Il grado di civiltà di uno Stato si misura nella capacità di prestare cura agli ultimi. È davvero così?
Il canottaggio porterà la ticinese Claire Ghiringhelli direttamente alle Paralimpiadi di Parigi 2024
TEMPO LIBERO Pagina 13
Joe Biden affonda mentre Donald Trump prepara il suo ritorno: quali prospettive si aprono?
ATTUALITÀ Pagina 21
In volo verso chi ha bisogno
Tutta la caparbietà e il talento della pittrice Sylva Galli alla Pinacoteca Züst di Rancate
CULTURA Pagina 29
Valli, disgrazie e ideologia climatica
Carlo Silini
Non l’avessero già fatto altri, saremmo noi, oggi, a irridere quel politico che, la notte prima della sciagura in Vallemaggia, si scagliava contro MeteoSvizzera che, «nell’ambito del suo lavaggio del cervello climatista (vedi il continuo mantra del “surriscaldamento climatico provocato dall’uomo”) si serve pure di allarmi farlocchi». È stato sufficientemente punito dal Karma istantaneo quindi non infieriremo su di lui. Ma il giorno dopo quella gaffe, un amico mi invia il link a un bell’articolo del «Corriere del Ticino» nel quale si spiega che a Cevio le catastrofi naturali ci sono da sempre, commentando: «Nulla a che vedere con i cambiamenti climatici tanto decantati dai verdi ecologisti e sinistroidi di ogni specie... È solo la natura stessa che si manifesta. Punto e basta».
Gli voglio bene, ma non gli rispondo privatamente. Lo faccio qui, con ferma delicatezza, per lui e per quelli che la pensano come lui. Anzitutto, prima dei militanti politici, sono
i climatologi a smentirli: «Linee temporalesche come quelle viste in Mesolcina e Vallemaggia fanno parte della nostra climatologia», ha osservato Marco Gaia di MeteoSvizzera ai microfoni della RSI, «ma con il cambiamento climatico in atto innescato dal riscaldamento indotto dalle attività umane, ci attendiamo anche in Svizzera un aumento di questi fenomeni estremi». Poi, certo, gli eventi terribili sono stati numerosi nel passato, come attesta Martino Signorelli nella Storia della Vallemaggia (, ed. riveduta pubblicata da Armando Dadò nel ): «Poco favorita dalla natura, (non certo in ogni senso, sotto qualche rispetto favorita), la gente valligiana dovette costruire strade e ponti in luoghi impervii, e poi ricominciare perché inondazioni, frane, valanghe avevano portato via tutto». L’elenco delle disgrazie è impressionante: le inondazioni non si contano (le peggiori nel
e, non citata dal Signorelli che non la vide, quella
del / agosto che interessò l’intera Svizzera italiana, Mesolcina compresa). Ma questo non significa che «è tutta colpa della natura», anzi. Assai preciso nel denunciare le responsabilità dell’uomo già nei secoli passati fu il compianto storico Raffaello Ceschi (vedi Ottocento ticinese, Armando Dadò, ) che ricorda come l’esperto federale Aloisio Negrelli, ingegnere, venuto in Ticino a metà Ottocento dopo una serie di devastazioni naturali «si meravigliò assai nel constatare che, dopo il non era stata fatta alcuna opera di arginatura e di protezione contro le acque, rimproverò ai ticinesi di favorire essi stessi le proprie disgrazie con i delittuosi disboscamenti che denudavano le pendici delle montagne, favorivano gli scoscendimenti e toglievano ogni freno all’acqua piovana che correva troppo rapida a gonfiare furiosi torrenti». Sotto accusa, allora, non era l’inquinamento da gas serra, ma il sistema delle «sovende», lunghe piste in declivio dal fondo di terra battuta
con le pareti fatte di tronchi «su cui i boscaioli e i borradori convogliavano i tronchi tagliati». D’inverno si provvedeva a ghiacciare il fondo delle sovende «per trasformarli in veloci scivoli dove i tronchi venivano avviati uno dopo l’altro come bolidi sotto la sorveglianza di esperti borradori. (...) Nel Luigi Lavizzari (naturalista di Mendrisio, ndr.) ne aveva osservata una nell’alta Valmaggia che percorreva tutta la valle di Fusio e sfociava a Peccia, dove già si ammonticchiava una enorme catasta di mila tronchi giunti in quel luogo pochi giorni prima della sua visita...». Sterminati i boschi, arrivarono le piene. Insomma, già allora era l’uomo a facilitare le disgrazie climatiche. Con un’attenuante che oggi non abbiamo: le valli erano poverissime e l’unica merce che potevano vendere era il legname da costruzione e combustibili e la robusta manodopera montanara. Alla fine, quando da esportare restarono solo le braccia, iniziò il lungo capitolo dell’emigrazione di massa.
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Come creare un posto di lavoro che sia davvero a misura… di persona
Info Migros ◆ Per la quarta volta Migros Ticino si aggiudica il prestigioso label Friendly Work Space assegnato da Promozione Salute Svizzera
È innegabile come nell’attuale contesto lavorativo ed economico, sia svizzero che globale, un’importanza crescente venga vieppiù attribuita a rapporti di lavoro improntati non solo alla realizzazione professionale e al riconoscimento salariale, ma anche all’attenzione rivolta al benessere, alla tutela della salute e all’equilibrio personale.
L’introduzione di una cultura improntata al benessere generale dei collaboratori richiede tempo, impegno e una strategia sostenibile. Nel quadro dell’applicazione sistematica della gestione della salute in azienda (GSA), Migros Ticino, oltre a risultare innovativa e sostenibile, conferisce grande valore a promuovere costantemente il
Il prestigioso marchio Friendly Work Space, conferito da Promozione Salute Svizzera, è assegnato alle aziende che si impegnano a gestire il rapporto con i propri dipendenti secondo criteri di protezione della salute. È l’unico sigillo svizzero riconosciuto che attesta una gestione della salute in azienda di qualità e di successo. È assegnato alle aziende che adottano un approccio sistematico per offrire buone condizioni di lavoro ai propri dipendenti. La salute del personale è alla base della produttività e della redditività. È una condizione necessaria per il successo a lungo termine dell’azienda. In Svizzera 107 organizzazioni hanno ottenuto il label e Migros Ticino è l’unica nel nostro Cantone.
benessere di collaboratrici e collaboratori: nel mese di giugno ha ottenuto per la quarta volta il prestigioso riconoscimento Friendly Work Space (FWS) superando con successo l’assessment di Promozione Salute Svizzera. La Cooperativa Migros Ticino (CMT), oltre a dimostrare così grande continuità negli anni, conferma anche con la nuova direzione il proprio desiderio di migliorarsi e investire nella salute dei collaboratori.
Fra gli aspetti analizzati in corso di valutazione, vi sono state le ottime prestazioni sociali, le condizioni favorevoli di assunzione e di lavoro, nonché la gestione partecipativa del personale. L’azienda ha inoltre un occhio di riguardo verso l’equilibrio psicofisico del personale, presupposto ideale per lo sviluppo delle capacità individuali e per il raggiungimento dei traguardi professionali. Un ambiente di lavoro sano non può dunque che fare bene a entrambe le parti, al datore di lavoro e alla collaboratrice o al collaboratore. La direzione promuove una nuova strategia aziendale e una nuova leadership improntata su maggiore responsabilità e un maggior coinvolgimento strategico. Questo nuovo approccio è basato su una cultura della collaborazione e di affiancamento alla gestione del cambiamento anche attraverso a specifiche formazioni manageriali. Gli obiettivi strategici e operativi, così come le misure GSA, vengono continuamente adattati alle mutevoli esigenze e ai bisogni creando le basi per una leadership sana. Rosy Croce, responsabile del Dipartimento risorse umane di Migros Ticino, commenta così la quarta certificazione FWS a Migros Ticino: «Vorrei anzitutto esprimere il nostro grande orgoglio per avere visto ricon-
fermato il label Friendly Work Space, qualificandoci come impresa che si distingue nella gestione di collaboratrici e collaboratori grazie a un approccio sistematico attento alla gestione della salute, traguardo peraltro ancorato all’interno degli obiettivi strategici della Cooperativa. Il label è stato riconfermato grazie alla cultura aziendale fortemente orientata alla gestione della salute e del benessere di collaboratrici e collaboratori, proprio poiché, oggi più che mai, si è più sensibili a questi temi. Alla fine, sia l’individuo che l’azienda ne traggono beneficio».
Nuovo leader al reparto Acquisti
Info
Migros ◆ Arriva
Florian Decker
Presso la Federazione delle cooperative Migros (FCM) è stato costituito un nuovo reparto Acquisti di Gruppo. Florian Decker ne sarà il responsabile. Decker ha anni e ha studiato economia aziendale presso l’Università di economia e management (FOM) mentre lavorava. Ha ricoperto per anni varie posizioni presso Edeka, il più grande rivenditore di generi alimentari della Germania con un fatturato di circa miliardi di euro. Ha assunto vari importanti ruoli nell’organizzazione degli acquisti di Edeka, fino a diventare nel direttore della società commerciale centrale. «Sono estremamente contento di aver potuto assumere Florian per il Gruppo Migros», spiega Mario Irminger, presidente della Direzione generale della Federazione delle cooperative Migros (FCM). «Con la sua vasta esperienza di successo e di lunga data nel settore della vendita al dettaglio di prodotti alimentari in Edeka, costituirà e gestirà l’approvvigionamento centrale del Gruppo Migros. Questo ci permetterà anche di espandere ulteriormente la nostra partnership internazionale con Edeka». Migros, Denner, migrolino e Migros Online centralizzano parte dei propri approvvigionamenti. La nuova unità organizzativa centralizza le attività di approvvigionamento presso i fornitori dell’intero Gruppo e rafforza la collaborazione con l’organizzazione internazionale acquisti Everest Fresh. Le attività di approvvigionamento centralizzate consentono a Migros di raggruppare i volumi di acquisto, migliorare le condizioni presso i propri fornitori e di ridurre significativamente i costi delle merci nel medio-lungo termine.
Migros sostiene le regioni colpite dal maltempo Un milione di franchi per le zone devastate
Solidarietà ◆ Aiuti destinati alla popolazione e alla ricostruzione dei villaggi. Beni di prima necessità da Migros Ticino
Migros è sconvolta per le gravi conseguenze del maltempo che ha colpito il Vallese, la Mesolcina e la Vallemaggia. Ha perciò deciso di sostenere le regioni colpite con una donazione di un milione di franchi. Anche la cellula di crisi della Cooperativa regionale Migros Ticino si è attivata, prendendo prontamente contatto con le Autorità cantonali di Ticino e Grigioni per offrire alla popolazione e al personale impegnato nei soccorsi beni di prima necessità quali acqua, prodotti per l’igiene intima, scatolame, nonché coperte e sacchi a pelo. Il denaro è destinato a sostenere ra-
pidamente la popolazione delle zone devastate e a ricostruire i villaggi distrutti. Le regioni della Svizzera colpite dalla catastrofe climatica degli ultimi giorni e settimane saranno pertanto sostenute da una donazione. Lo ha deciso la Direzione generale della Federazione delle cooperative Migros (FCM). «Vogliamo aiutare le persone nelle zone devastate in modo rapido e semplice e lavoreremo a stretto contatto con le autorità e le organizzazioni locali per farlo», spiega Mario Irminger, presidente della Direzione generale della FCM. «Il nostro obiettivo è aiutare le regioni col-
pite dalla catastrofe in modo rapido ed efficace».
Della donazione di un milione di franchi, ’ franchi andranno alla raccolta fondi della Catena della solidarietà. ’ franchi saranno invece destinati principalmente alle regioni particolarmente colpite in Ticino e in Vallese. Altri
franchi saranno infine disponibili per l’aiuto in caso di altri eventi. Con questa donazione, Migros dimostra la propria solidarietà alle regioni colpite dalle forti piogge e dalle devastanti inondazioni in Vallese, in Ticino e nei Grigioni.
Il team GSA che ha partecipato all’assessment FWS: Rosy Croce (Responsabile dipartimento HR), Francesca Spaini, Patricia Girolmetti, Alice Saccone, Silvio Vassalli, Jeannette Hobil, Claudio Paganetti. (foto Fabio Gaspari)
Il marchio FWS
Impressionante lo scenario presentatosi dopo gli eventi climatici estremi dei giorni scorsi a Fontana (nella foto), in Val Bavona, e in tutte le regioni svizzere colpite: dalla Vallemaggia alla Mesolcina al Vallese. (Keystone)
SOCIETÀ
L’archeologia al Museo Moesano Scopriamo la nuova esposizione permanente L’immagine di una società allestita a Palazzo Viscardi di San Vittore
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A Lugano ci si incontra allo Spazio L’ove
A Viganello nello stabile Luganetto un gruppo di giovani creativi ha dato vita a un luogo di cultura indipendente tra arte e convivialità
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Prendersi cura degli ultimi
La popolazione dei serpenti resta uguale Pioggia e ritorni al freddo hanno posticipato o messo in pausa l’attività dei rettili, facendoli comparire tutti insieme quando riaffiora il sole
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Emergenze invisibili ◆ L’attenzione alle cure palliative come segno di estrema solidarietà con le persone ai margini della società
La mia visione della politica è semplice. Forse anche troppo semplice. Ma ha almeno il vantaggio di essere chiara: il suo scopo è aiutare i poveri. Ho sempre pensato che il grado di civiltà di uno Stato si misuri nella capacità di prestare attenzione agli ultimi. Sembra ovvio, ma è davvero così? Basta aprire un giornale (o peggio, un social network). Basta entrare in un bar e ascoltare le chiacchiere. Le paure s’intrecciano alle opinioni in un circolo perverso, dove prevale la necessità di schierarsi e di cancellare ciò che non ha spiegazione. Anche il male, e la sofferenza che ne consegue, diventa un territorio di battaglia. Eppure, a definirci come esseri umani, è la capacità di prenderci cura, di rimanere accanto a chi non sa più chiedere aiuto. Tutto il resto viene dopo.
Senza tetto, migranti, disabili, ma più ancora di ogni altra categoria, sono i carcerati a essere invisibili
Non è difficile individuare chi sta ai margini: i carcerati, i migranti, i senza tetto, le persone affette da patologie mentali o da forme di disabilità. Fra di loro ci sono persone che, in più, sono afflitte da malattie croniche o inguaribili. Mi pare che oggi, nella nostra società, questi individui siano gli ultimi fra gli ultimi. Siamo in grado di prestare loro attenzione? Questa domanda urgente, insieme ad altre, era al centro della recente giornata cantonale per le cure palliative, alla quale ho partecipato come moderatore. Lo scopo del congresso, organizzato da Palliative Ticino (palliative.ch), era quello di analizzare la situazione attuale e di mettere in rete le competenze specifiche degli specialisti.
Parlando con i medici e i vari esperti mi sono reso conto che le cure palliative non sono soltanto un modo per accompagnare le persone alla morte, e nemmeno per aiutarle a sopportare le malattie croniche combattendo la sofferenza. Come e più di ogni altra branca della medicina, le cure palliative necessitano di entrare in una relazione intensa con il paziente, per capire che cosa intenda per dolore e quale sia la sua visione di sé stesso come essere umano capace di desideri e di speranza.
Prendiamo per esempio i carcerati. Secondo la legge svizzera, essi hanno gli stessi diritti di tutti gli altri cittadini, esclusa naturalmente la libertà di circolazione. Questo significa anche il diritto a venire curati come gli altri e, se necessario, ad accedere alle cure palliative. La ricercatrice inglese Mary Turner ha mostrato nel suo intervento come in Europa la popo-
lazione carceraria sia sempre più anziana e bisognosa di cure. Eppure, più ancora di ogni altra categoria, i carcerati sono invisibili. Ci sono alcune strutture di assistenza in alcune prigioni, ma sono una minoranza.
La testimonianza di un secondino è crudele: «Mentre stanno morendo, la stanza è chiusa a chiave. A meno che non siano legati al letto, continuano a venire considerati pericolosi».
La difficoltà a smuovere l’opinione pubblica è enorme. Molti vedono il carcere in senso vendicativo: hanno commesso del male, è giusto che paghino. Altri considerano le cure palliative una sorta di lusso, invece di un elemento essenziale per la dignità. Altri ancora, sottolineava la professoressa Turner, pensano che ci siano problemi più urgenti. Invece no, invece il problema più urgente è non cedere, non lasciare che venga sommerso l’argine della solidarietà. Altrimenti smetteremo di essere una società per diventare un insieme di individui
che vivono nello stesso luogo. Non si tratta di innocenza o colpevolezza, e nemmeno del fatto che al posto dei carcerati potremmo esserci noi o i nostri cari. La verità è che se smettiamo di capire il dolore degli altri rinunciamo alla nostra umanità.
A definirci come esseri umani, è la capacità di prenderci cura, di rimanere accanto a chi non sa più chiedere aiuto
Quello che vale per i carcerati è vero anche per i disabili mentali. Secondo il professor Luigi Grassi, dell’università di Ferrara, il disturbo psichico è la grande sfida medica del XXI secolo, sia per l’enorme diffusione, sia per la difficoltà di prevenzione. I malati sono nascosti da un doppio sbarramento: la patologia fisica e quella psichica. È difficile, per un medico che abbia competenze in uno solo dei due
campi, arrivare fino al nocciolo della persona. Nel caso delle malattie oncologiche, le statistiche mostrano non solo che la mortalità fra i disabili mentali è più alta, ma che essi usufruiscono di un accesso limitato alle cure palliative. Ci sono problemi di ordine tecnico e professionale, ma di nuovo una delle cause è lo stigma sociale nei confronti dei malati di mente. Una situazione simile si verifica anche nel contesto dei migranti, che sono in una situazione precaria e che devono far fronte a differenze linguistiche e culturali anche nell’espressione del dolore e nel modo di vivere la malattia. E che dire delle persone senza dimora? In questo caso non basta una generica disposizione all’accoglienza, ma bisogna andarle a cercare, risvegliando in loro la voglia di una vita migliore. Sì, paradossalmente per essere disposti alle cure palliative è necessaria la speranza. Quando si riaccende il desiderio, anche solo quello di non provare dolore, allora la vita ac-
quista di nuovo un significato. Le cure palliative, in questo senso, non sono altro che una forma estrema di ascolto. Nel corso delle conferenze – quelle che ho citato e le altre – mi sono posto molte domande sulla mia capacità di stare vicino a chi soffre, ma anche in generale sul mio lavoro. Che cos’è infatti la letteratura se non un modo per prestare attenzione al mondo? Il pallium, l’antico mantello romano che dà il nome alle cure palliative, avvolge i malati in un modo che non si limita alle competenze mediche. Anche il gesto artistico può essere una cura, nel senso profondo del termine, poiché genera un significato. La bellezza, la creatività, l’ironia sono mezzi di resistenza. Così come la politica, anche l’arte ha senso se diventa «medicina», e cioè un mezzo per stare vicino a chi è povero, a chi si sente fragile. Certo, tutti noi, quando arriva l’ombra della malattia, siamo poveri e fragili. Ma alcuni lo sono più degli altri, e questo non dobbiamo dimenticarcelo.
Andrea Fazioli
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Formaggi d’alpe DOP stagionati 18 mesi
Novità ◆ I reparti formaggio delle maggiori liali Migros hanno introdotto quattro eccellenze dei nostri alpeggi, a nate a lungo in cantina. Saranno disponibili per un periodo limitato
Da secoli i formaggi d’alpe ticinesi sono riconosciuti e apprezzati come elemento imprescindibile della nostra tradizione. Grazie alla loro straordinaria varietà di profumi, sapori e consistenze, sono da sempre protagonisti sulle nostre tavole, regalando momenti di puro e unico piacere gastronomico. Dietro ad ogni formaggio si nasconde un mondo fatto di tradizione, passione artigianale, amore per il territorio, rispetto per gli animali e antiche tecniche di produzione tramandate da tempo immemorabile.
La certi cazione DOP
Nel 2002 il formaggio d’alpe ticinese è stato insignito della prestigiosa DOP (Denominazione di Origine Protetta), riconoscimento che garantisce che il formaggio venga fabbricato sull’alpeggio con latte crudo munto in loco. Chi acquista uno di questi formaggi certi cati con il marchio DOP ha la certezza di acquistare un prodotto genuino e caratteristico, arricchito dei valori aromatici e nutrizionali dell’erba dei pascoli alpini di cui si cibano gli animali. Peculiarità, queste, che conferiscono ai nostri formaggi profumi delicati e gradevoli e un sapore succulento che si accentua man mano che la stagionatura avanza.
Un lungo a namento
Per la gioia di tutti i buongustai, Migros Ticino propone ora per un periodo limitato, nelle liali con reparto formaggio, quattro formaggi d’alpe stagionati per almeno 18 mesi: Cristallina, Predasca, Stabiello e Pian Segno. Queste specialità sono state selezionate tra le migliori della produzione 2022 e, dopo una prima stagionatura di almeno 60 giorni
nella cantina dell’alpeggio, sono stati ulteriormente a nati in una cantina con microclima controllato. Le condizioni ottimali e la cura costante
da parte degli specialisti hanno permesso di raggiungere una stagionatura di oltre 18 mesi in perfette condizioni, senza perdere la cremosità
Gli alpeggi
ALPE CRISTALLINA
Leventina, 1800 m
Corti: da 1700 fino a 1800 m
Il nome dell’Alpe rivela la prossimità con il Pizzo Cristallina. La roccia ed il bosco, i due elementi essenziali del paesaggio di alta montagna, si contendono con la loro forza evocativa lo sguardo del visitatore. A dominare la scena, rivolgendosi a nord, lo spettacolare profilo delle vette che segnano il confine fra la Val Bedretto e il Canton Uri, fino al passo del San Gottardo. L’Alpe, di dimensioni relativamente ridotte, offre un tradizionale formaggio di latte vaccino di caratteristica anima lattica, impreziosito dalle ricche note vegetali e di sottobosco.
ALPE PREDASCA
Val di Blenio, 1742 m
Corti: da 1500 fino a 2400 m
Percorrendo la strada che da Campo Blenio attraversa l’intera Valle di Campo, dopo aver superato i Monti di Orsera e i fitti lariceti della zona, si giunge all’Alpe Predasca. Dal Caseificio si intravede la diga del Luzzone. A sinistra appare in lontananza la Gana Negra, che con i suoi oltre 2’400 M s.l.m. marca la direzione verso il Lucomagno. È in questa direzione che si incastona anche il corte secondario di Pian Prevat. A poca distanza dalla cascina si trova invece la rinomata Capanna Bovarina. Il formaggio dell’Alpe Predasca DOP si è aggiudicato la medaglia di bronzo ai World Cheese Awards 2022-2023 tenutisi a Wales.
ALPE STABIELLO
Val Bedretto, 1821 m
Corti: da 1700 fino a 2800 m L’Alpe Stabiello è costituito da una serie di solidi e antichi caseggiati in sasso. Da qui il panorama si spalanca sull’intera Val Bedretto e sul versante meridionale del San Gottardo. Il formaggio dell’alpe esalta, con la sua ampia bocca di panna e burro, anche il vivace sottofondo aromatico conferito dalle note di fieno alpino, di sottobosco e di mandorla, che si uniscono vieppiù a sentori di agrumi con la stagionatura. Il formaggio dell’Alpe Stabiello DOP si è aggiudicato la medaglia d’oro ai World Cheese Awards 2023-24 tenutisi a Trondheim in Norvegia.
ALPE PIAN SEGNO
Val di Blenio, 1668 m
Corti: da 1668 fino a 1818 m
della pasta, acquisendo un profumo intenso e un aroma unico conferiti dalla preziosa ora alpina, esaltati dalla lunga permanenza in cantina.
Quello di Pian Segno è il secondo alpe più grande del Canton Ticino. Il nome deriva dall’ampio piano sul quale si colloca, situato oltre Campra e sotto Acquacalda. I pascoli si distendono verso il Passo delle Colombe, in prossimità di una vena calcarea, dove le erbe e fiori possono sublimare i propri contenuti aromatici, che passano poi nel latte ed infine in un completo, equilibrato prodotto nel quale la stagionatura enfatizza le note di fiori e le persistenze erbose del sottobosco.
L’immagine di una società che riemerge
Mostre ◆ A Palazzo Viscardi sede del Museo Moesano è stata da poco inaugurata la nuova esposizione archeologica permanente
Stefania Hubmann
Visitare un museo è sempre più sovente un’esperienza interattiva e immersiva. All’avanguardia non sono però solo le grandi istituzioni, ma pure realtà regionali come dimostra il Museo Moesano a San Vittore attraverso la nuova sezione della mostra archeologica permanente. Nello storico Palazzo Viscardi, che da 75 anni o re un’attività museale al passo coi tempi, l’approccio della recente sezione si spinge persino oltre, proponendo un percorso introspettivo legato alla progressiva conoscenza di un tema – la morte e i riti ad essa legati durante l’età del Ferro – a rontato in un’ottica che rimanda soprattutto alla vita. Curatori del nuovo allestimento sono Nicola Castelletti e Maruska Federici-Schenardi. Museografo e membro della commissione direttiva del Museo Moesano il primo, archeologa e vicepresidente della medesima commissione la seconda, i due professionisti hanno lasciato che la nostra scoperta dell’esposizione L’immagine di una società fosse un’esperienza individuale come quella di qualsiasi visitatrice o visitatore, proprio nell’intento di non rovinare il risvolto immersivo. In e etti colpiscono la connotazione cromatica del percorso, la possibilità di far riemergere con le proprie mani alcuni oggetti o ancora il tradizionale gioco dell’oca rivisitato quale metafora della vita. Si passa a ogni tappa dall’ombra alla luce, dalla morte alla vita, dal passato al presente. Al «viaggio» contribuiscono anche un’animazione sul rituale della cremazione nell’età del Ferro e non da ultimo l’oggetto simbolo dell’allestimento: un calderone con attacchi a croce. «Questa forma di recipiente in bronzo è conosciuta in tutta Europa», spiegano i curatori. «L’esemplare esposto, rivenuto in una tomba a Castaneda dove venne deposto avvolto in un panno funerario in cuoio attorno al 480 a.C., è però il primo trovato in Svizzera nella sua integrità, ciò che ne accresce l’importanza». Da segnalare, verso la ne del percorso, il clin d’oeil alle origini del Museo con un armadio aperto a svelare oggetti etnogra ci legati alla nascita e alla morte. Tutti gli elementi della mostra sono volti a permettere al pubblico di ogni età di immer-
gersi, con il supporto di testi bilingue italiano e tedesco, nel remoto passato del primo millennio a.C. per guardare poi alle proprie origini e al presente, quest’ultimo evocato dalla postazione nale che lasciamo a ognuno il piacere di scoprire.
