Azione 27 del 1 luglio 2024

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edizione 27

MONDO MIGROS

Pagine 2 / 4 – 5

SOCIETÀ Pagina 3

Una passeggiata digitale per scoprire nel web isole discoste dove riposare mente e udito

La storia professionale di Gene Wilder è frutto della sua natura contraddittoria di uomo e artista

TEMPO LIBERO Pagina 13

Tra le incognite del federalismo sanitario elvetico: ci sono troppi ospedali nel nostro Paese?

ATTUALITÀ Pagina 19

Cantoni alpini, l’unione fa la forza

Sottile, emotiva, irrequieta, attrice potente e incantatrice: Eleonora Duse a cento anni dalla morte

CULTURA Pagina 29

LATI, cala il sipario

Il sito ufficiale della LATI SA è già scomparso. Su quello del Centro di Competenze Agroalimentari Ticino leggiamo: «LATI SA, Latteria del Ticino. La LATI è la principale azienda casearia ticinese e uno dei maggiori gruppi alimentari attivi nel cantone…». In questi giorni ha avuto il suo epilogo la storia di LATI. Il nostro territorio e il nostro cantone perdono un’importante infrastruttura di produzione che faceva da tramite tra i produttori di latte, il commercio al dettaglio e i consumatori e le consumatrici. Sicuramente ci sono più motivi che hanno portato alla fine di LATI e non tocca certo all’editore di questo giornale trovare le ragioni dell’accaduto. Oggi il pensiero di Migros Ticino va soprattutto ai produttori di latte, ai nostri agricoltori e alle nostre agricoltrici, che si trovano privati di un’importante possibilità per trasformare in loco il loro latte. Non di meno, consumatrici e consumatori si vedranno privati di prodotti unici, buoni, iconici e tradizionali del nostro territorio

– testimoni dei nostri sapori e della nostra cultura – che spariranno dai nostri scaffali, almeno per un po’. Che tristezza! Uno su tutti il latte pastorizzato (Lacc Frésch ticinés) dei Nostrani del Ticino. Per dare un’idea dell’importanza di alcuni prodotti caseari del nostro territorio, impossibile non parlare del formaggino fresco, venduto nel 2023 ben 192’000 volte, per il ragguardevole volume di ben 19 tonnellate. È bene sottolineare che buona parte dell’assortimento degli articoli prodotti da LATI rimarrà a disposizione (tra cui i formaggini freschi), grazie ad una collaborazione con diversi produttori locali. Quello che è stato è stato, dunque è più opportuno guardare al domani. Desidero formulare l’auspicio che tutti gli attori coinvolti possano trovare una via comune nel futuro, riscrivendo la storia. Un percorso che renda grande l’eccellenza casearia, che esiste in Ticino e che merita di essere percorso, mettendo in risalto il valore aggiunto che viene creato partendo dalla materia

prima latte, esaltando i nostri sapori nostrani e veri e trovando un giusto prezzo per tutti coloro che partecipano alla creazione del prodotto. Per fare ciò serve soprattutto unire le forze di tutta la filiera. Serve pensare in maniera imprenditoriale, stilare una strategia del latte e concentrarsi sui desideri del cliente, mutevoli e ingolositi da un’offerta dilagante, al di qua e al di là del confine. Il prodotto «Ticino» di qualità di domani deve essere «ben vestito» con imballaggi rispettosi dell’ambiente, ben promosso con attività di marketing che permettano, sul medio termine, di proporlo anche fuori dal cantone e ben seguito per adattarlo alle mutevoli voglie della clientela. Quanto capita oggi mette a nudo la necessità che la filiera del latte venga riconcepita in maniera strategica e imprenditoriale per garantire un futuro solido a lungo termine: serve una strategia del latte in Ticino per produrre il prodotto giusto, nei modi giusti e nei luoghi giusti. Migros è da sempre il tramite tra produttori, trasformatori

e consumatori e in quest’ottica l’azienda si è messa a disposizione per sostenere gli sforzi in atto. Nel contesto in cui ci troviamo non posso esimermi dal fare una riflessione oggettiva: se vogliamo sostenere la produzione locale, se teniamo al mondo contadino, dobbiamo prendere atto del fatto che dobbiamo consumare prodotti ticinesi. Ogni volta che il consumatore, in piena libertà, fa la sua spesa altrove, direttamente o indirettamente colpisce anche la famiglia contadina locale, che viene privata di importanti volumi di vendita. Le stesse quantità di latte fresco, formaggi freschi, a pasta molle e semidura che sono mancate per far funzionare a dovere LATI. Come già ribadito non si tratta di colpevolizzare il consumatore ma semplicemente di rendere attenti tutti i residenti in Ticino e Moesano che senza il tenore minimo di consumo all’interno del nostro territorio la LATI non potrà essere che la prima di altre realtà nostrane che chiuderanno i battenti.

Fabio Dozio Pagina 7

La Migros non è un museo

Info Migros ◆ Perché l’azienda viene ristrutturata? E come sarà il suo futuro? La posizione di Mario Irminger, presidente della Direzione generale

Signor Irminger, cosa prova in questo periodo, quando entra in un negozio Migros?

Provo piacere, soprattutto quando vedo il nostro vasto assortimento di prodotti freschi, di cui possiamo essere davvero orgogliosi. Faccio la spesa una o due volte alla settimana, e in quelle occasioni noto anche le aree in cui abbiamo ancora del potenziale, ad esempio, in termini di prezzi e qualità. Noi vogliamo tornare a essere più economici. Anche il concetto dei nostri negozi non è al passo con i tempi. Abbiamo bisogno di filiali supplementari e di negozi più moderni. C’è molto terreno da recuperare.

E come vive i grandi cambiamenti che ha dovuto annunciare nelle ultime settimane?

Mi pesa molto il fatto che le nostre decisioni influenzino il destino di molte e molti dipendenti che non portano alcuna responsabilità per la difficile situazione attuale. Se non prendessi le distanze, i destini personali mi affliggerebbero profondamente.

A metà giugno avete annunciato che Migros si separerà dai suoi mercati specializzati. Fare acquisti in negozio è ormai una cosa del passato?

È necessario fare una distinzione netta tra la vendita al dettaglio di prodotti alimentari e il Non Food. La gente ama ancora andare nei supermercati. Tuttavia, l’elettronica, gli articoli sportivi e i mobili vengono acquistati sempre più spesso online. Se nel proprio segmento non si è il numero uno, sul mercato non si ha alcuna possibilità. Per contro, l’attività online di Digitec Galaxus, va molto bene. Attraverso la vendita dei nostri mercati specializzati, ci adattiamo alle nuove esigenze delle e dei clienti.

Migros sta vendendo anche Hotelplan ed effettua tagli importanti nella propria Industria. La situazione è grave al punto da richiedere misure tanto dure?

Migros è finanziata in modo solido. Ma, gradualmente, abbiamo perso quote di mercato. Tuttavia, possiamo agire da una posizione di forza e separarci da quei mercati che si trovano in difficoltà, o che non sono più allineati con il core business di Migros.

Cosa risponde a chi l’accusa di distruggere l’eredità del fondatore di Migros Gottlieb Duttweiler? Io provo ammirazione per l’opera esistenziale di Dutti. Gran parte di quel-

Mario Irminger CEO di Migros

lo che ha creato è sopravvissuto fino a oggi. Ciò che spesso si dimentica, però, è che Dutti era un arguto uomo d’affari. Quando qualcosa non funzionava, egli aveva il coraggio di abbandonare un’idea o chiudere un’attività. Sarebbe sbagliato preservare la sua eredità solo attraverso la conservazione di un determinato stato delle cose. Un’azienda non è un museo. Un’azienda deve evolversi costantemente e concentrarsi sulle esigenze della clientela.

Lei si rende conto che in Svizzera le persone sono preoccupate per il destino di Migros?

Ovviamente. Ed è fantastico, perché dimostra quanto la Migros sia importante per la gente. È vista come un servizio pubblico, alla stessa stregua della Posta e delle FFS. Quando alla Migros cambia qualcosa, ognuna/o ha un’opinione in merito, cosa peraltro del tutto giustificata. Siamo consapevoli della grande responsabilità che abbiamo nei confronti della popolazione svizzera, e a livello sociale cerchiamo di attuare i cambiamenti nel modo più responsabile possibile.

Quali altri tagli sono previsti entro la fine dell’anno?

Nessuno che non sia già stato annunciato. A breve ci aspettiamo di poter annunciare il nuovo proprietario di SportX. I processi di cessione degli altri mercati specializzati sono in corso. Per quanto riguarda il caso di Hotelplan e del produttore di cosmetici

Mibelle, pensiamo di presentare una soluzione entro la fine dell’anno. Abbiamo sempre detto che non siamo interessati alla soluzione più rapida, bensì a quella migliore. E, soprattutto, ci stanno a cuore le collaboratrici e i collaboratori.

Migros ha elaborato un piano sociale generoso per le/i dipendenti licenziati. Non sarebbe stato socialmente più responsabile mantenere i posti di lavoro?

Il nostro core business, il supermercato, è caratterizzato da un margine

di profitto molto basso. È inutile illudersi. Parliamo di un profitto tra il 2 e il 2,5%, che riusciamo a raggiungere solo lavorando con la massima efficienza. Sarebbe poco responsabile mantenere processi e posti di lavoro non indispensabili. La Migros non sarebbe più in grado di affrontare il futuro.

La Migros è una cooperativa: perché nonostante questo deve fare degli utili?

Anche noi dobbiamo essere in grado di investire in un futuro sostenibile. Gli utili ritornano alla Migros. Nei prossimi anni investiremo circa due miliardi di franchi nell’ampliamento e nella ristrutturazione della nostra rete di filiali.

Le dieci cooperative regionali rimarranno al loro posto. Questa scelta non è in contraddizione con la riduzione della complessità aziendale e dei suoi doppioni?

La frammentazione e la mancanza di un focus non hanno nulla a che vedere con le cooperative. Sono piuttosto da ricondursi al fatto che per molto tempo Migros ha ottenuto degli ottimi risultati. Durante quel periodo, l’azienda si è a più riprese lasciata coinvolgere a sviluppare settori sempre nuovi, ma al di fuori del suo core business. Le cooperative ci permettono di essere più vicini alle esigenze regionali di qualsiasi altro venditore al dettaglio della Svizzera. Il nostro marchio Nostrani del Ticino, altrove «Aus der Region für die Region», è molto forte nel Paese.

Nell’Industria sono stati tagliati oltre 300 posti di lavoro. In passato è stato quindi fatto il cosiddetto passo più lungo della gamba?

Mettiamola così: volevamo essere qualcosa che non eravamo, un fornitore di marchi internazionale. Ora il focus è ritornato sulla produzione di marchi propri di alta qualità al miglior prezzo per Migros, Denner e Migrolino.

Coffee B era stata presentata come la più grande innovazione nella storia dell’azienda, ma sta faticando a prendere piede. Rimarrete fedeli alle vostre sfere di caffè?

Certo, si tratta di una grande innovazione! Ci vuole tempo perché il sistema si affermi sul mercato. La gente acquista una nuova macchina da caffè solo quando sostituisce quella vecchia. Anche in questo caso non produciamo per il mondo, ma con-

cediamo licenze, come è già successo negli Stati Uniti e in Canada.

Secondo i media in futuro Migros investirà in misura minore nella sostenibilità. Qual è la sua strategia?

La notizia è stata riportata: siamo ancora uno dei rivenditori più sostenibili al mondo. E anche in futuro continueremo a impegnarci per le persone e l’ambiente. Tuttavia, piuttosto che affidarci a misure minori, ci concentreremo sulle grandi questioni, affrontandole in modo mirato in tutto il Gruppo Migros. Per esempio, stiamo lavorando per una riduzione della nostra impronta CO2 e ci impegniamo per la biodiversità in Svizzera con il nostro partner IP Suisse.

Cosa succederà all’Engagement sociale e culturale?

Esso è ancorato nei nostri Statuti e non è messo in discussione. Migros continuerà a investire ogni anno molti soldi nella cultura e nella società.

La salute è una delle aree strategiche di Migros. Come si concilia con il commercio al dettaglio?

Quello che forniamo nel settore alimentare è un contributo importante all’approvvigionamento di base della Svizzera. Questo si è visto in particolare durante il periodo della pandemia. Medbase può ottenere lo stesso risultato nel settore medico. Attraverso ambulatori medici, farmacie e altri servizi, possiamo contribuire a un’assistenza medica di base economicamente vantaggiosa in Svizzera.

Gli studi medici si trasferiranno negli spazi commerciali sfitti? Negli Stati Uniti già esistono delle cosiddette Retail Clinics… Non è da escludersi. Dobbiamo essere aperti alle nuove idee. Stiamo osservando quali sono i modelli che funzionano presso altri. Proprio di recente il supermercato statunitense Walmart ha chiuso nuovamente le proprie cliniche. In ogni caso ci piace lasciarci ispirare da approcci nuovi.

L’anno prossimo Migros festeggerà il suo 100esimo anniversario. Con quali parole descriverebbe la Migros nel 2025?

Giovane nel cuore, innovativa, ma allo stesso tempo consapevole della sua grande tradizione, che si estende su un arco di cento anni. Il nostro obiettivo è quello di posizionare la Migros in modo tale che possa avere successo per altri 100 anni.

A cena sul nostro Pan di Zucchero

Forum elle ◆ L’associazione invita a partecipare alla cena che si terrà il 5 luglio in vetta al San Salvatore

Forum elle è una piattaforma di scambio femminile apartitica, aconfessionale e indipendente. Attraverso un’offerta di eventi regionali e interregionali si rivolge a donne convinte dei valori, delle attività e del knowhow della Migros. Il fondatore della Migros Gottlieb Duttweiler, infatti, ha sempre sostenuto l’organizzazione femminile, che all’epoca si chiamava «associazione svizzera delle cooperatrici Migros». Ora, su grande richiesta, prima della pausa estiva Forum elle ripropone la cena in vetta al San Salvato-

Un sostegno a storia, arte e natura

Info Migros ◆ La Commissione culturale del Cc ha scelto tre progetti da sostenere

La Commissione culturale del Consiglio di cooperativa (Cc) di Migros Ticino, cui compete annualmente l’assegnazione di contributi finanziari una tantum a progetti di particolare rilievo per la Svizzera italiana, in campo sia culturale sia sociale, ha raggiunto recentemente il verdetto per l’anno 2024.

Le iniziative sostenute saranno tre

Nell’ultima seduta, il Consiglio di cooperativa di Migros Ticino, su proposta della sua Commissione culturale, ha deciso di finanziare: 1) Il progetto promosso dal Museo di Valmaggia di Cevio (nella foto) Lo sfruttamento idroelettrico della Maggia, tra passato, presente e futuro, comprensivo della presentazione di un libro (prevista in data 14 novembre 2024), realizzato a più mani, che illustra gli importanti eventi che in poco più di vent’anni, tra il 1950 e il 1970 hanno totalmente cambiato il volto della Vallemaggia con un’opera di portata colossale. Nell’imminenza della scadenza delle concessioni d’uso delle acque della valle ai partner d’Oltralpe, il Museo, con l’ausilio del contributo scritto di autori qualificati, intende rievocare il significato e l’importanza degli impianti tra passato, presente e futuro. Seguirà dunque nei mesi seguenti l’inaugurazione di una mostra temporanea sul tema.

2) La manutenzione straordinaria dell’impianto campanario della Chiesa parrocchiale di S. Antonino martire a S. Antonino, che dopo un controllo effettuato a dicembre 2023 ha segnalato l’urgenza di un intervento straordinario per la messa in sicurezza: l’intervento necessario comporta tra l’altro il fissaggio delle campane ai ceppi di legno che – essendo consumati – devono essere sostituiti, l’eliminazione della ruggine venutasi a creare ai castelli in ferro che sostengono le campane, il relativo trattamento antiruggine e la sostituzione di cuscinetti e catene.

re. Il programma sarà il seguente:

Ore 18.45: ritrovo alla stazione di partenza a Paradiso (le socie in auto potranno parcheggiare gratuitamente, spazio permettendo, nel par-

cheggio della stazione di partenza).

Ore 19.00: risalita in vetta – partenza tassativamente secondo orario.

Ore 19.30: cena. Due menu a scelta: 1) Variante con carne: asparagi alla milanese; ravioli di magro; pancia di maialino CBT e cipollotto caramellato con bouquet di verdure di stagione; semifreddo alla vaniglia e gocce di cioccolato. CHF 70/persona. 2) Variante vegetariana: asparagi alla milanese; ravioli di magro; spiedino di verdure e tofu alla griglia con salsa agrodolce; semifreddo alla vaniglia e gocce di cioccolato. CHF 60/persona.

Entrambi i prezzi includono la cena e la risalita; le bevande sono a carico delle partecipanti. Rientro al termine della cena, ultima corsa ore 23.00!

Info e iscrizioni Simona Guenzani, Via Gemmo 21, 6932 Breganzona simona.guenzani@forum-elle.ch Tel. 077/524.73.47 www.forum-elle.ch

3) L’itinerario vitART Parcours2, passante per 5.1 km per Aranno via Bioggio sino al Lido di Agno e realizzato dall’Associazione culturale non-profit Aranno LandArt (ALA), che si è posta l’obiettivo di creare 12 percorsi escursionistici nel Malcantone rinominati Itinerari Vitart Parcours, ognuno dei quali è caratterizzato da installazioni di Land Art e Green Points: stazioni che invitano i visitatori a soffermarsi nel bosco. ALA ha creato il primo vitART Parcours quale progetto pilota nel 2020 ad Aranno, riscuotendo un ottimo successo.

SOCIETÀ

Incontro con Carmelia Maissen

La grigionese è la prima donna eletta alla presidenza della Conferenza dei Governi dei Cantoni alpini

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Parte una campagna contro le cadute Ogni anno circa 90mila persone anziane cadono e riportano ferite talmente gravi da richiedere un trattamento medico o cure ospedaliere

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La rabbia, emozione primaria

In molti Paesi le rage rooms, stanze dove sfogare la rabbia, si sono moltiplicate. Ne parliamo con lo psicoterapeuta Alessandro Motta

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Ascolta, ecco che suono fa internet

Guida dilettevole per il passeggiatore digitale – 1 ◆ Nella Rete esistono ancora isole di conoscenza e di memoria un po’ discoste dove riposare l’udito e la mente, in una serie di articoli vi invitiamo a scoprirne alcune

Ai margini dell’Internet rumoroso e spesso inutile nel quale poche aziende multinazionali decidono delle modalità in cui si svolge la conversazione globale, ne sopravvive uno che continua a usare la rete per progetti di reale conoscenza. Potremmo definirlo un Internet umanista, fedele agli ideali dell’inizio, quando si pensava che la Rete sarebbe diventata inventario di tutte le conoscenze umane e strumento per superare le divisioni attraverso il dialogo e il sapere condiviso. È di questo arcipelago di pace, costellato da isole di conoscenza e di memoria un po’ discoste, che vogliamo parlare in questa serie di articoli. Un po’ passeggiatori solitari e un po’ enciclopedisti dell’inessenziale (di cui però non si può fare a meno), raggiungeremo insieme luoghi esotici e poco esplorati.

Il rumore di fondo accompagna qualsiasi navigante che si inoltra nel mare agitato della Rete: notizie, polemiche, dibattiti, un profluvio di immagini, musica (ne parla anche Guido Mariani nel suo articolo a pag.35) e parole che rischia di sopraffarlo e infine sommergerlo. Dove risposare l’orecchio e la mente?

Tocchiamo finalmente le rive di una terra ospitale per il nostro udito e

gettiamo l’ancora. Non siamo molto lontani da casa: la Fonoteca nazionale svizzera, che ha la sua sede a Lugano e che si occupa della salvaguardia del patrimonio sonoro del nostro Paese, ci offre sul suo sito moltissimo materiale in libero accesso. A farci da guida è Giuliano Castellani, responsabile della valorizzazione delle collezioni, che ci segnala un progetto in particolare: quello che ha portato alla digitalizzazione di 116 cilindri fonografici (il primo supporto di registrazione sonora diffuso a livello globale, inventato da Edison nel 1878) appartenenti alla collezione di Luigi Corti. Un viaggiatore anche lui e un amante della musica: nato a Chiasso nel 1837, Corti emigra a Londra attorno al 1857. Con la moglie Mary Ann Ellis condivide la passione per la musica: lei è pianista e insieme cominciano a comprare cilindri fonografici con le registrazioni di bande musicali, canti d’operetta e pezzi d’orchestra. Ma nella collezione vi sono delle registrazioni particolarmente importanti: si tratta di quelle eseguite a Chiasso attorno al 1903 con cantate e pezzi interpretati da musicisti della regione. Per ascoltare questi suoni, tra i primi che gli esseri umani siano riusciti a registrare

per poterli ascoltare successivamente, basta andare sul sito della Fonoteca (www.fonoteca.ch) e poi nella pagina dedicata a «Fondi e collezioni». Ci sarebbe molto altro da scoprire qui, ma è arrivata l’ora di riprendere il viaggio: togliamo l’ancora e raggiungiamo – maneggiando con destrezza il mouse – le amene rive del sito www.freesound.org, un progetto di ricerca, che nasce nel 2005 grazie all’Università Pompeu Fabra di Barcellona. Vi scopriremo una tribù esotica e globale di indigeni che amano collezionare ciò che c’è di più effimero: il suono. Questo sito è infatti – oltre che un progetto collaborativo al quale potete contribuire – un enorme e ben ordinato magazzino che ne contiene 634’600 provenienti da tutto il mondo. Volete sapere come cigola una porta in Giappone? Che suono fa un’ambulanza in Spagna o in Germania? O il gorgogliare di una fontana a Brione Sopra Minusio (c’è anche quello)? È tutto a portata di orecchio grazie al motore di ricerca che trovate sulla home page. E naturalmente i suoni si possono scaricare e riutilizzare, se lo desiderate, grazie alle licenze Creative Commons, un modo intelligente e non commerciale di condividere il sapere.

Da Barcellona a Londra, navigando sulle onde del tempo approdiamo sul sito www.sound-effects.bbcrewind. co.uk, dove scopriamo una sorprendente raccolta di suoni, messa a disposizione di tutti (purché non per uso commerciale) dalla BBC, la cara vecchia «Auntie Beeb», che ha compiuto 100 anni nel 2022. Un secolo intero passato a trasmettere sulle onde radio e – dunque – a registrare suoni: sono 48’000 quelli che si possono ascoltare e scaricare dal sito, che vanno dalle campane del college di Oxford a una cascata della Patagonia, passando per il clacson di un sottomarino o il rumore della porta di una Ford Cortina del 1969 che si chiude. In questo archivio online c’è anche quella che è considerata la prima registrazione di storia naturale al mondo, raccolta su cilindro di cera nel 1889 da Ludwig Koch. Si tratta del canto dello shama groppabianca (Copsychus malabaricus), piccolo uccello passeriforme diffuso tra India settentrionale e Cina meridionale.

Lasciamoci dunque guidare dagli uccelli verso il nostro ultimo approdo virtuale e puntiamo il mouse su www.xeno-canto.org. Qui ad accoglierci sono 863’114 canti di volatili da tutto il mondo, messi a disposizione

da un progetto nato nel 2005 e gestito oggi dalla Xeno-canto Foundation e dal Naturalis Biodiversity Center di Leida, in Olanda. Se sapete già cosa cercare, non esitate: usate il motore di ricerca in alto sulla pagina. Se invece avete voglia di farvi prendere per mano alla scoperta di questo mondo quasi infinito di suoni, andate sulla pagina «spotlight» del sito. Qui troverete per esempio il canto degli inseparabili dal collare nero, raccolto da un naturalista del Max Planck Institute of Animal Behavior nel corso di una ricerca sul campo in Repubblica Democratica del Congo. O la bella e commovente vicenda di un team di studiosi di Taiwan partiti per la tundra artica in Siberia a registrare il canto della rara gru siberiana. E da poco Xeno-canto ha integrato anche i canti di rane, rospi, pipistrelli, cavallette e grilli: tutto un mondo di rumori in via di sparizione. «Sembra che il paesaggio sonoro mondiale abbia raggiunto l’apice della volgarità nel nostro tempo e molti esperti hanno previsto la sordità universale come conseguenza finale», scriveva ironico R. Murray Schaefer, l’inventore del concetto di paesaggio sonoro. Erano gli anni 70 del secolo scorso e ancora le rondini cinguettavano sotto i nostri tetti.

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Mattia Pelli
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La piccola bacca blu dalle grandi virtù

Attualità ◆ I mirtilli non solo piacciono grazie al loro delicato sapore dolce-asprigno, ma fanno anche bene al nostro organismo. In questo momento sono disponibili le bacche di provenienza svizzera, in parte anche ticinese

Azione 23%

Se un tempo i mirtilli venivamo raccolti selvatici nei boschi, oggi i piccoli frutti che troviamo in commercio provengono da coltivazioni di varietà originarie del Nordamerica. Sono ricchi di preziose sostanze per la nostra salute, tra cui le vitamine A e C, ferro, acido folico e antocianine, sostanze quest’ultime che, oltre a dare il tipico colore blu scuro ai frutti, sono utili nel proteggere dai radicali liberi.

