Anno LXXXV 27 giugno 2022
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
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MONDO MIGROS
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SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
Ricerche in corso: la percezione del dolore non è uguale per tutti: la sensibilità varia da donna a uomo
Sono adrenalina allo stato puro le emozioni, uniche e genuine, che regalano i tuffi ai più allenati
L’inflazione in Occidente è legata alla guerra in Ucraina, ma origina da una politica monetaria espansiva
Il Museo Hermann Hesse di Montagnola spegne 25 candeline e rende omaggio a Siddharta
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Børre Høstland – Nasjonalmuseet
Oslo rinasce con la cultura
Marco Moretti
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Kaliningrad non vale una guerra Peter Schiesser
Relegata perlopiù nel fronte orientale, dopo 4 mesi la guerra in Ucraina sembra sprofondata in uno stallo sanguinoso: entrambe le parti contano centinaia di soldati uccisi ogni giorno, secondo i servizi segreti americani e britannici i russi hanno perso un terzo degli uomini e dei mezzi, il bilancio da parte ucraina non dovrebbe essere molto diverso. Anche se la potenza dell’artiglieria russa è 40 volte superiore a quella ucraina (che resta in attesa dei cannoni americani a lunga e precisissima gittata), distruggendo città e martellando le posizioni ucraine, i progressi nella regione di Luhansk restano modesti. È una guerra di logoramento, in cui conta chi resiste più a lungo, chi mantiene il morale più alto, e si sa che fra i russi sprofonda sempre più, ma anche fra gli ucraini si registrano diserzioni e ammutinamenti (per essere spediti a combattere senza quasi armi e munizioni). Con le due parti impantanate in combattimenti inconcludenti, la minaccia atomica sull’Europa sembrava per il momento allontanarsi, con celato sollievo di noi tutti. Ora però rischia di aprirsi un altro fronte,
ai confini dell’Europa e della Nato: a Kaliningrad, l’antica Königsberg, già capitale prussiana (vedi Caracciolo a pagina 21). Alla conferenza di Potsdam venne attribuita all’Unione Sovietica, che l’aveva occupata nella fase finale della seconda guerra mondiale. La popolazione tedesca venne espulsa o fuggì, da 372mila il numero di abitanti passò a 73mila, Stalin la colonizzò e oggi conta oltre 400mila abitanti, quasi tutti russi. Il problema è che si tratta di un’exclave russa in territorio dell’Unione europea e della Nato. L’accesso da San Pietroburgo passa attraverso Lettonia ed Estonia, da Mosca attraverso Bielorussia e Lituania. Le merci di cui Kaliningrad ha bisogno per sopravvivere arrivano su ferrovia attraverso la Lituania e la Bielorussia passando per la capitale lituana Vilnius. Il problema è che da dieci giorni la Lituania ha deciso di impedire il transito di numerose merci, fra cui materiali da costruzione, metalli e carbone, sottoposte alle sanzioni dell’Unione europea, scatenando l’ira di Mosca, che ha annunciato severe ritorsioni.
Può darsi che saranno unicamente di natura economica (nonostante i tre Paesi baltici si stiano liberando dalla dipendenza energetica dalla Russia, condividono con essa e con la Bielorussia una comune rete elettrica). Ma va ricordato che Kaliningrad ha per i russi un’importanza strategica notevole: ospita il quartier generale della flotta del Baltico, essendo uno dei due soli porti russi sul Baltico che non ghiacciano in inverno. Inoltre, come ammesso dai russi nel 2018, vi stazionano missili Iskander che possono trasportare testate nucleari. Con una gittata di 500 chilometri raggiungerebbero Berlino, Stoccolma e Varsavia, oltre che i tre Paesi baltici. Una escalation del confronto sul parziale blocco di approvvigionamento di Kaliningrad sarebbe quindi da evitare. Perché un’azione militare, sotto forma di un tentativo russo di creare e controllare un corridoio che colleghi Bielorussia e Kaliningrad, coinvolgerebbe direttamente l’Unione europea e la Nato. La guerra sarebbe quindi direttamente fra Nato e Russia. Urge quindi un’azione diplomatica forte, per
trovare una soluzione che garantisca il flusso di merci verso Kaliningrad. D’altronde, finora la politica dell’Unione europea è stata di imporre sanzioni evitando il più possibile di danneggiare sé stessa; non per nulla concernono il petrolio ma non il gas. Insistere a strangolare di fatto Kaliningrad non può essere nell’interesse dell’Europa e della Nato. Infatti Bruxelles, per voce del commissario agli esteri Josep Borrel, ha preannunciato un riesame delle linee guida sulle sanzioni contro la Russia. Eppure c’è chi appoggia la decisione lituana, come il presidente della frazione parlamentare della Cdu-Csu tedesca Friedrich Merz, ciò che rappresenta un passo verso la temuta escalation. Cui «lavorano» anche i russi: alla Duma è stata presentata una proposta di legge per disconoscere l’indipendenza della Lituania, elicotteri russi violano lo spazio aereo dell’Estonia, Putin annuncia che a fine anno sarà operativo il missile con testate nucleari Sarmat, con una gittata di 18mila chilometri. Benché indebolita dagli insuccessi in Ucraina, la Russia resta pericolosa, forse ancor di più.
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azione – Cooperativa Migros Ticino
MONDO MIGROS
Un’azienda e i suoi valori Votazioni Migros
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Le riflessioni della presidente di Migros Ursula Nold riguardo alle recenti votazioni
Ursula Nold, cosa ha pensato quando ha visto i risultati della votazione sull’alcol? Mi sono rallegrata dell’univocità e chiarezza del risultato. Le socie e i soci di tutte e dieci le cooperative hanno dato un segnale chiaro: molte persone apprezzano Migros per quello che è. Sono inoltre molto grata per i dibattiti impegnati che hanno preceduto la votazione e per la grande partecipazione al voto. Non da ultimo, sono soddisfatta dell’accuratezza con cui Migros ha preparato e attuato questa importante votazione. Per una votazione federale si tratta di un risultato straordinariamente chiaro. L’ha sorpresa la grande percentuale di no, che ha raggiunto il 75%? Tutti i sondaggi preliminari avevano evidenziato una chiara tendenza al «no». In quest’ottica un risultato diverso avrebbe rappresentato una sorpresa. Anche la partecipazione al voto è stata superiore alla media. Ai miei occhi ciò dimostra il legame della popolazione con Migros. Abbiamo avuto la possibilità di non limitarci a parlare della rinuncia o meno dell’alcol nelle filiali, bensì dei valori di Migros in generale e di ciò che la rende unica. È incredibile che questa azienda e i suoi valori siano riusciti a dare vita a una discussione di tale portata nella società tutta del nostro Paese. Molti gremi Migros e lei stessa suggerivano di votare «sì», mentre nessuno propendeva per il «no». L’azienda ha fatto un errore di valutazione della propria base? L’iniziativa proveniva da alcuni membri dall’Assemblea dei delegati e nasceva dal desiderio di tornare a discutere in modo approfondito la questione a 70 anni di distanza
dall’ultima votazione. Per tutti i gremi Migros e anche per me a livello personale la cosa più importante era la compartecipazione della base. Non abbiamo fatto una campagna per il sì, poiché il messaggio era chiaro: «Decidete voi». Nessuno si sente sminuito per avere espresso un «sì». La base ha deciso in modo chiaro e ciò è rispettato da tutti.
Ursula Nold è presidente di Migros dal 2019.
Esistono dei piani per l’introduzione di una specie di maggioranza, al fine di evitare un «tappeto patchwork» in futuro? Il termine «tappeto patchwork» non mi piace. Ovviamente mi rallegro del fatto che abbiamo ottenuto un risultato chiaro, ma se vi fossero state differenze regionali nelle scelte della base, le avremmo rispettate fino in fondo. Questo è il prezzo del federalismo, che fa parte del DNA della Migros. Come si proseguirà con la «Democrazia Migros»? Dobbiamo aspettarci presto altre votazioni in cui saranno chiamati a esprimersi le socie e i soci delle dieci Cooperative È sempre stato così, ad esempio l’anno scorso attraverso questa modalità è stato ridotto il mandato per i membri degli organi di Cooperativa. Un tempo c’erano regolarmente votazioni consultive rivolte alla base. Stiamo attualmente valutando se avvalerci più spesso di questo strumento in futuro per tastare in modo diretto il polso alle socie e ai soci delle Cooperative. Potrebbero essere prese in considerazione anche votazioni elettroniche? Certamente. Oltre alla questione riguardante la rinuncia all’alcol, le socie e i soci delle Cooperative hanno avuto anche modo di esprimersi sul
tema dell’E-Voting. Sono felice che sia stato accettato con tanta chiarezza, anche in questo caso era necessaria una maggioranza di 2/3. Questo dimostra che i cambiamenti e le evoluzioni sono possibili, e che Migros vuole il progresso. Attraverso l’E-Voting cerchiamo di suscitare anche nelle generazioni più giovani entusiasmo verso l’Idée Migros e il desiderio di compartecipazione. Da una parte un voto a favore della tradizione, dall’altra per il rinnovamento – per Migros sarà sempre così facile riunire sotto lo stesso cappello entrambi questi aspetti? Anche le innovazioni sono una tradizione di Migros, e in quanto tali vengono accolte e apprezzate dalle clienti e dai clienti. Noi cerchiamo costantemente di sorprendere le/i clienti con prodotti e servizi nuo-
vi e caratteristici, sia che si tratti del primo uovo vegano sia degli acquisti con lo smartphone. Avere coraggio e provare cose nuove. Mantenere ciò che si dimostra vincente e continuare a sviluppare il resto – in fondo era quello che faceva anche Gottlieb Duttweiler. Noi vogliamo vivere il suo spirito pionieristico anche oggi. Parallelamente restano valori centrali come il miglior rapporto prezzo-prestazioni, la forza delle nostre marche e il Percento culturale, cui Migros resterà sempre fedele. Attraverso l’E-Voting diventerà più facile organizzare delle votazioni? Come detto, ci auspichiamo di raggiungere anche le generazioni più giovani. Sarà ancora possibile votare per corrispondenza o in filiale. L’E-Voting rappresenta una terza opzione che, ci auguriamo, riuscirà
In vetta con «Azione» Iniziative
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turistica sembrava avere ormai fatto il suo tempo, e si cominciò a ventilarne lo smantellamento. Gottlieb Duttweiler però, con la lungimiranza che
Concorso «Azione» mette in palio alcuni biglietti (a coppie di due) per il Sunset Apero di venerdì 8 luglio 2022. L’offerta comprende il biglietto per il viaggio di andata e ritorno con il trenino a cremagliera (partenza da Capolago alle 18.45 e ritorno alle 23.00), un assaggio di risotto e musica con DJ. Ape-
ritivo à la carte con sfiziosità di stagione, cocktail, vino, musica e tramonti mozzafiato. Per partecipare al concorso inviare una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Apero Sunset 8 luglio») indicando i vostri dati personali entro domenica 3 luglio 2022. info@montegeneroso.ch
contraddistinse ogni sua azione e iniziativa, decise che sarebbe stato un peccato, che una tale terrazza panoramica andava conservata e mantenuta per le generazioni future, e fu così che nel 1941 decise di comprarla. Ora, a 81 anni di distanza, il Monte Generoso non è solo un fondamentale punto di riferimento naturalistico del Mendrisiotto, ma si è dotato anche di una imperdibile attrazione architettonica nata dall’estro di Mario Botta. È infatti da cinque anni ormai che il Fiore di pietra, con la sua forma caratteristica, invita all’indugio e alla contemplazione. Inoltre, nel 2021 e nel 2022 è stato insignito dello Swiss Location Award, entrando di fatto nella Top Ten delle
Si riceverà una tavoletta di cioccolata anche votando elettronicamente? Assolutamente sì, presumibilmente attraverso un buono Cumulus. La cioccolata è molto apprezzata, come abbiamo potuto constatare in occasione di questa votazione. Dieci volte «no» significa anche che, a partire dal 2023, in tutti gli scaffali Migros della Svizzera approderà la birra senz’alcol «Non». Lei la assaggerà? Non vedo l’ora e l’assaggerò certamente. Sarà un simbolo della nostra democrazia vissuta e ci ricorderà questa votazione, unica nel suo genere. Sunset Apero, un aperitivo in vetta con vista a 360°.
Alla scoperta del ricco calendario di attività del Monte Generoso
Dal 1890 la vetta del Monte Generoso si raggiunge a bordo della cremagliera, l’unica del Ticino. Negli anni della seconda guerra mondiale l’attrazione
ad avvicinarci al polso di socie e soci delle Cooperative e a incrementare la partecipazione al voto.
più belle location per meeting, convegni, workshop e team-building di tutta la Svizzera con il sigillo di qualità «Eccellente». Con gli anni è cresciuta anche l’offerta in vetta, con una serie di imperdibili appuntamenti improntati sul-
la bellezza del paesaggio: nel corso dell’estate «Azione» metterà in palio numerosi biglietti per salire fino ai 1704 m del Monte Generoso. Il primo appuntamento è per venerdì 8 luglio con un romantico aperitivo al Fiore di pietra.
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11
Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch
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azione
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)
Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Simona Sala, Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Natascha Fioretti Ivan Leoni
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Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938
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SOCIETÀ ●
La comunicazione esistenziale Quando condividiamo con gli altri sensazioni, emozioni e valutazioni siamo guidati anche dalla volontà di persuaderli
La visione di genere nella pianificazione Una giornata di riflessione e una guida per favorire un cambiamento culturale nel concepire lo spazio urbano
Tutti in sella con i Bikecoin Il progetto che vuole incentivare l’uso della bicicletta nel percorso casa-lavoro ha destato un grande interesse
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Shutterstock
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Il dolore maschile e quello femminile Medicina di genere
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Gli studi di neuroscienze mostrano come la sensazione dolorosa utilizza meccanismi diversi nei due sessi
Sergio Sciancalepore
«Mi fa male la mano destra». «Oggi il dolore al ginocchio sinistro è insopportabile!» È proprio così? Il dolore è davvero localizzato dove lo sentiamo? No, tutto avviene nel cervello. Uno stimolo doloroso – un’ustione, una puntura, un’infiammazione acuta o cronica – fa partire un segnale che, attraverso i nervi della sensibilità, raggiunge il cervello dove c’è una «mappa» che rappresenta le varie parti del corpo. Se fa male il pollice, il segnale in partenza dal dito arriva al cervello, al punto della «mappa» corrispondente al pollice, attivando le specifiche cellule nervose: la sensazione dolorosa generata nel cervello è inviata al dito. Questo si verifica anche quando un arto non c’è più, quando viene amputato: è il fenomeno dell’arto «fantasma», il cervello continua a «sentire» l’arto che non esiste, sente che si muove e anche che fa male. Il dolore non è solo un sintomo, è un segnale che ci avverte di un pericolo o di una situazione anomala: se non ci fosse lo stimolo doloroso legato al tatto potremmo mettere la mano su una fiamma e non accorgerci che sta bruciando. D’altra parte, sappiamo che la percezione del dolore non è uguale per tutti, c’è una gamma di
sensibilità al dolore. Quello che finora era poco noto, era il motivo di questa variabilità legata al genere: perché donne e uomini – entro certi limiti, s’intende – hanno una diversa sensibilità? Per quale motivo l’emicrania, per esempio, è più diffusa tra le donne che non tra i maschi? Le neuroscienze sperimentali stanno cercando di chiarire i meccanismi generali del dolore, approfondendo anche il tema per l’appunto della differenza di genere, ponendosi la domanda: se la percezione dolorosa può essere diversa, il motivo sta nei meccanismi utilizzati per far arrivare gli stimoli al cervello? Pare proprio sia così, e un ruolo fondamentale l’hanno gli ormoni sessuali e (sorpresa!) il sistema immunitario. Sono numerose le sperimentazioni condotte su animali (soprattutto roditori) che mostrano come i segnali provenienti dalla periferia del corpo sono trasmessi in modo diverso nei due sessi. Nel caso di un dolore cronico – nei ratti è stata simulata una sciatalgia da lesione del nervo sciatico – i ricercatori hanno scoperto che negli esemplari maschi la trasmissione dello stimolo al cervello avviene in presenza di particolari cellule del sistema nervoso, le cellule della micro-
glìa («gl» si pronuncia come in «glicerina»): sono cellule che svolgono un’importante funzione di difesa immunitaria nel sistema nervoso centrale, cioè nel cervello e nel midollo spinale – dove si trovano anche i fasci dei nervi della sensibilità. Nelle femmine, invece, è indispensabile la presenza dei linfociti T, cellule del sistema immunitario «generale». Quando lo stesso esperimento è condotto sulle femmine artificialmente prive dei linfociti T, accade un fatto sorprendente: la trasmissione del dolore utilizza il meccanismo maschile, quello tramite le cellule della microglìa. Che cosa permette questo passaggio dalla «modalità» femminile a quella maschile? Il motivo lo si è compreso quando l’esperimento è stato condotto su ratti maschi privati dell’ormone maschile, il testosterone: la trasmissione del dolore diventa di tipo femminile, cioè con il coinvolgimento dei linfociti T. Appare evidente che a decidere quale delle due «vie» utilizzare – quella maschile o quella femminile – sono gli ormoni sessuali: il testosterone attiva la «via maschile» (microglìa), gli estrogeni quella «femminile» (linfociti T). La sensazione dolorosa è quindi un fenomeno complesso che coinvolge tre componenti: il sistema nervo-
so, il sistema immunitario (sia quello proprio del sistema nervoso, sia quello «generale») e gli ormoni sessuali. A proposito del ruolo del sistema immunitario e dei linfociti T, importanti conferme vengono dagli studi sul cosiddetto «dolore neuropatico» umano. Il dolore neuropatico, o nevralgia, è una particolare sensazione dolorosa cronica, che insorge per effetto di una lesione o di un malfunzionamento dei nervi del sistema nervoso periferico – quella parte che si trova al di fuori del cervello e del midollo spinale e innerva gli arti o gli organi interni. Diverse sono le cause, per citarne alcune: la compressione di un nervo, malattie infettive (batteriche o virali) con interessamento del sistema nervoso, il diabete. Nel dolore neuropatico il sistema nervoso periferico diventa «ipersensibile» e invia continuamente segnali errati ai centri del dolore, anche in assenza di un danno reale. Da cosa è causata questa ipersensibilità? Negli ultimi anni è stato sempre più evidenziato il ruolo dell’infiammazione e del sistema immunitario, in particolare dei linfociti T. Nelle donne, l’attività dei linfociti T è più elevata: i linfociti T sono a loro volta regolati da un altro sottogruppo di cellule immunitarie, i linfociti T «re-
golatori», e dall’estradiolo un ormone sessuale presente ad alti livelli nelle donne. Si sta cercando di capire in che modo questi tre elementi – linfociti T, regolatori ed estradiolo – sono in relazione nel generare questo tipo di dolore. Ancora da chiarire è la variabilità della sensazione dolorosa nelle età della vita della donna: nella pubertà, nell’età fertile (in rapporto alle cicliche variazioni ormonali) e nella menopausa. Conoscere meglio i meccanismi del dolore e per quale motivo nei due sessi si manifesta in modo diverso è fondamentale per sviluppare terapie efficaci e mirate. Finora, la ricerca sperimentale e clinica non hanno dato sufficiente rilievo a questo argomento: l’80 per cento degli studi dedicati al dolore utilizza solo animali maschi e solo il 4 per cento è dedicato al tema delle differenze di genere. Qualcosa tuttavia sta cambiando: dal 2016, la massima Istituzione scientifica degli USA – i National Institutes of Health (NIH) – ha reso obbligatorio, per chi richiede un contributo per la ricerca sul dolore, di giustificare la scelta del sesso degli animali utilizzati negli esperimenti e lo stesso orientamento deve essere seguito anche nella sperimentazione umana.
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MONDO MIGROS
Grigliare con stile
Attualità ◆ La bistecca Tomahawk è un taglio di carne che appaga sia l’occhio sia il palato. Questa settimana è in offerta speciale alla Migros Non devono sempre essere solo costine, luganighetta, cosce di pollo, costolette o bratwurst a finire sulla griglia. A volte è bello anche cambiare, magari stupendo i propri invitati con qualcosa di differente, come potrebbe essere una sostanziosa bistecca Tomahawk di manzo. Questo taglio particolare dalle grosse dimensioni è ricavato dalla parte anteriore della lombata del bovino, a cui viene lasciato l’intero osso della costola, che solitamente ha una lunghezza di una trentina di centimetri. Il suo nome si rifà alla forma del pezzo di carne, che ricorda di fatto la tradizionale ascia di battaglia che veniva utilizzata dai nativi delle praterie del Nordamerica. Solitamente un Tomahawk non pesa meno di 1,2 kg, per uno spessore di ca. 5 cm, ed è sufficiente per sfamare 2-3 persone. La carne è tenera e succosa e possiede un gusto intenso, in ragione della sua fine marezzatura, ossia la presenza di grasso intramuscolare. Per poter apprezzare pienamente questo pregiato taglio bovino, è importante prepararlo nel modo corretto e rispettare i tempi di cottura giusti, in modo che formi una bella crosticina all’esterno e rimanga al sangue internamente. Uno dei metodi di cottura più indicati è la grigliatura, che ne esalta il sapore rendendo la pietanza particolarmente irresistibile.
Azione 20% Tomahawk di manzo, Irlanda, per 100 g Fr. 4.75 invece di 5.95 dal 28.6 al 4.7.2022
Preparazione
Togliete il Tomahawk dal frigorifero almeno mezz’ora prima della preparazione. Condite la carne con olio di oliva e massaggiatela con sale grosso, pepe appena macinato e del rosmarino fresco. Mettetela sulla griglia ben calda e cuocetela a fuoco vivo per ca. 10 minuti per lato, girandola un paio di volte, facendo attenzione che le fiammate del grasso che cola sulla brace non brucino la carne. La temperatura al cuore ideale dovrà essere di 50-55 gradi (cottura rosa), misurandola con un termometro da carne. Togliete la carne dal fuoco e lasciatela riposare lo stesso tempo della cottura avvolta in carta di alluminio, affinché i succhi si distribuiscano bene all’interno. Staccate la carne dall’osso e tagliatela a fette spesse. Buon appetito!