«I reperti della nuova sezione –proseguono i nostri interlocutori –provengono da indagini archeologiche condotte a Cama nel 2019 e a Castaneda nel 2021. Nelle due località sono state rinvenute altrettante tombe, la prima ad inumazione e la seconda ad incinerazione, entrambe con un ricco corredo composto da oggetti di uso quotidiano. È quindi interessante notare che nell’età del Ferro si praticavano già i due tipi di sepoltura come ai nostri giorni». Un altro aspetto rilevante, evidenziato pure nell’allestimento, riguarda il ritrovamento nelle tombe di una parte del corredo del banchetto funebre. «Anche questa caratteristica – precisa Nicola Castelletti – rimanda a un rituale (il banchetto) ancora attuale in culture a noi vicine. Nel contempo indica però come nell’età del Ferro l’attenzione fosse rivolta al viaggio nell’aldilà della persona defunta, accompagnata per l’occasione da oggetti di grande pregio». Questi oggetti, ritrovati in Mesolcina e Calanca nell’ambito di cantieri edili, restano quindi sul territorio quale simbolica restituzione alla comunità di appartenza. L’operazione si inserisce nel solco della collaborazione instaurata dalla Fondazione Museo Moesano con il Servizio archeologico dei Grigioni che ha visto l’innovativo approccio concretizzarsi nel 2010 con l’apertura della sezione archeologica al Museo di San Vittore. Precisa Maruska Federici-Schenardi, curatrice di questa prima sezione: «I lavori di costruzione del tunnel autostradale a Roveredo sono stati l’occasione per riportare alla luce nei primi anni Duemila numerose testimonianze archeologiche che hanno permesso – unitamente a quelle emerse durante la costruzione dell’asse autostradale alcuni decenni prima – di ricostruire la storia del popolamento del Moesano presentandola poi nella sezione archeologica. La volontà locale di aprire questa
sezione a San Vittore (oltre a quella del Museo retico di Coira) ha trovato l’accordo del Servizio archeologico cantonale che ci ha invitato a proseguire su questa via dopo i recenti ritrovamenti di Cama e Castaneda. In questo modo l’esposizione del Museo funge pure da spunto per andare alla scoperta del territorio». Coprendo un arco temporale che parte dalle prime esplorazioni della regione 9000 anni orsono per giungere no al Medioevo, la sezione archeologica fornisce informazioni sul contesto nel quale si inserisce la nuova mostra tematica. Già nel 2010 la curatrice ha immaginato di condurre il visitatore lungo un percorso – in questo caso cronologico e geogra co – che lo coinvolga emotivamente. Maruska Federici – Schenardi ha ripreso ad esempio l’immagine delle vette della valle attraverso pannelli verticali, presentando inoltre un focolare originale risalente all’età del Ferro (prelevato in blocco dal cantiere archeologico di Roveredo-Valasc) e inscenando due tombe, una femminile e l’altra maschile.
La sezione archeologica con le
due nuove sale tematiche, di cui una è dedicata all’archeologia sperimentale, occupa l’intero secondo piano di Palazzo Viscardi. Il primo è invece dedicato ai Magistri moesani: architetti, costruttori e altre maestranze edili attivi nei secoli XVII e XVIII soprattutto all’estero. Un totale di circa 500 nomi completati da origine e professione con in evidenza i più illustri fra i quali spicca Giovanni Antonio Viscardi, legato alla storia del palazzo che lo celebra. La sede espositiva ha mantenuto al pianterrreno due sale a carattere etnogra co, vocazione inizialmente preponderante del Museo. Nel corso dei suoi 75 anni di attività il Museo Moesano ha conosciuto progressivi sviluppi nei contenuti e nella loro presentazione con l’obiettivo di avvicinarsi alle esigenze del visitatore catturandone l’attenzione. La sala multimediale con banca dati dei Magistri moesani, ora disponibile anche sul portale Porta Cultura del Canton Grigioni (www.portacultura.gr.ch) è un esempio dell’aggiornamento tecnologico dell’istitu-
Avventure fuori dalla porta di casa
zione. Un impegno costante è inoltre riservato alle o erte didattiche con le quali si cerca di coinvolgere le scuole grigionesi e ticinesi. L’importanza dell’asse di transito mesolcinese attraverso le Alpi – messo a dura prova dalle recenti calamità naturali – ha caratterizzato la regione già dal Mesolitico e viene restituita nel Museo attraverso reperti, storie e ricostruzioni dei suoi popolamenti. Sui possibili sviluppi del Museo Moesano, in particolare per quanto riguarda la sezione archeologica, Nicola Castelletti e Maruska Federici-Schenardi confermano che «dal punto di vista dei ritrovamenti il potenziale è ancora elevato, perché da millenni l’intera regione è densamente popolata. Gli spazi dell’edicio invece non sono in niti, ma non è escluso un recupero dei vani del sottotetto». Chissà, quindi, che l’imponente calderone non sia in futuro a ancato da altri oggetti altrettanto preziosi.
Informazioni: www.museomoesano.ch
Ticino ◆ Eliana Blättler e Carolina Cenni Rezzonico hanno da poco pubblicato una vivace guida appositamente pensata per i bambini, un invito a esplorare con curiosità il nostro Cantone
Nel web non è di cile trovare consigli per gite, itinerari, visite ed esperienze sul nostro territorio. Il canton Ticino in e etti si presta molto bene a fare i «turisti in casa»: quanti angoli ancora non conosciamo o abbiamo sempre guardato distrattamente? Quante volte non ci siamo presi la briga di sapere qualcosa in più della storia di ciò che ci circonda? E quanti weekend ci siamo trovati a domandarci «cosa facciamo oggi»? Soprattutto se si è genitori la domanda arriva direttamente dai bambini che di energia ne hanno sempre in abbondanza pari solo alla voglia di esplorare posti nuovi. Per ora, dicevamo, la maggior parte delle informazioni le si trovava online, sono molti i siti e i blog dedicati, man-
cava invece una proposta «su carta». A colmare questa lacuna ci hanno pensato Eliana Blättler e Carolina Cenni Rezzonico con il loro libro, da poco pubblicato, Ticino che avventura! Entrambe hanno lavorato per anni nell’ambito della comunicazione nel settore turistico, entrambe sono mamme a tempo pieno di bambini dai 7 agli 11 anni. «Volevamo creare un libro che fosse direttamente fruibile dai bambini – ci racconta Eliana Blättler – insomma una piccola guida da dare in mano ai più piccoli ma che fosse anche una fonte di ispirazione per i genitori, che li aiutasse a coinvolgere igli in gite fuori casa alla scoperta del nostro territorio. Per questo motivo abbiamo scritto testi brevi, adatti al-
la comprensione di bambini dai 4 ai 10 anni, e arricchiti dalle illustrazioni di Shari Bresciani. Anche in questo caso abbiamo scelto immagini avvincenti, divertenti e… verosimili perché riproducono caratteristiche del paesaggio che i bambini possono osservare direttamente». Così, i nostri piccoli volpacchiotti sono invitati a scoprire 17 itinerari, che toccano le regioni Bellinzona e Valli, Locarnese e Valli, Luganese e Mendrisiotto. Nel libro si trovano inoltre dei giochi, facili quiz da risolvere sul posto, degli stiker, una cartina, una tabella riassuntiva con informazioni pratiche e una sezione «E se piove?»
«L’idea è nata già due anni fa, da un confronto tra mamme, la fase di sviluppo e realizzazione è stata lun-
ga – continua Eliana Blättler – siamo grate a chi ci ha sostenuto: sia istituzioni, il DECS con l’Aiuto federale per la lingua italiana, la Città di Bellinzona, la Città di Locarno e il Comune di Minusio, sia privati che hanno creduto nel nostro progetto tramite la piattaforma progettiamo.ch. Per ora siamo molto contente del riscontro, la prima edizione è già esaurita, siamo alla ristampa e stiamo pensando alla traduzione in tedesco e in francese, che prevediamo in settembre, così da poter raggiungere un pubblico più ampio e coinvolgere le famiglie di turisti che vengono a scoprire il nostro Cantone». / Red.
Informazioni www.ticinocheavventura.ch
La sede del Museo risale al 1548, il palazzo sarà trasformato da Giovanni Antonio Viscardi, architetto di corte del principe elettore bavarese, tra il 1680 e il 1700, la sua opera è celebrata nella mostra sui Magistri moesani. (Museo Moesano)
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Il bello di incontrarsi allo Spazio L’ove
Cultura indipendente ◆ Visita al Luganetto, uno stabile di Viganello dove un gruppo di creativi propone arte e serate conviviali
Sara Rossi Guidicelli
Tutto parte dal Cinema. E arriva a qualcosa di ancora più importante.
Vado al Luganetto, uno stabile degli anni Quaranta dall’aria simpatica, nel cuore di Viganello, che un tempo era il refettorio per gli operai di una ditta edile. Vado a incontrare l’Associazione Luganetto, quella che da alcuni anni gestisce lo Spazio culturale L’ove. Quando cammino per Lugano e vedo un edificio con una storia, non troppo alto e più vecchio di me, sono sempre felice.
Sono rari momenti e, ancora più rari, in città, sono i luoghi dove si può andare a fare qualcosa di oramai speciale, rivoluzionario e desueto: stare con altra gente. Magari senza spendere niente, senza badare al vestito e senza uno scopo preciso: semplicemente ci andiamo per vivere.
Un tempo era il refettorio per gli operai di una ditta edile, poi la sede della Comunità aramaica, ed ora è una sede per la cultura indipendente
Dentro lo Spazio L’ove trovo Eleonora, che mi accoglie con entusiasmo e mi mostra il suo ufficio dove lavora per un’azienda medica: lo condivide con due grafiche; due altre porte racchiudono i locali dove lavorano altre persone. Vanni, film-maker, mi fa un caffè nella cucina, poi ci sediamo in salotto, nel grande salotto con la lunga vetrata, il divano verde, lo spazio per conferenze o spettacoli. Le poltroncine piano piano si riempiono: arrivano altri abitanti della casa. Non che vivano qui nel senso stretto della parola: un letto ce l’hanno altrove, ma a Luganetto passano moltissimo tempo, non solo di lavoro. C’è Muriel, che è arrivata da Losanna anni fa per studiare comunicazione visiva ed è rimasta a Lugano; Antonio Prata, che già conosciamo perché è un programmatore cinematografico e dirige il Festival dei Diritti Umani; Alan, regista e insegnante di video al Csia, che arriva per ultimo. Del Comitato fanno parte cin-
Viale dei ciliegi
Daniele Movarelli & Alice Coppini Larry & Starry Sinnos (Da 7 anni)
«Starry, non sopporto più Barry», dice Larry. «Neanche io Larry. No, no» ribatte Starry. «Ruba sempre il cibo». «Il nostro cibo. Il nostro». «Veramente Barry ruba il cibo dei campeggiatori», precisa Larry. «Sì, è il cibo dei campeggiatori. Ma è nostro», dice Starry leccandosi i baffi. «È ora di dare una lezione a Barry». «È ora di mangiare». Gli scoiattoli non pensano molto, ma quando pensano è molto probabile che stiano pensando al cibo. «Scusa Larry, volevo dire: è ora di dare una lezione a Barry». «Bene», sospira il cervo. «Larry?». «Dimmi, Starry». «Ma chi è Barry?». «…». Per dare un’idea di questa storia non si può che citarne un brano. In questo caso, il brano che apre la vicenda: siamo in un bosco, con Larry il cervo e Starry lo scoiattolo. Per dare un’idea ancora migliore avrei dovuto andare a capo dopo ogni battuta, perché il ritmo, e l’impianto stilistico, di questo agile libretto rimandano dritti al genere teatrale, e se vogliamo avere un rife-
que persone, mentre nello spazio di coworking lavorano in tredici. «All’inizio volevamo trovare un posto per proiezioni cinematografiche», racconta Antonio, che nel , dopo la chiusura del Living Room, si è ritrovato senza una sala per la rassegna Nuovo Cineroom. E così hanno trovato questo bell’edificio vuoto, appena lasciato dalla Comunità aramaica e che risuonava ancora dei loro canti, balli e momenti conviviali. «Poi è arrivata la pandemia e una compagnia di registi, fotografi, grafici, ha preso qui la propria scrivania. Fanno parte della scena artistica luganese che si sta sviluppando in questi anni. Finiti i lockdown, e dopo l’abbattimento del Macello, si è rafforzata la voglia e la ricerca di spazi dove incontrarsi e sviluppare idee: si rivendicava il bisogno di luoghi dove far nascere ciò che sentivano premere dentro». L’esperienza della Straordinaria Tour Vagabonde è stata un detonatore: grazie a una torre di legno ci si è accorti che era possibile avere in città un luogo dove andare, magari senza spendere niente, senza badare al vestito e senza uno scopo preciso: semplicemente dove ritrovarsi e vivere.
Ora si dice che in Città c’è un vuoto, che mancano gli spazi della cultura indipendente. Se ne parla molto, ma… qui dove sono oggi c’è una sacca di resistenza. Lo Spazio L’ove ha una programmazione che propone spettacoli teatrali, performance musicali, conferenze, mostre d’arte, proiezioni di film, presentazioni di libri e soprattutto è un luogo di creazione artistica; funge da ritrovo per altre associazioni, ha accolto Radio Gwendalin, #cine Lugano vi ha trovato una casa. Ma è lo scambio umano che rende questo salotto uno dei più preziosi che vi siano ora in città.
«Noi siamo qui ogni giorno per lavoro», racconta Vanni. «Ma poi in cucina, con una tazza di caffè in mano, nascono idee e desideri». Mi viene in mente come un fulmine La storia infinita. Ricordate cosa dice? Che se muoiono le idee e i desideri si distrugge un mondo fantastico e tutti noi diventiamo docili e governabili.
rimento più preciso possiamo pensare al teatro dell’assurdo, con quel «chi è Barry?» che torna, a tormentone, e viene sistematicamente lasciato cadere. Poi Barry si manifesterà, ed è un orso, un placido orso, ma non è quello il punto, perché questa non è una di quelle storie dove conta la trama, qui ciò che conta è proprio il ping pong delle battute, divertenti, ironiche, di un umorismo tipicamente inglese, anche se gli autori sono italiani. Per Daniele Movarelli, l’autore dei testi, l’umorismo è sempre un ingrediente
Ma torniamo nel nostro salotto. Muriel spiega: «Cerchiamo di proporre personaggi e artisti meno conosciuti o della scena sperimentale. Chi ha già il suo posto nei grandi teatri o sale da esposizione o concerto, è già a posto. Noi diamo la possibilità di esibirsi e farsi conoscere ai futuri ospiti dei grandi palcoscenici… da qualche parte devono pur cominciare, no?». All’inizio è andato tutto con il passaparola. Si aspettavano qualche amico, oggi hanno cinquecento tesserati tra i e i anni e sono sempre aperti a nuovi arrivi. «In pratica condividiamo con altri quello che piace a noi, stiamo attenti alla qualità e alla novità. Poi ci sono
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fondamentale, e qui lo esprime attraverso questa coppia di animali amici, una tipica coppia comica: Starry, lo scoiattolo, iperattivo e un po’ «svitato»; Larry, il cervo, più tranquillo e pensieroso.
Larry & Starry esce nella collana «Leggimi!» di Sinnos, una collana di libri ad alta leggibilità (stampati su carta color avorio per non stancare la vista, con una font che facilita la decodifica dei caratteri, con una grafica che rende visibile il ritmo delle frasi, con un formato agile e maneggevole) ma non per questo è per lettori piccoli, in quanto la tipologia di umorismo lo rende più adatto, e più apprezzabile, a partire da , e ancor meglio da anni. Naturalmente è anche particolarmente adatto alla lettura ad alta voce, proprio per la sua squisita teatralità.
Orianne Lallemand –Éléonore Thuillier
Il Lupo che non amava leggere Gribaudo (Da 3 anni)
Lupo adora i libri, gli piacciono proprio tanto, li divora letteralmente:
qualcuno porta una seggiolina per fare due chiacchiere, i bambini danno vita a un gioco che prima non esisteva; lì, possono nascere idee nuove e nuovi stili musicali. Alan le dà ragione: «Non è nella solitudine che si può creare. Confrontarsi solo con se stessi non porta a niente, non dà né fiducia, né stimoli. Questo spazio mi ha salvato quando ho finito la scuola e c’era il Covid». Torniamo al salotto. «Chiediamo di essere riconosciuti», mi spiegano Eleonora e Julie, la nuova arrivata in Via Luganetto . «C’è molto da fare in Ticino per riconoscere il valore della cultura indipendente; ci vorrebbe una normativa che ci permetta di fare progetti a lunga scadenza in edifici dall’affitto moderato; ci vorrebbe una tolleranza maggiore rispetto al rumore e agli orari di chiusura». A Zurigo ci sono quartieri interi votati al ritrovo di persone che coltivano il piacere di stare insieme; la municipalità fa in modo che questo sia possibile perché sa che è un investimento nella qualità di vita degli abitanti e nella creazione artistica cittadina. Permette a persone che fanno lavori poco redditizi di avere una scrivania o un atelier e di restituire alla popolazione aprendo ogni tanto le porte del suo studio. E sa anche che la felicità genera un rumore più bello di quello dei cantieri.
moltissime proposte che ci arrivano da fuori. Il lavoro è tanto e ovviamente è tutto a titolo di volontariato», sorridono. Mi immagino le giornate a organizzare, le sere ad accogliere, le mattine a pulire. Che lavoro prezioso per la comunità. Ma c’è una spada di Damocle sopra la loro testa: lo stabile è già in vendita, probabilmente verrà abbattuto (un altro pezzo di Lugano che se ne va) per farne palazzine di appartamenti, non una piazza, un orto o un campo dove inventarsi cosa fare. Ricordo un’urbanista che diceva: ogni paese o città dovrebbe avere qualche spazio libero, senza una funzione precisa. È lì che si vive davvero, che si trova se stessi. Ci si incontra,
«C’è una cosa importante che si sta dimenticando», mi dicono. «Che la cultura si crea nell’incontro. Va benissimo offrire prodotti artistici già fatti, ma non possiamo rifiutarci di dare alle persone l’humus dove far nascere qualcosa». Si dice spesso che i telefonini stanno distruggendo il nostro modo di stare insieme. Ma lo sviluppo urbanistico, allora? «La cultura indipendente ti permette di conoscere il tuo vicino di casa. Di affezionarti al territori in cui vivi. Perché vieni qui e ti metti comodo, puoi arrivare molto prima e ripartire molto dopo la proposta artistica; incontri persone, parli di quello che ti sta a cuore, vedi che non sei solo al mondo e ti accorgi che non hai bisogno di molto altro».
«Tutti passavano sotto i suoi denti affilati»! Eh sì, Lupo i libri li mangia ma non li legge. E allora gli verranno in aiuto gli amici, per fargli vivere avventure appassionanti tra le pagine, da divorare, ma con la lettura.
Il Lupo che non amava leggere è solo uno dei tanti titoli della serie «Amico Lupo» dell’editore Gribaudo, che da dieci anni traduce in italiano la serie «Loup», nata in Francia nel , e portata avanti nel corso degli anni dall’autrice Orianne Lallemand e dall’illustratrice Éléonore uillier
con un successo inarrestabile: sette milioni di albi nel mondo, pubblicati in Paesi e tradotti in lingue. Lupo è amatissimo dai bambini, forse perché è un po’ come loro. E come tutti noi. Prova a fare le cose, a volte si sbaglia, a volte non le capisce, a volte si arrabbia, fa i capricci, litiga, si calma, poi vuole strafare, si caccia nei guai, ricomincia da capo. I libri della serie, dalla copertina morbida, su cui campeggia ogni volta il suo musone col lungo naso e i dentoni, sono dedicati a situazioni e contesti condivisibili dai piccoli lettori, ad esempio: Il Lupo che voleva fare il capo, Il Lupo che aveva paura della sua ombra, Il Lupo che trovò un nuovo amico, e così via. Amato da piccoli e grandi, Lupo, come tanti personaggi dei classici per l’infanzia, è diventato anche un fenomeno cross-mediale e di merchandising: peluche, gioco da tavola, cartone animato, cartoleria… ma resta sempre il simpatico, buono, goffo antieroe che mette alla prova se stesso in ogni avventura, senza arrendersi, per imparare nuove cose e diventare un po’ migliore.
di Letizia
Bolzani
Nato come sala per proiezioni cinematografiche per la rassegna Nuovo Cineroom lo Sapio L’ove è ora molto di più.
RACING
Stabile la popolazione dei serpenti
Mondoanimale ◆ Biacco o colubro di Esculapio: pensare che siano di più degli scorsi anni è solo una nostra percezione
Maria Grazia Buletti
Molti hanno l’impressione che quest’anno il numero di serpenti sia aumentato. È pure vero che lo scorso mese di giugno ne abbiamo incontrati parecchi ed è sempre facile vederne soprattutto in quei giardini che conservano una certa biodiversità, dove più d’uno può essere stanziale. Così, sui social è capitato leggere che questo è «l’ann da biss» (l’anno delle bisce). Ma non è così e ce lo spiega il noto appassionato di erpetologia, e profondo conoscitore dei serpenti del nostro territorio, Grégoire Meier: «In realtà, il numero di serpenti è il medesimo degli scorsi anni, ma è legittima la sensazione di parecchi di noi che affermano di averne visti più degli anni passati». La spiegazione c’è e va a braccetto con la meteo ballerina che ci ha accompagnati lungo tutta la primavera: «Gli ultimi anni sono stati caratterizzati dal secco primaverile con i problemi relativi alla carenza di acqua. Per contro, questa primavera abbiamo avuto parecchie giornate di pioggia e diversi ritorni al freddo: fenomeni che hanno posticipato o messo in pausa l’attività dei rettili. Le giornate che ci hanno permesso di osservarli sono state poche, così come pochi i momenti in cui siamo potuti uscire a goderci il bel tempo e il caldo, e questo è valso anche per i serpenti: appena c’è stata una schiarita, sia noi che loro siamo usciti all’aperto e gli incontri si sono rivelati più probabili e più frequenti».
Una spiegazione logica, suffragata dal fatto che, dice Meier: «I serpenti non sono funghi che crescono in un dato periodo piuttosto che in un altro: ci sono sempre ma, schivi come sono, cercano di non essere notati dai grandi predatori. Se però, tra una pioggia e un temporale, dispongono di poche ore di schiarita per scaldare il loro corpo, accoppiarsi, mangiare e via dicendo, allora cercano di sfruttarle al meglio ed è più facile incontrarne». Anche nei nostri giardini: «Nel nostro immaginario, i serpenti sono visti come animali molto asociali e primitivi, ma è verosimile che abbiano una loro socialità superiore a quella che noi attribuiamo loro: se le risorse vitali sul territorio sono buone, se le condividono e vi convivono in più d’uno. Il colubro (talvolta detto, a torto, «scorson», nome attribuito al biacco) vive tra golene dei corsi d’acqua, pietraie e radure, preferibilmente secche e asciutte. Ma non disdegna neppure i nostri giardini dove cerca ambienti caldo-umidi quando cambia la pelle, spostandosi poi nelle zone dove può cacciare e così via».
Per questo serpente il pericolo maggiore è rappresentato dal fatto che viene scambiato per una vipera, perciò talvolta è ingiustamente ucciso: «Anche se l’incontro con un serpente non fa piacere a tutti, bisogna ricordare che le specie di rettili presenti in Ticino sono protette a livello federale e cantonale. E ad ogni modo, prendere a ba-
stonate o a sassate un serpente, anche se fosse una vipera, è una cosa assolutamente priva di senso». Una premessa, prima di parlare della grande differenza che intercorre fra il colubro di Esculapio (Zamenis longissimus), totalmente innocuo e schivo, e la Vipera: «Innanzitutto, basterebbe osservarli, sorpassarli evitandoli e proseguire per la propria strada perché anche la Vipera, se lasciata in pace, non ha alcun interesse a interagire con l’essere umano e neppure a morderlo. Purtroppo, i serpenti scontano la brutta fama di cui patiscono, ma non dobbiamo dimenticare che, in quanto predatori, anch’essi svolgono un ruolo ecologico molto importante: tenere sotto controllo la popolazione delle loro prede (come topi e lucertole) e mantenere in equilibrio la biodiversità».
