Incontro con Urezza Famos, direttrice del Centro internazionale di scultura di Peccia
In un inizio d’estate dominato dagli Europei di calcio, una riflessione sulla poetica del gioco del pallone
TEMPO LIBERO Pagina 13
Del tempo per se stessi
ATTUALITÀ Pagina 23
Mentre la guerra continua, l’evento «It’s time» raduna israeliani e palestinesi che sognano insieme
Il maestro del thriller francese Franck Thilliez confessa di scrivere per cacciare gli incubi
CULTURA Pagina 29
Dieci cose difficili da dimenticare
Carlo Silini
Annotiamoci, da qualche parte, il messaggio che – stando a Simona Ravizza (vedi il suo articolo a pag. 5) – nel mondo anglosassone molti hanno cominciato a scrivere in calce ai propri invii di posta elettronica: «Potresti ricevere e-mail da me al di fuori del normale orario di lavoro, frutto del mio personale equilibrio tra vita privata e professionale. Non mi aspetterei mai che tu rispondessi mentre non stai lavorando».
Attendiamo la nuova era in cui anche qui si diffonderà questa illuminata citazione, che elimina il dovere di essere sempre raggiungibili, interpellabili, disturbabili. E poi, se uno ha davvero urgenza di parlarci può sempre telefonare. Sarà che in un qualche modo è arrivata l’estate (catastrofi climatiche a parte, di cui parliamo nelle pagine 2 e 3) e possiamo finalmente staccare la spina. Almeno in vacanza. Semel in anno (una volta all’anno) avremo pure il diritto di dimenticare i fastidi, le magagne, le idee torve
che ci accompagnano nella quotidianità come scimmiette invisibili appollaiate sulla schiena. Così, nuotando controcorrente rispetto agli inevitabili consigli dei rotocalchi circa le cose da mettere a tutti i costi in valigia e tralasciando i micro o macro-stress personali, proverò ad elencare, in ordine d’orrore decrescente, i 10 pensieri che mi piacerebbe tanto non portarmi in vacanza (ma è chiaro che non ci riuscirò):
1. che a due anni e quattro mesi dall’inizio dell’«operazione speciale russa», in Ucraina si muore ancora male, come quei bambini uccisi in un ospedale pediatrico a Kiev qualche giorno fa;
2. che a due anni e quattro mesi dall’inizio della guerra in Ucraina qualsiasi strage è sempre colpa degli ucraini secondo i russi e colpa dei russi secondo gli ucraini;
3. che a nove mesi dall’inizio della guerra, anche a Gaza si continua a morire, come alcuni degli allievi delle quattro scuole bombarda-
te in soli quattro giorni dagli israeliani non prima di aver gettato dal cielo volantini con la scritta «Abitanti, andate via»;
4. che a nove mesi dall’inizio della guerra a Gaza, gli ostaggi israeliani non sono ancora stati liberati e i civili palestinesi sono sempre tra l’incudine dei terroristi di Hamas e il martello degli attacchi di Israele;
5. che evidentemente nessuno dei decisori di quei conflitti vuole davvero la pace, visto che ogni volta che qualcuno prova a indicare una strada per far tacere le armi, lo boicottano;
6. che, forse, sarà il Paese più potente del pianeta a sbloccare la situazione in Ucraina e a Gaza non appena si sarà scelto un nuovo presidente, ma bisognerà portar pazienza, e continuare a contare morti fino al voto di novembre;
7. che il nuovo presidente eletto di quel potente Paese sarà un signore anziano un po’ troppo sicuro di sé, piuttosto allergico alla demo-
crazia e propenso alla menzogna sistematica; 8. o, al contrario (salvo un cambiamento di candidato dell’ultima ora), un signore confuso, impacciato, non del tutto padrone delle proprie facoltà e ancora più anziano; 9. che, mentre il teatro dell’umanità continua a dibattersi tra commedie e tragedie epocali, il nostro pianeta soffoca: il 2023 è stato l’anno più caldo mai registrato da sempre e la temperatura media è salita di 1,45 gradi sopra i livelli pre-industriali; 10. che fin qua il 2024 si è premurato di ricordarci, attraverso una gragnuola di temporali estivi e vittime, l’impatto dell’uomo sul riscaldamento climatico e del riscaldamento climatico sull’uomo, anche qui nella piccola Svizzera italiana.
L’elenco porebbe essere molto più lungo. Di sicuro dimentico altre cose importanti, ma mi sembra che già queste possano bastare. Buone vacanze.
Simona Ravizza Pagina 5
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Maltempo, nella macchina degli
Solidarietà ◆ Un milione di franchi per stare accanto alle vittime delle sciagure climatiche in Svizzera fornendo beni di prima necessità e
Carlo Silini
Un milione di franchi. È la cifra stanziata da Migros lo scorso 3 luglio, all’indomani delle sciagure climatiche che hanno colpito la Svizzera nelle ultime settimane. Fondi utilizzati per sostenere in tempi rapidi la popolazione delle zone devastate e, in un secondo tempo, per ricostruire i villaggi distrutti.
La macchina degli aiuti da parte di Migros si è mossa in fretta, come confermano Rosy Croce, responsabile della cellula di crisi di Migros Ticino e Silvio Vassalli, suo vice nella medesima cellula.
Immensi macigni ingombrano i prati, bisogna toglierli e comprare fieno per il bestiame
«Ci siamo attivati immediatamente e non è stato facile perché c’erano molte persone da contattare e non era detto che le trovassimo subito» spiega Rosy Croce. «Abbiamo preso contatto con le due cellule di crisi coinvolte: quella del Moesano e quella della Vallemaggia. Nel Moesano, la cellula originaria è stata destituita non appena finita la stretta emergenza. Ma è rimasta attiva un’altra cellula per i cinque comuni più colpiti. Ci hanno spiegato che gli aiuti di primo soccorso erano già stati stanziati. Le situazioni su cui siamo stati sollecitati sono sostanzialmente due e tutte e due riguardano i contadini».
Mesolcina: ripulire i campi
La prima, spiegano i nostri interlocutori, sono i campi che vanno ripuliti dal materiale (le foto fanno stato di immensi macigni) e impedisce sia la semina che il lavoro ordinario. Si tratterà anche di acquistare il fieno per le bestie, visto che per il prossimo inverno, dopo quello che è successo, non ce ne sarà abbastanza per sfamarle. Si tratta, insomma, di liberare ster-
minate praterie di terreno dai detriti. Qualcosa hanno iniziato a fare i volontari, ma di fronte alla mole di lavoro necessaria, il loro lodevole sforzo non basta. Bisogna intervenire con le ruspe e i costi si annunciano elevati.
La seconda sono le mucche sugli alpi che non si riusciva a raggiungere per via delle diverse strade agricole e forestali rovinate e interrotte nei comuni colpiti. Vie di collegamento che necessiteranno di interventi finanziariamente molto onerosi. Naturalmente ci si può arrivare in elicottero, ma i costi lievitano. Da notare che la casci-
na degli alpigiani è stata danneggiata dalla furia della natura. A Migros è stato quindi chiesto di sostenere i costi per ripararla.
«Sono queste le richieste che sosteniamo negli scenari della catastrofe nei Grigioni», osserva Rosy Croce, «entrambe legate al tema della sostenibilità e che abbiamo messo sotto il cappello di “concetto agricolo’’».
La «lista della spesa»
E in Vallemaggia? Qui, quando Mi-
gros si è mossa, l’emergenza era ancora nelle fasi acute della prima necessità, con persone disperse nelle piccole cascine della valle e bisognose di aiuti urgenti, le strade parzialmente ancora interrotte e il rischio di avere problemi con i trasporti in elicottero per via del maltempo. All’inizio, infatti, l’intervento pubblico verteva soprattutto sulla messa in sicurezza e sul recupero delle persone che si trovavano in loco e dovevano scendere al piano. «L’aiuto chiesto a Migros – sono sempre Rosy Croce e Silvio Vassalli a parlare - riguardava
inizialmente l’allestimento dei punti di raccolta. Qui abbiamo fornito materiale per l’igiene personale (fazzoletti, carta WC, doccia-schiuma, pannolini, sapone liquido, ecc.), ma anche coperte e sacchi a pelo». Per quanto riguarda invece le richieste delle famiglie rimaste isolate, è stato un po’ come fare la lista della spesa per rispondere alle esigenze fornendo beni di prima necessità come te, caffè, riso, pasta, sale, zucchero, cibo in scatola, zwieback, cioccolato, dadi, frutta secca, cibo per animali domestici ecc.
Protezione civile, dall’emergenza alla ricostruzione
Romina Borla
Parte dei beni di prima necessità donati, anche da Migros, è stata portata in due chiese – a Prato Sornico e Mogno – luoghi ritenuti più sicuri dagli specialisti (insieme ad altri, certo). «Così, in caso di nuova emergenza, la popolazione avrebbe potuto rifugiarvisi e disporre di coperte e sacchi a pelo per riscaldarsi, oltra a qualcosa da bere e mangiare».
A raccontarci questo aneddoto è il sostituto comandande della Protezione civile Locarno e Vallemaggia, Patrik Arnold, valmaggese neanche a farlo apposta (lo abbiamo contattato martedì scorso). «La gravità dell’evento è stata chiara fin da subito», afferma. «Come evidente è apparsa la fragilità umana e strutturale di fronte alla furia degli eventi naturali. In otto-nove giorni di emergenza si sono mobilitati oltre 300 militi – e parlo di adesione spontanea – che non si sono risparmiati: penso ai doppi turni, alla presenza costante, quasi 24 ore su 24». Come
prima mossa – spiega il nostro interlocutore – la Protezione civile (Pci) si è impegnata nell’evacuazione dei campeggi di Avegno e Gordevio, in bassa valle (diversi utenti sono rientrati a casa, altri sono stati accolti in una struttura ad Ascona con 150 posti letto a disposizione). «In seguito il nostro impegno si è rivolto agli aspetti logistici, ai trasporti (ripristino delle vie di transito e delle comunicazioni), oltre al supporto degli enti di soccorso. In pratica abbiamo messo a disposizione tutti i nostri veicoli e i nostri materiali per la ricerca dei dispersi, la messa in sicurezza e lo sfollamento delle zone colpite. Abbiamo inoltre garantito la sussistenza agli enti di primo intervento: si trattava, tra le altre cose, di fornire 200-300 pasti al giorno, preparati al nostro Centro di istruzione e Posto di comando a Locarno». Intanto gli aiuti giunti da diverse parti del Cantone (compresi quelli Migros) venivano stoccati in un
impianto della Pci a Lodano. «Da lì sono stati trasportati con l’elicottero in punti strategici delle valli: San Carlo in Val Bavona, Fusio, Mogno, Piano di Peccia e Prato Sornico. Abbiamo quindi individuato delle antenne nei paesi interessati dal disastro, le abbiamo fornite di telefoni satellitari. Erano questi civili – insieme ad agenti di polizia – a segnalarci le esigenze della popolazione, a cui noi puntualmente rispondevamo. Gli elicotteri partivano da Riveo (materiali edili), Aurigeno e Lodano (sussistenza)». Comunque nelle prime ore dell’emergenza serviva soprattutto acqua, dice Arnold. Quella presente non era potabile e il fabbisogno minimo giornaliero è stimato in tre litri a testa. La Protezione civile ha portato in valle pure prodotti per l’igiene e generi alimentari, anche se molti abitanti avevano a disposizione scorte sufficienti, visto che l’isolamento stretto è durato pochi giorni. «In seguito ci si è mossi
con le evacuazioni preventive in Val Bavona, dato l’allarme maltempo, e adesso è iniziata la fase di ripristino delle zone colpite che durerà mesi, se non anni. Ci siamo già occupati della
“pulizia” della scuola di Prato Sornico, della sistemazione del parco giochi e dello stabile dei pompieri di Lavizzara. Continueremo a muoverci al fine di garantire i servizi pubblici di base il più in fretta possibile». Un altro compito della Pci è di coordinare i tantissimi volontari che si sono messi a disposizione della comunità, una forte testimonianza di solidarietà: «Sul sito del Dipartimento delle istituzioni del Cantone si sono annunciate oltre 400 persone e ne arriveranno ancora (vedi https:// www4.ti.ch/di/emergenza-vallemaggia/volontariato). Abbiamo una lista con nomi, cognomi, professioni e capacità particolari. Noi li mettiamo in contatto con il Comune o il privato che necessitano di aiuto. In questo contesto è importante che non dilaghi il “fai da te”. Gli interventi devono essere organizzati con cura e coordinati da esperti, la zona rimane instabile sotto tanti punti di vista».
A Lodano si caricano le palette alla Protezione civile. (fotoemme)
Fontana, in val Bavona, dopo il maltempo (Keystone). A destra: il camion Migros parte dal bunker della Protezione civile a Lodano dopo aver scaricato i beni di prima necessità. Un elicottero parte col materiale verso le zone dove sono stati chiesti i primi aiuti (fotoemme). Massi ciclopici a Sorte, nei Grigioni, dopo le frane (Keystone).
aiuti Migros
finanziando progetti di sostegno a chi ha subito danni
In pochi minuti l’OK
Le prime forniture sono partite in camion giovedì 4 luglio in direzione di un bunker della Protezione civile a Lodano da dove sono poi state smistate nelle zone dove erano necessarie. Impossibile, del resto, in quei giorni, salire col camion Migros nella parte disastrata della Valle attraverso il ponte appena ripristinato e, anche nel caso di un passaggio, molto difficile fare retromarcia. Il giorno successivo è stata inviata una deci-
na di palette cariche di beni di prima necessità in cinque diversi punti della valle.
Dalla Mesolcina è quindi giunta una richiesta di interventi, comprendente i metri quadri da ripulire e i costi da sostenere. Idem per le necessità della Vallemaggia. «Abbiamo fatto pervenire le richieste al presidente della Direzione generale di Migros, Mario Irminger, e al Capo della Direzione Logistica e Trasporti di Migros, Reiner Deutschmann. E nel giro di pochi minuti è arrivato l’OK allo stanziamento degli aiuti».
Otto donne per una filiale famigliare e accogliente
Manuela Mazzi
«La mattina del 30 giugno, a pochissime ore dal disastro – spiega Fitnete Destani, gerente della filiale Migros Maggia –, ci siamo viste svuotare scaffali e bancali delle minerali: era l’unico negozio aperto, di domenica. Sono arrivati i pompieri di Maggia, hanno preso tutto quel che c’era, e lo hanno portato in alta valle, dove erano rimasti anche senza acqua. L’emergenza è stata però ben compresa dalla clientela, nonostante la situazione: pure una porzione del territorio al di qua del ponte, come Moghegno, era infatti rimasta senza acqua; quando la gente in cerca di qualche bottiglia è arrivata da noi trovando tutto vuoto, ha subito mostrato grande spirito solidale con chi stava peggio. Questione di priorità».
Eccezionalmente, anche la rifornitura è stata immediata grazie a una sorta di anticipazione dell’iter logistico: chiamata la centrale di Sant’Antonino, alle 8 di lunedì mattina, il negozio di Maggia aveva ripristinato lo stoccaggio di acqua in vendita.
Sono però già molto ben riassunti nelle testimonianze riportate in queste pagine, gli aiuti concreti che Migros sta offrendo per far fronte ai danni – soprattutto materiali – prodotti dai recenti e devastanti nubifragi che si sono abbattuti sulla Svizzera italiana, meno evidente ma altrettanto importante è però anche quel che Migros, attraverso i suoi dipendenti, riesce a fare al di là delle questioni essenziali, pratiche ed economiche.
Ce ne parla proprio Fitnete Destani, la quale, pur non essendosi ritrovata a dover far fronte a danni diretti, racconta di momenti di commozione e di quanto sia forte la solidarietà che si respira in valle: «È vero, il disastro materiale non ci ha toccati da vicino, ma emotivamente siamo rimasti tutti coinvolti. Siamo una filiale piccola, di paese, e per questo conosciamo bene molti clienti che si sono affezionati a noi, e noi a loro; clienti rimasti bloccati oltre il ponte e in alta valle».
La Migros di Maggia conta una squadra affiatata di otto donne e due
aiuti estivi; capitanata per l’appunto da Fitnete Destani, si avvale pure di Rossana Bresciani in qualità di vice, che conferma: «Non vediamo da diversi giorni molti dei nostri clienti abituali».
Se da una parte si soffre economicamente la mancanza del turista, che in valle è una risorsa anche per le attività spicce come può essere lo smercio di alimentari, dall’altra si è invece molto preoccupati per l’assenza di chi è rimasto isolato, con tutti i disagi che ciò produce: «Hanno iniziato solo dopo qualche giorno a comparire alcuni di loro per fare la spesa», prosegue Fitnete Destani. «Cioè quando hanno iniziato a permettere a qualcuno di passare sulla pista ciclabile: scendono dall’alta valle con il bus fin dove è stato distrutto il ponte, attraversano la pista ciclabile a piedi, e rimontano su un secondo bus dall’altra parte per scendere».
La filiale di Maggia si trova proprio a ridosso della fermata del bus in via Cantonale. Qui, venerdì mattina, 5 luglio, si è presentata una cliente che vive nei pressi di Cevio con l’intera famiglia, genitori compresi: «Potremmo dire che stanno bene tutti, ma emotivamente sono distrutti. Il sabato lei portava sempre i genitori anziani a fare la spesa da noi; un carrello ciascuno, facevano grandi ri-
fornimenti per coprire l’intero fabbisogno della settimana. Ora, dopo il disastro e fin quando non si sarà ristabilita una parvenza di normalità, può venire solo la figlia, e a prendere il minimo del necessario perché il tratto da fare a piedi le impedisce ovviamente di portarsi carichi maggiori; quando sarà riaperta la strada – o almeno concluso il ponte provvisorio – forse riprenderanno coraggio». Si confidano, dunque, i clienti della Migros di Maggia, che trovano ascolto nell’accoglienza del personale a conferma della volontà di affermarsi quale filiale di casa, e luogo di incontro: «Tutte noi abbiamo molto contatto con il cliente, non solo chi sta in cassa, e questo sempre, in generale: ora ancora di più. Si vengono a creare momenti anche intimi e confidenziali: proprio in questi giorni ci ha fatto visita una nostra cara cliente che era in lacrime. E non cercava di certo indicazioni per fare un acquisto, ma qualcuno a cui raccontare il suo dolore e la sua tristezza; e si capisce, si è vista spazzar via la terra, e devastare il luogo dove è nata e cresciuta, per non parlare dei cari amici ancora dispersi. Come non esser partecipi e solidali? Essendo noi tutte donne, forse viene ancora più facile entrare in relazione con il cliente, che è molto più di una persona che viene a fare la spesa».
Nel Moesano gli agricoltori sono senza foraggio
Barbara Manzoni
Lunedì 1 luglio, ore 7.42, l’autopostale parte da Bellinzona destinazione Coira. La giornata è grigia, il viaggio sarà più lungo del previsto, l’A13 è chiusa a causa dell’alluvione che si è abbattuta sulla Mesolcina il 21 giugno e buona parte del tragitto sarà percorso sulla Cantonale, la si affronta lentamente. Per chi come la maggior parte dei ticinesi è abituato a percorrere la Mesolcina nel vivace e trafficato periodo estivo la sensazione è straniante, durante tutto il viaggio incrociamo pochissimi veicoli, si guarda dai finestrini con circospezione, molti i campi ancora allagati, la sensazione è che l’acqua sia ancora ovunque e poi fango, tanto fango e detriti. Spiccano le tute arancioni di chi sta lavorando alacremente per riportare un po’ di normalità nella valle duramente colpita, l’autista rallenta, cenni di saluto, come se si chiedesse il permesso di passare.
Dopo pochi giorni, venerdì 5, la riapertura dell’autostrada, in tempo re-
cord, ha dato una boccata di ossigeno a tutta la regione, ma molti sono ancora i lavori da affrontare. Tanti agricoltori hanno subito ingenti danni, hanno perso il raccolto del fieno e i loro campi sono impraticabili. Per i terreni più danneggiati gli interventi di risanamento, coordinati a livello regionale, dureranno a lungo e saranno piuttosto impegnativi e onerosi dato che ci sono grandi massi da spostare, molti detriti e fango. Per questo motivo Migros ha deciso di sostenere proprio gli agricoltori e le loro aziende, con un contributo che aiuterà ad acquistare il foraggio e ripristinare campi e strade. Rimangono infatti molte le strade agricole e forestali ancora inagibili, ad esempio sul territorio di Lostallo – ci dice il sindaco Nicola Giudicetti – si lavorerà nelle prossime settimane per cercare di rendere percorribile almeno parzialmente la strada di montagna che porta agli alpi. E proprio gli alpi sono stati al centro di molte pre-
occupazioni sia per la vita dei pastori sia degli animali che lì trascorrono i mesi estivi. Giada Gianella, titolare dell’azienda agricola Gianella di Leggia, gestisce due degli alpi in territorio di Lostallo, Val Gamba e Setag, ci racconta che «fortunatamente all’alpe non ci sono stati danni particolari, il pastore sta bene e così pure i 96 bovini, in parte miei e in parte di altri contadini che mi affidano le bestie da estivare. Già prima dell’alluvione avevamo, però, perso una cascina a causa delle nevicate, ora grazie anche ai contributi di Migros se ne potrà costruire una nuova. Il grosso problema rimane la strada, per ora non è percorribile, l’alpe si raggiunge solo in elicottero da Lostallo mentre prima le derrate alimentari arrivavano fino a Montogn con il camion. La tratta da percorrere in elicottero è dunque più lunga e questo fa ovviamente lievitare di molto i costi, che stanno diventando insostenibili. Inol-
tre mi hanno già anticipato che probabilmente non riusciranno a riaprire la strada ai camion neanche per settembre, quando scaricheremo l’alpe. Il che significa che le bestie do-
vranno scendere a piedi fino al piano, un trasferimento che richiederà circa 6-7 ore e non sarà semplicissimo». Altra questione di vitale importanza per gli agricoltori della zona rimangono i terreni, c’è chi li ha praticamente persi tutti. «Tutti i miei terreni agricoli in zona Norantola (comune di Cama) – continua Giada Gianella – sono stati completamente coperti da una frana. Ho perso tutto il foraggio, mancheranno il primo e il secondo taglio, inoltre non vi si potrà portare le bestie al pascolo. Ripristinare i terreni è un lavoro lungo, penso che sarà compromessa anche la produzione di foraggio dell’anno prossimo. Hanno subito allagamenti anche la mia stalla principale e i locali dove teniamo i congelatori per
la vendita della carne. Mi consola il fatto che tutti noi stiamo bene e di non aver perso neanche una delle mie bestie, anche le mie 96 capre sono salve, non tutti hanno avuto questa fortuna».