Creme alle nocciole tutte da provare Attualità
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Questa settimana potrete degustare alcuni deliziosi prodotti bio da spalmare sul pane Gli amanti delle creme da spalmare alla Migros trovano tre golosissime specialità biologiche del noto marchio italiano Rigoni di Asiago. Tutti i prodotti si caratterizzano per il gusto pieno, armonioso, la lenta lavorazione con ingredienti accuratamente selezionati e sono senza olio di palma, grassi idrogenati, aromi artificiali e conservanti. Buona, cremosa e dal gusto equilibrato, Nocciolata classica combina pregiate nocciole bio, cacao magro della varietà Trinitario, la dolcezza naturale dello zucchero di canna grezzo, il profumo della vaniglia del Madagascar e l’olio di girasole spremuto a freddo per una golosità unica. La versione Senza Latte, è la crema spalmabile ideale per chi è intollerante al lattosio o segue un regime vegan e non vuole rinunciare a un momento goloso dall’intenso sapore di cacao, che rende Nocciola-
ta Senza Latte perfetta per chi ama i gusti più decisi. Nocciolata Bianca è un’esplosione di gusto, che unisce latte bio, vaniglia Bourbon e il 30% di nocciole in un gusto pieno e avvolgente. Lasciatevi conquistare dall’ottima qualità dei prodotti Nocciolata e venite ad assaggiarli in occasione di alcune degustazioni previste questa settimana presso le filiali Migros di Serfontana, Lugano e S. Antonino (venerdì 1. luglio) e Locarno e Agno (sabato 2 luglio). Nocciolata Bio 270 g Fr. 5.80 Nocciolata Senza Latte Bio 270 g Fr. 5.80 Nocciolata Bianca Bio 270 g Fr. 5.95 In vendita nelle maggiori filiali Migros
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MONDO MIGROS
Le buone ciliegie svizzere
La ricetta Stecco gelato alle ciliegie
Attualità ◆ Le ciliegie indigene sono un concentrato di bontà ed energia, disponibili a poche ore dalla raccolta in tutti i supermercati Migros Ticino in qualità bio e convenzionale
Dessert per 8 bastoncini • 400 g di ciliegie, ad es. ciliegie nere o rosse • ½ limetta • 50 g di zucchero • 100 g di quark magro • 2,5 dl di doppia panna • 50 g di cioccolato bianco • 10 g di burro di cacao • 1 cucchiaio di frutti rossi in polvere, ad es. lamponi, nei negozi di specialità
Azione 30% Ciliegie svizzere bio, 500 g Fr. 6.95 invece di 9.95 dal 28.6 al 4.7.2022
Associazione Svizzera Frutta
Preparazione
Dolcissime, sane e pronte per essere gustate. Con le nostre ciliegie svizzere fare il pieno di gusto, vitamine e altre sostanze nutritive tanto preziose per il nostro organismo è un gioco da ragazzi. Quest’anno in Svizzera si potrà contare su un ottimo raccolto di questi rossi frutti
a nocciolo, tanto che si stima una produzione di più di 2500 tonnellate di ciliegie d’eccellente qualità. Le maggiori regioni dedite alla coltivazione di ciliegie sono quelle situate attorno a Basilea, nella Fricktal argoviese e nella Seetal bernese. Le ciliegie sono la terza varietà
di frutta più importante nel nostro paese. La raccolta avviene in modo scaglionato tra giugno e luglio, a dipendenza della varietà coltivata e dell’altezza e del microclima di ogni singola regione. Le ciliegie fanno parte dei frutti aclimaterici, ossia non maturano più dopo esse-
re stati staccati dalla pianta, pertanto è bene acquistarle mature e ben colorate. Se il gambo è ancora verde, liscio e ben attaccato al frutto, significa che i frutti sono freschi. Mettendo le ciliegie in congelatore qualche minuto prima del consumo, se ne facilita la snocciolatura.
1. Snocciolate le ciliegie. Spremete la limetta. Lasciate sobbollire le ciliegie con lo zucchero e il succo di limetta per circa 2 minuti. Lasciate raffreddare le ciliegie e frullatele. Mescolate la massa con il quark e la panna. Distribuite la massa negli stampi per gelato e infilzate in ognuno uno stecco di legno. Mettete in congelatore per almeno 6 ore. 2. Per la glassa lasciate sciogliere in una scodella a bagnomaria il cioccolato con il burro di cacao. Togliete dal congelatore un gelato alla volta. Estraetelo dallo stampo e intingete brevemente il gelato nel cioccolato. Cospargete un po’ di polvere di frutti rossi sul cioccolato. Servite subito i gelati o conservateli ben imballati in congelatore. Annuncio pubblicitario
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saranno aperti dalle ore 10.00 alle 18.00:
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azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ
La forza vitale della persuasione Comunicazione
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Perché sentiamo il bisogno di rendere partecipi gli altri delle nostre valutazioni, sensazioni o emozioni?
Massimo Negrotti
Esiste una naturale inclinazione che ci porta ad arricchire ogni espressione con elementi linguistici che aumentano la probabilità di penetrazione nell’animo altrui La risposta può essere molteplice, ma al fondo sussiste sicuramente un bisogno altrettanto naturale: l’aspirazione a non sentirsi soli e, non raramente, persino a espandere la propria personalità su quella altrui, contando sulla possibilità che le nostre valutazioni, grazie alla nostra abilità espressiva, producano l’accordo dell’altro. Una verifica che, ovviamente, può non portare a un immediato successo ed è per questo che cerchiamo di arricchire ogni espressione con elementi linguistici, come aggettivi, avverbi e così via, che, a nostro parere, siano capaci di aumentare la probabilità di penetrare nell’animo altrui portandolo
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Parlando di comunicazione linguistica fra esseri umani è necessario, prima di tutto, distinguere due livelli. Il primo, molto frequente nella vita quotidiana, che possiamo definire comunicazione funzionale, è costituito dallo scambio di pura informazione come quando chiediamo «a che ora parte il prossimo treno per Milano?» oppure «oggi ho 38 gradi di febbre». Il secondo, meno frequente ma più coinvolgente, è invece costituito dallo scambio di valutazioni, sensazioni o emozioni e può essere definito come comunicazione esistenziale. Esempi di questo tipo di comunicazione possono essere frasi come «sento che oggi sarà una giornata felice», oppure «la musica di Mozart in me genera serenità». Di solito siamo inclini a definire frasi di questo tenore come «espressioni», cioè come il risultato della nostra naturale attitudine a «premere fuori» – questa è l’etimologia del verbo in questione – stati che sono dentro di noi. Ma, essendo dentro di noi e dunque a noi ben noti, perché sentiamo il bisogno di comunicarli, ossia, come vuole anche qui l’etimo, «renderli comuni»?
a vedere le cose come le vediamo noi, cioè di persuadere. Tutto questo vale anche nel mondo della retorica, diciamo così, professionale come quella cui si riferisce Cicerone, o in quella della pubblicità e più ancora della propaganda poiché tutte queste attività mirano a far prevalere un punto di vista rispetto a ogni altro che viene eluso, persino declassato oppure nascosto. Ma la radice comune sta nel fatto che, a ben vedere, ogni forma di comunicazione esistenziale è intrinsecamente un tentativo di persuasione. Marshall McLuhan sosteneva che nella comunicazione il vero messaggio sarebbe il mezzo adottato, riducendo dunque l’efficacia della comunicazione, ossia la persuasione, alla gradevolezza – tecnologica o stilistica – della confezione entro la quale vie-
ne proposta. Tuttavia, il bisogno naturale di cui stiamo parlando, non si lascia facilmente distrarre e permane in tutta la sua forza. Non a caso un altro studioso, Paul Lazarsfeld, con la sua teoria del two-step flow, ha posto di nuovo l’accento, in tema di persuasione, sui soggetti che comunicano in quanto persone e, in particolare, soggetti dotati di diversa padronanza delle conoscenze: da una parte gruppi di persone preparate solo genericamente e, dall’altra, persone più accuratamente informate definite come opinion leader o influencer. Queste considerazioni possono valere guardando alla comunicazione pubblica in fatto di orientamenti politici o commerciali, ma la comunicazione esistenziale, soprattutto quando si svolge privatamente, pone in essere
una dinamica nella quale ciò che affiora e che conta è l’effettivo potenziale di persuasività che, al di là della forma, viene veicolato dall’espressione. Fenomeni come l’emozione o la commozione e, più in generale, come l’empatia stanno alla base della comunicazione esistenziale ed è per questo che, in questo genere di relazioni, gli interlocutori fanno spesso uso di forme linguistiche deliberatamente orientate a mettere in mostra i sentimenti o i bisogni più profondi. È ciò che accade, per esempio, quando un genitore si rivolge al figlio, che desse qualche preoccupazione, portando ad esempio la propria vita passata, i valori vitali ai quali si è ispirato e le sofferenze o i sacrifici che ha dovuto accettare. In definitiva, la comunicazione funzionale non pone al suo centro
alcuna finalità persuasiva poiché sul piano della pura informazione è quasi sempre facile convincerci che le cose stanno in un certo modo oppure in un altro. Al contrario, la comunicazione esistenziale, proprio perché punta alla condivisione di stati soggettivi più profondi, include sempre un fine persuasivo perché il suo scopo è quello di indurre nell’altro la visione di un «paesaggio» mentale simile a quello di chi si esprime. In effetti, quando questa operazione si scontra con una visione altrui del tutto diversa o magari opposta alla propria, il soggetto si trova in quella che gli psicologi chiamano una dissonanza cognitiva. Attraverso di essa si potrà fare strada l’ombra della solitudine o quella, sostanzialmente identica, dell’incomunicabilità. È per evitare tutto ciò che la comunicazione esistenziale finisce spesso per dar luogo a discussioni di intensità proporzionale alla rilevanza che i comunicanti attribuiscono all’oggetto della comunicazione stessa. Quando però si constata l’inutilità di proseguire la diatriba, si finisce con la ricerca, da parte di ognuno dei due, di altri soggetti che si mostrino in grado di capire e condividere il proprio punto di vista. È quel che accade, quasi sempre, nelle discussioni in tema di politica poiché esse sono in grado, più di altre, di trascinare, nelle argomentazioni, premesse, concezioni dell’uomo e della storia e principi, sia impliciti sia espliciti, che i soggetti portano con sé stessi da tutta una vita. Di conseguenza, essi non sono facilmente disposti a rinunciarvi, se non di fronte ad eventi oggettivi sconvolgenti i quali, in quanto tali, si mostrino molto più persuasivi di quanto lo siano i meandri argomentativi, sempre aggirabili, dell’interlocutore. Si può dunque concludere che la persuasione sta al fondo di ogni nostra comunicazione che non sia puramente funzionale e quindi meramente pragmatica, secondo una varia casistica di intensità e di consapevolezza, ma tesa invariabilmente a costruire e ricostruire un mondo di relazioni sociali nel quale riflettere e confermare i tratti della nostra interiorità.
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Viale dei ciliegi Ann Jonas Andata e ritorno Edizioni Cliquot (Da 5 anni)
È stato pubblicato in italiano per la prima volta, grazie all’editore Cliquot, un piccolo capolavoro di grafica e design: Andata e ritorno, della graphic designer americana Ann Jonas (1932-2013). Jonas ha pubblicato tra gli anni Ottanta e Novanta molti libri per bambini, ma è con questo «gioco di prestigio» in bianco e nero, come l’hanno definito i critici statunitensi, che non solo ha ottenuto il maggior successo, ma si è pure aggiudicata nel 1983 il Premio del «New York Times» per il miglior libro illustrato dell’anno. È davvero un libro che suscita stupore, un vero viaggio di andata e ritorno, in un senso e nell’altro, letteralmente: si comincia il viaggio «alle prime luci dell’alba», uscendo di casa, attraversando il paese, le campagne, costeggiando il mare e proseguendo verso la città. In città si fanno esperienze, si sale sul grattacielo più alto, si va al cinema…
di Letizia Bolzani
ma il sole inizia a tramontare, è tempo di tornare a casa. E cosa fa allora il lettore? Il lettore capovolge il libro e qui ecco lo stupore, ecco il viaggio di ritorno, girando le pagine a ritroso e con il libro all’incontrario, dalla città alla campagna, fino ad arrivare a casa, alla «strada che ci è più familiare, illuminata dalla luna». Dall’alba alla notte, dal familiare al nuovo e ritorno. Un viaggio andata e ritorno, appunto. Interamente in bianco e nero. Un giorno di viaggio di meraviglia, con un libro da capovolgere per
suscitarla ancora e ancora. I sapienti effetti visivi fanno sì che, ad esempio, quella che all’andata è una sala cinematografica, al ritorno, capovolta, diventi un ristorante. O che le alghe della spiaggia costeggiata di giorno, di notte diventino fuochi artificiali nel cielo. Una raffinata gioia per gli occhi, che ci ricorda quanto sia importante saper cambiare la prospettiva, per scoprire, come fanno i bambini, la meraviglia nel quotidiano. Serenella Quarello – Fabiana Bocchi Le grandi storie del balletto Arka (Da 9 anni)
La danza è un ambito molto frequentato nella letteratura per ragazzi: ci sono le serie di narrativa ambientate in scuole di danza; ci sono le biografie di grandi ballerini; ci sono i libri più tecnici sulle posizioni e sui passi; e ci sono i libri che raccontano le grandi storie del balletto. A quest’ultimo genere appartiene il libro che qui segnaliamo e che si concentra sul balletto classico. Perché il
balletto classico, quello ottocentesco, diversamente dalla danza contemporanea – più astratta, più interiore, più evocazione diretta di quel miracolo che è l’essere umano, come disse Martha Graham – aveva una matrice narrativa. E le storie che raccontava erano spesso immerse in quelle atmosfere gotiche, sul filo sottile tra il mondo di qui e le ombre dell’altrove, così care al romanticismo, dove spiriti di fanciulle, fate, silfidi, danzavano evanescenti al chiaro di luna. Oppure raccontavano di metamor-
fosi, di creature ibride tra il mondo umano e quello animale, o di automi che prendono vita. Serenella Quarello, sostenuta passo passo dalle illustrazioni di Fabiana Bocchi, ci narra quattordici balletti, i più noti, con uno schema efficace: per ognuno, ne racconta la storia; ne presenta, in una scheda tecnica, compositore, opera su cui è basato, libretto, coreografia originale, ecc.; ne cita alcune curiosità o aneddoti; e infine ci parla dei ballerini maggiormente «rappresentativi» di quel particolare balletto. E qui si va da icone del passato, come Anna Pavlova, correlata in questo caso al Lago dei Cigni; a miti del Ventesimo secolo, come ad esempio Margot Fonteyn, indimenticabile Giselle, la Fracci e Nureyev (ricordati qui per La Silfide); a artisti contemporanei, come Svetlana Zacharova o Roberto Bolle, e molti altri. Completano l’opera, oltre alle posizioni base e a qualche passo illustrato, una breve introduzione storica e alcune pagine sui grandi teatri legati al balletto.
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Spazio urbano e prospettiva di genere
Territorio ◆ L’esperienza dell’associazione LARES e una giornata di riflessione sul cambiamento culturale necessario nella pianificazione e nella costruzione Stefania Hubmann
Offrire alla popolazione spazi pubblici concepiti per soddisfare le esigenze delle sue diverse fasce, in funzione dell’età, delle diverse abilità, ma in particolare tenendo conto delle differenze fra donne e uomini. La prospettiva di genere nella pianificazione del territorio nella nostra regione è un tema emergente. La riflessione si è però già sviluppata da alcuni decenni nel resto della Svizzera e buone pratiche sono riscontrabili anche nella vicina Italia. Singole iniziative all’avanguardia non mancano comunque nemmeno nel nostro Cantone, come dimostra il percorso del Comune di Mendrisio. In una giornata di riflessione intitolata «Che genere di territorio», organizzata a inizio giugno al Monte Verità di Ascona da tre servizi cantonali – Divisione dell’ambiente del Dipartimento del territorio, Servizio delle pari opportunità della Cancelleria dello Stato e Divisione della formazione professionale del Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport – si è partiti dall’esperienza dell’associazione LARES, attiva nella Svizzera tedesca e romanda a favore di un cambiamento culturale nella pianificazione e nella costruzione da declinare in una visione di genere. LARES, il cui nome di origine latina fa riferimento agli spiriti protettori romani, è stata fondata nel 2013 a Berna sulla base di un precedente progetto cittadino sostenuto dalla Confederazione. Il successivo sviluppo in Romandia risale al 2019 dopo una presentazione simile a quella avvenuta in Ticino. L’obiettivo dell’associazione è di promuovere una società fondata sul partenariato fra donne, uomini e tutti coloro che si definiscono in altro modo, rendendo visibili le esigenze dei diversi generi a livello di utilizzo dello spazio. In questi anni LARES ha consigliato e accompagnato nel nostro Paese enti pubblici e collettività in progetti di trasformazione dello spazio urbano facendo della visione di genere il filo conduttore dei medesimi. Sarah Droz, membro di comitato LARES Svizzera, di professione ingegnera della mobilità, ha illustrato ad Ascona come si procede per integrare i principi di questa visione nei progetti concreti. Spiega la rappresentante di LARES: «Innanzitutto è necessario capire che si agisce a più livelli: dalla struttura urbana (alloggi e spazi esterni) alla disponibilità di negozi e servizi, dalle infrastrutture sociali (come le scuole) alla mobilità, al senso di sicurezza. Al centro dell’attenzione rimangono le esigenze quotidiane di donne e uomini, esigenze che variano a dipendenza dei ruoli che ognuno assume nella società». Un altro aspetto rilevante riguarda le tappe degli interventi. Prosegue la nostra interlocutrice: «La prospettiva di genere va integrata nella visione del committente così come nelle diverse fasi di allestimento del progetto a cominciare dal concorso. È il caso del parco di quartiere Pfingstweid a Zurigo, per il quale le nostre raccomandazioni sono state inserite già nel bando di concorso. Il parco può così soddisfare le aspettative di tutti i suoi fruitori con aree destinate a diverse attività ed altre più tranquille. Grazie alle alberature sono state create schermature naturali che suddivi-
Qui e in basso, il Pfingstweidpark di Zurigo, alla cui progettazione ha collaborato anche l’associazione LARES; al centro, la pubblicazione di LARES per facilitare progetti inclusivi e partecipativi è stata tradotta e adattata con la collaborazione del Cantone Ticino.
