto oppressiva, simbolo da una parte di un pregevole sapere artigianale prettamente femminile, metafora dall’altra della sottomissione ai codici di una cultura di genere radicati nel tempo e difficili da estirpare. È questa una delle performance più intense dell’artista di origini siciliane Silvia Giambrone, colei che si lascia cucire addosso un pizzo mettendo in scena un’azione che reca con sé una forte carica di consapevolezza, la sola in grado di far comprendere a fondo il complesso sistema di ambiguità e pregiudizi che permea la società e di portare a riedificare le politiche identitarie delle donne. Nata ad Agrigento nel 1981, Giambrone vive e lavora tra Roma e Londra ed è intenta da anni a indagare con linguaggi differenti, che spaziano dalla performance all’installazione, dalla scultura al video, le relazioni umane e sociali, focalizzando la sua attenzione sui rapporti di potere fondati sul genere. Con un approccio tanto radicale quanto poetico, l’artista è capace di cogliere con intuito e raffinatezza le intricate dinamiche interpersonali, tracciando un percorso che stimola la riflessione sui ruoli e sulle responsabilità di ciascun individuo. La tua ricerca pone particolare attenzione sui temi dell’addomesticamento e dei rapporti di potere. A quale forma di assoggettamento fai riferimento con i tuoi lavori? Mi occupo delle forme di assoggettamento meno esplicite, più sotterranee, quelle che non si possono stigmatizzare con facilità e che proprio per questo risultano più efficaci sul lungo termine e più difficili da debellare. Spesso non sono visibilmente riconoscibili perché si manifestano attraverso sottili modalità di persuasione che si instaurano soprattutto nella sfera privata, anche se poi acquistano una valenza universale. A queste forme di assoggettamento non sfugge nessuno, indipendentemente dal contesto sociale e dalla cultura. L’ambiente domestico è il luogo d’elezione di questi conflitti di potere, tanto che nella performance Nobody’s Room fai una sorta di parallelismo tra la guerra vera e propria e le dinamiche relazionali che si consolidano nella sfera casalinga. Spesso, poi, nelle tue opere sono protago-
nisti oggetti e mobili quali testiere del letto, specchi, lenzuola, tappeti, posate… Cosa rappresentano per te gli oggetti che popolano la casa? Definisco le cose che utilizzo per le mie opere «oggetti traditori», ovvero oggetti che nel momento in cui abbandonano la funzione che noi tradizionalmente gli abbiamo attribuito ci danno un’occasione di riflessione e di resistenza. Quando per esempio metto al posto del vetro di uno specchio della cera con spine, snaturando così l’oggetto stesso, cerco di renderlo un elemento che ci parla, che ci sta chiedendo di sospettare della nostra realtà. Questi oggetti ci suggeriscono un altro modo di osservare le cose, sono testimoni di ciò che ci accade: quello che mi interessa è che il loro essere testimoni venga reso esplicito poiché tutto ciò che per noi è familiare finisce con l’assuefarci. Ciò che faccio è alterarli a partire proprio dal loro «potenziale di familiarizzazione addomesticante». Tante volte la violenza unisce, salda, può arrivare addirittura ad apparire bella. È un meccanismo che spieghi molto bene nel video Sotto tiro, dove il soggetto, in un primo momento infastidito e impaurito dalla minaccia, finisce poi con il conviverci e il familiarizzarci, forse anche per esorcizzare la paura. Come interpreti il rapporto tra vittima e carnefice? E come può essere modificato a tuo avviso? La violenza spesso crea un’impossibilità o una grande difficoltà nell’affrontarla. Alcuni studi neurologici hanno di recente dimostrato come un trauma sulla mente inibisca fisiologicamente delle risposte. La vittima non ha più gli strumenti per reagire proprio perché l’abuso glieli ha sottratti. Il primo passo per fronteggiare questa situazione è la consapevolezza della sopraffazione. Dopo una violenza di qualsiasi tipo non si può più pensare a noi stessi come prima ma è necessario porsi in una fase di transizione che ci rende coscienti del fatto che si è formato un certo tipo di legame e che in qualche modo bisogna scioglierlo. Oggi questo è ancora un grande tabù sociale. Il messaggio veicolato dai tuoi lavori è profondo e complesso. Credi però molto anche nel valore estetico dell’opera d’arte. Come riesci a coniugare ed esprimere visivamente questi due aspetti? Credo che le immagini abbiano un grande potere. Confido nella consonanza segreta che c’è tra l’estetica dell’immagine e la nostra psiche, la nostra mente. È un’intesa in parte innata e in parte alimentata con l’e-
Silvia Giambrone Mirror n.1, 2018, cera, resina, acacia spinosa, ottone, 100 x 65 cm. (courtesy della collezionista)
ducazione. Un’opera d’arte, proprio grazie al suo valore estetico, può modulare una forza capace di veicolare meglio un certo messaggio. Riuscire ogni volta a trovare questo accordo si rivela una delle cose più interessanti anche a livello personale. Le soluzioni estetiche, infatti, sono quelle che più mi «tradiscono»: riesco a tenere perfettamente sotto controllo il messaggio che voglio comunicare ma quando poi cerco di presentarlo esteticamente rimango spesso sorpresa dal risultato. È in questo scarto che avviene l’imprevisto, il mistero. Succedono le cose proprie dell’arte, che per me hanno una grande risonanza spirituale. Il valore estetico delle tue opere viene amplificato dalla grazia con cui le concepisci e le consegni al pubblico. Tu stessa parli dei tuoi lavori come di una sorta di «denuncia in forma poetica». Tra l’altro la tua formazione è avvenuta an-
che sui libri di poesia e sui saggi di filosofia… Forse nella mia vita ho studiato più la filosofia e la poesia che l’arte. Negli ultimi anni lo faccio meno perché mi sono accorta che la filosofia sta riversandosi con troppa prepotenza nell’arte, facendola diventare una specie di applicazione pratica delle teorie di alcuni. Io preferisco rischiare di dire sciocchezze piuttosto che dire cose perfettamente allineate al sistema. La poesia è la cosa in cui credo di più. Sono convinta che non sia possibile accettare la brutalità di alcune situazioni senza capirne la poeticità. È un po’ come il rapporto tra vita e morte o tra bene e male: sono concetti che non puoi separare. La poesia serve a non farsi terrorizzare dalla violenza, serve a diluirla e a non lasciarsene sopraffare. Hai esposto i tuoi lavori in molti musei prestigiosi, hai vinto il Premio VAF nel 2019, sei stata la se-
conda donna artista a portare le tue opere nella Reggia di Versailles e sei stata nominata Ambasciatrice di Kaunas, capitale europea della cultura del 2022. Quale direzione sta imboccando la tua ricerca attuale e quali sono i tuoi progetti artistici attuali? Il mio più recente impegno espositivo è stato una mostra presso la Galleria Prometeo di Milano. Per quanto riguarda la mia ricerca, al momento sto portando avanti un progetto che ho in mente da diversi anni ma a cui solo adesso sto dando concretezza. Con questo lavoro mi interessa capire come rendiamo monumentale quello che fino a ora è sempre stato concepito solo come privato. Si tratta di una visione più estesa di tematiche che fanno parte da sempre della mia indagine artistica. Mi sto anche dedicando a un progetto su uno stalker, legandomi a una vicenda vissuta in prima persona. Un lavoro che parla di minaccia e di resistenza creativa.