Giada Gianella, titolare di un’azienda agricola, gestisce due alpi in territorio di Lostallo.
Durante l’emergenza, richiestissime dai pompieri le scorte di acqua nella filiale Migros di Maggia. (fotoemme)
SOCIETÀ
A Peccia con Urezza Famos
Incontro con la direttrice del Centro internazionale di scultura miracolosamente intatto
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Immediate misure salvavita
In Ticino si verificano all’anno più di 300 arresti cardiaci improvvisi che necessitano pronti interventi
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Pascoli come deserti?
Savane, zone cespugliose, quelle umide, la tundra, la pampa, sono terre altrettanto a rischio
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Nel mondo dei motori ticinesi
Giorgio Keller firma il secondo volume di una trilogia dedicata alle storiche corse automobilistiche
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I tanti insostituibili benefici delle vacanze
Il caffè delle mamme ◆ Riposarsi e disconnettersi completamente almeno per qualche giorno ci permette di dare il meglio di noi stessi una volta ritornati alla quotidianità
Diamoci tregua che la vita non è una corsa: impariamo a farlo bene durante le vacanze per poi essere in grado anche durante l’anno di prenderci le pause giuste che sono la chiave, l’unica, per ritrovare energia e sono anche la strada per sperare di vivere bene e a lungo! Per prima cosa mi rivolgo a noi del Caffè delle mamme, dal momento che mi è più semplice perché vi racconto quel che viviamo in prima persona: qui discutiamo da tempo sulla nostra fatica mentale quando ci ricordiamo all’improvviso durante una riunione di lavoro che forse nostro figlio di 6 anni deve fare la vaccinazione contro il morbillo (sfido qualsiasi papà a farsi venire un dubbio simile nel mezzo di un meeting!); la necessità di prenderci la libertà di dire «non ce la faccio più» in un mondo in cui troppo spesso abbiamo interpretato la parità come il fare tutto uguale agli uomini e al ritmo dei loro orari (in alternativa abbiamo deciso di stare un passo indietro); l’importanza di avere parità di diritti nella diversità dei ruoli che ognuna sente per sé; il gigantesco errore del multitasking che richiede al nostro cervello di spostare continuamente l’attenzione da un’attività all’altra esaurendo le energie cerebrali molto velocemente a danno della lucidità. Ma poi il pensiero corre anche ai nuovi papà che, come già raccontato su queste pagine con il ritratto del Millennial Dad, interpretano il loro ruolo con più partecipazione e s’infastidiscono solo a sottintendere che l’educazione dei figli sia di pertinenza esclusiva delle mamme!
Tutti – compreso chi non ha figli – dobbiamo metterci in testa che «le vacanze sono una sorta di terapia psicologica anche per il cambio di orizzonti che ne deriva». La frase è di Eliana Liotta, giornalista, scrittrice di bestseller e divulgatrice scientifica, ora in libreria con La vita non è una corsa (2024, La nave di Teseo editore).
La invitiamo di nuovo al Caffè delle mamme, dopo che lo scorso autunno ci aveva mostrato – studi scientifici alla mano – gli effetti controproducenti di stare dietro contemporaneamente a faccende domestiche, lavoro, marito e figli (una grande fregatura!).
E lo facciamo con i due obiettivi: fare un inno ai benefici delle vacanze per farcele vivere nel modo più pieno possibile (chi per qualsiasi motivo non le potrà fare ci perdoni!) e aiutarci a ritornare poi alla vita di tutti i giorni in modo più consapevole.
«Nessun impegno dovrebbe intaccare le ferie», sottolinea Liotta. «Complete, totalizzanti, senza intromissioni dell’ufficio, della fabbrica, della scuola almeno per qualche giorno. Gli studi sui vantaggi fisici, non
solo psicologici, di una vacanza sono perfino monotoni per quanto si somigliano: migliora l’umore, si riduce lo stress, diminuisce la pressione arteriosa, si potenziano le difese». Guardate i benefici dell’andare alla scoperta di posti mai visitati: «Si dice che il matematico Henri Poincaré e il fisico Freeman Dyson abbiano risolto i problemi scientifici più difficili della loro carriera mentre erano in viaggio. Di Paul Gauguin sono amatissimi i dipinti polinesiani. Dalle incursioni di Igor Stravinskij tra Napoli e Venezia sono nati capolavori come Pulcinella e La carriera di un libertino». Ciò non vuol dire – sia ben inteso – che dalle vacanze dobbiamo tornare con la marcia in più che ci consegnerà alla Storia, ma semplicemente che le ferie sono fondamentali per permetterci di dare il meglio di noi stessi una volta ritornati alla quotidianità: «Con il riposo, con la visione della bellezza, con la vacanza dal sé che si dimena negli impegni di lavoro, possono fiorire i due tipi di pensiero creativo: quello convergente, cioè trovare soluzioni di pronto uso, e quello divergente, ovvero inventare qualcosa di originale». Parchi, mare, lago, campagne, cime dei monti, ma anche disconnessione: «Uno studio ha descritto co-
me quattro giorni di totale immersione nel verde e di completa assenza di tecnologia abbiano incrementato fino al 50% la capacità di problem solving » – scandisce Liotta. «Prendersi vacanze dai telefoni, dai computer e dalle chat è un’occasione non solo per fare altro, ma proprio per non fare niente. Oziare sembra essere utilissimo per ottimizzare le capacità di apprendimento e le prestazioni, perché coinvolge i circuiti cerebrali definiti di default, ossia le aree deputate al mondo interiore: la memoria, le emozioni, il senso di sé».
L’ambizione per settembre dovrebbe essere di ripartire con un altro schema mentale: «Essere i sarti del nostro tempo – azzarda Liotta – anziché i manichini che indossano il tempo voluto da altri». Ecco un’infilata di buoni motivi per i quali al Caffè delle mamme lo troviamo un proposito ambizioso, quanto meraviglioso. Spiega Liotta: «1) Lo spazio per sé non è sfogarsi, una decompressione, un piacere effimero, è un guadagno di salute fisica e mentale; 2) Ogni volta che ascoltiamo un brano musicale che ci colpisce, che leggiamo un libro che ci interessa, che ammiriamo un quadro in un museo o vediamo un bel film, creiamo un’impronta nuova, svilup-
piamo rametti neuronali e sinapsi. Questa è la grande libertà della vita: modellarsi giorno dopo giorno. In un certo senso, potremmo non smettere mai di diventare una versione migliore di noi; 3) Le nostre teste imbottite del guazzabuglio di fatti della giornata sono come una casella di posta piena, ma se ci prendiamo tempo per un concerto o per una mostra ci sentiremo meno gravati dagli eventi. Avviene qualcosa di simile quando decidiamo, dinanzi a un problema, di dormirci sopra e la mattina i passaggi cruciali sembreranno più chiari. I nostri pensieri ansiosi possono volare via insieme alla coppia della Passeggiata di Chagall». L’autrice de La Vita non è una corsa non vorrebbe mai un impegno che le proibisse ogni mattina di bere il tè insieme ai figli: «Stiamo seduti per una decina di minuti, con le nostre tazze e le nostre ciotole, senza grandi discorsi. D’inverno a Milano il sole stenta a comparire e alle 6.30 il cielo è carico di blu. Dalla finestra della cucina vediamo un grattacielo, i tetti a spiovente e un albero alto, più della casa che lo affianca. Questa è la mia lentezza inalienabile e ognuno ha la sua pausa, e più d’una. Uscire dall’ufficio a un orario che consenta la cena con gli amici. Il we-
ekend libero per la gita fuori porta, il tardo pomeriggio per cantare in coro, passeggiare, ballare». Ritorniamo dalle vacanze, allora, davvero con il tempo lento che ci permette di perderci in un abbraccio (salvifico!), goderci gli amici («Se esiste un tempo che dobbiamo trovare, è il tempo da passare con le altre persone. Pause insieme ai genitori, ai figli, agli affetti della vita. Occuparsi dei propri rapporti sociali è una forma di cura di sé») e di chiederci: quali sono i miei momenti non negoziabili? A quali parentesi devo il mio senso di benessere, la felicità delle piccole cose? Impariamo poi anche la buona educazione, seguendo un’abitudine che si sta diffondendo nel mondo anglosassone dove in calce alle email scrivono: «Potresti ricevere e-mail da me al di fuori del normale orario di lavoro, frutto del mio personale equilibrio tra vita privata e professionale. Non mi aspetterei mai che tu rispondessi mentre non stai lavorando». Liotta gira poi al Caffè delle mamme un consiglio semplice quanto prezioso: «Dopo 20 minuti al computer affacciarsi alla
finestra, e guardare oltre i 20 metri di distanza per almeno 20 secondi». Fa bene agli occhi, ma anche al cuore. Buone vacanze!
Uno studio ha descritto come quattro giorni di totale immersione nel verde e di completa assenza di tecnologia abbiano incrementato fino al 50% la capacità di problem solving. (freepik.com)
Simona Ravizza
Benessere e versatilità in ogni cucina
Novità ◆ Tre nuovi prodotti a firma Riso Scotti entrano a far parte dell’assortimento Migros
L’assortimento del noto marchio italiano Riso Scotti, già presente sugli scaffali di Migros Ticino con alcuni apprezzati prodotti, tra cui la pasta e il riso Venere e i risi Arborio, Carnaroli e Insalate, viene ulteriormente arricchito con tre prodotti per offrire ai consumatori una gamma ancora più ampia di gustose opzioni per accontentare ogni palato. Il Risotto Lavorato a Grezzo è un riso dal carattere vivace che si caratterizza per il gusto intenso, deciso e corposo. Assorbe al meglio sughi e condimenti grazie alla maggiore ruvidità. È un riso Roma con un grado in meno di lavorazione rispetto ai risi da risotto convenzionali, ed è una via di mezzo tra l’integrale e il bianco. Carattere forte e gusto ricco sono i segni distintivi del Risotto Integrale. Esso coniuga alla perfezione il benessere del riso integrale al piacere del gusto e della consistenza di un riso da risotto. È un riso Arborio dalla speciale e innovativa lavorazione di sbramatura che permette di preservare tutti i benefici dell’integrale, pur rispettando i corretti tempi di cottura. Infine, per gli amanti delle gustose e rinfrescanti insalate di riso, ecco un riso perfetto per le vostre ricette: Oro Insalate con Jasmine. Questo riso racchiude tutto il gusto il profumo dei migliori risi d’oriente grazie ad un sapiente mix di riso Jasmine, riso parboiled, riso basmati integrale e riso rosso e nero. Protagonista è il riso Jasmine, un riso proveniente dall’Asia e ingrediente principale in molti celebri piatti della cucina orientale. Particolarità principale del riso Jasmine è suo tipico profumo. Il suo nome si rifà infatti al gelsomino, appunto per l’intenso profumo floreale che sprigiona in cottura. È un riso particolarmente indicato per la preparazione di insalate di riso e piatti unici grazie al basso contenuto di amido, in quanto i chicchi rimangono ben staccati anche dopo una cottura prolungata.
Pizze dal gusto irresistibile
Novità ◆ Impossibile non farsi tentare dalle nuove pizze Svila, prodotti di elevata qualità realizzati con cura e passione per ogni dettaglio
100% cereali italiani, lievitazione di 25 ore, stesura a mano, cottura su pietra: questi sono gli atout dei prodotti Svila, azienda italiana di Visso, un piccolo borgo delle Marche. Da ormai cinquant’anni Svila è specializzata nella produzione di pizze surgelate di elevata qualità molto apprezzate in tutta Italia e non solo.
La scelta di pizze Svila nei supermercati Migros è ampia
Il costante successo riscontrato negli anni da questo marchio è dato, da un lato, da metodi di produzione artigianale nel rispetto della tradizione e, dall’altro, dall’introduzione di tecniche all’avanguardia che permettono di ottenere dei prodotti unici in termini di qualità e bontà. I prodotti Svila si contraddistinguono da sempre per la loro fragranza, croccantezza, leggerezza e ricchezza di golose farciture. Le specialità vengono surgelate immediatamente dopo la produzione al fine di preservare al meglio la freschezza e integrità del prodotto.
Alcuni prodotti Svila da tempo sono disponibili anche nei principali supermercati di Migros Ticino e, recentemente, sono state introdotte due invitanti novità. Tra i prodotti già in assortimento menzioniamo le pizze alla pala 4 formaggi, margherita, margherita integrale, verdure e salsiccia e zucchine e la pizza ai funghi di bosco. I due nuovi prodotti sono invece la pizza vissana alla mozzarella di bufala e stracciatella di burrata e la pinsa romana bianca, composta da due basi da farcire a piacimento. Tutti i prodotti Svila sono pronti per essere gustati dopo una cottura di una decina di minuti in forno.
Oro Insalate con Jasmine Riso Scotti 800 g Fr. 3.90
Risotto integrale Riso Scotti 1 kg Fr. 4.90
Risotto lavorato a grezzo Riso Scotti 1 kg Fr. 4.90
In vendita nelle maggiori filiali Migros
Pizza Vissana bufala e stracciatella di burrata surgelata Svila 350 g Fr. 7.20
La Pinsa bianca Svila surgelata 2 pezzi, 220 g Fr. 6.90
In vendita nelle maggiori filiali Migros
L’energia dell’infinitamente piccolo
Incontri ◆ Urezza Famos, direttrice del Centro di scultura di Peccia e co-presidente della Lia Rumantscha, si definisce una costruttrice di ponti fra cultura, politica ed economia e ci racconta la notte dell’alluvione e i giorni immediatamente successivi
Matilde Fontana
Solo tre giorni dopo lo shock che ha sconvolto la loro vita e il loro territorio, la Valle Bavona e la Lavizzara si sono presentate unite a lanciare la ricostruzione: è la resilienza, l’energia dell’infinitamente piccolo!
Per una singolare coincidenza, in Lavizzara sono salita il giorno precedente il passaggio di quell’onda anomala che ha spazzato la Valle Maggia. Per incontrare Urezza Famos, una donna che di realtà infinitamente piccole e recondite se ne intende: è contemporaneamente la direttrice del Centro internazionale di Scultura di Peccia e la co-presidente della Lia Rumantscha.
Ho il tempo di visitare la bella mostra che quest’anno prende spunto dalle «Forme dell’energia» prima che la direttrice mi raggiunga ad uno dei tavolini all’ingresso del padiglione espositivo del Centro dedicato alla scultura. È una giornata straordinariamente tersa e calda di questa estate mai veramente partita. Nessun presagio di tempesta.
Scattante nella sua tuta leggera, la signora dall’entusiasmo contagioso svolazza dentro e fuori, informa i turisti tedeschi interessati alla sorprendente vita culturale dell’alta valle, verifica che tutto sia pronto per la visita guidata del tardo pomeriggio, controlla la postazione per il cinema all’aperto (uno degli eventi promossi dal Centro), telefona per assicurarsi che vino, salumi e formaggi arrivino in tempo per l’aperitivo. E quando si risiede per qualche minuto al tavolino dispensa saluti a tutti, residenti e turisti che non possono sfuggirle sulla strada che passa proprio davanti al Centro: chi sale ai Piani di Peccia o a Mogno, chi scende a Prato Sornico. Un cenno della mano, un sorriso, una battuta.
Mi incuriosisce il suo nome, Urezza, mai sentito prima di conoscere lei. «È la brezza del mattino presto che scende dalle montagne della bassa Engadina», mi spiega. E racconta delle difficoltà incontrate dalla famiglia per poter battezzare la bambina col nome del vento. «Oggi siamo in sei a portare il nome della brezza mattutina engadinese in giro per la Svizzera. – aggiunge divertita – Una neonata mi è appena stata presentata a Berna»
Anche il cognome, Famos, affonda le radici secolari in terra engadinese e condivide con tante famiglie delle valli alpine una storia di emigrazione. Il bisnonno aveva fatto fortuna con l’arte della pasticceria a Foggia, dove erano celebrate le sue impareggiabili millefeuilles. Poi la Seconda guerra mondiale costringe i Famos al rientro in patria: il nonno diventa albergatore
a Martina, padre e madre albergatori ampliano le attività imprenditoriali a Martina e in zona franca a Samnaun. Urezza studia economia e si dedica agli affari di famiglia per vent’anni, poi si specializza in management culturale e si divide tra Zurigo e l’Engadina con il suo ufficio di consulenza e di comunicazione. E fa la mamma. Per altri vent’anni.
Il Ticino l’ha sempre avuto nel cuore, fin da ragazzina, quando ha scelto di trascorrere le vacanze estive lavorando in un grotto del Locarnese. «Sarà stato forse per la storia familiare legata all’Italia o per la lingua madre latina – riflette – comunque l’occhio sul Ticino l’ho sempre tenuto». Occhio vacanziero fra le montagne della valle Maggia e della valle Bavona, ma poi anche occhio professionale, maturato di consulenza in consulenza. E così la manager engadinese ha finito per lasciare le opportunità della grande Zurigo per prendere in mano le sorti del piccolo Centro internazionale di scultura.
Ammette che, quando l’hanno contattata, un po’ di tempo per pensarci su se l’è preso. Un mese per rifletter come riorganizzare la vita e poi, armi e bagagli, si è trasferita a Peccia, frazione del comune di Lavizzara.
Una bella sfida. In valle il Centro di Scultura non piaceva a tutti. Si è andati persino in votazione popolare per garantirne il finanziamento. Ma in poco più di un anno Urezza si è fatta conoscere e ha fatto conoscere il potenziale rivitalizzante di un centro culturale internazionale: mostre, eventi, artisti in residenza, feste, anche fuori stagione.
Decisa e intraprendente, la signora
Famos si porta in dote notevoli contatti ed esperienze nel settore del management culturale, che non esita a combinare con una buona dose di naturale empatia, organizzazione e persino capacità manuale. Chiacchierando mi propone di seguirla nell’ala del Centro che ospita gli ateliers vetrati sul grande laboratorio a cielo aperto, a disposizione degli artisti che vengono da tutto il mondo a lavorare a Peccia. Deve accordarsi sulla scenografia dell’aperitivo serale con un giovane scultore polacco, alle prese con tre grandi dischi di marmo bianco. Discute di argani e catene e mi presenta Miroslaw Baca, venuto a scolpire nel marmo della Lavizzara una grande installazione per l’ingresso della nuova sala da concerti di Cracovia.
Tra una cassa di bicchieri e l’altra, mi offre una fetta di torta engadinese che ha preparato la mattina. La migliore che abbia mai assaggiato: sarà per il miele di Fusio o per l’arte pasticciera ereditata dal bisnonno engadinese rinomato a Foggia?
Comunque sia, l’Engadina resta metà della vita di Urezza. Moderna manager favorita dalle tecnologie della comunicazione, vive affetti e sfide professionali da migrante stagionale tra le montagne ticinesi e quelle grigionesi, tra la Lavizzara e l’Engadina, passando per Coira, dove studia il figlio e dove ha sede la Lia Rumantscha.
Sì, perché, a proposito di infinitamente piccolo, Urezza si è lanciata con entusiasmo anche alla guida della Lia Rumantscha, che gestisce dallo scorso anno in un’inedita co-presidenza al femminile. «Con Gianna Luzio, la mia giovane collega, ci siamo trovate subito sulla medesima lun-
Il Centro internazionale di scultura di Peccia (Angelita Bonetti); a sinistra, Urezza Famos (Angelita Bonetti); in basso, impressionanti i danni del maltempo che ha colpito la Vellemaggia (Urezza Famos).
ghezza d’onda e siamo perfettamente complementari: a lei la lobbying politica, a me l’economia culturale». Un’altra bella sfida: mantenere l’attenzione viva su una micro-realtà linguistica diluita in 5 varianti regionali sparse in remote valli alpine…
La sua ricetta combina il turismo culturale (corsi di lingua abbinati ai soggiorni di vacanza in montagna) alla rivitalizzazione della diaspora romancia. Infatti, se nelle sue valli il romancio gode relativamente di buona salute, secondo la presidente resta però ancora molto da fare per aumentarne la visibilità: «Dobbiamo trovare altri ambasciatori del romancio, come è stato Martin Candinas a Berna lo scorso anno, alla presidenza del Consiglio Nazionale. Ma soprattutto è fondamentale tener vivo l’uso della lingua nelle famiglie miste o emigrate fuori dalle valli. Ne ho avuto esperienza diretta con mio figlio, con cui nella grande città ho faticato a tener vivo l’uso della lingua di famiglia, il Valader dell’Engadina. Oggi però mi ringrazia di avergli sempre parlato romancio e capisce l’importanza della sua lingua materna».
Congedandola velocemente le chiedo come si definirebbe in un selfie di parole: «Una costruttrice di ponti, fra cultura, politica ed econo-
mia», risponde decisa. «Brückenbauerin» specifica in tedesco, nel caso non fosse stata sufficientemente chiara nel suo italiano fluente, ma che vorrebbe perfezionare ulteriormente da brava ticinese d’adozione.
C’è già chi l’attende per la visita alla mostra e il furgone del cinema all’aperto è in arrivo.