dono le varie zone favorendo un senso di sicurezza poiché si evitano spazi troppo chiusi». Per Sarah Droz è inoltre importante mostrare dal vivo le situazioni reali attraverso passeggiate urbane (a programma nella giornata ticinese) «per rendersi conto non solo di chi utilizza determinati spazi ma anche di chi non li utilizza e perché». Per facilitare l’attuazione di progetti inclusivi e partecipativi, LARES ha pubblicato una guida sostenuta da diversi partner fra i quali i Cantoni che hanno già beneficiato della sua consulenza. La versione in italiano, realizzata in collaborazione con il Cantone Ticino e arricchita con esempi locali, è stata presentata all’e-
vento asconese. «I punti cardinali del genere nella pianificazione del territorio» è il titolo dell’opuscolo destinato a professionisti e professioniste del settore come pure alle persone che si occupano di imprenditoria, investimenti, insegnamento o sono comunque interessate all’argomento. La guida – spiega Rachele Santoro, delegata cantonale per le pari opportunità e coordinatrice della giornata di riflessione – è uno strumento di base per capire cosa significa operare in una prospettiva di genere nell’ambito della pianificazione e della costruzione e come in seguito passare all’azione. Le Città che si sono già attivate in tal senso, come Berna e Ginevra, dimostrano le opportunità legate a questa visione. Nella Città sul Lemano, ad esempio, sono state rinominate cento strade al femminile e si sono ripensate le illuminazioni su determinati percorsi per renderli più sicuri. Gli interventi non sono sempre eclatanti. Il problema è piuttosto la mancanza di consapevolezza dovuta al fatto che alcuni stereotipi sono talmente interiorizzati da non essere percepibili come può essere il caso di un’area ricreativa scolastica con spazi destinati in prevalenza a giochi maschili. Con la guida di LARES si spera di sensibilizzare in particolare i Comuni. È infatti a questo livello che si riqualificano maggiormente gli spazi urbani ed è quindi l’ambito
ideale per agire auspicando anche il coinvolgimento di chi vive la quotidianità dei luoghi». Fra i luoghi dove la prospettiva di genere è da alcuni anni al centro dell’attenzione figura la Città di Mendrisio. «La riflessione su questo tema – spiega la vicesindaca Francesca Luisoni – è partita nel 2016 con una mozione interpartitica che chiedeva di aderire alla «Carta europea per l’uguaglianza e la parità delle donne e degli uomini nella vita locale» e di introdurre il Bilancio di genere. Quest’ultimo ha costituito un grande lavoro, conclusosi nel 2020, grazie al quale si è messa a fuoco la tematica e sensibilizzata l’amministrazione comunale. Su questa base sono stati realizzati alcuni progetti, come le «Vie al femminile», ma l’impegno maggiore inizia proprio ora con la nuova fase costituita dal «Piano di Azione per le Politiche di genere» presentato due settimane fa». La nuova sensibilità politica di Mendrisio ha portato anche alla creazione dello specifico Dicastero delle politiche di genere affidato a Françoise Gehring. Nel corso della presentazione del Piano di Azione la capodicastero ha sottolineato che «leggere la realtà con gli occhiali di genere significa aprirsi a una società più inclusiva, forte e dinamica». «La prospettiva di genere – conferma Francesca Luisoni – è ora applicata nell’esame e nella realizza-
zione di ogni progetto, in particolare al momento attuale in quello del nuovo comparto della stazione ferroviaria». A questo proposito la presentazione dell’associazione LARES ha fornito a Francesca Luisoni nuovi elementi mirati che la Città di Mendrisio può fare propri nel suo percorso. Volgendo lo sguardo a sud, si può prendere ispirazione anche da Milano che si sta muovendo secondo principi analoghi. Risalgono all’anno scorso due iniziative dal forte impatto mediatico. Si tratta dell’inaugurazione del primo monumento dedicato a una figura storica femminile e della pubblicazione di Milano Atlante di genere. La statua si trova nella centrale Piazza Belgioioso e ritrae Cristina Trivulzio di Belgioioso, figura di spicco del Risorgimento attiva in molteplici ambiti. L’Atlante rappresenta uno strumento teorico e pratico per pianificare contesti più inclusivi con focus sulle esigenze delle donne e delle minoranze di genere. Il cambiamento culturale che porta a focalizzare l’attenzione sulle diverse esigenze legate al genere è quindi in atto. Per tutte le nostre interlocutrici si tratta di tenere presente l’obiettivo strategico di questa prospettiva declinandola in singoli interventi di maggiore e minore portata. La visione di genere offre l’opportunità di prendere in considerazione un punto di vista più ampio per migliorare la qualità di vita nelle zone urbane e negli spazi pubblici a favore di ogni categoria di persone che li utilizza. Dalla configurazione di una piazza a quella di un parco giochi, dal nome di una via alla presenza di una statua, dal tragitto concepito nell’ottica casa-scuola-lavoro alla mobilità lenta, le possibilità di intervenire nel territorio offrendo spazio, visibilità e stimoli alle esigenze femminili sono numerose. L’attività dell’associazione LARES dimostra inoltre che autorità ed enti decisi ad affrontare la questione possono beneficiare di un supporto professionale adeguato. Informazioni www4.ti.ch/can/sgcds/ pari-opportunita/pari-opportunita/ www.lares.ch www.mendrisio.ch
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SOCIETÀ
Al lavoro in bici, tutto di guadagnato Ambiente
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Con il progetto Bike Coin si vuole incentivare l’uso della bicicletta nel percorso casa-lavoro
Nicola Mazzi
Se vai al lavoro in bicicletta guadagni, oltre che in salute, anche qualche franco. È questo il principio base su cui si fonda il nuovo progetto denominato Bike Coin che alcune città del Cantone stanno mettendo in atto dallo scorso anno (www.bikecoin. ch). Tra i promotori più attivi c’è la Città di Locarno che sta già ottenendo dei risultati di tutto rispetto. Una novità che ci viene spiegata dal responsabile dell’Ufficio energia della città sul Verbano Luigi Conforto: «da diversi anni stiamo cercando di capire in che modo stimolare i collaboratori a usare maggiormente la bicicletta nel percorso casa-lavoro, pensando soprattutto a coloro che abitano a pochi chilometri di distanza dall’ufficio. Con l’amministrazione comunale avevamo lanciato progetti di respiro nazionale come Bike To Work, ma con un successo limitato perché a parteciparvi erano sempre le persone che già usavano la bicicletta». In seguito, come aggiunge lo stesso Conforto, abbiamo sviluppato grazie alla collaborazione con la Mobitrends SA, uno studio di mobilità aziendale che comprendeva l’intero comprensorio urbano «in modo da individuare delle soluzioni condivise di mobilità con le aziende presenti». Tra le idee emerse e concretizzabili c’era il Bikecoin, sviluppato anche con la Città di Lugano. «Grazie anche al sostegno del capo Dicastero Pierluigi Zanchi e quindi del Municipio, abbiamo dunque avviato un progetto pilota (da settembre a novembre dello scorso anno) che sin da subito ha mostrato la sua efficacia ed è per questa ragione che da aprile di quest’anno abbiamo iniziato una campagna di sensibilizzazione più concreta sul territorio». L’ottimo tasso di adesione e i risultati ottenuti nella fase pilota (3.800 percorsi tracciati tra l’abitazione e il posto di lavoro per un totale di 12.000 km), nonché l’alto potenziale della mobilità ciclabile (40%) emerso proprio dal
Piano di mobilità aziendale del comprensorio del centro città, ha spinto il Municipio a estendere l’iniziativa anche ad altre aziende della città. «In sostanza abbiamo notato un’adesione accresciuta e un maggiore interesse verso questo progetto, rispetto ad altri provati sinora. E agli abituali appassionati delle due ruote si sono aggiunte altre persone che hanno preferito lasciare l’auto in garage». Un progetto semplice che utilizza la tecnologia e si basa anche su un piccolo ritorno economico. «In sostanza abbiamo deciso di introdurre un nuovo modello d’incentivazione per incoraggiare l’utilizzo della bicicletta. Nel corso di quest’anno e del prossimo verranno organizzate due campagne Bikecoin, da aprile ad ottobre, dove la Città di Locarno metterà a disposizione delle aziende un budget per premiare direttamente i loro collaboratori, i quali potranno guadagnare fino a 40 franchi al mese a dipendenza dell’uso fatto della bicicletta per recarsi sul posto di lavoro». Nel concreto, chi vuole aderire al progetto deve scaricare l’app Mobalt, con la quale traccerà i propri percorsi con il GPS. In questo modo raccoglierà punti (i Bikecoin appunto) in base al numero di tragitti e ai chilometri effettuati in bicicletta, (vanno bene sia quelle elettriche sia quelle classiche), che permetterà di generare anche delle classifiche a livello aziendale e interaziendale. Questo sistema ha anche un secondo effetto benefico. «Infatti, i percorsi che vengono registrati sull’App ci permettono di capire, in modo anonimo, quali sono le strade utilizzate maggiormente dai ciclisti e questo ci indica i punti in cui migliorare la viabilità cittadina per favorire i ciclisti. Il tutto in aggiunta alle piste ciclabili già presenti». In questo senso, l’Ufficio energia del Comune di Locarno, in collaborazione con i Comuni vicini (Minusio, Muralto e Ascona) ha creato la Regione Ener-
Chi vuole aderire al progetto deve scaricare un’App con la quale traccerà i propri percorsi raccogliendo punti in base al numero di tragitti e ai chilometri effettuati in bici. (www.locarno.ch)
gia Verbano la quale sta elaborando un masterplan per comprendere meglio dove intervenire, in modo mirato, sulle strade non ciclabili. «Non nascondo che i numerosi esempi presenti in Svizzera interna dove la viabilità con la bicicletta è diventata negli ultimi anni quella principale, ci piacciono molto. Vedremo se riusciremo ad avvicinarci a quei modelli nel tempo, ma la strada intrapresa è quella giusta e lo osserviamo dai primi dati che stiamo raccogliendo. Una sfida importante sarà poi quella di capire come far coabitare in modo intelligente le auto e gli altri mezzi a motore con le biciclette». A livello finanziario l’Ufficio diretto da Conforto ha riorientato, dopo l’ok del Municipio, parte del budget (20mila franchi) a disposizione
per incentivare l’acquisto di biciclette elettriche – visto che è già «vittima» del suo successo e non più necessario da incentivare – appunto sul progetto legato ai Bikecoin. Un importo aumentato grazie anche al sostegno di SvizzeraEnergia e del Fondo Clima Lugano Sud. Nel progetto, come si diceva, sono anche state coinvolte le aziende della regione che avevano partecipato allo studio iniziale e diverse hanno già risposto in modo positivo, dando la loro disponibilità. «Da parte loro sensibilizzano sul tema i loro collaboratori e i primi risultati sembrano positivi anche su questo versante». Infatti, al momento sono circa 140 le persone, nella Città di Locarno, che hanno aderito all’iniziativa e quindi usano regolarmente la bicicletta per
spostarsi da casa al lavoro. Anche le aziende stanno crescendo di mese in mese e hanno superato la quindicina, cifre in linea con gli obiettivi che i promotori si erano prefissati all’inizio. Un’ultima domanda ci giunge spontanea: ma alla fine dei due anni il Bike Coin continuerà? «Vedremo. Il progetto iniziale è previsto per il 2022 e il 2023 proprio perché deve essere un incentivo a far cambiare un’abitudine. Ma sarà interessante osservare i dati finali: in quel momento conteremo le persone e le aziende che vi hanno aderito e tireremo le nostre conclusioni. La porta è comunque aperta anche a un eventuale prolungamento degli incentivi se comprendiamo che possa essere utile alla causa», conclude Luigi Conforto.
La Huracan più estrema di sempre Motori
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Si chiama STO ed è già oggetto del desiderio degli appassionati della Casa del Toro di tutto il mondo
Mario Alberto Cucchi
Lamborghini STO, ovvero Super Trofeo Omologata. Stiamo parlando della Huracan più estrema di sempre. Costruita a Sant’Agata Bolognese, in quella che oggi viene chiamata la Motor Valley italiana, è già oggetto del desiderio degli appassionati della Casa del Toro di tutto il mondo. Semplicemente straordinaria, è pensata per andare forte anzi fortissimo. A differenza della Huracan Performante, STO rinuncia alla trazione integrale ed è quindi ancora più estrema, più adatta alla pista in cui gli Adas, gli aiuti alla guida, tanto di moda oggi non contano più nulla. In pista conta il peso, la sera prima di schierarsi sulla pit lane conviene stare a digiuno. Ecco allora che la STO arriva solo a 1339 chili. Un’architettura di stretta derivazione dalle corse e concetti aerodinamici estremi determinano più di 400 chili di carico aerodinamico grazie all’ala posteriore ma anche al lavoro sul sottoscocca e al profilo anteriore in fibra di carbonio. Tradotto in parole povere la STO è attaccata alla strada.
Tanti elementi parlano di aerodinamica, tanti altri di design ma in realtà sono tutti orientati solo alle prestazioni. Come il bellissimo airscoop, la presa sopra il tetto che alimenta il flusso d’aria indirizzato nel cofano per raffreddare il motore dieci cilindri a V da 5200 cc, iniezione diretta, che si trova posteriormente alle spalle del guidatore. L’aria deve essere sempre fresca perché il propulsore scalda, e anche tanto, e la temperatura tende a salire alle stelle quando si va in pista e si sfrutta tutta la potenza. Un motore aspirato di ampia cubatura. Quindi niente turbo, niente downsizing e niente batterie. Abbiamo a che fare con ben seicentoquaranta cavalli di razza che bevono solo benzina. Già, proprio così: non è elettrica e neppure ibrida. Insomma non ha neppure un «aiutino». Sulla STO il peso è determinante, gli ingegneri italiani hanno fatto di tutto per contenerlo e ci sono riusciti utilizzando tanto carbonio in perfetto stile racing. Anche il sedile di guida è decisamente da corsa, un guscio di carbonio con regola-
zioni manuali. D’altronde il lusso sulla STO si chiama leggerezza. Il risultato? Oltre trecento chilometri orari di velocità massima e un rapporto peso potenza di soli 2,05 chilogrammi per cavallo: eccezionale. Ed ecco allora che bastano appena tre secondi per accelerare da ferma a cento orari. Impressionano ancor di
più i dati relativi alla frenata. Viaggiando a 200 chilometri orari la STO è in grado di arrivare a fermarsi in soli 110 metri: premendo a fondo il pedale del freno a cento orari, le bastano 30 metri. Ed ecco allora che ci si immagina già sulla pista di Monza alla prima staccata. L’impianto frenante di nuova generazione contempla per
l’anteriore una pinza a sei pistoncini con dischi in carboceramica di derivazione Formula Uno. Eppure, per quanto i cordoli di un circuito restino il suo ambiente naturale, si tratta di una vettura omologata per la strada e questo è davvero il suo punto di forza. Perché gli appassionati possono raggiungere le piste nel fine settimana direttamente a bordo dell’auto senza doverla portare su un carrello. Un lusso che costa oltre 300mila franchi svizzeri, questo il prezzo della STO. Da nababbi, ma resta difficile non entusiasmarsi di fronte a un oggetto come questo anche perché probabilmente si tratta di uno degli ultimi esemplari della sua specie. Il Parlamento Europeo ha detto stop alla vendita di auto equipaggiate con motori termici alimentati a benzina o gasolio a partire dal 2035. Forse ci sarà una deroga per le supercar come questa Lamborghini Huracan prodotte nella Motor Valley. Ma la strada è quella e gli amanti di auto come la STO dovranno farsene una ragione.
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L’altropologo
di Cesare Poppi
Non ci furon due senza tre ◆
e strutturante fin da quando l’ineguaglianza sociale (necessaria? Inevitabile? Fondata biologicamente?) non ha fatto preferire la fiction narrativa degli Antenati prima, poi dei Capi quindi dei Re Imperatori – tutti più o meno con un piede se non due nell’Aldilà per farci rigare dritto – all’idea di una guerra di tutti contro tutti secondo la lezione, cinica forse ma efficace, di Hobbes. Certo non piaceva al confederato Jean-Jacques che, se la cultura elevava la Regalità al Divino preferiva un Uomo di Natura semplice, so-
Wikipedia
Il tema dell’Autorità, della sua legittimazione e delle relative sanzioni in caso di violazione dei diritti della suddetta – la cosiddetta Lesa Maestà – costituisce uno dei temi dell’antropologia classica. Nei regimi che si intendono democratici si tende almeno in tempo ordinario a supporre che in sostanza la gestione del potere si basi sul consenso di chi il potere l’ha dato in appalto col patto sociale e che poi gli tocca subire – bene o meno che gli stia. Comodo, essenziale e sbrigativo, specie nelle democrazie elettive cosiddette occidentali dove anche chi inventò la Marsigliese ha di recente preferito in larga misura percentuale andare a far shopping invece che esercitare il Sovrano Diritto al voto che se non altro legittima quel «piove, governo ladro» di chi, almeno, quel governo non ha votato. «Tanto non cambia nulla» – e speriamo che sia così. Meno in salita, invece, il percorso di chi ritiene che l’Autorità, la Sovranità, il Potere abbiano come fonte ultima di legittimazione la stessa divinità. Un’idea forte, radicata, strutturata
La stanza del dialogo
brio ed egalitario. «La Democrazia è un pessimo metodo di governo – rifletteva il marpionissimo Churchill – il problema è che tutti gli altri sono peggiori». Vallo a dire a quella che – secondo non pochi – è l’ultima forma di monocrazia autocratica al mondo – ovvero la Chiesa Cattolica – e qui intendo entrambe le sue forme «classiche», ovvero l’Ortodossa e la Romana. Debitrice la prima alla forma di Autorità Sovrana ereditata dalla concezione culturale dell’Impero Bizantino nelle forme orientaleggianti di una sovranità divina oggi resuscitata da nuovi Zar; forse più in linea con una cultura imperiale romana più «laica» (penso altropologicamente a Marco Aurelio, Traiano, lo stesso Cesare…) e «greca», via Paolo ed Agostino la seconda – entrambe hanno dovuto fare i conti con le crisi periodiche di una forma di esercizio del potere chiaramente fuori sincrono con il principio di una sua derivazione divina. Il cinquantennio 1378-1417 viene ricordato come il mezzo secolo dello
Scisma Occidentale. Il papato risiedeva ad Avignone dal 1309, per metà «protetto» e per l’altra metà ostaggio di Filippo il Bello (che dal Papa riuscì a ottenere fra l’altro i beni dei Cavalieri Templari che distrusse per pagarsi i debiti), ma papa Gregorio XI riuscì a tornare a Roma nel 1377. Tuttavia, la Chiesa cattolica romana si divise nel 1378 quando il Collegio cardinalizio dichiarò di aver eletto papa sia Urbano VI che Clemente VII entro sei mesi dalla morte di Gregorio XI. Dopo diversi tentativi di riconciliazione, il Consiglio di Pisa (1409) dichiarò che entrambi i rivali erano illegittimi e dichiarò eletto un terzo papa. Era il 26 giugno del 1409 quando salì alla cattedra di Pietro, per la verità un po’ azzoppata, Alessandro V. Alcuni invocarono la Divina Provvidenza, altri sospettarono il veleno (oggi pare si sia trattato di una fake news), fatto sta che morì a Bologna il 3 maggio 1410 mentre era a Bologna ospite del rivale Cardinale Baldassarre Cossa (che peraltro gli succedette come Giovan-
ni XXIII). Per quasi un anno il soglio di Pietro fu dunque occupato da tre pretendenti. Lo scisma fu risolto quando Giovanni XXIII convocò il Concilio di Costanza (1414–1418) per farla finita. Gli andò fatta male e si sparò nei piedi da solo. Il Concilio dispose l’abdicazione sia del papa romano Gregorio XII che dell’antipapa Giovanni XXIII, scomunicò l’antipapa avignonese Benedetto XIII (dichiarati senza mezzi termini «spergiuri, traditori ed eretici») ed elesse Martino V come nuovo papa regnante da Roma. Alessandro V oggi riposa nella chiesa di San Francesco a Bologna. Pressoché dimenticato. Al secolo Pietro Phillarges o Pietro di Candia fu il primo e l’unico Papa Romano di nazionalità greca. Passa alla storia contemporanea per aver fondato (o così si dice) il Club dei Bevitori dei Frati Minori Conventuali (Greyfriars) durante un soggiorno di studi ad Oxford. Passato attraverso molte peripezie, il Club continua a bere birra abbondante ancor oggi. Cheers!
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di Silvia Vegetti Finzi
Noi siamo Natura
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Gentile signora Vegetti Finzi, leggo sempre con interesse la sua rubrica e anche se il mio tema non è prettamente psicologico mi permetto di sottoporlo alla sua attenzione, perché penso che la sua rubrica venga letta da tante donne. Io abito a Brè sopra Lugano e spesso vado a camminare nella zona. Cammin facendo mi dedico alla raccolta di rifiuti e il rifiuto più frequente sono i tanti fazzoletti di carta che suppongo siano gettati dalle tante signore che percorrono quei sentieri. Certo, il fazzoletto di carta è biodegradabile, ma dopo quanti mesi? Per uno biodegradato, ce ne sono altri 10 che sono in bella vista per tanto tempo. Vorrei sensibilizzare le donne su questo tema e la prego di modificare il mio testo come lo ritiene opportuno. Tanti le saranno riconoscenti per il suo intervento. Grazie / Luisa
Cara Luisa, forse tutta la responsabilità dell’incuria e del degrado che lei denuncia non è da amputare solo al nostro genere. Un tempo le passeggiate in montagna erano prerogativa di pochi privilegiati. La maggior parte degli adulti in montagna ci lavorava e i sentieri che percorrevano ogni giorni erano considerati un’estensione della propria abitazione per cui venivano rispettati come spazi interni della casa e del cuore. Non si stupisca se uso il termine «cuore» così carico di significati e di affetti ma, finché dalla natura dipendeva la propria sopravvivenza, l’umanità provava nei suoi confronti un senso di gratitudine filiale. Non a caso, nell’epoca premoderna, vigeva l’espressione Madre-Terra, ora andata completamente perduta. Pensi che quando nel 600 iniziò lo sfruttamento intensivo, su scala industriale
Mode e modi
delle miniere, vi fu un vasto movimento di protesta che riteneva empio squarciare il corpo sacro della Terra Madre. Solo successivamente una concezione errata del progresso e della produzione illimitata di merci considerò la Natura un deposito di risorse da utilizzare senza scrupoli, tanto si sarebbero automaticamente rigenerate. Ancora oggi mi rimorde la coscienza per lo scempio che provocavamo, noi bambini degli anni Cinquanta, durante le vacanze in montagna: coglievamo grandi mazzi di ciclamini con il tubero per poi lasciarli marcire, strappavamo le stelle alpine dalle rocce, devastavamo i cespugli di mirtilli, tagliavamo le scorze dei pini per farne barchette e non ho animo di proseguire. Non sapevamo quello che facevamo e nessuno ci richiamava alle nostre responsabilità. Potessi girare indietro la moviola del tempo!
Ma non resta che guardare avanti e, imparando dall’esperienza, non ripetere gli errori di un tempo. Spero non sia troppo tardi per cambiare rotta e ascoltare gli scienziati che dimostrano, non solo con dati statistici ma con immagini impressionanti, che non c’è tempo da perdere. Non abbiamo un altro pianeta e questo è sempre più fragile e malato. Molto si può fare lavorando con i bambini. La loro sensibilità per i temi ecologici è straordinaria. Sarà perché i lori sensi colgono tutto il disagio dell’inquinamento e il loro gusto per la bellezza si offende di fronte allo spregio del paesaggio. Su di loro si può contare. Ma crescendo dovranno fare i conti con una società arretrata rispetto ai problemi da affrontare e risolvere. Il narcisismo della nostra epoca distrae lo sguardo dal mondo per concentrarlo su di sé, sulla propria imma-
gine. Falsi valori – come il successo, la ricchezza, l’avvenenza – racchiudono l’identità nei limiti dell’Io e del Mio, dimenticando che la Natura, non solo ci contiene, ma ci costituisce. Siamo fatti di acqua, di terra, di aria e di luce e, disprezzando la Natura, disprezziamo noi stessi. Per cambiare occorre partire proprio dai piccoli gesti, come raccogliere i rifiuti cartacei. Perciò grazie, cara Luisa, di questa segnalazione che mi auguro coinvolga la sensibilità e la responsabilità dei nostri lettori. Buone passeggiate! Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
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di Luciana Caglio
Anche la guerra è contagiosa ◆
Una nuova sconfitta per gli ottimisti. Quel «dopo saremo migliori», preconizzato in buona fede, durante la pandemia, si è rivelato illusorio. Persino controproducente. Rientrato l’allarme Covid, abolite forse frettolosamente le precauzioni sanitarie, la voglia di andare, riunirsi, applaudire, divertirsi è all’ordine del giorno. Tanto da ricreare i disagi dell’overtourism. Una reazione del resto attesa dagli operatori del settore. Come spiega Davide Nettuno, responsabile dell’agenzia Hotelplan di Lugano: «È esplosa la pentola a vapore compresso della rinunce forzate». Da qui il rischio di possibili eccessi: segnali, in parte positivi, che tuttavia riconfermano quanto sia difficile ricavare una lezione dagli eventi. Non ci riesce neppure la guerra, da cui siamo soltanto marginalmen-
te toccati. Certo, ci mancherebbe, non può lasciare indifferenti quanto avviene su un fronte bellico, neppure lontano. Ne siamo testimoni puntualmente informati, grazie all’impegno professionale dei reporter in loco. Sui nostri teleschermi sfilano le immagini di atrocità, distruzioni, sofferenze che raccontano un mondo che sembra inverosimile. Invece esiste da quattro mesi, e ci abbiamo fatto l’abitudine. Come succede all’indomani di ogni catastrofe, si attivano forme d’aiuto di vario tipo. Collette, innanzi tutto, per ricostruire case spazzate via dall’urgano o dal terremoto. Ma, questa volta, la raccolta di fondi non basta. Si tratta di accogliere profughi, nei cui confronti si verifica un’immancabile inversione di atteggiamento. Gli ucraini non sono soltanto
vittime, persino eroi, bensì persone, a volte esigenti, che chiedono sostegno materiale e comprensione. Mettendo alla prova la nostra solidarietà. Mentre la guerra continua, e forse durerà a lungo, crescono i malumori provocati da effetti collaterali preoccupanti. Il prezzo della benzina e del carburante salgono, intaccando un benessere che sembrava acquisito per sempre, fiore all’occhiello dell’elvetismo. Per salvarlo si batte cassa a Berna e a Bellinzona. Tempi duri per i politici, più che mai sotto tiro. Sulla «Weltwoche», settimanale d’opposizione di destra, Cassis viene definito «il politico più pericoloso della Svizzera». Paradossalmente, anche il Meeting dei Grandi a Lugano, è diventato, nella realtà locale, un’occasione litigiosa: i cittadini protestano per via
delle limitazioni del traffico e l’eventuale chiusura di bar e negozi e deplorano una perdita di libertà, illegittima in democrazia. In proposito tornano attuali le considerazioni dell’ex consigliere federale Kaspar Villiger, pubblicate sulla NZZ nel novembre 2021 con un titolo fulminante: «Di quanta illibertà ha bisogno la libertà?». Vi spiegava, alludendo alle proteste provocate dal lockdown, come la libertà debba rispettare regole e adeguamenti a situazioni d’emergenza. Altrimenti è il caos dove farsi i comodi propri a danno degli altri. Intanto dal contagio Covid si è passati al contagio della guerra, che si manifesta in forme persino spettacolari, sfruttate dai canali televisivi italiani, seguitissimi in Ticino. È una sorta di
«to’ chi si rivede». Si ritrovano, in prima fila, autorevoli ex, filosofi, storici, artisti marxisti viscerali, fantasmi della Guerra fredda, sempre fedeli all’antiamericanismo, padre di tutti i mali. L’estremismo fanatico non risparmia neppure i giovani e, spiace osservarlo, neppure le donne, tipo Marine Le Pen e Giorgia Meloni. Paragonabili ai «no vax», che contestavano la scienza ufficiale, ecco i negazionisti della storia ufficiale, secondo i quali la Seconda guerra mondiale fu scatenata dalla Gran Bretagna. A completare il quadro di una stagione all’insegna della conflittualità, arriva la notizia di crescenti contrasti fra i due Papi. Magari è una fake news. Altrimenti, confermerebbe che il contagio da guerra è grave. Ha colpito i più alti simboli della pace.