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CULTURA
Che ne è stato di Houellebecq? Letteratura
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Poco sesso e sentimenti virtuosi: in Annientare lo scrittore francese è quasi irriconoscibile
Roberto Falconi
È proprio vero che non ci sono più certezze, se anche Michel Houellebecq è diventato buono: pochissimo sesso, molti sentimenti virtuosi, il tutto esposto attraverso un romanzo apparentemente sconclusionato. Insomma, dicono alcuni lettori (e molti recensori), che ne è stato dell’autore di Sottomissione e di Serotonina, giusto per restare agli ultimi titoli pubblicati? A me pare che in realtà Houellebecq abbia scritto uno dei suoi testi più radicalmente nichilisti, capace di Annientare anche la forma stessa del genere romanzo, depotenziandone le possibilità espressive e conoscitive. Se il mondo è così poco intelligibile, allora anche la letteratura non può che abdicare al proprio ruolo di (tentare di) mettervi ordine. A cominciare dalla costruzione dell’intreccio, organizzato su tre cerchi concentrici. Il primo è costituito da una sorta di thriller di respiro internazionale: una serie di attentati terroristici, minuziosamente filmati e fatti circolare in rete, scuote la Francia e l’Europa tutta. Si inizia con un video (falso ma tecnicamente perfetto) che mostra la decapitazione di Bruno Juge, ministro dell’Economia francese. Poi vengono colpiti (questa volta sul serio) una nave portacontainer cinese, un’azienda danese leader nella vendita di liquido seminale e un barcone di migranti. Gli investigatori non ne vengono a capo. La seconda vicenda riguarda le imminenti elezioni francesi (siamo nel 2027): Bruno Juge sostiene Benjamin Sarfati, star televisiva del partito presidenziale, già sapendo che dopo un quinquennio sarà lui il candidato all’Eliseo. Infine, c’è la tormentata storia famigliare del protagonista del romanzo, Paul Raison, principale collaboratore e confidente di Bruno. La perfezione geometrica della costruzione è tuttavia solo formale, venendo incrinata da elementi che mimano l’impossibilità di accedere pienamente alla real-
tà e alla sua complessità. I tre piani, pur accomunati dal motivo del conflitto, restano infatti sostanzialmente irrelati dal punto di vista narrativo e la vicenda degli attentati è addirittura abbandonata, tanto che non si saprà mai chi siano e con chi ce l’abbiano i terroristi: se l’Occidente va male, non c’è più nemmeno un colpevole. E Houellebecq, non a caso, rinuncia qui a qualsiasi sovrastruttura e alle pagine saggistiche che caratterizzavano i romanzi precedenti. Anche i personaggi appaiono poco memorabili, e sorprendono più che altro per la loro stereotipia (evidenziata dalla frequenza di nomi parlanti) e l’assenza di profondità psicologica. Paul è sposato con Prudence, vegana e seguace della wicca, con cui si ricongiungerà dopo un lungo periodo da separati in casa. L’ictus che colpisce suo padre è l’occasione per riportarlo nella vecchia casa immersa nei vigneti del Beaujolais, riunendolo alla sorella Cécile (ottima cuoca e, come il marito Hervé, cattolica di destra) e al fratello Aurélien, restauratore di tappezzerie medievali spinto al suicidio dalla moglie Indy, giornalista fallita e rancorosa (rancorosa perché fallita) che anni prima aveva scelto un donatore di sperma (nero) nonostante il marito non fosse sterile. Credo contribuisca a questo effetto di annichilimento delle possibilità conoscitive del genere romanzo anche una sorta di parodizzazione dello stesso, ottenuta attraverso l’ostentata inverosimiglianza di alcune situazioni. Valgano, su tutte, la scena del rapimento del padre di Paul dall’RSA dov’è ricoverato, che la famiglia commissiona a un gruppo di estremisti anti-eutanasia. O quella in cui lo stesso Paul, prima di riprendere dopo una lunghissima astinenza la relazione con Prudence, decide di verificare la propria integrità sessuale con una escort scelta più o meno a caso tra gli annunci, e che, nella penombra dell’appartamento di lei, si rivelerà, a
Un dettaglio della copertina.
rapporto già avviato, essere la figlia di sua sorella. Andrà notata pure l’assenza di significativi cambiamenti di ritmo e la sostanziale continuità temporale nei passaggi tra i capitoli, quasi a indicare che nemmeno la finzione letteraria riesce a porre qualche delimitazione nel flusso magmatico degli eventi. Realtà e finzione risultano pertanto indistinte e indistinguibili, come mi pare mostrino le provocatoriamente numerose e minuziose descrizioni dei sogni di Paul. Anziché fissarsi, come molti hanno fatto, sulla noia che il lettore prova nelle prime seicento pagine, sarebbe forse più costruttivo riflettere su quanta fatica sia costata all’autore la costruzione di un’atmosfera così radicalmente anestetizzante. E, in tutta onestà, ridimensionerei anche l’entusiasmo di alcuni recensori per l’ultimo segmento del libro (che nella generosa interlinea dell’edizione in italiano arriva a 739 pagine), quando a Paul è diagnosticato un tumore particolarmente aggressivo, senza che ciò inneschi una vera riflessione sulla malat-
tia (siamo, insomma, oltre la ricerca dell’Islandese-Leopardi). Né può salvare o costituire un orizzonte di possibilità l’amore per una donna (incontrato lungo la trama anche da Bruno e Aurélien), che mi sembra rappresentato soprattutto nella prospettiva della perdita. Restano, a conferma della piena consapevolezza di questa operazione di depotenziamento del romanzo, alcune pagine davvero memorabili, prove inconfutabili della lucidità con cui l’autore sa guardare al mondo: Paul che prova dolore a seguito del pensionamento del proprio dentista («era quasi scoppiato in lacrime all’idea che sarebbero morti senza più rivedersi, anche se non erano mai stati particolarmente intimi. Quello che non poteva sopportare era l’impermanenza di per sé; era l’idea che una cosa, qualunque cosa, finisse»); Paul che riflette sul fatto che abbia sempre preferito fare l’amore sul fianco («di tutte le posizioni sessuali, era la più amorosa e sentimentale, la più umana»), dormire sul fianco («l’unico modo per
ritrovare quella posizione fetale che suscita in noi una irreparabile nostalgia»), nuotare sul fianco («l’unico modo che trasforma il nuoto in un’attività innocua, banale»), tanto che «si sarebbe potuto dire che Paul aveva cercato di vivere la maggior parte del tempo sul fianco»; Paul che guarda un documentario sulla migale, che molti allevano come animale domestico nonostante attacchi anche chi le dà il cibo («Qualsiasi sentimento le rimane per sempre estraneo. In sintesi, come concludeva il commentatore, la migale non ama gli esseri viventi»). «Avremmo avuto bisogno di meravigliose menzogne», dice Prudence a Paul nella frase che chiude il romanzo. Non tanto l’addio tra due amanti, ma una vera e propria dichiarazione di poetica: anche il tempo della finzione e della manipolazione letteraria pare finito di fronte al non senso che ci circonda. Bibliografia Annientare, Michel Houellebecq, Milano, La Nave di Teseo, 2022.