«Dopo l’alluvione Peccia è silenziosa, sono stati giorni faticosi ma indimenticabili per la carica di solidarietà vissuta nella valle isolata»
Riesco a ricontattarla finalmente via mail quattro giorni più tardi. Nel frattempo la potenza della natura i ponti li ha spazzati via, e le strade, le case, le vite: dai Piani di Peccia giù giù lungo la valle fino a Cevio. Il villaggio di Peccia si è salvato miracolosamente, con il Centro di Scultura. Urezza mi rassicura in poche righe: «Qui da noi è passato l’angelo della fortuna». Nei giorni di isolamento comunicativo e di interruzione di acqua ed elettricità ha aiutato «la Cornelia del Ristorante Medici a metter su una cucina d’emergenza. Ho portato su il grill a gas del Centro e le bottiglie d’acqua della nostra scorta»,
conclude laconica la comunicazione. Ci risentiamo al telefono esaurita l’adrenalina dell’emergenza. È la prima giornata di riposo dopo una settimana trascorsa soprattutto al ristorante, a fianco dell’infaticabile Cornelia, ma anche a gestire le pratiche amministrative urgenti per il Centro e l’organizzazione degli spostamenti degli artisti, colpiti dall’emergenza fuori e dentro la valle.
«Sono stati giorni faticosi ma indimenticabili per la carica di solidarietà vissuta nella valle isolata». Urezza mi racconta che a una settimana dal disastro Peccia è silenziosa. Chi voleva o doveva uscire dalla valle è partito. Anche Miroslaw, lo scultore polacco in residenza al Centro, ha preferito abbandonare le montagne per qualche giorno. Aveva bisogno di città. «Lo capisco – spiega la direttrice – io sono nata in montagna e conosco la potenza della natura, ma non tutti sono abituati alle piene dei fiumi e ai sassi che rotolano. E comunque la notte del disastro ho avuto paura anch’io. Ero in casa a Peccia e non riuscivo a dormire tanto intensi erano i fulmini e tanto fragorose le frane che circondavano il paese. Ho provato a chiamare la mia famiglia al telefono, ma non c’era campo e subito dopo si sono spente anche le luci. Poi ho sentito sirene in lontananza. Sono corsa al Centro per controllare che fosse tutto ok e tornando a casa ho visto che il villaggio era tranquillo. Solo all’alba abbiamo iniziato a capire cosa era successo sopra e sotto di noi». Per alcuni giorni l’osteria è stata crocevia di pompieri, polizia, squadre di salvataggio. E soprattutto familiare punto di riferimento per la popolazione isolata alle prese con le pale per rimuovere fango e detriti.
«Tutti bravissimi, infaticabili! Ma mi ha impressionato particolarmente l’energia dei giovani e giovanissimi che hanno ripulito la loro valle a una velocità incredibile».
Urezza, il vento mattutino dell’Engadina, presidia il suo Centro internazionale di Peccia, graziato dal disastro. Un paio di artisti in residenza sono rimasti. Gli altri torneranno presto. Gli eventi organizzati in luglio sono annullati. Ma ad agosto si riparte.
Informazioni centroscultura.ch liarumantscha.ch
Se il cuore si ferma
Medicina ◆ L’arresto cardiaco è una situazione particolarmente grave che va subito affrontata
Maria Grazia Buletti
«In Ticino si verificano annualmente oltre 300 arresti cardiaci improvvisi e, a ogni minuto di ritardo, la probabilità di successo sopravvivenza si riduce del 7-10%». Sono i dati della Fondazione Ticino Cuore contestualizzati e suffragati dal suo presidente, il cardiologo Alessandro Del Bufalo: «Anche nel 2023 il numero complessivo degli arresti cardiaci nel canton Ticino si è mantenuto al di sotto delle 300 unità (292, per l’esattezza), rispetto a una media di 332 arresti cardiaci degli ultimi diciannove anni, e un massimo di 397 nel 2020, anno della pandemia». Un risultato che lo specialista definisce «incoraggiante». Di fatto, il grande contributo di Ticino Cuore sul nostro territorio è votato a migliorare la sopravvivenza e la qualità di vita del paziente colpito da arresto cardiaco extra ospedaliero e si focalizza «sulla possibilità di mettere in atto quanto prima le misure salvavita e la rianimazione cardiopolmonare, associate all’impiego di defibrillatori automatici esterni da parte di soccorritori laici adeguatamente formati». Ciò che pone il nostro Cantone tra i migliori a livello internazionale per quanto riguarda la sopravvivenza globale che va dal 15%, fino al 60%, in caso di fibrillazione ventricolare.
Il dottor Del Bufalo conferma la tendenza cantonale: «Un dato di cui essere orgogliosi mostra che in Ticino nell’80% dei casi testimoniati (ndr : quando qualcuno assiste all’evento) di arresto cardiaco le persone presenti hanno iniziato immediatamente le misure di rianimazione; questo, rispetto a una media del 60% nei 19 anni di attività della Fondazione». Una direzione le cui fondamenta scientifiche sono date pure dalle conclusioni di uno studio svedese sugli arresti cardiaci occorsi in ambito extra ospedaliero fra il 2011 e il 2017, che pone l’accento sulla diffusione dell’addestramento alla rianimazione cardiopolmonare come una priorità assoluta: «Effettuata prima dell’arrivo dei servizi medici di emergenza, è riconosciuta come in
grado di assicurare un più alto tasso di sopravvivenza nei casi di arresto cardiaco extra ospedaliero».
A fronte di quanto sopra, è necessario comprendere cosa succede: «Il primo sintomo dell’arresto cardiaco è la perdita di conoscenza: la persona non respira, non c’è polso e non c’è coscienza, le pupille si dilatano e non reagiscono alla luce». Allora, va im-
Centosette salvavita
Anche la polizia cantonale è ora interamente operativa nella rete del sistema first responder È recente la notizia che, grazie all’impegno della Fondazione Ticino Cuore, il Comando della Polizia cantonale dispone oggi di ben 107 defibrillatori. Ne avevano già 81, e a fine maggio ne sono arrivati altri 26, a completamento del fabbisogno: di fatto, a oggi, tutte le auto di pattuglia sul nostro territorio sono equipaggiate a dovere.
mediatamente allertato il 144 da dove l’operatore porrà domande alla persona presente, che le permetteranno di iniziare le prime misure di soccorso più appropriate: «In parallelo, viene inviata tempestivamente un’ambulanza e si attiva la rete di First Responder che, giungendo sul posto, permette di ridurre il tempo di soccorso, letteralmente di vitale importanza per preservare le funzioni cerebrali».
Anche per quanto attiene alla rete dei First Responder, si distingue il contributo della Fondazione Ticino Cuore, spiega Del Bufalo: «Si tratta di persone che hanno deciso di mettere a disposizione il proprio numero di telefono cellulare, sul quale ricevono gli allarmi per presunti arresti cardiaci direttamente da Ticino Soccorso 144». È una rete di persone che, spiega lo specialista, «ha una funzione sussidiaria a quella dei servizi di soccorso professionisti chiamati istituzionalmente a intervenire in caso di soccorso». Ma che sa fare la differenza e mostra il grande «buon cuore» (è il caso di dire così) dei cittadini che diventano Firs Respon-
der : «Nel corso del 2023 la rete si è ulteriormente ampliata raggiungendo i 5697 iscritti». È dunque un dato di fatto: «Nel caso in cui la situazione confermi l’arresto cardiaco, le misure di rianimazione (massaggio cardiaco e, se disponibile, l’uso di un defibrillatore) sono ciò che fa la differenza se messe in atto quanto prima, o almeno fintanto che il First Responder e i professionisti giungano sul posto». I fatti parlano chiaro: «In Ticino, grazie alla Fondazione Ticino Cuore attiva dal 2005, sono state formate quasi 134mila persone con un corso di rianimazione offerto alla popolazione, corrispondenti circa al 35% della popolazione globale cantonale, percentuale nettamente maggiore (fino oltre il 50%) se escludiamo i bambini e gli anziani». Tutti possono imparare le tecniche di rianimazione e chi è interessato può annunciarsi attraverso il sito della Fondazione https://www.ticinocuore.ch/it. La sopravvivenza dopo un infarto cardiocircolatorio extra ospedaliero costituisce l’obiettivo principale di tutti gli attori, sanitari, Tici-
Plinio la definiva «erba magica»
no Cuore compreso, che intervengono durante l’intero percorso di presa a carico e di cura: «Dal momento dell’evento fino al recupero della qualità di vita della persona colpita, la tempestività e le competenze sono l’elemento essenziale per una buona prognosi e per la ripresa di una vita degna, che comporti un nullo o minore danno cerebrale. Questo, perché quando si rianima non sempre il cervello riesce a recuperare completamente le sue funzioni: a volte vi sono persone che, rispetto a prima dell’evento, mostrano tratti caratteriali diversi come la perdita della gioia di vivere, sintomi depressivi, perdita di freni inibitori». Ancora una volta è la prevenzione a giocare un ruolo molto importante per preservare la salute del nostro cuore, e si sa che l’infarto si può prevenire in quattro casi su cinque. Lo rivela un ampio studio coordinato da Agneta Akesson del Karolinska Instituted di Stoccolma, i cui risultati sono stati pubblicati sul «Journal of the American College of Cardiology». Questa ricerca ha permesso di monitorare per circa undici anni quasi 21mila uomini di età compresa fra i 45 e i 79 anni. L’ampia popolazione e il lungo periodo di osservazione hanno consentito di stabilire alcuni punti salienti sulla possibilità di prevenire alcune patologie cardiovascolari, e in particolare l’infarto. A questo proposito, il cardiologo ricorda il concetto principe della prevenzione: «È determinante l’assunzione di un corretto stile di vita: astensione dal fumo, attività fisica regolare e moderata (camminata rapida, corsa leggera, nuoto, bicicletta) per almeno mezz’ora al giorno, e una sana alimentazione». Di fatto, dallo studio svedese emerge la stessa conclusione: «Chi seguiva un regime alimentare adeguato, quindi sano, insieme a una regolare pratica fisica a favore del mantenimento del peso corporeo, aveva una probabilità ridotta fino a oltre 85% di incorrere in un infarto». Richiedendo altresì anche l’astensione da fumo e un consumo limitato di alcol.
Fitoterapia ◆ La Piantaggine è tanto comune che si rimane senza fiato scoprendo il lungo elenco delle sue proprietà medicinali
Eliana Bernasoni
Il geniale Paracelso, medico e alchimista, precursore della moderna medicina, affermava che campi, prati, colline e montagne erano da considerarsi vere farmacie. Ed è in tutti questi luoghi che incontri Plantago comunemente detta Piantaggine, la piccola pianta selvatica fortissima e resistente che riesce a spuntare ovunque, nei terreni aridi o nei campi coltivati, lungo i prati, sul margine di sentieri e corsi d’acqua, a volte persino in città; è talmente resistente che se ti capita di schiacciarla con il piede immediatamente ricresce.
Esistono tre specie di Piantaggine, del tutto simili fra loro: la Piantaggine magiore (Plantago major ), dalle foglie ovali e arrotondate, e la Piantaggine minore (Plantago lanceolata) – che è la più nota (v. foto) – dalle foglie strette e lanceolate; e la Piantaggine media (Plantago media) dalle foglie vellutate. Questa comunissima pianta potrebbe essere definita infestante, le sue inconfondibili foglie presentano nervature molto evidenti, lo stelo
spunta dalla base a rosetta in forma di spiga con i suoi piccoli leggeri fiori bianchi che da aprile a novembre disperdono i semi (ben maturi e raccolti con tempo asciutto sono il cibo preferito degli uccelli in gabbia), il loro polline è fra le cause più forti del diffondersi di allergie.
La Piantaggine è talmente modesta che si rimane senza fiato scoprendo il lunghissimo elenco delle sue proprietà medicinali. Era preziosa dai tempi antichi per uso interno ed esterno; pare che i Longobardi ne bevessero il succo per ogni tipo di dolore. Plinio la definiva «erba magica», per Dioscoride, medico greco della Roma imperiale, curava la dissenteria mentre per i medici della scuola salernitana poteva curare i disturbi della menopausa e i problemi uterini. Unita ad altre piante, in forma di decotto, era raccomandata per la cura degli ascessi e delle infiammazioni intestinali, per la raucedine, l’afonia e le vampate; unita al burro, curava le emorroidi e la dissenteria dei bambini. Il suo succo, mischiato ad acqua di rose era usato per gli occhi infiammati, e con l’infuso di foglie si facevano gargarismi per il mal di gola. I bambini delle famiglie contadine sapevano come applicarla in poltiglia sulle piccole ferite e in qualsiasi genere di morsicatura. In un codice miscellaneo in latino e volgare conservato a Genova sul finire del 400 si legge: «Per far crescere più rapidamente i capelli occorre bollire piantaggine seccata e polverizzata con burro e aggiungervi dell’aceto» nessuno impedisce di verificare la fondatezza di tale consiglio, anche a di-
stanza di 1600 anni. Le foglie giovani dal gusto amarognolo erano mangiate crude in insalata o lessate e consumate in minestre o frittate, evidentemente anche oggi. La Piantaggine contiene mucillagine, tannino, vitamine, innumerevoli sali minerali e glucidi, sono evidentemente riconosciute ai nostri giorni le qualità che l’hanno resa preziosa nei secoli. La sua azione è emolliente, sedativa, astringente, diuretica e depurativa, ha proprietà antinfiammatorie, antiallergiche e immunostimolanti, protegge il tessuto connettivo ed è indicata per le irritazioni della pelle, per le affezioni delle vie urinarie, dell’apparato respiratorio e gastroenterico.
Non si conoscono controindicazioni per il suo uso ma come sempre avvertiamo di non ricorrere alle cure erboristiche senza consultare un medico. In molte farmacie troviamo ad esempio sciroppi per la tosse a base di Piantaggine e, in commercio, le foglie essiccate, i semi, il succo e la tintura.
Enrico
Blasutto
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La Terra e la sfida dei nuovi deserti
Convenzione ONU ◆ Un altro modo di intendere la degradazione dei suoli: dalla desertificazione alle fragilità di pascoli e praterie
Loris Fedele
Quando ci interessiamo alle problematiche discusse ogni tot anni dalle COP, le Conferenze mondiali delle Parti promosse dall’ONU fin dalla famosa Conferenza di Rio del 1992, ci riferiamo quasi sempre alle COP che riguardano i cambiamenti climatici. Forse è inevitabile, perché è il tema ambientale del momento, che coinvolge tutti. Però è giusto ricordare che i principali trattati conosciuti sotto il nome di Convenzione di Rio in realtà sono tre: oltre a quello del cambiamento climatico (in sigla UNFCCC), che promuove i discorsi sul CO2 e sul riscaldamento globale al quale contribuisce l’azione dell’uomo, ci sono una Convenzione sulla diversità biologica (UNCBD) e una Convenzione delle Nazioni Unite sulla lotta contro la desertificazione (UNCCD).
Importanti sono anche l’impoverimento dei suoli e il degrado delle terre sovrasfruttate e usate in modo non appropriato
Un piano d’azione per combattere la desertificazione era già stato proposto dall’ONU nel 1977, che aveva riconosciuto il fenomeno come uno dei maggiori problemi economici, sociali e ambientali in diversi Paesi africani, asiatici e dell’America latina. La Conferenza di Rio aveva rilanciato il tema e, due anni dopo, a Parigi, nasceva ufficialmente questa terza Convenzione di portata mondiale. Essa identificava la desertificazione come «il degrado delle terre nelle zone aride, semiaride e subumide, causato principalmente dalle attività umane e dal cambiamento climatico» e quindi coinvolgeva criticamente l’umanità e il suo agire.
Da allora, il concetto di desertificazione non si riferisce più al naturale processo di espansione dei deserti esistenti, ma si è progressivamente spostato sul tema dell’impoverimento dei suoli e sul degrado delle terre soggette a sovrasfruttamento e all’uso non appropriato che se ne fa.
La traduzione in atto dei dettami di quest’ultima convenzione non ha mai avuto vita facile, soprattutto perché la Convenzione non ha un carattere vincolante per gli Stati, che sono sovrani per l’uso delle loro terre e per le loro scelte politiche, economiche e sociali. Si possono suggerire loro delle azioni, ma non imporle, anche se oltre 170 Paesi hanno firmato la Convenzione per combattere la desertificazione.
La conseguenza, negli ultimi anni e sempre di più, si è tradotta in un degrado che ha fatto perdere ogni anno almeno 100 milioni di ettari di terre sane e produttive. Cifre che risultano dalle stime ufficiali dei tecnici della Convenzione per la lotta alla desertificazione (UNCCD), presentate in un recente rapporto. Quest’anno, dal 2 al 13 dicembre, si terrà a Riyad, in Arabia Saudita, la sedicesima Conferenza delle Parti (COP16) della UNCCD, che celebrerà anche il 30° anniversario della Convenzione.
Gli addetti ai lavori anticipano già che l’impegno preso a suo tempo deve trasformarsi urgentemente in azione, perché la siccità, con i cambiamenti climatici, è onnipresente e oltre ai noti Paesi in via di sviluppo sta colpendo anche quelli più sviluppati. La siccità innesca grossi problemi idrici, transitori e permanenti, perfino nelle grandi città. Oltre un miliardo e mezzo
di persone viene coinvolto, con spese che a livello mondiale negli ultimi anni superano i 125 miliardi di dollari. È indispensabile imparare a gestire i rischi con sistemi di sorveglianza e allerta precoce, con la valutazione della vulnerabilità e dell’impatto che ne potrebbe conseguire, applicando misure di attenuazione dove possibile. È chiaro che il degrado dei suoli risulti maggiormente irreversibile nelle zone che sono già in origine aride o semi-aride. Ma è anche conseguenza di cambiamenti nell’uso delle terre e dello sfruttamento eccessivo di certe aree, che comprendono zone alle quali di solito si pensa poco, come le savane, le zone cespugliose, quelle umide, la tundra, la pampa. Sono terre spesso montuose, che coprono circa la metà della Terra. Parlando di desertificazione si pensa di rado alla vulnerabilità dei pascoli. Ma proprio il citato rapporto della UNCCD ci ricorda che il 50% dei pascoli mondiali sono degradati. I sintomi del problema includono la perdita di fertilità del suolo e dei nutrienti, l’erosione, la salinizzazione, la perdita di biodiversità. Nel rapporto si denuncia che troppi pascoli sono diventati terreni coltivati, magari in zone poco idonee, oppure hanno subito cambiamenti di destinazione a causa della crescita della popolazione e dell’espansione urbana. Politiche di sfruttamento eccessive hanno giocato un ruolo nefasto in questo senso. In alcuni contesti, tanto è cambiato, e forse troppo in fretta. Stanno sparendo pratiche antiche, che erano in armonia con l’ambiente e dall’impatto limitato.
Alla COP16 di Riyad, il prossimo dicembre, si parlerà di momento cruciale per un’azione politica mirante a proteggere le praterie e i terreni agricoli esistenti. Si cita la Mongolia e non a caso, perché ci sarà un seguito: la Mongolia è già stata designata per ospitare la prossima Conferenza delle Parti dell’UNCCD (COP17) nel 2026. Si sa che lì e in Asia Centrale il 60% della superficie è utilizzato per pascolo e allevamento del bestiame: quasi un terzo della popolazione ne è dipendente. Politiche scarsamente pensate e sostenute hanno impoverito i suoli minando la sicurezza alimentare locale e la produttività. Si chiede un approccio innovativo.
Il rapporto dell’UNCCD denuncia anche la carenza di dati affidabili sulle terre montuose e invita i politici di questi luoghi a stabilizzare, ripristinare e gestire i pascoli tradizionali, coinvolgendo attivamente la comunità senza calare dall’alto soluzioni preconfezionate. Asia centrale, Cina e Mongolia dovrebbero operare in tal senso. Si chiede inoltre che si traggano le dovute lezioni dai passi
falsi commessi in passato in varie parti del mondo, facendo anche tesoro delle esperienze altrui. Tra le raccomandazioni vi è quella di proteggere la pastorizia nomade, una pratica e uno stile di vita vecchio di millenni. Sappiamo che si vorrebbe operare così anche in Africa. Purtroppo nel Sahel e nell’Africa occidentale i conflitti e le lotte di potere hanno interrotto da tempo la mobilità del bestiame, portando a un degrado dei suoli
e della qualità di vita dei pastori. Nel Sud America la deforestazione legata all’agricoltura e alle pratiche estrattive e minerarie stanno pesantemente impoverendo i suoli e incrementando la desertificazione. Il danno avrà conseguenze planetarie e necessita di essere fronteggiato con misure urgenti. Nel Nord America il degrado delle antiche praterie e dei pascoli secchi minaccia da tempo la biodiversità degli iconici ecosistemi, come le praterie di
Per
erba alta e i deserti meridionali, dove abbiamo perso qualcosa di prezioso. Forse solo l’incorporazione delle popolazioni indigene nella gestione potrebbe riportare al recupero di antichi valori. Anche l’Europa dovrà porre attenzione ai propri ecosistemi, così come il Sudafrica e l’Australia. Politica ed economia devono tener conto delle evidenze scientifiche e agire senza spingere la speculazione ma favorendo la qualità di vita.
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a firma di Giorgio Keller
Moreno Invernizzi
Ci sono record e record. Come quello stabilito il 15 ottobre del 1997 da Andy Green nel deserto del Nevada che, a bordo della Thrust Supersonic Car, toccò i 1227,98 km/h, ossia la velocità più alta mai raggiunta con una vettura. Quasi settant’anni prima, nel 1928, un francese, Albert Eugène Divo, sulla tirata tra Cadenazzo e Sant’Antonino, sfiorava i 232 km/h (231,513 km/h) di media nel Chilometro lanciato. Gare che, appunto, per dieci anni, tra il 1923 e il 1933, andarono in scena sul Piano di Magadino. Un primato che a tutt’oggi è imbattuto in Svizzera, e riportato alla luce dal certosino lavoro di Giorgio Keller nella seconda avvincente puntata delle Classiche motoristiche in Ticino e nei Grigioni e storia del rally in Ticino (Fontana Edizioni, finito di stampare nel maggio di quest’anno).
Oltre quattrocento pagine (tante quante ne contemplava il primo tomo di questo appassionante viaggio nel mondo dei motori ticinesi, anzi, del sud delle Alpi, visto che un’ampia finestra, pure in tedesco, è riservata ad alcune delle più celebri competizioni che tennero banco nel Canton Grigioni, fra cui la Klosters-Davos) fitte di aneddoti, biografie, ritagli di giornale d’epoca, cronache e quant’altro. E soprattutto fotografie. Tantissime, corredate di nomi e curiosità.