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TEMPO LIBERO ●
Videogiochi: coach e trainer Sempre più attuali, gli e-sport a livello competitivo organizzato e persino professionistico
Oltre il viaggio Tutti i porti di Alvaro, protagonista di Sotto il cielo del mondo, ultima opera di Flavio Stroppini
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Lasagne vegetariane Sfoglie e fette di zucchine farcite con una delicata crema di limone e ricotta per un primo delizioso
Le infinite facce di un dado Una collezione nata più per la forma che non per l’indeterminatezza della sorte
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Un secondo, spiccioli di caduta libera e brivido puro Adrenalina
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Quelle che sanno regalarti i tuffi sono emozioni davvero uniche, genuine
Moreno Invernizzi
«Quando sei nell’aria c’è tensione, concentrazione e un po’ di paura: di margine d’errore non ce n’è molto, e ogni movimento del corpo dev’essere controllato, che il tempo per poterlo fare è minimo» racconta Fabrizio Sirica, fondatore e presidente del Gruppo Tuffatori Amatoriali. «Per brevi che siano, quei momenti, quando sei in aria si dilatano all’infinito: un interminabile conto alla rovescia. Poi, quando arrivi in fondo, quando entri in acqua, come per incanto, quella tensione accumulata dal momento in cui ti sei lanciato dalla piattaforma lascia il posto alle endorfine; e se in aria l’esecuzione è andata per il verso giusto, quella che provi è una sensazione stupenda, difficile da riassumere a parole». Non di rado molti provano tuttavia paura quando si ritrovano sulla piattaforma a picco sullo specchio d’acqua sottostante, magari a dieci metri d’altezza. «Paura c’è sempre, ed è giusto che sia così. Ma è quel genere di paura che definirei “sana”, e che fa rima con rispetto per ciò che si sta facendo. Non provarne sarebbe come sottovalutare il tuffo, col rischio di non affrontarlo con la giusta concentrazione, cosa che accrescerebbe il rischio di incidenti».
Già, i pericoli… Perché, al di là di tutto, un certo rischio c’è quando ci si lancia da un trampolino o da una piattaforma: «Padronanza dei movimenti, concentrazione e una certa serietà non devono mai mancare, oltre al rispetto per ciò che ci si appresta a fare. Movimenti come la capriola all’indietro, il classico salto mortale, presentano effettivamente un certo tasso di rischio, ragion per cui occorre un’opportuna compostezza nei movimenti, e non perdonano molto in caso di errore. Se la rotazione viene eseguita girando la testa anziché con tutto il corpo, il pericolo di sbattere contro qualche ostacolo con un braccio o, peggio, con la testa, c’è. Delicata, poi, è pure l’entrata in acqua: effettuarla di pancia o di schiena, anche se da un paio di metri, può fare parecchio male. Ecco perché per poter acquisire una buona familiarità con i tuffi è importante seguire un corso specifico». Un passato di nuotatore, e soprattutto di insegnante di nuoto, alle spalle, Sirica decide allora di trovare un modo per impegnarsi attivamente nel trasmettere ai neofiti la sua passione per i tuffi, «fino a quel momento condivisa praticamente solo con un gruppo di amici con cui mi trovavo di
solito a bordo vasca al Lido di Locarno o a Tenero». Così, dopo aver ottenuto lo specifico brevetto G+S (primo e attualmente unico ticinese ad averlo conseguito) – «a Macolin, visto che a quei tempi (e tutt’oggi), in Ticino non c’è la possibilità di conseguirlo» – ecco i primi corsi dedicati ai giovani. «Anno dopo anno, a crescere, oltre al numero di praticanti, sono state anche qualità e tecnica dell’attività che proponiamo, grazie anche all’apporto degli insegnamenti di Julian Mucha, istruttore di tuffi cresciuto in Ticino e attivo anche all’estero (ora a Dresda, dopo essere passato da Monaco e Roma)». Per ora le attività della società si limitano al Sopraceneri, con corsi a Tenero e Bellinzona e allenamenti a Locarno. «E devo dire che sono sempre molto ben frequentati. A dirla tutta, abbiamo richieste che ci arrivano regolarmente da tutto il Ticino, ma ora come ora, complici le nostre limitate risorse, le nostre attività si concentrano nel Sopraceneri. L’obiettivo a medio termine sarebbe però appunto quello di varcare anche il Ceneri in direzione sud un domani». Sebbene in questa disciplina non ci sia una sorta di «eroe nazionale» da
prendere a modello, l’interesse per i tuffi, par di capire, c’è dunque anche alle nostre latitudini… «Eccome se c’è, soprattutto fra i bambini e fra i ragazzi (non mancano nemmeno le ragazze), soprattutto adolescenti, sia per quel che concerne i corsi, sia per gli allenamenti, che sono strutturati su tutta l’estate». Tanta pratica ma niente competizione… «Per ora sì. Volenti o nolenti, visto che per poter ambire alle competizioni necessiteremmo di una struttura accessibile tutto l’anno e non unicamente nella bella stagione. Il discorso gare lo riprenderemo però sicuramente in mano tra qualche anno, ossia una volta che verrà colmata questa lacuna strutturale con la realizzazione del nuovo centro federale acquatico a Tenero, prevista nel 2026, che conterà anche una piscina per tuffi interna. A quel punto sì, alle competizioni ci faremo anche più di un pensiero. Anche perché con Julian stiamo già lavorando in questa direzione con il gruppo Pro, che comprende i ragazzi più portati per questa disciplina». Tuffatori provetti, ad ogni modo, non si nasce. E come lo si diventa? Come si impara a tuffarsi bene? Fabrizio Sirica ha le idee ben chiare:
«Ci si arriva per gradi, seguendo passo dopo passo una formazione specifica. E a ogni tappa superata, il giovane riceve un attestato sotto forma di stemmino. Si comincia con la tenuta del corpo, curando i movimenti tecnici, per proseguire con la cura dell’entrata in acqua, tanto in piedi, quanto, soprattutto, a testa (visto che in campo agonistico l’entrata avviene sempre con la testa), e da ultimo si passa alle varie rotazioni del corpo: dal terzo stemmino in avanti si apprendono le capriole in avanti e indietro. E solo una volta acquisita la giusta padronanza di ognuna di queste tecniche si passa alla tappa successiva». Niente rocce a picco su qualche fiume, quindi. «No, anche per una questione di responsabilità. Per potersi tuffare in sicurezza dev’essere soddisfatta tutta una serie di condizioni, cosa che molto spesso sui corsi d’acqua non è facile da appurare. Penso alla profondità dell’acqua, ma anche alla distanza ai potenziali ostacoli, e a diversi altri fattori. Per questo sconsigliamo ai nostri atleti di tuffarsi nei fiumi». Per saperne di più www.gruppotuffatoriamatoriali.com
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Le implicazioni dei videogiochi sportivi Evento
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Il 14 settembre al Centro sportivo nazionale della gioventù di Tenero una giornata intitolata «Alla scoperta degli eSport»
Guido Grilli
I videogiochi annoverati nell’olimpo degli sport, alla stessa stregua di calcio, hockey o tennis? Roba da non crederci. Eppure, basterebbe chiederlo ai vostri ragazzi e vi aprirebbero il libro (…). Si chiamano eSport, in due parole: sport elettronici. Videogiochi a livello competitivo organizzato o professionistico, con tanto di allenamenti e coach. La modalità più comune è detta «multigiocatore», ossia più persone partecipano al gioco nello stesso tempo, con i computer in connessione. Esistono veri e propri campionati e tornei in tutto il mondo e, grazie agli sponsor, si parla di cifre d’affari milionarie. Ma come la mettiamo con le possibili derive e i rischi da gioco patologico in cui possono cadere numerosi giovani, disperdendosi e accumulando insuccessi scolastici e professionali? Ebbene, per saperne di più e acquisire consapevolezza su un fenomeno in espansione, il Dipartimento formazione e apprendimento della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana organizzerà, il prossimo 14 settembre al Centro sportivo nazionale della gioventù di Tenero, una giornata intitolata «Alla scoperta degli eSport» rivolta agli allievi delle scuole medie e delle scuole medie superiori, ai docenti in termini di corso di formazione e a tutti gli interessati. L’evento (rinviato lo scorso gennaio a causa della pandemia) s’in-
Una squadra sportiva durante una competizione. (Xavier Caré / Wikimedia Commons / CCBY-SA)
serisce nell’ambito di Sportech – le giornate della scienza e della tecnologia applicate allo sport che si svolgono ogni due anni in collaborazione con il Decs, l’Accademia svizzera delle scienze tecniche, l’Ente ospedaliero cantonale e la RSI. L’iniziativa si proporrà di tematizzare il mondo degli eSport e le relazioni che intercorrono tra essi e gli sport tradizionali. L’approccio della giornata, par di intuire, intende essere di tipo inclusivo: non vuole demonizzare i videogiochi, anzi piuttosto capirne più a fondo le implicazioni. È così? Lo chiediamo a Lucio Negrini, docente e ricercatore della Supsi e responsabile del Laboratorio tecnologie e media in educa-
zione, fra i promotori della giornata. «Esatto. L’idea è proprio quella di offrire un’introduzione sul mondo degli esport e dei videogiochi competitivi, presentando un po’ tutte le sfaccettature, quindi il problema della dipendenza, ma anche il lato più positivo, come quello dello sviluppo di una serie di competenze, oltretutto oggigiorno molto richieste: l’evento si prefigge di analizzare come il giocare a videogiochi specifici favorisca lo sviluppo di competenze trasversali come l’ascolto attivo, il problem solving, la collaborazione, la comunicazione o il decision making. La giornata metterà in luce anche i numeri del fenomeno, che perlopiù non si conoscono.
Si pensi che, in confronto alle discipline tradizionali, quanto gira attorno agli e-sport è davvero enorme: alcuni tornei hanno un seguito di spettatori che superano di gran lunga i numeri di una champions league di calcio». I partecipanti alla singolare proposta, evidenziano gli organizzatori, potranno cimentarsi e assistere durante il pomeriggio ad alcune dimostrazioni di competizioni eSport (quattro saranno le postazioni a disposizione), oltre che discutere con esperti del settore su questo mondo. Molte le domande che verranno sollevate allo scopo di definire con precisione cosa sono gli eSport e conoscere più a fondo il loro universo
non trascurabile, dal momento che richiama l’interesse di un’ampia platea: cosa sono gli eSport e cosa ruota attorno a questo universo? In che misura gli eSport possono essere considerati risorse utili da affiancare agli allenamenti sportivi tradizionali? Quali competenze si possono sviluppare grazie agli sport elettronici? La proposta al Centro di Tenero vedrà una variegata presenza di esperti che alle 18 interverranno alla conferenza intitolata, «eSports – Rischi e opportunità di un fenomeno in continua ascesa». I relatori offriranno diversi sguardi sul fenomeno. Masiar Babazadeh, docente e ricercatore della Supsi lavora fra l’altro a diversi progetti di ricerca nell’ambito di sviluppo di giochi educativi e gestisce il corso di game development; Paolo Giovannelli, psichiatra e psicoterapeuta si occupa di dipendenze patologiche e a Milano ha fondato il Centro per disturbi da uso di Internet; Marcel Vulpis, giornalista economico specializzato in sport business, è esperto di e-sport e docente all’Università Tor Vergata e Iulm di Milano; Alex Fontana, pilota automobilistico ticinese, gareggia in pista e virtualmente partecipa a tornei di e-sport. Informazioni La giornata è gratuita, ma è gradita l’iscrizione online all’indirizzo: www.supsi.ch/go/esport. Annuncio pubblicitario
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Imbarcandosi nella vita
Bussole, letture per esplorare il mondo ◆ Parla di navi, di viaggi e di porti, ma anche di responsabilità e di fughe, il romanzo Sotto il cielo del mondo di Flavio Stroppini Manuela Mazzi
«Si sa bene che tutti gli uomini sono passati da quella strada (…) fino a che si scorge dinanzi una linea d’ombra che ci avvisa che anche la regione della prima giovinezza dev’essere lasciata indietro». Parla del passaggio dall’adolescenza all’età adulta Joseph Conrad nel suo breve romanzo, l’ultimo che scrisse e che si intitola proprio La linea d’ombra (la prima edizione in italiano porta la data del 1929). L’adolescenza – che non corrisponde necessariamente a un dato anagrafico, ma ha che fare piuttosto con uno stato mentale – è l’età in cui si è portati a compiere atti avventati come sposarsi improvvisamente o lasciare un impiego senza ragione, o, ancora, come partire per il mondo; spesso per fuggire da responsabilità che spaventano. L’io narrante de La linea d’ombra abbandona la nave mercantile sulla quale lavorava, e lo fa in un porto d’Oriente non precisato, per cercare la sua strada: vorrebbe tornare a casa, ma si ritroverà ad affrontare la sua avventura più rischiosa. Alvaro Giacometti, protagonista del romanzo di Flavio Stroppini, Sotto il cielo del mondo (Capelli editore, 2020), abbandona invece all’altare la fidanzata incinta, e parte per una «caccia agli indizi» lasciati da un padre (Libero, nome forse un po’ troppo parlante) conosciuto solo in un’occasione, vent’anni prima, al suo compimento dei diciotto. Comparendo proprio sulla linea d’ombra del figlio Alvaro, oltretutto solo per pochi giorni, il padre produrrà nell’anima del giovanotto una sorta di sospensione temporale, che si protrarrà fino alla morte del marinaio sconosciuto, la quale coinciderà con l’avvio della gravidanza di colei che sarebbe dovuta diventare moglie del giovane fattosi apparentemente uomo. Era proprio questo il padre di Alvaro: Libero, come si diceva, di nome e di fatto; un marinaio senza porto: «Pensai alle tempeste in mare, a
quanto debbano fare paura a un uomo di montagna. Pensai al padre che non avevo mai conosciuto, se non per qualche cartolina inviata dagli angoli più lontani del mondo e con parole sempre uguali: saluti, papà». Anche in Sotto il cielo del mondo di Stroppini siamo infatti invitati a seguire un io narrante: Alvaro, a sua volta padre in divenire, riporta le tante avventure vissute in giro per i sette mari come fossero parte di una lunga lettera alla figlia che dovrà nascere, e lo fa proprio per raccontarsi… Ovviamente non abbiamo citato a caso il lungo racconto di Conrad: l’opera compare all’interno del romanzo di Stroppini, come un ulteriore indizio, forse il primo e anche l’ultimo, che aiuterà il protagonista, e il lettore, a comprendere il senso del tutto. Si dice che non puoi sapere dove andare se non sai da dove vieni. Ed è così che Alvaro tornerà sulle orme lasciate da Libero nei porti più disparati, seguendo per l’appunto indizi «che il vecchio» consegnò ad amici, ex colleghi e pure a qualche amante occasionale. E lo farà nel tentativo di trovare una qualsiasi risposta a domande che in verità fatica persino a porsi: «Era difficilissimo parlare così. Ogni domanda aveva risposte laterali che provocavano altre domande e le risposte a queste ultime erano a loro volta da un’altra parte. Era come stare in una sala degli specchi, dove si vedono tutte le sfaccettature ma non si capisce dove sia il centro vero e proprio. La verità». Girerà il mondo, Alvaro, e lo farà prendendo diversi voli che lo porteranno a Gdansk in Polonia, quindi Bangkok, Istanbul, Crosshaven in Irlanda, Tunisi, ma soprattutto ad Alang in India, il capitolo forse più bello. Capitoli che hanno tutti in apertura la stella dei venti e diversi incipit (quelli legati al lungo viaggio) che iniziano tutti allo stesso modo, ovvero con la significativa frase: «Il
Scena tratta dal film La leggenda del pianista sull’oceano, quando il protagonista riflette nel ventre della sua nave. (IMDb)
giorno diventò il giorno dopo»; un ritornello che avremmo voluto ritrovare in esergo a ogni parte divisoria del romanzo, anche se fa molto Via col vento, o forse proprio per questo. E mentre i giorni trascorrono, le vicende si consumano, le relazioni, anche le più appassionate, si sfilacciano in molte partenze, gli indizi rimangono incomprensibili, ma al tempo stesso i pensieri si fanno sempre più leggeri, come gli aquiloni di carta che voleranno sopra i tetti di Ahmedabad, nel Gujarat. Sono molte, le fascinazioni culturali che si possono godere leggendo questo bel libro di viaggio. Opera non priva di qualche difetto, più che nel contenuto, per alcuni aspetti tipografici: refusi e vedove (le ultime righe di un paragrafo che appaiono isolate nella parte superiore delle pagine successive) sono elementi che denotano poca cura dell’editore, e di ciò ci dispiace. Dal punto di vista del contenuto, invece, da esploratori quali siamo, talvolta ci pare
to non solo perché qui si percepisce proprio la linea oltre la quale il protagonista potrebbe entrare nel mondo degli adulti, ma perché ci pare di intravvedere un’ulteriore citazione, non esplicita come l’omaggio a Conrad, ma comunque evidente seppure forse involontaria: la scena di Alvaro seduto in mezzo al gigantesco cantiere di demolizione delle navi, che si accende una sigaretta e fumando riflette su tutto, non può infatti che farci tornare alla memoria la scena finale di Novecento, il bellissimo monologo teatrale di Alessandro Baricco (da cui Giuseppe Tornatore trasse La leggenda del pianista sull’oceano), altro grande libro di viaggio che va molto oltre il viaggio stesso.
fantastico viaggiare così, ma anche molto inverosimile la totale assenza di preparativi, l’insostenibile leggerezza del peso di un bagaglio che al protagonista servirà per stare in giro almeno nove mesi, in luoghi non sempre agevoli, la facilità degli spostamenti, la mancanza di eventuali procedure doganali che potrebbero condizionare la decisione di partire quando gli salta in mente di farlo, e com’è che trova sempre una camera libera ovunque vada, senza patemi? Non che si debba zavorrare un romanzo di simili quisquilie, ma un accenno di tanto in tanto avrebbe rispettato meglio il cosiddetto principio di realtà. Ci piace tuttavia credere che questo lungo viaggio potrebbe essere stato vissuto anche solo come un ricco sogno, e non lo diciamo a caso data l’ultima esperienza che Alvaro narrerà alla figlia. Ma eravamo rimasti ad Alang, il cimitero delle navi dei sette mari, un luogo, un capitolo che ci è piaciu-
Bibliografia Flavio Stroppini, Sotto il cielo del mondo, Capelli editore, 2020. Joseph Conrad, La linea d’ombra, Einaudi, 2010. Alessandro Baricco, Novecento, Feltrinelli, 1994. Annuncio pubblicitario
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TEMPO LIBERO
Ricetta della settimana - Lasagnette al limone ●
Ingredienti
Preparazione
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Per 5 persone (1 stampo di 25x25 cm)
1. Sbollentate le lasagnette in abbondante acqua salata per 4-5 minuti. Scolatele, passatele sotto l’acqua fredda e fatele sgocciolare bene. Lavorate la ricotta con la panna e due terzi del parmigiano. Unite la scorza di limone grattugiata e condite con sale.
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300 g di lasagnette (con bordo ondulato) o di sfoglie per lasagne 750 g di ricotta 2 dl di panna 120 g di parmigiano grattugiato 1 limone sale 400 g di zucchine 4 c di pesto
2. Scaldate il forno statico a 180 °C. Tagliate le zucchine per il lungo a fette spesse circa 3 mm. In una pirofila distribuite a strati le lasagnette, le zucchine e la ricotta con un po’ di pesto. Terminate con la ricotta. 3. Tagliate la metà del limone a fette sottili e distribuitele sulle lasagnette. Cospargete con il resto del formaggio. 4. Cuocete le lasagnette al centro del forno per 20-25 minuti. A piacere, potete mescolare alcune zucchine tagliate finemente, pomodorini cherry di diversi colori e spinaci con un po’ d’olio e sale per guarnire le lasagnette con le verdure fresche prima di servirle. Preparazione: circa 20 minuti; cottura in forno: circa 20-25 minuti. Per persona: circa 31 g di proteine, 46 g di grassi, 59 g di carboidrati, 770 kcal/3200 kJ.
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Migros Ticino
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TEMPO LIBERO
L’uomo dei dadi Collezionismo
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Le facce di un dado da gioco possono essere molte più di quelle che immaginiamo
Maria Grazia Buletti
perché ve ne sono di forme e simboli così differenti fra loro che nemmeno uno se lo immagina». Racconta di averli sempre tenuti come «oggetti di decoro» e di averli acquistati un po’ in ogni dove: «Quando li vedevo, dicevo “ma che belli questi”, e bastava a stimolarmi nell’acquisto». Man mano, sono sempre stati riposti in bella vista sugli scaffali della libreria, sia quelli comperati personalmente sia quelli ricevuti in dono, fino a quando: «Forse erano talmente pieni di polvere, o forse quando sono arrivati i miei figli, o quando ho smesso di essere un collezionista attivo (non so più bene), li ho messi tutti in una scatola che oggi sono andato a riprendere in cantina». Prima del nostro incontro, gli abbiamo chiesto di non toccare quella scatola perché ci saremmo andati insieme, in cantina, a recuperarla. Così abbiamo fatto, e ora lo vediamo scivolare sempre più in un mare di ricordi ed entusiasmo a ogni dado che tira fuori mentre ce ne racconta la storia. Dice di non ricordarseli tutti, e per questo li ha etichettati con data, provenienza, nome di chi gliene ha fatto dono. Ma questa sua affermazione non corrisponde proprio al vero perché gli si illuminano gli occhi a ogni pescaggio nella scatola, e racconta un aneddoto di quel dado o quell’altro, per forma, per simbologia rappresentata, per l’uso che se ne può fare e per provenienza: «Questi neri sono di madreperla o di osso e me li ha regalati mia
sorella a Natale del ’98. Questi bianchi li ho visti in una vetrina di un negozio di vestiti dove sono entrato chiedendo se per favore li potevo comperare: immaginate la sorpresa quando dopo un certo tempo mi hanno telefonato che avevano smontato la vetrina e avrei potuto andare a prenderli… e poi ho una cravatta con i dadi, e questi sono dei ferma-polsini usati negli anni Venti dai croupier del Casinò di Montecarlo. Questi di osso provengono dalla Turchia». Dadi porta-penne, ferma-libri, porta-inchiostro, dadi fatti di gomma per cancellare, macinacaffè, contenitore per denti di latte: ce li mostra man mano che attinge alla scatola: «Questi di inizio secolo mi sono stati rega-
Giochi e passatempi Cruciverba
Lo sapevi che… Trova il resto della frase a cruciverba ultimato leggendo le lettere evidenziate. Frase: 2, 6, 3, 1, 2, 6, 2, 3, 5)
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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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27. Si ode rompendo il vetro 28. Un numero 29. Sono uguali nel catalogo VERTICALI 1. Moneta rumena 2. Si nascondono per vanità 3. I «The...» Gruppo rock degli anni 60 4. Odiare senza dire 5. Tre vocali 6. Crea tante espressioni 7. Rendono serena la sera 8. Un tipo di posta
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ORIZZONTALI 1. Il lavoro di Cicerone 5. Un cereale 9. Figlio di Anchise e Afrodite 10. Illumina e non brucia 11. Contrapposta all’altra 12. Sventare... a Londra 13. Cuor di pettirosso 14. L’isola di Nessuno 16. Indumenti comodi 19. Pronome personale 20. Secondo elemento di parole scientifiche che significa «sezione» 21. Un figlio di Giacobbe 23. Un... poco di buono 24. Sigla di un’unità specializzata dei Carabinieri 25. Ha clienti frettolosi 26. Torna... se ora non c’è
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lati nel ’94 e sono di vetro colorato…». Contrariamente al nostro immaginario comune, vediamo dadi che tali non sembrano: «Questi neri hanno sei/otto facce, quest’altro è un dado “centofacce”». Ci mostra una sfera che ci chiediamo come possa fungere da dado. Ma le sorprese su forme e simbologia dei dadi da gioco si susseguono con quelli fatti di sale («sono fragili perché si sgretolano e sono contenuti in questo bicchierino pure di sale»), a forma di uovo, con lettere invece dei numeri, con facce a prisma, con Sì o No a decretare una precisa risposta alla domanda di chi li lancia: «Questo è una trottola, l’altro ha i numeri messi a caso, poi abbiamo i dadi ghiacciolo da mettere nei bicchieri da cocktail, uno
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d’argento che mi hanno portato degli amici dal Messico e ha l’astuccio di stoffa tipicamente messicana…». Siamo dinanzi a una varietà di differenti e originali dadi da gioco con una concezione che si allontana dalla consuetudine, a cominciare da quello come un parallelepipedo di legno che non cadrà mai in piedi e gliene chiediamo la provenienza: «Ero in Nepal, nel ’93, a Katmandu, e mi sono avvicinato a degli uomini che giocavano proprio con questo dado sul bordo della strada. Volevo comprarlo e ho dovuto superare il loro diniego (“Stiamo giocando, torna quando abbiamo finito e vedremo”). Dopo una discussione in un nepalese poco scontato, sono riuscito a farmelo vendere a partita finita e chissà quanto lo avrò strapagato». Sandro ci confida che quella scatola recuperata dalla cantina lo ha riportato indietro: «Quando l’ho aperta e ci ho messo dentro le mani mi si è aperto un mondo di ricordi… mi fa piacere tirarli fuori adesso, mi piacciono ancora, mi accorgo che mi piacciono ancora…». Ribadisce di aver smesso di raccogliere dadi da gioco solo perché poi si ricoprono di polvere, e in fondo non affiderebbe comunque mai a loro le proprie decisioni. Però: «Se mi trovassi in un mercatino e vedessi un paio di bei dadi da gioco, me li comprerei ancora! Anche se poi li riporrei ancora in questa scatola». A questo punto: «Les jeux sont faits». Oppure, meglio ancora: «Il dado è tratto».