Le parole danno (anche) i numeri
La lingua batte ◆ Quanti vocaboli conosciamo? Qual è la parola italiana più utilizzata in assoluto? Ricordando il lavoro di Tullio De Mauro Laila Meroni Petrantoni
Capita prima o poi a tutti di sprofondare nella pigrizia linguistica, in quel non aver voglia di far fatica e di tirare in ballo il repertorio dei sinonimi, accessibile ma scomodo come quella scatola riposta in cima all’armadio. Così ci limitiamo a una scelta minima di parole per comunicare con gli altri, senza chiedere di fare uno sforzo in più al nostro cervello, che peraltro ha già tanto da fare. Ma è il suo mestiere, e (se solo lo volessimo) nella maggior parte dei casi è in grado di andare a pescare dai cassetti «lessicali» la parola giusta per concretizzare un pensiero. Cosa contengono esattamente questi cassetti? Fra i linguisti più amati in Italia figura Tullio De Mauro, scomparso nel 2017, che tanto si è dedicato a scovare parole, contare le volte in cui vengono usate, da chi e perché. Nel corso di interi decenni, De Mauro ha pazientemente radiografato l’italiano degli italiani, tanto che ancora oggi in base ai suoi studi lo citiamo per alcuni con-
cetti entrati a far parte del bagaglio del settore. Nel 1980, come appendice del suo volume Guida all’uso delle parole, il grande linguista ha risposto a una curiosità che stuzzica molti: quante parole conosciamo? quante di queste usiamo regolarmente? Ebbene, sono stati quantificati in 47’000 i vocaboli conosciuti e adoperati dai parlanti più rappresentativi e per questo presi come riferimento (chi ha un’istruzione medio-alta, indipendentemente dalla professione e dagli interessi personali). Sono le parole di uso comune, che pur se non utilizzate molto spesso, potenzialmente rendono il discorso più ricco e preciso. Le ricerche di De Mauro hanno pure individuato e soppesato quello che è il Vocabolario di base (VdB): contiene 6500-7000 parole, irrinunciabili in quanto destinate a comporre il 98% dei discorsi. A sua volta il lessico di base è suddiviso in tre categorie: Lessico fondamentale (formato da 2000 vocaboli circa che ci di-
ventano familiari fin da piccoli e che usiamo spessissimo, come l’articolo il o il verbo vedere; costruisce il 90% del testo), Lessico di alto uso (presente nel 6% del discorso, con 2500 parole un po’ meno frequenti ma che conosciamo tutti bene, come cucinare o liquido)
Il linguista Tullio De Mauro (19322017). (YouTube)
e Lessico di alta disponibilità (utilizzato nell’1-2%, ma tutti sono in grado di comprenderlo e farne uso: si cita come esempi pepe, oppure asino per «stupido»). L’elenco delle parole del Lessico fondamentale di De Mauro, anche nel suo aggiornamento del 2016, a volte può stupire: per fare qualche esempio, in questa categoria è inserito candidato, o risorsa (mentre risparmio risulta solo fra i lemmi di alto uso) oppure verbale (per contro verbo risulta pure di alto uso). Inoltre, a sorpresa (ma non troppo) troviamo oggi web inserito nel lessico fondamentale, il che sta anche a indicare come gli elementi che compongono questi insiemi mutino nel tempo: tra la prima e la seconda versione del VdB, diverse centinaia di parole sono state espulse, a vantaggio di altre che fino a qualche decennio fa erano appannaggio di «pochi» parlanti. Altri numeri suonano interessanti in questa nostra modesta carrellata.
Può essere simpatico sapere che ben due terzi del VdB è composto da parole in uso fin dalle origini dell’italiano, utilizzate già da Dante, Petrarca e Boccaccio; e che più della metà del totale è da fare risalire al latino (per altre curiosità, si invita a leggere Una base di dati sul Vocabolario di Base della lingua italiana, di Thornton, Iacobini, Burani). Sono, questi, solo numeri per gli amanti delle statistiche? Certamente no, perché il lavoro di Tullio De Mauro è stato utilissimo per rivedere e rendere più comprensibili testi di vario genere, nell’ambito della didattica, della divulgazione scientifica, della trasmissione di testi istituzionali. All’indimenticato linguista italiano – e al suo esercito di collaboratori – si deve anche l’elenco delle quaranta parole più frequenti in italiano: si passa da il al vertice della classifica, alla quarantesima posizione assegnata al vocabolo più amato dagli italofoni pigri: cosa.
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Anno LXXXV 13 giugno 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
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CULTURA
La città della danza In scena
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Lugano si propone come ideale ponte di confronto tra Svizzera, Europa e Nordamerica
Giorgio Thoeni
Per un’intera settimana a fine maggio, Lugano si è trasformata in una piccola capitale della danza con la prima edizione di Lugano Dance Project, un festival diffuso negli spazi del LAC e in altri luoghi, alcuni dei quali hanno ospitato per la prima volta uno spettacolo dal vivo.
La danzatrice Megumi Eda durante la sua performance al LAC.