Un esemplare femmina di Vipera aspis atra. (Grégoire Meier)
Facile riconoscere biacco (Hierophis viridifalvus) e colubro di Esculapio, distinguendoli dalla Vipera: «Biacco e colubro di Esculapio appartengono entrambi alla stessa famiglia; il colubro di Esculapio è più lento del biacco e tendente al marrone, olivastro, verdognolo. Si distinguono entrambi dalla Vipera per il corpo nettamente più slanciato e magro, mentre la Vipera è più tozza, cicciottella, meno agile e quando scappa via è meno fulminea. Inoltre, il colubro ha una coda molto lunga che diventa sempre più fine, assottigliandosi sempre più fino a scomparire. La Vipera, per contro, ha una coda corta che finisce quasi a punta. Infine, la pelle della maggior parte dei colubri è piuttosto lucida, mentre la Vipera è alquanto opaca». Nei pressi di un serpente, il nostro
interlocutore ribadisce di mantenersi comunque sempre a debita distanza («minimo uno o due metri») e, qualora stesse dormendo in mezzo a un sentiero, bisogna evitarlo senza infastidirlo: «Dobbiamo sempre guardare dove mettiamo le mani o i piedi, ma se distrattamente avviciniamo, calpestiamo o tocchiamo un colubro che non riesce a scappare via come una saetta, allora potrebbe mordere; ciononostante non dobbiamo spaventarci: il suo morso è innocuo e come un graffio di un rovo; basta semplicemente disinfettarlo». Bisogna comportarsi come con qualsiasi altro animale: «È sempre più probabile che sia lui a scappare così come, ad esempio, farebbe una volpe, uno scoiattolo o un cervo. Allora osservi, fai il giro largo e prosegui per il tuo sentiero». Insomma, basta lasciarlo tranquillo: «Si tratta di un animale molto istintivo e basilare e, per logica, un serpente che non pesa più di grammi percepisce come un predatore anche un bambino di soli dieci chili che non aggredirà mai, prediligendo la via di fuga».
Non da ultimo bisogna tenere a bada i cani, nel bosco e nel giardino: «Il colubro di Esculapio tende sempre a scappare, ma se preso da un cane potrebbe essere ferito o fatto a pezzi. Comunque, anche per un cane l’eventuale, anche se improbabile, morso di un colubro di Esculapio è innocuo e va solo disinfettato».
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L’altropologo
La Panda e la Ferrari
Facciano gli aficionados di questa rubrica lo sforzo di immaginare il salone del bar della Sede dell’Associazione Nazionale Alpini d’Italia. La location rimanga anonima a scanso di rischi. Dico solo che siamo in un piccolo ridente villaggio dell’Alto Bellunese, Dolomiti. Data e ora dell’evento che stiamo per narrare: giugno , .. Una nutrita pattuglia di veterani di quello che è senza dubbio il corpo in divisa più popolare – e pittoresco – dell’esercito a Sud delle Alpi: seduti, allineati e coperti, come all’adunata sotto naja rivolti stavolta non alla bandiera ma al maxischermo tv. Tutti sono già ben carburati: con un’ombra di vino (buono) che sale in montagna (da quelle parti si dice che l’acqua va in giù ma il vino viene in su) dalle pianure trevigiane a cinquanta centesimi il bicchiere si possono immaginare animi già surriscaldati dall’attesa, dalle previsioni, dalle profezie oracolari, maghi e indovini di ogni scuo-
la di pensiero. Insomma: la tensione scorre a fiumi: «Portami ancora un’ombra!». Finalmente partono gli inni nazionali. Qualcuno fa commenti sulle maglie rosse dei Confederati: «Anche gli svizzeri sono diventati comunisti…». Lazzi, cachinni, qualche pernacchia. Quando la Regia Speciale RAI inquadra gli azzurri in primo piano, mano sul cuore stile americano (fino a qualche anno fa si stava sull’attenti) e stonature imbarazzanti sull’Inno di Mameli parte qualche fischio: gli Alpini ai cori – siano di montagna o di pianura – ci tengono. Si sente un commento là in fondo: «Per forza: prima delle partite gli impediscono di bere…!». Sghignazzo catartico poi finalmente ventidue giovanotti in mutande (come scrisse il grande Gianni Brera) prendono a calci la pelota Che i confederati non si misurassero a legnate coi transalpini (assumo la prospettiva da Nord a Sud, elvetico centrica) non accadeva dall’ulti-
La stanza del dialogo
ma volta che ci avevano provato. No. Non intendo la Battaglia di Arona del Gennaio – allora i Visconti, che erano ancora milanesi/lumbard si ripresero i territori confederati a Sud delle Alpi. Da allora pace per tutti. Eccetto ai calci alla pelota e l’occasionale, incruento (?) sequestro di cioccolata/sigarette in uscita e mazzette di banconote in entrata. Il tutto senza rancore. Per quanto riguarda il calcio, Italia-Svizzera è la partita internazionale più giocata dall’Italia e l’ultima (unica?) volta che il risultato di Arona si ribaltò fu anni fa. Per il resto si dormiva tranquilli, da questa parte: la Guardia svizzera a far folclore in Vaticano e noi a fare sfracelli in campo. Tutto chiaro: da buoni vicini ognuno faccia la sua parte e in condominio tutto fila liscio. Ma stavolta si capisce subito – fra gli stessi alpini – che qualcosa non va. Il Tiki-Taka «alla spagnola», rete di brevi passaggi orizzontali come in corrida per ubriacare il toro pri-
di Cesare Poppi
ma dell’affondo finale, fa ubriacare solo gli azzurri che non ci capiscono più niente: girano a vuoto senza costrutto. Voce dal fondo «Che siano ubriachi?!». Ci pensano le Guardie svizzere a far vedere come si fa: al ’, dopo passaggi Tiki-Taka (passerà alla storia come la più lunga sequenza in possesso di palla di una competizione internazionale) la palla va a Freuler, centrocampista. Controllo di destro, e pennellata al volo di sinistro: la pelota è nel sacco. Italia-Svizzera: -. In sede alpini cala il gelo. Sguardi allibiti. Increduli. Solo uno esulta: balza in piedi e grida al gol. Tutti si voltano. Si tratta dell’A l tropologo –sì, il vostro preferito. «Evvaaaai, Remo!». Ho rischiato il linciaggio: uno come me che ha fatto servizio militare in fanteria (gli alpini la chiamano «la Buffa»), non è nato nel villaggio, esulta per il gol del nemico e per giunta – essendo nato a Bologna, essendo tifoso del Bologna – è
di Silvia Vegetti Finzi
Quanto è difficile liberarsi dagli oggetti accumulati
Gentile signora, le scrivo in quanto recentemente ho riflettuto sulle cose che ho: armadi pieni di vestiti, cucina piena di utensili e cantina con molti oggetti e beni che non uso mai. Onestamente ho la cantina piena, ma non so cosa ci sia. Faccio fatica a fare ordine in casa e faccio fatica soprattutto a donare e a buttare vestiti e oggetti che non uso da molto tempo. Il mio desiderio è quello di poter avere l’essenziale, il giusto per vivere e lasciarmi alle spalle il passato e liberarmi del superfluo. Mi piacerebbe avere solo cinque jeans, cinque mutande, cinque paia di calze, cinque paia di scarpe e una giacca. Il resto è inutile, non ne ho bisogno. Ma mi manca il coraggio di buttare e di liberarmi dell’inutile. Secondo lei da dove posso iniziare per ricominciare?
Grazie mille per le sue parole e scritture molto profonde e sagge. / Alex
Caro lettore, grazie per il suo apprezzamento e per la fiducia che esprime la sua domanda. Lei mi chiede: «Da dove posso iniziare per ricominciare?». Da se stesso, dalla sua storia, da vicende che hanno determinato le difese con le quali cerca di colmare il buco nero che lacera la sua anima. Un vuoto che non riconosce nonostante condizioni la sua esistenza.
Molti penseranno che viviamo nella società dei consumi e che mille incentivi ci inducono, sin da bambini, a desiderare cose, beni materiali, piuttosto che affrontare desideri impossibili, come sposare la mamma o il papà oppure annullare la so-
La nutrizionista
rellina o il fratellino che minacciano il nostro posto nella famiglia. Ma si tratta di fantasie infantili destinate a sparire verso i sei anni, quando inizia l’età di latenza, che non causano, come nel suo caso, sofferenza e consapevolezza e tanto meno, domande di comprensione e di aiuto.
Lei soffre, suppongo, di una «coazione a ripetere»: un comando inconscio che le impedisce di eliminare il superfluo. Vorrebbe farlo ma non ci riesce. Perché? Perché sarebbe come scoperchiare un buco nero che fa paura. Si rende conto che il superfluo si misura sul bisogno degli altri. Ma gli altri nella sua vita non ci sono.
Gli oggetti accumulati formano una barriera che la isola, persino da se stesso. Di conseguenza sta soffocan-
Quando si può cominciare a bere caffè?
Buongiorno Laura Botticelli, ho un figlio di anni che vuole bere caffè; me lo chiede al mattino o dopo pranzo soprattutto, ma a me sinceramente non va. Sono preoccupa per questa cosa, perché credo non faccia bene la caffeina a alla sua età. Mio marito invece è più permissivo, dice che ormai è grande e che il suo corpo è pronto, quindi non so come comportarmi. Per evitare «litigi» opto per il compromesso: caffè decaffeinato… Le scrivo quindi per chiederle se è vero che la caffeina fa male agli adolescenti o se invece possono berla, e se sì, in quale quantità e frequenza? Oppure è meglio puntare sul decaffeinato? E in questo caso: a che età iniziare col vero caffè? / Susanna
Buongiorno Susanna, per risponderle faccio affidamento a quello che attualmente i pediatri raccomandano: è di fatto sconsigliato il consumo di caffeina ai bambini sotto i anni (come il consumo di qualsiasi altra bevanda energetica), mentre per i
giovani tra i e anni – fascia d’età in cui si trova suo figlio – suggeriscono di limitare la caffeina al massimo a mg al giorno. Cosa significano mg? Per permetterle di fare una stima consideri che un caffè espresso di circa ml contiene generalmente -mg di caffeina a seconda della macchina e dal metodo di estrazione; un caffè americano o caffè filtrato invece contiene in una tazza standard di circa ml tra e mg di caffeina a dipendenza della forza del caffè; una tazza media di circa ml di quello istantaneo può contenerne da a mg. Vorrei ricordare però che non è solo il caffè a contenere caffeina ma anche alcune bevande come la coca cola (una lattina da ml ne contiene mg), il tè nero (una tazza da ml ne ha mg, mentre una bottiglietta di tè fretto pronto da bere ne ha mg) e il tè verde (ml ne ha mg), non solo: è presente pure
in alcuni alimenti come la cioccolata (una barretta di cioccolato fondente da g ne contiene circa mg mentre una di cioccolata al latte circa ml). Queste bevande e la cioccolata fanno parte dell’abituale alimentazione di suo figlio?
A dirla tutta, da genitore, non vieterei il consumo di caffè perché sappiamo come vanno le cose quando si proibiscono determinati comportamenti o consumi: il «cibo proibito» diventa più affascinante e invoglia di più a consumarlo, magari di nascosto e quindi senza controllo. Essendo abbastanza grande, io gli spiegherei che può bere un po’ di caffè ma facendo attenzione che nella stessa giornata non ci siano poi altre fonti come bevande a base di tè o alimenti con cioccolata; questo perché la caffeina ha degli aspetti negativi sulla salute: può creare dipendenza e gli adolescenti possono essere particolarmente suscettibili ai suoi effetti stimolanti. Questo può portare a
noto come «il Comunista»… Non è accettabile. Il problema è che Freuler Remo è l’amatissimo regista del Bologna dei Miracoli di iago Motta, tornato alla ribalta del calcio internazionale dopo almeno quarant’anni di assenza. E con lui, a giocare nel Bologna, anche il grande Aebischer e Ndoye – che sarà grande. Me la sono cavata per il rotto della cuffia: più di un quarto dei confederati hanno imparato da giovincelli a giocare sotto le Due Torri. E poi – tutto sommato – la bandiera svizzera prevede Croce Bianca in Campo Rosso. Quella del Comune di Bologna? Croce rossa in campo bianco. Al giornalista svizzero che ha commentato «sembrava che voi guidaste una Panda e noi una Ferrari» il CT italiano ha risposto che si trattava di un commento di cattivo gusto. Occorreva invece rispondere che la Ferrari si produce vicino a Bologna. E il suo colore è rosso.
do sotto un cumulo di oggetti che considera inutili e al tempo stesso necessari. Una bella contraddizione! Come disattivarla? Srotolando il filo del tempo sino a ripercorrere a ritroso la sua vita. Il passato può costituire una sorta di specchietto retrovisore che consente di guardare indietro per andare avanti. Troverà una vita, come quella di tutti, punteggiata da perdite più o meno gravi. Ma non si soffermi sui lutti più importanti che probabilmente sono stati condivisi, elaborati e compresi. Consideri piuttosto le piccole frustrazioni come il tradimento di un amico, la fine di un amore adolescenziale, l’improvvisa partenza di un insegnante o di un allenatore particolarmente amato. Perdite che, ritenute irrilevanti, devono essere sta-
te subito accantonate e dimenticate. Ma ora, perché di quanto abbiamo vissuto nulla va perduto, tornano dall’inconscio profondo a bussare alle porte della mente sotto forma di sintomo: l’accumulazione forzata. Non è facile lavorare su di sé senza farsi accompagnare da una guida attenta e competente. Ma vale la pena di provare quando, come nel suo caso, è tanto forte la voglia di ricominciare.
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
un consumo crescente per ottenere gli stessi effetti stimolanti o per evitare i sintomi da astinenza come mal di testa, irritabilità o stanchezza. Inoltre, la caffeina può avere impatti significativi anche sulla qualità e sui pattern del sonno negli adolescenti; può provocare difficoltà nell’addormentarsi e ridurre il tempo totale di sonno, il che è particolarmente critico in questa fase di crescita e di sviluppo. Infine potrebbe influire anche negativamente sul loro comportamento e sul rendimento scolastico. Altri potenziali rischi sono legati al consumo eccessivo che può portare ansia, nervosismo, palpitazioni e problemi gastrointestinali come acidità e diarrea. Inoltre, l’infanzia e l’adolescenza sono i momenti più importanti per il rafforzamento osseo. Troppa caffeina può interferire con l’assorbimento del calcio, che influisce negativamente sulla corretta crescita. Non da ultimo, l’aggiunta di panna e un
sacco di zucchero, o il consumo di caffè speciali ad alto contenuto calorico, può portare a un aumento di peso. Il mio consiglio quindi è di parlarne con lui, spiegare i possibili effetti collaterali e vedere se essi poi compaiano, la tolleranza al caffè infatti è molto soggettiva.
Per quel che concerne il caffè decaffeinato esso contiene quantità molto ridotte di caffeina, di solito -mg per tazza, ma è raccomandabile lo stesso procedere con cautela quando si tratta di adolescenti e bambini, infatti potrebbero avere alcuni degli stessi effetti del caffè normale soprattutto per le persone più sensibili. Spero di esserle stata d’aiuto.
Informazioni Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch
di Laura Botticelli
TEMPO LIBERO
Percorrendo il Sentiero dei cippi L’itinerario che permette di immergersi dentro la Storia del confine nazionale, che è molto più di una semplice linea tracciata su una mappa
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Estiva delizia per il palato
Dessert servito in un bicchiere ricco di pezzetti di melone, briciole di amaretto e una crema al mascarpone, impreziosita da vino e lavanda
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Una partita di tennis con Top Spin 2K25 Il neonato titolo di Hangar 13 promette (ma non mantiene) di riportare l’esperienza del gioco tanto amato in Svizzera a nuovi livelli virtuali
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Il sogno paralimpico di Claire Ghiringhelli
Altri campioni ◆ Dopo aver superato le selezioni, la canoista ticinese sarà presente ai Giochi di Parigi 2024
La natura accende timidamente i suoi colori. In sottofondo si sente il risveglio degli animali. Il lago mantiene la sua calma e anche questa mattina sembra non volersi staccare da Morfeo. Non sembra nemmeno accorgersi del veloce passaggio di un’imbarcazione di canottaggio. Il ritmo delle pagaie al tocco sull’acqua è da metronomo, le onde si comprimono a prua e si disperdono in modo regolare a poppa.
E poi, all’improvviso, la barca rallenta la velocità con un contro movimento di remi. Finalmente scopriamo il volto della vogatrice, finora ripresa solo di spalle. È Claire Ghiringhelli, che si sta allenando a pochi chilometri da Parigi. Riceviamo questa ripresa video in tempo reale dal suo allenatore, che poco dopo passa la videochiamata all’atleta.
Ogni volta che rema, rivive la sensazione di scivolare come le accadeva quando sciava, cosa che invece le impedisce la carrozzella
«Non c’è modo migliore per iniziare la giornata. Guarda la bellezza di questa natura!» esordisce Ghiringhelli. «Il canottaggio è uno sport straordinario, che mi permette di muovermi liberamente nella natura, come accadeva fino a sei anni fa, quando per me la vita era completamente diversa».
All’età di quarant’anni a Ghiringhelli viene diagnosticato un tumore alla colonna vertebrale, che sconfigge completamente con un’operazione molto invasiva che le lascerà dei danni ingenti. Ghiringhelli rimane infatti paralizzata dalla vita in giù. Le conseguenze sono molte. Si vede costretta a lasciare il suo lavoro come ingegnere capo presso una grossa azienda aeronautica per assumere un nuovo ruolo, sempre nella stessa ditta, ma con una percentuale ridotta. Ghiringhelli si vede costretta anche a rinunciare alle sue passioni sportive, in particolare alla corsa, allo sci e all’escursionismo.
«La strada all’inizio era molto in salita e difficile. E i momenti di sconforto non sono mancati», ci dice Claire Ghiringhelli. A darle forza e coraggio sono stati i suoi tre figli, che allora avevano , e anni. Ghiringhelli prende le energie per il suo recupero anche dalla passione per lo sport e per la sua professione di ingegnere dei materiali. Durante la riabilitazione, quando è ancora in clinica, scopre il canottaggio. «Fino a quel momento non ero mai salita su un’imbarcazione di questo tipo: mi si è aperto un nuovo mondo! Ho subito capito che attraverso questo sport avrei potuto di nuovo unire due elementi che sono sempre stati molto importanti nella mai vita: lo sport nella natura e lo studio dei materiali. Ogni volta che remo riesco a rivivere la sensazione di scivolare – in questo caso sull’elemento acqua – provando esattamente le stesse sensazioni che vivevo sugli sci e che invece non ti fa vivere la carrozzella, nonostante lo spostamento sulle ruote. E poi, ad affascinarmi di questo sport è l’aspetto ingegneristico dell’imbarcazione».
Le barche per persone paraplegiche sono più larghe rispetto a quelle per i normodotati, inoltre sono dotate di due galleggianti laterali che permettono di mantenere l’imbarcazione in sicurezza in caso di perdita di equilibrio. Lo schienale è fisso e la schiena è legata da una cintura. Ed è qui che entra in gioco la competenza ingegneristica di Ghiringhelli. «Come in tutti gli sport, per ambire a grandi risultati sportivi occorre prestare attenzione ai dettagli. Mi sono resa conto che la seduta era parecchio pesante. Ho quindi realizzato, grazie alla collaborazione del mio team, una seduta in carbonio molto più leggera». La Ghiringhelli ingegnere è attenta ai dettagli anche nel posizionamento dei galleggianti, all’angolo di entrata del remo, alla biomeccanica e a tutti quei particolari che le permettono di strappare qualche decimo di secondo alle avversarie. Sì, perché Claire è anche molto ambiziosa.
«Quando ci si ritrova in una situazione come la mia, è difficile motivarsi per andare avanti. Scoperto il canottaggio mi sono posta un obiettivo molto alto, quasi impossibile, ovvero la partecipazione ai Giochi paralimpici di Parigi nel ». Una motivazione in più è data dal fatto che Claire gioca in casa, visto che abita una quindicina di chilometri a sud di Parigi. Gli allenamenti si susseguono e si intensificano sempre di più. Il livello agonistico sale vertiginosamente in poco tempo. Decide di dare il tutto per tutto. E sette mesi fa inizia a concentrarsi esclusivamente sullo sport, prendendo un periodo di congedo dal lavoro. Si allena con disciplina ferrea, una ventina di ore a settimana. Il livello sale ancora, ma in Fran-
cia non riceve il supporto sperato dalla Federazione francese. «Durante un viaggio in Ticino, dove mi sono recata per fare visita ai miei genitori che abitano a Minusio, per caso ho visto dei canottieri sul lago maggiore. Subito mi sono recata alla sede dei canottieri di Locarno. Mi sono iscritta al Club e poco dopo mi sono affiliata al Gruppo Paraplegici Ticino che mi ha permesso di tesserarmi presso l’Associazione svizzera dei paraplegici». Per Claire Ghiringhelli si riapre il sogno delle paralimpiadi di Parigi. Partecipa ad alcune competizioni internazionali, dove con grande soddi-
sfazione riesce a staccare il biglietto per i Giochi con i colori della nazionale rossocrociata. Ghiringhelli entra con la sua carrozzella nella sede dei canottieri, dove si intravede una grande quantità di imbarcazioni, anche per disabili. «Il canottaggio esiste dal come disciplina paralimpica. Inizialmente le competizioni erano sui mille metri, ovvero la metà rispetto alla distanza prevista per i normodotati» ci spiega l’atleta. «Da pochi anni anche noi gareggiamo sui duemila metri. Esistono tre categorie; PR, PR e PR. Io gareggio nella categoria PR. Si trat-
ta di un’imbarcazione singola, più larga rispetto alle barche per normodotati e la cui seduta è fissa. La schiena viene stabilizzata da una cintura e il canottiere utilizza solo le braccia e le spalle. Nel doppio PR Misto l’atleta utilizza solo il tronco e le braccia, mentre nel Quattro con PR Misto l’atleta utilizza tutto il corpo: gambe, tronco e braccia». La connessione della videochiamata inizia ad andare a scatti. Forse è giunto il momento di lasciare Claire Ghiringhelli al suo recupero in vista del prossimo allenamento: au revoir à Paris
Davide Bogiani
Il Sentiero dei cippi, quelle pietre
Itinerario
◆ Un’escursione in territorio di Stabio, per scoprire e comprendere meglio le vicende che hanno portato a delineare quelli che
Romano Venziani, testo e foto
«Sbucammo in una vasta prateria: bisognava allora fare il meno rumore possibile: eravamo vicini alla tanto desiderata frontiera… Prima di uscire dal bosco, ci fecero fermare per un quarto d’ora; intanto andavano a esplorare i dintorni e a tagliare la rete. Poco dopo ci rimettemmo in marcia. Vedemmo una garitta che era proprio davanti al buco della rete; fortunatamente la sentinella non c’era. A uno a uno, silenziosamente passammo attraverso il buco della rete. Che emozione! Finalmente eravamo in terra libera; in Svizzera». Con una gra a pulita, teneramente infantile, Bruna Cases, una bambina ebrea di nove anni, descrive nel suo diario la fuga con la madre dall’Italia nazi-fascista, per ricongiungersi al padre e al fratello già rifugiati in Svizzera. È il mese di ottobre del 1943, quando varcano la frontiera in territorio di Stabio, «probabilmente fra il cippo 124 e il 126, fra Bellacima e Monticello», precisa Fiorenzo Rossinelli, già comandante del Corpo delle guardie di con ne IV, che oggi mi accompagna alla scoperta del cosiddetto Sentiero dei cippi, inaugurato da pochi mesi (vedi articolo sotto) proprio qui, in quest’angolo di Ticino, che vive giornalmente la realtà complessa di una terra di frontiera. Fiorenzo la conosce bene questa realtà, l’ha condivisa e studiata in tutti i suoi aspetti e ne parla con contagiante passione.
«Percorrere il Sentiero dei cippi –mi dice, mentre lasciamo la stazione di Stabio e c’incamminiamo lungo il Riale Gurungun, accompagnati da un sommesso scorrere d’acqua tra ondeggianti ciu d’erba – è come immergersi nella storia e nelle storie del con ne nazionale, che è molto più di una semplice linea tracciata su una mappa». Ha ragione Fiorenzo, i conni nazionali sono gli strumenti essenziali per la gestione di uno Stato, ma anche simboli di sovranità e identità, barriere insormontabili per alcuni, fari di speranza e di salvezza per altri, e, come attesta tristemente la storia dell’uomo e la cronaca di ogni giorno, fonti potenziali di con itto e divisione. In un mondo sempre più globalizzato, anche il loro ruolo e il loro signi cato continueranno a evolversi, ri ettendo le tensioni e le dinamiche di una società in continua trasformazione. Si insinuano nei boschi, attraversano praterie, scivolano sui crinali delle montagne o s’intrufolano sornioni e invisibili nelle case, ma per palesare la presenza dei con ni, il territorio è costellato di segni ben precisi, cippi di pietra, iscrizioni sulle rocce, placche di ottone, paletti, linee colorate… L’intero perimetro della Svizzera è punteggiato di settemila termini, di varie fogge, settecento delimitano il canton Ticino e oltre un centinaio demarcano gli otto chilometri di
con ne nazionale attorno al comune di Stabio. Li incontreremo sul nostro percorso e ci aiuteranno a capire l’origine delle frontiere che ci circondano e per quali circostanze si sono cristallizzate lungo la linea che conosciamo oggi. C’imbatteremo anche in dodici punti, ognuno segnalato da un codice QR, che riassumono le principali informazioni relative ai cippi storici e ai siti più importanti.
Il confine è molto più di una semplice linea tracciata su una mappa: barriera insormontabile per alcuni, faro di speranza e di salvezza per altri
Il primo punto è collocato lì, accanto a un edi cio in sasso, persiane rosse e la bandiera rossocrociata mossa appena da un alito di vento esposta al balcone. È la casa doganale della Prella di Genestrerio, una delle tante che ospitavano un tempo il posto e le guardie di con ne. Inquadro il codice con lo smartphone che mi restituisce informazioni sulle case doganali e i posti di guardia.
Profumo d’erba umida, poi una za ata di un non so che di chimico mi solletica il naso. Arriva dritto da un susseguirsi di lari ordinati. Qualcuno deve aver trattato i vigneti, che disegnano geometrie sul terreno no alla Prella di Fondo.