Vincenzo Cammarata
«Conduci una vita insignificante, che non ti soddisfa, in stato di “libertà congelata”? C’è una via per uscirne e questa via è il dado: sottomettiti a lui e la tua vita cambierà». Questa la filosofia di vita che l’autore di culto degli anni Settanta, Luke Rhinehart, esprime nel suo romanzo più noto, L’uomo dei dadi, nel quale narra le vicende di un annoiato psichiatra di successo che affida la propria vita al caso, semplicemente lanciando un dado da gioco. Al relativo risultato è affidato il compito di indicargli le decisioni da prendere e la piega che la sua vita avrebbe seguito. È un libro di culto di quegli anni, tanto da essere definito dallo scrittore Emmanuel Carrère «un manuale di sovversione che chiunque sogna di mettere in atto nella vita reale». Di quel «chiunque» non siamo così certi, dopo aver incontrato Sandro (nome noto alla redazione) e la sua ricchissima, inimmaginabile e originalissima collezione di dadi da gioco: «Non ho mai affidato ai dadi una mia decisione perché li ho sempre collezionati per il loro aspetto fisico o estetico, non certo perché potessero decidere qualcosa lanciandoli in aria». Una collezione nata più per la forma che per il fato di cui parla Rhinehart nel suo libro, ci racconta Sandro mostrandone uno di quelli classici come la maggior parte di noi conosce: «La forma di questo cubo, la casualità di quando lo lanci e decide lui quale numero o simbolo esce, e poi la varietà,
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10. Nota cantante israeliana 12. Federazione Ciclistica Italiana 13. Fu dato in pasto a Tereo 15. Atmosfera poetica 17. Si alternano nell’uomo 18. Può essere... per dire 20. Un bagno... nei centri benessere 22. Davanti ad Antonio sul calendario 23. Insenatura marina 25. Le iniziali di una Rodriguez della TV 27. Li... seguono in bilico
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Soluzione della settimana precedente TRA AMICI – «Mario stanotte ho fatto scintille!» – «Amore focoso?» Risposta risultante: «PURTROPPO NO, PIGIAMA ACRILICO!» P A U R A O G G I C O D A O P E T G E N E C O R T E E L S E N O E C A S P I A C I N
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 27 giugno 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino 21
ATTUALITÀ ●
Le origini dell’inflazione Il forte rincaro negli Stati Uniti e in Europa non è solo dovuto alla guerra in Ucraina, bensì molto all’espansiva politica monetaria di questi decenni
Svolta in Colombia Eletto a sorpresa alla presidenza Gustavo Petro, ex guerrigliero del M19 e già sindaco di Bogotà, che ha sconfitto il candidato dell’estrema destra
Investire con giudizio Intervista al capo economista di Banca Migros Christoph Sax su come investire i soldi mentre l’inflazione cresce e le borse sono in ribasso
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Il rischio di uno scontro diretto
Kaliningrad ◆ La crisi apertasi con il blocco parziale delle merci da e per l’exclave russa porta Biden e Putin a chiarire le rispettive intenzioni geostrategiche, sotto lo minaccia di una guerra atomica Lucio Caracciolo
Il blocco parziale del transito di merci russe via Lituania verso Kaliningrad, exclave russa sul Baltico, è una svolta nella guerra non troppo indiretta fra Mosca e Washington, finora concentrata in Ucraina. La decisione di Vilnius, legittimata come esecuzione di sanzioni stabilite dall’Unione Europea, è stata accolta al Cremlino da proteste non solo retoriche. È chiaro che la Russia reagirà in qualche modo, non sappiamo ancora quale. Ma se la rappresaglia russa dovesse rivelarsi anche militare, il rischio che lo scontro fra Usa e Federazione Russa diventi diretto sarà concreto. L’escalation verso uno scambio nucleare non può essere esclusa. Anzi, per un caso del genere è contemplata tanto nella pianificazione Nato quanto in quella russa.
Il porto di Kaliningrad, d’importanza strategica per la Russia, dove ha sede anche la Flotta del Baltico. Sotto, treni merci bloccati a Kaliningrad. (Keystone)
Putin ha fatto di Kaliningrad una fortezza militarizzata, con la Flotta del Baltico e i missili per testate nucleari Iskander Questo è il livello di rischio della crisi di Kaliningrad. Per ora, un’ipotesi di scontro frontale fra l’Alleanza a guida Usa e la Russia, nel caso affiancata dalla Bielorussia in quanto sua propaggine confinante con la Lituania, non appare probabile. Ma dalla guerra in corso abbiamo imparato che certi meccanismi, una volta messi in moto e alimentati da propagande esagitate, possono svilupparsi in maniera quasi autonoma dalla volontà dei decisori. Le guerre qualche volta sono stabilite per programma, più spesso accadono. Kaliningrad è la città più occidentale della Russia. Fino al 1945 era la città più orientale della Germania. Basti questa localizzazione storico-geografica per segnalarne il rilievo. Già capitale prussiana, questa città fondata dai cavalieri teutonici nel XIII secolo con il nome di Königsberg – poi celebre quale patria di Kant – è stata contesa nel tempo dalle principali potenze dell’area: appunto la tedesca, la russa e la polacco-lituana. Quando l’Armata Rossa riuscì a espugnarla, pochi giorni prima della capitolazione della Wehrmacht hitleriana, Stalin decise di annettersela. Con il consenso di inglesi e americani. Il dittatore di origine georgiana rivendicò Königsberg, fra l’altro, in quanto unico porto russo affacciato sul fronte settentrionale che fosse libero dai ghiacci tutto l’anno (non proprio vero, ma sufficiente a convincere Churchill e Truman, che alla conferenza di Potsdam si dissero d’accordo). Con il crollo dell’Urss la città ridenominata Kaliningrad (città di Kali-
nin) in onore dell’omonimo dirigente bolscevico si trovò, in quanto afferente alla ex Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, trasmutata in una notte in Federazione Russa, isolata dalla madrepatria. Con l’ingresso di Polonia e baltici nella Nato, Kaliningrad si è vista chiudere l’accesso
diretto a Mosca. Stretta fra Lituania e Polonia, il suo legame con il resto della Russia resta affidato ai collegamenti marittimi e alla ferrovia che da Mosca, via Bielorussia e Lituania, porta allo scalo baltico. L’isolamento e la collocazione geostrategica hanno spinto Putin a fare di Kalinin-
grad una fortezza ipermilitarizzata, base della Flotta del Baltico. Qui sono collocati fra l’altro potenti missili Iskander e, molto probabilmente, bombe atomiche. La crisi in corso attorno a Kaliningrad costringerà Russia e America a chiarire (e a chiarirsi) meglio le rispettive intenzioni. Al momento, sappiamo che Putin intende disarticolare la Nato, riaffermare la Russia come grande potenza, esporsi avanguardia di un vasto fronte antiamericano o comunque critico degli Stati Uniti, d’intesa (relativa) con la Cina, esteso anche all’India e a diversi paesi dell’ex Terzo Mondo. Biden, o chi per lui, intende invece sfruttare questa occasione per indebolire la Russia. E per conseguenza colpire la Cina in quanto avversario numero uno allineato con Mosca. Come concretamente russi e americani possano realizzare questi obiettivi di massima è oggi impossibile stabilire. Le due potenze sembrano muoversi opportunisticamente, pronte a deviare dai piani, se ce ne sono di davvero determinati. Il rischio è che in questo percorso insanguinato finiscano per perdersi. O per dover reagire a sorprese, a inciden-
ti. Il problema di avere risorse troppo limitate per ambizioni troppo alte (Russia) o di dover fare i conti con una profonda crisi identitaria dagli effetti geopolitici imprevedibili (Stati Uniti) rende altamente probabile che Putin e Biden si trovino a scegliere fra opzioni non volute e comunque sub-ottimali. Insomma, dovranno improvvisare. Una cosa è farlo in tempo di pace, altra mentre le armi crepitano. Nel duello russo-americano le prime vittime sono gli ucraini. Subito dopo, noi altri europei. La guerra espone le profonde faglie che ci dividono. Segnate da interessi, storie, valori specifici che non possono essere ridotti a una linea comune. Abbiamo scelto la strada finora poco efficace delle sanzioni. Meglio: inefficace se il senso è di far cambiare idea a Putin e costringerlo a una pace ingloriosa; efficacissima nell’indebolire le nostre economie e la stessa tenuta sociale e istituzionale dei nostri paesi. D’altronde, quando non puoi né vuoi fare la guerra e non puoi non far nulla – anche se qualcuno lo vorrebbe – la classica terza via è quella delle sanzioni. E della retorica. Siamo decisamente su un altro pianeta.
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azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
Un’inflazione che viene da lontano
Stati Uniti ◆ Associare le turbolenze economiche del momento alla guerra in Ucraina e alle sanzioni alla Russia significa non tener conto di quanto accaduto prima, in particolare dell’espansiva politica monetaria in Occidente dal 2008 Federico Rampini
Il rialzo del costo del denaro negli Stati Uniti – a cui seguirà un’analoga azione della Bce – è un’azione obbligata. L’inflazione è ai massimi da 40 anni e non accenna a raffreddarsi. Il carovita assedia Joe Biden come tutti i governanti dell’Occidente. Il presidente americano valuta anche l’opzione di abolire certi dazi introdotti dal suo predecessore sui prodotti made in China. Questo non avrebbe l’effetto di placare l’inflazione che ha cause diverse: per due anni dopo l’introduzione di quei dazi l’indice dei prezzi rimase stabile. La Casa Bianca stima che abolire i dazi potrebbe ridurre l’inflazione dello 0,25% mentre il costo della vita sta salendo dell’8,6%. Però Biden è tartassato da pressioni di ogni genere – inclusa la lobby filo-cinese del capitalismo americano – per «fare qualcosa», qualsiasi cosa. La storia insegna che purtroppo dai periodi di alta inflazione si esce con una stretta monetaria della banca centrale che imprime una frenata alla crescita, spesso fino alla recessione. Il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, ormai non esclude che la recessione possa essere un effetto collaterale del rialzo dei tassi. In Europa c’è chi associa le gravi turbolenze economiche del momento (shock energetico, penurie alimentari, carovita, problemi di finanziamento del debito) alla guerra in Ucraina e alle sanzioni sulla Russia. Il sottinteso, secondo alcuni, è che basterebbe rinunciare alle sanzioni e tutto tornerebbe come prima. Si dimentica che le tensioni economiche erano cominciate molto prima della guerra e delle sanzioni. Le fiammate di rialzi sui prezzi del gas, per esempio, risalgono a un anno fa. All’uscita dalla pandemia c’è stata una convergenza di fattori: eccesso di liquidità e di deficit pubblici, errori nella transizione alle energie rinnovabili, fine dello «sconto cinese». Se scomparissero le sanzioni contro la Russia quei problemi non verrebbero risolti. Il mondo galleggia su una liquidità enorme, conseguenza delle politiche monetarie audaci con cui furono curate la grande crisi del 2008-2009 e poi la breve recessione da pandemia. È da tredici anni che le azioni delle banche centrali hanno avuto un effetto equivalente allo «stampare moneta» a tasso zero (sia pure con dei momenti di pausa e inversione di tendenza come quella che portò alla crisi dei debiti nell’Eurozona). I profeti di sventura preannunciavano che quell’eccesso di liquidità avrebbe causato inflazione; per molto tempo quelle previsioni non si sono avverate e abbiamo finito per credere che si potesse creare moneta all’infinito. Anche la febbre delle criptovalute – che si conclude rovinosamente – era figlia di un’era in cui tutto sembrava possibile. Incluso il creare debito pubblico senza doverlo mai ripagare. Il futuro può riservarci nuove sorprese e «cigni neri», al momento si assiste a una rivincita di regole economiche meno creative e più tradizionali. Rimase inascoltato anche un economista di sinistra, Larry Summers, ex segretario al Tesoro con Bill Clinton ed ex consigliere economico di Barack Obama, quando attaccò il suo partito per la sovrabbondanza di spesa pubblica anti-pandemia. Summers si scagliò contro Biden e i parlamentari democratici nel gennaio 2021, contestando la terza manovra di sus-
Il presidente della FED Jerome Powell in un recente incontro alla Casa Bianca con il presidente Joe Biden e la segretaria al tesoro Janet Yellen. (Keystone)
sidi alle famiglie per 1.900 miliardi di dollari. L’economia americana era già uscita dalla breve recessione, era in corso una robusta ripresa post-pandemia. Aggiunta alle manovre analoghe di Donald Trump, quella firmata da Biden portava a 5000 miliardi di dollari il denaro pubblico messo in tasca agli americani: solo la seconda guerra mondiale vide livelli di spesa così elevati in proporzione al Pil. Il boom dei consumi Usa ha coinciso con il fenomeno della «grande dimissione»: protetti dagli aiuti di Stato molti lavoratori hanno abbandonato mansioni pesanti e non abbastanza remunerate. Il costo del lavoro ha cominciato a salire, altra causa d’inflazione. La Cina ha fatto la sua parte. I suoi lockdown prolungati hanno causato penurie di molti prodotti. Quando le fabbriche cinesi hanno ricominciato a lavorare a pieno ritmo, i ritardi si sono accumulati e i listini dei prezzi in Occidente sono rincarati. Nel settore dei trasporti si sono riversate altre strozzature. La scarsità è un’arma in mano a chi ha potere monopolistico: può imporre rialzi dei prezzi a piacimento. È accaduto nel trasporto navale. Biden è andato al porto di Los Angeles a denunciare il ruolo delle compagnie di armatori, un oligopolio mondiale. È tardi per accorgersi che in molti settori dell’economia manca una vera concorrenza; l’antitrust non ha funzionato; quando si creano le condizioni – un eccesso della domanda rispetto all’offerta – alcuni poteri forti estorcono dei sovraprofitti fenomenali. Poi c’è l’energia. Lì gli elementi di monopolio sono tanti: per decenni l’Europa ha regalato alla Russia un enorme potere legandosi con una dipendenza fatale. Va ricordato anche quel che accadde un anno fa nel Mare del Nord quando il vento soffiò meno del previsto. I maggiori produttori di energia eolica – come il Regno Unito – soffrirono ammanchi gravi. Si scoprì quel che doveva essere noto: le energie rinnovabili non sono affidabili 24 ore su 24 e 365 giorni all’anno, hanno pause di erogazione che vanno compensate con l’uso del nucleare, o di fonti fossili come il gas. La transizione verso un’economia a zero emissioni carboniche è un processo lungo che va gestito con razionalità
e pragmatismo; trasformarla in una dottrina ideologica non ci ha aiutati. I prezzi del gas impazzirono l’estate scorsa molto prima delle sanzioni sulla Russia. I rialzi dei tassi aggrediscono solo
una causa d’inflazione: raffreddano la domanda, comprimono consumi e investimenti. La cura è dolorosa. Ma lasciar correre l’inflazione avrebbe effetti disastrosi sul potere d’acquisto dei salari e delle pensioni. L’ipe-
rinflazione degli anni Settanta fu un periodo caotico, comandava la legge della giungla. Quando i prezzi impazziscono, chi ha il potere per arricchirsi ne approfitta e i tentativi di mettere un argine politico alla speculazione di solito non funzionano: un esperimento di «prezzi amministrati» fallì perfino sotto il presidente repubblicano Richard Nixon. Allo stesso modo, la tentazione di curare l’inflazione concedendo una resa a Vladimir Putin e a Xi Jinping, è una terapia ideologica e interessata, che non ha nulla a che vedere con le cause del male. L’inflazione non colpisce tutti i paesi allo stesso modo. L’Estremo Oriente è al riparo, almeno per adesso. Una spiegazione, che sembra banale ma è significativa, riguarda il mix alimentare. I paesi dell’area del grano e dei cereali sono colpiti da rincari di queste derrate alimentari che risparmiano i paesi dove il riso è la componente di base dell’alimentazione. La Cina non conosce per adesso un’inflazione analoga alla nostra. Il Giappone ancora risente di decenni di deflazione. L’India riesce ad attutire lo shock energetico acquistando petrolio russo con sconti del 30%. Ancora una volta siamo di fronte a una crisi asimmetrica. Proprio come nel 2008. Annuncio pubblicitario
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Anno LXXXV 27 giugno 2022
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azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
Da guerrigliero a presidente
Colombia ◆ Svolta storica nel paese sudamericano, Gustavo Petro conquista la presidenza, dopo un passato nell’M19 e di sindaco di Bogotà Angela Nocioni
«Saranno liberati immediatamente tutti gli arrestati durante le proteste degli ultimi due anni in Colombia. Immagino che avremo un’opposizione molto dura, ma noi la combatteremo con la politica. Non ci sarà più criminalizzazione della protesta politica d’ora in poi, né persecuzione giudiziaria degli oppositori». Con queste parole ha esordito l’ex guerrigliero Gustavo Petro, 62 anni, eletto presidente della repubblica colombiana al ballottaggio del 19 giugno. Sul palco la sera della vittoria era raggiante, incredulo e quasi intimidito da quel 50,4% di voti con cui ha sconfitto Rodolfo Hernández, fermo al 47,3%, imprenditore populista di estrema destra. L’investitura del nuovo governo è fissata per il 7 agosto. È la prima volta nella storia colombiana che le elezioni vengono vinte da un candidato proveniente da sinistra anziché da destra. E da quale sinistra! Petro viene dal M19, vecchio gruppo armato scioltosi nel 1990. Niente a che vedere con la narco-guerriglia delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) e dell’Esercito di liberazione nazionale (Eln). L’M19 si sciolse davvero e da allora partecipa alla vita politica mostrando d’aver abbandonato l’idea di «partito armato», ma la matrice ideologica è restata marxisteggiante e quello è il pedigree politico che Petro rivendica. Ed è con la promessa di una riforma sociale fatta nell’interesse degli «esclusi» e dei «nessuno» – così ha definito in campagna elettorale il suo ceto di riferimento – che ha vinto le presidenziali.