Il festival ha offerto al pubblico un intenso caleidoscopio di impressioni ed emozioni L’iniziativa, voluta da Michel Gagnon con la collaborazione di Lorenzo Conti e Carmelo Rifici, larvatamente ispirata alla storica esperienza della comunità utopica di Laban al Monte Verità, ha riunito alcune delle più originali espressioni della danza contemporanea e nuove produzioni di tre coreografe: la canadese Virginie Brunelle, l’angloamericana Annie Hanauer e la svizzera Lea Moro. «Abbiamo deciso di investire sulla danza in quanto disciplina universale che riassume l’insieme delle arti, tra arte, gesto e movimento», ha dichiarato Gagnon nel presentare la manifestazione, sottolineando quanto la proposta sia anche una sorta di sintesi della sua vita professionale, una base su cui costruire un ideale ponte di confronto e pensiero tra Svizzera, Europa e Nordamerica. Un bella ambizione, soprattutto per un territorio che ha sempre faticato a investire in modo continuativo sulla danza contemporanea. Per inaugurare i numerosi appuntamenti, il Festival ha colto l’occasione per presentare Tanzfaktor, una selezione di progetti di compagnie emergenti proposta da RESO, la rete
svizzera della danza. Una scelta operata su 70 candidature che ha schierato le coreografie di Lisa Laurent & Mattéo Trutat, Luca Signoretti, Alba Castillo e Lucas del Rio. Quattro pezzi brevi di grande fisicità e dall’ottimo livello tecnico pur nella loro diversità, una caratteristica diffusa in un festival che ha voluto proporre una serie di originali paradigmi artistici e
cambi di registro. Fattori interessanti che, come per la musica, trasformano quest’arte in un’esperienza, a patto di lasciarsi trasportare da una fruizione spesso associata a un’estetica della lentezza. Per ricordare il Festival non servono pagelle se in una retrospettiva ci si accontenta di caleidoscopiche istantanee e sensazioni. A cominciare da Su-
ite Zero di Simona Bertozzi, un progetto fra i più esperienziali e intensi del festival, una raffinata ricerca sul rapporto fra musica e corpo danzante nella trasformazione dell’equilibrio in un’entità eterea, leggera e al contempo palpabile. Non ha invece sorpreso oltre misura Fables di Virginie Brunelle, spettacolo ispirato all’esperienza del Monte Verità. L’attesa coreogra-
fa canadese ha proposto una lettura spettacolare della cifra labaniana con un omaggio nel suo stile: fisico, corale ma dagli effetti discutibili. Sono stati molto seguiti gli appuntamenti con la brasiliana Ana Pi, empatica allo stato puro, elegante e lieve per narrazioni sulle danze urbane accanto a una ricerca poetica e politica su Haiti fra simbolismi ancestrali e odierni. La pluripremiata belga Cindy Van Acker ha presentato quattro assoli fra la sede della Società di Navigazione e il Lido di Lugano, inediti site-specific per elaborate scomposizioni corporee. Bella e intensa l’immersione contemplativa della coreografa fiorentina Cristina Kristal Rizzo nella solitudine espressiva neoclassica museale grazie alla bellezza regale di Megumi Eda nell’ala del MASI affacciata sul lago. Annie Hanauer ha proposto (con Teatro Danzabile) un’ipnotica lenta meditazione sullo spazio, utopia per conquiste inclusive nella disabilità. Due progetti svizzeri hanno infine siglato la manifestazione. Anzitutto l’applaudito sequel sull’invisibile di Lorena Dozio che con Come un salto immobile percorre i suoi mondi trasversali alla ricerca dei rapporti fra corpo, silenzio, suono e narrazione, un’audiodanza dove l’immaterialità diventa movimento dalle tracce impressioniste. Convincente anche il progetto di Lea Moro con i suoi danzatori per l’iperventilatoria Another Breathe, metafora sul respiro, motore mozzafiato e minimalista per una sopravvivenza ambientale. Fra spettacoli, happening e laboratori, un programma che ha lasciato intendere quanto Lugano Dance Project voglia diventare una vetrina anche in futuro.
La guerra è sempre stata atroce e ingiusta I nostri antenati/2
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Continua la nostra retrospettiva sui conflitti nell’antichità
Elio Marinoni
lato Atene e i suoi alleati (Lega delio-attica), dall’altro Sparta e i suoi alleati (Lega del Peloponneso), fino alla vittoria finale di quest’ultima. Lo storico di questa guerra è l’ateniese Tucidide, la cui opera narra i primi vent’anni del conflitto, fino al 411 a.C. Tucidide riflette sul degrado intellettuale e morale causato dalla guerra (III, 82) e denuncia la logica brutale dell’egemonia nel cosiddetto Dialogo degli Ateniesi e dei Melii (La guerra del Peloponneso, V, 86-116), resoconto drammatizzato dell’incontro tra una delegazione ateniese e una degli abitanti della piccola isola di Melo, colonia di Sparta, rea di non volere aderire alla Lega delio-attica capeggiata da Atene. Alle ragioni degli isolani gli Ateniesi ribattono cinicamente facendo valere la legge del più forte: «Chi ha forze superiori fa tutto ciò che gli è possibile e ai più deboli non resta che accettare […] noi siamo qui nell’interesse del nostro impero» (V, 91). È soprattutto alle tragedie di Euripide e alle commedie di Aristofane che si deve una radicale critica della guerra. Il primo lo fa servendosi del filtro del mito (in primis la guerra di Troia); il secondo, mettendo direttamente in scena la contemporaneità. Nelle Troiane, rappresentate nel 415 a.C., sono le donne della città
di Troia, conquistata dai Greci grazie all’inganno del cavallo, a riflettere sulle atrocità della guerra intonando un canto funebre per la città distrutta (vv. 511-567). Uno dei momenti di maggior pathos della tragedia è costituito dal lamento della vecchia regina Ecuba sul cadavere del nipotino Astianatte (Euripide, Troiane, vv. 1167-1191), che riprende tra l’altro il motivo erodoteo dell’in-
naturalità della guerra: «Tu non mi seppellirai; sono io, una vecchia senza casa e senza figli, a mettere nella tomba il tuo corpo straziato, così giovane […]». Negli Acarnesi (425 a.C.) Aristofane prende posizione contro la guerra che ormai da sei anni contrapponeva Ateniesi e Spartani (e i rispettivi alleati). La critica è affidata al protagonista Diceopoli (un no-
Wikipedia
Un’efficace rappresentazione delle atrocità della guerra si deve al tragediografo ateniese Eschilo, che nel 472 a.C., a soli 7-8 anni di distanza dalla vittoriosa conclusione della seconda guerra persiana, mise in scena i Persiani. La trovata geniale di Eschilo fu di ambientare la tragedia non ad Atene, ma nella reggia persiana, rappresentando così la guerra dalla parte dei vinti. Nel lamento del coro l’accento è posto sulla giovane età dei defunti: «Ahimé signore, ahimé per il nostro bell’esercito perduto […] La terra geme sui giovani morti […].» (Persiani, vv. 917 ss.). Alle guerre persiane, che videro contrapposte Grecia e Persia, Europa ed Asia, Occidente e Oriente, sono dedicate in buona parte le Storie di Erodoto. In un passo del I libro, egli mette in bocca a Creso, il re di Lidia sconfitto dal persiano Ciro, questa riflessione sull’assurdità della guerra, che implica un rovesciamento dell’ordine naturale delle cose: «Nessuno è così stupido da preferire la guerra alla pace: nella pace infatti i figli seppelliscono i padri, in guerra invece i padri seppelliscono i figli» (I, 87, 4). Gli ultimi decenni del V sec. a.C. (431-404 a.C.) videro deflagrare in Grecia la guerra del Peloponneso, un conflitto totalizzante nel quale si affrontarono due coalizioni: da un
me parlante: «La città giusta»), che denuncia la futilità dei motivi di carattere economico che a suo avviso portarono al conflitto (vv. 509-539). Un’altra commedia di Aristofane, La pace (421), celebra la tregua (destinata invero a durare ben poco) nota come pace di Callia, esaltando la pace come periodo di prosperità e tranquillità (vv. 1127-1190). Nella Lisistrata (411), infine, la protagonista che dà il nome alla commedia assume una clamorosa iniziativa: le donne ateniesi attuano lo sciopero dell’amore per indurre i loro uomini alla pace e occupano l’Acropoli di Atene, dove è custodito il tesoro, per bloccare i fondi necessari ad alimentare la guerra (Lisistrata, in particolare vv. 486 ss.). L’associazione tra pace e prosperità e quella tra pace e democrazia sono messe in luce dall’oratore ateniese Isocrate (IV sec. a.C.) nel discorso intitolato appunto Sulla pace (356354), in cui esorta gli Ateniesi a porre fine alla cosiddetta guerra sociale (ossia contro gli alleati di Atene) e prende posizione contro l’imperialismo ateniese, che «ci ha reso odiosi ai Greci e in tutti i modi ci ha afflitti», mentre «la democrazia prospera e permane nella pace e nella sicurezza» (Isocrate, Sulla pace, 19 e 51). (2 – Continua)