Così troviamo, per citare una delle
tante altre chicche contenute in questo secondo volume, uno Steve Lee che prima di costruire la sua fama musicale sulle ribalte mondiali con i Gotthard, cercava di ritagliarsi un po’ di gloria nelle primissime edizioni del Derby delle casse di sapone di Porza, a cui aveva preso parte ancora come Stefano Lee. Un capitolo a sé, poi, è dedicato al Gran Premio di Campione d’Italia, che con i suoi 1116 m di lunghezza era (e lo è tutt’oggi) il circuito automobilistico più piccolo del mondo, e un altro capitolo al Gran Premio di karting di Bellinzona, alla cui prima edizione (nel 1976), sul piazzale dell’allora caserma della capitale, si presentarono al via 150 corridori. Insomma, in questo secondo volume a… tutto gas c’è (ancora una volta) di tutto e di più. Ma, ancora una volta, non c’è tutto: «Perché condensare la storia delle classiche motoristiche alle nostre latitudini in 400 pagine o 800 pagine e spiccioli non avrebbe garantito il degno risalto a eventi e protagonisti» conferma l’autore Giorgio Keller. «Così, come era già stato il caso dopo la prima “fatica”, eccomi qui a promettere un’altra puntata, la terza e ultima di questo trittico. Che, ad ogni modo, ha comportato sì ore e ore di lavoro, ma che mi ha anche permesso di ricostruire aneddoti e dettagli che pure io ignoravo. Gran parte del materiale con cui ho assemblato questa
seconda puntata e che mi servirà per il terzo volume è arrivato dalle persone che hanno voluto rendermi partecipe dei loro racconti aprendomi il loro personale album dei ricordi». Keller torna poi alle origini di questo trittico: «Tutto comincia con il libro Piloti ticinesi da Grand Prix (sempre edito dalla Fontana Edizioni, ndr). Completato quel volume, fra me e l’editore è nata una domanda, banale finché si vuole, ma fondamentale: “Ma questi piloti, dov’è che hanno
cominciato a correre?”. Così è partita la seconda ricerca, dove non mi sono però limitato a un asettico elenco delle manifestazioni motoristiche su suolo cantonale, ma ho voluto estendere il tutto a schede descrittive degli altri vari protagonisti (e sono davvero tantissimi), e reperire quante più informazioni si potevano recuperare nei vari archivi relative a questi appuntamenti, ormai divenuti storia di un passato che fu. Alcuni dei quali li conoscevo in prima persona, per aver-
vi partecipato, altri no. Ogni volta che completavo le ricerche per una gara, ecco che ne spuntava un’altra: è stato un lavoro impegnativo. Ma anche appassionante! Come una… Mille Miglia! E così eccoci passare dallo slalom di Lodrino a quello di Cornaredo, e da lì alla salita del Luzzone. O, ancora, a quella motociclistica di Gerra Piano-Medoscio. Una menzione, in questa categoria, la merita anche il Gran Premio di Locarno, appuntamento internazionale disputato tra il 1937 e il 1959, a cui tra gli altri hanno partecipato ben dieci campioni del mondo che, assieme, avevano totalizzato 32 titoli iridati. Compresi i vari Alberto Ascari e Jo Siffert, volti assai noti nel mondo della Formula 1». Non c’è il due senza il tre, si diceva… Inevitabile, perché molto altro materiale reclama un posto in questo compendio motoristico: «A 13 anni scrivevo già il mio giornaletto “Autosprint”. Visto però che il rendimento scolastico non era entusiasmante, dopo pochi numeri dovetti accantonare il progetto. Per vie traverse ho poi cominciato a occuparmi di motori per l’allora “Dovere”. E da lì sono sempre restato a contatto con questa realtà. Ecco perché la stesura del trittico è stata quasi naturale. Il terzo capitolo è già per un terzo completo: idealmente il tutto dovrebbe essere completato e stampato per fine 2025-inizio 2026».
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Salita al Luzzone; immagine tratta dal libro Classiche motoristiche in Ticino e nei
Grigioni e storia del rally in Ticino. (Fontana edizioni)
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TEMPO LIBERO
Resistente ed elegante
La cosiddetta pianta fantasma è una succulenta poco pretenziosa, ma dal nome impronunciabile: Graptopetalum weinbergii
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Una funzionale griglietta coi piedini
Chi fa i dolci quasi sicuramente ne ha già una in cucina, ma quel che non sa, forse, è che può essere usata anche per cucinare
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Crea con noi
Basta un sottovaso e un po’ di fantasia per realizzare con i bambini un ambiente marino in miniatura
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Tutta la poesia di un calcio piazzato
Tra il ludico e il dilettevole ◆ Una riflessione sulla poetica del gioco del pallone e sulla necessità di restituirgli la sua anima spensierata e istintiva
Non saprei dire se sia stata la mia abitudine all’osservazione ad avermi condotto a studiare sociologia o se, all’opposto, il fatto di aver studiato sociologia abbia fatto di me un osservatore attento. Credo che entrambe le varianti siano plausibili, e del resto non mi è possibile stabilire una precedenza dell’una sull’altra. In un caso come nell’altro il risultato è lo stesso: mi capita spesso di ritrovarmi a osservare ciò che succede intorno a me. A volte poi la consuetudine aiuta, e permette ad alcuni dettagli di prendere forma a poco a poco, come se gli occhi li mettessero a fuoco gradualmente. Camminando ripetutamente lungo il Viale Stazione di Bellinzona, per esempio, un giorno trovai curiosi alcuni manichini esposti nella vetrina di un negozio di abbigliamento: uno rappresentava James Dean e l’altro Gérard Depardieu. Prima ci camminavo semplicemente davanti, senza notarli. Poi, quel giorno, ho cominciato a vederli.
Le consuetudini ci portano a ripetere gli stessi percorsi, e questo fa sì che, nella ripetizione, prendono forma delle configurazioni di senso. Camminando per Bellinzona, ho spesso costeggiato campetti di calcio dove si allenavano squadre giovanili. Da passante, mi è capitato di assistere a delle partite, anche solo amichevoli, e di osservare ciò che i giovani avevano imparato in allenamento. In occasione di una di queste partite, qualche tempo fa, notai nello stile di gioco un dettaglio che mi colpì molto; e che mi sembrò rivelatore di qualcosa di importante, la cui portata travalicava quella semplice, trascurabile, partitella.
Il calcio, si sa, è uno sport dove si assiste al movimento di una palla da una parte all’altra di un terreno di gioco. Ci sono tanti modi per svolgere tale azione, e spesso la bravura di una squadra si rivela nella capacità di avanzare in modo fluido e organizzato. Se il movimento pendolare è una costante, negli anni il calcio si è evoluto parecchio, e così lo stile di gioco. Uno dei cambiamenti più recenti ha coinciso con la diffusione della cosiddetta costruzione dal basso: l’espressione si riferisce al modo in cui una squadra, nell’impostare la propria manovra di avanzamento, coinvolge i difensori e il portiere in una fitta rete di passaggi in prossimità della propria area di rigore. Il gioco, in questo modo, viene rallentato, e tende a spostarsi su un asse orizzontale: e se l’esecuzione si inceppa, la manovra viene bruscamente interrotta dalla squadra avversaria che si procura, quasi dal nulla, un’occasione da goal.
La costruzione dal basso è ormai una caratteristica imprescindibile del
calcio professionistico globale, anche se trova terreno fertile in Europa più facilmente che altrove. Qualsiasi persona che abbia guardato, anche solo distrattamente, una partita dei recenti Europei in televisione, non può non averlo notato. Ma c’è una cosa che non mi torna: il fatto che la costruzione dal basso sia tanto diffusa, non significa che sia anche necessaria. Quando, quel giorno, da bordo campo osservai il modo con cui, nell’applicare rigorosamente la costruzione dal basso, una delle due squadre finiva per cedere, grottescamente, la palla agli avversari, mi è venuto spontaneo chiedermi: ma è auspicabile imporre ai giovani un modo di muoversi che ingabbia il gioco in una manovra eccessivamente laboriosa e ragionata? Per quanto la costruzione dal basso sia portatrice, potenzialmente, di alcune virtù – fra cui quella di promuovere un gioco corale che coinvolge attivamente anche il portiere –, se non è sostenuta da azioni ficcanti, il gioco non perde in spettacolarità? Non diventa più statico, congestionato, piuttosto che dinamico e fluido?
Gli allenatori non farebbero forse meglio a trasmettere ai giovani uno stile creativo, estroso, ricco di improvvisazione, più da strada che da stadio, incoraggiando le ripartenze veloci, i capovolgimenti di fronte fulminei, le verticalizzazioni improvvise. Al posto di insistere su ridicoli passaggini a corto raggio entro la propria area difensiva, farebbero meglio a spezzare una lancia in favore dei lanci lunghi, forieri di possibilità inesplorate. Ammettendo che sia possibile ridimensionare l’ambiente del calcio giovanile che, come altri ambiti sportivi, è ormai viziato dalle logiche della competizione proprie al mondo adulto, forse si potrebbe incoraggiare un’idea di calcio più genuina. Riavvicinando i giovani al valore intrinseco del gioco, e mettendo a tacere qualche genitore un po’ troppo ingombrante, si potrebbe restituire allo sport la sua dimensione di svago, di divertimento e di scoperta. Bisognerebbe, insomma, ridare al calcio la spensieratezza che è tipica dell’infanzia.
In un’intervista pubblicata in un volume dal titolo Lo sport è un gioco? (Raffaello Cortina, 2024), l’antropo-
logo francese Philippe Descola suggerisce che per molte popolazioni non occidentali, lo sport è vissuto come un gioco collaborativo, e che siamo noi occidentali ad averlo strumentalizzato, piegandolo alle logiche dello scontro fra fazioni avverse e al binarismo vincenti-perdenti.
Se io fossi un allenatore, quindi, chiederei ai miei giocatori di divertirsi, eviterei la costruzione dal basso e cercherei di trasmettere la filosofia del passaggio lungo: perché il lancio lungo è molto più poetico e avventuroso, schiude orizzonti inattesi, è portatore di possibilità inesplorate e può far germogliare azioni altamente spettacolari. Ciò che conta è l’occhio che immagina all’istante, la creatività che si fonde con il gesto, il piede che si muove d’istinto, l’intuito che anticipa il ragionamento.
Se queste riflessioni sono, indubbiamente, legate al mio spirito di osservazione, non è certo un caso che io sia cresciuto vicino a un campetto da calcio. Da piccolo volevo andare in Brasile: da quelle parti, di certo, la costruzione dal basso l’hanno già mescolata alla samba (una sera, quasi per
sbaglio, dopo avere visto una partita degli Europei, cambiando canale sono capitato su una partita della Coppa America, con giocatori che correvano come dei forsennati). Anche quando, alle medie, ho abbandonato il pallone a favore del basket, il calcio mi è rimasto dentro. E ricordo ancora quando, nelle sere d’estate, provavo e riprovavo, quasi all’infinito, dalla stessa posizione, il calcio piazzato. Lasciando partire il pallone, seguivo speranzoso la sua parabola. Insistevo, imperterrito, fino a quando, simile a un sogno, il pallone cominciava a girare al rallentatore e, all’improvviso, si infilava nel sette. Poi, per un attimo, non c’era più nulla: il tempo si era come fermato.
Quello che ricercavo in quei momenti, in fondo, non mi sembra poi così diverso da quello che, oggi, vorrei ritrovare nella parabola delle parole: quell’effetto estetico che, a distanza di anni, mi ricorda l’ebrezza, unica e irripetibile, di quei calci piazzati.
Consiglio di lettura
Philippe Descola, Lo
sport è un gioco?, Raffaello Cortina, 2024
Sebastiano Caroni
Pexels
La pianta fantasma dai petali di cuoio
Mondoverde
Anita Negretti
È facile avere un debole per alcune piante, chi scrive ne ha diversi, e tra questi vi è senz’altro quello per il Graptopetalum weinbergii (sinonimo di Sedum weinbergii), nome complesso e arzigogolato, di certo difficile da ricordare, ma pianta facile da curare, date le sue esigenze minime che ne garantiscono la vita dopo la messa a dimora. Si tratta di una succulenta (e non di una pianta grassa come direbbero in molti), originaria del Messico. Presenta foglie carnose, disposte a rosetta, dal colore grigio argento tendenti al rosso ametista, specie sui bordi, durante i mesi invernali. Alta non più di trenta centimetri, ha radici quasi inesistenti, fascicolate e molto fini, fusti corti, spessi, color grigio verde, che nelle piante adulte tendono a lignificare.
La particolarità di queste piante risiede nell’estrema facilità di radicazione: basta infatti procurarsi una talea data da una rosetta per avere in pochi mesi una considerevole stirpe di Graptopetalum weinbergii. Si può interrare lo stelo della rosetta o anche solo le singole foglie: tenute moderatamente bagnate produrranno una mini rosetta di foglioline nella zona del picciolo che in poche settimane andrà a ingrandirsi, ottenendo così nuove piante che si possono moltiplicare all’infinito.
Longeve, si allargano rapidamente, riempiendo in fretta vasi, ciotole o aiuole specie in giardini rocciosi,
visto che amano appoggiarsi su sassi assolati.
Della famiglia delle Crassulaceae, sono decorative tutto l’anno, ma tra maggio e giugno diventano ancora più belle poiché fioriscono: dal centro delle foglie compaiono vistosi fiori stellati formati da cinque petali bianchi puntinati di rosso cupo. Amanti di zone in pieno sole e molto luminose, resistono anche alle basse temperature, intensificando maggiormente il color rossastro sulle foglie.
Parente stretto dei generi Sedum ed Echeveria, il Graptopetalum si ibrida facilmente con loro, creando nuove piantine che spesso sono difficili da classificare e danno origine a sinonimi o a errori di classificazione.
Ne è un esempio Graptopetalum paraguayense, estremamente simile, ma originario dello stato di Tamaulipas ed è più resistente al freddo (fino a -10°C): raggiunge i venti centimetri di altezza e i sessanta centimetri di ampiezza, ma se messe a confronto, le due varietà risultano identiche poiché sono frutto di incroci naturali.
Perenni, vengono chiamati anche piante fantasma o madreperla per via della patina opalescente che si crea sulle foglie, regalando loro un colore glauco, quasi etereo; in Inghilterra assumono il nome di Leatherpetal, petali di cuoio, per via della loro robustezza.
Prediligono terreni sciolti, formati da terra mescolata a sabbia con un
buon drenaggio e concimato. Per un nuovo impianto, risulta essere ideale la messa a dimora in un terreno per cactacee, intervenendo ogni 15-20 giorni con del concime sempre per cactacee, da preferire liquido e miscibile all’acqua, da aprile a settembre, mentre in inverno non è necessaria, poiché sono in pausa vegetativa.
Oltre ai due Graptopetalum già descritti, ve ne sono altri, come il G. amethystinum o «pianta a foglia di gioiello» che è pure di origine messicana, con foglie grassocce dal colore rosa verde e fiori primaverili a forma di stella rosso giallo.
Oppure G. bellum che si coltiva all’interno degli appartamenti, lonta-
no dal sole diretto e che produce rosette di foglie direttamente dal terreno (non ha fusti); questa varietà in primavera schiude i suoi fiori dalla tipica forma di stella, rosa acceso. Infine vi è la G. macdougallii che si distingue dalla weinbergii per avere rosette fogliari molto più dense, date da foglie più piccole e tondeggianti.
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Anita Negretti
Più piedini per le nostre grigliette
Gastronomia ◆ Per migliorare il raffreddamento di torte, ma anche per favorire alcune cotture in forno, non può mancare in cucina questo attrezzo economico e allo stesso tempo molto utile
Allan Bay
Esistono dei piccoli attrezzi, che costano poco ma che servono più di quanto sembri. Presentiamone uno: la griglietta con i piedini, cioè una griglietta che quando viene messa su un piano risulta rialzata – ma i piedini possono essere alti anche solo cinque millimetri e, salvo eccezioni, sono alti al massimo cinque centimetri.
Chi fa i dolci quasi sicuramente ce l’ha già, dato che è la griglietta dove di mettono a raffreddare le torte, dolci o salate, per impedire che la base raffreddi più lentamente, cosa che capita se appoggiata direttamente su un piano, soprattutto se d’acciaio.
Se ne può fare però un altro uso altrettanto interessante: per gli hamburger, i filetti e le bistecche – ma anche per molto altro. Premessa: l’articolo è rivolto a chi non li ha tolti a tempo dal frigorifero, cosa assai furba ma che non tutti possono fare: provate una volta a cuocere un bisteccone diviso a metà con una metà che è stata a temperatura ambiente per 24 ore, l’altra appena tolta dal frigorifero: avrete due piatti diversi.
Questi tagli vengono saltati in padella per un tempo che decide chi cucina, più o meno lungo a seconda di quanto si ama la carne poco cotta, chi scrive li salta per un congruo numero di secondi, non di minuti. In alternativa, possono essere cotti in forno.
Ma se li cuocete appena tolti dal frigo, dopo averli saltati, la parte centrale resta sempre fredda o quasi ed è questo il motivo per cui filetti e bistecche, messi nel piatto, buttano fuori dell’acquetta rossastra, fastidiosa e antiestetica – e infatti una volta venivano messi su una fetta di pane poco tostato, che serviva ad assorbire questa acquetta e che non doveva essere mangiato.
Una soluzione interessante? Levate la carne e «tenetela in caldo». Che oggi vuol dire passare la carne in forno a
una temperatura compresa fra i 56°C, che è la temperatura con la quale inizia quel processo fisico e chimico della carne che noi chiamiamo cottura e i 70°C, non di più, per 5 o10 minuti, dipende dallo spessore della carne. Questo passaggio in forno, questa specie di cottura che è giusto definire riposo in forno caldo, scalda il cuore della carne e fa sì che l’acquetta venga assorbita ma non cuoce la carne, resterà rosata come lo è all’inizio. Per evitare che la parte inferiore cuocia di più, è però bene appoggiare la carne sulla griglietta, a sua volta messa su una teglia, che raccoglierà i succhi emessi dalla carne – e così si pulisce più facilmente il forno.
Un altro uso: cuocere una carne direttamente in forno. Mettete la griglietta sulla solita teglia, appoggiate sopra l’ingrediente e cuocete in forno alla temperatura e per il tempo previsti. A questo punto, non serve girare ogni tanto la carne, perché il calore sarà uniforme. Serve soprattutto se la cottura è lunga e a bassa temperatura.
Un esemplare esempio di questa tecnica è dato dal pollo al forno, se si ha a disposizione un ottimo pollo piuttosto grosso, sui 2 kg, ovviamente eviscerato e ben sciacquato. In questo caso: mettete la griglietta sopra la teglia; quindi, adagiatevi il pollo con il petto verso l’alto, cuocete per 2 ore a 140°, alla fine lo levate, e quando non è più ustionante lo mangiate, pardon sbranate, con le mani. Se, come si spera, il pollo è buono, non sarà necessario aggiungere né sale né grassi.
Ma c’è un «rischio»: se il petto risultasse un po’ asciutto, vi toccherà aggiungere un filo di olio o di una salsa acconcia – io amo quella di sesamo o la salsa d’ostriche, ma si sa che sono snob: pazienza. Nota bene: così cuocendo, il «taglio» più buono è la pelle, che sarà la prima a finire. W la griglietta!
Oggi vediamo come si fanno due ricette che hanno altrettante caratteristiche comuni: sono creative e sono pronte in cinque minuti. Gli ingredienti indicati sono per 4 persone. Coniglio, peperoni, gorgonzola, fagiolini, noci. Mescolate 50 g di gorgonzola morbido con 16 gherigli di noci pestati. Tagliate a fette di 1 cm di spessore 600 g di polpa di coniglio
Ballando coi gusti
Cocktail di bulgur
Oggi due piatti a base di bulgur, nome dato al grano duro integrale germogliato
Ingredienti per 4 persone: 250 g di bulgur, 4 prugne rosse, 20 olive nere denocciolate, 120 g di piselli, 1 peperone rosso sott’olio, 8 gherigli di noce, 1 tazza di maionese, 1 cucchiaino di curcuma, il succo di 1/2 limone, 1 bicchiere di tè nero, sale e pepe
Cuocete il bulgur come indicato sulla confezione, ma in acqua bollente cui avrete aggiunto la curcuma. Snocciolate le prugne, tagliatele a spicchi e mettetele in ammollo nel tè nero bollente per 30 minuti, poi scolatele e tamponatele con carta da cucina. Tagliate il peperone a julienne. Sbollentate i piselli per 3 minuti. Pestate i gherigli in un mortaio (o con un batticarne) fino a ricavarne una granella non troppo fine. Mescolate il bulgur con tutti gli ingredienti e regolate di sale e pepe. Aggiungete la maionese e il succo di limone. Amalgamate e disponete il bulgur nei bicchieri. Servite guarnendo con la julienne di peperone.
realizzando degli straccetti. Mondate 1 peperone lungo e tagliate le falde a fettine. Mondate 12 fagiolini e spezzettateli. Scaldate a fuoco medio basso in una casseruola 1 giro di olio o 1 noce di burro con 1 spicchio di aglio, unite la polpa e cuocete per 2 minuti, mescolando e sfumando con vino bianco, levate e tenete in caldo. Unite un poco del grasso prescelto, i peperoni, i fagiolini e 4 cucchiai di soffritto, quindi cuocete per 1 minuto, bagnando con acqua se necessario. Unite la carne e cuocete per 30 secondi. Regolate di sale e di pepe, poi spegnete. Macchiate con il gorgonzola alle noci.