Una costruzione squadrata sembra inghiottita dal pendio, è la stazione d’entrata del gasdotto dell’AIL (le Aziende Industriali di Lugano) proveniente dall’Italia. Un’in lata di cartelli numerati color arancio rivelano il percorso della condotta, che distribuisce il gas nel Sottoceneri. Il viottolo, pianeggiante, ora si tuffa in un buco d’ombra. Le piogge degli scorsi giorni hanno lasciato larghe pozzanghere, che ri ettono le chiome degli alberi da cui ltrano raggi di sole. Ecco un primo cippo, che sbuca dall’erba, sul con ne tra Stabio e Genestrerio. È una bella pietra dai bordi arrotondati, su un lato c’è la «I» d’Italia e il numero, 108 B, sull’altro, la «S» di Svizzera e la data, 1899. Re-
lativamente recente, se si pensa che i più antichi che incontreremo risalgono al 1559. Questo fa parte della serie di termini intermedi piantati sul nire del XIX secolo per de nire con maggiore precisione il con ne dopo la nascita del Regno d’Italia. Il 108 C lo troviamo poco più in là, dove il sentiero esce per breve dal bosco. Alcune mucche pascolano pigramente sul lato italiano. Questi prati sono di proprietà svizzera, spiega Fiorenzo, anche se la ramina li taglia in due. Suppongo che pure le mucche siano svizzere. Una delle tante bizzarrie delle zone di frontiera. Qui la rete con naria sembra in buono stato, altrove è scomparsa o si è intrecciata con la vegetazione, chiusa in un abbraccio di ferro e legno. L’hanno posata gli italiani per combattere il contrabbando a partire dal 1895 e negli anni seguenti no al ventennio fascista compreso. Mi sembra di fare un viaggio a ritroso nel tempo, con le pietre che parlano di vecchi rivolgimenti politici. Ce ne sono di più alte e snelle e portano le scritte Stato Svizzero Comune di Stabbio (con due «b»), su un lato, e Stato di Milano Comune di Bizzarone, con la data, 1754, sull’altro. All’epoca, la Svizzera dei tredici Cantoni con na con il ducato di Milano, passato da quarant’anni sotto il dominio dell’Austria, con cui i nostri devono trattare per dirimere le questioni
che raccontano la storia
ancora oggi sono i con ni tra Svizzera e Italia
di frontiera dei loro baliaggi italiani legate allo sfruttamento di boschi, campi, prati e predére, le cave di pietra. Possedimenti che a volte vengono a trovarsi dalla parte opposta del conne, con tutte le comprensibili conseguenze. Così, nell’agosto del 1752, è stipulato con gli austriaci il Trattato di Varese, e due anni dopo si piantano 203 nuovi cippi, la cui numerazione è tuttora utilizzata.
Le vie del contrabbando salveranno anche centinaia di poveri disperati in fuga dall’Italia nazi-fascista
Una nevicata di ori di aglio orsino imbianca il sottobosco, che libera un profumo intenso. Passa qualche ciclista, incrociamo un cavallerizzo che si allontana con un clop clop di zoccoli. Altra serie di cippi, sono quelli del 1921/22, piantati per rispondere alle lacune dovute allo sviluppo dell’urbanizzazione e all’apertura di nuove strade. «Questo è un sentiero promiscuo», m’informa Fiorenzo, diviso tra Svizzera e Italia, e un cippo messo lì proprio in mezzo al passaggio ne dà la conferma. A Santa Margherita, ecco un’altra di queste bizzarrie di con ne. Un binario emerge dall’erba per una ventina di metri e nisce contro un alto cancello di ferro avvolto dalla vegetazione. È quel che resta della ferrovia, detta del malocchio, che collegava Mendrisio a Castellanza passando dalla Valmorea. Costruita sul lato italiano nei primi decenni del Novecento, è completata nel 1926 in territorio svizzero con il tratto tra Mendrisio e il con ne. Un paio d’anni dopo, però, il Duce mette ne alla transnazionalità della linea, bloccandola a Stabio con questa cancellata integrata nella rete con naria. Lì vicino c’è il Grotto di Santa Margherita della famiglia Manghera, fabbrica di sapone a inizio Novecento e tra le prime case ticinesi ad avere la luce elettrica, proveniente dall’Italia. Nonno Nicola, che si dilettava con la pittura, ne a erma l’elveticità a rescando sulla facciata che
Il percorso
Partenza e arrivo
Stazione FFS di Stabio (340 mslm).
Dislivello totale
Circa 300 metri.
Punto più alto
Monte Astorio (474 mslm).
Lunghezza del percorso 13,5 km .
Tempo di percorrenza circa 3 ore e 30 minuti.
Difficoltà
Facile e adatto anche alle famiglie con bambini.
Un’idea da valorizzare
«Questo è il "mio" con ne. Ne sono successe di cose, da quando sono arrivato qui come giovane capitano», racconta Fiorenzo mentre sorseggiamo un bicchiere di Merlot a chilometro zero nel grotto di Santa Margherita sotto gli occhi severi del Generale. E conoscevo bene anche tutte le persone che gravitavano attorno alla frontiera. Per questo, Guido Codoni, dopo una passeggiata con me lungo il con ne, ha avuto l’idea del Sentiero dei cippi e mi ha chiesto di occuparmi della sua creazione.
guarda il con ne tre imponenti immagini patriottiche, Guglielmo Tell, l’Elvezia e un imperturbabile generale Guisan, che si contendono lo spazio con una s lata di gure decisamente più gaudenti e festaiole.
Il nostro viaggio prosegue, come quello del torrente Gaggiolo, che attraversiamo poco prima dell’omonima dogana. Un viaggio curioso, il suo, che inizia in territorio svizzero, nella val Porina, sul Monte San Giorgio, esce in Italia dopo Arzo diventando il Torrente Clivio, ripassa il con ne a Stabio riacquistando il nome originario, per poi tornare in territorio italiano a Santa Margherita, chiamarsi Rio Lanza e gettarsi nell’Olona. All’inizio
del 16° secolo, il Gaggiolo non abbandonava la Svizzera, ma con uiva nel Laveggio, accompagnandone le acque no al Ceresio. A causa delle frequenti inondazioni della campagna, i Confederati, insediatisi nel Mendrisiotto nel 1512-1513, decidono di deviare il Gaggiolo e con un’ampia curva lo rimandano de nitivamente in Italia.
A metà di quel secolo, la Lega dei Cantoni e il Ducato di Milano, sotto dominazione spagnola, mettono mano ai con ni, allora inesistenti, e posano una serie di cippi, soprattutto nei punti di passaggio, per evitare le continue dispute per lo sfruttamento dei pascoli, della legna e delle pietre da costruzione. Portano la data «1559» e sono i più antichi del Ticino. Su una faccia c’è la scritta «LIGA HELVETICA», con la croce svizzera, e sull’altra «STATUS MEDIOLANI», con il biscione della famiglia Visconti.
Ne incontriamo alcuni vicino alla dogana del Gaggiolo e lungo il sentiero che sale nel bosco verso il Monte Astorio.
Fa caldo e l’aria trasuda umidità, che si condensa in goccioline sul ferro arrugginito della rete con naria, malridotta e piena di buchi, da dove passavano le piste dei contrabbandieri, quando il contrabbando era ancora «romantico». «Non mi piace quell’aggettivo – sbotta Fiorenzo – non c’era niente di romantico nel contrabbando! Erano tempi grami e i sfrosadóo, solo povera gente che cercava di guadagnare qualcosa per sopravvivere. Ciò non toglie che qualcuno, da quel tra co, abbia tratto cospicui bene ci».
L’idea è dunque di Guido Codoni, studioso di storia locale e profondo conoscitore del territorio e di tutto ciò che nasconde. Codoni ha coinvolto nel progetto anche Marco Rossi, già direttore delle scuole di Stabio, entrambi, unitamente a Marco Della Casa, all’origine di un’altra interessante iniziativa, l’Archivio della memoria di Stabio (www.adm-stabio. ch), concepito per valorizzare il patrimonio storico e culturale dell’intera regione e «raccogliere le testimonianze dai diretti protagonisti della vita quotidiana del paese, prima che si attuasse il turbinio di innovazioni che lo hanno così profondamente modi cato».
L’Archivio della memoria ha poi promosso, con il sostegno del comune e di vari sponsor locali, e la col-
laborazione del Parco del Laveggio, l’itinerario dei cippi storici . «Il sentiero però è incompleto. Si dovrebbero predisporre migliori segnalazioni – continua Fiorenzo – valorizzarlo, perché i cippi e la loro storia sono di interesse nazionale e non solo locale: ti permettono di capire la strati ca-
zione degli eventi che hanno segnato la storia della Confederazione e i suoi rapporti con gli Stati con nanti». Che la segnaletica sia da completare l’ho notato anch’io. Uscendo dalla stazione, avrei faticato a scovare l’inizio dell’itinerario se non ci fosse stato Fiorenzo a farmi da guida. Per chi ha poca dimestichezza con la lettura di una carta topogra ca, anche la mappa di Swisstopo non sarebbe di grande aiuto. Peccato, perché il percorso ha un sicuro interesse storico e culturale e andrebbe valorizzato a livello turistico, come si è fatto in altre parti della Svizzera. Nel Canton Giura, in quello di Basilea e in Romandia, per esempio, sono stati tracciati diversi «Sentiers des bornes» o «Grenzsteine Pfade», prendendo spunto dai libri di Olivier Cavaleri, che ha meticolosamente repertoriato tutti i cippi di con ne, dal Vallese alla città renana, descritto gli itinerari per andare alla loro scoperta e creato un esaustivo sito internet, che fornisce informazioni, illustrazioni, cartine interattive e varie curiosità.
Le stesse piste del contrabbando saranno anche le vie di salvezza per centinaia di poveri disperati in fuga dall’Italia nazi-fascista, durante la Seconda Guerra mondiale, le cui storie sono narrate al punto 9. Facciamo un’ultima tappa sulla collina di Montalbano, da dove si gode una vista panoramica su gran parte del Mendrisiotto. Vigneti dappertutto. Quello più in alto è extranazionale, ha alcuni lari in Italia e l’uva viene importata in Svizzera esente da dazi, grazie a un permesso di Tra co rurale di con ne.
Saluto Fiorenzo e concludo il mio viaggio sul poggio che si erge al centro di Stabio. Un’imponente scultura si staglia contro il pozzo blu del cielo dentro il quale sembra quasi stia per essere risucchiata, è la Sentinella dello scultore Ruggero Larghi, posata lì nel 1953 per commemorare i centocinquant’anni di nascita del Canton Ticino. I suoi occhi di granito chiaro scrutano attenti l’orizzonte, vegliando sul territorio e si interrogano sul suo futuro.
La Sentinella scruta orizzonte. Nella pagina di fianco, L’immagine principale evidenzia il Sentiero dei cippi illustrato da Romano Venziani; sul sito www.azione. ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
Sopra, l’affresco patriottico del nonno Nicola Manghera; quindi, la vecchia fornace per la calce trasformata in piccola cantina; il cancello che interrompeva la ferrovia della Valmorea e a destra, il posto guardia di la Prella.
Ricetta della settimana - Bicchieri di melone alla lavanda
Ingredienti
Ingredienti per 4 bicchieri da 2,5 dl
1 dl vino rosso
40 g di zucchero
3 rametti radi lavanda, colti in giardino
2 dl panna intera
100 g mascarpone
¼ di melone Charentais
¼ di melone Galia
4 amaretti
Preparazione
1.Portate a ebollizione il vino con lo zucchero e fate ridurre finché il vino acquista una consistenza sciropposa.
2.Mettete qualche fiore di lavanda da parte per guarnire. Unite il restante dei fiori allo sciroppo, poi lasciate raffreddare. Togliete la lavanda.
3.Montate la panna ben ferma.
4.Mescolate il mascarpone con circa 3 cucchiai di sciroppo. Incorporatevi la panna montata e trasferite la crema in una tasca da pasticciere con beccuccio a stella, quindi mettetela in fresco.
5.Sbucciate i meloni, privateli dei semi e tagliateli a fette.
6.Tritate grossolanamente gli amaretti.
7.Distribuite i fiori di lavanda messi da parte in bicchieri alti.
8.Spruzzate in ogni bicchiere una rosetta di crema e aggiungete 4-5 fette di melone infilandole nella panna. Guarnite con gli amaretti e i fiori di lavanda. Servite subito.
Consiglio utile
Durante la preparazione, ricoprite gli spicchi di melone con la pellicola alimentare per evitare che si secchino. La crema si conserva per circa 2 ore coperta in frigo.
Preparazione: circa 20 minuti; raffreddamento: circa 15 minuti
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I Grandi Slam di Top Spin 2K25
Videogiochi ◆ Ma è davvero la simulazione tennistica che stavamo aspettando?
Kevin Smeraldi
Sviluppato da Hangar e prodotto da K Sports, Top Spin K segna il ritorno di una delle serie di giochi di tennis più amate di sempre. Disponibile su PlayStation , Xbox Series X/S e PC, il neonato titolo promette di riportare l’esperienza del gioco tanto amato in Svizzera a nuovi livelli virtuali nella speranza di conquistare il cuore dei tanti appassionati di quello che è ritenuto uno degli sport più praticati al mondo.
Diciamolo subito. Tale promessa non è stata mantenuta: nel corso delle circa quaranta ore giocate, abbiamo riscontrato più aspetti negativi rispetto a quelli positivi. Per questo motivo, e per giustificare il voto finale della nostra esperienza, preferiamo analizzare un aspetto alla volta:
Gameplay
Prima di entrare negli aspetti negativi, va dato risalto al punto di forza del titolo sviluppato da Hangar . Il gameplay di Top Spin K è di certo il cuore pulsante del gioco e mostra significativi miglioramenti rispetto ai titoli precedenti. Il sistema di controllo è intuitivo ma profondo, infatti è facile da imparare, soprattutto per chi ha già esperienza con i titoli della serie, ma difficile da padroneggiare. In questo gioco non basta conoscere bene le dinamiche del tennis, qui è anche fon-
damentale indovinare tutti i colpi per non essere puniti; il tempismo, infatti, è la chiave dell’esperienza.
Oltre ai classici colpi del tennis come: dritto, rovescio, servizio, volée e slice, per ogni colpo che eseguiremo si presenterà una barra del tempismo che dovrà essere fermata al momento giusto per imprimere la maggior potenza e precisione possibile al tiro. La barra del tempismo è condizionata sia dalla stamina del giocatore (capacità di sostenere sforzi prolungati) sia dal colpo a cui dovremo rispondere, caricandosi velocemente o lentamente a seconda di questi fattori.
In aggiunta, c’è anche un «super» colpo di potenza: con la pressione anticipata del tiro, oltre alla barra del tempismo ne avremo una anche di potenza, che se rilasciata al momento giusto ci permetterà di sferrare un colpo veramente di difficile risposta per l’avversario, anche in questo caso a scapito però della nostra stamina. Questo colpo va quindi usato con parsimonia e quando vediamo che l’avversario è fuori posizione.
Leggendo questa descrizione vi potrà sembrare una meccanica estremamente complicata, ma vi assicuriamo che dopo poche ore di gioco vi sembrerà di avere il pieno controllo del tennista.
Grazie a un gameplay così strutturato, ogni match è divertente e appagante, permettendo ai giocatori di
Giochi e passatempi
Cruciverba
All’incirca, quanti orologi ci sono nel palazzo dell’Eliseo in Francia? E sapresti dire su per giù quante persone ci lavorano? Saprai le risposte a cruciverba ultimato leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 13, 9)
ORIZZONTALI
1. Lo era Enrico Caruso
6. Uno spicciolo a Denver
10. Ha forma ellittica
11. Pubblici ufficiali
12. Li anima il buon senso
13. Meglio che male accompagnata
14. Ripetuto nel nome di una pericolosa mosca
15. Una volta in latino
16. Pronome personale
17. Due vocali
18. Uno sport
19. Lotto di terreno
20. Precetti
22. Color bruno-nocciola
24. Postilla
25. Le iniziali dell’attrice Mastronardi
26. Debutto
VERTICALI
1. Un elettrodomestico
2. Viene ricercato
3. Non sta né in cielo né in terra!
4. Possono essere essenziali...
5. Nota musicale
6. Tutt’altro che vuota
7. Settima lettera dell’alfabeto greco
eseguire una vasta gamma di colpi: dai potenti topspin agli ingannevoli slice, ogni movimento è gestito con cura per offrire un’esperienza tennistica di alto livello. Voto gameplay: /
Comparto Tecnico
Il primo impatto con Top Spin K non è esattamente quello che ci si aspetta da un titolo odierno, con una grafica mediocre e modelli poligonali dei tennisti che sembrano di qualche generazione fa. Detto questo, la riproduzione dei campi da gioco è fatta bene, con gli stadi iconici dei Grandi Slam riprodotti fedelmente.
Il comparto audio si comporta meglio: ogni suono è riprodotto accuratamente, dal rumore delle scarpe sul terreno di gioco a quello della racchetta quando colpisce la palla. Molto bello anche come il pubblico reagisce coerentemente agli scambi in campo, dal silenzio iniziale alle urla per gli scambi incredibili. Anche le musiche che ci accompagnano durante i menu sono molto belle, con artisti del calibro di Drake, Diplo e Swedish House Mafia. Voto comparto tecnico: /
Modalità di Gioco
Qui arriviamo forse al punto più carente della produzione. Top Spin K
offre solamente tre modalità di gioco: vs (locale), modalità carriera (contro la CPU) e modalità online (contro altri giocatori). Escludendo la modalità vs che va giocata con un amico localmente, l’unica vera modalità per chi non vuole giocare online è la carriera. Questa modalità offre inizialmente una bella e divertente esperienza che permette di creare il proprio alter ego, scegliendone sia le caratteristiche fisiche tramite l’editor di personalizzazione, sia quelle tecniche in base allo stile di gioco. Questa modalità ci porta a iniziare la nostra carriera da tennista tramite i tornei ATP, fino a scalare i quattro Grandi Slam. Purtroppo, la crescita del nostro personaggio durante questa modalità è troppo lenta ed estremamente ripetitiva. Il comparto multiplayer offre essenzialmente due opzioni: Esibizione, dove possiamo giocare online con amici o avversari casuali, scegliendo il nostro alter ego o tra i più famo-
si tennisti reali. Sì, c’è anche Federer come leggenda, peccato per la grande assenza della maggior parte dei top attuali tennisti al mondo. E la modalità competitiva, che ci permette di scalare le classifiche online accumulando punti vincendo tornei esclusivamente con il nostro alter ego creato nella modalità carriera. Voto modalità di gioco: /
Conclusione
Top Spin K rappresenta un ritorno agrodolce per la serie, offrendo un’esperienza di tennis virtuale che si avvicina incredibilmente alla realtà grazie al suo gameplay profondo e realistico, ma che soffre per la mancanza di modalità giocabili. Se siete fan del tennis o semplicemente alla ricerca di un gioco sportivo ben realizzato, Top Spin K merita sicuramente di essere provato, anche se potrebbe alla lunga annoiarvi. Voto finale: /
8. Ti ...seguono in cantina
9. Antico strumento simile al flauto
11. Pronome personale
13. Sottile, magro in inglese
15. Un colore
16. Uno come il 16 orizzontale
18. Localizza sommergibili
20. Una delle principali istituzioni internazionali
21. Pesante copricapo
23. Pronome latino
25. Preposizione articolata
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito.
o
cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione,
intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
Soluzione della settimana precedente GUINNES DEI PRIMATI – «Thriller» di Michael Jackson ha venduto più di… Resto
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
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ATTUALITÀ
«Vivere è un diritto basilare»
L’esperienza di Maria, una medica svizzera impegnata nel salvataggio dei migranti nel Mediterraneo
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Quello shock che non ti fa mangiare, né dormire
Vallemaggia ◆ Gli esperti del Care Team Ticino, attivo dal 2015: «Non abbiamo mai visto niente del genere.
Ora dominano l’incertezza, il senso di impotenza, la paura, la preoccupazione e l’ansia». La questione degli animali da compagnia
«C’è chi ha visto la propria casa spazzata via dai detriti e dal fango. Chi, intrappolato nell’auto, è stato trascinato dalla potenza dell’acqua salvandosi per miracolo. Anche assistere a una frana oppure vedere alzarsi pericolosamente il livello del fiume – senza sapere cosa fare, magari con il proprio bambino accanto – può segnare profondamente. Qualcuno ha perso una persona cara; altri aspettano notizie dei genitori, dei figli, degli amici dispersi con ansia crescente. In molti hanno vissuto e vivono l’angoscia dell’isolamento, in una società che non vi è più abituata». Per parecchi giorni si è parlato di viabilità compromessa drasticamente, nessun collegamento telefonico, niente elettricità e acqua. Viveri che scarseggiano. Immaginatevi le reazioni… Tristezza, rabbia, continui flash-back, sonno agitato e mancanza di appetito sono tutte reazioni naturali a un evento traumatico. Niente a che vedere con la pazzia
A parlare è Massimo Binsacca, coordinatore del Care Team Ticino, un gruppo di persone volontarie incorporato nella Protezione civile, specializzato in interventi psico-sociali d’urgenza, ovvero nel sostegno immediato alle vittime di un evento traumatico (protagonisti e spettatori, talvolta si tratta di intervenire su una collettività). L’équipe si attiva, per fare qualche esempio, in caso di rapina, incidente stradale grave, infortunio sul lavoro o nel tempo libero, annegamento, suicidio, omicidio, incendio e catastrofe naturale, come in Mesolcina e Vallemaggia. «L’idea era di allestire dei presidi sul posto – spiega il nostro interlocutore – ma siamo stati particolarmente sollecitati dalle richieste di persone che non stavano bene, così i caregiver le hanno raggiunte, anche in elicottero». Il gruppo – attivo dal – conta una cinquantina di volontari. Quando abbiamo contattato telefonicamente Binsacca, settimana scorsa, erano in ad essere attivi in Vallemaggia (prima diversi caregiver erano intervenuti in Mesolcina).
Senza contare il «picchetto ordinario»: due persone pronte ad intervenire ore su nel resto del Cantone, perché le emergenze su altri fronti non si fermano (leggi tentata rapina di una gioielleria-ufficio cambi in centro Lugano martedì scorso, con esplosioni d’arma da fuoco).
Ma torniamo in Vallemaggia. «Non abbiamo mai visto niente del genere», afferma l’intervistato. «C’è gente che non ha più nemmeno una maglietta di ricambio o una foto ri-
cordo della vita precedente l’alluvione, nessun oggetto significativo. Persone in preda allo sconforto e all’incertezza per il futuro. Le sensazioni dominanti: impotenza, paura, preoccupazione, ansia». E come intervengono gli specialisti del Care Team? «Ci avviciniamo il prima possibile alle persone coinvolte, e qui sottolineo l’importanza di un intervento tempestivo. Ascoltiamo il loro vissuto e cerchiamo di rassicurarle. Spiegando che la tristezza, la rabbia, i continui flash-back, il sonno agitato, la mancanza di appetito sono tutte reazioni naturali a un evento traumatico. Niente a che vedere con la pazzia. Noi ci muoviamo nel campo dell’essenzialità: forniamo so-
lo quanto richiesto e lo stretto necessario. Ci preoccupiamo ad esempio di garantire il soddisfacimento dei bisogni primari degli utenti: che bevano, si sfamino, abbiano una coperta per riscaldarsi. Cerchiamo inoltre di dare dei consigli su come affrontare i giorni successivi all’evento, riattivando la rete sociale della persona coinvolta. L’attenzione è focalizzata sul tentativo di normalizzazione del suo stato emotivo». Nei casi in cui il livello di stress resta elevato per settimane – aggiunge – si rende necessario il ricorso a un sostegno psicologico specializzato. L’alluvione della scorsa settimana ha sorpreso anche la colonia estiva di Mogno, nella parte superiore del-
Se manca l’amico a quattro zampe
A proposito di animali domestici: abbiamo contattato la Protezione Animali Locarno e Valli la quale giovedì scorso, quando queste pagine venivano ultimate, affermava: «Di sicuro sono molti quelli dispersi ma ad oggi non siamo ancora entrati in una vera fase di emergenza. Contenute le segnalazioni, pochi gli animali che ci hanno portato dei privati, la protezione civile, i militari ecc. I motivi? Magari la speranza di poter ancora ritrovare l’amico disperso rimane accesa o forse non si
è ancora preso pienamente coscienza dell’accaduto, data l’eccezionalità del dramma. Stiamo a vedere cosa ci riserva il futuro». Certo è che dalla perdita di un animale domestico può scaturire una profonda tristezza, tanto più in queste circostanze. «La tragedia rende il tuo animale ancora più importante, penso in particolar modo ai molti anziani delle valli che vedevano il loro cane o il loro gatto come fossero membri della famiglia. Speriamo in molte storie a lieto fine».
la Valle Lavizzara, che ospitava una quarantina di bambini in età di scuola elementare, tutti tratti in salvo grazie a voli in elicottero il giorno dopo, con enorme sollievo da parte dei genitori angosciati. Binsacca sottolinea la diversità di approccio ai traumi dei bambini rispetto agli adulti: «I più giovani sono delle spugne, assimilano la situazione, ne sono profondamente colpiti, ma sanno anche liberare le emozioni più in fretta. Si può dire che vivano i momenti problematici dell’esistenza con un po’ più di leggerezza rispetto agli adulti. Le faccio un esempio: se comunichiamo a un bambino la morte di un genitore lui ascolta un attimo poi va a giocare, ogni tanto torna con delle domande puntuali a cui noi rispondiamo in maniera essenziale: “Quindi non vedrò più la mamma?”. È il loro sistema di elaborare le informazioni, rimanendo nel presente. Noi adulti ci preoccupiamo molto di più, ad esempio per il futuro, per la famiglia ecc».