Gustavo Petro deve la vittoria al fatto di aver portato a votare un milione di persone in più e alla sua vice Francia Marquez Petro entrò in clandestinità diciassettenne. Nome di battaglia «Aureliano Buendìa», in onore al personaggio creato da Gabriel Garcia Marquez in Cent’anni di solitudine. («Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio», ricordate? A Petro piaceva quel Buendìa lì e ne prese il nome, in un Paese in cui politica e letteratura sono intrecciate in una matassa culturale impossibile da dipanare). Petro è stato a lungo senatore, dal 2006 al 2009 dal 2018 al 2022, e sindaco di Bogotà dal 2012 al 2015. Altre due volte, nel 2010 e nel 2018, ha corso per la presidenza della Repubblica senza farcela. Per vincere gli serviva una spinta sociale che fino ad ora non aveva mai trovato. Quella forza è arrivata, potente e gratuita, con i riot di strada di due anni fa contro politiche economiche che scaricavano costi sociali sui più poveri e sui giovani. Un fenomeno simile, con le ovvie grandi differenze di contesto, a quello che ha portato lo scorso dicembre il trentacinquenne Gabriel Boric alla presidenza del Cile. Questa è la tendenza continentale che conferma l’America latina soggetta a grandi ondate politiche, dai Caraibi alla Patagonia, con flussi e reflussi che con cadenza decennale cambiano i connotati all’intero continente. Dopo anni di conservatorismo di destra, arrivato a soppiantare la fine del chavismo e la
Gustavo Petro, dopo l’elezione a presidente, con la sua vice Francia Marquez. (Keystone)
crisi drammatica del Partito dei lavoratori in Brasile travolto per via giudiziaria, ecco che torna una sinistra ideologica, fortemente populista, con promesse di revanche sociale: Manuel Lopez Obrador in Messico, Anibal Fernandez in Argentina, poi ancora governi populisti di sinistra in Perù, in Bolivia, in Honduras e, sullo sfondo, la cruciale – per gli equilibri continentali – campagna di Lula da Silva che potrebbe tornare a ottobre alla guida del Brasile. Come ha fatto un ex guerrigliero a vincere le elezioni nella Colombia devastata da oltre mezzo secolo di guerra feroce tra le guerriglie e lo Stato? Petro rappresenta per una gran parte dei colombiani tutto quello che hanno sempre temuto e voluto mantenere lontano dal potere a qualsiasi costo. Tutto quel che il nome di Petro simboleggia in Colombia è la ragione per cui milioni di colombiani hanno per decenni continuato ad affidarsi all’uribismo, ossia al mondo che ruota attorno all’ex presidente Alvaro Uribe (a tutt’oggi l’uomo più potente del Paese), quella enorme area di estrema destra con legami stretti con eserciti informali di paramilitari tuttora saldamente al comando in sterminate aree lontane da Bogotà. Come ha fatto allora Petro a vincere? Innanzitutto ha portato a votare più di un milione di persone che non votavano da anni o che non avevano votato mai. Ha aumentato la partecipazione al voto. Dalle prime analisi risulta che è cresciuta la percentuale di votanti under 30. E, soprattutto, ha avuto come candidata alla vicepresidenza Francia Marquez, una attivista ecologista nera dalla storia personale e politica che sembra un romanzo d’avventura con la quale il mondo degli afrocolombiani si è identificato. Lei, sulla quale lui era incerto all’inizio, è stata il vero traino. Tanto era chiaro durante la campagna elettorale che la candidatura di una donna nera alla vicepresidenza funzionava come catalizzatore, che l’imprenditore Hernández s’è preso in corsa una candidata vice nera per mostrare di essere machista sì, ma capace di opportuni ravvedimenti. Non gli è bastato. Il programma elettorale di Petro è fitto di riforme strutturali per le quali
gli sarà necessaria una ampia maggioranza parlamentare della quale non dispone. Dice di voler porre fine alla dipendenza della Colombia dalla produzione di petrolio, di voler cambiar
insieme al modello produttivo anche la distribuzione della ricchezza in un Paese in cui il 39% dei 51 milioni di abitanti risulta vivere sotto il livello di povertà, l’inflazione supera il 15%
e la disoccupazione giovanile il 20%, senza contare che la grande maggioranza degli occupati è sotto occupata e pur lavorando resta povera. C’è un grande interrogativo sui rapporti del nuovo governo colombiano con Washington. Gli Stati Uniti hanno fatto di Bogotà, da almeno trent’anni, il loro alleato fidato e il loro avamposto ai tropici, puntando decisamente sulla destra locale anche estrema. Petro ha già detto che non vede l’ora di incontrare Biden e che intende «lavorare con serenità e grande armonia» con l’amministrazione statunitense. È stato da parte sua ardito, ma vincente, centrare la campagna sui protagonisti dell’esplosione sociale che tra il 2019 e la fine del 2021 ha incendiato le strade delle principali città colombiane, con decine di morti ed enormi retate nei quartieri poveri. Età media: vent’anni. I protagonisti sociali di quella stagione di rivolte hanno scommesso su Petro e l’hanno portato al governo contro quelle che in strada a Bogotà chiamano «las elites». Bisognerà vedere ora se e quanto durerà l’incantesimo e, soprattutto, come si comporteranno con il nuovo governo quegli eserciti clandestini (cinquemila, seimila persone armate) che i leader dissidenti delle Farc hanno rimesso insieme nell’ovest della Colombia. Annuncio pubblicitario
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 27 giugno 2022
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azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
«Chi ha una bassa propensione al rischio, adesso dovrebbe starsene quieto»
L’intervista all’esperto ◆ Date l’elevata inflazione e le forti oscillazioni delle borse, investire denaro adesso è una sfida. Però, per Christoph Sax, capo economista della Banca Migros, questa situazione offre anche delle opportunità a chi ha una buona propensione al rischio e un orizzonte d’investimento prolungato Benita Vogel
In Svizzera l’inflazione è cresciuta al livello più alto dal 2008. Il denaro perde quindi valore. Quanto fortemente incide tutto ciò sul mio libretto di risparmio? A maggio il tasso d’inflazione era del 2,9 percento. Il costo della vita per un’economia domestica media è cioè rincarato del 2,9 percento rispetto a un anno prima. Sull’altro versante, gli interessi sui risparmi sono ancora prossimi allo zero. La svalutazione del denaro negli ultimi 12 mesi si è quindi attestata sul 2,9 percento circa. Ciò si ripercuote sul conto di risparmio, che si orienta indirettamente al tasso guida della Banca nazionale svizzera (BNS). Il potere d’acquisto è diminuito. Per quanto andrà avanti così? L’anno prossimo la situazione potrebbe alleggerirsi. La BNS alzerà ancora ripetutamente il tasso guida per frenare i rincari. Presumibilmente gli interessi sui risparmi cresceranno dal 2023 e contestualmente i rincari dovrebbero gradualmente decrescere. Così la differenza tra interessi e rincari si ridurrà e la svalutazione sarà meno forte. Cosa faccio con il denaro sul conto di risparmio, che adesso diminuisce invece di acquistare valore? Dipende da quali rischi si è disposti ad assumere. Per le investitrici e gli investitori disposti a rischiare e con un orizzonte di lungo termine, l’attuale intervento sui tassi offre delle opportunità di incremento. Davvero? Le quotazioni nelle borse sono molto instabili e puntano prevalentemente al ribasso. Presto o tardi, dopo ogni rovescio
la borsa si è sempre ripresa. L’importante è investire ad ampio spettro. Con le perdite di quotazione negli ultimi mesi alcune azioni sono diventate molto più convenienti. Particolarmente sotto pressione si sono trovati i titoli delle imprese a forte tasso di crescita, come ad esempio le aziende del settore tecnologico. Molte azioni del comparto tecnologico hanno visto dimezzarsi il proprio valore. Questa flessione dei corsi ha già ampiamente anticipato l’irrigidimento della politica monetaria. In molte di queste aziende però è cambiato poco nelle prospettive di profitto a lungo termine. Anche le aziende industriali presentano un buon grado di sfruttamento. Possiedono le riserve per affrontare il raffreddamento della congiuntura e una fase intermedia con una maggiore pressione sui costi. La domanda globale potrebbe diminuire, ma non subire una forte flessione. Si fa presto a dire investire ad ampio spettro. Come si fa? Ci sono ad esempio i piani di risparmio. Ogni mese si paga un importo fisso con cui si appiana un po’ il rischio di ribasso sulle borse. I cosiddetti fondi strategici sono strutturati ad ampio spettro con azioni, obbligazioni, immobili e altre categorie d’investimento. Perché non investire per conto proprio in azioni? Chi punta su pochi titoli individuali va incontro a rischi di perdita inutilmente elevati. Chi volesse avere nel portafoglio determinate azioni per ragioni affettive, può tenerle in quantità limitata come comple-
mento. L’importante è che il cuore del portafoglio rimanga diversificato su un ampio spettro. Nella scelta di titoli individuali integrativi si deve puntare su azioni di qualità. Le materie prime sono molto ricercate e molto care. Come se ne può trarre profitto da investitori? Si dovrebbe considerare di investire in questo ambito solo se ci si aspetta un ulteriore aumento dei prezzi. Per gli investitori privati è consigliabile un investimento in un fondo ad ampio spettro in un cosiddetto Exchange Traded Fund (ETF). Nella scelta dei prodotti può convenire rivolgersi a un consulente bancario: esiste infatti una pletora di prodotti e non tutti vanno bene per le esigenze del cliente. Inoltre c’è la questione di quali categorie di materie prime sia opportuno coprire e quali no. Ma con il rincaro dei prezzi di energie e materie prime, le catene di approvvigionamento sotto stress e la guerra in Ucraina, non pendono più spade di Damocle? Le catene di approvvigionamento sono così sotto stress soprattutto a causa della pandemia e del massiccio boom dei consumi negli USA. Le cose si stanno però normalizzando a vista d’occhio. Quanto a questo, l’indebolimento della crescita economica in conseguenza dell’impatto dei prezzi delle materie prime ha anche un lato positivo. La situazione si distenderà sia per i termini di consegna sia per i prezzi d’acquisto. Anche il prezzo del petrolio dovrebbe stabilizzarsi se la domanda globale si indebolirà. Conseguenze e sviluppi della guerra in Ucrai-
su un conto di risparmio e non vuole affrontare alcun rischio, è meglio che li tenga dove sono. In Svizzera queste fasi di interessi reali negativi sono durate, il più delle volte, solo pochi anni. Se i tassi guida salgono, questa problematica si attenuerà.
na restano però difficili da valutare. Questa crisi geopolitica è ciò che grava di più. Non stupisce allora che si sentano piccoli investitori affermare di voler recedere perché per loro il rischio sta diventando troppo alto. Farlo non è consigliabile. In tempi tanto incerti è grande il pericolo di recedere al momento sbagliato e di perdere il momento giusto per rientrare. Se ciò si verifica, si peggiorano le cose a lungo termine. L’importante è evitare i rischi di concentrazione e diversificare su un ampio spettro. Allora cosa devono fare investitori e risparmiatori prudenti? Nelle borse permane un forte nervosismo. Per questo al momento per le investitrici e gli investitori poco propensi al rischio è meglio restarsene quieti: chi ha i propri risparmi
Con l’aumento degli interessi, obbligazioni aziendali e titoli pubblici torneranno a essere più interessanti. Potrebbero essere un’alternativa per chi non ha un’elevata propensione al rischio? Le obbligazioni sono diventate fondamentalmente più attraenti. La fase di interessi crescenti non è però ancora conclusa. Per le obbligazioni si devono quindi mettere ancora in conto perdite di corso. E anche qui è importante il tasso d’interesse reale. Un’obbligazione della Confederazione a 10 anni dà un interesse dell’1,4 per cento circa: con un’inflazione al 2,9 per cento, non resta nulla, quand’anche l’inflazione dovesse abbassarsi decisamente nei prossimi anni. Anche gli immobili sono considerati una difesa dall’inflazione. Sono un investimento interessante? Anche con gli immobili si deve procedere selettivamente. Come componente di lungo termine in un portafoglio, sono interessanti come prima perché la domanda sul mercato immobiliare resta alta. A causa degli interessi in forte crescita, i prezzi degli immobili di reddito potrebbero però subire flessioni perché la disponibilità all’acquisto degli investitori potrebbe diminuire. Per questo negli ultimi mesi i fondi immobiliari hanno subito perdite di corso. Annuncio pubblicitario
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 27 giugno 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
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ATTUALITÀ
Il Mercato e la Piazza
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di Angelo Rossi
La svolta nella politica monetaria è arrivata ◆
Annunciata e attesa dagli esperti da più trimestri, la svolta della Banca nazionale in materia di tassi di interesse è finalmente arrivata. In un comunicato del 16 giugno la Banca dichiara di aver deciso di alzare il suo tasso di interesse di riferimento e quello sui depositi a vista di un mezzo per cento, dallo –0,75 allo –0,25. La ragione principale di questa decisione è data dalla volontà di combattere l’inflazione. La stessa si basa sull’assunto teorico stando al quale per combattere il rincaro occorre diminuire la quantità di moneta in circolazione e che per far questo bisogna aumentare il tasso di interesse. Nella teoria economica non c’è niente di più semplice. Il tasso di interesse viene considerato alla stregua di una manopola per controllare la pressione di un gas all’interno di un recipiente. Solo che i movimenti per combattere l’inflazione sono il contrario di quelli che si farebbero per controllare la pressione di un gas. Se
l’inflazione sale, infatti, aumentando il tasso di interesse, si chiude la manopola del credito; quando scende, invece, la si riapre riducendo il tasso di interesse. Così gli aumenti e le diminuzioni del tasso di interesse di riferimento della Banca nazionale dovrebbero poter regolare le variazioni dei prezzi. Se le cose stessero come vengono descritte dalla teoria monetaria più semplice, l’andamento dei prezzi potrebbe quindi essere controllato anche da un bambino. Nella realtà di un sistema economico di piccola taglia e aperto sul resto del mondo come è quello svizzero le cose sono un po’ più complicate. In effetti, se i tassi di interesse aumentano, la Svizzera attirerà capitali. Di conseguenza il franco svizzero si rivaluterà. La rivalutazione del franco svizzero aiuterà a contenere l’inflazione importata dall’estero, ma minaccerà lo sviluppo delle esportazioni. E per la congiuntura di una
Affari Esteri
piccola economia aperta non c’è minaccia peggiore che quella di vedere le sue esportazioni ridursi. La decisione di combattere l’inflazione rialzando il tasso di interesse mette quindi i responsabili della BNS davanti all’alternativa di dover scegliere, tra due mali, il male minore. Combattere il rincaro anche se questa politica può indurre una recessione o proteggere le esportazioni e la crescita dell’economia nazionale? Fino al 15 giugno di quest’anno, i banchieri della BNS avevano deciso di non intervenire sull’offerta di denaro per proteggere la congiuntura dell’economia nazionale. Quel giorno la NZZ ha pubblicato un intervento del prof. Ernst Baltensperger, professore emerito di economia e decano degli esperti della politica della BNS, che invitava esplicitamente la stessa ad avere il coraggio di accettare una rivalutazione del franco e questo per impedire che l’inflazione venisse
alimentata dalle importazioni. Per il prof. Baltensperger questo significava che il tasso di interesse doveva essere normalizzato e le enormi riserve in divise della Banca nazionale dovevano essere ridotte. È quello che la Banca ha poi fatto con la sua decisione del giorno dopo. E il prof. Baltensperger si è così guadagnato i galloni di capo-squadra dei pompieri. Certo i responsabili della BNS sapevano che, un momento o l’altro, sarebbero dovuti intervenire. Ma aspettavano, per farlo, che la Banca centrale europea cominciasse a rialzare i tassi di interesse, e questo per evitare che una differenza nei tassi di interesse tra la Svizzera e l’UE inducesse un rafforzamento del franco svizzero mettendo in crisi i nostri esportatori. Finora però la BCE non si è decisa a cambiare la sua politica della moneta facile. La BNS ha dunque deciso, seguendo la raccomandazione del prof. Baltensperger, di accettare un rafforzamento
del franco e il rischio di una recessione per poter evitare, se le sue previsioni sono attendibili, che, da noi, il rincaro superi il 3% nei prossimi due anni. Nel suo comunicato del 16 giugno si può leggere che il rialzo del tasso di interesse di riferimento è dovuto al fatto che, in maggio, il tasso di inflazione ha raggiunto in Svizzera quasi il 3%. Le previsioni per il futuro, con un tasso di interesse di riferimento pari allo –0,25% danno un rincaro pari al 2,8% per il 2022, all’1,9% per il 2023 e all’1,6% per il 2024. Senza il rialzo del tasso di interesse, il rincaro sarebbe notevolmente più elevato. Per quel che concerne la crescita della nostra economia la BNS precisa nel suo comunicato che attualmente la congiuntura economica è minacciata da tre avvenimenti: l’inflazione, la guerra in Ucraina e la pandemia di Covid. Anche senza il rialzo del tasso di interesse, quindi, la recessione resterebbe sempre dietro l’angolo.
●
di Paola Peduzzi
Un presidente azzoppato ◆
Emmanuel Macron sapeva che le elezioni legislative quest’anno sarebbero state un po’ amare, ma non così tanto. Il presidente francese è stato rieletto per il suo secondo mandato ad aprile: il fronte repubblicano contro la destra estrema si è coagulato attorno a lui, con qualche sopracciglio alzato in più rispetto alla prima volta di cinque anni fa, ma dando un mandato solido. Le legislative si preannunciavano complicate perché sul territorio i partiti tradizionali hanno un radicamento molto più forte rispetto a quanto avviene con le candidature alle presidenziali e perché il fronte anti Macron è molto largo e composito, tocca la destra estrema e la sinistra e lo slancio che c’era una volta non c’è più. Poi c’è ovviamente che è cambiato lo stesso Macron: non si resta «Jupiter» per sempre, certo, ma forse a questo giovane e ambizioso presidente difetta l’arte di sapersi adattare.
Ma andiamo con ordine. La coalizione macroniana Ensemble ha ottenuto la maggioranza relativa dei voti all’Assemblea nazionale, ma deve fare alleanze per governare. La coalizione Nupes, che unisce socialisti, verdi, estrema sinistra ed è guidata da Jean-Luc Mélenchon è arrivata seconda e questo fa credere allo stesso Mélenchon di avere il diritto di essere nominato primo ministro e avviare una coabitazione con Macron (Mélenchon dice di essere sempre a casa seduto accanto al telefono in attesa della chiamata presidenziale, un’immagine che più retrò di così non si potrebbe). Il Rassemblement National di Marine Le Pen ha ottenuto un risultato insperato e storico e avrà un gruppo parlamentare di peso, cosa che naturalmente spaventa: finora la Francia ha sperimentato il cordone sanitario contro l’estremismo di destra soltanto alle presidenziali, qui si tratta di vita
quotidiana parlamentare, tutto un altro mestiere, tutto un altro equilibrio. E infine i neogollisti che alle presidenziali hanno toccato il loro fondo con il 5 per cento dei consensi sono invece andati bene, hanno un bottino di seggi che potrebbe dare a Macron la maggioranza che gli serve, ma i Républicains hanno deciso che questa alleanza non la vogliono fare: forse aspettano di alzare di più la posta o forse hanno davvero deciso di voler vedere come se la cava questo presidente con un governo di minoranza. E qui veniamo a Macron, che ha sottovalutato queste legislative come in realtà hanno fatto molti: si pensava che il secondo turno sarebbe stato più generoso con la coalizione macroniana che, presuntuosa, non ha visto che il mondo antimacroniano si stava risollevando. Si tratta di un mondo composito ma molto agguerrito, che vuole costringere il presidente a
un dialogo e a un atteggiamento più compromissorio che lui invece rifiuta. Chiede responsabilità ai partiti, manda avanti i suoi emissari per cucire insieme una alleanza che possa funzionare in modo organico o altrimenti dice che procederà dossier per dossier, costruendo alleanze nuove di volta in volta. Ma, dice Macron, se si deve trovare un modo nuovo di governare, lui non ha intenzione di cambiare il suo approccio e il suo modo di fare il presidente. Ed è per questo che in coro i partiti che vedono finalmente l’opportunità di far pesare il loro consenso rispondono: l’arroganza di Macron deve finire, altrimenti qui non si fa più niente. Il confine tra determinazione e arroganza è sempre labile e lo è ancora di più nel caso di Macron che con il tempo ha perso il suo carattere di outsider dal basso – il progetto di En marche era appunto una marcia po-
polare per cambiare le istituzioni e i palazzi – ed è diventato sempre più avulso dalla realtà. Più che l’arroganza è questo il problema che deve risolvere Macron in questo suo nuovo mandato: è costretto ad adattarsi a una nuova realtà, senza perdere il suo istinto riformatore ma senza contare esclusivamente sull’enorme potere che comunque il sistema francese riserva al suo presidente. Questa è la sfida più difficile per lui: nel primo mandato ha dato segnali contraddittori sulla sua capacità di adattarsi. Un esempio: ha inventato i débats per tornare a parlare direttamente ai francesi dopo le proteste dei gilet gialli, ma si è fatto al contempo sempre meno accessibile anche ai suoi stessi collaboratori. Sarebbe utile che il presidente si allenasse nell’arte dell’adattamento, dandosi obiettivi chiari e dandoli anche alle altre forze con cui deve in qualche modo dialogare.
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Zig-Zag
di Ovidio Biffi
Siamo al calcio «che palle»! ◆
La storia si ripete, dice una massima sempre di attualità. Ma non è proprio così. Più preciso sarebbe dire che la storia è obbligata a ripetersi, perché noi dimentichiamo sempre quel che essa ci insegna. Strano incontrare simili pensieri dopo una domenica sera dedicata al calcio televisivo. Anzi: doppiamente strano, perché avevo già dimenticato che pochi giorni prima avevo giurato un «basta calcio estivo, basta calcio parlato». Invece torno a inseguire il fantozziano «frittatona di cipolle e rutto libero» e mi trovo incollato alla tv per un’altra partita di «Nations League» in compagnia di tre coppie che mi propongono rimandi e considerazioni. Provo a elencare, anticipando subito una stranezza: tutte le coppie, curiosamente, ricordano le grandiose figure del gatto e della volpe immortalate da Collodi. Prima coppia, un gatto e una volpe
che annuncio con un interrogativo: che relazione c’è fra l’AC Bellinzona che torna in Challenge League (in B, tanto per parlare chiaro) e il Tribunale penale federale? Nessuna, a prima vista. Eppure un legame c’è: infatti è nella nostra capitale, fresca di promozione calcistica, che sono sotto torchio una volpe 86enne ex-presidente della Fifa che al verbo «fare» ha sempre preferito il più redditizio «soddisfare» e un 66enne gattone francese, ex-fantasista del calcio, che a lungo ha brigato per ereditare tana e potere. Il verdetto, qualunque esso sia, difficilmente potrà riparare il danno di immagine che i due, incapaci di nascondere i loro intrallazzi, hanno arrecato alle massime istituzioni che reggono il gioco del calcio. Facile riandare al calcio come metafora della vita… Un solo auspicio: dopo questo processo tutti i dirigenti tengano conto
della massima riportata all’inizio e, dal momento che il nuovo «conducator» della Fifa, sperando di arrivare ai mondiali del Qatar ormai imminenti, già arranca sugli stessi sentieri, si impegnino a impedire che in futuro certe competizioni in bilico fra ingordigia e cupidigia, nel calcio, non si ripetano più. Seconda coppia, e siamo al gatto e alla volpe con maglie rossocrociate. Scettico da sempre, testardo e diffidente, a fine partita mi rendo conto che è stato sufficiente un ritorno dei «veci» per ritrovare un seppur lento andamento e per superare il Portogallo privo del suo «vecio» per eccellenza. Infatti a «cambiare» la Svizzera è stato soprattutto il ritrovarsi di una coppia che già si era messa in luce agli Europei del 2020 mostrando non solo virtù pedatorie. Come scordare il parrucchiere chiamato (d’urgenza) in
Italia da Akanji per imporre un’aureola bionda sulla sua testa e quella di Xhaka? Bastava pensarci: tornato Manuel dietro, anche Granit ha subito dimostrato di saper ancora pennellare il pallone da costa a costa. E la Svizzera fu salva. O quasi. Perché una cosa è certa: per fortuna (o sfortuna) nostra, sarà soprattutto questa coppia a condizionare le prossime vicende rossocrociate. Terza e ultima coppia: gatto e volpe della RSI. Non occorre evocare quel che il noto tandem dei microfoni nostrani riesce a sfornare, tra carabattole e teoremi euclidei, a dipendenza se gioco e punteggio della partita stanno premiando o meno l’economia calcistica elvetica. A guardare bene (anzi: ad ascoltare, più che a guardare) anche loro sono conferma che, finiti campionati e coppe, più che di allenatori svogliati e giocatori che inseguo-
no vacanze e nuovi contratti, il calcio estivo è mediatico e parlato. Incuranti di risultati e spettacolo, tutte le nazionali – dalla Francia alla Spagna, dalla Germania all’Inghilterra, dall’Italia alla Svizzera – rispettano un unico proposito: sciorinare un soporifero tic e toc che addormenta anche cameramen e raccattapalle. È questo il risultato di un torneo organizzato dall’Uefa «pro sponsor» (ed euro-tv) con la scusa di sostituire le amichevoli di una volta, partite che in realtà favorivano preparazione tecnica e ideali per innesti di giovani e consolidamenti del gioco. Con la «Nations League» siamo invece approdati al «calcio che palle» cinicamente «sdoganato» come sport estivo, e sempre più snobbato da chi è obbligato a giocarlo. E non credo di essere il solo a pensare quant’erano belli i tempi con Giochi senza frontiere.