Pancetta, pollo, bietole, mirtilli rossi
Tagliate a fettine 300 g di pancetta, poi dividetele a metà o in 3 parti. Tagliate a fettine 300 g di petto di pollo. spezzettate 1 mazzo di foglie di bietole. Scaldate in una casseruola 1 noce di burro con 1 spicchio di aglio e 2 foglie di salvia, aggiungete le fettine di pancetta e rosolatele per 1 minuto, unite il pollo e cuocete per 1 minuto, sfumate con vino bianco. Levate e tenete in caldo. Unite poco burro e le bietole e cuocete per 1 minuto e mezzo, bagnando con acqua se necessario. Unite la pancetta, il pollo e 1 manciata di mirtilli rossi e cuocete per 30 secondi. Regolate di sale e di pepe, spegnete e macchiate con salsa di senape.
Bulgur con vongole e crema di cannellini
Ingredienti per 4 persone: 250 g di bulgur, 200 g di fagioli cannellini lessati, 2 kg di vongole, 2 spicchi di aglio interi, 2 cucchiai di cipolla tritata, 1 bicchiere di vino bianco secco, 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro, brodo vegetale, 1 peperoncino secco, 8 cucchiai di olio, sale e pepe
Cuocete il bulgur come indicato sulla confezione. Sciacquate le vongole e mettetele in una padella con olio, aglio e peperoncino; scaldate a fuoco vivace, sfumate con il vino e coprite. Cuocete per 3’ a fuoco vivace. Con una schiumarola prelevate le vongole e lasciate raffreddare. Staccatele dai gusci, eliminate quelle rimaste chiuse e conservate le più grosse con il guscio. Filtrate il fondo di cottura. Scaldate in una casseruola 2 cucchiai di olio, unite i cannellini e il concentrato di pomodoro, bagnate con poco brodo e cuocete per 10’, poi frullate e passate al colino fine. Nella stessa padella versate 2 cucchiai di olio e l’aglio rimasto. Versatevi il bulgur unitevi il prezzemolo e il brodo di cottura delle vongole. Saltate brevemente e unite tutte le vongole. Cuocete a fuoco vivace per 1’. Servite la crema di cannellini e completate con il bulgur alla vongole.
Un ambiente marino in miniatura
Crea con noi ◆ Basta un sottovaso e tanta fantasia per realizzare una minispiaggia adatta ai giochi dei bambini
Giovanna Grimaldi Leoni
Un grande sottovaso si trasforma in uno splendido scenario marino in cui giocare. Un fondo di finissima sabbia, del riso colorato che diventa acqua, sassi che si trasformano in scogli, pigne che diventano alberi e tanti altri elementi realizzati con materiali naturali come legnetti e ghiande. Creare questo minimondo estivo a tema marino sarà altrettanto divertente che giocarci!
Procedimento
Iniziate riempiendo il sottovaso da una parte con la sabbia e dall’altra con il riso colorato. Per colorare il riso, mettete il riso e la tempera in un sacchetto di plastica per alimenti e scuotete bene finché il colore non sarà uniforme, aiutatevi massaggian-
do il sacchetto con le mani. Poi stendete il riso su un piano protetto da carta da forno e lasciatelo asciugare. Con i legnetti create i vari elementi. Potete usare bastoncini di legno per gelati oppure rametti raccolti durante una passeggiata.
Gazebo
Per il gazebo vi servono 8 legnetti di circa 10cm: 4 per i pali e 4 per le traverse. Incollateli con la colla a caldo e rinforzate con dello spago se necessario. Su due lati potete aggiungere due tende bianche. Con le foglie create un tetto e una piccola ghirlanda decorativa infilando su uno spago le foglie tagliate della misura occorrente.
Ombrellone
Per l’ombrellone, prendete il cappello di una ghianda e incollatevi all’inter-
Giochi e passatempi
Cruciverba
Nel dipinto «Vecchio Pescatore» del pittore Tivadar Csontvary, mettendo uno specchio al centro del viso del pescatore, appaiono due volti, si tratta di una… Lo scoprirai a soluzione ultimata leggendo nelle caselle evidenziate (Frase: 7, 3, 5, 1, 2, 7)
ORIZZONTALI
1. Attrezzo da palestra
7. Utilizzo
8. Una preposizione
9. Le iniziali del marito
di Claudia Mori
10. Piccolo rettile
11. Situato lungo le autostrade
12. Si raccolgono nel frutteto
15. Regalo inglese
16. Le custodivano le Vestali
17. Il palloncino che vola
19. Le iniziali dell’Ariosto
20. Nocumenti
no le foglie, formando una raggiera. Aggiungete un legnetto come stelo, utilizzando sempre la colla a caldo.
Zattera
Mettete uno accanto all’altro 6-8 legnetti lunghi circa 10cm e fissateli tra loro incollando nella parte inferiore due traverse che coprano tutta la lunghezza. Aggiungete una piccola bandierina in stoffa.
Tavolini e sgabelli
Con pezzi di corteccia e legnetti divertitevi a creare minuscoli tavolini.
Le ghiande possono diventare comodi sgabelli, mentre i loro cappelli, usati al rovescio, saranno perfette ciotole da riempire con semi o piccole perle.
Decorazioni
Sul vassoio create una strada in ghiaia che porta al mare. Aggiungete qualche ramo o pigna in veste di albero, sassi che diventano scogli e grandi conchiglie decorative. Con della corteccia potete allestire un angolo ricoperto di alghe. Aggiungete dettagli a piacere, come piccoli rettangoli di spugna che si trasformano in teli da bagno e posizionate gli stickers in gomma degli animali marini.
Il vostro ambiente marino è pronto per giocare e trasformarsi ogni volta per raccontare nuove avventure. Nota: se mettete uno strato di sabbia spesso, per posizionare elementi come l’ombrellone o gli alberi sarà
Materiale
• Sottovaso da 50cm
• Sabbia
• Riso, pasta o sale colorato di celeste con le tempere
• Materiale naturale vario (sassi, ghiaia, legni, cortecce, conchiglie, pigne, ghiande, foglie secche, …)
• Resti di stoffa
• Colla a caldo
(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
sufficiente infilarli nella sabbia senza aggiungere altri supporti. Questo vi permetterà di essere più flessibili con gli elementi, che potranno essere spostati ogni volta, rendendo il gioco più dinamico e creativo. Buon divertimento!
Soluzione della settimana precedente PICCOLE CURIOSITÀ – All’incirca, nel palazzo dell’Eliseo in Francia, quanti orologi ci sono? E quante persone ci lavorano? Frase risultante: TRECENTOVENTI, OTTOCENTO
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
di Claudio Visentin
Sulla via degli -stan, in attesa di partire per l’Africa
Dapprima fu l’Oriente. Negli anni Sessanta un pittoresco e scombinato convoglio di veicoli inaffidabili, a cominciare dall’iconico Kombi, prese la via di Kathmandu, la capitale del romantico e medievale Nepal, lungo la rotta hippie. I loro eredi puntarono verso la Thailandia, zaino in spalla; oggi piacciono Laos e Vietnam. Negli anni Settanta molti viaggiatori indipendenti scelsero invece l’America centrale, affascinati dalla cultura popolare, dalle rovine maya e dalle spiagge tropicali; la carismatica figura di Ernesto Che Guevara fece il resto. È invece più recente, a partire dal nuovo millennio, l’interesse per i Paesi «-stan» (Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Tagikistan).
La prossima frontiera dei viaggiatori indipendenti potrebbe però essere l’Africa. Sino ad ora è rimasta ai margini
del turismo mondiale; registra 70 milioni di arrivi internazionali, appena il 5% del miliardo e mezzo totale. Oltretutto le differenze interne sono fortissime. Marocco, Tunisia ed Egitto fanno la parte del leone e sono pienamente integrati nel sistema del turismo mediterraneo (che vale da solo un terzo del movimento mondiale). All’estremità meridionale del continente anche il Sud Africa è molto attivo, declinando nelle proposte sostenibilità e riconciliazione nazionale. Gli altri cinquanta Stati africani si spartiscono le briciole. L’infinita distesa assolata del Sahara, il «sesto oceano», con i suoi dieci milioni di chilometri quadrati, è una barriera che da sempre separa storie e destini. Nell’Africa centrale e meridionale per lungo tempo hanno prevalso forme tradizionali di turismo, introdotte al tempo della dominazione coloniale: per esempio safari e visite ai parchi
Passeggiate svizzere
La Pierre-aux-Dames a Ginevra
Un megalite astronomico, scolpito con quattro figure femminili, da tempo vive la sua vita nella corte interna del Musée d’art et d’histoire di Ginevra. I cui scaloni, due gradini per volta, tanto per, scendo una tarda mattina verso la metà di luglio. Chissà quante Parisiennes fumate qui, nella pausa delle lezioni di storia dell’arte, senza mai averci fatto caso a questo masso erratico di micascisto di quattromilacinquecento anni avanti Cristo che ora accarezzo. Testa sulle nuvole, distratto da altro, non avevo mai neanche badato alla pietra di Savonnières, un calcare oolitico della Lorena utilizzato per tutto il museo in stile Beaux-Arts, opera di Marc Camoletti del 1910, il cui colore varia, grossomodo, dal beige al color crema di caffè. Né ricordavo la fontana in mezzo con bimbo e coccodrillo. Approdata qui nella primavera del 1942, la misteriosissima Pierre-aux-Dames
– trasportata dal Parc des Bastions su un carro trainato da sette cavalli – è situata sulla ghiaia, a cielo aperto, sul limitare dei portici dove sono collocate altre pietre come un altare con iscrizioni dedicate a Mitra. Waldemar Deonna (1880-1959), direttore di questo museo per un trentennio, rinnovatore degli studi di archeologia greca con L’archéologie, sa valeur, ses méthodes (1912), fine specialista di antiche credenze e le loro rappresentazioni è l’autore, tra l’altro – oltre al capolavoro postumo Il simbolismo dell’occhio (1965) spicca un libro su una medium che ha raccontato la vita su Marte tra arte e subcosciente – di Pierres sculptées de la vielle Genève (1929) e l’artefice della sua entrata in scena qui: a far parte della collezione di lapidaires. Sul numero ventuno della rivista «Genava» fondata da Deonna stesso, i cui articoli si fregiano della grazia di capolettere figurate co-
Sport in Azione
nazionali. Al di fuori di questi percorsi consolidati s’intravede ora qualche timido segnale di nuovi interessi, ma tutto o quasi è da scoprire. Per esempio cosa sapete di Accra? Poco o nulla, temo. Eppure nel 2023 Lonely Planet ha incluso la capitale del Ghana tra le mete di tendenza per la sua vita notturna, lo shopping, la gastronomia, la musica, la moda, l’arte e una vivace subcultura legata a surf e skateboard. Quest’anno invece si parla molto del Benin. Il piccolo Paese dell’Africa occidentale conserva le memorie dell’antico Regno del Dahomey, con le sue donne guerriere e i palazzi della storica capitale Abomey. Inoltre il Benin è la patria spirituale del vudù, la misteriosa religione sincretica praticata ad Haiti dagli schiavi africani. Il più importante Festival del vudù si svolge a gennaio nella regione di Ouidah. Ma si può visitare anche Ganvié, gigante-
sco villaggio su palafitte costruito nel lago Nokoué. Dall’altra parte del Continente la costa swahili della Tanzania accoglie da millenni i viaggiatori, sospinti lungo le rotte commerciali create dal soffio dei monsoni. Qui, dove i nativi pescano su ngalawa di legno (tradizionali imbarcazioni a vela con bilancieri) accanto ai traghetti ad alta velocità, è particolarmente evidente la caratteristica mescolanza di tradizione e modernità.
L’Africa è pronta; trasporti e ospitalità sono già ben sviluppati, si tratta semmai di misurarsi con alcune resistenze psicologiche. Per esempio le vaccinazioni. Nell’Africa subsahariana sono generalmente raccomandate quelle contro febbre gialla, epatite, febbre tifoide, tetano, meningite, rabbia, colera, oltre a misure di profilassi per la malaria. L’elenco è abbastanza impressionante ma nella pratica tutte
queste misure non sono sempre necessarie, specie se si viaggia nelle grandi città, e comunque il fastidio si riduce a poca cosa. Pesa di più un’immagine del Continente largamente superata, troppo dipendente dalle migrazioni. In questa prospettiva l’Africa sarebbe solo una terra povera, arida, sconvolta da guerre e distruzioni, dalla quale tutti vogliono fuggire. Niente di più falso. Per cominciare l’Africa ha vastissimi suoli coltivabili (non sempre ben sfruttati). L’economia è vivace, in rapida trasformazione. Inoltre la violenza politica è in diminuzione; a partire dagli anni Novanta del secolo scorso sono sempre più frequenti elezioni democratiche dove si confrontano partiti diversi. E due Paesi, Etiopia e Tanzania, sono guidati da donne. È tempo insomma di superare molti luoghi comuni; anche per questo viaggiamo.
me i manoscritti miniati, scrive a proposito del suo trasferimento, per via di «licheni funesti», dal parco – dove era stata piazzata all’ombra degli ippocastani nel 1872 – alla corte del museo. Dove ora arretro, per focalizzare come meglio posso, le sfuggenti figure scolpite che Deonna identifica con un trio di matrone gallo-romane e un adorante. Raffigurate sempre in tre e sempre con qualcosa in mano tipo canestre di frutta o pane – come combacia aguzzando la vista a cogliere le mani giunte in grembo a tenere qualcosa cancellato dal tempo ma poco importa perché così ne specifica il carattere astratto – sono Dee della fertilità terrestre. Il loro ruolo funerario coinciderebbe anche con quello che trovarono sepolto ai piedi del megalite, in origine situato a fianco della strada tra Troinex e Bossey, cinque chilometri circa da qui. Il primo a parlare di questo mega-
Pierluigi Tami e la gatta frettolosa
Immagino che il direttore delle squadre nazionali svizzere di calcio conosca i precetti della saggezza popolare. Del resto una squadra di gattini ciechi, come potrebbe centrare la porta? Lo scorso autunno, la Nazionale rossocrociata aveva concluso l’agevolissimo girone di qualificazione agli Europei, con una serie imbarazzante di pareggi e sconfitte contro avversari palesemente inferiori. Da più parti si era invocato l’esonero del CT Murat Yakin. Pier Tami si era preso del tempo per riflettere, e per maturare l’idea che la Svizzera avrebbe affrontato la rassegna continentale con lo stesso condottiero. Questa decisione, unitamente all’inserimento nello staff di Giorgio Contini, è stata probabilmente la chiave di volta del cammino rossocrociato in Germania. La fiducia ottenuta e la condivisione delle responsabilità hanno verosimilmente rinforzato l’autostima di Yakin. Da allora le ha azzeccate (quasi) tutte: umanamente e tatticamente.
Sia pure senza snaturarsi, ha persino modificato il suo linguaggio del corpo. I sorrisi, gli abbracci, la gestualità pacata e nel contempo empatica nei confronti dei suoi ragazzi, le sfilate sotto la curva per applaudire i fans prima di ogni sfida, ce lo hanno fatto sentire più amico.
«Azione» si stampa il venerdì, perciò mentre scrivo non so chi – tra Spagna e Inghilterra – avrà alzato al cielo la Coppa. Avremmo potuto esserci noi. Non sarebbe stato uno scandalo. Sappiamo che nel calcio, spesso, il caso e i dettagli fanno la differenza. Come quei due centimetri che, contro gli inglesi, a un amen dal fischio finale, avrebbero potuto consentire al corner calciato da Shaqiri di finire in rete, invece di stamparsi sull’incrocio dei pali. O come la borraccia sulla quale il portiere britannico aveva segnato come e dove i rossocrociati calciano solitamente i rigori. Nel 1994, il difensore colombiano An-
lite di più di tre tonnellate e le sue damigelle cesellate alla bell’e meglio che adesso mi ricordano i volti come velati o in bozzolo di Medardo Rosso, è stato, in esilio da Parigi per un lustro da queste parti, l’erudito-chansonnier Eusèbe Salverte. In Notice sur quelques monuments anciens situés dans les environs de Genève (1819) studia con cura il masso erratico di culto che aveva come compagno un menhir, oggi scomparso, determinandone la sua funzione astronomica: misurare le stagioni. Le quattro figure sarebbero la personificazione delle quattro stagioni. Al contempo, riporta una storia raccolta nelle sue peregrinazioni in zona: le donne scolpite sono quattro donne amanti dello stesso uomo sciupafemmine che le abbandona, una dopo l’altra, e muoiono così di crepacuore. In realtà, anni dopo, gli scavi dell’archeologo cantonale Louis Blondel – il quale
approfondirà attraverso delle misurazioni sul campo e calcoli matematici riguardo le linee solstiziali, equinoziali eccetera, la sua appartenenza a un insieme megalitico del culto solare risalente all’età del bronzo – riportano alla luce i resti di quattro donne con crani fracassati.
Rapito da una venatura minerale rossastra sul masso errante suo malgrado, tocco il filone di granato che significa, dicono, coraggio, volontà, purificazione, conquista. In Brasile, a quanto pare, il granato di queste pietre micascistiche, è considerato il sangue della terra e responsabile della fertilità del suolo. Matrone, amanti, quattro stagioni, per la Pierre-aux-Dames (387 m) ci mancavano le fate, ipotizzate da Jean-Daniel Blavignac nel 1847: donne invisibili, potenze meravigliose, nelle loro mani dovrebbe essere di più il nostro destino.
drés Escobar fu assassinato al rientro in patria, per aver siglato l’autorete che aveva sancito l’eliminazione dei Cafeteros dal Mondiale statunitense. Il 6 luglio scorso, a nessuno, in tribuna e a casa, è venuto in mente di crocifiggere Manuel Akanji per l’errore decisivo dagli undici metri. Tutti se lo sarebbero stracoccolato, come hanno effettivamente fatto compagni e avversari sul campo. Non solo perché il centrale del Manchester City è stato uno dei migliori sull’arco di tutta la manifestazione. Ma soprattutto perché tristezza e frustrazione hanno presto lasciato il posto a gratitudine e consapevolezza. Per la prima volta nella storia, i nostri calciatori hanno saputo dare sostanza ai nostri sogni. Mai come nelle sfide contro Germania, Italia e Inghilterra abbiamo percepito che fra le grandi c’è anche la piccola Svizzera. Senza retorica e senza enfasi. Semplicemente perché sul campo è emersa la nostra capacità di dettare i ritmi e le regole del gioco. Un autentico ribaltone. Eravamo abituati a subire la tecnica, la qualità e il carisma dei nostri avversari più blasonati. Ci siamo scoperti padroni del campo. Ci siamo goduti lo spettacolo proposto da una Nazionale che ha saputo proporre una leadership condivisa. Senza stelle luminose come Bellingham o Mbappé, i nostri ragazzi hanno agito come un gruppo coeso e solidale. Sommer, Akanji, Rodriguez, Shaqiri, Freuler, Schär, Widmer e capitan Xhaka sono la vecchia guardia che ha messo in campo esperienza e ha offerto stabilità. Alcuni di loro, probabilmente, non affronteranno la campagna che porterà ai Mondiali del 2026 in Canada, Messico e Stati Uniti. Alcuni invece saranno l’anello di congiunzione tra il vecchio e il nuovo corso. È fondamentale che il futuro gruppo non perda serenità, coesione, fierezza, fiducia e consapevolezza dei propri mezzi. Dovrà tenere sem-
pre ben presente che su cinque partite, l’unica sconfitta è arrivata ai rigori, dopo aver fatto tremare l’Inghilterra per 120 minuti. Per tre settimane, i ragazzi di Murat Yakin hanno offerto un contributo importante alla coesione nazionale. Le polemiche sul Salmo, sui passaporti freschi di firma, sulle origini e sui colori della pelle, sembravano confinate a un passato remoto. In quest’epoca in cui la divisione ha spesso la meglio sull’aggregazione, è stata una boccata di ossigeno. Questo concetto lo dovremmo tuttavia spiegare anche ai buontemponi che, in occasione della sfida contro l’Italia, hanno esposto la scritta: «Lasciateci vincere, vi daremo il Ticino». Ma anche questo è un dettaglio. Molto probabilmente avrà fatto rigirare Napoleone Bonaparte nella sua tomba parigina, ma rimane pur sempre un dettaglio, che non può scalfire l’essenza della nostra Willensnation
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ATTUALITÀ
L’Alleanza atlantica compie 75 anni
Il vertice Nato di Washington diventa un momento di riflessione sul presente e sul passato dell’organizzazione
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Parlare di pace in tempo di guerra Mentre le atrocità continuano, l’evento «It’s time» raduna israeliani e palestinesi che sognano un futuro diverso
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Per gli asili nido non ci sono soldi Una Commissione del Consiglio degli Stati affossa il pacchetto da 770 milioni di franchi a favore della conciliabilità previsto dal Nazionale
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Cosa ci aspetta dopo il voto francese
Prospettive ◆ L’incertezza politica regna sovrana, la posizione di Emmanuel Macron si è indebolita sul piano internazionale e l’estrema destra potrebbe continuare a progredire nei prossimi anni
Le elezioni legislative francesi hanno riscontrato un grande interesse sia sul piano interno che un po’ ovunque in Europa. Il tema centrale è stato il possibile arrivo al potere dell’estrema destra guidata da Marine Le Pen. Due francesi su tre hanno detto di no a questa possibilità, seguendo le indicazioni di voto di tutti i partiti repubblicani, ridando vita a quello che in Francia viene chiamato il «barrage républicain» (blocco repubblicano), smentendo tutti i sondaggi e generando una vera sorpresa elettorale. Che cosa succederà ora? Quale sarà il futuro Governo? Sono domande alle quali non è stata data ancora una risposta chiara. Dalla nuova assemblea non emerge una maggioranza politica in grado di assumere le redini del potere. Vi sono tre diversi blocchi, i cui membri per anni si sono opposti, criticati e insultati, e che oggi hanno una forza elettorale analoga.