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CULTURA
La Gioconda si salva da sola
Opera ◆ È andata in scena martedì 7 giugno 2022 al Teatro alla Scala, la prima recita della nuova produzione dell’opera più celebre di Amilcare Ponchielli. Spettacolo fuori fuoco. Pubblico in festa Davide Fersini
Fra tutti i titoli affidati in questi anni a Davide Livermore dal Teatro alla Scala, La Gioconda, è senza dubbio, il più complesso e temibile. L’opera di Amilcare Ponchielli, andata in scena per la prima volta proprio in quel teatro l’8 aprile 1876, è infatti «una fatale disgrazia drammaturgica» – per citare Folco Portinari – che poco o nulla si presta alle riletture dense di significato cui il regista ci ha ormai abituati. Il libretto di Tobia Gorrio – anagramma sotto cui si cela, consapevole del proprio misfatto, Arrigo Boito – riscrive un dramma in prosa di Hugo, Angelo, tyran de Padoue, emendandolo però di ogni riferimento politico e spostando la scena nella più spumeggiante Venezia. Quello che resta è una trama un po’ scombinata, carica di orrore e patetismo, truculenta e a tratti grottesca in cui, incredibilmente, il grandguignol e la scapigliatura si tendono la mano. La cornice della vicenda è un pentagono del desiderio in cui nessun amore è corrisposto tranne uno, mentre i personaggi principali sembrano più stereotipi narrativi che figure atte a facilitare l’identificazione e non sorprende, quindi, che Ponchielli abbia guardato al grand-opéra per fornire il supporto musicale adeguato a un simile pasticcio. Sulla scia di quel modello, il libretto si riduce a un pretesto per la macchina teatrale, per le canzoni, le romanze, le scene d’assieme e i
balletti; a cominciare dalla celeberrima «danza delle ore», che tutti noi ricordiamo magnificamente interpretata dagli ippopotami di Walt Disney. In un simile parco giochi per melomani, tutto è pensato in funzione delle voci e al regista non resta altro che fabbricare delle magnifiche scenografie su cui piazzare i cantanti in pose plastiche. Coerentemente con queste premesse, Livermore decide, pertanto, di concentrarsi sugli effetti scenici, sui costumi e sulle proiezioni, piuttosto che perdere tempo a indottrinare i cantanti su come interpretare le loro parti; costruisce una Venezia tutta filigrane e trasparenze, ispirata ai disegni della Venise céleste di Moebius, porta sul palco un veliero a dimensioni naturali e lascia che quattro servi di scena in veste di Pulcinella movimentino l’azione al posto dei protagonisti. Lo scenografo Giò Forma ricrea, così, una Venezia evanescente e nebulosa, foscamente delineata dalle luci di Antonio Castro, fra i cui vicoli si muove una turba di personaggi abbigliati e acconciati da Mariana Fracasso. Per una volta il regista può sedersi in platea e godersi lo spettacolo, perché alla riuscita di Gioconda basta il tableau vivant. Liberato dal fardello della vicenda, lo spettatore può finalmente concentrarsi su quello che conta davvero in Gioconda: il canto. Per ognuno
dei sei protagonisti – uno per tipologia vocale – Ponchielli ha scritto almeno una romanza, un’aria o una canzone formidabile oltre a due memorabili duetti e innumerevoli pezzi concertati. Nel clangore roboante di questa festa del belcanto agli interpreti viene, però, chiesto di emergere soltanto per bellezza di timbro e sicurezza nel registro acuto, senza perdersi in finezze di fraseggio o ricercatezze nelle dinamiche. Sulla carta la Scala aveva apparecchiato il cast ottimale per rispondere a queste necessità, nelle cui fila brillavano i nomi di Sonya Yoncheva e Fabio Sartori. La prima, intestataria del ruolo del titolo, è caduta vittima di indisposizione all’inizio della produzione ed è stata sostituita dalla magnifica Saioa Hernández, vera vincitrice della serata. Sartori, infortunatosi nella fase finale delle prove, ha ceduto il ruolo di Enzo Grimaldo a Stefano La Colla, catapultato in palcoscenico praticamente a due giorni dalla generale. La voce è di schietto tenore lirico e naviga attraverso le spigolosità della parte senza timori; la presenza scenica non è memorabile, ma ha salvato la serata. Merita invece davvero il basso Erwin Schrott, che delinea un Alvise Badoero credibilissimo. Del tutto a proprio agio, anche se a tratti un po’ spaesata dalle incongruenze del personaggio, il mezzo-soprano Daniela Barcellona
Una scena della Gioconda in programma alla Scala. (Marco Brescia & Rudy Amisano)
come Laura Adorno. In grave difficoltà, invece, il contralto Anna Maria Chiuri che della cieca non ha né lo spessore vocale né il timbro. Chiude l’elenco dei protagonisti il Barnaba del baritono Roberto Frontali, la cui voce, usurata dai molti anni di carriera, non riesce più a salire in maniera credibile oltre il registro medio. L’applauso più intenso dello spettacolo va ai giovani danzatori della Scuola di ballo dell’Accademia del teatro alla Scala diretta da Fréderic Olivier. È l’unico momento della serata in cui fra buca e palcoscenico sembra esserci accordo totale. Mosso a pietà per la sua protagonista, a pochi minuti dalla fine, Livermore de-
cide di riprendersi il ruolo di demiurgo; con un trucchetto da vaudeville, si intromette nella vicenda, riscrive il finale e garantisce a Gioconda una via di fuga e di salvezza, giustificando in questo modo tutto l’incomprensibile andirivieni di angeli svolazzanti a mezz’aria. Una trovata sorprendente e del tutto superflua, perché Gioconda si era già ampiamente salvata da sola! Al termine di quattro ore di musica e nonostante tutto, infatti, il pubblico è in visibilio, a dimostrazione, se ve ne fosse bisogno, che l’opera non è una sotto-specie della prosa e il suo successo dipende da fattori molto più intimi della semplice razionalità. Si replica fino al 25 giugno. Annuncio pubblicitario
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Tra ragione e romanticismo
Anniversari ◆ Quest’anno ricorre il bicentenario della nascita del compositore César Franck
L’hip hop vi aspetta
Openair ◆ Fra i molti ritorni musicali dell’estate vi è anche quello hip hop di Frauenfeld (6-9 luglio)
Giovanni Gavazzeni
Il corteo che accompagnò la salma di César Franck, morto a Parigi l’8 novembre 1890, dalla Basilica della Sainte-Clotilde dove era stato organista ammirato soprattutto per le sue straordinarie improvvisazioni al cimitero di Montrouge nella parte meridionale del XIV arrondissement di Parigi, era composto da familiari, amici e allievi. Nessuna presenza ministeriale o ufficiale. Il compositore belga il cui bicentenario della nascita cade quest’anno, fattosi largo come pianista nella Parigi di Balzac, moriva illustre sconosciuto per i salotti delle madame di Proust. Gli avversari di lunga data come il celebratissimo Camille Saint-Saëns che definiva Franck «quel vecchio orrendo con i favoriti a cotoletta e l’aria da vecchio domestico», non avevano fatto i conti con la devozione degli allievi: 176 fra privatisti ricevuti nella casa di Boulevard Saint-Michel e iscritti alla classe d’organo al Conservatorio (mai gli fu attribuita quella di Composizione). Soprattutto l’affezione tenace dei discepoli maggiori, i compositori Ernest Chausson, Henri Duparc e Vincent d’Indy, contribuì a ribaltare l’oblio in crescente gloria postuma. Apoteosi nel 1904 alla scoperta della statua eretta davanti alla «sua» Sainte-Clotilde. Perfino il clericale e antisemita d’Indy ironizzò sugli eccessi dei discorsi ufficiali: «il Direttore delle Belle Arti in rappresentanza del Ministro, Henry Marcel (che tra l’altro è massone), ha fondato tutto il discorso sulla fede ardente, sull’alto pensiero religioso, sulla figura sublime di Cristo … si sarebbe detto un sermone. Ma il più bello è stato Colonne [celebre direttore d’orchestra francese] che da buon ebreo ha esaltato la fede cristiana e definito Franck un santo».