I mirtilli indigeni questa settimana sono in offerta speciale alla tua Migros

In Svizzera, la stagione dei mirtilli dura dalla fine di giugno fino ad agosto. Dolci e leggermente aciduli, il loro aroma si sprigiona al meglio se consumati freschi, ma si prestano bene anche per la preparazione di torte, muffin, composte, confetture, gelatine, smoothie e gelati. Si sposano anche con altri ingredienti, come cannella, vaniglia, limone, mele e formaggi erborinati. Una volta acquistati, è meglio conservarli in frigorifero, dove si mantengono fino ad una settimana. Possono essere anche congelati. Le piante di mirtillo sono particolarmente resistenti al freddo. Il maggior produttore di mirtilli al mondo sono gli Stati Uniti.

Prelibatezza a fettine

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La ricetta Sfoglia ai mirtilli

Ingredienti per 8 persone

• 250 g di mirtilli

• 1 rotolo di pasta sfoglia rettangolare già spianata di 320 g

• 3 cucchiai di nocciole macinate

• 5 cucchiai di zucchero

• 2 dl di panna semigrassa

• 1,8 dl di panna acidula semigrassa

• 1 bustina di consolidante per panna da 9 g

• 2 limette

• menta per guarnire

Preparazione

Scaldate il forno statico a 180 °C.

Disponete la pasta sfoglia con la carta da forno su una teglia. Ripiegate la pasta su sé stessa e formate un bordo tutt’intorno di ca. 2 cm. Schiacciate leggermente il bordo con i rebbi di una forchetta, poi bucherellate fittamente il fondo. Distribuite le nocciole e lo zucchero sulla pasta sfoglia e dorate la sfoglia al centro del forno per 20–25 minuti. Sfornate e lasciate raffreddare. Mescolate la panna con la panna acidula, lo zucchero e il consolidante e montate la panna ben ferma. Grattugiate la scorza di una limetta e incorporatela alla panna. Distribuite sulla pasta sfoglia prima la panna, poi i mirtilli. Tagliate a fette la limetta rimasta e distribuitela sulla sfoglia. Guarnite con la menta e gustate.

Attualità ◆ Il lardo di Colonnata è un prodotto di eccellenza che racchiude tutti i sapori e i profumi della grande tradizione salumiera italiana

Un goloso tagliere di salumi misti da condividere con i propri ospiti non può mancare durante l’estate. A renderlo ancora più appetitoso e genuino, ci pensa sicuramente qualche fetta di lardo di Colonnata. Questa specialità originaria dell’omonima località toscana è celebre per il suo gusto unico, risultato di un processo di lavorazione particolare e specifico.

Lardo di Colonnata: aromatica tentazione della tradizione toscana

Il lardo viene infatti lasciato stagionare per diversi mesi in vasche di marmo – dette «conche» – pietra di cui la regione è ricca e per la quale è famosa in tutto il mondo. Le conche vengono dapprima strofinate con aglio e aromi. In seguito, al loro interno, si prepara uno strato di aromi naturali, composto da sale marino, pepe nero, cannella, chiodi di garofano, aglio fresco affettato, maggiorana, alloro e rosmarino. A questo punto viene adagiato un primo strato di lardo, proveniente da maiali rigorosamente italiani, e si continua alternando spezie e lardo fino a riempire la conca. Essa viene infine chiusa con una lastra di marmo. Il lardo stagiona in questo modo per ben 12 mesi. Dopo la stagionatura, il lardo di Colonnata si presenta

con le sue inconfondibili peculiarità che conquistano ogni buongustaio: una consistenza compatta e un bel colore bianco avorio, con qualche striatura di magro rosso vivo. Il suo sapore è delicatamente dolce e speziato. Il modo più semplice e usuale per apprezzarne appieno le tipiche qualità gustative è quello di servirlo come antipasto tagliato a fettine sottili e adagiato su fette di pane ancora calde. È ottimo anche utilizzato per affinare piatti a base di carne, pasta e pesce.

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I Cantoni alpini uniscono le forze

Incontri ◆ Prima donna eletta alla presidenza della Conferenza dei Governi dei Cantoni alpini, Carmelia Maissen, consigliera di Stato dei Grigioni, ne spiega gli scopi e gli obiettivi

Il federalismo è un punto di forza e una particolarità della Svizzera. Ma i Cantoni sono molto diversi fra loro e la stessa Svizzera non è una nazione omogenea. Oltre alle differenze di lingua e di cultura il Paese si distingue per la diversità fra regioni di montagna e zone urbane. I Cantoni alpini rappresentano una realtà particolare e originale. A fine maggio la Conferenza dei governi dei Cantoni alpini (CGCA), nata nel 1981, ha eletto la sua nuova presidente, la consigliera di Stato dei Grigioni Carmelia Maissen, 47 anni della Surselva, prima donna ad assumere la carica.

I Cantoni alpini sono otto e occupano il 43% della superficie della Svizzera, gli abitanti superano il milione, cioè circa il 13% della popolazione svizzera

«Assumo questa nuova carica – ha detto Carmelia Maissen in occasione della sua elezione – con rispetto e impegno. Viviamo in un’epoca in cui si invocano sempre più soluzioni uniformi a livello nazionale, dimenticando tuttavia che la situazione in Svizzera è molto eterogenea e che le soluzioni schematiche sono tutt’altro che efficaci ovunque». Per Carmelia Maissen la regione alpina è stata un filo conduttore della sua carriera: «I Grigioni sono la mia casa, – ci confida – mi appartengono e conosco bene la gente di qui. Questa è stata una forte motivazione che mi ha spinto a tornare e a impegnarmi dopo anni di studio e di lontananza, a Zurigo e Berna. Le nostre regioni possono essere scarsamente popolate o poco strutturate, ma offrono molto spazio di manovra per chi ha nuove idee e progetti».

La CGCA è costituita dai cantoni Grigioni, Ticino, Vallese, Uri, Glarona, Nidwaldo, Obwaldo, Appenzello interno. Questi Cantoni occupano il 43% della superficie della Svizzera, la popolazione supera il milione di abitanti, circa il 13% della popolazione svizzera. Lo scopo della Conferenza è di coordinare e rappresentare le esigenze e gli interessi specifici delle regioni di montagna. Le tematiche principali affrontate sono l’energia, la pianificazione del territorio, il turismo, i trasporti e anche la collaborazione con le regioni di montagna limitrofe.

L’intervento più recente della Conferenza riguarda la gestione del lupo. In vista dell’entrata in vigore della nuova legge sulla caccia, il primo dicembre dell’anno scorso, la CGCA ha presentato un piano per la gestione degli alpeggi di ovini e caprini: «L’obiettivo è di assicurare che tutti gli alpeggi continuino a essere gestiti, sostenuti finanziariamente e a ricevere una consulenza a tutto tondo. Gli alpeggi devono avere un futuro certo anche alla luce della presenza di grandi predatori».

Si sottolinea che esiste in Svizzera un confronto, a volte una contraddizione, tra città e campagna, tra centri e periferie. Cosa ne pensa? «Il contrasto tra città e campagna è una questione che da tempo riguarda la Svizzera. – spiega Maissen – Il rapporto è cambiato nel corso dei decenni e viene percepito sotto aspetti diversi, come contraddizione, competizione, complementarietà o cooperazione. An-

che se l’urbanizzazione è molto forte, l’idea e l’identità della Svizzera sono definite almeno altrettanto fortemente dalle aree rurali e alpine. Considero quindi la relazione tra la regione montana e l’Altopiano centrale anche come un partenariato e un legame importante per la coesione della Svizzera». È vero che la regione alpina ha particolarità e peculiarità che la connotano, ma i Cantoni che fanno parte della Conferenza che lei presiede sono molto diversi: si può lavorare definendo obiettivi comuni? «Come Cantoni alpini, – ci dice la Presidente – condividiamo molte sfide e preoccupazioni comuni. Quando la CGCA è stata fondata nel 1981, l’obiettivo era quello di coordinare le questioni relative all’energia idroelettrica. Oggi si sforza di rappresentare congiuntamente tutte le preoccupazioni e gli interessi specifici della montagna a livello nazionale e internazionale. Ciò include in particolare i temi della pianificazione territoriale e del turismo, dell’energia, della finanza, dei trasporti e della politica estera. Quando uniamo le nostre forze, siamo sempre in grado di far sentire la nostra voce e di esercitare la nostra influenza».

La Conferenza ha chiesto al Forum economico dei Grigioni di preparare un piano di azione per l’area alpina, in sostanza una serie di proposte di integrazione per la politica regionale che la Confederazione dovrebbe mettere a punto.

Nel piano di azione per l’area alpina si mette in guardia Berna che a essere in difficoltà è soprattutto l’area periferica, le valli laterali

Si sottolinea, fra l’altro, che gli «strumenti di incentivazione sinora messi in campo dalle politiche regionali sono, seppur preziosi, insufficienti». Si mette in guardia Berna che «a essere in difficoltà è soprattutto l’area periferica, le valli laterali». Sul piano dei trasporti si rivendica un’ottimizzazione dei collegamenti. Per quanto riguarda il mondo del lavoro va promossa la digitalizzazione che permetta di estendere il lavoro a distanza. La tutela della natura e del paesaggio figurano come un aspetto fondamentale che si riflette anche sul turismo.

Tre temi di attualità

È favorevole agli impianti fotovoltaici in montagna?

Una produzione affidabile di elettricità è importante per l’economia e per la società. È quindi fondamentale ridurre la dipendenza dall’estero. La nuova legge sull’elettricità salvaguarda la produzione invernale e promuove l’espansione dell’energia idroelettrica e dei progetti solari ed eolici di importanza nazionale. I Cantoni di montagna sono quindi aperti a grandi impianti fotovoltaici nelle regioni montane. Tuttavia, essi attribuiscono grande importanza

al consenso obbligatorio dei comuni interessati, che va mantenuto.

È giusto mantenere l’innevamento artificiale?

Nei Cantoni di montagna il turismo, e in particolare quello invernale, è di gran lunga il settore economico più importante. Deve però fare i conti con l’innalzamento del limite delle nevicate e la conseguente diminuzione della neve. Inoltre, oggi i turisti si aspettano piste da sci e da fondo perfettamente battute per tutto l’inverno. Ciò richiede neve ar-

«Il piano d’azione – spiega Carmelia Maissen – definisce il quadro degli orientamenti strategici per una politica sostenibile della regione montana. Si tratta di proposte da sottoporre all’attenzione del Governo federale. Le proposte si concentrano quindi su ambiti che la Confederazione può influenzare. La regione montana non è un’area omogenea e i singoli orientamenti possono avere un’importanza diversa nelle diverse regioni, al fine di rafforzare lo sviluppo sostenibile in tutte le sue dimensioni. Dagli anni 70, il telelavoro è stato la grande speranza della regione alpina, ma non si è mai concretizzato. La pandemia ha dato nuovo impulso alla questione. La digitalizzazione si è ormai affermata nel mondo del lavoro. È un’opportunità per la regione montana se riusciamo a creare condizioni attrattive per il lavoro da casa o digitale». Lei è figlia di un politico di lungo corso, Theo Maissen, che è stato consigliere agli Stati dal 1995 al 2011. La passione per la politica è nata in famiglia? «Discutere di politica a tavola è sempre stato un aspetto della nostra vita famigliare. Anche mia madre era politicamente attiva. I nostri genitori

ci hanno insegnato come impegnarci nella comunità, avendo piacere di essere attivi nella nostra realtà». Carmelia Maissen è stata sindaco del comune di Ilanz Glion e contemporaneamente membro del Gran Consiglio grigionese dal 2018 al 2022, in rappresentanza del partito del Centro. Si è laureata in architettura al Politecnico federale di Zurigo con una tesi sul tema dello «Sviluppo degli insediamenti nei Grigioni durante il dopoguerra». Dall’anno scorso fa parte del governo dei Grigioni in qualità di direttrice del Dipartimento infrastrutture, energia e mobilità. Così si esprime sui drammatici eventi che hanno coinvolto la Mesolcina: «Il maltempo in Mesolcina e le sue tragiche conseguenze ci hanno mostrato ancora una volta la potenza delle forze della natura. Il mio pensiero va alla popolazione colpita, alle famiglie in lutto e a tutti i servizi di emergenza che hanno dato il meglio giorno e notte. Numerosi specialisti del Cantone sono intervenuti sul posto a sostegno della regione e dei loro abitanti e ora saranno coinvolti anche nei lavori di bonifica e di ricostruzione».

tificiale, che può essere prodotta in modo molto più sostenibile grazie agli sviluppi tecnologici. Se però una località turistica si trova a un’altitudine dove non nevica regolarmente, è necessario un ripensamento. Una maggiore attenzione alle offerte estive o alle offerte alternative in inverno può portare a un riorientamento strategico.

La Lex Weber deve essere allentata?

La legge sulle seconde case è ormai una realtà da anni. I cantoni e i co-

muni applicano la legge e l’industria edilizia si è adattata. In questo senso, tutti gli interessati hanno imparato a convivere con la legge. Tuttavia, l’attuazione ha anche dimostrato che la legge è molto complicata e talvolta richiede chiarimenti. Alla fine dell’anno scorso, il Parlamento federale ha quindi deciso una piccola revisione (mozione Candinas), sostenuta dai Cantoni di montagna. Non si può però parlare di un allentamento generale o di un «indebolimento» della legge sulle seconde case.

Carmelia Maissen. (CGCA)

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A difesa della fragilità degli anziani

Medicina ◆ Una campagna dell’Ufficio prevenzione infortuni contro il rischio di caduta a domicilio o durante il ricovero ospedaliero

«Ogni anno circa 90mila persone anziane cadono e riportano ferite talmente gravi da richiedere un trattamento medico o cure ospedaliere, e oltre 1600 persone sopra i 65 anni perdono la vita per le conseguenze di una caduta». Questi i dati dell’Ufficio prevenzione infortuni (Upi) a sottolineare come le cadute rappresentino una delle principali sfide per la salute pubblica, a causa delle conseguenze d’infortunio spesso devastanti delle persone colpite che si traducono in: «Lunghe degenze in ospedale, limitazione della mobilità, perdita di autonomia o il trasferimento precoce in una casa per anziani».

Oltre alle sofferenze personali, generano costi annuali dell’ordine di miliardi. Queste le ragioni che hanno indotto l’Upi a lanciare la campagna «StopCadute» che nella sua fase pilota (fra il 2019 e il 2022) era sistematicamente finalizzata a integrare una prevenzione interprofessionale rivolta alle persone sopra i 65 anni nell’assistenza sanitaria di alcuni Cantoni pilota (San Gallo, Berna, Grigioni e Zurigo).

In concreto, sono stati coinvolti tutti i principali specialisti e le specialiste dell’assistenza sanitaria (studi medici di prossimità, fisioterapia ed ergoterapia, assistenza e cure a domicilio, cure infermieristiche, farmacie, organizzazioni specializzate e di formazione) per garantire una collaborazione ottimale nella procedura uniforme creata a uso del personale sanitario.

Per prevenire occorre identificare il rischio, chiarirne l’entità e ridurre il pericolo di caduta con misure mediche e non

Tre i punti salienti della normativa su come prevenire attivamente le cadute dei pazienti: «Identificare il rischio di caduta tramite domande chiave e test di screening; chiarirne l’entità del rischio tramite accertamenti e valutazioni e ridurre il rischio di caduta con misure mediche e non mediche». Tutto poggia sulle solide evidenze scientifiche dello studio di Steffeni Niemann (e altri co-autori) pubblicato dall’Upi nel 2022 con il titolo Panoramica dei fattori di rischio e interventi vari all’interno della «Statistica degli infortuni non professionali e del livello di sicurezza in Svizzera», partendo dal fatto che in Svizzera non passa giorno senza che si verifichino incidenti o infortuni non professionali «benché spesso senza conseguenze di rilievo, per 40mila casi all’anno l’esito è grave e per 2400 addirittura letale. Cifre, queste, che nascondono destini umani e costi per 12 miliardi di franchi» Eppure, molti di questi infortuni si possono evitare conoscendo la reale dimensione del problema e adottando le misure atte a prevenirlo. «Anche nell’ambito ospedaliero, le cadute rappresentano un problema già solo perché aumentano giorni di degenza e costi. Quindi, una buona prevenzione non solo preserva il paziente dalle conseguenze di una caduta, ma comporta anche buoni risparmi». Pure per il direttore sanitario della Clinica Ars Medica di Gravesano Claudio Camponovo (specialista in medicina d’urgenza e in anestesiologia), il perno della soluzione è rappresentato dalla prevenzione della quale, spiega, oggi si tiene molto più conto di un tempo già a partire dalla procedura di ammissione di ogni paziente,

a maggior ragione se sopra i 65 anni: «La tappa del pre-ricovero è fondamentale nella procedura di ammissione del paziente per la quale si è creata la figura del “case manager”: un infermiere appositamente formato che prende a carico il paziente anziano, parla con lui, analizza tutti i suoi dati e l’anamnesi raccolta con cui crea una valutazione del rischio di caduta individuale, tenendo altresì conto di eventuali test mirati su patologie individuali e farmaci assunti». Una figura fondamentale, secondo lo specialista, per svolgere la quale il personale «va adeguatamente formato e preparato».

Altro punto saliente riguarda l’identificazione, sempre in fase pre-ricovero, del cosiddetto paziente a rischio: «In prospettiva di un intervento elettivo (ndr: programmato), il medico deve prepararlo al meglio con anamnesi e un accurato esame fisico per individuare eventuali punti deboli che, nel paziente anziano, possono influire sulla perdita di equilibrio o disorientamento che potrebbero a loro volta provocare una caduta: pensiamo a patologie neurodegenerative, o altre pregresse, e la poli-farmacoterapia: tanti farmaci assunti possono interagire fra loro e influire sulla sua lucidità, sulla pressione arteriosa e sulle sue capacità di coordinamento». Il medico anestesista gioca un ruolo molto importante nell’accoglienza e nella conoscenza del paziente che dovrà essere operato, ma dovrà essere comunque «in rete» con medico di famiglia e chirurgo: «Nella visita pre-operatoria, il compito dell’anestesista è come fra l’incudine e il martello: da un lato c’è il chirurgo che pensa all’intervento, dall’altro la minuziosa valutazione del paziente (per la quale è importante condividere la sua profonda conoscenza del medico di famiglia). Quindi, per prevenire il rischio di caduta, il paziente deve giungere all’operazione chirurgica nelle migliori condizioni psicofisiche». Un esempio su tutti è il protocollo della gestione del sangue a uso di interventi di ordine medio-grande che presentano un rischio di sanguinamento, ovvero il «Patient Blood Management (PBM)», un approccio medico focalizzato sull’ottimizzazione dell’uso del sangue nei pazienti: «L’obiettivo primario del PBM è massimizzare l’emoglobina del paziente, riducendo al contempo la necessità di trasfusioni di sangue, quando possibile». Lo specialista spiega che ciò si applica attraverso strategie come la diagnosi e il trattamento precoci dell’anemia,

l’ottimizzazione della coagulazione del sangue e l’uso appropriato di suoi derivati: «In sostanza, il PBM mira a migliorare la sicurezza e i risultati dei pazienti, riducendo al minimo l’uso di sangue e i rischi associati alle trasfusioni. Ciò favorisce le degenze più corte, una mobilizzazione precoce e pazienti più in forma: tutto a beneficio della diminuzione del rischio di caduta dovuto a malessere, disorientamento, debolezza e via dicendo».

Rischio che potrà ulteriormente essere contenuto durante la fase intra-operatoria, quella del risveglio e del rientro in camera: «Il giorno dell’intervento eliminiamo temporaneamente quei farmaci che possono causare ipotensione, e ci adoperiamo per mantenere il paziente il più stabile possibile durante l’operazione. Non dimentichiamo che la scarsa perfusione cerebrale del paziente ipoteso è la causa principale del suo stato confu-

sionale nel periodo post-operatorio, che potrebbe portarlo a volersi alzare e, di conseguenza, perdere l’equilibrio e cadere».

Attenzione anche al ritmo sonno-veglia: «Un equilibrio che va favorito soprattutto nell’anziano, per cui un occhio vigile da parte del personale, anche durante la notte, permette di arginare quel naturale disorientamento di chi non è nel proprio ambiente famigliare e si potrebbe confondere, e spaventare provando ad alzarsi da solo; cosa che, ovviamente, va evitata». Un aiuto arriva anche dalla tecnologia moderna: «Esistono dispositivi indossabili dal paziente (braccialetti, cinture o cerotti) in grado di segnalare i suoi movimenti e la posizione, che inviano notifiche in tempo reale al personale in caso di situazione a rischio».

Personale formato, competente e attento, interdisciplinarietà fra medici per la presa a carico elettiva pre-intervento, attento monitoraggio intra-operatorio, sorveglianza al risveglio e accompagnamento post-operatorio nel reparto di degenza sono le tappe essenziali alla prevenzione di caduta del paziente in età in corso di degenza: «Coadiuvati preferibilmente da una presa a carico di riabilitazione ambulatoriale, laddove possibile, nell’ottica di evitare un disorientamento dell’anziano dovuto a un’ulteriore degenza».

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Sfogare la rabbia in una stanza

Psicologia ◆ In molti Paesi, Svizzera compresa, le rage rooms si sono moltiplicate: a frequentarle sono soprattutto le donne Ne abbiamo parlato con lo psicoterapeuta Alessandro Motta

La rabbia è un’emozione intensa e spesso fraintesa, che gioca un ruolo importante nel nostro benessere psicologico. Più precisamente, fa parte delle emozioni primarie, quelle cioè che sono innate e universali, ed è primordiale, in quanto determinata dall’istinto di difendersi per sopravvivere nell’ambiente in cui ci si trova. La si sperimenta, per esempio, nel momento in cui si percepisce un ostacolo nel raggiungimento di un obiettivo oppure si considera una persona responsabile di averci procurato un danno. La percezione di ingiustizia o disuguaglianza è un fattore scatenante comune, come lo sono i conflitti interpersonali. Pure vivere costantemente situazioni di stress può portare a un senso di frustrazione e rabbia.

Quando proviamo questo tipo di emozione il sistema nervoso simpatico si attiva, rilasciando adrenalina e noradrenalina, ormoni che preparano il corpo alla «lotta o alla fuga», aumentando frequenza cardiaca, pressione sanguigna e respirazione. Di conseguenza la nostra reazione a livello fisico può essere quella, per esempio, di tirare un pugno o rompere un oggetto. A livello psicologico spesso si avverte invece una forte irritabilità o un senso di frustrazione. La mente può diventare meno lucida, portando a reazioni impulsive o verbalmente aggressive.

A livello psicologico è importante che la rabbia non resti confinata all’interno di una rage room ma possa essere compresa ed espressa

Si capisce così perché si tenda a percepire la rabbia come negativa, socialmente sbagliata e riprovevole. «La rabbia, come l’invidia e l’aggressività, sono emozioni scomode che molti rifiutano di avere o di vedere – afferma lo psicologo e psicoterapeuta Alessandro Motta – in realtà di per sé di cose negative la rabbia non ne ha, a meno che non venga usata per nuocere a sé stessi o gli altri; è un motore, e senza motore non si va da nessuna parte». Per spiegare il suo concetto, lo psicoterapeuta parte dal padre della psicanalisi: «Freud distingueva due grandi pulsioni, la libido e la pulsione di morte. La prima – che fa corrispondere alla sessualità unita all’affettività, all’amore quindi – contiene in sé l’idea della “realizzazione”, come cioè una persona riesce a realizzare qualcosa nella propria vita. Questo ci porta a un concetto molto importante, quello dell’“impasto pulsionale”, il quale prevede che la pulsione di vita – la libido – abbia bisogno per una sua realizzazione positiva di intrecciarsi con la pulsione di morte, e cioè con emozioni connotate negativamente come aggressività, odio e rabbia». In un modo apparentemente paradossale Freud ci dice così che non si può costruire nulla senza la voglia di distruggere, come dicono i giovani d’oggi di «spaccare». «L’uso di questo verbo esprime proprio il concetto che, per realizzare qualcosa, bisogna far entrare in campo la voglia di distruzione – commenta Motta – per questo motivo è importante riuscire a esprimere la rabbia e, per noi psicologi, sentirla di più equivale a salute, di meno – potenzialmente – a patologia». Non riuscire a dare uno sfogo adeguato, seppur soggettivo, alle proprie emozioni negative, può rendere infelici e insoddisfat-

ti e pure nuocere alla salute. «Inoltre, come diceva Jung, ogni problema non risolto dei genitori tende a tramandarsi come problema da risolvere per i figli – aggiunge lo psicoterapeuta – nel caso specifico, un genitore che ha problemi a entrare in contatto con la propria rabbia, difficilmente tollererà quella del figlio e sarà in grado di educarlo a canalizzarla in modo costruttivo, trasformandola in una forza propulsiva per il cambiamento».

Oggi per «tirar fuori» la rabbia c’è una possibilità in più, chiamata rage room o «stanza della rabbia», degli spazi progettati per spaccare oggetti di vario tipo, un po’ per gioco e un po’ per sfogo, in sicurezza, alleviando stress e frustrazioni. In Svizzera ne esistono attualmente una a Frauenfeld, nel Canton Turgovia, e una a Cernier, nel Canton Neuchâtel. Una nuova apertura è prevista per l’estate, nella Svizzera tedesca. In Italia le rage rooms – dette anche anger rooms o smash rooms – si stanno diffondendo, soprattutto nelle grandi città, tanto che esiste già uno smartbox loro dedicato.