La sinistra, con il Nuovo fronte popolare, è arrivata in testa e rivendica il diritto di governare, applicando il suo programma elettorale, che prevede la pensione a 60 anni, un consistente aumento dei salari ed il blocco dei prezzi delle principali derrate alimentari. Gli altri due blocchi si sono dichiarati pronti a votare una mozione di sfiducia contro un Governo di sinistra, minoritario, che in realtà può contare solo su un terzo dei membri dell’Assemblea. Negli altri Paesi d’Europa una simile situazione verrebbe affrontata cercando di raggiungere un’intesa, un compromesso, tra più partiti. È quanto è successo, per esempio, in Germania. Ci sono voluti più mesi prima di poter arrivare ad un programma di Governo tra i socialdemocratici, i liberali e i verdi. In Francia non vige la cultura politica del compromesso. Le istituzioni della Quinta Repubblica assegnano ampi poteri al presidente, che nomina un Governo che di solito può appoggiarsi su una maggioranza parlamentare assoluta, o su una maggioranza relativa forte come è successo negli ultimi due anni. Sono scenari, però, che nella situazione attuale appaiono molto difficili da applicare. Per queste ragioni sono in corso numerose trattative, dalle quali emergono varie ipotesi. Dalla costituzione di maggioranze parlamentari per progetti concreti, alla formazione di un nuovo blocco centrale, alla definizione di un’intesa minima di governo per la durata di un anno. Molto, però, dipenderà dal primo ministro che il presidente Macron nominerà. La personalità scelta indicherà la via che il presidente intende seguire, ossia se accetta di nominare un Governo di sinistra, se preferisce far capo alle forze moderate dell’Assemblea,
o se sceglie un’altra strada. La situazione, comunque, appare così confusa che per uscirne probabilmente ci vorrà molto tempo; alcuni osservatori parlano di alcune settimane, altri addirittura di più mesi.
L’aver impedito l’arrivo al potere dell’estrema destra non significa però che questa forza politica sia stata emarginata
L’aver impedito l’arrivo al potere dell’estrema destra non significa però che questa forza politica sia stata emarginata. Il Rassemblement national di Marine Le Pen ha aumentato il numero dei suoi deputati. Nel 2017 ne conquistò 8, nel 2022 salì a 89 ed oggi vanta 143 deputati. È il terzo gruppo in un’assemblea che conta 577 membri. Per di più è il partito politico che ha ricevuto più voti popolari con quasi 10 milioni di preferenze. La sua è una progressione regolare, che non va sottovalutata
e che potrebbe continuare nei prossimi anni, facilitando così l’accesso all’Eliseo a Marine Le Pen nelle presidenziali del 2027, quando la leader nazionalista, dopo già tre insuccessi, tenterà la scalata al potere per la quarta volta. Il risultato delle elezioni francesi non ha fatto piacere a Vladimir Putin, che si era schierato a sostegno del Rassemblement national, con un comunicato diffuso dal ministero degli affari esteri russo; né al primo ministro ungherese Viktor Orban, il leader europeo che sostiene Putin e che contesta l’Ue, e nemmeno alla presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni, che dopo il primo turno si era complimentata con il Rassemblement national, ma che è stata silenziosa dopo la diffusione del risultato finale. Nelle altre capitali europee, da Bruxelles a Kiev, da Berlino a Varsavia, da Praga a Madrid, c’è stato un ampio sospiro di sollievo. La maggior parte dei leader europei vede nel Rassemblement national una seria minaccia per la co-
struzione europea, per la forza del legame transatlantico e per la compattezza della famiglia delle democrazie liberali. Teme che la Francia, potenza nucleare, dotata di un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu, Paese fondatore dell’Ue e pilastro del dialogo inter-europeo, possa non più svolgere il suo ruolo storico tra le Nazioni e non più aderire alle sue alleanze ed ai suoi doveri di solidarietà. Anche sul piano europeo l’estrema destra è lungi dall’essere emarginata. Alle ultime elezioni del Parlamento europeo non ha ottenuto il successo che i sondaggi prevedevano, ma ha aumentato il numero dei suoi deputati. E adesso è riuscita a creare un gruppo parlamentare consistente, comprendente deputati francesi, spagnoli, italiani, ungheresi, olandesi, belgi e di altre nazionalità. Sono parlamentari che intrattengono rapporti di amicizia con il Cremlino e che cercheranno di distruggere dall’interno l’Unione europea. I dirigenti europei e quelli delle principa-
li democrazie dovranno quindi tener conto di questa presenza ingombrante e dei risultati negativi che potrebbero emergere. Dovranno per esempio trovare il modo d’impedire che la presidenza semestrale dell’Ue venga assunta da un Paese contrario all’Unione ed il cui leader, Viktor Orban, intraprenda dei viaggi e delle missioni personali, presentandosi come rappresentante dell’Unione europea. L’incertezza politica sorta dopo le elezioni francesi rende infine più debole la posizione di Macron sul piano internazionale. È una conseguenza negativa per la Francia, ma anche per l’Ue, visto il ruolo centrale che Parigi ha sempre svolto a livello europeo. Dal canto suo, l’Unione non ha ancora definitivamente rinnovato le sue autorità e non può contare sugli impulsi positivi provenienti dall’asse franco-tedesco. L’asse è sempre stato determinante nello sviluppo dell’Ue, ma da parecchi mesi è in crisi. L’estate, insomma, potrebbe riservarci qualche sorpresa e altri forti momenti politici.
Molto dipende dal primo ministro che il presidente Macron nominerà. (Keystone)
Marzio Rigonalli
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L’Alleanza atlantica di fronte a un futuro incerto
Washington ◆ I festeggiamenti per i 75 anni della Nato, culminati nel vertice di settimana scorsa, rappresentano un momento di riflessione sul presente e sul passato dell’organizzazione
Alfredo Venturi
«Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse (…) deve essere considerato come un attacco diretto contro tutte le parti (…) ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva (…) assisterà la parte o le parti così attaccate attuando (…) tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata». Così l’articolo 5 del Trattato atlantico, elemento cruciale dell’Alleanza ancora al centro della scena internazionale, che in questo periodo compie tre quarti di secolo. Fu infatti il 4 aprile del 1949 che i dodici fondatori della Nato firmarono a Washington il Patto atlantico. Oggi i membri dell’alleanza sono trentadue. Nell’occasione celebrativa, culminata nel vertice di Washington di settimana scorsa, si è messo in evidenza come l’Alleanza transatlantica, legando le sorti dell’Europa occidentale con quelle degli Stati Uniti e del Canada, abbia dominato la scena mondiale per tre quarti di secolo. Oggi è alle prese con la tremenda attualità della guerra ucraina, che nei confronti della Nato ha esercitato una duplice contrastante funzione, una singolare contrapposizione di forze centrifughe e centripete.
Forze contrastanti
Da una parte la Turchia e l’Ungheria, i due alleati più recalcitranti. Il primo, che nell’Alleanza riveste il ruolo di massima potenza convenzionale, sempre più sensibile al fascino orientaleggiante dell’impero ottomano, il secondo attestato su una posizione filo-russa in netto contrasto con l’attuale ortodossia atlantica. Dall’altra parte i due Paesi, prima la Finlandia poi la Svezia, che proprio la crisi ucraina ha indotto a superare radicate posizioni neutraliste per entrare a loro volta nell’Alleanza. Dalla originaria connotazione anti-sovietica, la Nato è passata a una posizione anti-russa che ha trovato le sue ragioni nell’occupazione
della Crimea del 2014 e in tutto quello che è seguito.
Quella annessione diede origine a una serie di pressioni e provocazioni culminate nell’«operazione militare speciale» ordinata da Mosca all’interno del territorio ucraino. Le truppe russe mossero in difesa di una minoranza russofona e russofila: una volta ancora era esplosa la contraddizione fra due principi cardine delle relazioni internazionali: il diritto all’autodeterminazione dei popoli e l’inviolabilità delle frontiere. Intanto due apparati propagandistici contrapposti, e spesso ugualmente inattendibili, presero a difendere le indifendibili ragioni della guerra.
Gli alleati di ieri erano da tempo ai ferri corti. Nella stagione seguita alla sconfitta del nazismo l’alleanza fra l’Occidente e l’Unione sovietica era caduta in pezzi, mentre l’Armata rossa vittoriosa fra le macerie di Berlino non nascondeva l’ambizione di aggregare altri Paesi, dopo quelli orientali occupati durante la marcia sulla capi-
tale di Hitler, in un disegno egemonico che parve trasfigurare l’Europa in una propaggine del Continente asiatico. Un sistema sovietico dal Pacifico all’Atlantico, dalle isole Aleutine fino alle spiagge normanne che videro lo sbarco dell’armata anglo-americana del generale Eisenhower?
Fu proprio questa prospettiva, vera o presunta, a tenere a battesimo la Nato, non a caso ostacolata proprio dai partiti comunisti fedeli a Mosca, particolarmente attivi in Paesi come l’Italia e la Francia. Secondo una celebre battuta di quegli anni, la scommessa consisteva nel tenere l’America dentro, l’Unione sovietica fuori, la Germania sotto. Mosca reagì alla nascita del gruppo transatlantico riunendo in un’alleanza parallela, il Patto di Varsavia, i cosiddetti satelliti dell’Europa orientale.
E così prese il via il lungo cammino della Guerra fredda, destinato a durare fino alla caduta del Muro di Berlino e al collasso dell’Unione sovietica. A quel punto la questione Nato si pose
in termini di pura e semplice sopravvivenza. L’Alleanza doveva scomparire con la fine del nemico sovietico? Fu proprio Mosca, avvicinandosi al gruppo ostile degli anni precedenti fino a non escludere l’ipotesi dell’adesione, a decretarne il rilancio. Si tennero persino esercitazioni militari congiunte degli ex nemici. Il famoso articolo 5 fu invocato una volta sola. Avvenne un decennio dopo la scomparsa di quello che era stato il nemico della Nato, in un certo senso la sua ragion d’essere. Non fu un Paese minore, secondo lo scenario più volte evocato nelle esercitazioni, a ricorrere alla clausola difensiva ricevendo l’apporto decisivo della superpotenza americana. Fu al contrario proprio l’America, attaccata nella sua metropoli più significativa dal terrorismo islamico con la strage delle Torri gemelle, a coinvolgere gli alleati nella lotta contro i nuovi nemici. Di fatto, durante la guerra fredda la Nato esercitò le sue funzioni più che altro mettendo in atto massicce esercitazioni,
con trasporti di truppe e armamenti da un Continente all’altro, che la controparte sovietica interpretava come provocatorie esibizioni muscolari.
Afghanistan: una pagina nera
Solo dopo la fine dell’Urss all’inizio degli anni Novanta l’Alleanza doveva scendere in campo, dapprima nella ex Jugoslavia e più tardi, nel 2005, assumendo in Afghanistan il comando delle Isaf (International security assistance forces): una missione delle Nazioni unite di appoggio al governo di Kabul sfidato dai talebani e da Al-Qaeda. Dieci anni più tardi una nuova missione, Resolute support, concluse con il ritiro delle truppe il coinvolgimento dell’alleanza, e dell’Occidente, in Afghanistan. Fu una fuga, una sconfitta, una pagina nera. Ormai l’orizzonte atlantico si era spostato verso i confini della Russia, con l’adesione all’Alleanza del blocco che aveva costituito il Patto di Varsavia e delle tre repubbliche baltiche che avevano riscattato la loro indipendenza dopo decenni di occupazione sovietica. La Russia, che pure a suo tempo non aveva escluso la clamorosa ipotesi dell’ingresso dell’Alleanza, ne prese le distanze fino a considerarla il nemico per eccellenza con l’avvio dell’«operazione militare speciale». Fin dal 2006 l’Ucraina ha avviato la procedura di adesione. Accantonato quattro anni dopo dal Governo di Viktor Janukovyc, il progetto ha ripreso vigore dopo che nel 2010 è salito alla presidenza Volodymyr Zelenskyj. Mosca è decisamente ostile, considera infatti in termini di aggressione ogni avvicinamento della Nato ai suoi confini. L’Alleanza considera l’accesso di Kiev «irreversibile» ma lo rinvia alle calende greche. Intanto 77 ucraini su cento, secondo un sondaggio d’opinione, coltivano il sogno più o meno proibito di diventare il trentatreesimo alleato atlantico.
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Joe Biden parla al vertice Nato di Washington, il 10 luglio scorso. (Keystone)
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Parlare di pace in tempo di guerra
Medio Oriente ◆ Mentre le atrocità continuano, l’evento «It’s time» raduna israeliani e palestinesi che sognano un futuro diverso Sarah Parenzo
Sono trascorsi più di nove mesi dal famigerato 7 ottobre, ma Israele e Hamas non sono ancora riusciti a partorire un accordo di cessate-il-fuoco che garantisca il ritorno degli ostaggi israeliani e, indirettamente, anche una tregua sul fronte nord dove la situazione si fa sempre più drammatica. In Israele si punta come sempre il dito contro Netanyahu, accusato di voler protrarre la guerra per rimandare la resa dei conti, magari sperando nella vittoria di Trump. Ma la realtà è che questo Governo di pericolosi estremisti e le sue politiche sembrano sempre in vantaggio, nonostante lo stato oggettivo di crisi in cui versa il Paese o, forse, grazie ad esso. Così, mentre a Gaza continuano a morire civili innocenti, in Israele la riforma giudiziaria avanza, gli insediamenti nelle colonie si moltiplicano come mai prima d’ora, i soldati che tornano vivi si confrontano con trauma e mutilazioni, i contrasti tra sionisti e ultraortodossi si vanno intensificando intorno alla questione della leva obbligatoria, e gli israeliani che sognano una vacanza all’estero per prendere una pausa dall’inferno si vedono sempre più spesso respingere le prenotazioni. Il 7 luglio, poi, doveva essere una giornata chiave per le proteste, ma l’affluenza non è stata quella auspicata dai promotori, certamente non proporzionale al pericolo nel quale versa il Paese che sta assumendo le sembianze di una dittatura.
Se gli orizzonti sono cupi, c’è tuttavia ancora posto per l’ottimismo. Lo confermano le oltre seimila persone – in prevalenza ebrei israeliani con una minoranza di palestinesi – che il primo luglio scorso si sono radunate all’Arena Menorah di Tel Aviv per prendere parte a una grande conferenza di pace dal titolo «It’s time», è il momento. Decine di organizzazioni per i diritti umani hanno aderito all’iniziativa promossa dall’imprenditore israeliano Maoz Inon e dal pacifista palestinese Aziz Abu Sarah che conducono insieme una campagna contro la vendetta che lo scorso maggio li ha portati ad incontrare anche il Papa. Inon è diventato attivista dopo che i suoi genitori sono stati trucidati da Hamas il 7 ottobre nel kibbutz Netiv HaAsara. Sul palco si sono alternati artisti, politici e intellettuali, oratori ebrei e palestinesi, laici e religiosi, parenti delle vittime di entrambe le parti e l’ex ostaggio Liat Arzieli, in quello che poteva sembrare un primo goffo tentativo di rianimare atmosfere in stile Oslo, come conferma la scelta della canzone Song for peace, l’ultima cantata da Rabin prima della sua morte.
Coraggiosa la richiesta di riavvio delle trattative, preziose le testimonianze di palestinesi del ’48 sulla politica israeliana di separazione geografica dei membri delle famiglie e confortanti le descrizioni della risoluzione pacifica di lunghi conflit-
ti sanguinosi come nel caso del Sud Africa e dell’Irlanda del Nord. Molto toccante anche l’intervento di Ayman Odeh, leader del partito Hadash e della Lista Unita, uno dei soli quattro membri del Parlamento presenti. Ma nel complesso l’evento, trasmesso anche in diretta streaming, si è retto su slogan e messaggi ambigui e ben lontani da una soluzione politica concreta, benché gli organizzatori abbiano assicurato di starci lavorando. Nonostante la presenza di personalità note, come lo studioso Yuval Noah Arari, la cantante Achinoam Nini (Noa) e l’ex presidente della Knesset Avraham Burg, i giornalisti israeliani non hanno quasi degnato la serata di copertura, liquidandola nella mi-
gliore delle ipotesi con un trafiletto, a dimostrazione di quanto sia ancora estremamente impopolare parlare di pace in tempo di guerra. Sognare è lecito, ma l’assenza di Yair Golan, leader del nuovo gruppo democratico, recente prodotto della fusione dei partiti Avodà e Meretz, dimostra quanto il centro sinistra israeliano sia ancora lontano dal tradire la divisa militare. Come ha sottolineato Ayman Odeh nel suo discorso, infatti, il principale ostacolo alla fine dell’occupazione palestinese è proprio l’opinione pubblica israeliana, nonostante l’interesse per una vita in sicurezza dovrebbe essere reciproco. Il buon funzionamento della democrazia gioca un ruolo nella rego-
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lazione degli impulsi più profondi e delle paure dell’individuo. In assenza di un regime democratico si registra dunque un aumento degli impulsi distruttivi e vendicativi, e delle tendenze tiranniche. Per tale ragione lo psichiatra, psicoanalista e ricercatore israeliano Eran Rolnik ha sottolineato l’importanza terapeutica a livello individuale della partecipazione alle proteste contro il Governo. In un’ottica simile, potremmo affermare che l’aspetto più riuscito dell’incontro «It’s time» è stato proprio l’effetto terapeutico sortito sui partecipanti. Migliaia di persone hanno ripetuto come un mantra nel corso di tre ore di desiderare una soluzione politica e una partnership, di voler vivere insieme in pace, uguaglianza e giustizia. Hanno cantato, danzato e soprattutto pianto di commozione, purificandosi finalmente dalle tossine di uno spazio pubblico nel quale da troppo tempo si respirano solo tensione, paura e aggressività, un clima dove l’occupazione, l’assedio e i crimini di guerra non vengono neppure menzionati dai principali media. Non si tratta di buoni o cattivi, semplicemente vivere costantemente in dissonanza rispetto alle persone che ti circondano comporta un prezzo non indifferente a carico del sistema nervoso. Per rimanere umani nell’Israele di oggi bisognerebbe poter usufruire di una terapia di gruppo come questa, almeno una volta al mese.
Nella Striscia di Gaza soffrono e muoiono civili innocenti. (Keystone)
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Politica famigliare, una brusca frenata
Svizzera ◆ Per gli asili nido non ci sono i soldi, afferma la Commissione che si occupa di socialità del Consiglio degli Stati: il pacchetto da 770 milioni di franchi previsto dal Nazionale per favorire la conciliabilità è da affossare
Roberto Porta
Quella che state per leggere può senza ombra di dubbio essere chiamata la «cronaca di un affossamento». E come ogni cronaca che si rispetti ha una data di inizio: l’8 dicembre del 2022. Quel giorno a Berna la Commissione del Consiglio nazionale che si occupa di sicurezza sociale approvò un pacchetto da 770 milioni di franchi per agevolare l’accesso agli asili nido, con lo scopo di migliorare la conciliabilità tra compiti famigliari e impegni professionali, e facilitare così il ritorno al lavoro delle neo-mamme: alla nascita di un figlio sono spesso loro a prendere un congedo più o meno lungo per poi ricominciare un’attività lavorativa. Le statistiche lo dicono da tempo, la retta degli asili nido nel nostro Paese è decisamente onerosa, visto che è la più cara in Europa e che per pagarla i genitori devono impegnare in media un quarto del loro bilancio famigliare. La legge forgiata nel dicembre di due anni fa mirava a ridurre del 20% questa fattura. Si trattava di un intervento su scala nazionale in un ambito però di competenza cantonale, con un mosaico composto da 26 sistemi diversi e in cui circa il 90% delle strutture di accoglienza dei bambini si trova nelle mani di operatori privati.
La retta degli asili nido nel nostro Paese è la più cara in Europa, per pagarla i genitori devono impegnare in media un quarto del loro bilancio famigliare
Successivamente, nel marzo del 2023, l’argomento approdò in Consiglio nazionale dove una maggioranza di centro-sinistra diede il proprio nullaosta a questo investimento annuale di 770 milioni, con aumenti previsti per gli anni successivi fino a sfiorare il miliardo di franchi. Una cifra mai vista nel settore della prima infanzia. Contrari l’UDC, che da sempre ritiene che la famiglia sia una questione privata, e con essa anche l’accudimento dei figli, e il Partito liberale radicale,
che invece sostiene che in questo ambito si debba rispettare la competenza cantonale; per il PLR il federalismo va onorato anche quando si tratta di asili nido. Da notare che questo progetto aveva ricevuto anche l’appoggio esterno, per nulla scontato, dell’Unione padronale svizzera. A suo dire questa nuova misura permette alle madri di tornare al lavoro con più facilità, di far valere le loro competenze professionali e di risolvere almeno in parte l’ormai cronica carenza di personale nel nostro Paese, riducendo così anche i flussi migratori, in particolare quelli in arrivo dall’Unione europea.
Ma torniamo all’iter parlamentare. La tappa successiva prevedeva il passaggio di questo dossier all’altra Camera del nostro Parlamento, e in prima battuta alla Commissione che agli Stati si occupa di socialità. E qui la musica è cambiata decisamente di tono. Per i senatori di questa commissione la Confederazione non deve assumersi i costi di questo pacchetto, visto che rispetto a due anni fa il nostro Paese si trova confrontato con una serie di impegni supplementari dovuti in particolare all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e a un nuovo quadro geopolitico a livello continentale. In altri termini, l’esercito richiede ora investimenti miliardari e così, anche a causa di altri fattori, i conti della Confederazione sono sempre più in sofferenza. Per gli asili nido quindi non ci sono i soldi, quanto previsto dal Consiglio Nazionale è da affossare. Per questa Commissione del Consiglio degli Stati tocca invece ai datori di lavoro farsi carico di questo onere, visto che saranno loro a beneficiarne, con la possibile assunzione di nuovi dipendenti. Questo sussidio dovrà essere finanziato attraverso un aumento degli assegni famigliari, già oggi a carico degli imprenditori per un totale di circa sei miliardi all’anno.
Il pacchetto elaborato dai rappresentanti dei Cantoni si articola su diverse varianti, quella di base prevede un costo annuale di 640 milioni,
ce ne sono poi altre più onerose, fino ad un massimo di quasi un miliardo di franchi. I senatori hanno elaborato anche altri modelli in cui anche la Confederazione viene chiamata a finanziare parzialmente questo nuovo investimento sociale e altre ancora in cui si prevede di aumentare le deduzioni salariali e quindi di chiamare alla cassa anche i lavoratori dipendenti. Insomma, a questa commissione non è di certo mancata la fantasia e visto che tra i tredici senatori che la compongono non si trovava una soluzione di compromesso si è persino deciso di aprire una procedura di consultazione tra i partiti, i Cantoni e le varie associazioni che si muovono in questo ambito. Una procedura che si è conclusa un mese fa e dopo la pausa estiva si dovranno valutare le diverse prese di posizione ricevute. Fin da ora è comunque chiaro che la maggioranza dei membri dell’Unione padronale svizzera non è intenzionata a finanziare da sola questo nuovo investimento in favore degli asili nido.