In Mesolcina e Vallemaggia il Care Team non si è risparmiato. Oltre a chi ha perso tutto, o subìto un lutto, è intervenuto anche in sostegno di persone confrontate con altre situazioni di disagio. Una caregiver di nostra conoscenza ha partecipato all’accoglienza delle persone sfollate da una zona colpita solo in parte dalla distruzione (zona che in diversi non hanno voluto abbandonare). «Ognuno reagisce al trauma in maniera peculiare», dice. «Non si può generalizzare. C’è chi piange e si dispera. Chi soffre in silenzio. Non tutti hanno voglia di parlare. Noi siamo presenti. Ci attiviamo dove c’è necessità e ci occupiamo anche di aspetti “logistici”, se così si possono definire. Io, per esempio, ho aiutato una coppia di turisti della Svizzera tedesca a trovare un albergo e li ho accompagnati alla struttura. Erano anziani e spaesati». Un altro aspetto poco considerato, dice la volontaria, è quello della perdita degli animali da allevamento – terribili le immagini degli specchi d’acqua che restituiscono i loro cadaveri mentre l’angoscia degli allevatori cresce – e degli animali domestici. «Certo, la priorità rimane la ricerca dei dispersi e il sostegno a chi ha subìto un lutto, ma sono in molti a piangere un amico a quattro zampe, un evento da cui può scaturire un dolore acuto». Intanto il Care Team rimane a disposizione (di solito fino a giorni dall’evento ma in casi eccezionali – come questo – anche più a lungo). Continua ad ascoltare e agire con sensibilità. Cercando di disegnare, insieme a chi soffre, nuove prospettive. Nonostante il senso di impotenza davanti alla forza impetuosa di una natura spesso bistrattata, adesso nelle valli si cerca di ripartire, e lo si fa stringendosi alla comunità e a quello che è rimasto in piedi.
Immagine da Fontana, in Val Bavona. Il Care Team ha parlato anche con chi è rimasto intrappolato nell’auto, trascinata via dalla potenza dell’acqua, e si è salvato per miracolo (Keystone).
Romina Borla
«Lasciarli affogare non è un’opzione»
Reportage ◆ L’esperienza di Maria, una medica svizzera impegnata nelle operazioni di salvataggio dei migranti nel Mediterraneo
Angela Nocioni
Ha trent’anni, si chiama Maria. È una medica d’emergenza, è svizzera. Vive tra Berna e Basilea. È la responsabile del Gruppo medici a bordo della nave Humanity , della ong tedesca Sos Humanity. L’abbiamo accompagnata in alcune operazioni svolte tra maggio e giugno.
Stiamo pattugliando con i binocoli dal ponte di comando le acque internazionali davanti alle coste della Libia per soccorrere i migranti su imbarcazioni di fortuna prima che vengano catturati dalla Guardia costiera libica. Rifornita di motovedette, si adopera per riportarli indietro in punti di raccolta dove – secondo testimonianze – è facile incappare in frustate, stupri e violenze di vario genere.
Maria tenta inutilmente di rianimare Mawa, una bambina di cinque mesi della Guinea issata a bordo già senza vita
Maria lavora con Letizia, un’infermiera italiana di Marina di Carrara; Izaro, un’ostetrica basca; Sabrina, una psicologa tedesca; e un altro medico, Nico, anche lui tedesco, che governa uno dei gommoni veloci di salvataggio (rhib si chiamano). Tutti giovanissimi. Maria in questo viaggio coordina le prime cure mediche per un centinaio di persone appena tirate fuori dall’acqua, cura le bruciature della miscela ustionante di carburante e acqua di mare, si occupa di far rinvenire persone disidratate e in ipotermia. E tenta inutilmente di rianimare Mawa, una bambina di cinque mesi della Guinea issata a bordo già senza vita. È rimasta in un barchino alla deriva almeno tre giorni, senz’acqua, senza cibo, senza latte, con altre decine e decine di persone disidratate, stordite dalle esalazioni di benzina. Mawa è morta di stenti nelle braccia della mamma davanti agli occhi della sorellina Fatima di anni.
Sarà Maria a parlare con la mamma dagli occhi sbarrati, sotto shock. Sarà Maria ad occuparsi con una calma, un rispetto e una competenza impressionanti sia della madre sia di Fatima. Il ponte di coperta è ormai pieno di naufraghi, tutti issati nelle ultime ore, dormono ovunque ci sia spazio per stendersi, tra le docce e i container.
«Perché sono a bordo?», esordisce Maria. «Perché lasciarli affogare non è una ipotesi decente, perché il diritto a vivere è un diritto umano basilare. Sono una medica e nel Mediterraneo centrale c’è una guerra in corso contro persone stipate in barchini alla deriva. In questo mare spariscono persone ingoiate dalle onde tutti i giorni, ci sono continui naufragi di cui non sappiamo nulla soltanto perché non vediamo i corpi. Otto anni fa sono andata sull’isola di Lesbo, in un campo profughi, come volontaria. Ero una studentessa. Era pieno di migranti sopravvissuti a naufragi nel Mediterraneo nel tentativo di venire in Europa. Io nel frattempo mi sono laureata in medicina, ho iniziato a lavorare in ospedale e nel Mediterraneo si vedono le stesse atrocità, tutti i giorni, e adesso è pure peggio perché le notizie dei naufragi quotidiani sono sparite dai notiziari».
C’è un alto livello di assistenza sulla Humanity , una piccola clinica che funziona come ospedale da campo. Maria insegna a tutto l’equipag-
gio a fare rianimazione, ad usare il defibrillatore. Racconta: «Sento a terra commenti del tipo: “Addirittura li curate a bordo, li avete salvati, li avete sottratti a morte certa, c’è bisogno di avere una clinica? Loro devono essere contenti di non essere morti, perché avere cure mediche a bordo?”. Ecco, questa è una discussione assurda che io non capisco. Quello dell’accesso a cure di qualità è un diritto umano basico. Punto. Gli esseri umani si salvano e si curano. I medici devono fare questo». Sono le tre di notte. Un fascio di luce bianca tiene illuminato nel buio un gommone sgonfio stracarico. Un grande mercantile l’ha visto e s’è fermato ad aspettare. Troppo grande per avvicinarsi senza rischi, inadatto al soccorso, l’ha tenuto sott’occhio finché otto ore dopo sono partiti dalla Humanity i gommoni con i giubbotti di salvataggio. Arriva dal Centro di comando delle capitanerie di porto di Roma l’autorizzazione al salvataggio: trasbordo. Sono persone, minori, dei quali viaggiano da soli. In mare da tre giorni, questa è la seconda notte alla deriva. Il motore s’è rotto. La linea di galleggiamento a poppa è molto bassa, soffia vento forte, entrano ondate di acqua salata. Sono storditi dalle esalazioni di carburante. Hanno tutti freddo, sono disidratati, fradici. Uno per uno vengono issati a bordo.
Tariq è molto magro, un viso da bambino murato nella paura. Non parla, non parlerà per tutta la notte, trema
Sotto la luce tremolante del neon, una fila di volti giovanissimi in sfacelo. Tariq è molto magro, un viso da bambino murato nella paura. Non parla, non parlerà per tutta la notte, trema. Dalla fila per le coperte esce barcollando un ragazzo. Ha fame, le mani secche di salsedine non tengono la presa del kit di salvataggio. Non riesce ad arrivare da solo in bagno. Ha paura a chiudere la porta. Sale un quindicenne con la maglia azzurra della nazionale di calcio dell’Italia. Si siede abbracciato a uno più piccolo con il giacchetto acetato rossonero del Milan. Un ragazzino alto alto e magro magro gira a piedi nudi in cerca di un coltello per aprire lo scotch in cui è avvolto il suo cellulare. «Maman, maman», sussurra, vuole dire alla mamma che lui è vivo, che ce l’ha fatta. Mostra la T-shirt bian-
La storia di Sami: una breve tregua tra due inferni
Nella poppa deserta prima dell’alba Sami non ha pace. Nascosto sotto il cappuccio della felpa si siede, si alza, si siede, si alza. Lui era in una barca di legno rimasta alla deriva senza il piede del motore soccorsa qualche giorno prima. Senza elica, senza propulsione in mezzo al mare, è morte certa. Lui l’aveva capito ed è ancora dentro quel terrore. Ha quasi anni, viene dal centro Africa, ha studiato management e finanza all’università. Parla bene inglese e francese. Le mani liscissime, sempre in movimento: «Ho visto il motore spezzato e ho capito: I’m over. È finita». «Ho pensato: moriamo tutti». Per essere abitabile la disperazione
deve avere dei livelli, dei gradi successivi, lui stava sfiorando l’ultimo, quello in cui impazzisci di terrore. «Non ne potevo più di non andare da nessuna parte – dice – mi sarei buttato. Quando vi abbiamo visto da lontano abbiamo pensato che erano i libici che ci portavano in prigione. Invece no, eravate voi». Trema. Non riesce a tacere, lui vuole raccontare della Libia, dell’ultimo anno passato a Tripoli. «Questa è la mia quinta volta. Le altre quattro mi hanno catturato quelli della Guardia costiera libica. Dicevano: animali, voi animali. Ho vomitato quando mi hanno preso su dal gommone. Uno con quella cosa lì mi fru-
chissima sotto il giubbotto: «Venice». Altro ragazzino, altra maglia da calcio: Ozil, anni.
Si siedono sulle panche in silenzio, guardano la spuma bianca delle onde sullo scafo di poppa, il più grande indica due alte fiamme arancio all’orizzonte, piattaforme petrolifere, qualcuno dice: Libia. Un istante di panico. Il terrore di essere riportati indietro.
È mattina presto. Di turno al binocolo sul ponte c’è Izaro, l’ostetrica. Grida. C’è un puntino nero sul filo dell’orizzonte. Scopriremo poi che sono persone, bambini di e mesi, una di due anni, una donna incinta, persi tra le onde in una barca di legno blu di metri. Sono partiti la sera prima dalla costa libica. Il piede del motore s’è staccato, sono rimasti senza elica. Alla deriva. Lanciamo i rhib. Il primo a tornare indietro è pieno di ragazzi giovanissimi, neri. Due braccia spingono sulla scaletta una ragazza con un lungo vestito stampato giallo, rosso e nero. Dalla nave due mani si sporgono, la afferrano. Ce l’ha fatta. Si getta a terra in ginocchio, piange, grida, un urlo di gioia.
«Le atrocità nel Mediterraneo continuano e ora è pure peggio perché le notizie dei naufragi sono sparite dai notiziari»
Sua figlia, di pochi mesi, già a bordo, la guarda in silenzio, non piange. Il suo sguardo si muove serissimo dalla mamma con la fronte bagnata, sul ponte, al mare là fuori. La ragazza è ancora seduta sui talloni, faccia a terra, singhiozza e ride. Immobile, sembra lontana da tutto, fisicamente svuotata. Alza gli occhi, ripete in francese: «Non immaginavo mai, Libia, non immaginavo mai».
stava, gridava: ora mangi tutto, mi ha fatto mangiare tutto il vomito». Indica la cima, la mano gli trema, la voce gli schizza in alto. Al ragazzo che viaggia con lui, se gli dici «ora sei al sicuro, andiamo in Italia» per un attimo lo sguardo gli si illumina. A Sami no. Ha paura. Sembra affacciato a un abisso. Dice: «Non so cosa c’è lì, cosa succede lì, non so com’è». Lui non conosce la selva di hotspot affollati, centri per il rimpatrio, luoghi dai nomi vari con cui l’Italia accoglie i migranti. Ma sa, intuisce, che questo ponte di legno, questa nave blu, sono una breve tregua tra due inferni, come una sigaretta tra due checkpoint.
Infine si lascia tirare su, cammina scalza fino al grande spazio riservato a poppa a donne e bambini. Poggia un piede incerto oltre la soglia, guarda le pareti dipinte, il fasciatoio, i pannolini. Guarda la porta, esita. Poi entra: il lavandino con l’acqua potabile, lo specchio, i grandi letti a castello, le coperte, lo shampoo. «Pour moi?». Per me? Si siede, accarezza il materasso blu con la mano, si alza, cammina, si risiede, si rialza, si spoglia, entra nella doccia. Spalanca il box, fa cenno di avvicinarsi. Sotto l’acqua che scende, dice «merci» con un sorriso che strazia. Nico, il medico a bordo del primo gommone, racconta: «Quando ci siamo avvicinati l’odore di carburante era molto forte. Ho visto una selva di mani, qualcuno pregava, qualcuno rideva, tutti strillavano. Più forte di tutti il pianto dei bimbi. Ho una distanza professionale da tutto nei rhib per agire, ma il pianto dei bambini in mezzo al mare lo senti cadere duro in mezzo al cuore». Dice: «C’erano cinque delfini sotto il nostro rhib, uno ha fatto un salto alto a prua mentre ci avvicinavamo». Una donna robusta e pesante all’improvviso si è lanciata con le braccia e ha afferrato una cima del gommone per passare da sola, non voleva aspettare il trasbordo. Un’onda s’è alzata, ha allontanato il gommone dalla barca, è rimasta col corpo fuori, stava per cadere in acqua. L’ha ripresa Fares, siriano, che con uno strattone l’ha ributtata dentro. «Ho visto tanto vomito dentro la loro barca – dice –tanto vomito e tanta urina».
Maria, quando non è in mare, vive tra Berna e Basilea. (Pietro Bertora)
Il momento in cui si accende la speranza. (Pietro Bertora)
Ecco cosa succede se torna Donald Trump
Stati Uniti ◆ Mentre Joe Biden dà prova della sua incapacità, il tycoon resta il favorito nella corsa alle elezioni del 4 novembre
Lucio Caracciolo
Chi comanda oggi negli Stati Uniti? Il mondo ha scoperto che il presidente Biden non è più padrone di sé e non è in grado di esercitare una funzione così strategica come quella di comandante in capo delle Forze armate americane. Stranamente il dibattito scatenato dopo le prestazioni di Biden in Europa e nel dibattito televisivo con Trump verte solo sulla sua candidatura alla Casa Bianca. Ma le elezioni sono fra quattro mesi e dopo il voto, comunque vada, Biden resterà in carica fino al gennaio . Sarebbe quindi logico occuparsi prima di come gli Stati Uniti possano fare a meno del loro presidente per altri sei mesi.
Il caso ha dei precedenti. L’ultimo dei quali riguarda la presidenza di Ronald Reagan. Nell’ultimo biennio (-) del suo secondo mandato Reagan dava segni abbastanza evidenti di incapacità a esercitare le sue funzioni. All’epoca quindi fu il vicepresidente George Herbert Bush a organizzare un gabinetto parallelo, da lui diretto, in cui i rami principali dall’amministrazione erano rappresentati per evitare che Reagan potesse, involontariamente, compromettere il suo Paese. Specialmente per quanto riguardava il vitale rapporto con l’Unione Sovietica e la questione degli armamenti strategici che a un certo punto Reagan immaginava potessero essere completamente aboliti. Altri tempi. Oggi al posto che fu di Bush padre, che poi sarebbe salito alla presidenza, c’è la signora Kamala Harris. È giudizio diffuso che non abbia le qualità per prendere il posto di Biden
in caso di urgenza. Allo stesso tempo, sarebbe molto improbabile sostituirla perché in quanto donna e rappresentante di una minoranza etnica parrebbe politicamente scorretto.
Anche Ronald Reagan diede segni di incapacità a esercitare le sue funzioni, in quel caso George Herbert Bush parò i colpi
Il fatto che il caso Biden sia trattato nel modo arruffato e superficiale che possiamo ogni giorno constatare rivela la profondità della crisi americana. A novembre, se Biden sarà lasciato al suo posto, si scontrerà con un avversario che tentò un colpo di Stato eccitando l’assalto al Congresso e che è
un mentitore seriale riconosciuto. Alternativa del diavolo. Eppure sembra che nessuno riesca a sbrogliare la matassa. E qui intervengono fattori tipicamente americani.
I cittadini americani non sono specialmente portati a occuparsi di politica, salvo forse durante gli ultimi mesi di campagna presidenziale. Inoltre non esistono veri e propri partiti ma solo comitati elettorali largamente dipendenti dai finanziatori. Il destino di Biden o di chiunque altro voglia candidarsi dipenderà dalla predisposizione dei fundraiser a rifornire il pretendente. Per capire come evolverà quindi la partita sulla candidatura la cosa più semplice è seguire i flussi di denaro. Il fatto che quelli diretti a Biden siano declinanti è già un buon indicatore.
Esistono alternative al presidente in carica per le elezioni del novembre? Teoricamente sì. Il nome più gettonato è quello di Michelle Obama, che però non ha nessuna voglia di buttarsi in politica. Anche perché con il marito già presidente ha firmato contratti plurimilionari per libri, conferenze e una serie Netflix. Fra i competitori in campo democratico spiccano due governatori come Gavin Newsom e Gretchen Whitmer che però non sono troppo conosciuti al di fuori rispettivamente di California e Michigan. Inoltre, piuttosto che rischiare di essere asfaltati da Trump in autunno, preferiscono tenersi di riserva in vista della sfida presidenziale del . Non dimentichiamo che il novembre si vota anche per il rinnovo di gran parte del Congresso. Essen-
Indebitamento globale alle stelle
do quasi scontata la vittoria di Trump nella corsa alla Casa Bianca, i democratici potrebbero puntare sul controllo del Senato e della Camera. Molto difficile, ma tentabile. Una sorta di coabitazione all’americana che limiterebbe le velleità di Trump e riequilibrerebbe il sistema. La vera partita in caso di vittoria trumpiana sarà però quella che riguarda i cambiamenti nell’amministrazione e nello Stato profondo. L’esperienza del primo mandato ha convinto Trump della necessità di liquidare alcune centinaia se non migliaia di funzionari di medio-alto livello che a suo tempo cercarono, spesso con successo, di frenarne le iniziative più irragionevoli. Da sostituire con una squadra di fedelissimi – a sé, non all’America. Allacciamo le cinture. Ciò che oggi manca in America è una strategia su come affrontare guerre e sfide, dall’Ucraina a Israele, che mettono in questione il primato a stelle e strisce. È ormai chiaro che le principali cancellerie, occidentali e non, hanno integrato nelle proprie equazioni il ritorno di Trump alla Casa Bianca. E cercano di adattarsi a quelli che potranno essere gli atteggiamenti del nuovo vecchio presidente, noto per la sua imprevedibilità. Chi osserva che Putin sarebbe avvantaggiato dal cambio Biden/Trump dimentica questo fattore. E omette che in ogni caso il ritorno del tycoon al timone della superpotenza provocherà sconquassi domestici di dimensioni imprevedibili. Una crisi di legittimità del potere americano significa disordine sicuro su scala mondiale.
Economia ◆ Anche nei Paesi industrializzati saranno necessari interventi drastici per evitare un peggioramento della situazione
Ignazio Bonoli
Con la fine della pandemia da Covid-, ma anche con l’inizio di una vera e propria guerra in Ucraina, i vari Paesi del mondo hanno dovuto tirare le somme degli interventi straordinari, che si sono sommati a quelli ordinari e hanno provocato un indebitamento globale che è salito alle stelle. L’Institute of International Finance ha calcolato che questo indebitamento globale ha ormai raggiunto la cifra – dato del primo trimestre del – di bilioni di dollari, con un aumento di , bilioni di dollari.
La crescita più intensa è stata osservata in Paesi come la Cina, l’India e il Messico, mentre nei Paesi industrializzati il livello del debito è rimasto stabile. Comunque la situazione globale che si è venuta a creare continua a destare preoccupazioni tra gli operatori dei mercati finanziari. Segnali positivi vengono, però, dai Paesi industrializzati che dopo il picco dovuto alla pandemia sono riusciti a contenere l’aumento del debito pubblico entro limiti ragionevoli.
In pratica si è tornati a una crescita ormai strutturale che comunque in molti Paesi deve anche sopportare le conseguenze degli interventi eccezionali dovuti alla citata pandemia. Gli operatori finanziari seguono con molta attenzione l’evolversi della situazione negli Stati Uniti, Paese nel quale il debito ha raggiunto livelli da primato e necessita ora di copiosi interventi di rifinanziamento. Pur tenendo conto del rallentamento dell’inflazione e della crescita economica favorevole, si prevede a Washington un aumento ulteriore del debito del ,% quest’anno e del ,% il prossimo anno. Questo significa che nel gli Stati Uniti emetteranno prestiti statali per , bilioni di dollari, il che significa il % di più rispetto al periodo precedente la pandemia. Evidentemente, un intervento di questa portata lascerà tracce sensibili sui mercati finanziari internazionali. La stessa Ocse prevede che, nei prossimi tre anni, il % di tutti i prestiti pubblici e il % di quelli aziendali dovranno essere rifinanziati. Entro il scadono infatti quote di
prestiti pubblici come quelli italiani (%), quelli spagnoli (%) o francesi (%). L’Ocse prevede quindi un volume di emissioni di prestiti pari a , bilioni di dollari. Resta ora da vedere se ci sarà un numero sufficiente di sottoscrittori, oppure se tutta la struttura dell’indebitamento internazionale verrà rimessa fortemente in discussione.
Non si può escludere che uno scenario come quello visto in Gran Bretagna, nel settembre del , possa ripetersi altrove. Allora il Governo britannico decretò forti diminuzioni di imposte, per cui i rendimenti dei prestiti a anni britannici salirono in tre giorni dell’,% circa. Si crea-
L’indebitamento globale ha raggiunto la cifra di 315 bilioni di dollari, secondo l’Institute of International Finance (Pixabay).
rono turbolenze nelle casse pensioni inglesi che costrinsero la Banca d’Inghilterra a intervenire.
È un esempio di quanto potrebbe succedere sui mercati finanziari che non sono disposti ad accettare debiti pubblici senza limiti, chiedendo o un aumento dei tassi d’interesse o una riduzione dei debiti stessi. Per gli Stati Uniti si pensa che ciò non succeda prima delle elezioni presidenziali in autunno. Subito dopo, però, il problema si riproporrà, esigendo un forte risanamento, per non correre il pericolo di un aumento del premio di rischio per i prestiti pubblici americani.
La pandemia e il conseguente sostegno pubblico a persone e aziende hanno soltanto accelerato una tendenza che era in atto da qualche anno. Nella maggior parte dei Paesi il rapporto tra debito pubblico e Prodotto interno lordo (Pil) era già fuori norma per cui il rientro diventa ancora più difficile. Ma nessun responsabile politico o economico può permettersi di prolungare nel tempo questa situazione. Questo atteggiamento provocherebbe sicuramente alti tassi d’inflazione che colpirebbero tanto i consumatori, quanto le aziende e renderebbero ancora più difficile qualsiasi politica economica.
È infatti illusorio credere che un’inflazione elevata possa contribuire a contenere il debito pubblico, anche solo perché ne aumenta i costi con interessi più elevati. Né basterebbero tassi di crescita economica più alti, soprattutto se sostenuti dagli Stati, quindi con debito ancora in aumento, soprattutto sul lungo periodo. Rispetto a tempi passati, l’attuale ciclo economico è già durato molto di più. E anche se ha permesso di evitare una recessione, non potrà continuare a lungo su questi ritmi. Per farsene un’idea basta considerare alcune situazioni anche in Paesi a noi vicini, che oltre tutto dovrebbero rispettare la norma europea che vuole un debito al massimo del % del Pil. L’Italia, per esempio, è al %, ma la Germania, che ha una crescita vicina a zero, è al %, mentre Francia e Spagna tendono a seguire l’Italia. La Commissione Ue ha ora reagito avviando una procedura per debito eccessivo nei confronti di sette Paesi membri, tra cui anche la Francia e l’Italia. Ma anche altri grandi Paesi contribuiscono ad aumentare le tensioni in questo campo: gli Stati Uniti saranno quest’anno al %, mentre anche la Gran Bretagna salirà al %. Corsa a parte dovrà fare ancora una volta il Giappone, con un debito al % del Pil.
Ma ci sono anche Paesi più virtuosi, tra i quali la Svizzera che, grazie al freno all’indebitamento e a un debito pubblico prima della pandemia molto vicino allo zero, è al %, mentre anche la Norvegia è al %, secondo le previsioni per quest’anno del Fondo monetario internazionale.
Il disastroso – per Joe Biden, sulla destra – duello televisivo svoltosi a fine giugno. (Keystone)
Animali con tre cuori, una meraviglia dei mari
Proteggiamo le meraviglie della natura.
Cuori generosi Quando corriamo, noi umani prima o poi restiamo senza fiato. Per il polpo non è così. La natura l’ha dotato di ben tre cuori: due prelevano l’ossigeno dall’acqua, mentre il terzo, quello centrale, distribuisce il sangue nel corpo. Grazie a questa eccellente ossigenazione il polpo ha un’autonomia sufficiente per cacciare le sue prede. Per altre meraviglie: mari.wwf.ch
Quel filo rosso che unisce Francia e Usa
L’analisi ◆ I due Paesi si avvitano in crisi parallele mentre cresce il disagio nei confronti degli immigrati Federico Rampini
Quando questo giornale era in stampa (venerdì scorso) non sapevo se il Rassemblement National avrebbe avuto una maggioranza parlamentare tale da poter governare la Francia; oppure se Emmanuel Macron sarebbe riuscito a costruire un Governo tecnico, o di unità nazionale, o comunque dall’Eliseo avrebbe giocato a logorare la destra. È uno scenario che mi ricorda la Francia di quasi quarant’anni fa: ero corrispondente a Parigi, quando ci fu la cosiddetta «coabitazione» fra un presidente di sinistra, il socialista François Mitterrand, e un primo ministro gollista, Jacques Chirac. Intanto, dall’altra parte dell’oceano si susseguono voci sul possibile ritiro della candidatura di Joe Biden, assediato da tanti democratici che cercano di convincerlo a rinunciare. Lo shock è stato grande, dopo la sua prova disastrosa nel primo duello televisivo contro Donald Trump. Tutti temevano che l’invecchiamento di Biden gli giocasse brutti scherzi, quella sera le cose sono andate peggio delle previsioni più pessimiste. Abbiamo avuto la tragica conferma di una scelta assurda «fra un delinquente e un deficiente», secondo la battuta che lanciai in un mio programma televisivo sulla Sette. Di colpo milioni di americani hanno avuto di fronte un vecchio insicuro e vacillante, ma in ultima istanza padrone delle decisioni strategiche per la Nazione più potente del mondo. Biden ha fatto paura, quella sera, non solo per la possibilità che perda contro Trump, ma anche per la possibilità che venga rieletto. Consegnare l’arsenale nucleare americano in mano a un uomo in quello stato, è irresponsabile.