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Il cammino di Hermann Hesse verso Siddharta Feuilleton
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Il 2 luglio il Museo di Montagnola compie 25 anni e una mostra festeggia i cento anni della sua opera più conosciuta
Natascha Fioretti
Salgo le scale di Torre Camuzzi e già sento le loro voci. Eva Zimmermann continua a ripetere soddisfatta «è proprio come l’avevo immaginata» mentre Regina Bucher le spiega come ha deciso di realizzare concretamente il suo concetto espositivo. Il loro è un lungo sodalizio iniziato più di un ventennio fa con l’allestimento della mostra permanente. «Abbiamo progettato insieme 25 mostre, racconta Regina Bucher. A fine anno vado in pensione, questa chiude in bellezza la nostra collaborazione». Non l’amicizia che le lega, quella continuerà. Le raggiungo sul divanetto al centro della sala. I nostri sguardi convergono sul protagonista dell’esposizione, il piccolo Krishna di bronzo che pur senza flauto e senza piuma emana tutta la sua magia, la sua sinuosa leggerezza. Sembra felice. Alle spalle una versione ingigantita, come se dalla musica scaturisse e prendesse forma il suo sé. «Il Krishna è il simbolo centrale di tutta la mostra. Originariamente appartenuto al nonno di Hermann Hesse, lo scrittore lo vide per la prima volta da bambino nella sua casa a Calw», racconta Eva Zimmermann. «È bello sapere che negli anni questo prezioso oggetto è rimasto custodito in famiglia. Per l’occasione ci è stato gentilmente dato da Christine Widmer, la nipote di Hesse che ho avuto il piacere di incontrare e che un giorno lo passerà a sua figlia Karin Widmer, autrice della meravigliosa edizione per bambini di Klingsors letzter Sommer impreziosita di numerosi acquarelli» aggiunge la direttrice. La gigantografia del Krishna sottolinea il grande influsso che la spiritualità orientale ha esercitato su Hesse. «Il Krishna è la figura centrale nella Bhagavad Gita, la prima opera asiatica letta dallo scrittore» sottolinea Eva Zimmermann. Hesse ne rimase affascinato a tal punto che ritroviamo la divinità indiana sotto diverse forme in molte sue opere a partire da Siddharta. Figlio di missionari che operarono in India, già da piccolo Hesse ricevette i primi stimoli, ma furono soprattutto «i suoi successivi studi di filosofia indiana e di buddismo, le esperienze personali, il suo soggiorno al Monte Verità, i viaggi in Asia di alcuni mesi, gli esperimenti di ascetismo e di yoga, le esperienze di amore erotico e la scoperta del taoismo, il tentativo del suo superamento attraverso la psicanalisi di una relazione sentimentale» a qualificare la sua crescita spirituale. È proprio su questo percorso complesso e profondo durato un ventennio che si concentra la mostra dal titolo Il cammino di Hesse verso Siddharta (ispirato a una dichiarazione di Hesse del 1922 «Io non sono Siddharta. Io sono in cammino verso di lui»). Le due curatrici ci tengono però a
Qui a lato il Krishna in mostra (Roberto Mucchiut © Fondazione Hermann Hesse Montagnola), al centro la macchina per scrivere appartenuta a Hesse nella più bella stanza del Museo (© Fondazione Hermann Hesse Montagnola) e in basso un primo piano delle due curatrici, da sinistra Eva Zimmermann e Regina Bucher (Roberto Mucchiut © Fondazione Hermann Hesse Montagnola).
sottolineare che al centro del loro lavoro non vi è il racconto scritto proprio qui in queste stanze, pubblicato un secolo fa e tradotto in oltre 60 lingue (un’ampia selezione di traduzioni di Siddharta da tutto il mondo si può vedere in mostra). L’idea che sottende l’esposizione è quella di raccontare l’evoluzione del cammino di Hesse. Il percorso si sviluppa in ordine cronologico, dalla sua infanzia fino al raggiungimento di uno stato di conoscenza, di esperienza e saggezza di vita tali che gli permisero di scrivere Siddharta. «In un certo senso la mostra prepara il visitatore alla lettura», dicono entrambe. L’intento del Premio Nobel per la letteratura (1946) fu quello di scoprire che cosa accomuna tutte le confessioni e tutte le forme umane di pietà, che cosa ci sia al di sopra delle differenze nazionali, cosa possa essere creduto e adorato da ogni razza e ogni individuo. Nella sua opera confluiscono correnti spirituali diverse da cui scaturisce un’originale fusione che è al contempo sovraindividuale e interculturale. secondo Eva Zimmermann l’obiettivo di Hesse era quello di sondare «ciò che può essere creduto e venerato da ogni individuo». Dunque attraverso un’ampia selezione di citazioni e fotografie, oggetti personali, libri, preziose prime edizioni ed edizioni speciali, dattiloscritti e manoscritti, veniamo a conoscenza dei diversi studi e delle esperienze che hanno ispirato e influenzato il lavoro di Hesse; dallo studio della cultura asiatica e in particolare dal confronto con l’Ottuplice Sentiero del Buddha e col Tao di Laozi, lo scrittore attinse le metafore che definiscono la ricerca della conoscenza e della verità come
un «sentiero» o una «via». In quest’ottica la ricerca è equiparata a un processo di acquisizione della conoscenza scandito da bivi, deviazioni, ostacoli e traguardi provvisori che non conduce necessariamente a una meta definitiva. «Non saranno più gli asceti e le dottrine a istruirmi, è da me che voglio imparare, di me stesso voglio essere il discepolo, voglio conoscermi, svelare quel mistero che ha il nome Siddharta», dice il protagonista nel racconto. Come scrive il traduttore e intellettuale Massimo Mila nella sua introduzione al Siddharta pubblicato da Adelphi, in Germania dopo Herder e Goethe, l’interesse per le dottrine indiane non venne mai meno «le
analogie tra il buddismo e il pessimismo di Schopenhauer (che dichiarava la lettura delle Upanishad essere stato l’unico conforto della sua vita) sono state più d’una volta dottamente illustrate». Prampolini, che Mila cita, va persino oltre quando dice che «i due popoli hanno in comune una spiccata tendenza alla contemplazione, alla speculazione astratta, al panteismo e perciò al Weltschmerz, cioè a sentire il dolore cosmico». Come sicuramente molti di voi, il Siddharta l’ho letto più e più volte negli anni di liceo e di università, così come le sue poesie che ancora oggi mi accompagnano («Quando la vita chiama, il cuore sia pronto a partire e a ricominciare...Ogni inizio contiene una magia che ci protegge e a vivere ci aiuta». Stufen, 1941). Incuriosita e affascinata dalla mostra, da quella luce che durante l’azzurra mattina inaugurale ammantava il folto pubblico raccolto nella piazzetta davanti all’entrata del Museo, sono corsa a rileggerlo. E l’ho trovato di un’attualità sconvolgente. Siddhartha è colui che ha raggiunto la sua meta, l’uomo che ha percorso la via del risveglio, sulla strada che conduce a sé stesso. Se ci pensiamo, quasi tutti i personaggi di Hesse sono dei cercatori inquieti e bisognosi di certezza, persone alla ricerca dell’Assoluto, di una verità come fondamento nell’universale relatività dell’esistenza e del mondo, un assoluto che possono trovare solo in sé stessi. «Trovarsi è l’ansia costante di questi personaggi: pervenire a quella consapevolezza di sé che permette alla personalità di realizzarsi completamente e di vivere, allora, realmente, quelle ore, quei giorni, quegli anni che vengono di solito sciupati nella banalità quotidiana di una esistenza di “ordinaria amministrazione”» scrive Mila citando Piero Martinetti. In tedesco «der Suchende» (colui che cerca) designa appunto quegli uomini che non restano in superficie, ma ragionano su ogni aspetto della vita, sentono l’urgenza di andare a fondo. Quel cercare è allora di per sé già un trovare o «un vivere nello spirito» secondo Sant’Agostino. Dice Siddharta a colei che lo inizia all’amore «La maggior parte degli uomini, Kamala, sono come una foglia cadente, che si libra e si rigira nell’aria e scende ondeggiando al suolo. Ma altri, pochi, sono come gli astri, che vanno per un loro corso preciso, e non c’è vento che li tocchi, hanno in sé stessi la loro legge e il loro cammino». Dove e quando Il cammino di Hesse verso Siddharta, Museo Hermann Hesse Montagnola fino al 5 febbraio 2023. Tutti i giorni 10.30-17.30. www.hessemontagnola.ch
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 27 giugno 2022
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azione – Cooperativa Migros Ticino
CULTURA
Oh William!
Pubblicazione ◆ Nel nuovo romanzo di Elizabeth Strout, uscito per Einaudi, torna la tanto amata protagonista Lucy Burton Laura Marzi
Dieci volte sotto il vulcano
Pubblicazione ◆ Un’originale e curiosa operazione editoriale diretta da Marino Sinibaldi Stefano Vassere
Oh William! Della grande scrittrice statunitense Elizabeth Strout, vincitrice del premio Pulitzer nel 2009, edito in Italia da Einaudi con la traduzione di Susanna Basso, è la storia di una relazione che non sa finire. Lucy, la protagonista nonché voce narrante, racconta del suo primo marito, rivolgendosi apertamente alle lettrici e ai lettori, con espressioni come: «vorrei che tu provassi a capire una cosa». Da notare che Lucy è la protagonista del romanzo del 2016 Mi chiamo Lucy Burton: Strout riprende il filo di quella storia, facendo alle lettrici e ai lettori un dono impagabile, vale a dire quello di permettere loro di incontrare ancora la personaggia a cui si sono affezionati, scoprendo qualcosa di nuovo di lei e della sua visione del mondo. In Mi chiamo Lucy Burton, la donna si trovava ricoverata per delle complicazioni sopravvenute in seguito a una operazione di appendicectomia. Nel corso della sua degenza era andata a trovarla la madre: la sua presenza spinge la protagonista a ricordare l’infanzia vissuta nella miseria e nella durezza, insieme alla sorella e al fratello. In Oh William! Lucy riprende il filo di quella storia, ma lo fa rivolgendosi a chi legge come se si trattasse di vecchi conoscenti, con cui può permettersi degli accenni al passato, sicura che lettrici e lettori capiranno. Oh William! È un’espressione che Lucy ripete spesso nel corso del romanzo, per dimostrare costernazione, a volte compassione o anche biasimo nei confronti del suo primo marito, incontrato negli anni dell’università e con il quale ha avuto due figlie, ormai adulte: Chrissy e Becka. Il romanzo racconta, con uno stile colloquiale, il legame tra Lucy e William, dai tempi del fidanzamento, dell’idillio, ai primi anni di matrimonio, quando la protagonista, pur amandolo, non riusciva a essere presente in quella relazione, preda dei fantasmi del suo passato e dell’ossessione per le ingiustizie subite dai suoi familiari. William diventerà un traditore seriale e lei deciderà di lasciare lui e le sue figlie, con cui poi recupererà un ottimo rapporto. Il presente della storia raccontata nel romanzo vede i due ultrasessan-
Dettaglio di copertina.
tenni: Lucy ha appena perso il suo secondo marito, David, che amava molto o con cui ha vissuto una vita fatta di sola gioia, mentre William viene lasciato dalla sua terza moglie Estelle. Al cuore del romanzo c’è il viaggio che i due compiono insieme alla ricerca delle origini di William, che è figlio di un prigioniero di guerra nazista, deportato negli Stati Uniti e poi liberato. Soprattutto al centro di questa storia, a occupare una posizione di coprotagonista, c’è Catherine Cole, la madre di William. Lucy racconta dei tempi in cui la suocera decideva che cosa la giovane sposa potesse indossare e cosa no, quale sport fosse meglio praticare per lei, senza nessuna acredine. Catherine Cole era una donna amabile e generosa e Lucy era legata a lei in modo sincero, occupandosene anche nel periodo della malattia, fino alla morte. Nel viaggio alla scoperta dei misteri di Catherine Cole, William e Lucy capiranno qualcosa che tutte e tutti noi possiamo riscontrare qualche volta nella vita: il fatto che tendiamo a innamorarci di personalità simili a quelle dei nostri genitori o delle persone che si sono prese cura di noi nell’infanzia. Non solo. Oh William! è un romanzo che descrive con una
naturalezza e una scorrevolezza davvero rare l’evidenza che ci sono alcune relazioni, degli incontri, che resistono nel tempo, che sopravvivono nonostante tutti i tentativi fatti perché accada esattamente il contrario. La ragione di questa indissolubilità sta forse nel fatto che si tratta di legami nati a partire dalla ricerca in quell’amore, appunto, della madre o del padre, dalla proiezione di un bisogno antico di riconoscimento, che va ben oltre la scelta razionale di un compagno e di una compagna. Elizabeth Strout sa descrivere questa eventualità senza mai cercare di imporre la verità a chi legge e senza mai allontanarsi dalla sua voce narrante, cioè dal tono di Lucy, che ci racconta del suo legame con il primo marito con umiltà, con la confusione tipica di chi sta vivendo una condizione e non può adottare la necessaria distanza per analizzare e comprendere ciò che accade, perché: «è così che funziona la vita. Non sappiamo un mucchio di cose finché non è troppo tardi». Bibliografia Elizabeth Strout, Oh William!, Einaudi, Torino, 2022.
È uscito anche il terzo numero del trimestrale Sotto il Vulcano. Idee, narrazioni, immaginari, diretto dal giornalista e critico letterario Marino Sinibaldi ed edito da Feltrinelli. Come al solito, alla direzione si affianca la cura affidata di volta in volta a uno scrittore, chiamato a reggere un tema portante legato alla contemporaneità: in questo caso il curatore è lo scrittore Andrea Bajani e il tema è Fuori luogo; nei due precedenti casi, Helena Janeczek e Melania Mazzucco avevano tirato le fila di Cronache dal mondo nuovo e Metamorfosi. Ancora, il titolo del periodico allude al noto romanzo di Malcolm Lowry. Che cosa sia esattamente questa rivista non è dato sempre chiarissimo al lettore; ma forse questo è anche un pregio deliberato e intenzionale dell’operazione. È una sorta di disorientamento continuo, un «medium freddo» che invita a modulare contenuti e tagli di contributo in contributo. Un felice e fantasioso disordine insomma, che racchiude molto all’interno di una iniziativa editoriale decisamente curiosa. A partire dalla
grafica, dal materiale di stampa e da forme testuali disomogenee: in questo numero si passa senza cesure dalle poesie costruite con i ritagli di Herta Müller, ai disegni di Nicolò Pellizzon; dalle tre colonne di alcuni contributi ai testi a tutta pagina di altri, ai molti colori dell’insieme. In mezzo a tutto ciò, anche contenuti e stili rispondono a logiche divergenti. Così, la parte centrale, quella
d’autore, è in questo caso dedicata a temi variamente legati alla geografia e le altre sezioni a una sorta di fluire libero di argomenti culturali e letterari. È inevitabile che tale virtuoso disordine porti il lettore a fare delle scelte. Tra queste, spazio dunque al bel contributo di Pamela Paul, editor della «New York Times Book Review», su una sua definitiva dieta social («Nel febbraio del 2022, dopo 15 anni, mi sono definitivamente disconnessa da Facebook e il mese dopo ho deciso di cancellare il mio account Twitter. Ci sono meno emozioni nella mia giornata e penso che questo probabilmente mi renderà una persona migliore»); o al saggio di esemplare responsabilità giornalistica di Juan Gabriel Vásquez dedicato all’atteggiamento della stampa di fronte alla notizia della figlia segreta di Gabriel García Marquez. Per la parte «obbligatoria» dedicata alla geografia, sono molto piacevoli l’introduzione alla sezione di Andrea Bajani; l’intervista del medesimo Bajani al Premio Nobel Abdulrazak Gurnah sui confini dell’Africa storica e contemporanea; il pezzo (il migliore di tutti) di Jhumpa Lahiri, su collocazioni geografiche alternative dove svolgere la sua attività di traduttrice delle Metamorfosi: casa sua a Roma (che è casa dell’opera stessa: «a Roma mi godo il cielo, lo guardo mentre lavoro, mi ci perdo e il cielo che contemplo a Roma è lo stesso che avrà contemplato Ovidio») o casa sua a Princeton; o ancora la struggente malinconia per le gite in auto ai tempi di prima dei navigatori nel racconto di Fabio Genovesi. Ecco, complici la grafica coraggiosa, l’oggetto tipografico complessivamente bello e il continuo disorientamento contenutistico, l’operazione di «Sotto il Vulcano» si rivela opera anomala, che ha proprio nella vertigine di avvicinamento ai contenuti una sua sfida editoriale di pregio. Così, con il tema comune non sempre rispettato, la varietà di voci e colori, l’iniziativa su «da dove cominciare» lasciata quasi completamente al lettore, la rivista assume parvenze simili a un festival di letteratura, in un approccio che ricorda (ma si può ben dire) quello dei ritmi della televisione moderna. Annuncio pubblicitario
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CULTURA
La baia di Oslo si trasforma e abbraccia la cultura Reportage
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Storia di una città e di un Paese che nell’arte trovano il riscatto e la visione del loro futuro
Marco Moretti
Il nuovo Museo Nazionale – aperto al pubblico dall’11 giugno (ritratto nella foto in prima pagina di questa edizione) – è l’ultimo tassello del progetto che ha ridisegnato la baia di Oslo con edifici pubblici come il Teatro dell’Opera, la Biblioteca Deichman, il Museo Munch e il nuovo quartiere di Tjivholmen col Museo Astrup Fearney. Progetto che coniuga arte, architettura e design con lo stile di vita dei suoi abitanti. E supera la convenzione museale: attraverso arte diffusa, workshop e interattività coinvolge visitatori, lettori, spettatori e passanti, trasmette conoscenza e alimenta socialità e senso d’appartenenza.
Il Museo Nazionale è lo specchio della società norvegese. In uno dei Paesi più avanzati per parità dei sessi, sono donne a dirigere la maggioranza delle istituzioni culturali L’edificio che ospita il Museo Nazionale è stato progettato dall’architetto Klaus Schuwerk come un parallelepipedo di pietra da cui ne emerge un altro di vetro che la notte s’illumina. Linee sobrie in stile scandinavo per un’istituzione nata dalla fusione di cinque precedenti musei di arte, architettura e design. Una struttura espositiva su tre piani che – con 90 sale, 15’000 opere d’arte (dipinti, disegni, incisioni, sculture) e decine di migliaia di manufatti – s’impone come la maggiore istituzione culturale del Nord Europa, con collezioni permanenti ma dinamiche di mole antologica. Il primo piano è un percorso temporale tra cultura e vita norvegese con arte sacra, arazzi, ceramiche, mobili, oggetti, ricostruzioni di interni dalle classiche magioni borghesi al design democratico del Novecento, fino agli abiti: foto e filmati contestualizzano l’epoca. Nonché una gipsoteca con copie in gesso – provenienti da Italia, Francia e Germania – di statue classiche greche e romane acquistate nell’Ottocento per uso didattico. Il secondo piano spazia nella creatività norvegese con opere di artisti finora mai esposti, a fianco dei più noti Munch e Vigeland. Due sale sono dedicate a Edvard Munch (18631944) con in evidenza i capolavori L’Urlo e Madonna (nuda). L’opera del maggiore pittore norvegese – passato tra impressionismo, espressionismo, simbolismo e realismo – è sviscerata al Museo Munch, allestito in un avveniristico edificio di dieci piani progettato da Einar Myklebust e Gunnar Fougner e inaugurato lo scorso ottobre: ospita più della metà dei suoi lavori, 1200 dipinti, oltre a stampe e sculture. Gustave Vigeland (18691943) dilaga nel Museo Nazionale
Qui sopra il Museo Munch (Didrick Stenersen © VisitOSLO), sotto l’opera Shine of life di YaYoi Kusama al Museo Kistefos (Marco Moretti). In basso a sinistra il Parco delle Sculture di Vigeland (Marco Moretti), a destra alcuni visitatori al Museo Munch (Tord Baklund © VisitOslo).
con decine di statue, rappresentazioni plastiche della vita dura nella gelida Norvegia prima del conforto della tecnologia. A lui è dedicato l’omonimo Parco delle Statue, ai confini del centro, disseminato di 212 sculture in bronzo, ferro e granito: rappresentano 600 tra uomini, donne e bambini, tutti nudi, in pose emotive, sofferte, drammatiche, in avvinghi di corpi come attorno all’obelisco che domina lo spazio verde. Il secondo piano offre anche una carrellata sull’arte europea. Da alcune opere rinascimentali – diverse di Lucas Cranach, fino a una rassegna di impressionisti con tele di Van Gogh, Cezanne, Gauguin. Ma anche del romanticismo francese con lavori di Courbet e Delacroix. Dipinti espressionisti di Picasso e Modigliani. Mol-
to spazio all’arte moderna: una sala è dedicata all’ Arte povera. E plastici di progetti di architettura e urbanistica. Il terzo piano, con terrazza panoramica su città e fiordo, è votato all’arte pop locale. È aperto dal dipinto di Lena Trydal che raffigura la famiglia reale norvegese col re in ciabatte e canottiera, la regina al cellulare e la principessa con una sigaretta in mano. Quel che altrove sarebbe lesa maestà, a Oslo è un manifesto dell’understatement scandinavo, rappresentazione dei monarchi come comuni mortali, d’altronde qui si possono incontrare i membri della real casa a passeggio tra le vie della città. Il Museo Nazionale è lo specchio della società norvegese. In uno dei Paesi più avanzati per parità dei sessi, sono donne a dirigere la maggio-
ranza delle istituzioni culturali. La guida del Museo Nazionale è tutta al femminile con la direttrice Karin Hindsbo, la responsabile espositiva Stina Högkvist e la presidente Maria Moræus Hansen. La riconversione di Tjivholmen – il degradato porto con cantieri navali e bacini di carenaggio dismessi, la zona più malfamata di Oslo, territorio di ladri e prostitute – coniuga invece arte e architettura con urbanistica e temi sociali. L’area è stata ridisegnata da venti architetti, tra i quali due paesaggisti e Renzo Piano che ha progettato il Museo Astrup Fearney, la galleria d’arte contemporanea proiettata nel fiordo, che sposa la tradizione norvegese delle costruzioni in legno con un tetto a vela in vetro. Edificio che sfocia nel parco delle sculture, area ricreativa con opere di artisti contemporanei tra cui Things for a house on an island del duo svizzero Peter Fischli e David Weiss. Tjivholmen è diventato un quartiere residenziale con condomini e uffici che ogni architetto ha realizzato in un diverso stile e colore, spesso con terrazzi affacciati sul mare, banchine e posti barca per «posteggiare» sotto casa. Nonché con un albergo che – a memoria del losco passato della zona – si chiama The Thief. Il principio che dare fiducia agli individui crei cittadini consapevoli si concretizza alla Biblioteca Deichman – aperta nel giugno 2020, dove i lettori accedono a 450’000 volumi sen-
za intermediari né controlli. «Subiamo furti come qualunque libreria, ma crediamo il rischio valga la pena» afferma il responsabile nella hall sotto il neon policromo Brainstorm del norvegese Lars Ǿ Ramberg. Perché nella città di Henrik Ibsen, arte visiva e letteratura spesso s’incrociano, come nelle frasi estrapolate dai suoi drammi impresse sui marciapiedi di Ibsen Gate, la strada che il drammaturgo percorreva ogni giorno per andare a pranzo al Grand Café, il ristorante a cui Edvard Munch propose la sua tela Ragazza Malata in cambio di cento bistecche. Se Ibsen indaga l’introverso carattere norvegese che trova dentro di sé il nemico e solo con l’alcol esce dal guscio per approdare alla socialità, Knut Hamsum – terza colonna con Munch e Ibsen della cultura norrena – è il più esplicito nel narrare storie di arte e di Fame, come titola uno dei suoi più noti romanzi. Premio Nobel per la letteratura nel 1920, con Pan Hamsum esprime l’amore smisurato dei norvegesi per la natura. Sentimento ben rappresentato da Kistefos, un museo all’aria aperta fuori Oslo creato nella piantagione di abeti di una cartiera dismessa. Una foresta con cinquanta sculture di artisti di fama mondiale come Fernando Botero, Claes Oldemburg, Tony Cragg, Giuseppe Penone. E con The Twist, l’elegante ponte galleria d’arte realizzato nel 2019 dai danesi dello studio BIG – Bjarke Ingels Group: fino al prossimo ottobre ospita la personale della polacca Paulina Olowska. Progetti con cui la Norvegia si è posta al centro della scena culturale, realizzati grazie a investimenti miliardari – solo il Museo Nazionale è costato 600 milioni di franchi, resi possibili dal fondo sovrano che, grazie al petrolio, garantisce a Oslo entrate straordinarie. La rivincita di un Paese marginalizzato da clima e geografia che nell’arte trova il riscatto e la visione del suo futuro. Dove Museo Nazionale, Pb. 7014 St. Olavs plass, Oslo, Norvegia. www.nasjonalmuseet.no
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CULTURA
Nuove connessioni per l’OSI Musica
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Barbara Widmer ci spiega novità ed essenza di be connected
Natascha Fioretti
La partecipazione nel teatro moderno In scena
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Una lettura del contemporaneo
Giorgio Thoeni
Dettaglio della locandina.