È semmai disposta a farlo se anche la Confederazione, i Cantoni e i dipendenti accettassero pure loro di passare alla cassa. Va detto che in questo ambito la competenza cantonale, e anche comunale, ha dato vita negli anni a diversi sistemi di finanziamento e che in vari Cantoni, in Romandia e in Ticino, vi sono già dei modelli misti, in cui vari attori partecipano al finanziamento degli assegni famigliari, che ammontano, lo ricordiamo, ad un minimo di 200 franchi al mese per ogni figlio fino ai 15 anni di età, per poi passare a 250 franchi per i figli in formazione, fino al compimento dei 25 anni. Da diversi anni la Confederazione finanzia già un proprio programma in favore della custodia extra-famigliare dei bambini e proprio nel giugno scorso questo impegno è stato prolungato dal Parlamento fino al 2026, con un sussidio di 50 milioni di franchi. Si tratta di una sorta di soluzione provvisoria che dura da circa vent’anni – «i tempi della politica» a volte possono essere davvero lun-
Sto per partire in vacanza all’estero Quanto denaro contante mi serve?
ghi – in attesa dell’entrata in vigore di una vera e propria legge in materia, quella che si trova ora al vaglio del Parlamento. Nel frattempo, il partito socialista ha lanciato una propria iniziativa popolare su questo tema. Iniziativa che il Governo ha respinto nel giugno scorso, proprio perché la considera troppo onerosa.
Il progetto del PS prevede che i costi per la custodia dei bambini, dai tre mesi di età fino al termine della scolarizzazione di base, non superino il 10% del budget famigliare, con la Confederazione chiamata a intervenire coprendo i 2/3 dei sussidi. I Cantoni devono dal canto loro garantire un adeguato numero di posti a disposizione negli asili nido e in altre strutture extra-scolastiche complementari alla famiglia. Al di là delle discussioni in Parlamento, su una legge pensata anche come contro-progetto a questa iniziativa, sarà dunque il popolo ad avere l’ultima parola. Il ruolo delle mamme, ma in definitiva anche dei padri, alla prova dunque della democrazia diretta.
La consulenza della Banca Migros ◆ Non si può pagare ovunque con la carta, meglio avere sempre con sé dei soldi in valuta locale. L’importo dipende dal tipo di soggiorno
Dal momento che non si può pagare ovunque con la carta, è consigliabile portare sempre con sé dei contanti nella valuta locale. L’importo dipende dal tipo di vacanza prevista: se si tratta di un pacchetto all inclusive, probabilmente servirà meno denaro rispetto a un viaggio «fai da te». A seconda della destinazione, inoltre, il denaro contante non solo è un mezzo di pagamento gradito, ma anche necessario. È quindi bene informarsi in anticipo sul mezzo di pagamento ideale nel Paese di destinazione. La cosa migliore è pianificare in anticipo il budget, considerando le spese aggiuntive che potrebbero derivare da trasporti, alloggio, escursioni, pasti, mance o souvenir. Presso molte banche è possibile ordinare contanti in diverse va-
lute estere e farsele consegnare comodamente a casa. Ordinando i contanti entro le ore 15, la clientela della Banca Migros riceve il denaro già il giorno lavorativo successivo, nei tagli desiderati e a tassi di cambio vantaggiosi.
Meglio avere con sé più di una carta
Oltre al denaro contante conviene portare con sé anche due carte: una di debito e una di credito. Si consiglia di usare in linea di massimo la carta di debito per prelevare contanti ai Bancomat. Sebbene le commissioni siano pari a circa cinque franchi a prelievo, questa opzione è più conveniente rispetto ai prelievi con la car-
ta di credito, per i quali viene spesso addebitata una commissione minima di dieci franchi: a seconda del fornitore, le commissioni di transazione sull’importo prelevato arrivano fino al 4%. Da tenere presente: molte carte di debito possono essere utilizzate in Svizzera e nella maggior parte dei Paesi europei. Se la destinazione è più lontana, occorre far attivare il Paese corrispondente presso la propria banca: la clientela della Banca Migros può farlo comodamente tramite l’app one. La carta di credito invece è il modo migliore per pagare all’estero gli acquisti, i pernottamenti in hotel o l’auto a noleggio. Talvolta la carta di credito è l’unica opzione accettata per pagare questi servizi. Se si è titolari di una seconda carta di credito, me-
glio portarsi in vacanza anche quella. Qualora una carta venga smarrita o bloccata per uso improprio, è comunque possibile usare l’altra. Prima di partire, tra l’altro, è opportuno verificare che il limite attuale sia sufficiente per far fronte alle spese previste.
Consiglio
Con la carta di credito Cumulus all’estero è possibile prelevare due volte l’anno gratuitamente fino a 500 franchi. Inoltre questa carta non prevede commissioni amministrative per le transazioni in valuta estera. Banca Migros Ordinazione di valute estere con consegna direttamente a domicilio.
Sven Illi, consulente alla clientela della Banca Migros.
Per marinare la carne
Se vuoi dare più sapore alle tue grigliate, sia di carne che di verdure, puoi marinare i cibi nella salsa al peperoncino. A tale scopo versa 1-2 cucchiai di salsa al peperoncino (anche di più a seconda del grado di piccantezza desiderato) e sale sugli alimenti da grigliare, mescola bene e lascia insaporire per circa 30 minuti.
Da mescolare
alla salsa cocktail
Trovi i dip per le verdure un po’ noiosi? Puoi dar loro un tocco speciale con della salsa al peperoncino. Ad esempio aggiungendola alla salsa cocktail oppure mescolandola con dello yogurt e del sale.
Preparare il burro alle erbe
Lascia riscaldare il burro acquistato a temperatura ambiente, montalo con il frullatore e unisci un po’ di salsa al peperoncino o peperoncino in fiocchi. Suddividi il burro in porzioni, ad esempio in uno stampo per cubetti di ghiaccio, congelalo e servilo in occasione della tua prossima grigliata.
Sulla frutta
Anche i dessert possono essere piccanti: mischia poca salsa al peperoncino con miele, basilico e olio di arachidi e versa il tutto sull’ananas grigliato. Oppure taglia un mango a fettine sottili e irroralo con una salsa a base di lamponi, salsa al peperoncino, lime e zucchero.
ESPLOSIONE DI GUSTO
Salsa piccante
Più coraggio nell’utilizzare la salsa piccante!
Ami le salse piccanti e vuoi usarle anche sui dolci e nelle insalate? Benissimo!
Per dare un tocco piccante a insalate e minestre
Nel gazpacho estivo di ravanelli, nella minestra di pomodoro fredda, nell’insalata di riso asiatica o nell’insalata di avocado: un goccio di salsa al peperoncino dona un tocco di sapore in più.
Testo: Dinah Leuenberger
Insalata di riso asiatica alle uova Ricetta su migusto.ch
Trio focoso per la dispensa
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Salsa al peperoncino piccante fruttata Fiesta del Sol, media 125 ml, Fr. 4.95
Salsa al peperoncino rosso Fiesta del Sol, extra piccante 200 ml, Fr. 6.50
Il Mercato e la Piazza
Il Ticino tra i Cantoni con più debitori morosi
L’attualità del nostro Paese, come quella di altri, ci propone continui accesi dibattiti sul debito pubblico, ossia sul debito che per volere di Governi e Parlamenti si accumula nella contabilità degli Stati. Quando si tratta di privati invece, di debiti si parla raramente. Di solito, con le statistiche sui miliardari, vengono discussi e pubblicati solo i dati che concernono i loro patrimoni lordi, senza precisare quale potrebbe essere l’ammontare dei loro debiti (anche quando raggiungono livelli spropositati). Eppure, anche presso i privati, i debiti si accumulano. Essi sono di una portata tale da creare una bella differenza tra la sostanza lorda degli individui e la loro sostanza netta. Per farla corta: se è vero che la Svizzera è il Paese dei patrimoni milionari (e miliardari), è pure vero che il nostro Paese è anche quello dei debitori pluri-milionari. A questo punto bisogna precisare che né nella gestione
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aziendale, né in quella dell’economia domestica i debiti, anche di milioni, generano problemi, almeno fino a quando il debitore è in grado di servirli, ossia di pagare gli interessi oppure di rimborsare l’intera somma dovuta. I debiti cominciano a creare difficoltà quando il debitore diventa moroso perché non è più in grado né di pagare gli interessi dovuti né di rimborsare il totale della somma addebitata. Qui vogliamo parlare proprio di quei debitori che non riescono a far fronte ai loro impegni. Stando ai dati pubblicati da Crif, una società zurighese che si occupa della gestione del rischio, alla fine del mese di maggio 2024 si contavano in Svizzera 400’000 persone morose. Da notare che nella statistica di Crif non si contano i debiti ipotecari, né le fatture ancora aperte, o per le quali le aziende creditrici stanno chiedendo solleciti o hanno inviato richiami. I 400’000 indebitati di que-
sta statistica sono debitori escussi che apparentemente non sono in grado di pagare le loro fatture, scadute da tempo. Il dato non è lontano da quello che si può derivare dall’ultima Indagine sui redditi e sulle condizioni di vita, quella del 2021, dell’Ufficio federale di statistica. Questa fonte ufficiale ha rivelato che, a quella data, le persone che non erano in grado di pagare tempestivamente le loro fatture erano in Svizzera circa 600’000. Insomma, secondo queste fonti ci sarebbero nel nostro Paese circa mezzo milione di persone che dormono male perché non sono in grado di pagare le fatture, da tempo scadute. Rischiano quindi di cadere nel vortice dell’indebitamento, vale a dire quello di dover andare a cercare nuovi crediti per poter pagare i debiti in mora, indebitandosi così ancora di più presso banche o strozzini. Sia l’inchiesta della Crif, sia l’indagine dell’Ufficio federale di statistica
Una sconfitta per l’estrema destra francese
Nessuno si aspettava che il Nuovo fronte popolare si affermasse come la prima forza politica in Francia, ma si poteva prevedere che Le Pen e Bardella non avrebbero sfondato al secondo turno delle elezioni legislative. Più che una vittoria della sinistra, si tratta di una secca sconfitta dell’estrema destra. La cultura politica francese è molto diversa da quella italiana. Se è mai esistito, in Italia il fronte repubblicano è crollato nel 1994, quando Berlusconi si alleò con i postfascisti del Movimento sociale e con i separatisti della Lega. In Francia fa più paura l’estrema destra che l’estrema sinistra, perché lì la sinistra l’hanno vissuta. Mitterrand nel 1981 ha portato al governo i comunisti, 8 anni prima che cadesse il Muro di Berlino, e rimase all’Eliseo per 14 anni. Poi i francesi hanno avuto per 5 anni Jospin primo ministro, infine Hollande presidente per altri 5 anni; mentre in Ita-
lia un Governo interamente di sinistra non c’è mai stato. Domenica 7 luglio, in Francia, si è visto che i moderati hanno votato per la sinistra, compresi i candidati più radicali de La France insoumise, e viceversa. Una saldatura del voto moderato e di sinistra che in Italia non c’è mai stata. Marine Le Pen non è più radicale della presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni. Le Pen ha fatto ritirare al secondo turno una candidata di cui era stata diffusa una foto goliardica con un cappello nazista. In Italia chi si è fatto fotografare vestito da nazista è al Governo. Naturalmente non si vota su questo, si vota sull’economia. Però se la sinistra ha scelto di chiamarsi con un nome da anni 30, appunto Nouveau front populaire, un motivo ci sarà. Bisogna ricordare che i francesi sono caratterizzati da una sorta di ipocrisia nazionale: il racconto della vittoria nella Seconda
guerra mondiale, omettendo che loro in realtà davanti a Hitler hanno ceduto, che un largo pezzo della loro classe dirigente si è piegata. C’è stato un eroe nazionale, Charles De Gaulle, che quasi da solo ha salvato la dignità nazionale. Lo stesso Jean-Marie Le Pen ha sempre detto di non considerarsi un erede di Vichy, ha raccontato che a 16 anni lui avrebbe voluto andare con i partigiani. Il discorso nostalgico si concentra più sull’Algeria francese, sull’impero perduto, sull’insofferenza verso l’egemonia tedesca e l’ipertrofia burocratica di Bruxelles. Ma la condanna del fascismo c’è; in Italia no. In Italia la destra è anti-antifascista. Resta comunque un dato: Marine Le Pen, per quanto battuta, è al massimo storico. A spingerla in alto sono stati i temi dell’immigrazione, dell’Europa, dell’impoverimento del ceto medio. L’intuizione di Le Pen è stata che il confronto non è più quello tra destra
consentono poi di localizzare i debitori morosi. L’Ufficio federale di statistica pubblica i dati per grandi regioni; Crif addirittura per Comuni. Ambedue le inchieste convengono nel designare il Ticino come una delle regioni con la quota più elevata di persone indebitate. L’Ufficio federale di statistica, per esempio, nel 2021 calcolava che la quota delle persone che non sono in grado di pagare le proprie fatture era in Ticino pari a circa il 14% della popolazione, ossia a quasi il doppio della media nazionale. L’indagine della Crif ha rivelato che vi sono Comuni in Ticino dove la quota degli indebitati si avvicina addirittura al 20%. Ma perché i ticinesi sono, secondo queste indagini, più malpaga del resto degli svizzeri? Nel cercare di rispondere a una domanda del genere occorre stare attenti a non cadere nelle trappole dei preconcetti e degli stereotipi come quello che tende a considerare le po-
polazioni al sud delle Alpi come più spendaccione e meno previdenti di quelle che vivono al nord delle stesse. L’indagine della Crif ha rivelato che le quote alte di debitori si ritrovano in comuni e quartieri con quote alte di disoccupati e di persone che vivono dell’aiuto sociale. Positivo è comunque che, nel corso degli ultimi anni, la quota dei debitori morosi, come quella dei cittadini che devono far ricorso all’aiuto sociale, sono diminuite. La banca dati della Crif informa anche sulla composizione della popolazione dei morosi. Così si viene a sapere che, ad eccezioni delle classi di età più giovani dove la quota dei morosi è uguale per uomini e donne, 2/3 degli indebitati sono uomini e solo un terzo donne. Si viene anche a sapere che, contrariamente a quanto normalmente si pensa, la quota più elevata di morosi non si ritrova tra i giovani, ma tra le persone tra i 38 e i 41 anni.
e sinistra, ma tra il sopra e il sotto, tra i benestanti e chi è in difficoltà. Ma non è bastato. La maggioranza dei francesi ha capito che l’estrema destra non è la soluzione, che lucra sulle sofferenze della povera gente ma finirebbe per aggravarle. Su questo si giocheranno le prossime presidenziali. Ora nascerà in Parlamento un Governo composto dai macroniani, dai socialisti e da qualche repubblicano. Resta da capire chi sarà il candidato di questa maggioranza fra tre anni. Serve individuare una figura che prenda un voto in più di Mélenchon al primo turno e uno in più di Marine Le Pen al secondo turno. Nella consapevolezza che sia Mélenchon sia Le Pen punteranno a rimanere all’opposizione, per poter capitalizzare al massimo lo scontento popolare. In Italia si è guardato al Nuovo fronte popolare con grande entusiasmo. Ma in questo modo la sinistra prepara una sconfitta storica alle prossime politi-
che. Ovviamente, l’alleanza contro la destra avrà bisogno anche di una forza di centro, che dia rappresentanza ai sindaci, alle forze civiche, ai cattolici, ai tanti italiani che oggi non si riconoscono in un partito. Ma non si tratta solo di aggiungere una gamba a un tavolino traballante. Si tratta di individuare un programma, un linguaggio che non solo non spaventi il ceto medio, ma lo rappresenti, lo protegga, gli dia una prospettiva. Il voto inglese, dove hanno vinto i laburisti, e quello francese confermano una novità: per la prima volta da molti anni i giovani guardano con interesse a sinistra. Cercano diritti e valori in linea con il loro stile di vita, che non è «Dio, patria e famiglia». Cercano opportunità e sicurezze. Un’istruzione dignitosa, un lavoro pagato decentemente, trasporti efficienti, un vero sistema sanitario pubblico e una risposta concreta al cambio climatico.
Nelle società occidentali post-industriali il lavoro manuale è ormai largamente appaltato a manodopera straniera. Basta risalire come segugi le cosiddette filiere per ritrovare, all’origine, la mano dell’immigrato, in condizioni che spesso si avvicinano allo schiavismo. «Schiavo» è categoria evocatrice di età barbariche, difficile da accettare nell’Occidente che ama qualificarsi come la patria dei diritti dell’uomo e del cittadino. Come alternativa alcuni studiosi propongono la nozione di «neoplebe», intendendo con questo termine una platea molto eterogenea, in cui confluiscono lavori subalterni, regolari ed irregolari, comunque intermittenti, sempre in bilico tra stabilità e precarietà. Certo è che queste patologie lavorative non sono state ancora del tutto sradicate in numerosi settori produttivi, a partire da quelli meno trasparenti nei rapporti contrattuali. Nei campi
e nelle serre di molti distretti agricoli mediterranei il flusso degli operai stagionali e la loro rapida rotazione finiscono per favorire l’arbitrio, l’inosservanza delle regole e la sottomissione al caporalato. Sui recenti, drammatici casi di cronaca che si sono verificati nel Lazio non è il caso di tornare: i media ne hanno parlato a lungo. Qui si vorrebbe piuttosto richiamare l’attenzione sui movimenti che interessano il nostro piccolo mercato del lavoro. Uno sguardo non tanto statistico (in proposito esistono ottimi studi: sulle differenze salariali, la disoccupazione, le nuove forme di povertà) quanto storico e sociologico. Il Ticino è da oltre cinquant’anni un Cantone in cui la quota maggioritaria della popolazione attiva è occupata in attività terziarie. Il che significa impieghi statali e parastatali, scuole, servizi bancari e finanziari, comunicazioni, traspor-
ti, commerci, ristorazione e alberghi, offerta turistica, apparato informativo ecc. Questa ascesa verso i piani alti della scala sociale (mobilità verticale) è stata favorita dall’ingresso massiccio nei piani bassi di braccia reclutate all’estero. I frontalieri hanno raggiunto negli ultimi anni un numero mai visto prima, circa ottantamila unità. La fascia di confine ha sempre attratto elevati contingenti di manodopera italiana, sia nell’edilizia che nelle manifatture (maglierie, calzaturifici, camicerie), poi chiuse per l’impossibilità di competere con le produzioni asiatiche. In seguito, cadute progressivamente le restrizioni che limitavano la libera circolazione, la concorrenza dei frontalieri ha raggiunto anche i comparti tradizionalmente presidiati dagli autoctoni, come la sanità nelle sue numerose declinazioni (chirurgia, cure infermieristiche, fisioterapia), l’ar-
chitettura, l’insegnamento superiore (USI-SUPSI), i poli di ricerca, l’informatica. Tale «penetrazione» ha naturalmente allarmato coloro che si ritenevano garantiti e protetti, trasformando il senso di minaccia in voto di protesta. Il lavoratore straniero è così diventato un intruso, e nei casi peggiori un roditore avido e approfittatore, con immediati riflessi nel comportamento elettorale. La fortuna politica della destra (cantonale e nazionale) è in buona parte riconducibile all’incremento delle presenze straniere, e questo fin dai tempi dell’iniziativa Schwarzenbach. La reazione xenofoba del cittadino che si vede scavalcato dal candidato di un’altra nazionalità o posto sotto ricatto è comprensibile, ma la politica non dovrebbe mai abbandonarsi all’irrazionalità e all’emotività. Bisogna riconoscere, come detto all’inizio, che tuttora le mansioni più umili, più
faticose, più rischiose (vedi infortuni sul lavoro, alcuni anche mortali) sono svolte da stranieri, uomini e donne. Chiediamoci: chi sono, da dove vengono le persone che vediamo affaccendarsi nelle cucine e nelle mense, nei corridoi degli ospedali e nei servizi igienici, nella raccolta dei rifiuti, nelle stanze degli alberghi e delle case di riposo, sui ponteggi dei palazzi e lungo le strade ad asfaltare carreggiate; chi sono le domestiche e le «invisibili» badanti che tra mille sacrifici lasciano le loro famiglie per occuparsi degli anziani? Sappiamo che senza questo apporto il Ticino si sfascerebbe come un vecchio bottiglione impagliato, trascinando con sé anche le isole di privilegio. Essere consapevoli di questa situazione è già un segno incoraggiante, un primo passo per gettare le basi di un’azione politica che prenda atto dei profondi mutamenti in corso, demografici e sociali.