Tra gli elementi comuni che spiegano ciò che accade in America e in Francia c’è il rigetto di una società multietnica
Un filo rosso unisce il risultato in Francia e la possibile rielezione di Trump. Le due liberaldemocrazie più antiche d’Occidente si avvitano in crisi parallele. Immigrazione mal governata; liberismo e concorrenza cinese; ambientalismo radicale che carica sui ceti popolari il costo della decarbonizzazione: tre elementi comuni spiegano ciò che accade in America e in Francia. Il rigetto di una società multietnica. Il rigetto dei costi sociali della deindustrializzazione.
Infine il rigetto di una politica «verde» che impone rinunce a chi non se le può permettere.
Sul tema dell’immigrazione quasi quarant’anni fa fui testimone diretto di qualcosa che era il preludio del trumpismo (ma non lo sapevamo). L’anno era il . Il mio primo incarico da corrispondente estero, a Parigi per «Il Sole Ore». Presidente era appunto Mitterrand, sotto i suoi occhi accadeva qualcosa che nessuno capì veramente, allora, nel quartier generale del partito socialista francese. Gli anni Ottanta videro i primi successi del Front National di estrema destra, all’epoca guidato dal padre di Marine Le Pen, Jean-Marie. Lui riuscì a farsi eleggere nell’Île-de-France, il dipartimento che include la città di Parigi. Iniziò in quel periodo uno spostamento della classe operaia francese. La banlieue parigina era stata comunista da un’eternità; cominciò a votare a destra. Decenni prima che que-
sto diventasse un fenomeno poderoso in tutto l’Occidente, era accaduto là e la ragione era una: l’immigrazione. La sinistra mitterrandiana non poteva capire, perché era ben insediata nei quartieri chic della capitale dove gli immigrati sono soltanto utili: guidano il metrò, raccolgono la spazzatura, servono nei ristoranti, vengono a fare le pulizie di casa, tra le altre cose. In periferia, invece, dove abitano gli operai metalmeccanici di Renault, gli algerini marocchini e tunisini erano i vicini di casa, sul pianerottolo dirimpetto. Alcuni dei loro figli erano gli adolescenti che trattavano le ragazze bianche come delle prede sessuali. Erano talvolta gli spacciatori di quartiere. Ogni tanto quei ragazzi «beur» (seconda generazione di origine araba) incendiavano delle auto; ma non le Bmw e Mercedes nei quartieri ricchi. Dilagava già allora una legittimazione «di sinistra» dell’aggressività in nome dei torti del colonialismo da riparare; anche se gli operai francesi da quel colonialismo non avevano ricavato vantaggi, erano loro i destinatari ravvicinati della rabbia e dovevano subirla tacendo, in nome delle «colpe dei bianchi». Si aprivano nuove moschee con madrase fondamentaliste pagate dai petrodollari sauditi. La polizia, onnipresente ed efficiente nelle zone chic del quinto, sesto e settimo «arrondissement», nelle periferie si avventurava il meno possibi-
le, lasciando ad altri il controllo del territorio. Gli operai, con un’amarezza silenziosa e una rivolta nel segreto dell’urna, cominciavano a sospettare che la sinistra avesse scelto altri ceti e altri interessi da difendere.
Oggi la classe operaia, metalmeccanica o siderurgica, è diminuita numericamente. Non è scomparsa, però. Di operai ne incontro ancora tanti, alle catene di montaggio di Ford, General Motors, Chrysler. Altri ne ho conosciuti e frequentati in Pennsylvania, siderurgici negli altiforni vicino a Pittsburgh. Ne ho intervistati, che votarono per Barack Obama nel e nel , poi scelsero Donald Trump nel . Peste nera, fascistizzati di colpo, razzisti? Anche se per due volte avevano eletto un afroamericano?
Usando una specie di allegoria per riassumere tante storie individuali, ai bianchi poveri il mitico «sogno americano» («terra delle opportunità») oggi appare come un miraggio distante, una luce fioca all’orizzonte verso la quale vorrebbero progredire. Si raffigurano collettivamente come una grande colonna in fila, in attesa di procedere verso quel traguardo ambito. Ma la fila si muove lentissimamente, è quasi ferma. Ogni tanto però qualcuno si stacca dal fondo, supera gli altri, e passa davanti. Sono, per l’appunto, gli ultimi: i più derelitti, le minoranze a cui la sinistra ha
deciso di dedicare un’attenzione speciale. Servizi sociali, Welfare, provvidenze pubbliche, corsie preferenziali, gli vanno riconosciuti anche se a rigor di legge forse non ne avrebbero diritto. I media devono circondarli di attenzione. Una società avanzata, una società democratica degna del XXI secolo, si riconosce da come tratta «loro». I penultimi, li lasci pure dove sono.
Conosco messicani integrati da tempo, i quali votano Trump perché «di qua regnano la legge e l’ordine, di là il caos»
Fra i Libri
A volere il rispetto delle frontiere sono gli immigrati stessi. Ne ho incontrati tanti negli Stati Uniti. Per esempio messicani integrati da tempo, i quali votano Trump perché «di qua regnano la legge e l’ordine, di là il caos». Il fatto è che tutti quegli altri farebbero la stessa cosa. Se fuggono dall’Honduras o dal Guatemala o da qualche regione messicana dove comandano i narcos, è proprio perché negli Stati Uniti pensano di trovare un sistema diverso da quello che lasciano; uno Stato di diritto, dove la polizia e i tribunali funzionano, dove chi rispetta le regole può lavorare in pace, far studiare i figli, costruirsi un futuro migliore. Il confine lo vogliono oltrepassare non perché lo considerano obsoleto, ma al contrario perché lo considerano una protezione efficace, a tutela di chi sta dall’altra parte… I richiedenti asilo hanno le idee chiarissime, sull’importanza sacrosanta dei confini. E il messicano che «ce l’ha fatta» non è necessariamente un egoista. Ha però il timore che un’immigrazione selvaggia e sregolata, porti di qua dal confine quel caos violento e feroce che lui si è lasciato alle spalle. Il messicano che si è naturalizzato diventando cittadino degli Stati Uniti, nel rispetto delle regole e delle procedure, talvolta condivide le preoccupazioni dell’operaio bianco del Michigan: come in tante altre cose, pensa, anche per l’immigrazione è questione di quantità, di dosaggio, di regole e di equilibri.
Bertrand Russell: The Colours of Pacifism, Claudio Giulio Anta, Peter Lang, New York, 2023. Dall’Ucraina alla Striscia di Gaza, passando per il Mar Rosso, il mondo è in fiamme e Bertrand Russell, il mito di tre generazioni di pacifisti, torna a suscitare l’interesse di ricercatori e lettori. Per esempio, l’autore di questo saggio, Claudio Giulio Anta, è uno studioso che si è sempre occupato di Europa. Da qui, gli interessi del professore si sono allargati al pacifismo. «Europeismo e pacifismo sono due fatti collegati, anche se oggi molti se lo vogliono dimenticare», ci ha detto durante un colloquio. Secondo Anta, l’impegno sul tema del pacifismo di Russell comincia con la Grande guerra assumendo diverse sfumature, come la seconda parte del titolo del libro sottolinea (I colori del pacifismo). Durante la prima guerra mondiale Russell sviluppa la tesi del pacifismo assoluto («la pace senza se e senza ma») e quella del pacifismo scientifico, secondo la quale le cause della guerra vanno ricercate «negli impulsi distruttivi della natura umana». Nel primo dopoguerra, negli anni Venti e Trenta, Russell critica l’assetto della Società delle Nazioni, ritenendo che essa non sia in grado di garantire la pace perché basata sulla sovranità assoluta degli Stati. Negli anni Trenta, quello di Russell è un pacifismo relativo, perché dopo aver sostenuto le ragioni dell’appeasement (una politica di concessioni verso Adolf Hitler per salvare la pace) giustifica anche l’utilizzo delle armi, introducendo così nelle sue concezioni un elemento di realismo politico. Nel secondo dopoguerra Russell critica anche le Nazioni unite (succedute alla Società delle Nazioni), a loro volta non ritenute in grado di mantenere la pace a causa dei meccanismi di funzionamento del Consiglio di sicurezza (nel quale ogni membro dispone di un voto). Negli anni Cinquanta sviluppa il pacifismo giuridico (noto anche come pacifismo istituzionale), che teorizza la formazione di un governo mondiale, quasi sull’esempio di Immanuel Kant (autore nel di Per la pace perpetua). Lo sviluppa in concomitanza con il Manifesto Russell-Einstein del , che è contro la bomba all’idrogeno; Russell parla del governo mondiale anche durante la crisi di Suez e la rivoluzione ungherese del . Nel , otto anni dopo che la Gran Bretagna ha testato la sua prima bomba atomica, Russell aderisce al Comitato dei , che sostiene l’uso della disobbedienza civile per raggiungere i propri scopi. Nel è quindi coinvolto nelle pacifiche dimostrazioni anti-nucleari ed è rinchiuso in prigione all’età di anni. Un aspetto poco noto ricostruito dal professor Anta avviene durante la crisi dei missili di Cuba del . Qui Russell ha un ruolo di primissimo piano («sia pure da dietro le quinte») come mediatore tra John Fitzgerald Kennedy e Nikita Chruscev. È sua, in particolare, la proposta risolutiva della crisi: i missili sovietici sarebbero tornati in URSS da Cuba in cambio del ritiro dei missili americani dalla Turchia. Infine Russell sviluppa il pacifismo strumentale, che ha come modello Mahatma Gandhi. Il libro del professor Anta è non solo molto documentato (per esempio il ruolo del grande pacifista nella crisi dei missili è desunto dallo studio dei telegrammi inviati in quel momento storico) ma anche attualissimo in questo momento di tensioni internazionali.
di Paolo A. Dossena
Gli anni Ottanta videro i primi successi del Front National guidato dal padre di Marine Le Pen, Jean-Marie. (Keystone)
Da sinistra: Jill e Joe Biden, Emmanuel Macron e la moglie Brigitte lo scorso mese di giugno. (Keystone)
Brindisi senz’alcol
Un ritorno al buon senso
Gran Bretagna ◆ Il Labour di Keir Starmer trionfa e si materializza l’idea di smussare gli aspetti più ruvidi della Brexit
Cristina Marconi
«Il cambiamento inizia adesso». Il Labour di Keir Starmer (nella foto) ha scalato la montagna e ha stravinto: seggi almeno, un numero enorme, appena inferiore a quanto fatto da Tony Blair nel (erano all’epoca), grazie a una campagna convincente ed elusiva, povera di dettagli e ricca di quelle qualità che soprattutto nelle ultime fasi della lunga stagione conservatrice – anni, premier – era mancata moltissimo al Regno Unito, ossia l’affidabilità, i toni pacati, l’assenza di ideologia trascinante. I Tories, che ipotizzavano di poter scendere addirittura sotto i seggi, ne hanno raccolti secondo i risultati quasi integrali (venerdì mattina, quando il giornale andava in stampa, mancavano seggi da conteggiare), mentre ReformUk, il partito di Nigel Farage, ne ha presi tra cui lo stesso leader, che non è male per i suoi standard nonostante gli exit polls gliene dessero addirittura . I LibDem, spazzati dalla mappa elettorale per anni dopo che avevano tradito il loro elettorato middle class votando a favore dell’aumento delle tasse universitarie ai tempi del governo di coalizione con David Cameron, sono tornati alla carica con deputati. A perdere terreno, senza pietà, sono stati gli indipendentisti scozzesi dell’SNP, con deputati, dopo una stagione di scandali e di problemi di leadership, così
come i Verdi, che hanno chiuso con un risultato debole.
Era appena il e Boris Johnson era così sicuro del fatto che avrebbe passato una lunghissima stagione alla guida del Paese che la sua giovane moglie, si racconta, aveva fatto ricoprire le pareti di Downing Street di carta da parati dorata, guadagnandosi il soprannome di Carrie Antoinette. Ora i Tories hanno registrato il risultato peggiore della loro storia, e non è solo colpa di Rishi Sunak, un leader forse inadatto – poco incisivo, troppo ricco – ma bene intenzionato. Il disastro pesa sulla coscienza di tutti quelli che hanno lasciato che l’esperimento della Brexit andasse in una direzione ancora peggiore del voto stesso, facendone un grande «tana libera tutti» per politiche estreme e attacchi alle istituzioni, nazionali e internazionali, e a chiunque osasse mettersi di traverso sulla via dei britannici verso un’indipendenza che iniziava a sapere di irresponsabilità.
E ora questo risultato elettorale che sa di ritorno alla normalità, al buon senso, ed è un tributo alla scelta di Starmer di non cavalcare assolutamente nessuna polemica negli ultimi anni, a costo di sembrare noioso, di sembrare debole o fuori sincrono con un dibattito diventato sguaiato, estremo. È vero, ReformUK si è rafforzato, ha tolto (poca) energia ai Tories,
ma ha anche catalizzato quel tipo di elettorato scontento ed estremista che ormai si vede in tutto il mondo e con il quale bisognerà continuare a fare i conti in futuro, liberando il campo a una ricerca di moderazione che i Tories, ormai in bancarotta di idee, non hanno saputo intercettare. Perché la maggioranza dei britannici ha dimostrato di essersi vaccinato contro gli eccessi e ora starà a Keir Starmer dire se l’instabilità politica sia ormai parte integrante dello scenario oppure sia stata un incidente della storia, una di quelle cose che tra le aule di Oxford o Cambridge tra qualche anno verrà studiata come una stagione di follie e Governi in rapido turnover.
Indette poche settimane fa da Sunak, le elezioni stesse sono state piuttosto pacate, rispetto agli standard del passato. Ci sono stati dei punti fissi. Il sostegno all’Ucraina, per esempio, non è mai stato in discussione. Il Paese è saldo dietro a Kiev e nessuno si è fatto venire in mente di dire cose dissonanti a proposito. Quando Nigel Farage ci ha provato, si è tirato dietro una pioggia di critiche indignate.
Il Paese nonostante tutto ha mantenuto dei punti di forza e sa rimbalzare. Starmer ha escluso del tutto che rimetterà mano alla Brexit, ma non stupirebbe se ci fossero piccoli aggiustamenti per smussare gli aspetti più ruvidi, anche perché tutto il suo pia-
no economico, messo a punto (senza molti dettagli a dire il vero) insieme alla cancelliera Rachel Reeves, è basato sulla possibilità di tornare a crescere abbastanza da sostenere la spesa senza alzare le tasse. Ora bisognerà vedere quanto il premier, di cui Angela Raynor, ex sindacalista nata in una casa popolare di Manchester e diventata madre a anni, diventerà la vice, sarà in grado di dare corpo e spessore a un progetto che agli occhi di molti è parso una tribute band del Governo di Tony Blair. «A tutti coloro che hanno fatto campagna per i Laburisti in queste elezioni, per tutti quelli che hanno votato e dato la loro fiducia al nostro partito laburista rinnovato, grazie», ha detto Starmer, citando quello che fino ad ora è stato il suo successo più tangibile: l’aver portato il partito fuori dalle secche dell’invotabilità dove era stato arenato dalla leadership di Jeremy Corbyn, dalle faide interne e dall’antisemitismo che si respirava, tra risentimenti esibiti e messaggi in grado di terrorizzare l’elettorato.
Anche il tabloid « e Sun» ha ti-
tolato che era «Tempo per un nuovo allenatore (e non stiamo dicendo di mandare via Southgate)», spiegando nel suo editoriale che «detta con franchezza, i Tories sono sfiniti». Forse il segreto è proprio nel cambiamento, nella necessità di un Paese di fare tesoro dell’alternanza democratica e trovare nuova linfa non nella ricerca affannosa di novità – basta ricordare Liz Truss e il suo Governo lampo per provare un brivido verso chi vuole proporre brusche rivoluzioni – ma in quel rinnovamento che viene da un nuovo sguardo sulle cose. Il Regno Unito ha un rapporto affettuoso e devoto nei confronti della tradizione, ma è nella modernità che trova la sua cifra. E nell’apertura: mentre la Francia si fa sedurre da chi vuole riservare certi posti a chi non ha origini straniere, negli ultimi anni il Paese è stato guidato da Rishi Sunak e dalla sua squadra multietnica senza clamore, e nessuno, a parte qualche retrivo nel partito di Farage, ha battuto ciglio. Che venga questa nuova stagione, senza dimenticare tutto il buono che già c’è.
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DELIZIE ESTIVE
Il melone
Meloni e angurie da sorseggiare
Poiché contengono molta acqua, le angurie e i meloni sono considerati i frutti estivi per eccellenza. In forma di bevanda sono ancora più rinfrescanti. Ti spieghiamo come fare
DELIZIE ESTIVE
Cooler all’anguria e alla limetta
Per 1 bicchiere da 3 dl
150 g di anguria pesata mondata
1 limetta
1 cucchiaio di sciroppo di menta
1 dl di Martini Vibrante senz’alcol
Cubetti di ghiaccio
1 rametto di menta
Taglia l’anguria a dadi e privala dei semi, se necessario. Spremi la limetta e mescola il succo con l’anguria, lo sciroppo, la metà del Martini analcolico, poi frulla il tutto. Trasferisci il mix in un sacchetto per surgelati, sigilla bene il sacchetto e mettilo piatto in congelatore per 1 ora circa. Di tanto in tanto schiaccia il contenuto del sacchetto come se lo stessi impastando. Versa il contenuto semi congelato in un bicchiere, aggiungi il resto del Martini, la menta e servi.
Suggerimento
Il mix all’anguria si conserva in congelatore per alcuni giorni. Se ne può preparare una maggiore quantità e conservarla in congelatore.
Smoothie alle bacche e al melone
Smoothie a base di anguria, fragole, lamponi, peperone giallo e un goccio di olio di lino.
Drink al melone e all’ibisco
Prepara il tè all’ibisco, aggiungi lo zenzero e lascia raffreddare. Aggiungi il melone tagliato a cubetti e la limetta a fette e guarnisci con la menta.
Drink al cocco e al melone
Acqua di cocco, succo di limone, melone e acqua tonica... ed ecco un rinfrescante drink estivo, amato anche dai bambini. Da gustare con croccanti pezzetti di cocco!
Alla ricetta
Ricetta
Alla ricetta
Alla ricetta
Ricetta
Virgin White Sangria
Bevanda per 4 bicchieri da 2,5 dl
DELIZIE ESTIVE
Il melone
½ melone, ad es. melone giallo
o Charentais
1 arancia
50 g di mirtilli
3 rametti di menta
7 dl di vino bianco senz’alcol, ad es. Sangre de Toro
2 dl d’acqua minerale frizzante
Dimezza il melone e privalo dei semi. Con uno scavino ricava dalla polpa delle palline di melone. Taglia l’arancia a fette e dividi ogni fetta in quattro. Distribuisci la frutta e i mirtilli nei bicchieri o metti tutto in una caraffa. Aggiungi la menta. Completa con il vino bianco senz’alcol e con l’acqua minerale. Aggiungi a piacimento il ghiaccio.
Watermelon Cooler
Bevanda per ca. 5 dl
500 d’anguria
3 rametti di coriandolo
2 cucchiai di sciroppo di fiori di sambuco
2 cucchiai di Condimento bianco
½ cucchiaino di pepe nero macinato fresco
Tagliate l’anguria a cubetti e metteteli in congelatore per ca. 2 ore. Staccate le foglie di coriandolo dai gambi e frullatele brevemente con i cubetti di anguria, lo sciroppo, l’aceto e il pepe. Versate in bicchieri raffreddati precedentemente e servite subito.
Consiglio utile
Metti in fresco le bevande prima della preparazione del drink. Prepara la sangria con frutta fresca di stagione e servila con del ghiaccio.
Come riconoscere le angurie e i meloni maturi
Sei davanti alle cassette di meloni e non sai quali prendere. Con questi consigli sceglierai solo quelli maturi
Consigli utili
Metti in fresco le bevande prima della preparazione del drink. Prepara la sangria con frutta fresca di stagione e servila con del ghiaccio.
La polpa di melone rimasta può essere utilizzata per guarnire un müesli o un’insalata.
La polpa di melone rimasta può essere utilizzata per guarnire un müesli o un’insalata.
1. Il suono
Batti un colpo sul melone con le nocche delle dita. Se senti un suono sordo e cupo, allora è maturo.
2. Il peso
Devi sapere che i meloni maturi pesano di più rispetto a quelli acerbi o non del tutto maturi. Se hai davanti due meloni della stessa grandezza, scegli quello più pesante!
3. La macchia gialla
Se trovi un’anguria con una macchia di un colore giallo pallido, è un buon segno. Questa macchia infatti rivela che durante la maturazione l’anguria è rimasta distesa a lungo sul terreno, o perlomeno più a lungo di una che ne è priva. Ciò significa quindi che dovrebbe essere più matura. Ma attenzione: se la macchia ha un colore giallo molto intenso, allora l’anguria è troppo matura.
4. Il profumo
I meloni (Cantalupo, Charentais, Galia, Futuro) hanno un profumo dolce alla base del fiore (il punto opposto allo stelo). Questo trucco non funziona con i meloni bianchi e le angurie.
5. Il bordo
Dal bordo puoi riconoscere se l’anguria tagliata è matura. Tra la
Buono a sapersi
Puoi farli maturare ancora un po’ a casa a temperatura ambiente, ma l’aroma intenso rimane una prerogativa di angurie e meloni maturati completamente sul campo.
I semi dell’anguria si possono mangiare, come pure la parte bianca, che contiene preziose vitamine.
polpa rossa e la buccia verde c’è uno strato bianco. Più è sottile, più l’anguria è matura.
6. La pressione
Puoi effettuare un test di pressione su tutti i meloni (Cantalupo, Charentais, Galia, Futuro, meloni bianchi): se la zona in cui si trovava il picciolo cede leggermente, il melone è maturo.
7. Il picciolo
Se l’anguria ha ancora il picciolo, assicurati che sia secco. Infatti, ciò significa che l’anguria è stata raccolta a maturazione ultimata. Se invece il picciolo è verde e fresco, l’anguria non era ancora matura al momento della raccolta.
Testo: Rüdi Steiner
Ricetta
Altre ricette con il melone su migusto.ch
CULTURA
Narrativa
Con l’ultima fatica di Walter Siti ora anche l’Italia ha il suo «romanzo del Covid»
Pagina 31
Fisiognomica
La scienza ufficiale ha sconfessato le affascinanti teorie di Lombroso ma la cultura le ha recepite molto bene
Pagina 33
Il vecchio al mare
Domenico Starnone torna con un testo che non è solo un racconto ma l’ossessione di scrivere la vita
Pagina 34
La caparbietà e il sicuro talento di Sylva Galli
Mostra ◆ La pittrice ticinese morta prematuramente nel 1943 è al centro dell’esposizione alla Pinacoteca Cantonale Giovanni Züst
Alessia Brughera
«I genitori si accorsero un po’ stupiti che la loro piccola non era una ragazza comune. L’attribuirono a un carattere strano, ben lontani dall’immaginare che vi si celasse un temperamento artistico: un temperamento raro soprattutto per la sicurezza con cui si sviluppò in seguito. Un giorno, infatti, terminati gli studi ginnasiali, la ragazza dichiarò chiaramente che intendeva studiare disegno. Fu accontentata». Queste parole che Giuseppe De Magistris, pittore, letterato e critico, scrive nel si riferiscono alla vicenda di Sylva Galli, artista ticinese, originaria di Bioggio, scomparsa nel a soli ventitré anni (nell’immagine il suo Autoritratto).
Già dalle poche righe qui riportate, prese dalla biografia a lei dedicata commissionata dai genitori poco dopo la sua scomparsa, si coglie la peculiare parabola artistica, purtroppo molto breve, di una giovane caparbia e talentuosa che, grazie all’appoggio del padre e della madre, riesce a realizzare il desiderio di diventare pittrice. Un desiderio che viene perseguito da Sylva con una tenacia e una perseveranza inconsuete per l’età, accompagnate da un’inquieta e urgente necessità di perfezionare la tecnica pittorica quasi venisse avvertita l’imminente fine di tutto.
Nonostante il lavoro di Sylva sia impetuoso e incessante (si contano circa centocinquanta opere realizzate in pochi anni), il suo approccio alla pittura non è mai stato affrettato o superficiale, anzi, è sempre stato contraddistinto da una scrupolosa disciplina e da un rigore capace di mediare tra l’impeto espressivo e la meditata ricerca.
Non è un caso che, volta a raggiungere una piena maturità artistica, la ragazza non abbia mai voluto esporre le sue opere quando era ancora in vita, poiché, molto critica ed esigente con sé stessa, non si sentiva pronta per affrontare il giudizio esterno. È così che i suoi dipinti sono stati presentati al pubblico solo dopo la sua morte, grazie all’importante attività di valorizzazione del suo lavoro intrapreso dal padre Battista, che, tra l’altro, ha anche donato alcuni quadri della figlia a Palazzo Pitti a Firenze, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma e alla Città di Lugano. Eppure il linguaggio di Sylva era già così maturo da sorprendere chiunque ammirasse le sue opere. Alcuni richiami ai grandi pittori della modernità (maestri ideali come Cézanne, Van Gogh, Renoir o Matisse) sono ben ravvisabili nei suoi dipinti, ma colpisce il modo sicuro di rielaborare tutte queste suggestioni in una specifica cifra stilistica fresca e vivace, che non può non farci chiedere quali esiti avrebbe raggiunto la pittrice se avesse vissuto più a lungo.