L’origine di queste stanze si deve ad alcune grandi aziende nipponiche che hanno così voluto dare l’opportunità a manager e dipendenti di scaricare le tensioni in un modo e in un luogo controllati. Negli Stati Uniti – dove il business delle rage room è in crescita –vengono usate, anche, per rafforzare lo spirito di squadra e aiutare i dipendenti a sfogare rabbia e stress. E sono numerosi i Paesi nei quali negli ultimi dieci anni le stanze della rabbia hanno fatto la loro comparsa.

Come si commenta, quindi, il loro successo? «In modo positivo direi, in quanto si tratta di uno strumento in più e anche migliore rispetto, per esempio, ad un allenamento di boxe, per sfogare la rabbia, essendo strettamente collegato proprio con la distruzione. Questi luoghi, inoltre, diventano una maniera socialmente accettabile di esprimere e di agire cose che sono dentro di noi», afferma Alessandro Motta. A una stanza della rabbia ci si presenta infatti previo appuntamento, in genere da soli, anche se alcune strutture prevedono la possibilità di esperienze in coppia o di gruppo. Dopo una breve istruzione circa il regolamento e l’uso corretto del luogo, il personale fornisce ciò che serve a distruggere (mazze da baseball, ferri da golf, piedi di porco e simili), il vestiario antinfortunistico (casco, guanti, occhiali protettivi e protezioni per il corpo) e il kit degli oggetti da rompere (bicchieri, stampanti, televisori, quadri e altro ancora). Dopodiché comincia la «sessione» vera e propria, che dura dai 15 minuti in su. Una musica ad alto volume, spesso hard rock, fornisce ulteriore carica ai partecipanti, oltre a fare da sottofondo a piatti che volano, monitor presi a mazzate e bottiglie ridotte in frantumi. Non è consentito distruggere né manomettere il locale, che in genere è una stanza di una quarantina di metri quadrati, rivestita di pannelli fonoassorbenti e protettivi. Per il resto tutto è lecito: gridare, dire parolacce o inveire contro chi si vuole e, a volte, pure portare da casa oggetti che si desidera frantumare assieme a quanto fornito. Un addetto controlla attraverso telecamere il rispetto delle norme e supervisiona il cliente, che dev’essere maggiorenne e in buone condizioni di salute. Tendenzialmente chi decide di andare in una anger room lo fa o per fare un’esperienza sui generis o per sfogare

la rabbia accumulata. In un articolo dedicato da «il Post» a questo fenomeno, dei gestori di una struttura milanese riferiscono che chi ci va per la prima volta all’inizio sembra in genere un po’ stranito e in imbarazzo, forse a causa di pregiudizi sociali e culturali che ci portano a concepire la distruzione come un tabù o un’azione illecita. Una volta usciti, tutti commentano però positivamente l’esperienza. Sempre su «il Post» si legge che sia negli Stati Uniti sia nel Regno Unito è stato osservato come il target dei fre-

quentatori sia costituito prevalentemente da donne, tendenza confermata anche da gestori italiani. A proposito, uno studio condotto nel 2015 dall’Università statale dell’Arizona in collaborazione con l’Università dell’Illinois a Chicago evidenziava come le donne tendano a essere giudicate più negativamente rispetto agli uomini quando esprimono rabbia. Le rage room potrebbero quindi essere da loro percepite come luoghi idonei a sfogarsi, in quanto non viste, sentite né giudicate.

L’idea che sfogare le emozioni – la

rabbia nello specifico – attraverso il corpo possa avere effetti positivi non è di per sé nuova. È quello che in fondo avviene, banalmente, con l’attività fisica. Nel caso delle stanze della rabbia, chi le ha provate riporta che la sensazione, nell’immediato, sia elettrizzante, distensiva e liberatoria. «Se sfogare la rabbia è sicuramente meglio che tenersela dentro, uno dei limiti di tali stanze è che si possa essere portati a vederle come una soluzione a quello che si sente», commenta Alessandro Motta. Invece il senso di soddisfazione che si prova nello spaccare degli oggetti è temporaneo e dovuto alla stimolazione della produzione di ormoni legati al piacere come la dopamina e le endorfine. «Quello che sarebbe importante, da un punto di vista psicologico, è che la rabbia non resti confinata all’interno di una rage room ma possa essere dapprima compresa e successivamente espressa al servizio della persona per fare in modo che realizzi le cose che desidera nella propria vita», continua lo psicoterapeuta. Le rage room possono quindi essere un’utile valvola di sfogo per chi già è in contatto con le proprie emozioni ed è in grado di gestirle. Se così non fosse, l’ideale sarebbe intraprendere un lavoro sulle proprie emozioni, nel quale una stanza della rabbia potrebbe essere un tassello.

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Vite da ridere (o quasi) ◆ Gene Wilder ha reso credibili personaggi tanto pacati quanto frustrati o folli

Il nostro percorso lungo il viale dei ricordi dei grandi della comicità mondiale, partito dal Buster Keaton britannico, Marty Feldman («Azione» del 06 maggio 2024), non poteva che condurci immediatamente a Gene Wilder, che nel nostro immaginario è quasi un tutt’uno con la maschera inglese.

Gene è stato un rarissimo esempio di artista della risata tanto raffinato quanto esplosivo. Sotto quel suo proverbiale casco di riccioli indomabili, il suo sguardo rende credibili personaggi tanto innocenti quanto maliziosi, tanto pacati quanto soggetti a improvvisi scatti d’ira, di frustrazione o follia. Non a caso viene scelto da Woody Allen per una parte che lui solo può interpretare: «Ancor prima di leggere la sceneggiatura (di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere, ndr) sapevo perché voleva me: un attore che riuscisse a innamorarsi di una pecora in modo credibile e a recitare bene la parte».

Nato Jerome Silberman a Milwaukee nel ’33 da una famiglia di ebrei russi, ha modo di mettere a punto le sue raffinate capacità recitative nel Gotha delle accademie di recitazione, l’Actor’s Studio. In questa occasione è talmente riluttante a essere presentato agli altri celebri attori ammessi, che cambia il suo nome in Gene Wilder. Gene e Jerome continueranno ad albergare insieme sotto quei folli riccioli, per anni e anni, fino alla fine. Il fardello che Jerome si porterà dietro per tanti anni è il senso di colpa, del tutto immotivato, per la salute cagionevole della madre. Che diritto ha a essere felice se non può esserlo sua madre? Per anni, così, è perseguitato da quello che definisce il suo «Demone», ovvero un’improvvisa compulsione a pregare che può coglierlo ovunque. Ma per aggiungere al danno la beffa, il Demone lo costringe a pregare il Dio «sbagliato», quello cristiano. È così che, come spesso accade, stare sul palco diventa una maniera per salvarsi da sé stesso.

Tuttavia a teatro spesso le sue esibizioni vengono applaudite con entusiasmo da platee che vedono nella sua recitazione una comicità di cui Gene non è consapevole. La sua frustrazione di seminare lacrime e raccogliere risate viene lenita da un incontro fondamentale, quello con Mel Brooks, che ricorderà: «Anne, che recitava con Gene a teatro nella pièce brechtiana Madre coraggio, mi disse di tener d’occhio il giovanotto che recitava nel ruolo del cappellano perché pensava che sarebbe stato perfetto per un altro personaggio, Leo Bloom, che stavo scrivendo all’epoca per il mio primo film, Per favore, non toccate le vecchiette. Mi disse: “Osservalo bene. È il ritratto dell’innocenza”». Quando alla fine

i due si incontrano sarà proprio Mel a fargli far pace col proprio talento: «Dio ti ha donato un singolare talento. Sei un attore seriamente divertente».

La frustrazione di seminare lacrime e raccogliere risate viene lenita da un incontro fondamentale, quello con Mel Brooks

Ma i «singolari talenti» di Gene e Mel stentano inizialmente a far breccia nel grande pubblico. Fino alla vigilia del primo giorno di riprese di Frankenstein Junior (1974) né i cinque film precedenti con Gene protagonista (compreso il «suo» iconico Willy Wonka che resisterà a qualsiasi tentativo di scalzarlo dalla memoria collettiva dei remake successivi), né i due di Mel come regista hanno fatto guadagnare a chicchessia un penny che sia uno.

Quando iniziano le riprese del capolavoro cinematografico per il quale entrambi verranno maggiormente ricordati, persino la sua caratteristica estetica più significativa, l’essere in

bianco e nero, è a serio rischio. Nonostante questa scelta sia stata avallata dalla produzione, la forza dei due è lungi dal poter resistere a un eventuale voltafaccia, che avvertono non solo come probabile, ma come imminente. Come in tutte le favole che si rispettano, ecco, però, il miracolo: mentre Aigor azzanna il pellicciotto di Elizabeth e si sbraccia indicando ululì e ululà, nelle sale esce Mezzogiorno e mezzo di fuoco, la parodia western girata immediatamente prima da Mel sempre con Gene tra i protagonisti. È un inaspettato, clamoroso, deflagrante trionfo: davanti ai cinema si formano file interminabili e alla fine il film guadagnerà qualcosa come 120 milioni di dollari. Il pericolo è passato: il progetto Frankenstein Junior è ormai «blindato» e pronto ad affrontare 50 anni di ininterrotto successo.

Tanto del successo di Frankenstein Junior è merito proprio di Gene, che ne firma il soggetto e la sceneggiatura (quest’ultima in collaborazione con Brooks) e non a caso il suo Frankenstein è l’archetipo perfetto dei suoi personaggi cinematografici: serio, pacato,

romantico, sognatore e… completamente pazzo! Un mix che ritroviamo – con diversi dosaggi – nei personaggi che interpreta successivamente: Il Fratello più furbo di Sherlock Holmes (1975), Wagon-lits con omicidi (1976), Il più grande amatore del mondo (1977), Scusi, dov’è il West? (1979).

La sequela di successi si completa in coppia con la sua vera e propria antitesi, lo stand-up comedian di colore Richard Pryor. I due si incontrano per la prima volta sul set di Wagon-Lits con omicidi, diretti da Arthur Hiller. Sono due artisti all’opposto: tanto Gene è affidabile e professionale, tanto Rich si porta dietro la nomea di funestatore di set a tal punto che la sua scrittura rimane fino all’ultimo in forse. Ma la Dea Bendata ci vede sempre benissimo e alla fine i due reciteranno insieme, andando a formare negli anni a venire una delle grandi coppie comiche cinematografiche della storia di Hollywood: «…durante le riprese Richard diceva battute fuori dal copione e a me, che non avevo mai improvvisato su un set, le risposte uscivano dalla bocca spontaneamente. Del resto lui

era avvezzo a lavorare in questo modo grazie alla lunga gavetta nei club e durante i concerti. […] Sotto questo profilo fu il mio mentore: niente pensieri, soltanto risposte immediate e istintive».

La sua carriera procede con alterne fortune. Vive una tormentata storia d’amore con la splendida comedian del Saturday Night Live Gilda Radner, che perderà, pochi anni dopo il loro matrimonio, per un tumore. Il flop di Luna di miele stregata, proprio in coppia con Gilda, affonda a metà anni Ottanta la sua carriera di regista, mentre quella di attore andrà avanti fino al 1991. Come mi confesserà anni dopo in un’intervista, «non mi sono mai ritirato, ma finora (2010, ndr) non mi è stato più proposto un ruolo adatto». Nell’attesa, i ruoli che vuole per sé stesso – troppo complessi e sfumati per le commedie americane post anni Ottanta – li metterà su carta per i suoi romanzi, regalandoci piccole perle di romantico umorismo. Dimostrando, alla fine, come abbia imparato davvero a reagire ai colpi del Destino «con calma, dignità e classe».

Gene Wilder in Willy Wonka. È vero: «si può fare». La frase associata per sempre al raffinato attore è anche l’emblema della sua natura contraddittoria di uomo e artista. (Leonardo Rodriguez)
Carlo Amatetti

Dalla cultura popolare fino ai grandi dibattiti

Editoria ◆ L’astuccio di Sebastiano Caroni e la presenza pervasiva della teoria sociologica nella vita di tutti i giorni Benedicta Froelich

Si sa, quando si parla di discipline considerate «accademiche» (e la sociologia rientra senz’altro tra queste), la reazione immediata del lettore non specializzato è spesso quella di un’istintiva – e, per certi versi, giustificabile – diffidenza, come accade oggigiorno con le branche più specifiche e settarie della cosiddetta non-fiction; in altre parole, è davvero possibile fare di un testo di saggistica un libro che possa attrarre, divertire e, perché no, appassionare anche il lettore casuale? Può un volume legato all’ambito sociologico divenire una lettura se non proprio «d’evasione», almeno compatibile con la fruizione nel tempo libero, anche per chi è esterno all’ambito dello studio accademico?

La risposta ce la fornisce Sebastiano Caroni con il godibilissimo volume, recentemente dato alle stampe da Dadò Editore (ndr: il libro sarà presentato alla Biblioteca cantonale di Bellinzona, martedì 9 luglio 2024 dalle 18.30). Opera che incuriosisce fin dal titolo – La teoria dell’astuccio, arguto riferimento agli studi universitari dello stesso Caroni e all’empirica «classificazione identitaria» da lui ideata nei riguardi dei compagni di corso.

Da tempo collaboratore di «Azione» – e in particolare curatore della rubrica «Tra il ludico e il dilettevole» – per cui costituisce una penna acuta e lucidissima ma, allo stesso tem-

po, scanzonata, Caroni offre con questo libro una miscellanea di contributi pubblicati tra il 2016 e il 2022, incentrati su argomenti molto diversi tra loro, ma legati dall’evidente filo rosso rappresentato dallo sguardo disincantato e analitico del sociologo, in grado di toccare indistintamente qualsiasi ambito – dal costume alle mode più o meno effimere della cultura popolare, fino ad arrivare ad alcuni dei grandi dibattiti che la collettività si trova attualmente ad affrontare.

Suddivisi in sezioni in base a tipologia e argomento, questi scritti agili e accattivanti, a metà strada tra l’articolo di giornale e l’intervento radiofonico, offrono al lettore ampi spunti di riflessione radicati in un’epoca antropologicamente suggestiva come quella che stiamo vivendo, caratterizzata da sconvolgimenti e cambiamenti tanto repentini quanto surreali.

Gli argomenti toccati con tatto e, allo stesso tempo, profondità, da Caroni riguardano tutti noi – chiunque, nella sua vita, si sia mai fregiato del titolo di appartenente al consorzio della società occidentale; del resto, quanto sia facile riconoscersi negli interrogativi suggeriti dall’autore lo dimostra soprattutto la terza sezione del volume, dedicata proprio agli articoli realizzati per «Azione» tra il 2021 e 2022 – i quali, non a caso, hanno usufruito della classificazione all’interno di quell’ambito incredibilmente ampio e

rivelatore che, definito come «tempo libero», è in grado di offrire, forse più di altri, un riflesso impietoso dei vizi e delle virtù impliciti nella cultura e nel sistema di vita attuali.

Ed è proprio sulla linea di confine tra estetica, sociologia e filosofia che Caroni si muove, offrendo commenti attenti e misurati a fenomeni con cui tutti noi, almeno una volta, ci siamo confrontati (e, con ogni probabilità, scontrati). Si passa così dall’influenza assurdamente pervasiva dell’ossessione per i «selfie» e i social network a riflessioni che, prendendo spunto da vari fenomeni mediatici, sottintendo-

no un’analisi delle più intime pulsioni umane (si vedano le acute digressioni tematiche che coinvolgono opere letterarie di successo quali i romanzi distopici di Kazuo Ishiguro e la «trilogia transumanista» di Yuval Noah Harari).

Il denominatore comune – ovvero ciò che davvero si nasconde dietro le nostre predilezioni e abitudini più istintive – viene ulteriormente dipanato nella parte finale del volume, grazie alle interviste condotte da Caroni con personalità a lui affini per sensibilità e attenzione alle fenomenologie tipiche della società odierna:

dall’economista Sergio Rossi alla psicologa Alexandra Horowitz, passando per Nidesh Lawtoo e il suo studio sui comportamenti imitativi; il materiale in campo è davvero sorprendente per varietà e freschezza espressive, nonché per capacità d’intrattenimento – in barba a qualsiasi timore riguardante la natura potenzialmente «settaria» dello sguardo impiegato. E proprio questo, in fondo, sembra essere il messaggio che Caroni vuole trasmetterci con La teoria dell’astuccio: in quanto cittadini, abbiamo la responsabilità di mantenere un atteggiamento consapevole e attento davanti alle mille differenti modalità in cui il cosiddetto sguardo sociologico permea e influenza la vita quotidiana e il contesto in cui ci muoviamo – così da sviluppare uno spirito critico che ci renda attenti e capaci di distinguere le nostre decisioni personali da quanto ci viene invece «suggerito» o imposto tramite gli stimoli esterni e il setting sociopolitico. E dato che non occorre certo respirare «aria accademica» per percepire e interpretare a fondo le sfumature della società intorno a noi, è nostra responsabilità mantenere allenata la capacità di giudizio: un compito in cui testi come questo sono di grande, reale aiuto.

Bibliografia

Sebastiano Caroni, La teoria dell’astuccio, Dadò editore, 2023.

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Generato da Intelligenza Artificiale

Attraverso le foreste primordiali dello Sri Lanka

Reportage ◆ Sul bus 48, dalla stazione di Colombo brulicante di cingalesi anglofoni alle antiche grotte buddiste di Dambulla

Ganesh, sul cruscotto, è avvolto da evanescenti spirali bianche che salgono irregolari; il profumo solletica il naso. La statua emerge da un tripudio di banane votive, e ha delle ghirlande di fiori intorno al collo, che ogni tanto gocciolano, creando invisibili macchioline sul pavimento del bus rivestito a festa, gli interni decorati con plastiche pacchiane e colori sgargianti. È il numero quarantotto. Non quello con la svastica sul finestrino, ma quello parcheggiato dietro.

Di viaggiatrici solitarie nell’«isola risplendente», questo il significato di «Sri Lanka», ce ne sono parecchie. Si muovono in autobus e treni (come quello celebre che divide il Paese in due, e attraversa foreste primordiali e piantagioni ottocentesche di tè nel tragitto da Kandy a Ella), fronteggiando le solite difficoltà dei Paesi asiatici e condividendo le consuete perplessità: i tempi rilassati, la speranza che le indicazioni lette e impossibili da verificare sui siti online siano corrette, i collegamenti alla buona. L’unica eccezione, qui, è la lingua: per una volta, lo spaesato occidentale può rimanere più o meno tranquillo, confidando sull’eredità linguistica lasciata dai coloni britannici succeduti a quelli olandesi e a quelli portoghesi ancora prima. Per questo, anche grazie al fatto che ci siamo preparati bene, individuiamo subito il bus per Dambulla. Basta chiedere informazioni ai cingalesi che si aggirano nella stazione tra i banchetti già sfrigolanti di cibo e i venditori ambulanti che promuovono mandarini a gran voce.

I soffitti delle grotte sono una girandola di decorazioni tanto precise da sembrare un telo dipinto prima di essere appeso

Insperatamente puntuale, il quarantotto parte da Colombo spurgando gas di scarico dai tubi di scappamento. I finestrini sono spalancati e le tendine rosso scuro di dubbia pulizia sbattono invadenti sulle spalle scoperte dei passeggeri, lasciando entrare effluvi che sanno di pesce, fogna e incenso, in un mix già esemplificativo delle sfaccettature dello Sri Lanka. Basta allontanarsi di poco dalla capitale e la natura diventa prepotente, rivelando i verdi accesi delle piantagioni di riso e quelli più scuri delle alte, sottili palme da cocco che ombreggiano le baracche dei contadini.

Il bus attraversa le strade polverose come un miraggio tremulo e ballonzolante, meno rapido di un sogno: gli slogan sulle fiancate che promettono «Turbo» e «Intercooler» sono prontamente disattesi con lentezza e gocce di sudore. La vernice quasi fluo del nostro mezzo contrasta con i colori della natura e il verde degli alberi, pur potendolo definire quasi sobrio in confronto ad altri veicoli in arrivo dalla direzione opposta, decorati con immagini ancora più kitsch dagli echi nazionalisti.

Dai fianchi del quarantotto sporgono tante facce curiose in cerca di un vento che disperda quella foschia di umidità e fumo di carne alla griglia. Facce abituate al calore soffocante. I capelli del conducente sono spazzati dal ventilatore sopra il volante e dall’aria che entra dalle por-

te perennemente aperte. A guardia dell’ingresso, il controllore appeso come un equilibrista resta ben fermo nelle infradito nonostante gli scossoni non ammortizzati. Non ci sono altri stranieri sui sedili stretti: il sito di interesse di Dambulla, quello con le grotte buddiste,

è vicino all’omonima cittadina, e lì non c’è nulla. Solo smog, macchine, veicoli strombazzanti e marciapiedi malmessi che attentano alla vita dei pedoni accaldati. Il bus si ferma: scende il monaco vestito di arancione brillante in prima fila; lo zaino impietosamente maltrattato viene recu-

perato e buttato su un tuktuk, tradizionale risciò a motore. Di nuovo in marcia con il ronzio della motoretta nelle orecchie: pochi chilometri, ed ecco l’ingresso del santuario. È in mezzo alla giungla, con molte scimmie ormai non più intimidite dai turisti. Per arrivare alle grotte, il sacrificio richiesto è quello di una piccola scarpinata: su per i gradini irregolari, tra anziani con i bastoni e viaggiatori che sbuffano sotto l’afa pluviale. A metà della salita, una carezza per gli occhi, un mare verde ondeggia davanti, quasi senza fine, rami a destra e sinistra a fare da cornice oltre il limite delle palpebre. Per un momento lo spiazzo rimane deserto: senza i brontolii dei camminatori, c’è solo il rumore della foresta. Il sole batte sulla faccia, lo stesso che riscalda il pavimento di roccia e pietra, quasi ustionante le piante dei piedi. Per entrare nel sito, le scarpe sono vietate. Le irregolarità del terreno creano un piacere inaspettato, unendo con un filo sottile i camminatori odierni a quelli di secoli

or sono, in un parallelo tra jeans e tonache religiose.

Le grotte meglio conservate e più impressionanti sono cinque: scavate nella roccia nel I secolo a.C., contengono statue e pitture buddiste dai volti rasserenanti. È un’invasione di arancione, giallo, marrone, oro, scacchiere bicolori, offerte di fiori e incensi. I soffitti sono una girandola di decorazioni, così precise che sembra quasi qualcuno abbia dipinto su un telo, per poi appenderlo. Intonaco bianchissimo fuori, semi-buio dentro. Alcune nicchie più piccole sono dedicate alle divinità indù, pochi fedeli vi pregano davanti. Ma Ganesh non c’è: lui ha continuato la sua lenta corsa, omaggiato con frutta tropicale, i fiori ai suoi piedi irrigati con uno spruzzino, sul cruscotto di un bus «Turbo» che arranca su corridoi di asfalto fiancheggiati da banyan e alberi contorti.

Informazioni

Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

Interno di uno dei templi di Dambulla; sotto da sinistra a destra: il bus per Dambulla; ai templi di Dambulla; in basso: Piantagioni di tè a Ella.
Clara Valenzani, testo e foto

Tanti pesciolini in fondo al mar…

Crea con noi ◆ La pesca magnetica per fare un tuffo nell’estate: ecco come realizzare uno dei giochi preferiti dai bambini

Questa settimana vi proponiamo un’attività creativa e divertente ispirata a uno dei giochi preferiti dai bambini: la pesca magnetica! In questo progetto, i bambini utilizzeranno una bacchetta magnetica per guidare i pesciolini tra le onde del mare. Un gioco che sviluppa la motricità fine e offre al contempo un’esperienza sensoriale visiva e tattile grazie a una busta contenente vera acqua, glitter e altri piccoli elementi brillanti. Un tuffo nell’estate dedicato ai più piccoli.

Procedimento

Su un foglio bianco, create un collage utilizzando carte nei toni del blu e del celeste. Ritagliate liberamente diverse onde e applicatele sul foglio con colla bianca o colla a caldo. Iniziate applicando la prima onda a metà del

foglio, poi aggiungete le altre cercando di variare i toni. Rifinite i bordi e, se desiderate, applicate uno strato di adesivo trasparente sul collage. Infine, ritagliate eliminando l’eccesso del foglio bianco.

Ritagliate alcuni pesciolini dai panni spugna, ciascuno di circa 5 cm. Applicate gli occhietti mobili con la colla a caldo e fissate una calamita sul retro di ogni pesciolino. Prestate attenzione alla polarità delle calamite. Prima applicate la calamita sul bastoncino di legno che userete per trascinare i pesciolini, poi fissate le calamite ai pesci nel verso corretto, in modo che i poli opposti si attraggano. Controllate che le calamite siano ben fissate prima di inserirle nella busta.