Nuova grafica, nuovo formato, colori decisi come il rosa shocking delle strisce pedonali, il flyer dell’OSI lancia un’importante novità della nuova stagione concertistica 2022/23 e riassume perfettamente lo spirito con il quale l’OSI sperimenta nell’intento di conoscere meglio il pubblico di oggi e di domani. «Piegando le ali dello stampato – ci dice Barbara Widmer, responsabile di produzione e membro di direzione OSI – si crea una connessione tra quello che siamo e quello che cerchiamo, dunque la nostra comunità. La striscia bianca che chiude le due ali del flyer rappresenta invece la musica, l’elemento di connessione che mette in relazione i due mondi: quello dell’OSI con tutto il resto del mondo». Occhi sul flyer, guardandolo attentamente (foto sopra), in superficie vediamo in trasparenza la campana di un trombone. Sotto si intravvede la gente che cammina in strada. In un primo momento sembrano tutti diretti nella stessa direzione, nello stes-
so luogo e subito ci viene in mente il concerto. In verità, guardando meglio e piegando il flyer come dice Barbara Widmer, si scopre il vero intento dell’OSI e cioè quello di andare verso il pubblico, di andargli incontro, di intercettarlo uscendo dai luoghi deputati della musica classica. «Be connected si inserisce in quel filone sperimentale inaugurato con Tracce la scorsa stagione ma si spinge oltre con l’idea di far conoscere l’OSI e di coinvolgere un maggiore numero di persone. Temiamo che in futuro possa esserci un gap nel pubblico per cui i nostri affezionatissimi continueranno a venire ai concerti mentre i più giovani nemmeno ci conosceranno. Vogliamo dunque avvicinare nuovi pubblici, farci conoscere abbattendo i confini che ci separano da loro». In fondo la sfida di attirare e interessare le nuove generazioni riguarda oggi molti ambiti, anche il giornalismo. L’OSI, con lo scopo di ampliare il proprio pubblico ma «senza tradire la sua identità» – sottolinea
Barbara Widmer – ha dunque deciso di percorrere strade inedite uscendo dai propri schemi, creando formati inediti che possano incuriosire, nuovi linguaggi con cui parlare al pubblico. In concreto per la nuova stagione concertistica l’OSI propone cinque appuntamenti, alcuni davvero originali, pensati ad hoc per tipologie di pubblico differenti. Si parte il 3 luglio con il concerto OSI Brass sul Monte Tamaro per festeggiarne la 50esima stagione di attività. Il 10 ottobre, nata in collaborazione con gli studenti, ci sarà una giornata di concerti dell’OSI al Centro professionale Trevano (CPT) e alla Scuola cantonale di commercio Bellinzona (SCC). Non solo giovani, l’OSI ha pensato anche a chi lavora creando due appuntamenti (il 19 ottobre e il 19 aprile) sul mezzogiorno (Lunch with OSI) in cui ascoltare un breve concerto al LAC diretto da Markus Poschner. Un momento informale in cui poter dialogare con i musicisti e scoprire insieme al direttore i segreti che si celano dietro la realizzazione artistica di un concerto. In altre parole l’OSI porta la sua musica e la sua orchestra in montagna, nelle scuole, al LAC in pausa pranzo e, per finire, anche in discoteca. Il 14 marzo l’orchestra suonerà al Vanilla la Terza sinfonia di Čajkovskij. «Be connected nasce dall’esigenza di sentire la voce del nostro futuro pubblico, sentire cosa si aspetta dall’OSI. I ragazzi, ad esempio, in diverse occasioni ci hanno confidato di provare una certa soggezione verso i musicisti. Vorrebbero sentirli più vicini, vederli senza il frac, sentirli spiegare cosa suonano». Abbattere questi confini, colmare la non conoscenza e disseminare l’identità dell’OSI è lo scopo per cui nasce il progetto, d’altronde «l’essere umano non ha limiti, se non quelli che si autoimpone» conclude Barbara Widmer.
Libertà è partecipazione, cantava il signor G. Anche il Teatro, potrebbe fargli eco Carmen Pedullà, autrice di un recente saggio, Il Teatro partecipativo. Paradigmi e esperienze (Titivillus edizioni). Il testo analizza la partecipazione annoverandola tra i tratti distintivi, addirittura imperativi, della scena contemporanea, che non considera più lo spettatore come un soggetto passivo, ma tende a trasformarlo nel soggetto della narrazione, di una esperienza performativa. Non occorre andare troppo distanti per trovare esempi. Basti pensare agli allestimenti della compagnia ticinese Trickster-P. E non è un caso se il testo in questione sia stato presentato proprio alla vigilia del debutto di Eutopia, sua produzione più recente. Con la rinuncia dell’attore in scena Cristina Galbiati e Ilija Lugibühl ci hanno infatti abituati a una formula spartiacque che identifica ciò che la Pedullà definisce lo spett-attore rifacendosi a un concetto introdotto negli anni ’60 dal regista brasi-
La copertina del saggio.
liano Augusto Boal con il suo Teatro dell’Oppresso. Uno spettatore attivo, dunque. Chi conta qualche capello bianco ricorderà gruppi socialmente impegnati come gli americani Bread & Puppet di Peter Schumann e Stefan Brecht o l’avventura del Living Theater di Judith Malina e Julian Beck. Senza dimenticare l’irruzione del cosiddetto Terzo Teatro e l’eredità delle avanguardie storiche che avevano già messo in discussione e diffuso un’immagine diversa dello spettatore. Secondo la giovane studiosa, il fenomeno si accompagna a modelli di partecipazione necessari per analizzare alcune esperienze contemporanee che trascinano con sé concetti interessanti e complessi, utili per radiografare il fatto scenico. È una realtà che accompagna la società e che tendenzialmente non si divide più tra attori e spettatori, ma in cui i primi rimangono mentre gli spettatori non esistono più. Ovviamente è una provocazione. Ma neppure così peregrina. Soprattutto quando in certi casi si arriva a considerare lo spettatore come un ingranaggio teatrale indispensabile, uno strumento. Il saggio della Pedullà, senza ignorare l’apporto delle neuroscienze, sviluppa un discorso articolato e coerente che tiene conto di una lettura semiotica confrontata con una serie di paradigmi partecipativi applicati a esempi internazionali che abbiamo imparato a conoscere con un focus particolare su Rimini Protokoll e Roger Bernat_ FFF, due modalità differenti sulle quali costruire un valido approfondimento delle tesi esposte nel saggio. Bibliografia Carmen Pedullà, Il Teatro partecipativo. Paradigmi e esperienze, Titivillus Edizioni, Corazzano, 2022. Annuncio pubblicitario
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 27 giugno 2022
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CULTURA / RUBRICHE
In fin della fiera
39
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di Bruno Gambarotta
Il giovane Aurelio
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È ripartito il Salone del Vino. Il giovane Aurelio mi scrive una mail: «Gentile signor Bruno. L’ho vista al Salone del Vino e l’ho seguita a lungo mentre visitava uno stand dietro l’altro poiché desideravo parlarle. Ma la mia timidezza ha avuto il sopravvento perché lei non ha smesso per un solo istante di degustare i vini di tutte le regioni. Perciò mi sono risolto a scriverle. Sono un giovane di belle speranze. In particolare, come dicono in America, I have a dream, nutro un sogno, quello di vedere un giorno il mio nome sull’etichetta di un vino piemontese di prima qualità. Cosa mi consiglia per raggiungere questo traguardo?». Caro Aurelio, è vero, ho fatto qualche assaggio per senso del dovere poiché i produttori di vino sono delle brave persone ma molto permalose. Tu ambisci a entrare nell’esclusivo club dei mitici produttori che con i loro trionfi svettano nelle classifiche. L’impre-
sa si presenta ardua. Ti spiego: qui in Piemonte nessuno vende niente, chi ha le vigne se le tiene, si mormora di valutazioni per ettaro tali che solo il padrone di Amazon potrebbe permettersi. Un possibile percorso ci sarebbe per raggiungere il tuo scopo, grazie a uno strano fenomeno che, a quanto mi risulta, nessuno ha ancora studiato a fondo. Devi sapere che i grandi produttori di vino delle nostre parti hanno tutti figlie femmine. Solo femmine. È strano, ma è così. Forse gli effluvi che si respirano nelle cantine, il rovere delle botti e delle barriques. Queste figlie sono destinate prima o poi a prendere le redini del comando. Dove il passaggio è già avvenuto si notano miglioramenti vistosi, cantine ordinate e pulite, etichette che sono piccoli capolavori di grafica. Ho avuto occasione di conoscere molte di queste giovani donne, sono belle e spigliate. La strada maestra è quel-
Un mondo storto
la di sposare una di loro. Non credere che per conquistarle basti fare la ruota, ballare il tango ed essere coperto di tatuaggi. No, devi metterti in luce dimostrando talento e buona volontà. Il settore dove puoi dare prova delle tue capacità è quello della promozione e della vendita. Lì, nonostante i grandi progressi conseguiti, c’è ancora spazio. Puoi fare l’americano. Quando «La Repubblica» aprì una redazione a Torino mi proposero di collaborare. Il capo redattore sentì che conversavo in piemontese (la mia lingua materna) con un’impiegata e mi propose di fare un giro per Langhe e Monferrato a raccogliere dalla viva voce dei produttori le loro previsioni sull’andamento dell’imminente vendemmia. Vissuto sempre in grandi città, non poteva sapere che per scaramanzia nessuno di loro si sarebbe mai azzardato a farle. Dai vari parroci ho ottenuto qualche anticipazione, dopo
aver giurato che non avrei rivelato la fonte. Una sola eccezione: il più grande e ambizioso produttore di barbaresco. Costui mi fa entrare nella grande aia dello stabilimento e mi indica un giovanotto vestito da città che in piedi sul versante opposto osserva il panorama. «Lo vede quello laggiù?» mi domanda il produttore. Al mio cenno affermativo continua: «È un americano arrivato ieri da Chicago, ha tirato fuori il libretto degli assegni. Voglio comprare tutta la sua produzione, scriva lei la cifra». E io, pieno di stupore e di ammirazione: «E lei gliel’ha venduta». «Neanche per sogno, ho tanti clienti da soddisfare. Dovrà accontentarsi di qualche bottiglia». L’episodio era perfetto per l’incipit del mio articolo, lodato dal capo servizio. Che l’anno dopo mi rimanda a fare il giro delle profezie vinicole. Il re del barbaresco mi fa entrare nell’aia e mi indica un giovane uomo laggiù sul
fondo: «Lo vede quello laggiù?» mi domanda, ecc. ecc. Si era scordato che mi aveva già fatto quel numero. Avrà convocato un suo dipendente: «Sta arrivando il solito pirla, mettiti la giacca e vai a fare l’americano». Da quelle parti sono dei maghi nel campo della promozione, ma, secondo me, c’è ancora spazio per un giovane creativo. Puoi proporre e lanciare nuovi usi di quei vini per i quali c’è un’eccedenza di produzione. Il moscato per esempio. Ti regalo un’idea. Pare che in Francia gli appassionati paghino per avere il privilegio di vendemmiare. Gli fanno poi credere che il vino ricavato dalle uve da loro vendemmiate è proprio quello contenuto nelle bottiglie con il loro nome sull’etichetta e così glielo fanno pagare due volte. Penso che i milanesi sarebbero felici di farsi torchiare. Auguri, caro Aurelio, verrò al tuo matrimonio, se mi inviti. Tuo Bruno.
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di Ermanno Cavazzoni
I diritti del sogno
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Dovete pensare il sogno non dal punto di vista di chi lo subisce, che è sempre un frammento inesplicabile; ma dal punto di vista di chi compare nel sogno. Ci sono tante categorie di persone che fanno ressa per apparire in un sogno. Prima di tutto i morti, che si pigiano nei pressi di quelle sottili aperture che sono i sogni. Per chi li fa, i sogni sono spezzoni di film, ma non c’è una guida ai programmi con l’elenco degli spettacoli notturni. No, niente. Da un certo punto di vista è un cattivo servizio, come se uno avesse perso il telecomando. Dall’altro punto di vista i sogni sono fessure. Non c’è una regia, qualcuno che li manda in onda; c’è invece un pigia pigia. Prima di tutto di morti, che osservano cosa succede a quelli che erano i loro beni, ed è sempre un disastro; vorrebbero dire agli eredi di non mandare in malora quei piccoli
oggetti cui erano affezionati, una foto, una palla di vetro con dentro Venezia, una scatolina con un petalo secco, vorrebbero raccontare che significato avevano, ma non c’è modo di intervenire. Si riesce solo a comparire di tanto in tanto nei sogni, perché si trova uno squarcio. Ma anche altri nello stesso momento l’hanno trovato, e altri arrivano vedendo il capannello, spingono: «Io, io, tocca a me!», perché toccherebbe ai parenti legittimi, ma non c’è un regolamento; niente vieta di lasciare un messaggio nel sogno anche di uno sconosciuto: «deve dire a mia moglie … residente in via tal dei tali, numero tale, può dirlo anche al citofono, mi scusi, sa? ma non avevo modo di contattarla direttamente, ecco, deve dirle questo e quest’altro, e che deve cambiare l’olio nell’auto e fare il tagliando, le dica che vada nell’autofficina Mori-
ni, in piazza tale, numero tale, ha capito? Morini! conoscono l’auto, sono economici…» Intanto gli altri morti spingono: «basta! hai diritto a due minuti, adesso tocca a me…» Non dico che si malmenino, sono fantasmi immateriali, però si appiccicano, il vocio disturba, commentano: «basta con le stupidaggini! io ho una cosa importante da comunicare! questione di vita o di morte!» «Io ho un conto all’estero cifrato, se non dico il codice se lo mangia la banca». Altri si aggiungono, e quindi succede che chi si era preparato un discorso preciso, con date, cifre, avvertenze, è tanto pressato che confonde tutto, e nel sogno compare magari lugubre, fa paura, tanto è oppresso dalla folla di morti, riesce a citare il contachilometri, l’officina Morini, ma senza spiegare, perché gli altri morti per fargli fretta lo tirano, gli fanno fare brut-
ta figura. Si consideri il fatto che uno aspetta dei mesi, a volte anni, prima di trovare lo squarcio, e quando per caso si affaccia è all’improvviso, si impappina, nel sogno di chi è entrato? E intanto il sogno va avanti, nel sogno c’era già una bicicletta e ci monta, riesce a dire che l’olio … L’occasione è buttata via, e se qualcun altro cade in quel sogno, si mette a corrergli dietro, per cui nel sogno c’è uno che corre dietro a un altro in bicicletta. Ditemi voi cosa c’entra col tagliando dell’auto e col cambio olio ogni ventimila chilometri? Il più delle volte sono passati anni, e l’auto è stata demolita da un pezzo, i morti non se ne rendono conto, il tempo per loro è fermo; c’è solo questo affannarsi a trovare fessure. E se uno, tutto solo, nell’ora della siesta, trova non visto una fessurina, e lì piano piano si infila, quasi di sicuro entra in un sogno già avviato, e le sue parole
calme, meditate, sull’olio da cambiare ogni ventimila chilometri non sono capite, se ad esempio il sognatore stava cadendo a una velocità che toglieva il respiro; come dargli l’indirizzo del congiunto, o il telefono? se anche lui si mette a cadere, perché il sogno era esclusivamente una caduta, un incubo breve e terribile, sì, può gridare «autofficina Morini», ma al risveglio chi se lo ricorda? Racconto tutto questo perché sono anni che cerco uno squarcio dove affacciarmi, e da cui proporre una riforma dei sogni, a partire da una piattaforma sindacale condivisa da tutte le categorie di morti, che tuteli il diritto di comunicare coi vivi, secondo un ordine di anzianità pregressa. È inoltre un diritto imprescindibile, riconosciuto dall’ONU, dalla CEI, dalla FAO e dalla legislazione europea, comunicare i numeri vincenti del Lotto.
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Voti d’aria
di Paolo Di Stefano
Gaffe da ridere (e da piangere) ◆
Non riesco più a divertirmi, con la letteratura, come mi succedeva anni fa sfogliando, per esempio, Tre uomini in barca, i racconti di Mark Twain o i primi romanzi di Gianni Celati, tipo Le avventure di Guizzardi. Forse il mio umore va peggiorando, forse i miei gusti sono invecchiati, ma raramente mi è capitato di ridere tanto, negli ultimi tempi, leggendo un libro. Non sorridere o ridacchiare, ma ridere proprio. È l’effetto che ha prodotto in me, istantaneamente, il nuovo libro di Mario Fortunato, intitolato Autobiografia della gaffe (Neri Pozza editore), che si merita un bel 5½ anche «solo» per il merito di avermi strappato qualche sana risata. Fortunato è tutt’altro che un autore comico o grottesco, è stato tra i primi a occuparsi di narrazioni migranti, è autore di celebrati romanzi di tipo psicologico e sociale, che utilizzano volentieri una vena di umorismo anche satirico.
Qui invece racconta il suo «destino di gaffeur» a partire da un esilarante episodio degli anni ’90 quando, ventottenne, era al suo primo libro: sala affollatissima, dibattito sulla letteratura e i giovani, Fortunato si trova al tavolo dei relatori, di fronte a sé, in prima fila accanto al sindaco della città, il più prestigioso e autorevole editore del tempo, Giulio Einaudi. Prendendo la parola, Fortunato si imbarca chissà perché in un discorso sulla differenza tra il dolore planetario e il dolore privato, facendo l’esempio di una mutilazione: se un individuo, per un incidente, si ritrova amputato di un braccio, il suo dolore sarà incomparabile rispetto a qualunque pur gigantesca catastrofe mondiale. Quel che sfugge a Fortunato è che il sindaco, seduto in prima fila ad ascoltare quella sottile discettazione, è privo non di una gamba o di un orecchio, ma proprio di un braccio. Non appena
l’impensabile gli si spalanca davanti agli occhi, invece di ritirarsi e tacere per sempre, il giovane scrittore, preso più dal panico che dalla vergogna, si va a infilare in un tunnel di contorsioni ulteriori sulla letteratura come «arto mancante e amputazione primaria», mentre l’editore dà crescenti segni di agitazione. Una gaffe epica da cui uscire a dir poco tramortiti. Ma insomma, a trent’anni dal fattaccio, Fortunato ha deciso di fare i conti con quella memoria antica fino a nobilitarla iscrivendo la gaffe nell’illustre tradizione zen del tiro con l’arco: in virtù della quale si colpisce il bersaglio senza volerlo. Già l’idea di colpire il bersaglio senza volerlo è un’immagine comica, specie se quel miracolo produce effetti deleteri. L’unico punto del discorso di Fortunato che non convince è che la gaffe, secondo lui, sarebbe essenzialmente una manifestazione di sincerità (in-
volontaria) giovanile. Per smentirlo, basta pensare a quella «macchina da gaffe» che è il quasi ottantenne Joe Biden. Che non si risparmia mai: sulla Russia e su Putin, su Taiwan, sul presidente nordcoreano (che ha chiamato con il nome del suo predecessore), sugli elettori neri che votando per i repubblicani rischierebbero di tornare in catene. La differenza rispetto alle gaffe di Fortunato è che quelle del presidente americano non fanno ridere. A parte la scena in cui, dopo aver pronunciato un lungo e applaudito discorso, si volta per stringere la mano a un suo interlocutore che non c’è. E dunque per un secondo lo vediamo con la mano tesa verso il nulla (un simpatico vuoto d’aria da 5+, diventato ovviamente virale). Forse aveva ragione il dottor Freud nel definire la gaffe il «prodotto di un calcolo inconfessato» (5½), e forse non aveva torto Umberto Eco quan-
do parlava di un «atto di sincerità non mascherata» (6–). In queste faccende, infatti, il discrimine tra lapsus ed errore per ignoranza è quasi impercettibile. Senza rivangare un celebre tunnel che partiva dal Cern di Ginevra per arrivare al Gran Sasso o il famoso «abbronzato» rivolto anni fa all’appena eletto presidente Barak Obama, caso unico di gaffe volontaria e per nulla spiritosa (2– di scoraggiamento del tentativo di spiritosaggine), ecco ora un altro miliardario, il settantasettenne Rodolfo Hernández (2 secco). Il quale, candidato alla guida della Colombia e chiamato «vecchietto TikTok» per l’abuso adolescenziale di social, si è vantato di essere un seguace «del grande pensatore tedesco Adolf Hitler», per poi correggersi con Einstein. Gaffe involontaria o volontaria? Comunque, da piangere più che da ridere.
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