La curiosità, la voglia di imparare e di aprirsi a nuove esperienze fanno parte del curriculum di Sylva, che, dopo una formazione alla Scuola professionale di disegno presso la Scuola d’Arte e Mestieri di Lugano, studia al Technicum cantonale di Friborgo per spostarsi poi nella stimolante Zurigo. È qui che, all’inizio del , frequenta dapprima l’atelier di Markus Ginsig e successivamente l’Akademie Wabel, una scuola privata di nudo e di paesaggio che godeva di ottima reputazione. Quando rientra a Lugano, sul finire dello stesso anno, la giovane porta già i segni della malattia che di lì a poco la condurrà alla morte, ma prosegue nello studio dell’arte avvicinandosi alla scuola di figura e di nudo di Carlo Cotti.
Con risolutezza Sylva approda così a una pittura ben impostata ed energica, memore della lezione degli impressionisti francesi così come delle avanguardie svizzere ma sempre fe-
dele alla sua peculiare visione artistica supportata da un’istintiva padronanza della tavolozza cromatica. I suoi ritratti, le nature morte, i paesaggi e i nudi sono permeati da un’atmosfera intima ma allo stesso tempo vitale.
Lo si vede bene nella mostra che la Pinacoteca cantonale Giovanni Züst di Rancate dedica a Sylva Galli, restituendo con una settantina di opere il breve ma intenso percorso della pittrice ticinese. Si tratta di una rassegna che prosegue la ricerca dell’istituzione rancatese volta a far conoscere al pubblico il lavoro delle talentuose donne del nostro territorio e che, in questo specifico caso, si pone come una prima significativa ricostruzione della presenza femminile in ambito artistico.
La figura di Sylva Galli, tra le prime ad accedere professionalmente alla pratica pittorica, ben si presta a questo scopo, poiché, per la sua vicenda peculiare, emerge come simbo-
lo primigenio dell’affermazione della donna nelle belle arti. Non stupisce difatti che la sua ferma volontà di diventare artista, la sua capacità di ampliare i propri orizzonti cercando stimoli sempre nuovi anche al di fuori del Ticino, la sua spontaneità estetica e, nondimeno, la sua fine prematura, abbiano fatto sì che incarnasse fino agli anni Sessanta dello scorso secolo l’emblema del femminismo progressista dell’epoca. È così che attorno a Sylva si sviluppa un’esposizione il cui percorso prende avvio dalle opere di quelle pochissime donne che prima di lei, nell’Ottocento, erano riuscite a dedicarsi all’arte intraprendendo regolari studi accademici, seppur spesso incompleti a causa delle molte difficoltà nel potervi accedere. Sono figure appartenenti a ceti sociali elevati che proprio per questo avevano la possibilità di applicarsi a tale passione. Tra loro citiamo Adelaide Pandiani, figlia
del noto scultore Giovanni, che finisce con il sacrificare l’arte ai suoi doveri di moglie e madre; Giovanna Castagnola che studia pittura a Bruxelles e che giunge a Lugano per sposare Alessandro Béha, noto albergatore; Valeria Pasta Morelli, figlia dell’imprenditore Carlo Pasta, che si diploma a Brera e coltiva la pittura solo tra le mura domestiche; Rachele Giudici, conosciuta più per lo studio dei costumi tradizionali ticinesi e presente in mostra con due abiti da lei disegnati. Dopo le sezioni che documentano il lavoro di Sylva Galli, troviamo uno spazio dedicato alla famiglia Chiesa in cui spiccano le personalità delle due consorti dei fratelli Francesco e Pietro: Corinna Galli, molto attiva nel mondo culturale e autrice della Bibliografia scritta da donne ticinesi o vissute nel Ticino,e Germaine Petitpierre, dedita al ricamo con lo scopo di sviluppare l’artigianato ticinese femminile.
Il percorso viene concluso poi da una ricca sala che raccoglie le artiste del tempo di Sylva Galli, testimonianza di come, a partire dagli anni Trenta e Quaranta del Novecento, le pittrici incomincino a non essere relegate solo all’ambito domestico. A contribuire a questa importante svolta sono la prima esposizione nazionale svizzera del lavoro femminile nel e la nascita della sezione ticinese del Lyceum nel che, fondato da alcune intellettuali, sostiene le artiste e artigiane più valenti.
Ecco ad esempio Anna Baumann-Kienast, tra le socie più intraprendenti del Lyceum; Regina Conti, con studi completi a Monaco e a Milano, unica ticinese nel a presenziare all’Esposizione Permanente di Milano; Rosetta Leins, considerata una delle migliori pittrici svizzere e tra le interpreti più felici del paesaggio ticinese, chiamata anche a decorare la Sala dei matrimoni di Palazzo Civico a Lugano; Margherita Osswald-Toppi, amica di Hermann Hesse e molto apprezzata dal pubblico d’Oltralpe; Mariangela Rossi, artista schiva rivalutata dalla critica negli anni Ottanta e Novanta del Novecento. Donne che finalmente riescono a fare della loro arte una professione, ottenendo il riconoscimento delle proprie capacità e aprendo così la strada a una maggiore emancipazione del loro ruolo nella società.
Dove e quando Sylva Galli (1919-1943) e le artiste del suo tempo. Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, Rancate. Fino all’8 settembre 2024. Orari: giugno e settembre: da ma a ve: 9-12/14-17 sabato, domenica e festivi: 10-12/14-17; luglio e agosto: 14–17. www.ti.ch/zuest.
Eredi
Sylva Galli
Anche l’Italia ha il suo romanzo del Covid
La recensione ◆ Ne I figli sono finiti Walter Siti racconta la storia di Augusto e Astore e le loro solitudini a confronto
Roberto Falconi
Prima che uscisse, sapevo solo due cose del nuovo romanzo di Walter Siti: che uno dei due protagonisti sarebbe stato un abilissimo videogamer nato all’inizio del ventunesimo secolo e ripiegato su sé stesso; che sarebbe entrato in stretta relazione con un settantenne. Tuttavia, se l’obiettivo era (anche) quello di mostrare l’isolamento del giovane rispetto alle generazioni precedenti – mi dicevo – forse non sarebbe stato necessario uno scarto anagrafico così ampio tra i due personaggi.
Il libro parla dell’incontro tra due figure forse antitetiche, un giovane videogamer e un anziano professore di francese
Ora, a lettura ultimata, credo che Siti avesse bisogno di un nonno (Augusto) e di un nipote (Astore) perché il rapporto tra i due nascesse già adombrato da un anello mancante, nello spazio incolmabile dell’assenza di un padre. I figli sono finiti perché prima di loro sono finiti i padri. Augusto, omosessuale, padre non è né lo sarà mai; Astore un padre ce l’ha, ma lo riconosce solo in parte: gli errori commessi con il primo figlio precluderanno poi a Piero (questo il nome del genitore) la possibilità di riscattarsi con il bambino che nascerà dalla nuova compagna, e «che saluterà il ventiduesimo secolo». Augusto e Astore, dopo i rispettivi traslochi, si ritrovano dirimpettai in una palazzina milanese. È l’incontro – che nasce nella reciproca diffidenza ma diverrà sempre più profondo – tra due figure apparentemente antitetiche: un
giovane che conosce il mondo virtuale meglio di quello reale («Lei ha mai letto gli sviluppi di League of Legends?») e un vecchio professore di francese al liceo («Ho i tempi contingentati, per mia vergogna non ho ancora letto dei classici importanti come Il conte di Montecristo o I tre moschettieri»). Poi, a ben vedere, i due appaiono più vicini di quel che sembra. Entrambi vittime di una perdita irreparabile e non elaborata: per Augusto, la morte del compagno, su cui si apre il romanzo; per Astore, quella della madre, di cui scoprirà (proprio grazie ad Augusto) il segreto che condivideva col marito.
Entrambi, a diverso titolo, postumani: Augusto trapiantato di cuore dopo un’angioplastica; Astore che al posto del cuore vagheggia di farsi trapiantare un computer e sogna un futuro di reti neuronali (ma ad apparirgli nei sogni veri sarà sempre la mamma). Entrambi inghiottiti dal senso della fine, che trova manifestazione anche sul terreno del sesso, sebbene con forza diversa e motivazioni opposte: Augusto ossessionato da un «desiderio senza speranza» che si concretizza nella relazione con lo scultoreo escort Franco (quasi un terzo del romanzo); Astore che fa sesso virtuale con la coetanea Antonia
La salvezza tra i fiumi in piena
Vallemaggia ◆ La commovente testimonianza degli ex voto dei secoli scorsi
Carlo Silini
dal computer di casa (tre pagine scarse, trentuno minuti di connessione via Skype), mentre alla parete della sala da pranzo sta appesa una grande carta geografica che rappresenta la Terra nel , «con il livello del mare alzato secondo le previsioni: l’Antartide diventato un ridente arcipelago, sommersa la Florida, Shanghai su palafitte e il mare Adriatico fin quasi a Pavia». Anche se poi le cose sono un po’ più complicate di così: Astore studia manuali sull’Intelligenza Artificiale ma nella notte si mette a rincorrere una zingara, «la più bella ragazza che abbia mai visto – pelle dorata, occhi neri come la pece fresca, vita sottile e seno prorompente»; Augusto si rifugia nella Pléiade ma a Franco parla «come un’adolescente su TikTok».
Difficile che due personaggi simili possano resistere (non serve a niente) di fronte all’insensatezza del Mondo. La Natura, con la pandemia di Covid che sfilaccia anche la Milano di Astore e Augusto, ha fatto solo le prove generali per «l’estinzione soft della specie». (Marginalmente: quando ebbi occasione di incontrarlo, poco prima dell’uscita del libro, dissi a Siti che in Italia mancava ancora «il romanzo del Covid». Ora anche quella lacuna è stata colmata). Né serve accanirsi nel cercare le relazioni tra le cose: Putin che invade l’Ucraina; Augusto in coda al supermercato che dice a una donna incinta che «i figli sono finiti»; i fratelli Bianchi che massacrano Willy Monteiro Duarte. Le traiettorie di persone e personaggi si rompono e si intrecciano, Storia e storie si determinano in modo imperscrutabile. A Siti non interessa interrogare la Natura, tanto sa
già le risposte. Gli basta non abbassare lo sguardo davanti alla sabbia che ci seppellirà (e che può essere anche quella di una spiaggia greca, ma sul finale davvero non si può dire di più). Astore (che fa tradurre a una macchina i versi di Baudelaire) e Augusto (costretto ad ammettere che la traduzione non è poi male, anche se solo i veri scrittori sanno inventare uno stile che non c’è ancora) possono allora trovare un fragile punto di contatto solamente nello spazio eterno e immateriale del libro che scrivono insieme. Da una parte, I figli sono finiti ostenta infatti l’artificio della costruzione romanzesca: nell’organizzazione dei capitoli; nei parallelismi allegorici (la vicenda di Minosse e Pasifae – nell’affresco pompeiano nella foto – che si sovrappone a quella dei genitori di Astore); nelle replicazioni (i vedovi Augusto e Piero che parlano alle tombe dei congiunti); negli indizi disseminati e poi illuminati; nel dialogo con i paratesti, copertina compresa; nell’ambiguità della voce narrante. Dall’altra, solo lo stile inconfondibile e inimitabile di chi sa maneggiare con cura la parola letteraria avrebbe potuto fare vibrare le pagine del libro. Se l’unico orizzonte di possibilità si trova entro il perimetro del romanzo, non è allora un caso che questo si chiuda – nell’ultimo dei Titoli di coda, cioè nella sua parte per certi versi più metaletteraria – sulla figura di un padre che decide finalmente di fare il padre, e che progetta di scrivere un (altro) libro su Augusto.
Bibliografia
Walter Siti, I figli solo finiti, Rizzoli, Milano, 2024.
All’oratorio del Boschetto di Cevio c’è un ex voto impressionante che mostra la Maggia in piena scorrere impetuosa sotto un ponte, con la scritta: «Grazia ricevuta il ottobre sul bellissimo ponte di Lodano». Il pittore ha anche raffigurato un uomo con l’ombrello aperto che indica la furia degli elementi sotto gli occhi benevoli della Madonna e di un santo indecifrato. Vedo l’immagine sul volume di Raffaello Ceschi Ottocento ticinese, e non posso fare a meno di pensare alle vittime del maltempo in Vallemaggia, in Mesolcina, in Vallese e in tutti i luoghi funestati dai disastri climatici negli ultimi mesi. Penso anche ai tre ragazzi spazzati via dalla corrente del Natisone, in Italia, qualche settimana fa, inghiottiti dai flutti mentre si abbracciavano sotto lo sguardo agghiacciato delle telecamere. Nessuna Madonna di valle si è accorta di loro? I numerosi ex voto ticinesi hanno attestato per secoli i pericoli del vivere ruvido nelle montagne. Ne fa stato un libro di Piero Bianconi che vale la pena di sfogliare in questi giorni di lutto, in onore dei sopravvissuti e dei morti di ieri e di oggi: Ex voto del Ticino (Armando Dadò editore, . edizione ). Bianconi coglie il senso profondo di queste testimonianze artistico-religiose ricordando la scritta trovata nella «mirabile» cappella della Varda, all’imbocco della Bavona: «Ferma il piè, o passagier, mira che sorte c’ai d’invocar Maria in un pericolo di morte». Consuetudine con il pericolo, commenta Bianconi, «quindi bisogno di una costante fiduciosa protezione, e la riconoscenza quando dalla improvvisa sciagura l’uomo riesce a portarsela fuori indenne». Parole, quelle dipinte nella cappella della Varda, che deve aver letto anche l’anomalo contadino di Lodano Giuseppe Bonenzi, morto giusto giusto anni or sono nel , di cui trovo traccia nel volume I maestri di casa di Tiziano Tommasini. Anomalo, perché sapeva scrivere e infatti ci lasciò un manoscritto memorabile sull’anno
della fame in Vallemaggia e altrove, arrivato – guarda caso – dopo un biennio di pessime condizioni meteorologiche: piogge, gelate inusuali, nevicate estive, frane, smottamenti, inondazioni alternate a siccità. Nei dipinti votivi ecco donne – soprattutto donne – che cadono nel torrente, fissate a una corda in bilico sopra un dirupo, bloccate su terrazzi erbosi a strapiombo sul nulla, aggrappate pervicacemente agli ultimi ciuffi d’erba prima del burrone, colpite da una gragnuola di sassi mentre portano la gerla col fieno, precipitate nelle sassaie o ripescate, miracolosamente, sul greto di un fiume o di un lago. «Perché davvero tutti i nodi vengono a questo pettine – scrive Bianconi citando sé stesso in un altro suo testo del
tutti i guai confluiscono in queste pitture; qui si svolge evidente e spettacolare il lunghissimo film dei malanni delle infermità delle disgrazie della malignità e cattiverie che intesson la vita dell’uomo: dalla febbre a quaranta ai ladroni di strada, e il pupo che si rovescia addosso la pentola d’acqua bollente, e il fiume che straripa sotto le piogge equinoziali…». Molti di questi capolavori d’arte naïf recano la firma di un artista valmaggese che meriterebbe l’epiteto di Michelangelo dei poveri, nel senso più nobile del termine: Giovanni Antonio Vanoni (), cronista ante litteram delle fortune nelle feroci sfortune di valle.
Analizzare i processi relativi alla supply chain per identificare inefficienze e proporre soluzioni migliorative; Assistere il responsabile nella raccolta e analisi dati in progetti; Preparazione di report dettagliati da presentare ai comitati decisionali; Seguire implementazione di nuovi Software logistici; Fornire supporto e soluzioni personalizzate agli Stakeholder; Supportare nello svolgimento di attività amministrative e di segretariato.
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Dettaglio dell’ex voto di Lodano (immagine tratta da: Ottocento ticinese, Dadò editore, 1986)
Suggestioni lombrosiane sui «mostri» del ‘900
Fisiognomica ◆ Molte teorie di Cesare Lombroso sono smentite dalla scienza, ma il loro impatto sulla cultura resta importante
Roberto Festorazzi
Il caro, vecchio Darwin non sarebbe d’accordo sulla demolizione delle controverse teorie positiviste di Cesare Lombroso, padre dei moderni studi sulla personalità del deviante. «Grande», «fantastico», lo celebrò Sigmund Freud.
Nel , osservando il cranio del bandito calabrese Giuseppe Villella, Lombroso fu folgorato da una sorta di illuminazione, rivelatasi poi fallace. Notando la presenza di una anomala fossetta occipitale mediana, impronta del piccolo lobo centrale del cervelletto, ne attribuì l’insorgenza a un atavismo. La fossa mediana era già scomparsa in molte delle scimmie e dunque si era di fronte a un livello inferiore della scala evolutiva.
Nel 1870, osservando il cranio di un bandito, Lombroso ebbe l’errata intuizione che i criminali si riconoscessero analizzandone i volti
Lo scienziato fondò su quell’intuizione le sue considerazioni sulla naturalità del «delinquente nato», un tipo di soggetto non redimibile e portato a recidivare nel suo comportamento deviante.
L’accanito studio della fisiognomica fece poi il resto. Concentrandosi sulla morfologia dei volti umani, individuò in alcuni tratti somatici diffusi (naso schiacciato, fronte stretta, enormi mandibole e zigomi accentuati, prominenti arcate sopraccigliari) le tipologie più frequenti di delinquenti per nascita. Lombroso infatti riteneva che nel criminale affiorassero caratteri ancestrali scomparsi nell’uomo contemporaneo «normale», e imputava proprio a queste forme biologiche primitive, frutto di mancata evoluzione, la coazione a delinquere.
Benché molte delle teorie parascientifiche di Lombroso siano state smentite, nondimeno è innegabile la profonda traccia da lui lasciata nei campi del suo agire sperimentale, dalla medicina legale alla psichiatria, dalla sociologia al diritto.
Pioniere nell’uso delle impronte digitali per l’individuazione dei rei, coniò l’espressione «polizia scientifica».
George Mosse, indicando nell’illuminismo europeo le origini del razzismo novecentesco, volle inserire anche Lombroso nella lunga lista dei progenitori del nazismo, nonostante il fatto che questi sia stato tra i primi a denunciare l’antisemitismo, anche in quanto israelita.
Il suo determinismo lo portò certo a sposare impianti teoretici che si potrebbero definire di darwinismo sociale.
Riconosciuto tutto questo, è innegabile che il panorama culturale contemporaneo, e il nostro immaginario collettivo, offrano parecchi motivi per riflettere sulla suggestività, ad esempio, degli assunti fisiognomici lombrosiani.
Basta passare in rassegna l’album fotografico dei protagonisti dei totalitarismi del Ventesimo secolo, per accorgersi di come i tratti somatici di alcuni dei più spaventosi mostri generati da ideologie folli, balzino in evidenza per caratteristiche espressive particolari.
I volti dei capi della Germania nazista sono spesso masche-
re inquietanti, che probabilmente nessuno vorrebbe incontrare in ascensore. Giochiamo a descriverli «lombrosianamente».
Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda di Hitler aveva stampato perennemente sul viso un ghigno che definirei satanico. E, se non sorrideva, era ancora peggio: emanava, con lo sguardo, un magnetismo torvo, da creatura di pura tenebra. Il cinema che si occupa delle derive apocalittiche dell’antropologia criminale del Novecento, si ciba di intuizioni lombrosiane, tanto è vero che, nella selezione delle corporeità attoriali, sceglie volti che evochino, non soltanto somiglianze fisiche con i personaggi che rappresentano, ma anche tratti di una certa inquietante incisività.
Oliver Hirschbiegel, il regista del film-colossal La caduta (Der Untergang), sugli ultimi giorni di Hitler, e della sua cerchia intima, ha scelto, non a caso, Ulrich Matthes, quale interprete della figura di Goebbels.
Matthes, e anche questa non è una coincidenza, ha partecipato, con ruoli da protagonista, a quattro episodi della fortunata serie televisiva, poliziesco-criminale, dell’Ispettore Derrick.
Vogliamo continuare?
Hermann Göring, il «numero due» del regime con la svastica, era (oggettivamente) un morfinomane che divenne obeso, e dalla faccia enfia. Ma, in quel volto già di per sé messaggero di allarmanti presentimenti, spiccavano due occhi chiari che sprizzavano efferata crudeltà.
Quanto a Rudolf Hess, altro fedelissimo «vice» del Führer, si rimane sconcertati, a osservare quella prominente arcata sopraccigliare, nella quale sono infossati due occhi «ciechi» che paiono spalancati sul nulla, e dal nulla paiono provenire, se per ciò si intendono gli abissi di una inesprimibile infermità mentale.
Il cinema che si occupa delle derive apocalittiche dell’antropologia criminale del Novecento, si ciba di intuizioni lombrosiane
Per non concedere alcuna esclusiva, alla fisiognomica criminale della cricca di Hitler, basta qui citare la descrizione del leader della rivoluzione d’Ottobre, Lenin, che ci ha lasciato il barone Werner von der Schulenburg, letterato e diplomatico tedesco che visse a lungo in Ticino, ove si spense nel .
Nel marzo del , Schulenburg, a quel tempo attaché de presse dell’addetto militare, all’ambasciata imperiale germanica di Berna, fu inviato quale emissario speciale presso il capo bolscevico, per concordare i dettagli della sua partenza dal suolo elvetico, dove aveva vissuto da esule per alcuni anni.
Schulenburg restò impressionato dalle fattezze fisiche dell’uomo, soprattutto dalla sua «testa di legno vivo, intagliato da un grande artista burattinaio».
Di questo incontro, ci ha lasciato una descrizione incomparabile.
Lenin gli apparve «così malvagiamente brutto che difficilmente sarebbe stato possibile immaginarsi qualche cosa di più brutto. Tutta la costruzione del viso partiva dalla
bocca. Non era una bocca, non erano delle fauci, era il cratere di un vulcano. Le pieghe profonde dagli angoli
del naso formando con le labbra un triangolo profondo dentro il quale scendeva aguzza la punta del naso».
L’album di famiglia degli inquilini
del Cremlino prosegue con il ritratto di Josif Stalin, tiranno autore delle famigerate «purghe»: il suo volto è dominato dai folti baffoni, ha lo sguardo tagliente e glaciale da predatore, la pelle butterata. Dopo la breve parentesi, alla guida dell’Urss, di Malenkov, è la volta di Nikita Krusciov, denunciatore dei crimini di Stalin: un uomo dall’apparente bonomia, in realtà collerico ed esplosivo nella sua boria contadina rivestita da una spessa cotenna di lardo.
Micidiale la descrizione del leader della rivoluzione d’Ottobre, Lenin, lasciata da Werner von der Schulenburg
Destituito Krusciov, ascende al potere Leonid Breznev, pugno di ferro e sopracciglia cespugliose, il quale, negli anni del suo declino, è una specie di automa frankensteiniano. Gli succedono le ultime mummie del sistema al collasso: Yuri Andropov, figura dai lineamenti totalmente inespressivi, come se fosse uscito da una ibernazione, e Konstantin Cernenko, geriatrico leader, fenotipo di siberiano asiatico, che schiude le porte all’avvento di un capo fisiognomicamente (e finalmente) tranquillizzante: Michail Gorbaciov.
della bocca salivano fino alla radice
Rudolf Hess e la sua prominente arcata sopraccigliare. (Wikimedia Commons)
Una storia scarna che affascina
Pubblicazione ◆ Nel suo nuovo romanzo dal titolo Il vecchio al mare Domenico Starnone gioca a carte scoperte
Manuel Rossello
Da molti anni ormai Domenico Starnone appartiene di diritto alla categoria dei venerati maestri delle italiche lettere. Forte di questi galloni, nelle sue ultime prove narrative egli mescola con una certa spregiudicatezza generi e stili narrativi, con risultati sempre degni di nota. In effetti, facendo astrazione dai volumi scritti sotto il noto pseudonimo, le sue ultime cose sfuggono a una catalogazione precisa, sono piuttosto un’ibridazione tra flusso di coscienza, autobiografia, saggio socio-antropologico e altro ancora. In ogni caso quella di Starnone è una voce sempre «di sbieco».
Quasi che l’autore volesse metterci sull’attenti, fin dall’inizio del recente Il vecchio al mare troviamo una stranezza: una perifrasi troppo arzigogolata per non essere sospetta («lungo il confine tra la spiaggia asciutta e quella bagnata») in luogo di termini precisi come bagnasciuga, o ancor meglio battigia, o volendo il montaliano proda. Sciatteria stilistica? Tutt’altro. Questi termini sono presenti più oltre e segnalano gli snodi della trama. È come se lo scrittore ci avvertisse: attenzione, quel punto della spiaggia è un simbolo, rappresenta la zona fluida e impalpabile tra realtà e sogno, tra presente e passato. D’altra parte il testo è percorso da ricorrenti e molto precise notazioni atmosferiche, alcune memorabili. Ma non si è mai stabilmente in un elemento: o ci trovia-
mo tra cielo e mare o tra mare e terra. È stato detto che uno scrittore è l’unica persona che lavora anche quando sembra che non stia facendo nulla. Non fa molto nemmeno l’anziano protagonista del libro (guarda caso anch’egli scrittore e con la stessa età di Starnone), se non constatare il proprio decadimento fisico, mentre la spiaggia che frequenta si popola di sparute presenze. Tra queste la figura di una giovane commessa di boutique ridesterà nel protagonista il ricordo di sua madre. La trama è esile, i pochi personaggi evanescenti, lo spazio in cui agiscono è un palco di cartongesso. Ma ad affascinare è ciò che questa storia così scarna diventa nelle mani di Starnone. Infatti a poco a poco si intuisce che la trama non è che un pretesto per sperimentare altri territori espressivi. E quando l’evocazione di sua madre si compie, la storia retrocede sullo sfondo, perde d’importanza, come se il narratore dicesse: cari personaggi sul bagnasciuga, ora non mi servite più, ho alcune cose importanti da rivelare ai lettori.