Prendete la busta per il sottovuoto e inserite una piccola quantità d’acqua, i

Giochi e passatempi

Cruciverba Pare che «Thriller» di Michael Jackson sia l’album più venduto al mondo, ne sono state vendute più di… A soluzione ultimata scopri il resto della frase, leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 5, 7, 2, 5)

ORIZZONTALI

1. Lucio Anneo filosofo e politico romano

6. Molto in francese

7. È tornata... senza torta

9. Prefisso che vuol dire orecchio

10. Voce del tennis

11. Un avverbio

12. Piccole insenature costiere

13. Un ingrediente del panpepato

17. Quelli ghibellini erano a forma di coda di rondine

18. Una consonante

19. Passaggio angusto

20. Assistenza Domiciliare Oncologica

21. Penisola dell’Egitto nord-orientale

pesciolini, qualche cucchiaio di glitter argentati e alcune perline o strass nei toni del celeste (abbiate cura di non inserirne troppi per evitare che i pesci scivolino con difficoltà). Sigillate la busta utilizzando l’apposita macchina per il sottovuoto. In alternativa, se non avete la macchina a disposizione, potete utilizzare una piastra per capelli, ma potrebbero essere necessarie diverse prove per evitare di fondere o forare eccessivamente il sacchetto.

Una volta sigillata la busta, prendete il cartoncino A3 azzurro e incollatevi sopra il collage con le onde. Posizionate la busta con l’acqua sopra il collage e fissate i lati con del biadesivo.

Coprite il biadesivo nella parte inferiore con del cartoncino beige, tagliato in modo da simulare una spiaggia, e aggiungete nel lato superiore un’ulteriore onda azzurra. Fissate tutto saldamente sul cartone in modo da garantire al gioco maggiore stabilità.

Dalle varie carte nei toni del giallo ritagliate i raggi del sole e disponeteli a raggiera sul cartoncino. Rivestite di giallo anche un tappo in metallo e incollatelo al centro dei raggi per creare uno splendido sole.

Completate il gioco realizzando una barchetta di carta partendo da un foglio A5, colorando la bacchetta magnetica che userete per spostare i pesciolini e aggiungendo una cornice utilizzando del nastro adesivo isolante blu. Buon divertimento!

Materiale

• Cartone di recupero 42x30cm

• Cartoncino A3 celeste

• Varie carte nei toni del blu e del giallo

• Pellicola adesiva trasparente

• Sacchetto sottovuoto misura 30x20cm

• Macchina sottovuoto

• Panni spugna

• Calamite

• Tappo di metallo da 8cm

• Glitter argentati, perline e strass celesti

• 2 occhietti mobili piccoli

• Colla a caldo

• Forbici

• Nastro biadesivo e nastro adesivo isolante blu.

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Soluzione della settimana precedente AL BAR – «Mario vuoi una birra?» – «Veramente sono astemio». Resto della conversazione: «SCUSA ASTEMIO, VUOI UNA BIRRA?»

23. Pronome personale

24. Esistono anche gelati...

25. O ffre trattamenti a base di acqua

27. Misura lineare inglese

28. Eccessivi, sproporzionati

VERTICALI

1. La Sharon attrice

2. Ripido, scosceso

3. Un anagramma di Noè

4. Le iniziali dell’attore Solfrizzi

5. Un «cerchietto» che lega...

8. Lo erano Sartre e Pirandello

10. Il mitologico bel giovane

12. Si attacca alla bugia

13. Stretti orifizi

14. Stato dell’Asia

15. Prefisso che vuol dire vino

16. Articolo

17. Fissazioni

19. Un santo che si beve

21. Soia senza una vocale

22. Si dice per esortare

24. Le iniziali dell’attrice Diaz

26. Le iniziali del regista Sorrentino

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

Viaggiatori d’Occidente

In viaggio con l’intelligenza artificiale

Sono uno scrittore di viaggio (o almeno credo). Una decina d’anni fa la storia strampalata di un’avventura con asini e bambini piacque al grande pubblico e mi trovai reclutato, quasi a mia insaputa, nella categoria. Da allora ho scritto altri tre libri di viaggio, parlando della Mancia di don Chisciotte, dei fari della Scozia e dei piccoli cimiteri di campagna. Ora però l’intelligenza artificiale (IA) insidia minacciosa questa mia passione. Mi sono chiesto: chi scriverà in futuro i libri di viaggio?

Di certo i nuovi programmi se la cavano già piuttosto bene con semplici testi turistici. Leggete per esempio questa descrizione della Patagonia dal punto di vista di un viaggiatore: «La Patagonia, la natura selvaggia all’estremità meridionale del Sud America, è il sogno di ogni viaggiatore. Estesa tra Argentina e Cile, offre una miscela surreale di paesaggi:

dalle cime frastagliate delle Ande alle vaste pianure spazzate dal vento e agli azzurri laghi glaciali. Qui l’aria è frizzante e i cieli sembrano estendersi all’infinito. Nella Patagonia argentina si trovano l’impressionante ghiacciaio Perito Moreno e il massiccio mozzafiato del Fitz Roy, perfetti per gli escursionisti e gli amanti dell’avventura. Nella Patagonia cilena, il Parco nazionale di Torres del Paine presenta torri di granito mozzafiato ed ecosistemi incontaminati che pullulano di animali selvatici. Che si tratti di fare trekking attraverso foreste verdeggianti, di navigare accanto a imponenti iceberg o semplicemente di immergersi nella serenità della sua remota bellezza, la Patagonia promette un viaggio indimenticabile attraverso una delle ultime grandi frontiere del mondo naturale». Tolta qualche ingenuità, mica male, vero? Eppure questo te-

Passeggiate svizzere

Le spirali di Carschenna

Lo scampanio bovino, dopo un’oretta di cammino lungo il sentiero romano a nord della Via Mala, mi ricorda la cadenza ciondolante dell’oud di Anouar Brahem. Partecipa, credo, a questo sprazzo di psicoacustica ambulante, l’apparire in mezzo al pascolo, delle rovine della chiesetta di Sant’Albino. Rudere duecentesco in pietra senza più tetto né porte né niente con però ancora molta sacralità. Crap Carschenna: ecco alle 11:34 il cartello cercato, con sotto scritto, Felszeichnungen: incisioni rupestri di cui sono a caccia. Il tesoro, in realtà, sono già forse adesso questi prati-capolavoro non ancora falciati –grazie al cielo – che compongono a inizio giugno il maggengo chiamato Carschenna. Catturo il fragile giallo stropicciato dell’eliantemo maggiore, il blu labiato della Salvia pratensis, il viola intenso della Campanula glomerata, il rosa delicatissimo-distraen-

te della Knautia arvensis nota anche come ambretta comune o vedovella campestre. Quarantanove minuti dopo, salendo in cima al maggengo, entro di nuovo nel bosco di conifere e giù nei prati che guardano verso la Val Domigliasca, tra i tralicci dell’alta tensione, trovo su un masso accanto al sentiero, i primi petroglifi. Scoperti, per caso, nel 1965, da Peter Brosi, ingegnere forestale che stava cercando un punto di misurazione. O secondo alcune voci corse in paese –Sils im Domleschg, sul cui territorio si trovano i dieci massi levigati dal ghiacciaio del Reno dove ci sono le incisioni – da Maria Magdalena Camenisch-Giossi (1926-2020), detta Leni, la pastora che da sempre, portava qui le sue greggi. Ad ogni modo le spirali sfuggono un po’, pensavo più incise in profondità, alcune sono quasi sparite dal passare del tempo e

Sport in Azione

sto è stato creato con la versione base gratuita del programma più noto, ChatGPT.

L’IA è anche molto attenta a usare le giuste parole chiave per guadagnare una buona posizione nei motori di ricerca; dopo tutto, quello è il suo mondo. Se invece le chiedete di descrivere un luogo meno conosciuto, il risultato peggiora, e di parecchio; lo stesso se desiderate un testo ispirato e poetico.

Un buon racconto di viaggio combina di solito quattro aspetti diversi: un punto di vista originale, una selezione sicura delle informazioni, la precisione nella descrizione e l’uso di altri sensi oltre alla vista. Questi però sono solo gli ingredienti, poi tutto viene combinato in una misteriosa alchimia. Torniamo ora in Patagonia con il meraviglioso incipit del più famoso libro di Bruce Chatwin: «Nella stanza da pranzo della

nonna c’era un armadietto chiuso da uno sportello a vetri, e dentro l’armadietto un pezzo di pelle. Il pezzo era piccolo, ma spesso e coriaceo, con ciuffi di ispidi peli rossicci. Uno spillo arrugginito lo fissava a un cartoncino. Sul cartoncino c’era scritto qualcosa con inchiostro nero sbiadito, ma io ero troppo piccolo, allora, per leggere. – Cos’è questo? – Un pezzo di brontosauro. Questo particolare brontosauro era vissuto in Patagonia, regione del Sud America all’estremo limite del mondo. Migliaia di anni prima era caduto in un ghiacciaio, era disceso lungo il fianco di una montagna in una prigione di ghiaccio azzurro ed era arrivato in fondo in perfette condizioni. Qui lo trovò Charley Milward il Marinaio, cugino della nonna…». È tutt’altro livello, chiaro. E allora forse potremmo concludere così:

ChatGPT non può (ancora?) prendere il posto di uno scrittore di viaggio, ma i redattori di siti web e di materiale promozionale turistico in genere non dormiranno sonni tranquilli. Per una frazione del loro costo, ChatGPT può produrre testi sorprendentemente accurati.

O forse non è neppure questo il punto di vista giusto. Perché allora non chiedere direttamente a ChatGPT, se prenderà il posto degli scrittori di viaggio? Ecco la risposta: «Nonostante i miei progressi tecnologici, non intendo sostituire gli scrittori di viaggio, ma piuttosto fornire un supporto aggiuntivo (ricerca e raccolta informazioni, revisione dei testi, traduzione e adattamento per pubblici diversi eccetera). Le storie personali, le emozioni e le esperienze dirette che gli scrittori di viaggio portano nei loro racconti restano insostituibili». Difficile dire meglio.

mi deludono un po’. Felice di ricredermi presto, qualche passo più in giù, con un masso già sacrale di suo al primo sguardo. Al di là delle tante bellissime spirali visibilissime sul suo dorso, per via della sua forma cetacea, squarciata in due concavità longitudinali profonde di un nero lavico. «Gli uomini hanno adorato i sassi soltanto nella misura in cui rappresentavano una cosa diversa dai sassi» rivela Mircea Eliade tra le pagine del suo Trattato di storia delle religioni (1949) nel capitolo Cratofanie litiche, all’inizio della parte Le pietre sacre: epifanie, segni e forme La forma a spirale mi fa viaggiare con il pensiero andando adesso in posti dove non sono mai stato e non so se ci andrò mai un giorno. In Valcamonica, dove c’è la variante labirinto, nel Sahara algerino, zona Tassili Tan Ahaggar, dove un labirinto di spirali viene interpretato tra acqua e cie-

lo: si parla sia di pleiadi che di vortici. Poi, in questa costellazione di spirali incise sulla pietra, ci sarebbe di certo il Mont Bégo nelle Alpi marittime francesi. Eppure, così a pelle, da ignorante in materia, comparando le spirali di Carschenna (1100 m), l’analogia più forte balza agli occhi tra i prati incrinati dalla brezza atlantica della contea irlandese del Kerry, a Derrynablaha. Vagando ora tra linee martellate migliaia di anni fa lungo questo masso qui in alto, tra il corso del Reno posteriore e quello dell’Albula la cui confluenza è laggiù a Fürstenau, conto fino a nove cerchi concentrici e noto alcuni canaletti di raccordo tra le spirali. «Il cui simbolismo è spesso interpretato come espressione di un culto della fecondità e della fertilità» afferma Emmanuel Anati, riferendosi proprio a Carschenna, in L’art rupestre post-glaciare des alpes (2003).

Odermatt & Lobalu due modi diversi per essere eroi

Marco Odermatt è un ragazzo semplice. Parola di chi lo frequenta e lo conosce. Si ritrova comunque inghiottito nello star system. Pochi anni fa non avrebbe immaginato di essere protagonista di una serie di spot pubblicitari accanto all’idolo Roger Federer. Entrambi con smoking e posture che ricordano l’agente segreto più celebre del mondo. Entrambi compiaciuti e divertiti nel loro ruolo di testimonial eccellenti. Pochi anni fa, Marco neppure lontanamente si sarebbe visto quale ospite d’onore al ritiro della Nazionale Svizzera di calcio. Un ospite con licenza di giocare scampoli di partita accanto a Sommer, Akanji, Xhaka e soci. Eppure è andata così. Il fenomeno nidvaldese, anche se il prossimo inverno si ipotizza il ritorno sugli sci del Kaiser Marcel Hirscher, è destinato a firmare nuove imprese, a far vibrare il cuore degli appassionati.

Mentre scrivo queste righe si sta consumando l’elettrizzante rito dei Campionati Europei di calcio. Ignoro se il percorso dei ragazzi di Murat Yakin sia stato lungo e luminoso. Posso solo promettere che, qualora lo fosse, il prossimo numero della rubrica mi vedrà alle prese con superlativi, iperboli e neologismi degni di una celebrazione in grande stile. Ora, il mio pensiero torna ad altri Campionati europei, quelli di atletica leggera, disputati recentemente a Roma. Un’edizione che, in Italia, per alcuni giorni ha allontanato il calcio dalle prime pagine, per fare posto alle imprese dei vari Jacobs, Tamberi, Crippa e Battocletti. Gli azzurri hanno messo al collo 24 medaglie, di cui 11 d’oro. Un’enormità! Allori provenienti prevalentemente da atleti di origine afroamericana. Alcuni sono «prodotti» del movimento atletico italiano, altri freschi di naturaliz-

zazione. La piccola Svizzera, stabilite le debite proporzioni, ha fatto ancora meglio. Quinto posto assoluto, con nove medaglie, quattro delle quali del metallo più prezioso. Anche nel nostro caso c’è stato un predominio degli atleti con radici extraeuropee, grazie alle sorelle Mujinga e Ditaji Kambundji, Christian Mumenthaler, William Reais e Jason Joseph. Angelica Moser, regina nell’asta, e Simon Ehammer, bronzo nel lungo, sono di origine rigorosamente elvetica. A scanso di malintesi affermo di non voler neppure lontanamente chiamare in causa le terrificanti teorie dell’eugenetica. Sappiamo, lo sostengono le ricerche scientifiche, che gli atleti di origine afroamericana dispongono di fibre veloci ed esplosive, e che quelli degli altopiani dell’Africa sono più portati per lo sforzo prolungato. Mi fermo qui. Punto! I successi ottenuti dai nostri atleti so-

no con ogni probabilità il frutto di un capillare lavoro di formazione iniziato anni fa nell’ottica dei Campionati europei del 2014, svoltisi sulle piste e sulle pedane del Letzigrund di Zurigo. In quell’occasione, dopo un periodo di digiuno, la Svizzera salì sul gradino più altro del podio grazie a Kariem Hussein nei 400 ostacoli. E da qui seguì un crescendo continuo. Mi piace sottolineare la multietnicità vincente del nostro sport. La troviamo nel calcio, nella pallacanestro, nel nuoto, e da alcuni anni anche nell’atletica leggera. È il frutto di un lungo e capillare lavoro di assimilazione e di inclusione. Di vita fianco a fianco. Di scambio. Di osmosi. Lo si voglia o no, sarà sempre più così, proprio grazie allo sport. Il lettore più attento si sarà accorto che all’appello mancano due medaglie. Quelle conquistate da Dominic Lobalu, oro nei diecimila, bronzo, nei

Il picnic di oggi è una caprese. Tutto intorno, l’introverso giallo puntinista di tanti botton d’oro. L’unico neo è il ronzio elettrico dei tralicci ad alta tensione. Studiando gli atti di un simposio in Valcamonica del 1970, trovo alcune pagine di Christian Zindel, archeologo cantonale di Coira, riguardo a questi petroglifi. Altri segni che non ho visto, come «due figurazioni di animali, uno dei quali forse montato da un cavaliere» si trovano sulla roccia II. Torno a guardare ma sono preda un’altra volta delle concavità-squarci similvulcanici: il mio sguardo erra ancora sulla schiena del masso e si fissa mesmerizzato tra le spirali. Penso a equinozi e solstizi, alla ciclicità delle emozioni, al dessert previsto per il mio pranzo al sacco di cui mi stavo quasi dimenticando. Torta di pane, da divorare con tutta la calma del mondo, sul ciglio del masso-balena.

cinquemila. Lui non è un «prodotto» del nostro movimento atletico. E non è neppure cittadino svizzero. Si dice che lo potrà diventare non prima del 2031, quando avrà 33 anni. Ne aveva nove quando scappò dagli orrori della guerra nel suo Paese, il Sudan del Sud, dopo aver assistito allo sterminio di parte della sua famiglia. Dopo un passaggio in Kenya, Lobalu è giunto in Svizzera, dove ha ottenuto lo statuto di rifugiato. In virtù dei regolamenti della Federazione Internazionale di Atletica, ha potuto difendere i colori svizzeri e lo potrà fare anche in futuro, ma non ai Giochi Olimpici, poiché sprovvisto di passaporto svizzero. Peccato. Per lui, così serio, impegnato e meticoloso negli allenamenti. E per tutti coloro che si sono emozionati vedendolo compiere il giro d’onore, all’Olimpico di Roma, orgogliosamente avvolto in una svolazzante bandiera rossocrociata.

di Claudio Visentin
di Oliver Scharpf
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ATTUALITÀ

Occhio all’Africa

Dalle elezioni in Sudafrica ai Paesi del continente sempre più amici del potente blocco anti-occidentale

Pagina 21

Parità di genere

No, la situazione delle donne nel mondo del lavoro non è affatto migliorata: lo attesta uno studio di Deloitte

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Regno Unito

Il grande disturbatore della politica britannica Nigel Farage è tornato e ha molte chances di successo

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La difficile partita del federalismo sanitario

Svizzera ◆ In un Paese con 9 milioni d’abitanti 270 strutture ospedaliere sono troppe? Alcuni esperti ticinesi a confronto

Scosse e segnali dal mondo della sanità svizzera. Le scosse arrivano dalle casse malati che giovedì scorso hanno azzerato le loro due associazioni mantello – Santésuisse e Curafutura – per dar vita ad un solo consorzio. Il futuro dirà se questa svolta improvvisa riuscirà anche a frenare la corsa senza fine dei costi sanitari. I segnali invece arrivano da diversi fronti – dalla politica ma anche dal mondo sanitario e della ricerca – e ci pongono una domanda di fondo: c’è troppo federalismo nella sanità svizzera? In altre parole i nostri 26 cantoni e i loro 26 diversi sistemi sanitari rappresentano davvero un modello virtuoso? Oppure c’è urgente necessità di ripensare questa struttura, perlomeno per quanto riguarda le cure ospedaliere? Il tema è di quelli spinosi perché c’è di mezzo l’ampia autonomia accordata ai cantoni in questo ambito. La vicinanza al territorio fa capire le problematiche locali ma in alcuni casi il ricovero in strutture d’Oltralpe è auspicabile

L’argomento interpella direttamente anche gli addetti ai lavori. «È un grande diatriba tra Berna e i cantoni –ci dice Glauco Martinetti, direttore in Ticino dell’Ente Ospedaliero – Personalmente penso che la vicinanza al territorio sia positiva, perché permette di capire meglio le problematiche sanitarie locali. In questo ambito è comunque evidente che i parlamenti dei singoli cantoni si muovono in modo molto regionalista». Il tema riguarda anche i medici, in particolare chi come Jacopo Robbiani, specializzato in urologia, segue da anni l’argomento, a cui ha dedicato anche la propria tesi di Master in economia sanitaria presso l’USI di Lugano.

La qualità e la quantità

«Per alcuni miei pazienti ritengo che il ricovero in ospedali d’Oltralpe sia più appropriato. Nel mio ambito specifico si tratta di interventi programmabili e complessi, molto spesso in ambito oncologico. Stiamo parlando di una casistica limitata, per malattie che però hanno un forte impatto sulla salute delle persone. Il paziente ticinese viene portato in un grande centro e operato con le competenze di questa struttura d’eccellenza. Questo significa cedere anche un po’ del proprio ego, ma lo si fa per il bene del paziente e per accrescere la qualità delle cure». Paziente che però solitamente preferisce il ricovero vicino a casa. «Questo è comprensibile – replica il dottor Robbiani – occorre però capire che il numero di interventi effettuati da un

singolo chirurgo determina in modo molto importante la qualità delle cure. Se il paziente riesce a far propria questa dimensione si rende conto che la vicinanza geografica diventa un elemento marginale. La vera strategia consiste nell’avere dei coordinamenti sovra-cantonali che permettono davvero di creare una concentrazione della casistica. A tutto vantaggio della qualità delle cure». In altri termini i numeri giocano un ruolo fondamentale. «L’EOC non dispone di tutti i mandati specialistici proprio perché non ha i numeri – sottolinea il direttore Martinetti – per questo motivo alcuni pazienti devono essere ricoverati oltre San Gottardo. L’Ente ha sottoscritto un centinaio convezioni, che ci permettono di collaborare con i grandi ospedali svizzeri. In Svizzera c’è comunque un organo di controllo per i mandati altamente specializzati (Mas) che ogni anno verifica il rispetto dei numeri minimi per ogni tipo di intervento. E se un ospedale non riesce a raggiungere queste soglie perde immediatamente la propria certificazione, i controlli sono molto severi in questo ambito. L’EOC raggiunge questi obiettivi, ma in alcune casistiche ha numeri inferiori a quelli di diversi altri cantoni svizzeri. La qualità

delle cure comunque è data. E su questo punto aggiungo anche che, per diverse specialità, ad esempio l’ortopedia, teniamo conto anche dei numeri di ogni singolo chirurgo. Queste verifiche interne supplementari, che nessuno ci obbliga a fare, hanno lo scopo di vigilare ancor più sulla qualità delle cure». Va comunque ricordato che in questi ultimi anni i bilanci degli ospedali chiudono spesso nelle cifre rosse. La sostenibilità finanziaria di molte cliniche è ormai al limite e per alcuni osservatori bisognerà concentrare le risorse

Il federalismo sanitario non andrebbe rivisto anche per questo motivo? Domanda che giriamo a Paolo Bianchi, direttore della Divisione salute pubblica al Dipartimento Sanità e Socialità. «Già oggi i mandati della medicina altamente specializzata sono sottratti alla competenza dei singoli Cantoni e assegnati da un organo inter-cantonale. Anche per prestazioni più ordinarie e interventi più frequenti l’offerta degli ospedali è complementare a livello regionale, penso ai Cantoni della Svizzera cen-

trale o orientale. Questa complementarità è plasmata anche dalle scelte dei cittadini, in queste regioni vi sono in effetti flussi importanti di pazienti che decidono di farsi ricoverare fuori dal proprio cantone di domicilio». C’è però da dire che gli assicuratori malattia dispongono ora del diritto di ricorrere contro la pianificazione ospedaliera dei singoli cantoni, proprio per incanalare il sistema verso una maggiore coordinamento inter-cantonale. Una leva che le casse sono più che intenzionate a utilizzare. «Trovo che questo appello a un maggior coordinamento sia fuori luogo se pensiamo alla realtà geografica e linguistica del Canton Ticino – ci dice ancora Paolo Bianchi – Del resto, solo il 5% dei pazienti ticinesi sceglie di rivolgersi ad una struttura d’oltralpe. Gli assicuratori malattia si sono adoperati per riacquisire questa facoltà di ricorso. È uno strumento aggiuntivo di cui va tenuto conto, ma che non muta l’impegno delle autorità cantonali nel proporre soluzioni equilibrate, nell’interesse dei cittadini sia come pazienti che come assicurati, chiamati a pagare dei premi obbligatori». Resta il fatto che in Svizzera ci sono attualmente oltre 270 ospedali, troppi per un Paese di 9 milioni di abitanti?

per quanto riguarda le cure ospedaliere? Il tema è di quelli spinosi perché c’è di mezzo l’ampia autonomia accordata ai cantoni in questo ambito. (Freepik)

«È evidente che una ristrutturazione del sistema è un’ipotesi del tutto plausibile – dice Glauco Martinetti – se guardo al Ticino devo però dire che all’EOC gestiamo strutture sempre molto piene. Abbiamo un’occupazione che arriva all’80-85%, con picchi del 100% in inverno. Oggi è impossibile pensare di chiudere degli ospedali del nostro ente». Per il dottor Jacopo Robbiani invece «la sostenibilità finanziaria di molti ospedali è ormai al limite, bisogna ricreare una architettura sanitaria differente e rendere più efficace l’organo di controllo per i mandati altamente specializzati, il Mas, che ritengo ormai vetusto. Lo scopo deve essere quello di riuscire a concentrare le risorse, anche umane, in ospedali in cui il numero di interventi sarà più elevato. Nel prossimo futuro dovranno esserci pochissimi HUB ad alti volumi operatori, che forniranno in Svizzera una chirurgia d’eccellenza in grado di formare bravi chirurghi e di essere concorrenziale su scala europea». Pareri a confronto in un ambito delicato, la partita sul futuro del «federalismo sanitario» è aperta. A Berna e ai singoli cantoni il compito di affrontarla alla ricerca anche e soprattutto di un maggiore controllo della fattura

sanitaria.
I nostri 26 cantoni e i loro 26 diversi sistemi sanitari rappresentano davvero un modello virtuoso? Oppure c’è urgente necessità di ripensare questa struttura, perlomeno
Roberto Porta

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L’Africa è cambiata, ve n’eravate accorti?