I fedelissimi discepoli di César Franck contribuirono a riscattarlo dall’oblio che dopo la morte incombeva sulla sua persona Il processo di mitizzazione era sfuggito di mano agli zelanti allievi che per quindici anni avevano innalzato un monumento di epiteti al Maestro, descrivendolo come goethiano Pater
César Franck in un ritratto trovato presso la Philharmonie di Parigi. (Keystone)
Seraficus, Grande Incompreso, novello Bach, «Fra’ Angelico dei suoni», così lo definì ancora nel 1935 un altro insigne membro di quella costellazione elitaria di scolari, Pierre de Bréville, nei saggi intitolati I fioretti del Padre Franck. I franckisti e il loro San Pietro, d’Indy, ammiratori del dilagante Wagner e critici verso l’organizzazione e i programmi vetusti del Conservatorio di Parigi, edificarono il loro sancta sanctorum, l’eccellente Schola Cantorum, votata al culto del gregoriano, del contrappunto e della fuga: motto della scuola: «l’arte non è mestiere, ma insegnamento per elevare lo spirito». Il primo che non amava quell’immagine di Franck santo patrono dell’arte idealista era il figlio volterriano e agnostico (e manco a dirlo allievo) Georges Franck, che obtorto collo dovette rassegnarsi al Vangelo divulgato dagli apostoli, i quali, forgiata la mono-immagine di Franck-Messia dell’Arte francese dedicatosi alle forme più elevate (l’organo, la musica da camera, la sinfonia), misero tutto il resto della produzione in ombra. Si esaltarono i meravigliosi Corali e tutti i pezzi organistici in genere, indiscusso vertice assoluto della produzione fine secolo; le perle rare cameristiche, ancor oggi molto eseguite, come la Sonata per pianoforte e violino e il fiammeggiante Quintetto per archi e pianoforte; più l’unicum sin-
fonico, la ciclica e monumentale Sinfonia in re minore, i molto suggestivi poemi sinfonici (Le Chausseur maudit, Les Eolides, Les Djinnis); le parti angeliche e sinfoniche dell’oratorio Rédemption e quelle mistico-sublimi delle Béatitudes (la figura granghignolesca di Satana e i cori dei peccatori furono censurati con l’impossibilità del Padre Franck di esprimere in qualunque modo il male). Il riscatto degli importanti tentativi operistici di Franck è dietro l’angolo? L’infaticabile equipe del Palazzetto Bru Zane, il Centro della Musica romantica francese con sede a Venezia, presenterà, oltre a doverosi omaggi sinfonici, cameristi e organistici, l’opera Hulda al Teatro degli Champs-Elysées di Parigi (1 giugno), dopo il rodaggio a Liegi e Namur. L’altro Franck, l’autore drammatico e sensuale che camminava nella stessa terra di miti e leggende nordiche di Wagner (il soggetto, ambientato nell’XI secolo nelle lotte fra paganesimo e cristianesimo, è tratto da Halte Hulda, poema del poeta nazionale norvegese Björnsterne Björnson), attende ancora la sua ora. Tutta l’opera di Franck è bifronte. Incarna nelle melodie concentrate, nella densità armonica e nell’incessante modulare che infastidiva il giovane Debussy, uditore delle sue lezioni, la contraddizione costante tra classicismo della ragione e segreto romanticismo del cuore.
Lo dicono in molti, e a noi non resta che confermare e ribadire: la Svizzera è uno dei paesi con il maggior numero di openair per abitante, riuscendo in questo modo, grazie a una programmazione oculata, a rispondere ai desideri dei cultori della maggior parte dei generi musicali. È anche il caso di Frauenfeld, che nato nel 1985 come Out in the Green Festival con proposte soprattutto blues e rock, dal 2007 si dedica unicamente all’hip hop. E a giusta ragione, se pensiamo che in pochi anni si è trasformato nel più grande appuntamento d’Europa per la musica rap e trap. La kermesse in aperta campagna sull’arco di alcuni giorni propone una cinquantina di acts (concerti) sparpagliati su numerosi palchi, in un ambiente composto per lo più da giovanissime e giovanissimi, che oltre a sentire i propri beniamini (star dello show system mondiale – per la serie: citate un nome e vedrete che è stato a Frauenfeld – come Eminem, Jay-Z, Kanye West, Snoop Dogg, 50 Cent, Wiz Khalifa, Kendrick Lamar,…) hanno anche modo di pernottare nel camping a pochi passi dai palchi e di visitare il food village, nel solco della migliore tradizione festivaliera. Dopo due anni di pausa, ecco dunque alle porte l’edizione 2022, con una proposta all’altezza degli scorsi anni, come dimostra la line up, che riporta, solo per citare gli artisti principali e più celebri, i nomi di Megan Thee Stallon, Tyler, The Creator, Playboi Carti, Lil Uzi Vert, Polo G, Capital Bra, Lil Baby, J. Cole, A$AP Rocky, Sky Mask The Slump God, Symba. L’hip hop, dicevamo, è musica giovane per antonomasia (anche se il rap l’anno prossimo festeggerà il mez-
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zo secolo di vita), e proprio i giovani, in periodo pandemico, hanno dovuto confrontarsi forse più dolorosamente di altri con chiusure e mancanza di momenti aggregativi. È per questo che «Azione» ha deciso di mettere in palio 2x2 pass per tre giorni che garantiranno l’accesso alla grande festa dell’hip hop sostenuta da Migros.