Il lessico del vestiario, di arduo maneggio, è da sempre croce e delizia di ogni scrittore (ne sanno qualcosa i traduttori di Morte a Venezia, che devono sudare sui dettagli degli abiti del giovane Tadzio). Starnone ci sguazza a meraviglia e nell’evocazione materna riemergono, come segnacoli di una memoria rivivificata, i nomi di
L’anziano protagonista del libro, anch’egli scrittore e con la stessa età di Starnone, non fa altro che constatare il proprio decadimento fisico. (Freepik)
tessuti comuni in quel tempo lontano: taffettà, tulle, batista, organza, nappa chiffon…
Anche se il nucleo della storia (sua madre era effettivamente una sarta ed esercitava nella loro modesta casa, con le clienti che provavano gli abiti in camera da letto) sembra riguardare il rapporto mai risolto con il figlio e, per il figlio, rivivere nel negozio le pulsioni provate da bambino, tutto ciò non è, per così dire, che la sovrastruttura. Non sono le signore che si spogliano nel negozio a interessarlo, è la storia che se ne può cavare. In sostanza una situazione di voyeurismo narrativo.
Oltretutto Starnone inserisce nel testo numerosi autocommenti, piuttosto severi. Strana esegesi quella di chi irride ciò che ha appena scritto! In realtà, il vecchio scrittore che brontola per gli acciacchi forse si sta lamentando per la frustrazione di non riuscire a trovare la parola più adeguata, il giro di frase più efficace. C’è qui dunque una (splendida) violazione del tacito accordo tra scrittore e lettore: quest’ultimo assiste al farsi della scrittura e può leggere tutto, compresi i fallimenti, gli scarti, i ripensamenti. Ecco che lo scrittore dichiara di odiare le metafore, ma subito dopo ne sforna alcune notevoli. Il sospetto che
si insinua è insomma che la storia non sia che una sorta di apparato scenico per sperimentare in presa diretta gli esiti della scrittura. Starnone gioca a carte scoperte («sto incollando qualche brano di memoria su questa figura di giovane donna»), è impietoso verso sé stesso («i miei leziosi il mare ansima, la sabbia geme, gli arbusti sbuffano») e sfoglia con noi le pagine del suo taccuino mostrandosi nell’atto di scrivere, con tutte le soddisfazioni e le frustrazioni del caso («irraggiare –questo verbo non è giusto, devo pensarci, ne troverò altri»). Mostrandoci in tal modo la scrittura nel suo momento magmatico.
Tutto il racconto è dunque anche la confessione di un’ossessione: quella di riuscire a scrivere la vita (non necessariamente la propria) e farlo nel migliore dei modi possibili (vivir para contarla, si potrebbe dire con García Márquez). In un capitolo del libro un uomo che ogni mattina perlustra la spiaggia con un metal detector, un giorno lo presta al protagonista. E lui che fa? Insensatamente lo usa di notte. A pensarci, quale migliore immagine di un metal detector usato di notte per suggerire il cieco avanzare a tentoni del vecchio scrittore alla ricerca della parola che lo appagherà?
Bibliografia
Domenico Starnone, Il vecchio al mare, Torino, Einaudi, 2024.
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In fin della fiera
«Fermo! Stai fermo!»
Il gennaio la televisione italiana ha compiuto anni. L’anniversario ha prodotto una nuova ondata di studi e di rievocazioni. Fra cui Quasi gol, storia sentimentale del calcio in tv, di Giorgio Simonelli, già docente alla Cattolica di Milano di storia della radio e della televisione e naturalmente tifoso accanito. In estrema sintesi la sua tesi è che il calcio in televisione è passato dall’avere un trattamento referenziale e cronachistico a una estrema spettacolarizzazione, fino a diventare una sorta di commedia dell’arte, dove tutti gli attori interpretano un ruolo prestabilito. La mutazione è stata possibile grazie alla straordinaria evoluzione degli strumenti di ripresa. Sarebbe l’ennesima prova che Marshall McLuhan aveva ragione: «Il mezzo è il messaggio», ovvero il vero messaggio che ogni medium trasmette è costituito anche dalla natura dello stesso medium.
Voti d’aria
Nel corso di una partita ripresa dalla televisione un attaccante tira un calcio nella porta avversaria dando il via a tre possibilità: il goal, la parata, il fuori porta. Tutti e tre i casi danno il via a una esagerata manifestazione di giubilo o di rammarico da parte dei giocatori: capriole, salti, abbracci, corse, ammucchiate, gesti di rabbia e di sconforto. Lo fanno perché sanno di essere ripresi da una telecamera e che quelle immagini torneranno più e più volte nei vari telegiornali. E saranno commentate. Non solo: il regista, prima che la partita abbia inizio, ha cura di far riprendere in vari primi piani i visi di allenatori, arbitri, guardialinee, spettatori famosi per allestire una biblioteca di espressioni (rabbia, gioia, sconcerto, rammarico, eccetera) da spendere al momento opportuno per arricchire le sequenze clou della commedia. Sempre la presenza di strumenti di ripresa influen-
Strega, senza sorprese
Piace a molti dire che i finalisti dello Strega sono mediocri. È una lagna ricorrente, ogni anno. Ricorrente come la polemica: quest’anno la novità è stata che le tre scrittrici e i tre scrittori arrivati in finale tra gli concorrenti (!) sono stati «vestiti» dagli stilisti. Scelta discutibile il Made in Italy in letteratura: voto (in consapevole odore di moralismo). Intanto si sa che il premio farà guadagnare al vincitore almeno (almeno!) mila copie, oltre alle numerose traduzioni. È vero, come ha scritto qualcuno, che nessuno dei romanzi selezionati eguaglia Menzogna e sortilegio di Elsa Morante. Ma bisognerebbe chiedersi, piuttosto, perché proprio quei sei. E perché vengono regolarmente esclusi libri migliori di quelli premiati. Per esempio, quest’anno quello di Igino Domanin Un eroe comune, sull’omicidio del giudice Emilio Alessandrini e sui for-
midabili (e terribili) anni . Oppure il secondo romanzo di Sonia Serazzi, Una luce abbondante. E perché Michele Mari è sempre stato ignorato? E Franco Cordelli? E Giorgio Van Straten (Una disperata vitalità, del , è un memoir notevole)? E Antonio Moresco? E Filippo Tuena? E Eraldo Affinati? E Andrea Pomella, uno degli autori più sorprendenti degli ultimi anni? Si potrebbe continuare. Non hanno abbastanza santi in paradiso? Sono fuori dai giochi? Quali giochi? Non c’è una riposta e non ci sarà mai. Fatto sta che raramente i pronostici allo Strega vengono smentiti. È successo l’anno scorso con Ada D’Adamo, ma non quest’anno. La vittoria è andata alla superfavorita (da febbraio) Donatella Di Pietrantonio e al suo L’età fragile (Einaudi). Bel libro (). Protagonisti la durezza della montagna abruzzese e una madre, Lucia, con il
A video spento
za il comportamento dei soggetti. Ho preso parte come cameraman della sede Rai di Torino, alle prime riprese sportive, non solo del calcio. A Sanremo, per i campionati europei di nuoto, il regista mi fece sedere su un trabiccolo a tre ruote che doveva andare avanti e indietro lungo il bordo della piscina seguendo il livello dei nuotatori in testa. La ruota di sinistra passava accanto al canaletto pieno d’acqua che correva lungo il bordo della piscina vera e propria. A pranzo con la squadra di riprese eravamo stati ospiti del circolo che organizzava le gare e il mio carrellista aveva apprezzato il ricco buffet, soprattutto il bianco secco. «Questo vino è una meraviglia, va giù come l’acqua». Sarebbe bastato un lieve scarto perché la ruota di sinistra finisse nel canaletto, ribaltando me e la telecamera addosso a un paio di campioni affiancati. Non che m’importasse poi molto della regola-
rità della gara quanto del fatto che non so nuotare. Invece di controllare l’inquadratura e il fuoco per tutta la durata della gara ho tenuto d’occhio la ruota pronto a buttarmi dall’altra parte. Siccome esiste un dio degli ubriachi non successe niente. Per riprendere l’arrivo delle corse su strada si collocavano le telecamere sulla linea del traguardo e in prossimità dell’arrivo; la telecamera più lontana, ovvero la mia, arrivava all’altezza dell’ultima curva per aumentare la lunghezza del tratto di strada battuto dall’obbiettivo. Ho fatto trasferte di tre giorni a Sanremo in occasione della Classicissima per realizzare secondi di riprese andate in onda: giusto il tempo di inquadrare la sfilata dei corridori del gruppo di testa, prima che un mio collega li prendesse in consegna. Per evitare che i tifosi che affollavano l’ultimo tratto della corsa «impallassero» il campo di ripresa e per avere un’inquadratu-
ra dall’alto che abbracciasse un campo più ampio, si costruivano con i tubi Innocenti delle torri alte quattro o cinque metri, a sezione quadrata, con un lato da un metro e mezzo, i cosiddetti «trabattelli». Mi dovevo inerpicare fin lassù un bel po’ di tempo prima e puntare lo zoom stretto fino al massimo ingrandimento sull’ultima curva della strada. Si capiva che la corsa stava per giungere al traguardo dal fatto che la torre di tubi incominciava a oscillare paurosamente. Per i tifosi assiepati in prossimità del traguardo quell’osservatorio a portata di mano era una tentazione troppo forte e i vigili che avrebbero dovuto impedire le arrampicate selvagge erano più interessati all’esito della corsa che alla qualità delle mie riprese. Ero sulla tolda di un battello nel mare in tempesta e in cuffia non mi arrivava una frase di conforto ma il grido strozzato del regista: «Fermo! Stai fermo!»
suo senso di colpa rivolto a un’amicizia passata e, oggi, con i silenzi misteriosi della figlia. Bel romanzo anche quello di Chiara Valerio, che era data per seconda favorita, e invece (brivido!) è arrivata solo terza con Chi dice e chi tace (Sellerio): investigazione su una morte (Vittoria trovata cadavere in una vasca da bagno) e su una storia d’amore, ambientata in un paese laziale sul mare, Scauri, equidistante tra Napoli e Roma, in cui la gente parla e non parla. Tra i finalisti, c’erano anche Raffaella Romagnolo (Aggiustare l’universo, Mondadori) e Paolo Di Paolo (Romanzo senza umani, Feltrinelli). Personalmente però, avrei premiato gli altri due: Dario Voltolini (½) e Tommaso Giartosio (½). Due scrittori coraggiosi e fuori dal comune. Invernale (La nave di Teseo) è stata la vera sorpresa (arrivato secondo non previsto). È la storia di un padre macellaio specializzato
L’intervista, un prodotto della modernità
Un’intervista non si nega a nessuno. La parola intervista è un calco dell’inglese «interview», che ricalca il francese «entrevue», derivato del verbo «s’entrevoir»: vedersi o incontrarsi brevemente. Dunque, filologicamente, sarebbero gli occhi, non la parola, il fondamento dell’intervista. E invece, nelle interviste, ci si vede per «porre delle domande». Elias Canetti, in Massa e potere, sostiene che porre delle domande è una forma di tirannide: «La libertà della persona consiste per buona parte in una difesa dalle domande». E aggiunge: «È saggia la risposta che pone fine alle domande». Quando in tv si vedono e si sentono tutte quelle interviste (il genere giornalistico più praticato nell’informazione televisiva) torna in mente la frase di Leo Longanesi: «L’intervista è un articolo rubato». Il giudizio di Longanesi era influenzato dal fatto che, mediamente, un intervistatore non fa molta fatica: a domande
scontate seguono risposte altrettanto scontate, condite spesso da ipocrisia e da discreta cortigianeria. L’intervistatore è esentato dallo sforzo e dalla responsabilità del punto di vista; l’intervistato può tessere le lodi del suo punto di vista, senza essere contraddetto. Questo in politica. Nel mondo dello spettacolo, gli intervistati sono tutti dei geni incompresi. Ovviamente si fanno solo domande che contengano già una risposta.
In tv, le domande sono più lunghe delle risposte (sostiene lo scrittore Aldo Busi che spesso l’intervistatore si serve dell’intervistato per intervistare sé stesso). Se c’è un difetto ideologico è che il più delle volte l’intervistatore vorrebbe piegare l’intervistato ai suoi desideri e se questi va per la sua strada viene prontamente interrotto (nei talk show è una tecnica molto affinata). Tuttavia, se nei manuali di comunicazione cerchiamo una definizione di intervista, troviamo descritte le re-
gole d’ingaggio. L’intervista, ci viene spiegato, è un genere giornalistico finalizzato all’approfondimento. Le sue regole sono semplici: il giornalista deve scegliere l’interlocutore più adatto alla sua indagine; non deve apparire né troppo aggressivo, né troppo remissivo nei suoi confronti; deve conoscere, se possibile, la storia e la personalità dell’intervistato; deve preparare la scaletta delle domande e avere la capacità di cambiarle o integrarle nel corso del dialogo; deve porgere domande brevi, chiare, precise e non allusive. All’intervista segue la fase della trascrizione (per i giornali) o del montaggio (per la radio-televisione). Il giornalista deve conservare la fedeltà al senso delle risposte rese dall’intervistato e rispettare la scansione domanda-risposta. L’intervista ha sempre una ambientazione. L’intervistatore deve riferire il posto, il tempo e il contesto nel quale un’intervista è stata realizzata e non solo
nello «spaccare la testa dell’agnello che sembra guardarti con le sue pupille che non vedono nulla». È un romanzo imprevisto per chi conosceva la scrittura aerea, agile, comica del settantenne torinese Voltolini: qui non c’è nulla di lieve, prevale la carne, raccontata con massima precisione nel penzolare sanguinolento delle bestie dai ganci. Il padre dell’autore, Gino, quest’uomo che da ragazzo si era allenato con Sivori, quest’uomo divenuto un professionista del coltello, questo sovrano del mercato di Porta Palazzo a Torino, passa improvvisamente dalla forza alla fragilità. Succede quando un taglio appena sbagliato gli trancia il pollice, e da lì comincia il grande inverno: il precipizio di un’infezione e di una malattia che gli sarà fatale. È il figlio a raccontarci con strazio e con esattezza quel lento declino in cui avverte, partecipandovi, l’emergere di una visione nuova del
per motivi di colore, ma per facilitare la comprensione dell’avvenimento. La descrizione di un ambiente, l’ascolto di effetti sonori nell’intervista radiofonica o la visione delle immagini in quella televisiva, completano il messaggio informativo. Nella tradizione giornalistica, è lo strumento più diretto e potente per tratteggiare un personaggio, tirarne fuori pregi e difetti, e ottenere notizie preziose ed esclusive. La prima pubblicata su un giornale fu quella di Anne Royall all’ex Presidente degli Stati Uniti John Quincy Adams mentre faceva il bagno nel fiume Potomac nel . Da allora l’intervista ha sempre rappresentato uno dei generi principali. La formula della domanda e della risposta è però solo apparentemente semplice. Progettare, preparare e condurre una buona intervista è molto più complesso di quanto si creda. L’intervista, dunque, nasce in un par-
mondo da parte dell’uomo taciturno e introverso che era suo padre. Dai corpi squarciati e disossati delle bestie si passa al corpo sacro in disfacimento di un genitore amato. Autobiogrammatica di Giartosio (minimum fax) riconduce a Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. L’autore misura la propria vita attraverso le parole di famiglia, segnate su un quadernetto nella semplice «magnitudine del catalogo». Sono le parole del padre e quelle della madre, che si riflettono diversamente nella vita dell’autore-protagonista: «Un filo di nylon lo lega a suo padre, un filo di ferro dolce lo lega a sua madre». La genealogia degli affetti ha origine nel linguaggio, di cui Giartosio è il lessicografo paziente. Troppo raffinato per vincere lo Strega? Forse. Prima di essere selezionato, a fine marzo, aveva venduto copie, mentre Di Pietrantonio era già a quota mila.
ticolare momento della storia della società incarnandone alcune forme culturali. Più precisamente, l’intervista si diffonde alla fine dell’Ottocento come prodotto della modernità, interpretandone il carattere del tempo. È quindi un prodotto di quelle mutate relazioni sociali in cui comportamenti che prima erano considerati disdicevoli ora vengono gradualmente accettati e poi reputati normali; come, ad esempio, la conversazione tra estranei (infatti intervistato e intervistatore solitamente non si conoscono), esporre pubblicamente le proprie opinioni (e non è sempre stato così e non lo è ancora in molte società), e più recentemente mettere in piazza le proprie emozioni e sentimenti. Senza queste condizioni culturali e sociali, l’intervista non si sarebbe affermata. Secondo molti osservatori di costume, ora siamo nella fase in cui si intervista troppo e il genere è diventato una routine da scrivania.
di Bruno Gambarotta
di Paolo Di Stefano
di Aldo Grasso
Hit della settimana
9. 7 – 15. 7. 2024
3.50 invece di 5.20
Sovracosce di pollo Optigal al naturale e speziate, Svizzera, per es. al naturale, 4 pezzi, al kg, 9.30 invece di 14.–33%
Charentais Migros Bio Spagna/Italia/Francia, il pezzo
2.70
25.90 invece di 51.80 Detersivi Ariel in confezioni speciali, per es. Color+, 4 litri, (1 l = 6.48)
imbattibili weekend del Prezzi Validi gio. – dom. 2.–invece di 2.90
Settimana Migros Approfittane e gusta
1.40
1.50
2.80 invece di 4.20 Pomodori a grappolo Svizzera, al kg
Succosità, croccantezza e freschezza
4.40 invece di 5.60
Svizzera, vaschetta da 250 g, (100 g = 1.76)
4.45
Miele di pino Sélection 250 g, (100 g = 1.78) 20%
invece di 5.60
Granola e granola di mirtilli, Sélection per es. granola, 400 g, 4.60 invece di 5.80, (100 g = 1.15) 20%
4.90
Svizzera, 500 g, (100 g = 0.98) 28%
invece di 6.90
2.95
invece di 4.35
Cetrioli da campo Ticino, al kg, (100 g = 0.30) 32%
Lamponi
Ciliegie
Tutto l’assortimento di frutta e verdura, Sélection per es. melone, Spagna/Francia, il pezzo, 4.20 invece di 5.30 20%
3.70
invece di 4.95 Uva Vittoria Italia, al kg 25%
3.95 invece di 4.95 Melanzane Ticino, al kg, (100 g = 0.40) 20%
3.50
invece di 5.20
Meloni Charentais Migros Bio Spagna/Italia/Francia, il pezzo 32%
5.50 invece di 7.50
Svizzera, al kg
Migros Ticino
Bontà per carnivori
1.30
2.30
particolarmente buona
Carne particolarmenteselezionata,buona con del burro alle erbe
3.75
Migros Ticino
7.50 invece di 9.75 Cervelas M-Classic Svizzera, 5 x 2 pezzi, 1 kg
2.95 invece di 3.95 Cervelas Migros Bio Svizzera, 2 pezzi, 200 g, in self-service, (100 g = 1.48) 25%
Tutto l’assortimento di salumi Sélection per es. Jamon Ibérico, Spagna, 100 g, 10.90 invece di 13.65, in self-service 20%
4.95 invece di 7.40 Carne secca di manzo Migros Bio Svizzera, in conf. speciale, per 100 g 33%
20% 5.20 invece di 6.55 Coppa stagionata prodotta in Ticino, per 100 g, in self-service 20%
7.90 invece di 9.90 Prosciutto contadino Tradition Svizzera, 2 x 150 g, (100 g = 2.63)
Migros Ticino
Pesce fresco per piatti raffinati
20%
Tutto l'assortimento di pesce Sélection per es. salmone fiammato affumicato: d’allevamento, Norvegia, 80 g, 4.75 invece di 5.95, in self-service, (100 g = 5.94)
3.15
invece di 5.25
Gamberi crudi e sgusciati M-Classic, ASC d'allevamento, Vietnam, in conf. speciale, per 100 g 40%
13.50
invece di 22.60
In vendita ora al banco
5.55
Filetti dorsali di merluzzo M-Classic d'allevamento, Norvegia, in conf. speciale, 400 g, (100 g = 3.38) 40%
Filetti dorsali di salmone ASC, in vendita al banco d'allevamento, Norvegia, per 100 g 20%
invece di 6.95
14.50
Salmone selvatico Sockeye MSC pesca, Pacifico, in conf. speciale, 280 g, (100 g = 5.18) 30%
invece di 21.–
Crème brûlée e tiramisù, Sélection per es. crème brûlée, 2 pezzi, 200 g, 3.– invece di 3.80, (100 g = 1.50)
3.50
invece di 4.40
Yogurt alla panna Yogos al naturale, ai fichi o al miele, 4 x 180 g, (100 g = 0.49)
3.85 invece di 4.55 Tomino del boscaiolo con speck 195 g, (100 g = 1.97)
9.45
di
Gottardo Prealpi per 100 g, prodotto confezionato
invece di 3.25
invece di 2.55
LO SAPEVI?
Formaggella Blenio «Ra Crénga dra Vâll da Brégn» per 100 g, prodotto confezionato
«Feta» è una denominazione tutelata. In altre parole, il latte per la produzione può provenire solo da alcune zone della Grecia. La feta è sempre prodotta con latte di pecora o con una miscela di latte di capra e di pecora. Il formaggio per insalata può essere prodotto anche con latte vaccino proveniente dalla Svizzera, ad esempio.
Migros Ticino
Tutti i formaggi per insalata e i tipi di feta per es. feta Xenia, 200 g, 3.80 invece di 4.70, (100 g = 1.88)
Grande scelta, piccoli prezzi
Tutti i prodotti da spalmare per la colazione e i tipi di miele, Sélection per es. miele di pino, 250 g, 4.45 invece di 5.60, (100 g = 1.78)
= 1.10)
Tutti gli zwieback (articoli Alnatura esclusi), per es. Original M-Classic, 260 g, 2.95 invece di 3.70, (100 g = 1.13)
Tutte le noci e tutta la frutta secca, Migros Bio (prodotti Alnatura e Demeter esclusi), per es. gherigli di noci, 100 g, 2.60 invece di 3.10
Senza zuccheri aggiunti, leggera dolcezza grazie ai datteri e ai frutti di bosco
Porridge ai frutti di bosco o al cioccolato, Migros Bio
g, (100 g = 1.10)
Disponibili nel reparto frigo
33%
Ravioli Anna's Best ricotta e spinaci, mozzarella e pomodoro o alla carne di manzo d'Hérens del Vallese, per es. ricotta e spinaci, 3 x 250 g, 9.50 invece di 14.25, (100 g = 1.27)
a partire da 2 pezzi 2.–di riduzione
Tutti i brodi Knorr in barattolo per es. Brodo di verdura, 228 g, 8.95 invece di 10.95, (100 g = 3.93)
Prelibatezze per flexitariani
conf. da 2 20%
Vegetable Triangle, Falafel o Delicious Pieces, V-Love per es. Vegetable Triangle, 2 x 180 g, 5.40 invece di 6.80, (100 g = 0.50)
conf. da 3 20%
Pizze Buitoni surgelate, prosciutto e funghi, caprese o diavola, per es. prosciutto e funghi, 3 x 340 g, 13.40 invece di 16.80, (100 g = 1.31)
Orangina e Oasis per es. Orangina, 6 x 1,5 l, 8.25 invece di 13.80, (100 ml = 0.09)
conf. da 6 33%
conf. da 6 40% 4.40 invece di 6.60
Acqua minerale San Pellegrino 6 x 1.25 litro, (100 ml = 0.06)
conf. da 3
Dolci tentazioni
Croccanti se raffreddate e cremose a ambientetemperatura
Toblerone Milk o Tiny Milk e Mix in confezioni speciali e multiple, per es. Milk, 8 x 100 g, 13.65 invece di 22.80, (100 g = 1.71) conf. da 8 40% 9.95 invece di 12.60
Tavolette di cioccolato Frey Noir Special 72%, al latte finissimo o Noxana, per es. Frey Noir Special 72%, 6 x 100 g, 9.20 invece di 13.20, (100 g = 1.53) conf. da 6 30%
da 3 21%
Crunchy Biscuit Ovomaltine 3 x 250 g, (100 g = 1.33)
Classici italiani molto amati
Amaretti tradizionali e Cantucci alle mandorle, Sélection per es. Amaretti tradizionali, 200 g, 6.35 invece di 7.95, (100 g = 3.18) 20%
Palline al latte Lindor Lindt in conf. speciale, 800 g, (100 g = 2.63) 37%
Gelati da passeggio M-Classic prodotti surgelati, Mini Mix, Maxi alla vaniglia o alla mandorla, per es. Mini Mix, 9 pezzi, 603 ml, 3.– invece di 4.30, (100 ml = 0.50) 30% 21.–invece di 33.50
Tutto l'assortimento Ben & Jerry's prodotto surgelato, per es. Cookie Dough, Fairtrade, 465 ml, 8.– invece di 9.95, (100 ml = 1.72) a partire da 2 pezzi 20%
Questo e quello
7.95
Per chiome fluenti e labbra da baciare
Tutto l'assortimento Nivea Sun (confezioni multiple escluse), per es. Protect & Dry Touch Spray IP 50, 200 ml, 14.20 invece di 18.95, (100 ml = 7.10)
Tutto l’assortimento Labello per es. Hydro Care IP 15, il pezzo, 3.60 invece di 4.95, (10 g = 7.50)
Shampoo Pantene Pro-V Repair & Care, Lisci Effetto Seta o Corpo e Volume, in confezione speciale XXL, 1 litro
10.95 invece di 14.70
protezione carie o Sensitive, Elmex per es. protezione carie, 3 x 75 ml, (100 ml = 4.87)
Prodotti per l'igiene orale Meridol per es. spazzolino morbido, 6.80 invece di 8.60, (1 pz. = 3.40)
2.70 invece di 4.10
a polpa gialla Italia/Spagna/Francia, vaschetta da 1,5 kg, (1 kg = 1.80), offerta valida dall'11.7 al 14.7.2024
2.–invece di 2.90 Bistecche di scamone di maiale marinate Grill mi, IP-SUISSE in conf. speciale, 4 pezzi, per 100 g, offerta valida dall'11.7 al 14.7.2024 30%
24.20 invece di 35.60
pezzi
Chips Zweifel
Wave Inferno, Nature o Paprika, in conf. XXL Big Pack, per es. Wave Inferno, 250 g, 4.75 invece di 6.10, (100 g = 1.90)