L’analisi ◆ Grosse svolte nell’ultimo anno all’insegna di meno Europa e meno America, più Russia e più Cina

Se l’attenzione dei media fosse un po’ più equamente distribuita, l’Africa campeggerebbe sulle home page dei siti di notizie e in cima ai sommari dei telegiornali. Il 2023 e la prima metà del 2024 sono stati segnati da avvenimenti che vanno disegnando un’Africa nuova. Diversa tanto per i cambiamenti all’interno dei singoli Stati, quanto per la posizione che il continente occupa sulla scena internazionale, oggi decisamente più rilevante. Alcune novità sono positive per l’Africa; altre no. Tutte insieme compongono un’immagine inedita, che facciamo fatica a costruire nella nostra mente, in ragione della frammentarietà e relativa casualità dell’informazione che arriva fino a noi.

Proviamo a ordinare i fatti. Cominciamo dalle elezioni sudafricane di fine maggio. Per la prima volta in trent’anni, cioè da quando è al potere, l’African National Congress non ha ottenuto i voti sufficienti a governare da solo. Il suo leader Cyril Ramaphosa è stato rieletto dal Parlamento alla presidenza del Paese solo dopo aver formato una coalizione con la Democratic Alliance e due formazioni minori. Il partito che fu di Nelson Mandela ha pagato il conto del suo crescente malgoverno e della corruzione che l’ha animato per decenni. Ha fatto molto per i sudafricani, ma gli elettori erano in diritto di aspettarsi di più.

Perché questo collasso elettorale non è avvenuto prima? Ci si può rallegrare perché la condivisione delle responsabilità di governo è comunque

una vittoria per la democrazia. Ma ora la vita politica sudafricana si sta riorganizzando secondo pericolose linee di faglia etniche e razziali mai sparite. L’opposizione populista radicale degli Economic Freedom Fighters accusa il Congress di essersi «venduto ai bianchi», perché la Democratic Alliance, la cui leadership è da tempo rappresentata da neri, è l’erede dei vecchi liberal di origine britannica. E il nuovo partito dell’ex presidente Jacob Zuma, balzato dal nulla al terzo posto, ha una forte identità etnica zulu. Entrambe le formazioni che dominano l’opposizione – quest’ultima nel nome, i Freedom Fighters nell’abbigliamento – alludono con la loro retorica a un passato di violenza politica.

Considerate anche le difficoltà economiche, il Paese rischia un periodo di crescente instabilità. Ed è un peccato, perché il ruolo del Sudafrica sulla scena internazionale si è affermato negli ultimi tempi, proiettandolo tra i Paesi-guida del «Sud globale», che cerca di ottenere ascolto nell’attuale mondo multipolare. È questo uno degli effetti più significativi delle due maggiori crisi internazionali in corso, Ucraina e Gaza, a noi poco presente e invece molto significativo.

Già nella prima risoluzione dell’Assemblea Onu sulla guerra in Ucraina, nel marzo 2022, con la Russia condannata dalla maggioranza delle nazioni, l’Africa si era smarcata, facendo registrare un numero significativo di astenuti (tra cui lo stesso Sudafrica) e di non partecipanti al voto. Ma l’iniziativa sudafricana più recente e rile-

vante è stata l’aver chiamato in causa il Tribunale penale internazionale con l’accusa di genocidio a carico di Israele, a proposito della guerra a Gaza. Il pronunciamento ha avuto un certo successo, sia sul piano giuridico sia su quello giudiziario, e ha ottenuto ampi consensi da parte del «Sud globale». La portata di queste dinamiche diplomatiche è stata fortemente ampliata da altri percorsi di allontanamento dal campo euro-occidentale, che presto hanno fatto parlare gli osservatori di un nuovo «multiallineamento» africano. Dobbiamo cambiare regione, spostandoci dall’Africa australe al Sahel, in Africa occidentale. Qui, tre Paesi tra di loro limitrofi – Mali, Burkina Faso e Niger – hanno radicalmente cambiato regime nel corso dell’ultimo paio d’anni, attraver-

so colpi di Stato militari. Per tutti e tre, il problema è l’insicurezza causata dal terrorismo jihadista, che semina morte e devastazione nelle campagne e nei villaggi. In successione, generali e ufficiali ora al potere hanno chiesto aiuto alla Russia, attraverso l’esercito privato noto come Gruppo Wagner o direttamente al Cremlino. Al passaggio, hanno cancellato gli accordi di cooperazione militare o di altra natura con la Francia, che in tutti e tre i casi è l’ex potenza coloniale. In Niger c’era anche una base americana, ora invitata a chiudere i battenti. La rottura con la Francia ha assunto qui e là modalità molto aggressive, in un clima di generale ostilità all’Europa e all’Occidente. Ecco il multiallineamento: meno Europa, meno America, più Russia, più Cina (e più Turchia, più India). La

Il rompicapo degli eritrei da rimpatriare

retorica dei nuovi leader con le stellette burkinabe e nigerini è improntata a idee nazionaliste, anti-neocolonialiste, a tratti panafricaniste. Citano Lumumba e altri eroi delle indipendenze. Si considerano alfieri di un nuovo vento di libertà; resta da vedere se i nuovi amici soffieranno nella stessa direzione. Il Senegal ha cambiato anch’esso orientamento e presidente, ma con le elezioni, sta per ora a guardare, con evidente simpatia, i nuovi scenari. Questo riassestamento geopolitico ha generato nel 2022 un frenetico viavai diplomatico, con i ministri degli Esteri americano, russo e cinese impegnati in estenuanti tournée africane. «L’Africa ha il mondo intero in sala d’attesa», ha riassunto un giornalista francese. I leader alzano il prezzo e stanno a vedere chi sarà il miglior offerente (il Kenya, per esempio, ha scelto gli Usa, di cui è diventato il maggiore alleato continentale).

Quali saranno le conseguenze per l’Europa? Lo sapremo presto. I flussi migratori s’intensificheranno. I Paesi saheliani non collaborano più alle strategie di contenimento, e i motivi che spingono moltitudini a cercare fortuna oltre il Mediterraneo non fanno che aumentare. Il cambiamento climatico sta privando della sussistenza milioni di persone. L’inflazione impoverisce intere nazioni (per prima la Nigeria, la più popolosa del continente). La devastante guerra intestina in Sudan –altro frutto avvelenato dell’ultimo anno – genera un fiume ininterrotto di profughi. Converrà dedicare all’Africa maggior attenzione.

Svizzera ◆ Berna dovrebbe concludere un accordo di transito con un Paese terzo ma il regime di Asmara non ci sta

Luca Beti

A Berna, i politici hanno perso la pazienza e hanno deciso di dare un segnale alla Segreteria di Stato della migrazione (SEM), tacciata di inattività e mancanza di volontà sulla questione eritrea. Lunedì scorso, il Parlamento ha incaricato il consigliere federale Beat Jans di trovare una soluzione per il rimpatrio dei richiedenti eritrei la cui domanda d’asilo è stata respinta. L’idea, lanciata dalla senatrice liberale radicale Petra Gössi, è di rinviarli dapprima in un Paese terzo, con cui la Svizzera ha concluso un accordo di transito, e poi di rimpatriarli nel loro Stato d’origine. La proposta non intende trasferire la procedura d’asilo all’estero, bensì inserire una tappa intermedia nel loro viaggio di ritorno. Dopo il Consiglio degli Stati, anche la Camera del popolo ha approvato con 120 voti a favore e 75 contrari la mozione . La maggioranza, composta da parlamentari di UDC, PLR e Alleanza del Centro, è rimasta sorda all’invito del ministro di giustizia e polizia di bocciare la proposta: il regime di Asmara continuerà a negare il rimpatrio forzato di propri cittadini. Stando a Jans, questa decisione non cambierà, nemmeno passando da un altro Stato africano. Ricordiamo che il ritorno volontario è possibile; dal 2014, le persone che hanno scelto questa opzione sono poco più di un centinaio. In Parlamento si è consapevoli che questa idea difficilmente riuscirà a sbloccare la situazione. La

stessa Gössi ha ammesso che l’obiettivo è dissuadere i richiedenti l’asilo dal mettersi in viaggio verso l’Europa. La decisione va quindi intesa come un voto di sfiducia nei confronti della politica d’asilo della SEM, accusata di non impegnarsi sufficientemente per il rimpatrio degli eritrei. Ma Beat Jans ribatte che dal 2000 la Svizzera ha negoziato accordi in materia di migrazione, quindi anche di riammissione, con 66 Stati, tra cui 14 con Paesi africani.

Nel dibattito è stata citata l’intesa di una ventina di anni fa con il Senegal, un accordo che però non è mai entrato in vigore poiché il Paese africano lo ha rifiutato. E ora con quale Stato confinante con l’Eritrea dovremmo negoziare un accordo di transito? L’Etiopia, con cui è ai ferri corti, il Sudan in guerra civile, o Gibuti? O il Ruanda, che dista più di 2000 chilometri dal confine eritreo?

A far perdere la pazienza ai parlamentari non sono stati i quasi 300 eritrei respinti e in attesa di essere rimpatriati, né il numero di domande d’asilo, passato da poco meno di 10’000 nel 2015 a 426 nel 2022. È stata la diaspora eritrea in Svizzera, quella parte attiva politicamente, che conta circa 43’000 persone. Come in altri Paesi d’Europa, anche da noi si sono verificati scontri tra oppositori e sostenitori del regime eritreo. All’inizio di settembre a Opfikon (ZH) si sono affrontate centinaia di persone di nazionalità eritrea. Lo scontro

ha provocato una dozzina di feriti. Un altro episodio simile si è verificato alla fine del 2023 a Grellingen (BL). Il peggio è stato evitato solo grazie a un ingente dispiegamento di forze di polizia.

Ci sono gruppi pro e contro il presidente Isaias Afewerki. Per alcuni è l’eroe che nel 1993 ha portato il Paese all’indipendenza; per altri uno spietato dittatore che da oltre trent’anni governa con il pugno di ferro trasformando l’Eritrea in una prigione, senza libertà di stampa, Costituzione, Parlamento. Da quando è al potere, centinaia di migliaia di eritrei sono fuggiti in Occidente. Secondo gli esperti, la diaspora eritrea si divide tra chi è partito da tempo, quando

Una manifestazione di rifugiati eritrei a Berna. Non sono infrequenti gli scontri interni alla diaspora in Svizzera, tra sostenitori e avversari del presidente eritreo 78enne Isaias Afewerki: per i primi un eroe e per i secondi un dittatore. (Keystone)

Isaisas Afewerki veniva considerato il salvatore della patria, e chi, fuggito per evitare l’arruolamento nell’esercito a tempo indeterminato, lo considera un assassino. Inoltre Afewerki, ormai 78enne, starebbe preparando il passaggio di testimone al figlio maggiore, Abraham. I tafferugli all’estero sarebbero quindi un’avvisaglia di quanto potrebbe succedere in Eritrea alla morte del dittatore. Questi atti di violenza hanno suscitato indignazione in Svizzera. Sono stati presentati atti parlamentari, tra cui il postulato del senatore liberale radicale appenzellese Andrea Caroni, che chiede al Governo una riforma della legge sugli stranieri per sanzionare le persone che commetto-

no violenze per difendere il regime da cui sono fuggite.

La mozione dell’ex consigliere agli Stati Thomas Minder invita, invece, il Consiglio federale ad avviare trattative con l’Eritrea cercando un accordo o un partenariato in materia di migrazione. Pur condividendo la richiesta di Minder, il Governo ricorda che l’Eritrea rifiuta categoricamente i rimpatri coatti e quindi anche un’intesa di riammissione. Gli sforzi diplomatici non hanno favorito passi avanti. Anche il tentativo di aprire uno spiraglio per futuri negoziati con iniziative promosse dalla Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) non ha portato a una soluzione. Dopo aver ridotto nel 2006 le operazioni di aiuto umanitario, nel 2016 la DSC ha lanciato due progetti di cooperazione per promuovere la formazione professionale e dare migliori prospettive di vita ai giovani eritrei in patria. Dopo una fase pilota, conclusasi nel 2019, la Svizzera ha stanziato ulteriori 4,3 milioni per altri quattro anni, fino a settembre 2024. L’Organizzazione svizzera di aiuto ai rifugiati giudica problematica questa collaborazione con l’Eritrea, poiché la cooperazione allo sviluppo non dovrebbe essere motivata da interessi di politica migratoria. Inoltre, c’è il rischio che la cooperazione con il Governo eritreo venga interpretata come un’approvazione delle sue politiche e come una rinuncia a criticare le violazioni dei diritti umani.

Kinshasa: la sagoma del monumento all’eroe indipendentista Lumumba, una figura che oggi torna a ispirare gli africani in chiave anti-neocolonialista.
(Wikimedia Commons)

SALUTE

Protezione solare

Labbra

Crema solare sulle labbra? Dato che spesso bagniamo le labbra con la lingua, beviamo, mangiamo e poi ci puliamo la bocca, di solito non spalmiamo la crema su questa parte del corpo. Ma le labbra non dovrebbero essere meno protette dal sole rispetto ad altri punti del corpo. Un rossetto con protezione SPF elevata può essere d’aiuto. Se non ne hai uno a portata di mano, dovresti utilizzare una crema solare senza profumo e applicarla regolarmente.

Collo e orecchie

Sono soprattutto le donne che di solito portano i capelli sciolti a dimenticarsi di queste parti del corpo. Se però quando fa caldo li legano in una coda di cavallo, il collo, che per la maggior parte del tempo è protetto dai capelli, è esposto alla luce solare. Ciò lo rende particolarmente soggetto alle scottature. Lo stesso vale per le orecchie. Per proteggere queste zone, è meglio utilizzare una crema solare con un fattore di protezione compreso tra 30 e 50.

Scriminatura

I peli, siano essi capelli o baffi, sono un’ottima protezione solare. L’unica zona problematica della testa è la scriminatura: qui il sole batte sempre sulla stessa area. Per questo motivo, sarebbe opportuno ridisegnare la scriminatura ogni volta in un punto diverso e applicare una protezione solare trasparente e senza grassi con un alto fattore di protezione, che possa essere spruzzata con precisione sulla scriminatura.

Testa rasata

In caso di testa rasata o barba appena tagliata, l’ideale è un fattore di protezione elevato e, in presenza di calvizie, una soluzione tessile aggiuntiva, per esempio un berretto da baseball o un cappello di paglia. I cappelli traforati non sono adatti. Per evitare che la testa rasata brilli, è meglio utilizzare uno spray solare trasparente. Se si usa già una crema solare opacizzante per il viso, si può applicare anche questa.

Piedi

I piedi sono infilati tutto l’anno nelle scarpe, ma quando arriva l’estate, le infradito, i sandali o l’assenza di calzature sono improvvisamente all’ordine del giorno. Il risultato: a un tratto i piedi sono sempre esposti al sole. E pochissime persone pensano di applicarvi una crema. In questo caso è consigliabile un fattore di protezione solare elevato.

Crema solare: le parti del corpo che vengono sempre dimenticate

Pensi di aver spalmato la crema da capo a piedi? Ti sveliamo quali sono le sei parti del corpo che dovresti da subito tenere sotto controllo quando si tratta di protezione solare

Palpebre e sopracciglia

Poiché la crema solare brucia quando entra negli occhi, molte persone evitano di applicarla intorno agli occhi. È un errore, perché il sole arriva direttamente sulla pelle sottile. Gli occhiali da sole con protezione UV possono essere un buon rimedio.

Quando si nuota, tuttavia, gli occhiali da sole spesso non vengono indossati. L’acqua, però, riflette anche i raggi UV. La zona degli occhi dovrebbe quindi essere coperta con un fattore di protezione elevato. Basta procedere con cautela perché gli occhi non brucino.

Testo: Silvia Schütz
Per gli amanti del sole

Dai malus maternità alle micro aggressioni

Parità sul lavoro ◆ Nell’ultimo anno clima ancora peggiorato per i diritti delle donne. Anche in Svizzera

Il 14% delle intervistate per un recente studio globale di Deloitte, denuncia che, nel proprio Paese di origine, i diritti femminili hanno subito un deterioramento nell’ultimo anno. Il diritto ad un salario equo, a vivere senza violenza ed ogni progresso in ambiti come l’accesso sicuro alla sanità e l’autonomia finanziaria, per esempio, appaiono ostaggio di una situazione di contraccolpo, cui vanno ascritti anche i comportamenti ostili, aggressivi e intimidatori che mirano a screditare, interrogare e respingere le conquiste fatte.

Lo studio 2024, quarto di una serie, ha coinvolto 5000 donne di 10 Paesi (Australia, Brasile, Canada, Cina, Germania, India, Giappone, Sud Africa, Regno Unito, USA), con l’obiettivo di monitorare l’esperienza sul luogo di lavoro e gli ostacoli, interni ed esterni all’azienda, che minano le opportunità di crescita professionale.

Il quadro non è incoraggiante e mostra che, nel luogo di lavoro, tende a riprodursi lo stesso suddetto contraccolpo contro l’eguaglianza di genere; vi si assiste un po’ ovunque ma, con più virulenza, dove la politica ha assunto toni di difesa ad oltranza di privilegi storici e tradizionali.

«Dio mi sta bene e anche la patria e la famiglia», sembra abbia detto Margherita Hack, «ma è il trilogismo Dio-Patria-Famiglia, che non mi sta più bene». Di certo, non ha mai portato nulla di buono alle donne e alle minoranze.

Anche da noi le donne sono più esposte ai rischi psicosociali e riportano più spesso disturbi fisici e stati d’animo negativi

Sulla natura degli ostacoli che penalizzano l’esperienza lavorativa femminile, Deloitte offre una panoramica che non si discosta, semmai piuttosto aggrava, quanto già sappiamo: persistono il malus maternità e la sproporzione del carico di conciliazione, con obblighi domestici e di cura sempre più estesi anche verso altri familiari adulti; né sembrano ridursi le micro aggressioni, quell’insieme di atteggiamenti, comportamenti ed espressioni verbali, consci o inconsci, che comunicano ostilità, svilimento ed esclusione, provocando impatti devastanti sulla sicurezza psicologica (e, in ultima analisi, sulla produttività, cui si cerca di far fronte con un ennesimo, iniquo, sforzo, finendo in un circolo vizioso). C’è poi la questione della salute mentale, troppo spesso stigmatizzata, con carichi di lavoro e complessità organizzative sempre più fonte di stress e burnout.

La situazione svizzera presenta molte analogie: anche da noi, le donne sono più esposte ai rischi psicosociali e riportano con più frequenza disturbi fisici e stati d’animo negativi.

La parte di gap salariale prettamente discriminatoria è inchiodata da anni ad oltre il 40%. Il lavoro casalin-

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che comunicano ostilità. (Freepik)

go non remunerato è sempre svolto prevalentemente dalle donne (anche quando il partner è occupato a tempo parziale o non occupato affatto!), così come il caregiving, in crescita esponenziale.

Ciononostante, molte agende politiche hanno perso slancio nel tematizzare le discriminazioni di genere e, quantunque non dichiaratamente ostile ai principi di parità, anche l’austerità sta producendo, nei fatti, tagli di spesa pubblica decisamente diseguali sul piano dell’impatto su uomini e donne.

E le aziende? Come procedono le iniziative di diversità, equità e inclusione (DEI), di cui molto si parla, anche quale declinazione della responsabilità sociale di impresa e dello sviluppo sostenibile?

L’argomento è di particolare attualità negli Stati Uniti.

L’impegno formale e sostanziale dei datori di lavoro a favore dell’inclusione, che in quella realtà riverbera molto sull’aspetto razziale, oltre che di genere, raggiunse l’apice nel 2020, dopo l’assassinio di George Floyd. Un impegno, va precisato a scanso di equivoci, sostenuto da robuste evidenze scientifiche sulla migliore profittabilità delle aziende inclusive e chiara premialità rilevata anche negli andamenti di borsa.

Ma la decisione della Corte Suprema di un anno fa, dichiarando incostituzionali le azioni positive per favorire le minoranze razziali nell’accesso alle università, ha riflesso il cambiamento e la polarizzazione del clima politico. Risultato: molte aziende so-

Uno strumento per analizzare la parità salariale

Sul piano nazionale è l’Ufficio federale per l’uguaglianza fra donna e uomo (UFU) a promuovere l’uguaglianza di genere in tutti gli ambiti della vita e a lottare contro le discriminazioni in questo ambito. «La parità salariale resta uno dei temi prioritari anche nel 2024», leggiamo nel sito dell’UFU. Nel 2023 l’UFU ha coordinato 280 misure del piano d’azione della Strategia Parità 2030; ha effettuato 162 consulenze in materia di analisi della parità salariale; 30 verifiche della parità salariale presso aziende che si sono aggiudicate appalti pubblici; 145 prese di posizione nell’ambito delle procedure di consultazione degli uffici;14

Redazione

Carlo Silini (redattore responsabile)

Simona Sala

Barbara Manzoni

Manuela Mazzi

Romina Borla

Natascha Fioretti

Ivan Leoni

risposte a interventi parlamentari. Ha inoltre erogato complessivamente 3,1 milioni di franchi per la promozione dell’uguaglianza tra donna e uomo nella vita professionale ed ha stanziato 2,5 milioni per la prevenzione e la lotta alla violenza. «Lo sviluppo e la messa a disposizione di strumenti di qualità per l’analisi della parità salariale (Logib) sono parte integrante della Strategia Parità 2030. Con Logib sistema salariale, lo strumento di analisi della parità salariale è stato ampliato per includere la funzionalità per la creazione di un sistema di funzioni e salari semplice e neutro rispetto al genere». / Red.

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no state confrontate con azioni legali da parte di chi si sente discriminato – e qui sta il paradosso del privilegio – dalle misure volte a parificare le opportunità dei gruppi socio-demografici storicamente marginalizzati. Gli attacchi pubblici di personaggi come Elon Musk, Donald Trump, Bill Ackman o Xavier Milei si commentano da sé e confermano che i riflettori di una certa parte politica si sono accesi non appena realizzato che lo slancio verso i piani d’azione DEI rappresenta una delle più potenti campagne per i diritti civili dell’ultimo decennio.

Volenti o nolenti, le aziende virtuose hanno immediatamente dovuto mettere in conto il rischio legale e, quindi, opportunisticamente operato una sorta di rebranding delle misure DEI nei documenti ufficiali: la diversità si è trasformata in unicità o ha abdicato a favore delle più ecumeniche inclusione o cultura inclusiva; dai target dei bonus legati al raggiungimento di risultati DEI (che si stima riguardino tra il 35 e il 40% delle grandi società quotate) l’obiettivo quantitativo delle quote, ormai impopolare, si è tramutato in più generici traguardi di leadership inclusiva o in altre formule qualitative, come la responsabilità di creare una cultura aziendale di appartenenza, dove le persone si sentano al sicuro, incluse e valorizzate.

A prescindere dalla creatività semantica volta a centrare il bersaglio mobile del politically correct, ciò che è incoraggiante oggi osservare è una salutare scrematura. Da una parte, giungono al capolinea i piani confusi da pink, black e rainbow-washing ; dall’altra, si intensificano gli sfor-

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zi di chi valuta il potenziale di questi programmi quale risposta a valori etici e fonte di preciso vantaggio competitivo.

Lo rivelano numerose indagini, per esempio quella svolta dal think tank americano Conference Board: oltre il 60% delle aziende intervistate intende moltiplicare l’impegno DEI (o comunque lo si voglia rinominare) perché ritiene urgente riuscire ad attrarre forza lavoro sempre più diversificata. E qui giungiamo al nocciolo della questione: rispetto al passato, le nuove generazioni di lavoratori e lavoratrici (queste ultime, val la pena ricordare, in porzione ragguardevole e molto formata anche in Svizzera) si sentono pienamente legittimate a dare segnali molto chiari su cosa si aspettano da un datore di lavoro in termini di pari opportunità, rispetto ed equilibrio vita-cura-lavoro; trascurare il loro potere contrattuale, di fronte all’incombente pensionamento in massa dei baby-boomer, può rivelarsi un errore fatale, ad ogni latitudine.

Ma non solo. Secondo un recentissimo sondaggio Washington Post-IPSOS, 6 americani su 10 sostengono l’impegno delle aziende e apprezzano i programmi DEI per il loro impatto sull’inclusione delle persone con disabilità, le minoranze etniche, le comunità LGBTQ+ e le lavoratrici (ogni commento sul posizionamento delle donne in fondo alla classifica è superfluo, visti i risultati dello studio Deloitte).

Folta la schiera di aziende che, per la prima volta, hanno sfilato al fianco delle comunità queer al Pride di Zurigo del 17 giugno

E in Svizzera? Il mercato non è altrettanto maturo e la variabile di genere, ancorché di gran lunga la più rilevante in termini socio-demografici, non ha mai guadagnato vera centralità delle strategie aziendali anti-discriminazione (se non nel caso di grandi multinazionali, che hanno talvolta importato le buone pratiche sviluppate altrove).