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Lil Uzi Vert sarà a Frauenfeld giovedì 7 luglio 2022. (Wikipedia)
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 13 giugno 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
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CULTURA / RUBRICHE
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In fin della fiera
di Bruno Gambarotta
Meravigliosi e affascinanti gomiti ◆
Gli amici mi rimproverano, dicono che tengo lo sguardo fisso sull’America. Però poi sono contenti quando li aggiorno su novità che arriveranno anche da noi ma con mesi e anni di ritardo. Qualche esempio: si fa un gran discutere sul Metaverso che prende il posto di Facebook. Consentirà di vivere in un universo parallelo così gratificante da indurre nel suo fruitore il desiderio di non ritornare più nel mondo reale. Si parla già di una nuova forma di dipendenza. Gli psicologi, sempre in cerca di un pretesto per attirare nuovi clienti, l’hanno battezzata «addiction-by-design». Ebbene, sono in grado di svelare ai miei amici, per metterli in guardia, l’algoritmo usato dai social per tenere agganciati miliardi di persone. Ho giurato di non dirlo a nessuno ma l’amicizia vince su tutto. Ricordiamoci il termine «addiction» perché lo ritroveremo con sempre maggior fre-
quenza. Potremmo tradurlo con «dipendenza», ma «addiction» è infinitamente più pregnante, ci fa sentire persone competenti, «up-to-date», che non so cosa significhi ma suona bene. Dobbiamo essere nel «mainstream» e nello stesso tempo avere «uno sguardo laterale». È un esercizio difficile ma con un po’ di allenamento ci si arriva. Al limite potete sempre ricorrere al «coach». Un’avvertenza: dovete bandire dal vostro lessico la parola «resilienza». La usano persino i politici da talk show. Torniamo alle addiction. Esistono quelle storiche: dall’alcool, dalla droga, dal gioco, dal sesso. Ultima arrivata è la «elbow addiction», frutto dall’aumentata, e sacrosanta, sensibilità verso le azioni di stalking verso le donne da condannare sempre e in ogni circostanza. Elbow si traduce con il termine «gomito» e noi potremmo tradurre il vizio battezzandolo «gomitofi-
lia». Designa l’azione perversa di quegli uomini che mettono in pratica tutti gli accorgimenti e cercano tutte le scuse per accarezzare i gomiti delle donne anziane. Bersaglio preferito sono le signore che hanno procurato lauti guadagni ai chirurghi plastici. Hanno un viso spianato dalle rughe, sono bambole di porcellana rosa. «Mamma, come è fatto un canotto?» «Guarda le labbra di tua nonna e capirai». Ebbene i gomiti, insieme alle mani, sono l’unico territorio del corpo umano sul quale le magie dei chirurghi plastici si rivelano impotenti. Accarezzare uno di quei gomiti è come passare la mano su una grattugia o sulla carta vetrata. Pare che sia lo sport preferito dai padroni di piccole e medie aziende o dagli amministratori e presidenti di quelle grandi. Avrebbero voluto assumere nel ruolo di assistente personale una ragazza giovane e avvenente, ma le loro mogli gliel’han-
no impedito. Quindi si vendicano pretendendo l’usufrutto dei gomiti, anche più volte al giorno. «È un esercizio che calma i nervi», mi ha confessato uno di loro. Com’era prevedibile, l’affacciarsi sulla scena dei social della Elbow Addiction è stata una manna. È arrivata al momento giusto quando già si stavano esaurendo due filoni d’oro. Il primo, la sauna per cani, aveva addirittura generato azioni legali per richieste di risarcimento. Nella campagna promozionale era mancata l’avvertenza: da usare solo ed esclusivamente per cani che non siano in coabitazione con altri animali. L’acquirente che aveva oltre al cane, anche un gatto o un coniglio, li aveva visti andare in depressione alla vista del cane che aveva il privilegio della sauna. L’altro filone consisteva in un servizio a pagamento che provvedeva a dipingere di rosa le foglie degli alberi visibili dalla finestra dell’amata,
il giorno del suo compleanno. Le donne che abitavano in zone sprovviste di alberi s’erano ribellate a una palese discriminazione. Ecco allora affacciarsi sulle copertine e nei servizi delle riviste americane di moda delle immagini sulle prime sfilate di «elbow cover», ovvero «copri gomiti», in tutte le fogge, in tutti i tessuti e nelle varianti più fantasiose. Gli stilisti hanno dovuto affrontare e superare molti ostacoli per vincere la loro battaglia. Primo fra tutti: la donna che indossava il copri gomito comunicava un chiaro messaggio: se i miei gomiti sono diventati appetibili significa che sono vecchia e rifatta. Dopo tanti brainstorming arriva la soluzione: appelliamoci alla solidarietà femminile. Tutte le donne, vecchie, giovani, bambine, devono indossare l’elbow cover. E noi uomini? Basta un semplice gesto per manifestare la vostra adesione, copritevi i gomiti.
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Xenia
di Melania Mazzucco
Il Moro di Trübner ◆
Il modello ha superato la trentina. Posa per un pittore di ventun anni, tedesco di Heidelberg, biondo, gli occhi celesti e la pelle colore del latte. Il modello invece è moro. I suoi lineamenti e la carnagione rivelano che proviene dall’Africa. Siamo nel 1872, in italiano l’aggettivo «negro» ha ancora una sfumatura aulica e letteraria, si usa per lo più per indicare qualcosa di scuro – la terra, il dolore. Sono entrambi stranieri e Roma li ha accolti con la stessa distratta benevolenza. Non conosciamo il nome del Moro. Il pittore invece si chiama Wilhelm Trübner, ed è in viaggio di formazione, come i giovani aspiranti artisti che da secoli vengono a perfezionarsi a Roma, cercando ispirazione nella bellezza millenaria dei suoi edifici e in quella pittoresca dei suoi abitanti. E anche ad abbeverarsi di luce, colori e libertà. Disegnano e dipingono ruderi di templi e basiliche, paesaggi, fantasie storiche, ma anche persone. Roma, che da
appena un anno è diventata la capitale del Regno dell’Italia unita, è ancora una cittadina di duecentododicimila abitanti, sovraffollata nei rioni della Suburra e di Trastevere, ma assediata dalla campagna e interrotta da terreni incolti e praterie di rovine. Spettacolo sublime di decadenza che estasia i pittori estetizzanti ma non Trübner. A Monaco ha assimilato la lezione del maestro francese del realismo, Courbet. La verità – solo la verità. Forse i due si incontrano al caffè Greco di via Condotti, nel quale è permesso fumare tabacco: crocevia di artisti e intellettuali, ma anche di borghesi e funzionari dei ministeri appena trasferiti a Roma, che nelle sale Omnibus e del Fauno oziano, conversano, leggono i giornali. I quadri dei pittori stranieri che affittano gli atelier nei vicoli tra il Babuino e il Pincio tappezzano le pareti. Wilhelm gli chiede di posare per lui, e il Moro accetta. Lo gratifica essere
A video spento