Ma chi arriva dopo, si sa, trae spunto e vantaggio dalle esperienze precedenti e, a giudicare dalla folta schiera di aziende che, per la prima volta, hanno sfilato orgogliosamente al fianco delle comunità queer al Pride di Zurigo del 17 giugno scorso, qui da noi il tema corporate dell’inclusione sembra affacciarsi già nutrito di molteplici sfaccettature.

Significa che i diritti incompiuti delle lavoratrici verranno nuovamente offuscati da altre istanze?

Non necessariamente: le buone pratiche di inclusione non hanno colore, né segno, sono trasversali e ne beneficiano tutte e tutti; a condizione che siano attivate nella genuina convinzione che sia giusto, liberatorio e proficuo disfarsi delle gabbie del privilegio, avendone ben chiare le origini e le categoria di appartenenza.

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Verso le donne si moltiplicano sul posto di lavoro atteggiamenti, comportamenti ed espressioni verbali, consci o inconsci,

una cittadina costiera

in cui

Nigel Farage e gli allegri

populisti di Clacton

Regno Unito ◆ Nel suo ottavo tentativo di entrare a Westminster le chances dell’eterno disturbatore della scena britannica non sono mai state così forti

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«It’s done», come dire «è fatta» (la Brexit) ma anche «è finita» (per i Tories). Tutto si può dire di Nigel Farage tranne che non sia, tristemente, uno dei migliori comunicatori sulla piazza. Politici no, sarebbe troppo, perché l’arcipopulista eterno disturbatore della scena britannica non è mai andato oltre gli slogan, che sa scegliere bene, come questo perfidissimo ultimo in cui gioca con il famoso «Get Brexit Done» di Boris Johnson. Anche perché non è mai arrivato ad amministrare un bel nulla anche se adesso, all’ottavo tentativo di entrare a Westminster, le sue chances non sono mai state così forti: il suo nuovo partito, Reform Uk, nato dalle ceneri dello Ukip brexitaro (e imploso per evidente mancanza di idee, talenti, leadership), sta alle calcagna dei Tories nei sondaggi per le prossime elezioni del 4 luglio, con il 18% contro il 20% secondo YouGov. Anzi, in alcuni casi addirittura lo supera, posizionandosi come seconda formazione e segnando in questo modo la fine dello storico ordine bipartitico. In assenza di una sfera di cristallo è difficile dire se sarà così, ma comunque vada per i Conservatori deve iniziare un lungo periodo di ripensamento della propria identità. Dopo 14 anni al governo e 5 premier, la loro leggendaria capacità di garantire stabilità è a brandelli. E Farage, in tutto questo, c’entra qualcosa. Quando il 3 giugno scorso Farage ha annunciato che si sarebbe candidato a Clacton-on-Sea, una di quelle cittadine costiere decadute in cui i populisti hanno furoreggiato negli ultimi decenni, le cose non sembravano poter andare peggio per il premier Rishi Sunak. A furia di adattare la sua retorica e le sue politiche agli istinti più populisti della società, è stato inevitabile per tutti pensare che Farage fosse il modello originale della sua proposta politica confusa. E Clacton è un seggio particolarmente permeabile a un certo tipo di retorica, visto che è lì che è stato eletto il primo deputato di Ukip nella storia del partito, l’ex Tory Douglas Carswell, diventando di fatto una sorta di capitale ideale della Brexit, tra charity shops e deambulatori, un terzo della popolazione fatta di

pensionati e un lungomare spettrale con le vestigia del luogo divertente e prospero che era stato un tempo. «È o non è la città più patriottica del Regno Unito?», ha chiesto Farage davanti a una folla adorante il 18 giugno scorso, facendo preoccupare di molto i commentatori. D’altra parte lui continua a giocare il gioco della polarizzazione, mentre gli altri due contendenti, Sunak&Starmer, per dirla con la brillante Camilla Long del «Times», «si farebbero uccidere piuttosto che finire in un titolo di giornale». Gli argomenti controversi non si discutono, di dettagli non si parla e si agitano solo vaghi concetti di crescita e giustizia sociale in questa campagna elettorale in cui non sono in gioco le misure specifiche, ma una certa idea di Paese: pacificato, ottimista, se non proprio guarito almeno convalescente.

Nei giorni scorsi ha suscitato polemiche dicendo di apprezzare Putin come «operatore politico», ma non come «persona»

Perché i segni di un disagio ci sono ancora. Negli ultimi giorni Farage ha suscitato molte polemiche per aver detto di apprezzare Vladimir Putin come «operatore politico», anche se non come «persona». Secondo lui l’Occidente dovrebbe avviare dei negoziati di pace con la Russia per interrompere lo «stallo» in Ucraina e trovare una via d’uscita a una situazione provocata «stupidamente» con l’espansione ad est della Nato e dell’Unione europea. I media russi sono subito corsi a elogiarlo, mentre la stampa britannica, e quella conservatrice in particolare, ha messo in evidenza, per l’ennesima volta, l’impresentabilità dell’uomo. Boris Johnson l’ha definito «moralmente ripugnante» e ha ottenuto in cambio, in una sorta di scontro tra titani populisti, il bollino di «peggior primo ministro dei tempi moderni» per aver «tradito la volontà dei cittadini britannici sulla Brexit» che, nella retorica di Farage non è stata un disastro perché era una pessima idea, ma perché è stata

applicata male, a partire dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo, che andrebbe respinta in blocco, come i migranti dalle coste, magari con l’aiuto dell’esercito. Farage sa che l’importante è suscitare una polemica, generare un disaccordo da cui racimolare voti, creare la base di un consenso. Si chiama «wedge politics» e fino a ieri l’hanno usata tutti. La sensibilità politica del fu Ukip, negli otto anni trascorsi dalla Brexit, è infatti diventata piuttosto mainstream anche grazie a Johnson&Co: l’ostilità verso Londra, verso lo spirito cosmopolita, i «citizens of nowhere» come li chiamava Theresa May, l’attenzione agli elettori anziani, dalle vedute più ristrette, il leggendario «fuck business» di Boris e le innumerevoli volte che le istituzioni britanniche sono state infangate per non aver assecondato le richieste irrazionali di un elettorato aizzato dai populisti sono solo alcune delle (brutte) cartoline di questi anni. Che una parte dell’elettorato preferisce nella versione originale, votando Reform UK, e che un’altra parte, apparentemente maggioritaria, vuole dimenticare, perdonando a Keir Starmer e anche ai redivivi LibDem la loro vaghezza. Così si spiega che anche nella City o nelle facoltose cittadine del sud dell’Inghilterra il Labour sia avanti nei sondaggi, e che solo l’8% dei giovani voglia votare Tory (aver annunciato la reintroduzione del servizio civile in caso di vittoria non è stata una grande idea): l’ambiguità costruttiva funziona, il programma laburista è vago ma il cambiamento è benvenuto e l’immagine è quella di una squadra funzionante.

Farage dice di avere come modello il Reform Party canadese, che ha eroso i conservatori fino a costringerli alla fusione. In mancanza di politiche concrete e di un programma serio, è difficile che avvenga: i Tories hanno una storia gloriosa, la di là della sbronza sovranista e antibusiness degli ultimi anni, e tutto indica che le elezioni nel Regno Unito si vincono al centro e che gli estremismi, quando il Paese è in buona salute, non attecchiscono. Ora però bisogna rimettere il Paese in buona salute.

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Cristina Marconi
Il 3 giugno scorso Nigel Farage ha annunciato che si sarebbe candidato a Clacton-on-Sea,
decaduta
i populisti hanno furoreggiato negli ultimi decenni. Il suo nuovo partito, Reform Uk, sta alle calcagna dei Tories nei sondaggi per le prossime elezioni del 4 luglio. (Wikimedia Commons)

Il Mercato e la Piazza

Immigrazione a pagamento?

Rainer Eichenberger è un professore dell’Università di Friburgo che ama esprimersi sui problemi di attualità del nostro Paese. Le sue prese di posizione seguono i precetti dell’approccio tradizionale della scienza economica: lasciate il mercato operare e che lo Stato si astenga il più possibile dall’intervenire nell’economia e tutto andrà bene. Di recente, però, facendo un’eccezione alla regola del «laissez faire», ha rilasciato un’intervista nella quale critica aspramente la libera circolazione della manodopera. Interessante richiamarne i punti essenziali non solo per la critica alla liberalizzazione del mercato del lavoro e, in particolare, a chi ha, fin qui, stimato gli effetti della stessa, ma anche per le considerazioni sul modo di migliorare la situazione. Per Eichenberger la libera circolazione va bene solo quando i Paesi che la praticano sono più o meno della medesima taglia e godono più o meno dello

Affari Esteri

stesso livello di sviluppo economico, ossia in una situazione in cui – osservazione nostra – non c’è nessun bisogno di emigrare. Per un Paese piccolo e con un elevato livello di sviluppo come la Svizzera, invece, il bilancio della libera circolazione della manodopera a livello internazionale, nonostante gli studi pubblicati sin qui, è negativo: i costi superano i ricavi. Eichenberger spiega che il bilancio della libera circolazione diventa negativo una volta che nel calcolo dei costi e dei ricavi dovuti all’immigrazione si tenga conto di quelli che lui chiama i «costi del riempimento», ossia dei costi provocati dall’aumento della densità di popolazione. Come, per fare un esempio, le code in strade e autostrade o il forte aumento degli affitti. Le analisi dei costi e dei ricavi della libera circolazione pubblicate sin qui, invece, mettono in evidenza bilanci positivi perché non tengono conto di questi costi

che, annualmente, assommerebbero a miliardi di franchi. La prima conclusione dell’analisi è che il saldo del bilancio dell’immigrazione può essere migliorato solo se questi costi vengono sopportati da chi li provoca, ossia dagli immigrati. Ma Eichenberger vorrebbe anche che la qualità dei lavoratori immigrati, in termini di qualifiche e specializzazioni, migliorasse. Che fare? Rifiutando tanto la soluzione della limitazione per decreto come quella, attualmente in vigore, della libera circolazione, Eichenberger suggerisce una terza via dove l’immigrazione verrebbe limitata attraverso una specie di internalizzazione dei suoi costi. Si tratterebbe di far pagare ai nuovi immigrati, per un periodo di più anni, una specie di tassa di soggiorno prolungato che dovrebbe servire a compensare i costi sociali dell’immigrazione. La stessa potrebbe variare, secondo il professore di Friburgo, tra i

Il ruggito del «leoncino» Bardella

Jordan Bardella è il «leoncino» del Rassemblement National, lo chiama così la madre del partito dell’estrema destra di Francia, Marine Le Pen, che ha notato anni fa il giovane ambizioso e malleabile che sgomitava per un ruolo di peso. Da allora Le Pen non ha avuto occhi che per lui, giovane vivace che meglio di tutti poteva incarnare la de-diabolizzazione del partito, quel lungo processo di risposizionamento in cui Le Pen si è impegnata mentre tentava di diventare presidente, per due volte, entrambe fallimentari.

La storia di Bardella riassume sia il desiderio del Rassemblement National di presentarsi come un partito di destra finalmente votabile, senza gli spigoli antisemiti e sulfurei che lo avevano sempre caratterizzato, sia quelle imperfezioni che fanno dire: non sarà tutto un trucco? Ventotto anni, famiglia di immigrati – italiani e con una bisnonna da parte di padre algerina –vita nella banlieue alle porte di Parigi,

quella delle proteste, della violenza e dell’estremismo, figlio unico cresciuto dalla madre, la sua adorata Laura, Bardella ama raccontarsi come un ragazzo che ha vissuto il disagio delle periferie e poi ha trovato riscatto nella politica e nel partito – unico secondo lui – che può cambiare la Francia a favore dei più deboli, il Rassemblement National. «Sono entrato in politica a 17 anni – dice – a causa di tutto quello che ho sperimentato nell’adolescenza. L’ho fatto per impedire che questa diventasse la norma per tutta la Francia. Quel che succede lì non è normale». Molti giornalisti sono andati sulle tracce del giovane prodigio e hanno scoperto che il padre, Olivier, si è separato dalla moglie quando Jordan era piccolo, ma è un imprenditore abbastanza benestante (ha una compagnia di distribuzione di bibite) che non è andato a vivere molto lontano e ha permesso al figlio di frequentare scuole private (e cattoliche) della

classe media. Un’insegnante del liceo frequentato da Bardella ha detto al «Monde»: «Penso che lui si sia guardato attorno, nel mondo politico, e abbia individuato il posto in cui c’erano maggiori possibilità di fare carriera». Prima di essere notato da Le Pen, Bardella si è fidanzato con la figlia di uno dei pezzi grossi dell’allora Front National, Frederick Chatillon. Bardella ha lasciato l’università dove studiava Geografia per mettersi a disposizione del partito: è stato assistente parlamentare, portavoce, direttore dell’ala giovanile, consigliere regionale. Poi arriva l’occasione dalla detestata Europa: nel 2019 è capolista del Rassemblement National alle europee e viene eletto. Si candida anche alle regionali del 2021, non vince, ma Le Pen, che sta preparando la campagna presidenziale del 2022, lo nomina vicepresidente e, al Congresso di quello stesso anno, presidente. È il primo presidente del partito a non fa-

3000 e gli 8000 franchi annuali. Sulle modalità concrete dell’introduzione di questa tassa Eichenberger non si pronuncia. Ricorda solo che la stessa avrebbe tre effetti: dapprima quello di ridurre l’aumento annuale della popolazione straniera; poi quello di selezionare tra i nuovi immigrati quelli che hanno i livelli di formazione più elevati e, infine, quello di coprire in larga parte i costi dell’immigrazione. Una vera panacea a tutti i mali, quindi! Attenzione, però! Questa regolazione dell’immigrazione renderebbe impossibile l’applicazione della libera circolazione e quindi impedirebbe di sicuro alla Svizzera di concludere qualsiasi tipo di accordo con l’Unione europea. Il prof. Eichenberger è cosciente di questa difficoltà che però non lo preoccupa. La sua posizione sui rapporti della Confederazione con l’Ue è quella dell’UDC: non c’è bisogno di nessun accordo! Nell’intervista

citata il prof. Eichenberger si esprime così: «Con l’Ue si possono avere relazioni commerciali anche senza libera circolazione della manodopera, senza Bilaterali I o accordi quadro». È chiaro che se la Svizzera non avesse la preoccupazione di concludere accordi con l’Ue potrebbe ritornare a regolare l’immigrazione in modo indipendente magari anche introducendo la pseudo-tassa di soggiorno prolungato suggerita da Eichenberger. Strano, però, che il professore friburghese che, nel testo della sua intervista, critica aspramente le misure accompagnatrici volute dai sindacati per attenuare le possibili conseguenze negative della libera circolazione perché, secondo lui, creano costi di sorveglianza supplementari, non si accorga che l’introduzione di una nuova tassa, del tipo di quella da lui suggerita, contribuirebbe, nel medesimo modo, ad appesantire l’iter burocratico.

re di cognome Le Pen. Il Congresso si tenne un paio di mesi dopo la seconda sconfitta di Le Pen. A contendersi la guida del partito c’era da un lato Bardella il giovane, il volto nuovo che però era molto attaccato alla tradizione del partito e considerava la de-diabolizzazione come una mezza bugia; dall’altra Louis Aliot, storico dirigente sin dagli anni Novanta, ben più aperto alla normalizzazione del Rassemblement di quanto lo fosse Bardella. Ma Marine aveva già deciso: voleva un erede giovanissimo, gli avrebbe poi insegnato lei la strategia. C’era già stato un guru nella storia di Bardella, come racconta Pierre Stephan Fort, giornalista francese e autore del libro sull’astro nascente del lepeinismo dal titolo Le Grand Remplançant : si tratta di Pascal Humeau, che era un giornalista abbastanza conosciuto e che poi si è trasformato in spin doctor. È a lui che Le Pen si rivolge dicendogli: formami Jordan

Bardella, che allora aveva 22 anni. Humeau dice di aver formato il giovane lepenista da zero, di avergli insegnato tutto, non soltanto come porsi dal punto di vista della comunicazione, ma anche che cosa leggere, come informarsi, come parlare in pubblico: dalla descrizione esce un esperimento a tavolino, il prodotto di un sapiente lavoro di formazione modellato sull’idea che il Rassemblement National dovesse diventare finalmente presentabile. È anche per questa ragione che resta il dubbio sull’autenticità sia del riposizionamento lepenista sia sulla leadership di Bardella. Intanto Humeau e il suo studente non si parlano più, il giovane presidente del Rassemblement National potrebbe diventare primo ministro di Francia se il partito dovesse vincere con un grande consenso le legislative dopo il secondo turno del 7 luglio, ed è popolarissimo. Dicono che sia un grandissimo comunicatore.

Occhiello a pagina 21 de «La Lettura» («Corriere della Sera» del 23 giugno): «Magistrato elvetico, Nicola Feuz, ha convinto anche Joël Dicker con il suo diciassettesimo giallo». E nel testo c’è questo «lancio» per l’ultima opera del procuratore pubblico e scrittore losannese tradotta in italiano: «Lo spunto per l’ultimo romanzo, come ha ammesso Feuz in una recente intervista, è partito proprio da una sollecitazione dell’azienda che lo invitava a ideare una storia che toccasse da vicino il “gigante” giallo della Confederazione». Strana intesa, visto che Feuz nel suo nuovo giallo ha creato un filatelista (il titolo è quello) che invia pacchi con macabri francobolli realizzati con pelle umana! E strana anche la coincidenza del lancio di questo libro tradotto in italiano con l’annuncio dello stesso «gigante» a fine maggio: nei prossimi anni

chiuderà altre 170 filiali e a ristrutturazione completata il suo servizio pubblico sarà pertanto reperibile solo in 600 uffici gestiti in proprio e in 2000 sedi «ibride» dotate di personale. La colpa? Delle nuove tecnologie che impongono scelte imprenditoriali che non tollerano attenzioni e sensibilità verso chi non riesce a seguire, e pertanto deve subirli, i cambiamenti. Meno strano invece che, a distanza di pochi giorni, sia arrivato anche un carico da novanta politico: governo e capo dipartimento Albert Rösti vorrebbero che la Posta, per acquisire nuova flessibilità, faccia ricorso all’abolizione dell’obbligo di consegna nelle case abitate tutto l’anno e recapiterà «entro i tempi» almeno il 90% delle lettere e dei pacchi, a fronte delle disposizioni attuali che fissano la soglia al 97% per le lettere e al 95% per i pacchi. (Chi e in che modo controllerà quelle per-

centuali di servizio pubblico in meno non lo dice nessuno).

La parola «abolizione» mi ha fatto riandare con la mente alla lungimiranza di Daniela Schneeberger, consigliera nazionale dei Verdi liberali di Basilea Campagna. Esattamente sette anni fa una sua interpellanza al Consiglio federale, accolta dalla maggioranza dei deputati della Camera bassa, venne fatta a pezzi e respinta agli Stati dove, sicuramente per caso, sedeva Christian Levrat, sindacalista che a quei tempi «studiava» per diventare uno dei sette saggi e invece oggi (sempre per caso) ritroviamo presidente del consiglio di amministrazione della Posta. La deputata verde-liberale, spinta anche dal fatto che già allora il cantone Basilea Campagna non aveva più alcuna filiale de La Posta, nell’interpellanza chiedeva al Consiglio federale come mai «con il pretesto della necessità di esse-

re redditizia sul piano economico (…) la Posta rifiuta ormai da anni di soddisfare la richiesta più importante in tal senso: consentire ai concorrenti privati di usufruire degli uffici postali». Come esempio (e questa è la goccia che deve aver fatto scattare il veto degli Stati) ricordava che per Swisscom «l’utilizzo condiviso delle infrastrutture dell’ultimo chilometro e della rete Internet a banda larga presenta molti vantaggi tanto per il commercio quanto per la clientela, persino nell’ambito delle nuove tecnologie». Al contrario, la Posta sventola l’alibi di una indispensabile maggiore flessibilità e «colpevolizza» chi non scrive più lettere e chi non va più agli sportelli a ritirare o a spedire pacchi o soldi; la classe politica sembra pronta a una ulteriore riduzione dei servizi sinora garantiti e a tagli alle filiali. Nessuno parla più di abolizione del «chilometro zero» per la Posta o di

ricerca di altri tipi di flessibilità, magari partendo da quella raggiunta da Swisscom che, libera da clausole protezionistiche, oggi può addirittura fare investimenti anche all’estero. Affido la chiusura a Graziano Pestoni, presidente dell’Associazione per la difesa del servizio pubblico, che ha definito quelle della Posta «attività dissuasive» di un «processo di distruzione di un servizio pubblico di alto valore», elencandole nell’ordine: la distanza crescente degli uffici postali dal domicilio; l’aumento dei prezzi e il mancato rispetto dei tempi di consegna delle lettere; i costi per i pagamenti agli sportelli che le banche fanno gratuitamente, la diminuzione del numero delle bucalettere e delle svuotature; la diminuzione degli orari di apertura degli uffici postali. Ecco: i costi del «chilometro zero» monopolistico sono questi.

di Paola Peduzzi
di Ovidio Biffi
Quel che ci detterà la Posta

CULTURA

La poesia in prosa di Noëmi Lerch

La scrittrice-pastora originaria di Baden è tornata in libreria con due titoli degni di nota tradotti dal tedesco da Anna Allenbach

Pagina 31

Sophie Lacaze tra sogni e realtà Intervista alla compositrice francese, classe 1963, nata a Lourdes, prima donna a ricevere il Grand Prix Lycéen des Compositeurs

Pagina 33

La musica e l’era del «fake success» Fenomeno in espansione di un successo che non è tale, ma è solo la capacità di agire sugli algoritmi e di conquistare un vasto pubblico

Pagina 35

Una casa per la divina Eleonora Duse

Feuilleton ◆ Sottile, emotiva, irrequieta: ritratto dell’attrice italiana a cento anni dalla scomparsa

Bellei

Parecchi decenni fa quando mia madre raccontava dei Duse, dei Corsari, dei Vitaliani e degli Amilene non facevo molto caso al dettaglio che parlava di parenti. In questi mesi, cercando di allestire l’albero genealogico di famiglia, ho riflettuto sulle sue parole riannodando i ricordi.

Dopo gli anni Cinquanta dell’Ottocento, in Italia e poi internazionalmente, si affermano i grandi attori come Ernesto Rossi, Tommaso Salvini e Adelaide Ristori. Negli ultimi decenni del secolo invece i cosiddetti mattatori come Ermete Zacconi, Ermete Novelli e appunto la nostra Eleonora Duse. Quest’anno cade il centenario della morte della «divina». Ma chi era questo personaggio misterioso? Prima di provare a spiegarlo trascrivo il brano di una sua lettera e alcune descrizioni sul suo lavoro.

La lettera, del 1905, è indirizzata ad Aurélien Lugné-Poe su carta intestata dell’Hotel Continental di Parigi. Eleonora ha 47 anni e inizia così: «Il y a trois choses que je desir passionement: Travailler, Vivre, Mourir. Trois passionement ».

È un’attrice di potenza, un’incantatrice. Il suo teatro regala una frattura, una vertigine e contemporaneamente la contemplazione dell’anima

Scrive Mirella Schino che il suo teatro «è una scossa, un’esperienza di tipo esistenziale, non una riflessione culturale, non un intrattenimento». È una maestra del disordine e i suoi spettacoli sono come scrolloni alla stabilità dolorosa. Sconfinando nella sofferenza. Le testimonianze su di lei sono attonite, sconvolte».

È un’attrice di potenza, un’incantatrice. Scrive George Bernard Shaw nel 1895: «La Duse è in azione da 5 minuti appena ed è già un quarto di secolo avanti alle più belle donne del mondo… è ambidestra e duttile come una ginnasta o una pantera».

Simone Le Bargy dice che «interpreta un paesaggio sconfinato da oscure inclinazioni, aspirazioni soffocate balenavano nella piega sottile di un’intonazione». Nel 1921, oramai anziana, Rouben Mamoulian da Londra sostiene che «la bellezza della giovinezza è affascinante ma quando la vecchiaia è bella, come accade solo di rado, ti acceca». Insomma è sottile, emotiva, esprime dolore, sofferenza, irrequietezza. Estetismo nella fase matura e spiritualità nella vecchiaia. Il suo teatro regala una frattura, una vertigine e contemporaneamente la contemplazione dell’anima. «Prima recitava delle parti. Adesso recita solo se stessa».

Sale sul palco sempre senza trucco. Agita le mani, muove il viso, poi grida, sussurri, repentine cadute, si aggrappa a una tenda… Recita sempre in italiano, anche all’estero, ma gli spettatori capiscono ugualmente cosa vuole esprimere. Suo erede attoriale è stato forse Carmelo Bene.

Biografia di un’avventura

Sintetizzare la sua vita non è semplice. Chi volesse approfondirla può leggere L’attrice divina di Cesare Molinari, Il teatro di Eleonora Duse di Mirella Schino e gli Scritti di critica teatrale di Piero Gobetti. Chi invece vuole riviverla in un ritratto «inverecondo» può affrontare Il fuoco di Gabriele D’Annunzio, suo amante. Il maggiore deposito di documenti è sicuramente presso la Fondazione Cini di Venezia che proprio quest’anno le dedica una serie di esposizioni come Eleonora Duse. Mito contemporaneo a Palazzo Cini fino al 13 ottobre.

Eleonora Duse (nella foto) nasce a Vigevano il 3 ottobre 1858. I suoi genitori, Alessandro e Angelica, sono attori, come il nonno Luigi. Un’infanzia sempre in movimento fra una città e l’altra, dettata dalla povertà. I bambini figli di teatranti non frequentano la scuola e, se accettati per qualche settimana, sono dileggiati e scambiati per zingari. A cinque anni per la prima volta interpreta Cosetta de I miserabili di Victor Hugo. Poi viene scritturata assieme al padre in diverse compagnie. Nel 1878 per due anni è a Napoli con la Compagnia stabile I Fiorentini. Nel 1881 ricopre finalmente il ruolo di prima donna nella Compagnia Città di Torino di Cesare Rossi. In seguito spinge Rossi a inserire nel repertorio La principessa di Baghdad di Dumas figlio che Sarah Bernhardt sta recitando a Parigi. Nel 1881 sposa l’attore Tebaldo Checchi e l’anno seguente nasce la figlia Enrichetta. Parte in tournée per il Sud America. Recita spesso all’estero e poco in Italia: al Cairo, Barcellona, Mosca, Vienna, Budapest, Berlino, New York, Chicago, Boston, Londra, Monaco… Si separa dal marito e dal 1886 al 1898 intraprende una relazione con Arrigo Boito. Questi traduce per lei in forma teatrale molti testi che faranno parte del suo repertorio come Cleopatra e Macbeth. Nel 1897 recita nello stesso teatro di Sarah Bernhardt, il Théâtre de la Renaissance di Parigi. La sua consacrazione. Poi l’incontro con Gabriele D’Annunzio. Una relazione tormentata, delirante. D’Annunzio, più giovane di cinque anni ne rimane stregato. Ma, in scena, i testi creati apposta per lei si rivelano un fallimento. Così scrive D’Annunzio ne Il Fuoco

del 1900: «Ti vedo bella. Quando tu chiudi gli occhi così, ti sento mia fin nell’ultima ultima profondità, mia, in me, come l’anima è confusa col corpo; una sola vita, la mia e la tua…». Dopo la rottura con D’Annunzio introduce nel suo repertorio i lavori di Henrik Ibsen e Maksim Gor’kij. Nel 1909 si ritira dalle scene. In questo periodo consolida i rapporti con gli intellettuali Giovanni Papini e Grazia Deledda. Nel 1916 gira il film Cenere di Febo Mari: un insuccesso. Durante la Grande guerra prende a cuore le sorti dei soldati; li visita negli avamposti, li rimette in contatto con le famiglie, scrive loro. Una struggente fotografia la ritrae con il capo ricoperto da un telo, come le contadine, sopra un camion fra soldati indaffarati, filo spinato e lo sguardo tenace. A un soldato chiede: «Dove porta questa strada?». «Alla morte, signora».

Un articolo del «Messaggero» del 9 marzo 1914 riporta enfaticamente: «Notavo nelle nostre truppe quasi una rassegnazione di fronte all’incalzare del nemico, ma all’improvviso l’atmosfera è cambiata: ho pensato che la notizia di un successo militare fosse rimbalzata lungo le cime, ridando forza e coraggio ai soldati. Mi sba-

gliavo: la nuova, imprevista bandiera era rappresentata da una donna tra i soldati. Ma che donna! Era Eleonora Duse, la mitica attrice che dopo avere spezzato tanti cuori dai palcoscenici e nei sogni, ora li sosteneva sul terreno della guerra».

Anni duri di rimpianti. Scrive a Marco Praga il 21 luglio 1920: «Me di me priva così furono quelle annate di silenzio». Oltre ai rammarichi subentrano i problemi finanziari e matura l’idea di un ritorno alle scene. Si affida alla Compagnia Zacconi e nel 1921 a Torino porta in scena La donna del mare di Henrik Ibsen. Gli abiti sono disegnati da Natal’ja Sergeeva Gončarova conosciuta durante una tournée a Mosca La protagonista è Ellade, una giovane, e lei sconvolge tutti con i suoi capelli bianchi e senza trucco. In seguito forma una sua compagnia e va a Londra, a Vienna e negli Stati Uniti. Muore di polmonite a Pittsburgh il 21 aprile 1924. La bara ritorna a Roma in nave. Mussolini vuole un grande funerale di Stato e le sua inumazione nella città eterna. La figlia Enrichetta si oppone ricordando il suo desiderio di essere seppellita ad Asolo. Durante il lungo viaggio verso il piccolo borgo

la acclamano migliaia di persone. La sua amica del cuore Matilde Serao è furiosa. Scrive sul «Giorno» del 2930 aprile 1924 una risentita invettiva. L’Italia, sostiene, non ha mai amato la Duse: «È stata mai fischiata la Duse all’estero? Mai, mai… Ma in Italia è stata molto fischiata, anzi fischiatissima». Poi lancia un’accusa contro il fascismo. Non un’irrisoria pensione bisognava darle, come prospettato e da lei rifiutata, ma un teatro stabile. Un anno dopo la Serao firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti Ad Asolo il 12 maggio 1924 ad aspettarla c’è una moltitudine di persone: Arnaldo Mussolini, fratello del Duce, Giacomo Matteotti che pochi giorni dopo viene rapito e ucciso dai fascisti. C’è D’Annunzio inginocchiato davanti alla bara, gli amici attori in lacrime. La sua tomba si trova nel cimitero di Sant’Anna, appena fuori Asolo. Ada Negri ricorda che il cimitero, piccolo e umile, era ritenuto dalla Duse «il più raccolto e solenne dei cimiteri».

Asolo

Asolo è un piccolo borgo sopra un’altura contornato dal verde. In quel periodo doveva essere molto simile a come è oggi. Strette viuzze, portici come a Bologna, piccoli negozi, casette con gli architravi in legno, finestre fiorite, enormi ville dai sontuosi e curatissimi giardini.

Qui hanno abitato, tra gli altri, la regina Caterina Cornaro, Freya Stark e Robert Browning.

«Amo Asolo – scrive Eleonora a Marco Praga nel 1919 – perché è bello e tranquillo, paesetto di merletti e poesie perché non è lontano da Venezia che adoro perché vi stanno buoni amici che amo perché si trova fra il Grappa e il Montello… Questo sarà l’asilo per la mia ultima vecchiaia, e qui desidero essere seppellita. Ricordatelo, e se mai, ditelo…». Giunge ad Asolo nel 1892 ospite di Katherine De Kay Bronson. Passa diverse volte da qui e nel 1920 affitta una casa che inizia a ristrutturare. Dopo la morte di Eleonora questa viene acquistata dalla figlia Enrichetta che nel 1934 la dona alla Società Acelum. Contemporaneamente dona molto materiale al Museo civico cittadino. Che è ora esposto in un nuovo allestimento interattivo nella sala di Una casa per Eleonora. Ci sono l’Eau de Cologne Impériale di Guerlain, un abito nero da sera della Maison Redfern di Parigi e uno verde acquamarina realizzato dall’atelier Worth sempre di Parigi. Questo è stato indossato per La donna e il mare di Ibsen. Poi libri, come i sette volumi in suo onore scritti dall’amica Katherine Onslow, oggetti vari e una teca dedicata alla famiglia.

Gianluigi
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I piccoli assoluti di Noëmi Lerch

Pubblicazioni ◆ La scrittrice-pastora è tornata in libreria con due titoli degni di nota tradotti dal tedesco da Anna Allenbach

Noëmi Lerch è un’autrice germanofona che risiede da anni, quantomeno d’estate, in una valle della Svizzera italiana, dove di mestiere fa la pastora. Basterebbero questi due dati biografici, già di per sé abbastanza eccezionali, per metterla al centro di una duplice dislocazione: linguistica e professionale. Non saprei dire in che misura le sue giornate siano effettivamente scandite dall’impegno di cura degli animali (immagino parecchio) ma è certo che questa esperienza ha segnato nel profondo la sua vocazione letteraria, fino a entrare nel vivo della sua scrittura. Ne è testimone il primo libro Die Pürin, con cui nel 2016 aveva vinto il Premio Schiller Terra Nova, edito poi in italiano da Gabriele Capelli con il titolo La contadina e tradotto come i successivi da Anna Allenbach, una professionista di grande capacità che condivide con l’autrice – e non è un tratto secondario – la passione per una vita a stretto contatto con la natura e con i suoi ritmi lenti.

Rimasta tutt’altro che inattiva dopo il successo del libro d’esordio, Noëmi Lerch ha continuato a lavorare anche alla scrivania, presentando un secondo titolo sulla scia del primo (Grit, Brotsuppe Verlag, 2017) e conquistando infine con Willkommen im Tal der Tränen (uscito anch’esso da Brotsuppe nel 2019) il Premio svizzero di letteratura, ponendosi insomma come una delle autrici da tenere d’occhio nel non sempre entusiasmante panorama let-

terario nazionale. La velocità con cui si è imposta all’attenzione della critica ricorda, per certi versi, quella della coetanea francofona Élisa Shua Dusapin, che in Francia sta spopolando con i suoi ultimi titoli. Le due autrici non potrebbero essere però più diverse, come diversi mi sembrano i loro riferimenti letterari: da una parte, «du côté de chez Lerch», la scrittura scabra e spigolosa di un’Agota Kristof, dall’altra la sinuosa prosa memoriale, divisa tra Oriente e Occidente, di Amélie Nothomb.

Non credo ce ne sia davvero bisogno, ma sono certo che anche i pochi non ancora persuasi delle capacità stilistiche e immaginative della pastora-scrittrice si convinceranno presto non appena avranno preso in mano le versioni italofone del secondo e del terzo libro, apparse nelle scorse settimane per un’iniziativa parallela delle Edizioni Casagrande e delle Edizioni Sottoscala di Bellinzona. Andrà comunque registrata questa singolare giustizia distributiva, che con Capelli l’ha portata in pochi anni a dare fiducia a ben tre editori attivi alle nostre latitudini, quasi fosse anch’esso un ulteriore segnale di dislocazione (il prossimo da Armando Dadò?).

Posti uno di fianco all’altro come suggerirebbe di fare l’uscita quasi contemporanea dei due libri, Grit e le sue figlie e Benvenuti nella valle delle lacrime declinano in chiave solo in parte diversa un identico mondo fatto di pic-

coli assoluti, di parole pesate e pesanti e di rapporti schietti, quasi ruvidi, tra i personaggi e la realtà che li circonda, rappresentata di volta in volta dagli altri (uomini o animali che siano), dalle fatiche quotidiane o dalle grandi domande che segnano l’esistenza. Decisamente femminile l’orizzonte in cui si muovono Grit «e le sue figlie» (la specificazione mancava nell’originale tedesco ed è una bella conquista del-

la versione italiana), maschile al massimo grado invece la valle dell’ultimo libro, un panorama sofferto in cui si spostano lo Zoppo, il Tuinar e il Lombard con tutte le loro paure e contraddizioni. Che le donne siano più forti e resistenti degli uomini, per chi tenga quale riferimento gli articoli del Codice Lerch, è una constatazione di fondo che assume i tratti di un’indiscutibile legge naturale.

In entrambi i testi si apprezza molto la costruzione soppesata dei dialoghi (senza virgolette come faceva Cormac McCarthy), misurati al punto da sfiorare il silenzio ma non per questo meno significativi, anzi. Quello di Casagrande è un volume esile, in cui i bianchi pesano a colpo d’occhio quasi quanto i neri; mentre il prodotto delle Edizioni Sottoscala, al solito curatissimo in tutti i dettagli (a me è giunto in una confezione sotto vuoto), è più nero che bianco perché a ogni pagina è associata un’illustrazione in negativo (come nell’immagine) del duo Walter Wolf (Alexandra Kaufmann e Hanin Lerch). L’impaginazione e la distribuzione nello spazio sembrano avere insomma un suo ruolo decisivo nelle strategie espositive della scrittura di Noëmi Lerch, al punto che sarei tentato di rispolverare per lei la vecchia categoria della «prosa d’arte», o meglio ancora della poesia in prosa. Uno stile, cioè, in cui la parola risulti come incisa nel foglio e a lui quasi ancorata, non fluida e sfuggente come troppo spesso accade sugli schermi che costellano le nostre quotidianità prive di peso.

Bibliografia

Noëmi Lerch, Grit e le sue figlie

Traduzione di A. Allenbach, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2024 Noëmi Lerch, Benvenuti nella valle delle lacrime. Illustrazioni di Walter Wolf e traduzione di A. Allenbach, Edizioni Sottoscala, 2024.

Riflessioni per chi ama davvero la propria lingua

Libri ◆ Le battaglie con l’inglese e contro il sessismo nell’ultimo saggio di Edoardo Lombardo Vallauri

Stefano Vassere

Certamente l’età contemporanea vive conflitti bellici in senso letterale, per cui potrebbe risultare sproporzionato e irrispettoso e abusivo parlare di guerre linguistiche. Però è questa l’immagine usata dal linguista Edoardo Lombardo Vallauri per Le guerre per la lingua. Piegare l’italiano per darsi ragione (Torino, Einaudi, 2024). Le battaglie in corso sul piano linguistico sono numerose, continuamente sospese tra chi se le canta di santa ragione e chi declassa il tutto in nome del benaltrismo invitando a volgere ad altri e più sostanziali problemi le proprie attenzioni. Esse sono combattute sui campi del linguaggio inclusivo, del linguaggio rispettoso del genere, dei tentativi di porre un argine all’interferenza dell’inglese, del turpiloquio. Lombardi Vallauri sceglie di occuparsi de «La battaglia con l’inglese» e delle «Battaglie contro il sessismo», intestando così le due sezioni principali del libro. Il metodo è, diremmo, quasi tutto interno al sistema linguistico, della cui innocenza l’autore prende le difese quando il mainstream corrente tenderebbe a considerarlo come malato, investito di malafede e di conseguenza foriero di male e mancanza di rispetto. Sessismo e indulgenza verso il mondo anglosassone imperante andrebbero secondo Lombardi Vallauri cercati solo fuori, nel mondo extralinguistico, visto che la lingua di per sé ha la sola colpa di tendere verso la semplicità, l’economicità e una sorta di bene comunicativo tutto sommato innocente. Prendiamo l’inglese. È noto che la lingua dell’Impero non intacca mai la

sostanza di quella dominata, limitandosi a sfiorarne tutt’al più la buccia, il lessico, e lasciandone intatta l’anima, la grammatica. Lo stesso inglese è probabilmente la lingua più colonizzata di tutte, perché sono infinite le sue parole che vengono da altre lingue, anche dall’italiano. Dell’inglese usiamo in fondo solo quello che ci serve, buttando in fretta ciò che è inutile. Ed è impropria tutta una serie di preoccupazioni legate ai modi con i quali il materiale linguistico ci arriva da quella lingua; una è quella di pronunciare le parole in prestito secondo la loro dizione nella lingua di partenza. «In italiano, si dice Boston, con tutt’e due gli o, ben rotondi. Fare lo sforzo di mettere insieme il suono Baaast’n, è un’affettazione ridicola». Imprecisa è anche l’idea che sarebbe necessario rinunciare a importare una parola inglese quando «c’è già» una parola in italiano con lo stesso significato. «Una parola come spoilerare serviva proprio. La cosa più pratica non era affidarsi a lunghe perifrasi, ma derivare un verbo dal termine inglese spoiler, già usato nel mondo della fiction». Ha ragione, Lombardi Vallauri: spesso si importa una parola per uno solo dei suoi valori di significato, non per tutti; e spesso quest’unico valore colma una lacuna del lessico dell’italiano: come bimbo non è la stessa cosa di bambino, cambiare, modificare e alterare presentano sfumature di significato, così meeting e riunione, corporate e azienda, step o passo, storytelling e narrazione non coincidono in tutto. Ma c’è altro: e-mail è più breve ed economico di posta elettronica,

la babysitter non è una bambinaia, nel mondo della moda book ha prestigio contestuale più spendibile rispetto a libro delle foto. Dunque, infine, «spesso la difesa della propria lingua dagli elementi stranieri è solo il fastidio per ciò a cui non siamo ancora abituati». E, ancora, pensare che le lingue siano in guerra tra di loro, che una di esse ritenuta più potente cerchi di sconfiggerne un’altra prestandole parole che forse potrebbero addirittura arricchirla, significa capire nulla o quasi dei funzionamenti della lingua e del suo agire in una società. Il ragionamento vale per economia, finanza e potere politico; non vale per fatti linguistici. Meno accademica e più cattiva è la guerra sul terreno del sessismo, linguistico o meno che sia. Lombar-

di Vallauri sceglie di spendere molte e molte pagine per parlare del cosiddetto «maschile sovraesteso», che denuncerebbe già nell’etichetta una prospettiva sbagliata di vedere le cose: il significato del maschile non marcato al plurale («Venite tutti», anche quando nel gruppo ci sono delle donne) «non è di esprimere maschilità, ma semplicemente di non esprimere nessun genere»; non marcare l’elemento linguistico non vuol dire essere maschilista, insomma. Certo – diremmo – si tratta di capire però due cose: dapprima, perché guarda caso proprio il maschile e per quale via storica siamo a questo punto? E poi, il fatto di usare sempre il maschile può alla lunga ingenerare qualche tipo di visione del mondo, questa sì più maschilista?

Per il primo interrogativo la risposta di Lombardi Vallauri è decisamente originale: bisogna cercare il tratto di marcatezza del femminile in «un ulteriore surplus di animatezza, cioè la capacità di generare un altro individuo»; come a dire che il femminile è marcato perché le donne possono, e gli uomini no, fare dei figli. Per il secondo interrogativo è invece interessante la vicenda dei Banawá dell’Amazzonia, che pur avendo il femminile non marcato al posto del maschile non marcato ne combinano di ogni nei confronti delle donne, per esempio imprigionando, percuotendo e perseguitando in vari modi le ragazzine al primo ciclo mestruale, e dimostrando quanto le teorie sul determinismo linguistico abbiano da quelle parti ben poco successo.

Insomma, per sindacare sulla nostra lingua non basta arrabbiarsi e assumere rigidità di principio. La lingua andrebbe un po’ dove vuole e meno dove decidiamo di farla andare; essa non è in sé né prona nei confronti dell’Impero né tantomeno maschilista. Volendo, si potrebbe dire che questo libro è infine dedicato a chi ama la propria lingua, a patto che non la ami troppo e tanto da diventare geloso del rapporto che essa intrattiene con altre lingue, o sia talmente accecato d’amore da accusarla di avere assunto cattiverie che, poverina!, certo non sono sue.

Bibliografia

Edoardo Lombardi Vallauri, Le guerre per la lingua. Piegare l’italiano per darsi ragione, Einaudi, Torino, 2024.

Walter Wolf
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La stoffa inesauribile di cui sono fatti i sogni

Incontri ◆ Intervista alla compositrice francese Sophie Lacaze, prima donna a ricevere il Grand Prix Lycéen des Compositeurs

Nell’intricato universo della composizione contemporanea, non sono molti i nomi che riescono a trovare la fiducia, il sostegno e il credito necessari per ottenere la commissione di un’opera nuova. Lo sforzo implicato in una tale impresa richiede, infatti, molta ponderazione sul piano produttivo e altrettanta convinzione su quello creativo. In tempi di ristrettezze economiche e in mancanza di munifici mecenati, occorre, insomma, che il nome prescelto sia garanzia di riuscita; come quello di Sophie Lacaze, con trent’anni di carriera sulle spalle e un’ottantina di pezzi in catalogo. Incontriamo la compositrice francese a Montecarlo, in una tiepida giornata di primavera. Nel giro di poche ore la sua nuova opera L’Étoffe inépuisable du rêve debutterà al Théâtre des Variétés nell’ambito del Festival Printemps des Arts e, comprensibilmente, la tensione è palpabile La conversazione si fa subito vivace e nel contempo profonda; il tema del sogno ci guida fin dalle prime battute.

A 14 anni Sophie Lacaze decide di diventare compositrice. Il sogno si avvera e diventa una professione. A posteriori, come giudica la scelta di quella ragazza?

Fu un’intuizione, più che un sogno. Volevo scrivere della musica, anche se non sapevo bene in che cosa consistesse l’occupazione di un compositore. Suonavo il pianoforte, ma la mia famiglia era distante dal mondo dell’arte e gli unici musicisti che frequentavo erano alcuni studenti del conservatorio. Non è stato, quindi, un percorso idilliaco, perché partivo da una condizione di inconsapevolezza rispetto a ciò che mi aspettava: mi stavo lanciando verso l’ignoto! Ma forse questa è stata la mia forza: sono cresciuta senza preconcetti. Guardandomi indietro, il mio è stato un percorso denso di sfide e ricco di gratificazioni. Oggi ciò che mi emoziona di più è il confronto con altri musicisti: la collaborazione, gli scambi di idee, la costruzione di progetti. Quindi, sì, la realtà è stata all’altezza del sogno, anche se in modo piuttosto diverso da come lo immaginava quella ragazza.

Un percorso, però, tutt’altro che lineare: terminati gli studi liceali, Sophie Lacaze, si laurea in ingegneria e per quindici anni persegue quella carriera, prima di dedicarsi interamente alla musica. Fu una scelta naturale. Mio padre era uno scienziato e anche io avevo sempre mostrato una forte inclinazione per la matematica. La mia famiglia non reputava quella del musicista come una vera professione. Mi ritrovai dapprima a studiare in una scuola di ingegneria – dove la quota di studentesse arrivava a malapena al 10% – e poi a lavorare nell’altrettanto «virile» mondo della finanza. Presto, però, la vocazione musicale tornò a farsi sentire. Decisi quindi di iscrivermi all’Ecole normale de Musique di Parigi – per il Conservatorio era troppo tardi – e finalmente conseguii il diploma di composizione.

E come andò?

Non fu facile. La mia rete di contatti nel mondo musicale era inesistente, venivo dalla provincia, non avevo studiato composizione nelle scuole tradizionali e per giunta, beh, ero una donna! All’epoca, in Francia, la percentuale di brani composti da donne che venivano suonati nei festival e

nelle radio nazionali non superava il 2%. Contro questo dato non potevo combattere, potevo però migliorare la mia istruzione e ampliare le mie conoscenze: mi iscrissi ai corsi di Franco Donatoni e di Ennio Morricone presso l’Accademia Chigiana di Siena.

Ci può raccontare qualcosa di quel periodo?

Il mio percorso formativo è stato piuttosto atipico. Al termine degli studi non potevo dire né di appartenere a una specifica corrente, né di aver appreso un’estetica da un maestro; ero ancora alla ricerca di una strada personale alla composizione. Il tempo trascorso a Siena mi diede modo, quindi, di osservare da vicino il lavoro di due personalità molto forti anche se distanti fra loro. Di Morricone ricordo il metodo. Per lui il talento e l’ispirazione non erano che un punto di partenza, per il resto occorreva lavorare senza sosta: scrivere, collezionare e archiviare scampoli sonori, appuntare ogni minima idea, elaborare e rielaborare ciò che si era prodotto, sperimentare, archiviare e poi… ripartire da capo!

Un’attività piuttosto intensa, quasi totalizzante! Ne vale la pena? Ritengo molto importante che un compositore non si isoli dal mondo, perché la trasmissione e la condivisione sono essenziali per crescere e migliorare. Al lavoro di scrittura, quindi, nel tempo ho aggiunto quelli di insegnante, conferenziera, organizzatrice di concerti, divulgatrice e molto altro. Sono sempre stata affascinata dalle culture lontane, il cui studio ha arricchito, nel tempo, il mio pensiero musicale e la mia vita di artista e di cittadina; una passione che nel 1996 mi ha spinta a partire per l’Australia, alla scoperta della cultura degli Aborigeni. Sentivo il bisogno di tornare alle radici della musica, il mio universo sonoro stava diventando troppo complicato, mi sentivo circondata da troppi ritmi diversi che si intrecciavano e moltiplicavano ma che mi stavano facendo perdere la nozione stessa di ritmo. Le cerimonie e le danze rituali degli Aborigeni mi hanno restituito quella nozione mentre il loro strumento tradizionale – il didgeridoo – mi ha fatto scoprire il mondo dei suoni della natura e da allora non ho ancora smesso di esplorarlo.

Anche in L’Étoffe inépuisable du rêve, parte dalla cosmogonia aborigena per costruire una narrazione semplice ma densa di significati. Perché ha deciso di mettere in scena quei miti ancestrali in forma di opera lirica?

Vede, la mia formazione scientifica mi ha portato a diventare ecologista molto prima che il tema del cambiamento climatico diventasse un argomento quotidiano di dibattito. Al momento, purtroppo, sono piuttosto pessimista sui possibili sviluppi futuri della questione ambientale. Tuttavia

non volevo puntare il dito contro il pubblico e gridare: «Guardate, stiamo distruggendo il nostro pianeta, è orribile!» Io sono una musicista –un’artista – e volevo trovare un modo poetico per far passare un messaggio politico. Volevo prendere il pubblico per mano e portarlo in un universo in cui le suggestioni e le impressioni potessero avere un impatto più forte delle riflessioni e dei pensieri. Ma volevo anche che questo messaggio raggiungesse il più ampio pubblico possibile. Per questa ragione ho pensato che l’opera potesse rappresentare un veicolo molto più potente di un semplice concerto.