rappresentato in un ritratto. A un nero non capita spesso di diventare soggetto di un quadro – in passato poteva prestare le proprie sembianze al re magio, a un servo o a un paggio, ma sono figure ormai inattuali. Il Moro però è povero: forse lo invoglia di più la prospettiva di essere pagato per le sedute di posa. Quante? Trübner dipinge alla prima, come gli ha insegnato Courbet, con una pittura nervosa e veloce. Però il Moro è un soggetto di studio nuovo e stimolante, quindi gli chiede di tornare più volte. Chissà se durante le pose i due parlano, e di cosa. Alla fine Trübner dipingerà ben tre ritratti del Moro. Nel primo lo coglie di profilo, concentrandosi sul naso camuso, la barbetta riccia e nera, la stempiatura. Mette in primo piano un mazzo di fiori – rossi, bianchi e blu – e sullo sfondo il paesaggio, indefinito, di una città. Ma le peonie rosse dominano, tanto che il ritratto è conosciuto col titolo di Moro con peonie. I petali fiammeggian-
ti contrastano col color notte della pelle del modello, e lo valorizzano. Il secondo invece è un ritratto frontale. Il Moro fuma un sigaro, seduto dietro un tavolo di legno scuro, con un borsellino aperto davanti a sé – vuoto. Il polsino bianco spicca dalla giubba scura, e la figura dallo sfondo arancio. Guarda il pittore, e noi, con distacco e quasi con ironia. Nel terzo ritratto, il Moro sta leggendo un giornale, il quotidiano politico «La libertà». Trübner non mette in vendita i ritratti del Moro e quando, nel 1873, riparte per la Germania, li porta con sé. Finiranno nei musei tedeschi – a Heidelberg, Hannover e Francoforte – dove ancora si vedono. Il pittore avrà una onesta carriera, diverrà anche insegnante, e vivrà abbastanza a lungo da assistere al suicidio dell’Europa nella Prima guerra mondiale. Il Moro invece viene inghiottito dall’oblio. Ma i ritratti confermano che è esistito. Era a Roma, e ci ha vissuto. Ben vestito,
benché senza un soldo, poteva andare al caffè a fumare un sigaro e leggere il giornale, come tutti gli altri. Uno fra gli abitanti di una capitale piccola eppure mai provinciale, cosmopolita da sempre, e abituata ad accogliere uomini di ogni lingua e nazione. Nel 1872 il giovane Regno d’Italia non ha ancora rivolto il suo appetito sul Corno d’Africa. Il Moro non suscita fastidio né fantasticherie di dominio. Il Moro di Trübner non sa ancora di essere un Negro, di appartenere a una razza morente o inferiore. Seduto al tavolo del caffè, fuma, guarda il pittore, e noi. La forza del ritratto è tutta lì. La realtà diventa arte. La giubba lisa ma elegante, il sigaro, la pelle bruna, la posa frontale, il giornale fra le mani – riconoscimento della sua dignità e della sua umanità. Perché il Moro non è un bruto selvaggio, sa leggere, ed è anche sua l’aspirazione alla conoscenza e alla libertà. Nessuno lo invita ad andarsene.
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di Aldo Grasso
Il medio cattivo gusto come collante? ◆
La bandiera ucraina, con le sue bande gialloblù, è stata onnipresente all’Eurovision Song Contest 2022 (ESC) che si è svolto tempo fa a Torino: issata, soprattutto, dai membri della Kalush Orchestra, il gruppo ucraino che si è aggiudicato con grande distacco la 66esima edizione del concorso musicale paneuropeo. Non particolarmente apprezzati dalle giurie tecniche, i musicisti ucraini hanno sbaragliato la concorrenza grazie al televoto del pubblico, che si è unito in solidarietà al popolo attaccato da quella stessa Russia che è stata prima sospesa e poi si è ritirata dall’Eurovision. Sembra che solo la musica e il calcio alimentino ancora l’idea di Europa; il resto del nostro immaginario si distrae altrove. L’aspetto più singolare è che ESC è organizzato dall’Ebu. Ma cos’è l’Ebu? L’European Broadcasting Union è un’organizzazione internazionale che associa diversi operatori pub-
blici e privati del settore della teleradiodiffusione su scala nazionale e che gestisce i canali dell’Eurovisione e dell’Euroradio. In passato organizzava anche «Giochi senza frontiere» (La Svizzera ha partecipato a ESC per la prima volta nel 1956. Da allora ha vinto due edizioni: nel 1956 con Lys Assia e nel 1988 con la canadese Céline Dion. Quanto a GSF, la Svizzera, in gran parte rappresentata da squadre della Svizzera italiana con la presentazione di Mascia Cantoni, ha partecipato dal 1967 al 1982 e dal 1992 alla conclusione della trasmissione nel 1999). Mi sono sempre chiesto: ma le televisioni europee potevano fare qualcosa di più per l’idea di Europa, per i suoi ideali, per abbattere le frontiere dello spirito prima ancora di quelle reali? L’Ebu è nata con l’intenzione di offrire ai suoi membri un ampio scambio di programmi radiofonici e televisivi, produzione di pro-
getti comuni, accesso preferenziale a trasmissioni, programmi culturali, festival internazionali e concorsi per membri dell’Unione. Questo sulla carta; di fatto, l’unica produzione in comune è appunto ESC. In un celebre intervento radiofonico il poeta T.S. Eliot (1946) sosteneva che occorrono due condizioni per la fioritura di una cultura europea: «Che la cultura di ogni paese sia unica, e che le diverse culture riconoscano la reciproca relazione» e che venga coltivato «un organismo spirituale»: «Se quest’ultimo muore, quel che organizzerete non sarà l’Europa, ma unicamente una massa di esseri umani che parla diverse lingue… In breve, non avranno più nulla da dirsi in poesia». Dirsi qualcosa in poesia mi sembra la più straordinaria definizione di cultura. La musica leggera è la nuova forma di poesia? ESC è l’evento non sportivo più se-
guito al mondo. Sono un po’ stupito del clamore che da un po’ di tempo si sta creando attorno alla manifestazione. Lo smarrimento nasce dal fatto che per anni l’Eurofestival (un tempo si chiamava così) è stato considerato alla stregua di «Giochi senza frontiere»: per creare un immaginario europeo condiviso, Ebu si affidava a giochi da spiaggia e al kitsch in fatto di musica. Un fenomeno simile al successo dei cantanti italiani all’Est. Poi è successo qualcosa che ha ribaltato le carte in tavola, come al Festival di Sanremo (di cui una volta bisognava parlare male), tanto che un fine osservatore della pop culture come Claudio Giunta ha registrato questo balzo: «Ed ecco che l’ESC diventa una cosa seria, prestigiosa, una bella passerella, un bel trampolino». Cos’è successo? Il medio cattivo gusto è diventato il gusto dominante? La musica leggera è il gioioso esperanto che ci unisce,
l’unico soft power che l’Europa riesce a esportare? Come ha scritto Fabio Cleto, recensendo il libro di Dean Vuletic, Eurovision Song Contest. Una storia europea (minimun fax): «Il fallimento estetico che ha accompagnato la reputazione di Eurovision è chiave del suo destino. Il regime del cattivo gusto (...) è però una chiave al contempo decisiva e inadeguata. Non solo perché, al netto dei giudizi di merito, la sfida di scrittura e organizzativa è straordinaria: in tempi strettissimi, una folla di ospiti con scenografie diversissime e al limite del concepibile. Più semplicemente perché l’inguardabile, dopo il disconoscimento paterno, viene guardato. Da molti… Ecco il trash, se si vuole, a fornire l’occasione per un divertimento campanilistico, lo scherno per i vestiti pattoni e le cene sgangherate del vicino di casa». I giovani sono uniti dal medio cattivo gusto?
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