Non un’opera tradizionale, però! Decisamente no! Tanto per cominciare, ho voluto aggiungere al tradizionale apparato dell’opera un suonatore di didgeridoo e di scacciapensieri; poi ho chiesto al librettista Alain Carré di farsi carico personalmente della declamazione del testo davanti al pubblico, lasciando ai cantanti il compito di intonare dei suoni volutamente incomprensibili ma carichi di sollecitazioni immaginifiche. Per quel che riguarda la musica, ho tratto ispirazione, come faccio ormai da anni, dal mondo della natura ma anche dal rumore cosmico proveniente dalle onde elettromagnetiche catturate dalle sonde della NASA. Nel corso dell’opera, infatti, è possibile ascoltare tim-

bri, linee melodiche e ritmi ispirati al suono dei pianeti, ivi compresa – ovviamente – la Terra.

E in tutto questo che cosa c’entrano gli Aborigeni?

Nella cultura aborigena, la genesi del mondo viene circoscritta a un periodo chiamato tempo del sogno durante il quale gli antenati creativi viaggiarono sulla terra per disegnare le caratteristiche del paesaggio, costruire le leggi della natura e istituire le tradizioni culturali. Di conseguenza, gli Aborigeni australiani considerano la natura

come un’insegnante e una custode, verso la quale provano responsabilità e gratitudine. Come dicevo, io volevo esplorare le interazioni tra l’umanità e la natura, ma anche le conseguenze del nostro impatto sul pianeta. Ho provato, quindi, a mettere in scena una versione personale della leggenda di quel tempo del sogno per raccontare il nostro presente come il preludio a un tempo doloroso del risveglio, in cui la Terra dovrà inventarsi un futuro senza l’uomo. In fin dei conti è semplice, Si tu t’occupes de la terre, elle s’occupera de toi, altrimenti…

La via lattea sopra il massiccio roccioso Uluru/Ayers Rock al centro dell'Australia. (Wikipedia)
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Il curioso caso di Johan Röhr

Musica ◆ Se miliardi di ascolti non fanno la (buona) musica

Guido Mariani

Siamo nell’era delle «fake news», delle notizie fasulle che inquinano il dibattito politico, ma, forse, nel mondo dell’intrattenimento siamo entrati nell’era del «fake success», un successo che non è tale, ma è solo la capacità di agire sugli algoritmi e di conquistare un pubblico vastissimo che magari non esiste neppure.

A inizio anno un quotidiano di Stoccolma ha scoperto il curioso caso di Johan Röhr, un compositore svedese che, si è appurato, è riuscito ad accumulare miliardi di ascolti sulla piattaforma di streaming musicale Spotify, superando in ascolti complessivi superstar come Michael Jackson, Elton John, i Queen o i connazionali Abba. Con un cinico talento e un invidiabile senso del trasformismo, Röhr ha creato più di 600 pseudonimi con cui ha inondato il servizio di musica di brani assolutamente anonimi, però perfetti per entrare nelle centinaia di playlist di musica di sottofondo che oggi costituiscono una parte importante dell’universo dello streaming. È quasi impossibile rintracciare tutti gli alias che ha usato Röhr, alcuni sono Ralph Kaler, Sherry Novak, Jospeh Turley, Miu Hayashi, di altri non è dato sapere. La sua musica è assolutamente innocua, elegante e quasi indistinta, perfetta per essere un pacato e quasi noioso background per ristoranti o centri estetici. Della persona Röhr si sa poco o nulla, qualcuno suppone addirittura che non esista o che sia, a sua volta, un prestanome di qualcun altro. Ma fargli i conti in tasca, anche approssimativamente, non è impossibile. Gli sono state attribuite 2700 canzoni in parte inserite in più di 150 playlist ufficiali di Spotify che hanno più di 60 milioni di follower. Questo ha prodotto un totale di esecuzioni in streaming pari a 15 miliardi. Contato che Spotify paga da 0,3 a 0,5 centesimi di dollaro per ogni riproduzione superiore ai 30 secondi, il ricavato dell’operazione dovrebbe essere stato superiore ai 40 milioni di dollari.

Ma il curioso caso del misterioso Röhr non è unico. L’ignoto americano Matt Farley, le cui biografie descrivono come regista e compositore, ha iniziato agli albori dello streaming a immettere su Spotify centinaia di canzoni dopo aver scoperto che, come per i tradizionali motori di ricerca, le persone erano propense a fare ricerche legate a determinate parole chiave, spesso nomi di celebrità o cibi o paro-

le sconvenienti. Utilizzando anch’egli pseudonimi ha creato brani sconclusionati, spesso volutamente infantili, con titoli però che potevano incuriosire il pubblico. Una produzione torrenziale di circa 24mila brani che parlano di attori di Hollywood, celebrità varie, squadre sportive, ricette, malattie e funzioni corporali. Insomma, le classiche «clickbait», le esche che possono richiamare chi fa delle ricerche e chi vaga su Spotify per trovare pezzi curiosi o che riguardano un tema di interesse. Il trucco anche in questo caso ha funzionato.

I sistemi di streaming, che oggi vengono usati dall’industria musicale per certificare dischi di platino e primi posti nelle classifiche, sono manipolabili. Spotify e servizi omologhi in realtà non ingannano nessuno. Non sono istituzioni culturali, non hanno un impegno a sostenere la qualità dell’arte e a difendere la creatività (come invece le realtà di cui parla Mattia Pelli a pag.3) , sono corporation che fatturano e rispondono ai loro stockholder Spotify nel suo rapporto annuale ha affermato di aver pagato agli autori in un anno un totale di 9 miliardi di dollari, il dato più alto di ogni servizio di streaming. Dalla sua nascita ha distribuito 48 miliardi di dollari. Una manna per un’industria che è al centro di una crisi pluridecennale, iniziata con l’avvento della musica sul web. Ma, dichiara il rapporto: «Sareste sorpresi a vedere gli artisti che hanno guadagnato milioni di dollari. Molti sono sconosciuti e non hanno avuto hit». Insomma, successo senza fama, «musicisti» milionari senza hit.

Una ragione è l’affermarsi di quelle che vengono definite «playlist funzionali», cioè raccolte musicali confezio-

nate per fare da sfondo allo studio, al relax o addirittura al sonno. Quindi non necessariamente musica, ma registrazioni di suoni della natura o di rumore bianco. Il vero rischio, a questa stregua, è che la creatività di compositori e musicisti venga definitivamente fagocitata dall’Intelligenza Artificiale, il mezzo oggi più immediato per creare musica d’ambiente. Una minaccia che già è realtà. Qualcuno ha notato infatti che su Spotify esistono brani identici attribuiti a esecutori sconosciuti di nomi diversi. I brani, prodotti probabilmente con l’IA, compaiono in playlist ufficiali e qualcuno ha avanzato il dubbio che siano opera della stessa piattaforma per generare profitti per se stessa. Siamo alle teorie del complotto o siamo a un punto di rottura per il mondo della musica? La questione va oltre i servizi di streaming. La casa discografica Universal e il social network TikTok hanno siglato a maggio un accordo dopo che l’etichetta aveva impedito alla piattaforma l’utilizzo della propria musica per diverse ragioni, una delle quali era il timore che il social utilizzasse i brani, tutelati da copyright, come base per creare tramite intelligenza artificiale canzoni clone. «Collaboreremo per assicurarci che gli strumenti di IA siano sviluppati in modo responsabile – recita l’accordo – per dare vita a una nuova era di creatività musicale. Proteggendo allo stesso tempo la creatività umana». Speriamo. Intanto le star musicali, quelle vere, misurano la loro popolarità in base ai biglietti venduti e agli incassi dei concerti. Tra il 2023 e 2024 al top mondiale svettano artisti come Taylor Swift, U2, Springsteen, Coldplay, Madonna, Beyoncé e Harry Styles.

Tutti al Grin!

Evento ◆ Dal 5 al 7 luglio torna il festival mesolcinese Daniele Bernardi

Nel dialetto della Val Mesolcina la parola «grin» significa grillo, ma inevitabilmente fa eco al termine inglese «green», in voga oggi a causa delle problematiche ambientali che sempre più ci riguardano. Se ne sono accorti Nico Fibbioli, Domenico Tanese e Ursula Bucher, organizzatori del Grin Festival di Roveredo, evento annuale sostenuto dal Percento culturale Migros che da sette stagioni anima culturalmente l’estate del Grigioni italiano. E che vale la pena di sostenere a maggior ragione dopo i disastri del maltempo dei giorni scorsi.

Oltre a formule quali «sostenibilità ambientale» e «sensibilizzazione», fra le parole-chiave dell’iniziativa troviamo anche termini come «integrazione», «diversità» e «interculturalità» a sottolineare un progetto che si sviluppa all’insegna di quei valori sui quali bisognerebbe puntare per la realizzazione di un’armonica convivenza fra popoli.

L’associazione mira col proprio intervento a creare una solida base di lotta al razzismo e all’esclusione sociale sia attraverso una programmazione attenta alla scena locale ma estremamente aperta al mondo, sia con l’inserimento di figure con un passato migratorio recente nella parte organizzativa del festival. E questo affidando ai coinvolti ruoli e compiti di responsabilità, poiché è attraverso l’assegnazione di mansioni di rilievo che il pregiudizio nei confronti dello straniero va combattuto.

Anche quest’anno, quindi, l’appuntamento si ripete e, dal 5 al 7 luglio, per un intero fine settimana, il comune di Roveredo si convertirà in quella piccola Woodstock che fra campeggi, tendoni, palchi all’aperto e spazi di ristoro di edizione in edizione raduna attorno a sé una comunità sempre più entusiasta. Naturalmente, le cose da fare e vedere sono moltissime e spaziano dai concerti al teatro, dai workshops rivolti agli adulti alle attività destinate ai bambini, insomma, una carrellata di possibilità davvero ricca e invogliante.

Ci limitiamo qui a segnalare alcuni degli appuntamenti, invitando però chi ci legge a consultare al più presto il sito grinfestival.ch, così da lasciarsi catturare dall’attrattiva di una manifestazione pensata non come il solito luna-park culturale estivo, ma alla stregua di una vera e propria possibilità di incontro fra persone lontane e vi-

cine, differenti ma accomunate dal più semplice dei bisogni umani: quello di stare insieme.

Si comincia venerdì 7 con un primo spettacolo pomeridiano del Duo Minuusch, Picknick, che vedrà le clowns Angèle Guérin e Marianaus Neyrinck battibeccare per una mela attraverso esibizioni di giocoleria, per poi passare, alle 20.00, alla performance musicale della cantante francese Mireille Ben, fondatrice del festival bellinzonese Slow Music e responsabile, in passato, del settore «musica popolare» presso la Fonoteca nazionale svizzera. Più tardi, dalle 21.30, sarà il turno del finlandese Antti Paalanen, noto per la creazione di un personale mondo sonoro di grande originalità, sospeso fra tradizione e nuova tecnologia.

Le giornate di sabato e domenica, che per densità possono essere considerate il cuore stesso del festival, sono una vera e propria girandola di appuntamenti sin dalla mattina. Ci saranno le peculiarissime Storie al telefono rodariane raccontate da Daniele Bianco e il trio polacco femminile Sutari, che fonde folk e modernità nella propria musica sperimentando suoni inusuali, appartenenti agli oggetti della quotidianità.

E poi ancora e soprattutto musica multietnica, con le melodie di gruppi provenienti da ogni dove: gli Assurd, i Danûk, i Buzz’ayaz, i Neckaranga, i Rüüt, e Io, te e Puccia. Insomma, fino all’ultima sera a, Roveredo, non mancheranno certo le possibilità di «rifarsi le orecchie». A buon intenditor, poche parole.

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Logo della manifestazione. (GRIN)

Hit della settimana

2. 7 – 8. 7. 2024

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11.95 invece di 19.95 Salmone affumicato dell'Atlantico ASC d'allevamento, Norvegia, in conf. speciale, 300 g, (100 g = 3.98) 40%

Ciliegie Extra Svizzera, al kg 36%

9.50 invece di 15.–

Tutte le angurie (fette escluse), per es. mini, Spagna/Italia, il pezzo, 2.95 invece di 4.70, offerta valida dal 4.7 al 7.7.2024 37%

Fino a esaurimento dello stock. Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti.

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Bistecche di collo di maiale marinate Grill mi, IP-SUISSE in conf. speciale, 4 pezzi, per 100 g, offerta valida dal 4.7 al 7.7.2024 34%

Carta igienica o salviettine umide, Tempo in conf. multiple o speciali, per es. Deluxe, FSC®, 24 rotoli, 15.90 invece di 26.55 40%

Validi gio. – dom.

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Acqua minerale Aproz disponibile in diverse varietà, 6 x 1,5 l, 6 x 1 l e 6 x 500 ml, per es. Classic, 6 x 1,5 l, 3.20 invece di 6.40, (100 ml = 0.04), offerta valida dal 4.7 al 7.7.2024 conf. da 6 50%

2. 7 – 8. 7. 2024

Settimana Migros Approfittane e gusta

Il nostro consigliosettimana:della

2.95 invece di 4.40 Zucchine Svizzera/Spagna, al

4.–invece di 6.70

Bistecca di manzo BBQ marinata Grill mi, IP-SUISSE in conf. speciale, per 100 g

11.20 invece di 20.40

Délice di pollo Don Pollo prodotto surgelato, in conf. speciale, 1,5 kg, (100 g = 0.75)

Pizze Anna's Best al prosciutto o margherita, per es. al prosciutto, 4 x 400 g, 14.95 invece di 21.60, (100 g = 0.93)

Bacche come Natura vuole Frutta

4.95

Migros Ticino

Consiglio: deliziosa con lamponi sminuzzati nella salsa

Prodotti da forno, classici e novità

Il nostro pane della settimana: oltre che al frumento, questa corona croccante bio deve il suo sapore inconfondibile alla farina di segale e ai semi di lino e girasole

3.60

Soffice e burrosa brioche ripiena di crema di cacao e nocciole che si scioglie in bocca

2.30

Migros Ticino
Corona del sole Migros Bio

Guarda che bella selezione!

3.95

Formaggio di capra a pasta molle Chavroux

150 g, in vendita nelle maggiori filiali, (100 g = 2.63)

2.80

Budino proteico Chiefs Caramel City

200 g, in vendita nelle maggiori filiali, (100 g =

3.40

Provolone Valpadana, a fette

100 g, in vendita nelle maggiori filiali

Latte intero UHT Valflora, IP-SUISSE 12 x 1 l, (1 l = 1.36) conf. da 12 15%

16.30 invece di 19.20

–.20 di riduzione

Snack al latte refrigerati Kinder Fetta al Latte, Pinguì, Choco fresh e Maxi King (articoli singoli esclusi), per es. Fetta al Latte, 5 pezzi, 140 g, 1.40 invece di 1.60, (100 g = 1.00)

Tutti i tipi di crème fraîche (prodotti beleaf esclusi), per es. Valflora al naturale, 200 g, 2.25 invece di 2.80, (100 g = 1.12) a partire da 2 pezzi 20%

Tutti gli yogurt Elsa, IP-SUISSE per es. stracciatella, 180 g, –.80 invece di –.95, (100 g = 0.42) a partire da 4 pezzi 20%

250 g, per 100 g, prodotto confezionato 20%

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Le Maréchal Original, IP-SUISSE

2.40

di 3.–

3.45 invece di 4.10

Uova per picnic svizzere da allevamento all'aperto Migros Bio 4 x 50 g+ 15%

Tutto il Grana padano Da Emilio per es. grattugiato, 120 g, 2.45 invece di 2.90, (100 g = 2.04) 15%

1.70 invece di 2.–Asiago pressato, DOP per 100 g, prodotto confezionato 15%

Nostrani al naturale, al naturale aha! o alle erbe per es. al naturale, 200 g, 4.– invece di 5.–, (100 g = 2.00) 15%

Migros Ticino
Migros Ticino
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Grandi bontà a buon prezzo

Tutto l’assortimento di frutta e verdura, Sélection per es. melone, Spagna/Francia, il pezzo, 4.20 invece di 5.30 20%

SÉLECTION

I prodotti della marca propria Sélection sono molto esclusivi in virtù della maggiore qualità delle materie prime, della produzione più elaborata e della lavorazione più lunga. Le specialità di salumeria, ad esempio, vengono lavorate a mano secondo la tradizione della macelleria artigianale, mentre la frutta Sélection viene raccolta solo quando è bella matura, il che la rende particolarmente dolce e succosa.

Tutte le noci per l'aperitivo Sélection per es. mandorle Piment d'Espelette, 140 g, 3.95 invece di 4.95, (100 g = 2.82) 20%

Tutte le patatine Sélection per es. Roots Chips, 75 g, 3.40 invece di 4.30, (10 g = 0.45) 20%

i tipi di olio e aceto, Sélection per es. Olio di semi di zucca, 250 ml, 7.95 invece di 9.95, (100 ml = 3.18) 20%

Tutti

Tutto l’assortimento di salumi Sélection per es. Jamon Ibérico, Spagna, 100 g, 10.90 invece di 13.65, in self-service 20%

20%

Tutto l'assortimento di pesce Sélection per es. salmone fiammato affumicato: d’allevamento, Norvegia, 80 g, 4.75 invece di 5.95, in self-service, (100 g = 5.94)

Tutto l'assortimento di carne Sélection per es. costata di manzo, Irlanda, in self-service, per 100 g, 7.60 invece di 9.50 20%

Feta originale e Parmigiano reggiano, Sélection per es. Feta originale, 170 g, 4.– invece di 5.–, (100 g = 2.35) 20%

Tutti i gelati Sélection prodotto surgelato, in barattolo, 450 ml e 120 ml, per es. Pure Vanilla Bourbon, 450 ml, 5.80 invece di 7.30, (100 ml = 1.29) 20%

Moscato Sélection senz'alcol, 750 ml, (100 ml = 0.74) 20%

5.55 invece di 6.95

Offerte che fanno sorridere anche la dispensa

Tutta la pasta trafilata al bronzo M-Classic disponibile in diverse varietà, per es. fusilli, 500 g, 1.35 invece di 1.70, (100 g = 0.27) 20%

conf. da 2 20%

Pasta Anna's Best gnocchi di patate, gnocchi al basilico o spätzli di verdure, per es. gnocchi di patate, 2 x 500 g, 5.40 invece di 6.80, (100 g = 0.54)

Deliziose alternative alla carne a base di trebbie di birra svizzere

Upcycled V-Love, IP-SUISSE macinato, marinated pieces o hamburger, per es. macinato, 300 g, 4.40 invece di 5.50, (100 g = 1.47) 20%

Tutte le miscele di spezie Just Spices disponibili in diverse varietà, per es. Avocado Topping, 60 g, 6.80 invece di 8.50, (10 g = 1.13) 20% 5.75 invece di 6.80 Focaccia alsaziana originale 2 x 350 g, (100 g = 0.82)

da 2 15% 15.75

invece di 21.–Ravioli Napoli M-Classic 6 x 870 g, (100 g = 0.30) conf. da 6 25%

Salatini da aperitivo Gran Pavesi Cracker Salato, Sfoglie Classiche o Sfoglie Olive, in confezioni speciali o multiple, per es. Cracker Salato, 540 g, 3.90 invece di 4.90, (100 g = 0.72) 20%

conf. da 3 20%

Legumi M-Classic ceci, fagioli kidney o fagioli borlotti, per es. ceci, 3 x 250 g, 2.85 invece di 3.60, (100 g = 0.38)

Tutto l'assortimento Organix per es. flips di carote bio, 20 g, 1.60 invece di 1.95, (10 g = 0.78) a partire da 2 pezzi 20%

Refrigerio in vista Bevande

l'assortimento

i tipi di

e

Innocent

Tutti i tipi di Coca-Cola e Fanta in confezioni multiple, disponibili in diversi formati, per es. Coca-Cola Classic, 6 x 1,5 l, 9.85 invece di 14.10, (100 ml = 0.11)

Il nostro lato dolce

10.95 invece di 21.90 Cornetti vaniglia-fragola Fun prodotto surgelato, in conf. speciale, 16 pezzi, 16 x 145 ml, (100 ml = 0.47) 50%

Tavolette di cioccolato Frey, 100 g (prodotti Sélection, Suprême, M-Classic e confezioni multiple esclusi), per es. al latte finissimo, 1.80 invece di 2.20

13.50 Mixed Minis in conf. speciale, 56 pezzi, 1.13 kg, (1 kg = 11.95)

7.35

invece di 9.20

i biscotti Créa d'Or

florentin,

2.80

di 3.40

Coppette di gelato M-Classic prodotto surgelato, Ice Coffee, Vacherin o Bananasplit, per es. Ice Coffee, 4 x 165 ml, (100 ml = 1.11)

Biscotti Walkers

Highlanders o Chocolate Chip Shortbread, per es. Highlanders, 3 x 200 g, 12.95 invece di 16.20, (100 g = 2.16)

da masticare vegane Mmmh, ora anche come barretta da gustare fuori casa

ACHTUNG: Keine

Tutto l'assortimento Garnier (deodoranti, confezioni da viaggio e multiple esclusi), per es. acqua micellare detergente All in 1, 400 ml, 6.– invece di 7.95, (100 ml = 1.50)

Prodotti per la doccia Nivea Men per es. gel doccia Sport, 3 x 250 ml, 5.90 invece di 8.85, (100 ml = 0.79)

Tutto l'assortimento Bulldog (confezioni multiple escluse), per es. crema idratante, 100 ml, 6.70 invece di 8.95 25%

Tutto l'assortimento Sun Look (confezioni multiple escluse), per es. Basic Milk IP 30, 200 ml, 6.80 invece di 8.50, (100 ml = 3.40)

Deodoranti Rexona per es. roll-on Cobalt Dry 72h, 2 x 50 ml, 5.60 invece di 7.–, (100 ml = 5.60)

Sapone liquido Wood Inspired I am Edizione limitata, in dispenser o sacchetto di ricarica, per es. busta di ricarica, 500 ml, 3.25, (100 ml = 0.65)

Tutto l'assortimento Lavera (confezioni multiple e da viaggio escluse), per es. crema dentifricio Complete Care senza fluoro, bio, 75 ml, 3.75 invece di 4.95, (10 ml = 0.49)

Tutto l'assortimento Covergirl per es. Lash Blast Volume Mascara, 800 very black, il pezzo, 8.75 invece di 12.50

Tutto l'assortimento di contraccettivi con Love Toys (confezioni da viaggio escluse), per es. Cosano Regular, 10 pezzi, 3.75 invece di 4.95, (1 pz. = 0.37) a partire da 2 pezzi

Tutto l’occorrente per la casa

Tutto l'assortimento Migros Topline, Fresh, Sistema, Glasslock e Cuitisan Candl (prodotti Hit e borracce esclusi), per es. contenitori per congelatore Migros Topline, 5 x 0,75 l, 3.45 invece di 4.90

Bicchieri Kitchen & Co.

47 cl, disponibili in verde, blu o rosa, il pezzo

9.95

Padelle Star Kitchen & Co.

Limited Edition, disponibili in grigio o nero e in diverse misure, per es. a bordo basso, Ø 16 cm, il pezzo, 18.70 invece di 24.95 25%

Cestelli o detergenti per WC, Hygo in conf. multiple o speciali, per es. Flower Clean, 2 x 750 ml, 5.60 invece di 7.–, (100 ml = 0.37)

Phalaenopsis, 2 steli disponibile in diversi colori, in vaso, Ø 12 cm, il vaso

Carta igienica o salviettine umide, Tempo in conf. multiple o speciali, per es. Deluxe, FSC®, 24 rotoli, 15.90 invece di 26.55

Tutti i detersivi per capi delicati Yvette (confezioni multiple e speciali escluse), per es. Wool & Silk in conf. di ricarica, 2 litri, 9.60 invece di 11.95, (1 l = 4.78) a partire da 2 pezzi

Prezzi imbattibili del weekend

Solo da questo giovedì a domenica

37%

Tutte le angurie (fette escluse), per es. mini, Spagna/Italia, il pezzo, 2.95 invece di 4.70, offerta valida dal 4.7 al 7.7.2024

34%

1.65 invece di 2.50

Bistecche di collo di maiale marinate Grill mi, IP-SUISSE in conf. speciale, 4 pezzi, per 100 g, offerta valida dal 4.7 al 7.7.2024

conf. da 6 50%

Acqua minerale Aproz disponibile in diverse varietà, 6 x 1,5 l, 6 x 1 l e 6 x 500 ml, per es. Classic, 6 x 1,5 l, 3.20 invece di 6.40, (100 ml = 0.04), offerta valida dal 4.7 al 7.7.2024

Azioni che bruciano!

di tonno M-Classic al bancone e in self-service, per es. M-Classic, pesca, Oceano Indiano occidentale, in self-service, per 100 g, 4.55 invece di 5.70 20%

da

o

Tutti i formaggi
grigliare
rosolare in self-service per es. Halloumi Taverna, 250 g, 3.85 invece di 4.80, (100 g = 1.54)
a partire da 2 pezzi 20%
Filetti
Alette di pollo Optigal al naturale e speziate, Svizzera, per es. al naturale, al kg, 9.– invece di 12.–, in self-service

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