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di Aldo Cazzullo
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CULTURA
Cinema
Dall’ultimo Festival di Cannes riparte una maggiore attenzione per i film indiani
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Amicizia artistica
Una mostra sui viaggi compiuti
insieme da Maurits Cornelis
Escher e Giuseppe Haas-Triverio
Pagina 33
Libri
Nell’ultimo romanzo della talentuosa Emma Cline il disagio della Generazione Z
Pagina 34
Incontri
Björn Larrson ci racconta il suo inusuale passaggio dal romanzo al saggio filosofico
Pagina 35
Parla Thilliez, il maestro del thriller francese
L’intervista ◆ Lo scrittore in cima alle classifiche transalpine ha creato i suoi primi romanzi per liberarsi dagli incubi
«I miei primi romanzi, li ho scritti per liberarmi dagli incubi. La passione per i film polizieschi, per le serie Tv che raccontavano di assassini seriali, di inchieste criminali, di “cuori di tenebra” che sorgevano dall’ombra e disseminavano di cadaveri il loro cammino, aveva finito per immergere i miei sonni in sogni terrificanti e io, allora, per sfuggirgli, ho cercato di estrarre, attraverso la scrittura tutte quelle immagini dalla mia testa». Così ci parla Franck Thilliez, francese, giallista (nella foto) che in Francia domina le classifiche con il suo romanzo Norferville presentato per la prima volta in contemporanea anche in Italia, con grande successo. Venticinque libri, thriller, avventure poliziesche, romanzi che raccontano ossessioni, allucinazioni, omicidi efferati, inchieste, ma anche realtà lontane dove la sopraffazione, la discriminazione sono state la causa di crimini a catena e hanno lasciato tracce storiche e sociali come succede in Norferville, romanzo avvincente pieno di colpi di scena. Ambientato nel Grande Nord del Quebec, nel gelo dell’inverno, in una cittadina mineraria accanto a una riserva indigena Innu, è la storia di un delitto brutale e disumano che divide e unisce, in una catena di disprezzo e di odio, i bianchi che sfruttano la miniera di ferro e distruggono la natura, e gli indigeni sempre più espropriati del loro territorio e delle loro tradizioni. Leonie Rock, tenente della Sûreté del Quebec conosce bene quella storia, lei, figlia di un bianco e di un’indigena a Norferville ha vissuto la sua adolescenza e ne porta le ferite indelebili e, se non fosse stata incaricata dell’inchiesta, non ci sarebbe tornata neppure adesso, dopo vent’anni. Un’eroina che è parte del mistero evocato con abilità da Franck Thilliez che abbiamo intervistato su questo libro e sulla sua maestria nell’esplorare tutte le sfaccettature del thriller.
Cosa l’ha spinta ad ambientare questo romanzo nel Quebec?
Alcuni anni fa ho viaggiato in quelle regioni, come molti francesi attratto dalla bellezza della natura selvaggia, dai grandi spazi dove le foreste, I laghi, i fiumi sono magnifici e smisurati e ci si trova calati in uno scenario splendido, spesso inospitale per l’uomo, dove anche la meteorologia cela insidie a noi sconosciute. La voglia di ambientarvi una storia è stata immediata e facendo ricerche più approfondite ho scoperto l’esistenza delle città minerarie, isolate, tra difficoltà di ogni tipo. Poco dopo mi sono imbattuto in un’inchiesta le cui rivelazioni hanno scioccato la società canadese portando alla luce violenze e
abusi perpetrati per anni sulle donne delle popolazioni autoctone, una realtà a lungo nascosta. Questo è stato il punto di partenza per creare la mia storia e la mia Norferville, versione inventata della vera Schefferville, paese dove si arriva solo col treno (non ci sono strade), dopo tredici ore di viaggio dalla cittadina di Sept-îles, che a sua volta resta a dieci ore di auto da Montreal.
È un’impressione, o la sua Norferville emana una malvagità che ricorda certe città descritte da Stephen King?
È uno scrittore che mi ha molto influenzato, King mi ha causato i primi incubi quand’ero ragazzo. Ho adorato la forza della sua scrittura, la potenza del suo immaginario e la sua capacità di giocare con le nostre paure infantili e anche se scrivo storie molto diverse dalle sue, penso a lui
quando m’interrogo su come provocare un fremito di terrore nel lettore. Per la mia Norferville, città nefasta dove il male è in agguato, non potevo non pensare a Derry, città malefica e orrenda, dall’anima luciferina creata da King, e mi fa piacere che emani un’atmosfera simile.
Quanto conta la realtà nei suoi romanzi?
Le storie dei miei romanzi scaturiscono in genere dalla mia immaginazione, ma alle volte ci sono aspetti della società che m’indignano; argomenti sociali che mi coinvolgono, mi emozionano in modo irrazionale, mi spingono a fare ricerche più approfondite e a scriverne; come stavolta.
Molti dei suoi libri inediti in Italia, hanno un protagonista famoso in Francia, il commissario Sharko, perché secondo lei è così amato? È stato il mio primo personaggio poliziesco e non è stato facile dargli una sua propria identità in un ambiente letterario che pullula di personaggi simili ormai famosi. Ma ha fatto breccia nell’animo dei lettori per la sua profonda umanità: Sharko è un commissario, un uomo corroso dai problemi personali e familiari, vulnerabile sentimentalmente che però non si tira mai indietro, segue delle inchieste pericolose ed è un eroe che in fondo ci assomiglia, o potrebbe essere uno dei nostri amici. Per questo credo sia tanto amato e i libri su di lui sono sempre molto attesi.
Secondo lei qual è la differenza, a parte lo scarto temporale, tra un
Maigret e il commissario Sharko?
Sono personaggi emblematici di un tipo di società. All’epoca di Maigret c’era un rispetto totale per il mestiere del poliziotto, mentre oggi è cambiata la percezione della violenza, come pure lo sguardo della società sulla professione di poliziotto, spesso vista in modo critico e con diffidenza. Scrivere di Sharko significa esplorare il rapporto tra scienza e indagine poliziesca, ma anche quello con la criminalità. Si uccide sempre per vendetta, per gelosia, per soldi e per gli stessi motivi delle tragedie greche, ma il modo di uccidere è diverso, anche i criminali usano i computer, i cellulari e approfittano di ogni nuova scoperta.
Per scrivere dei polizieschi bisogna rimanere in contatto con i poliziotti per essere aggiornati sulle tecniche più moderne utilizzate sia da loro che dai criminali.
Anche lei, come molti autori, pensa che bisogna iniziare dal finale della storia per scrivere un buon thriller?
Spesso il crimine dal quale prende avvio la storia viene commesso nelle prime pagine, come succede anche in Norferville e io sin dall’inizio conosco l’assassino e le sue motivazioni.
Perciò il finale serve per spiegare al lettore ciò che lo scrittore sa da sempre. Come sarà la scena finale anche l’autore spesso lo scopre solo un po’ alla volta. Diciamo che il finale fa parte del delicato equilibrio tra gli elementi della storia: l’inchiesta, i personaggi, lo scenario e la massa di informazioni e di scoperte che ci piacerebbe trasmettere al lettore.
Ma ci sono momenti in cui lo scrittore s’interroga se a quel punto debba sorprendere il lettore, o piuttosto fornirgli delle risposte, o magari confezionargli un altro crimine. Un giusto dosaggio e il ritmo appropriato non sono facili da individuare.
Qual è il sogno di ogni scrittore di gialli?
Creare un personaggio capace di attraversare il tempo, di diventare più importante delle storie delle quali è il protagonista. Un modello, come: James Bond, Hercule Poirot, Harry Potter, o Lisbeth Salander, un personaggio che il pubblico adotta, non si sa perché, e ne fa un mito che segue ovunque.
Qual è il lato negativo del mestiere di scrittore?
La solitudine nella scrittura e il dubbio. Nessuno, né della mia famiglia, né l’editore più intelligente del mondo, in un determinato momento della stesura di un romanzo, può aiutarmi a trovare quella soluzione perfetta che sto cercando da ore per raccontare ciò che è dentro di me e che continua a sfuggirmi. So che dovrò sbrigarmela da solo, che nessuno può scriverla al mio posto, o dirmi se va bene, o se c’è di meglio. E poi c’è il solito dubbio: «Quello che sto scrivendo, piacerà?». È un dubbio permanente, ma è utile e necessario perché forse è quello che alla fine ci permette di avere una buona storia.
Una croce illuminata sopra Schefferville (Canada) la città a cui si ispira la Noferville immaginata da Thilliez. (Ian Schofield)
Blanche Greco
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Il ritorno del subcontinente
Tendenze ◆ Più attenzione in Occidente al vivacissimo cinema indiano
Nicola Falcinella
Il Grand Prix al recente 77° Festival di Cannes, secondo premio per importanza, al raffinato All We Imagine
As Light di Payal Kapadia ha riportato l’attenzione sul cinema indiano. La più grande industria cinematografica mondiale, la cui immagine è spesso legata al folklore di Bollywood, era assente dal concorso della Croisette dall’ormai lontano 1994, l’anno della Palma a Pulp Fiction, quando fu rappresentato dal dimenticato Swaham di Shaji N. Karun. «Non aspettate altri 30 anni a invitare un altro film indiano in competizione» ha affermato durante la premiazione la regista, al suo secondo lungometraggio. All We Imagine As Light, una delle sorprese della rassegna, è una storia di donne tra città e villaggi, tra passato e futuro, tra grattacieli e scogliere, tra relazioni da lasciare alle spalle e altre da coltivare. Prabha è un’infermiera caposala, il cui marito è partito da anni per la Germania, mentre Anu lavora all’accettazione dello stesso ospedale e cerca di andare incontro ai bisogni dei pazienti e dei richiedenti, soprattutto delle donne. Anu manda soldi a casa e non ne mette da parte abbastanza per pagare l’affitto, mentre si sparge la voce che frequenti un giovane musulmano e la cosa può rovinare la sua reputazione. Così le due donne si offrono di accompagnare la cuoca Parvaty al villaggio sul mare. L’inizio è quasi documentaristico, con immagini di una Mumbay multiculturale e in continua trasformazione: diranno che la metropoli è un sogno per chi arriva (tutte e tre provengono dalla provincia), mentre Parvaty sostiene che le persone costruiscono grattacieli sempre più alti perché pensano di arrivare a Dio in quel modo. La regista tocca temi sociali con belle immagini che stemperano i drammi, con un bel tocco e un ottimo trio di protago-
Quest’anno a Cannes il subcontinente è stato presente in maniera significativa anche nella sezione parallela «Un certain regard» con due titoli sempre riguardanti le donne, i pregiudizi verso i musulmani e il rapporto tra centri urbani e campagna. The Shameless di Kostantin Bojanov è una pellicola indiana in tutto e per tutto sebbene il regista sia bulgaro e abbia ricevuto il premio di miglior attrice per Anasuya Sengupta, che interpreta Renuka, prostituta in fuga dopo aver ucciso un poliziotto a Delhi. Un thriller cupo ambientato nei bassifondi che lavora troppo per accumulo di situazioni, tra denuncia sociale (la politica corrotta, un candidato sindaco nazionalista che vorrebbe approfittare di una diciassettenne). Temi che tornano anche nell’originale poliziesco Santosh di Sandhya Suri, più convincente e con un ottimo finale. Alla giovane protagonista, rimasta vedova dopo l’uccisione del marito poliziotto, non resta che prenderne il posto e arruolarsi, finendo a occuparsi della scomparsa di una quindicenne intoccabile. Santosh si accorgerà che ci sono due tipi di intoccabili, quelli che stanno in basso e quelli che stanno al di sopra delle leggi. Film che si interroga sulla condizione femminile, le conquiste sociali e la giustizia.
Una donna della casta dalit, intoccabile, è una delle protagoniste de La treccia della francese Laetitia Colombani. Tratto da un romanzo best-seller della stessa regista, il film incrocia tre storie di donne apparentemente lontane tra loro in India, Puglia e Canada. Anche quest’opera parte in maniera laboriosa e un po’ didascalica, ma migliora quando si chiarisce il legame tra le vicende. Il cinema indiano sforna ogni anno migliaia di titoli nel-
Riuscito a metà
Cinema ◆ L’ultimo film di Yorgos Lanthimos
Nicola Mazzi
Manifesti di film «bollywoodiani» (Pixabay). A Cannes All We Imagine As Light di Payal Kapadia, ha riportato l’attenzione sul cinema indiano. «Non aspettate altri 30 anni a invitare un altro film indiano in competizione», ha detto la regista.
dall’hindi di Mumbau al tamil, che ha il suo centro di produzione a Chennai, al bengalese con gli studios nei pressi di Calcutta, oltre alle opere indipendenti che sfuggono alla catalogazione. I grandi festival europei sono stati fondamentali per scoprire e far conoscere i maggiori cineasti indiani e ancor oggi sono cruciali per mostrare i vertici della produzione, al di là delle rassegne specialistiche come il River to River – Florence Indian Film Festival o l’Uk Asian Film Festival di Londra. Per certi versi il cinema indiano è ancora legato al nome del grande Satyajit Ray, Leone d’oro alla carriera e Oscar alla carriera nel 1992, che venne folgorato dal Neorealismo vedendo Ladri di biciclette a Londra. Nella sua produzione spicca la trilogia di Apu composta da Pather Panchali – Il lamento sul sentiero, Aparajito e Apur Sansar – Il mondo di Apu Tra i maggiori cineasti figurano Ritwik Ghatak, noto per la trilogia Meghe Dhaka Tara, Komal Gandhar e Il fiume Subarna sulla partizione del 1947, Mrinal Sen, attivo dagli anni 60 ai 90 e premiato a Venezia e Cannes, e Govindan Aravindan (il poco visto e bellissimo Kummatty del 1979, restaurato dalla Cineteca di Bologna).
Un’annata particolare è stata il 2001, con Monsoon Wedding di Mira Nair vincitrice del Leone d’oro e lo spettacolare Lagaan, Once Upon a Time in India (2001) di Ashutosh Gowariker che conquistò la Piazza Grande di Locarno e fece conoscere Bollywood al pubblico occidentale; Piazza Grande che anche quest’anno avrà un ospite d’onore invitato per dare risalto al cinema indiamo. Altri titoli che hanno avuto visibilità sono Devdas (2002) di Sanjay Leela Bansali con Ashwariya Rai e il melodramma Lunchbox (2013) di Ritesh Batra.
Che dire dell’ultima opera di Yorgos Lanthimos? Che funziona solo in parte. Seppur interessante, non è riuscita completamente. Probabilmente ci sono un paio di problemi a monte del progetto. La divisione in tre episodi distinti anche se collegati e l’assenza di una storia forte e coinvolgente come era stata quella di Povere Creature (il film vincitore del Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia). Kind of Kindness – presentato in competizione all’ultimo Festival di Cannes – è arrivato in queste settimane nelle nostre sale cinematografiche. Come detto, è un film a episodi e si basa su altrettante ricerche. La prima è quella di un uomo che vuole riprendere il controllo della propria vita: Robert, impiegato in una grande azienda, segue come un automa quanto gli dice il capo. Un vero e proprio boss (Dafoe) che gli ordina qualsiasi cosa fino ad arrivare alla richiesta più estrema: un omicidio. Ed è appunto davanti a una domanda di tale portata che Robert deve scegliere se riprendersi la vita. La seconda ricerca è quella di un poliziotto. Deve cercare la moglie scomparsa in mare, ma quando la ritrova non reagisce come dovrebbe. Osserviamo infatti la riunione di una coppia, all’apparenza normale, che tuttavia nasconde una vita privata complicata. La terza ricerca è quella di una donna che indaga su una ragazza dai poteri sovrannaturali. Un’investigazione difficile, anche perché si mescola con quella dentro lei stessa. Scritto con Efthymis Filippou (suo storico collaboratore), il film è un ritorno alle origini, alle produzioni precedenti Povere Creature con l’assurdo, la violenza e il grottesco che diventano preponderanti e sono inseriti in una costruzione scenica sempre molto curata, precisa e geometrica. Quasi a ricordare, a livello estetico e nella visualizzazione degli spazi, la pulizia scenica di Kubrick. A livello tematico il regista prosegue la sua riflessione sul libero arbitrio e il conformismo. In sostanza, nei suoi film – questo, l’ultimo esempio – si tratta sempre di capire fino a dove l’uomo può spingersi per avere il controllo delle cose ed essere libero di decidere. E di come sia difficile gestire la libertà acquisita. Si tratta, cioè, di capire dove sta il giusto equilibrio tra queste due dinamiche. Una questione centrale nei diversi personaggi come nei tre interpretati dalla bravissima Emma Stone: «I miei tre ruoli – ha precisato nella conferenza stampa di Cannes – sono diversi sotto molti aspetti, ma il principio guida che ho trovato in essi è questo equilibrio tra il desiderio di essere amati, accettati e persino controllati, e il desiderio di essere liberi e responsabili di sé stessi, anche se ciò significa perdere l’amore». Nei tre episodi gli interpreti sono gli stessi anche se recitano in ruoli diversi. Oltre a Emma Stone, il cast comprende Margaret Qualley, Willem Dafoe e soprattutto Jesse Plemons, che
a Cannes ha ottenuto il premio per la miglior interpretazione maschile. Ma veniamo al primo nodo problematico. La divisione in tre storie separate non riesce a coinvolgere del tutto lo spettatore. Se la prima è piuttosto riuscita e ha una sua logica narrativa, la seconda è più criptica, astrusa e lenta nel suo ritmo interno. Mentre la terza ha un picco finale interessante che, tuttavia, non basta. Del resto, è lo stesso regista che ammette il cambiamento in corsa del progetto. «Abbiamo iniziato con una storia singola, ma mentre ci lavoravamo abbiamo pensato che sarebbe stato meglio e più interessante farlo esistere in un film strutturalmente diverso. Dopo aver individuato altre due storie, volevamo mantenere un filo tematico che le attraversasse per dare loro una somiglianza familiare». Ecco, è proprio questo passaggio, dal progetto di un film unico a tre mediometraggi, a non funzionare appieno. Si nota abbastanza chiaramente la disparità tra i vari episodi e il fatto che il regista sia partito dal primo per poi aggiungere gli altri due in corso d’opera. La seconda questione che non con-
vince del tutto è la compattezza narrativa. Se l’evoluzione del personaggio di Bella, in Povere Creature era la sua forza e la narrazione lineare, semplice ma efficace, ne sottolineava ogni progresso, qui il tutto è più astratto. In Kind of Kindness non vediamo una vera e propria evoluzione, ma abbiamo delle situazioni, anche astruse e respingenti per lo spettatore. Non entra quindi in gioco il meccanismo dell’identificazione e noi non riusciamo a immedesimarci in nessun personaggio. Questa distanza tra spettatori e personaggi, certamente voluta dal regista, ci allontana dalle storie raccontate e rende il tutto asettico e troppo formale. Il film, in definitiva, si concentra sull’estetica, dove vengono mescolati – anche in modo sapiente – i primi piani alle panoramiche, i colori pastello al bianco e nero, i suoni gravi e drammatici a quelli più d’ambiente, mettendo in secondo piano la forza narrativa, la storia. Ecco perché, il film è riuscito a metà.
niste: Kani Kusruti, Divya Prabha e Chhaya Kadam.
le decine di idiomi parlati,
Protagonista, la sempre bravissima Emma Stone. (Wikimedia Commons)
Due artisti alla scoperta dell’Italia di provincia
La Mostra ◆ A Sachseln la ricostruzione dei viaggi di Maurits Cornelis Escher e Giuseppe Haas-Triverio negli anni Trenta
Mario Messina
Quattro persone percorrono a piedi, sotto il sole cocente di maggio, la mulattiera che collega la costa calabra con Palizzi. È il 1930 e l’entroterra della punta dello Stivale è ancora quasi totalmente isolato dal resto d’Italia. I quattro, tutti stranieri, arrivano all’interno di una locanda dove non vengono di certo accolti con affetto. «Conoscevamo da tempo la natura poco accomodante dei calabresi, ma non avevamo mai sperimentato un’atmosfera ostile come quella che abbiamo provato questa volta», scriverà successivamente uno dei viandanti.
«Alle nostre domande amichevoli – continua la cronaca di quel viaggio – ricevemmo solo risposte cupe e incomprensibili». Fino a che uno dei viaggiatori tirò fuori, lentamente, una cetra e cominciò a pizzicarla. Prima piano. Poi con più vigore. Intanto la magia della musica aveva fatto il suo effetto e gli autoctoni iniziarono ad avvicinarsi e a incuriosirsi. «L’incantesimo dell’inimicizia era stato spezzato. Ora le lingue si sciolsero: “Chi sei? Di dove sei? Perché sei venuto qui?”. Siamo stati invitati a bere del vino e abbiamo bevuto molto, troppo. Il che ha solo migliorato il nostro buon rapporto». L’olandese e l’obvaldese si conobbero a Roma e diventarono subito amici condividendo escursioni artistiche memorabili
A riportare questa storia sulle colonne del settimanale di Amsterdam «De Groene Amsterdammer» è il celebre artista olandese Maurits Cornelis Escher che in quegli anni aveva scelto Roma come casa. Qui conobbe un collega che presto sarebbe diventato suo insostituibile amico e compagno di viaggi (come quello calabrese): l’obvaldese Giuseppe Haas-Triverio. Ai due artisti di grande talento, alla loro amicizia e ai loro viaggi nelle regioni più inospitali e belle d’Italia è dedicata la mostra Gemeinsam unterwegs. Giuseppe Haas-Triverio und Maurits C. Escher che fino al 18 agosto si terrà a Sachseln e racconta i cinque viaggi di studio che i due intrapresero tra il 1929 e il 1935 in Abruzzo, Calabria, Corsica e Sicilia.
Poco tempo prima che i destini di Escher e di Haas-Triverio si separassero definitivamente. Il primo, celebre per le sue poliedriche tassellature del piano e dello spazio e i motivi a geometrie interconnesse. Il secondo, artista di grande talento, apprezzato al suo tempo ma quasi dimenticato negli anni a venire. Nato a Sachseln nel 1889, Joseph Haas all’età di 22 anni si trasferì a Roma, dove per dodici anni fu operaio decoratore e imbianchino al Grand Hotel Excelsior. Ma l’arte era la sua aspirazione. Come autodidatta imparò il ritaglio del legno, il disegno e la pittura. Ebbe tre amori: l’arte, Roma e la moglie Secondina che sposò nel 1919 e dalla quale decise di prendere anche il cognome. Da quel momento si fece chiamare Giuseppe Haas-Triverio. Mentre continuava a lavorare come semplice operaio all’Excelsior, Haas-Triverio cominciò a farsi apprezzare come artista riuscendo a partecipare a importanti mostre in città con i suoi lavori di xilografia. Scrive Beat Stutzer nella pubblicazione Gemeinsam unterwegs che ac-
compagna la mostra di Sachseln:
«Quando nel 1923 Haas-Triverio entrò a far parte dell’Associazione artistica internazionale, decise di diventare un artista freelance e lasciò l’Hotel Excelsior. Un altro fattore decisivo in questa decisione fu la grande mostra di arte e artigianato del 1923 a Sarnen, alla quale Haas-Triverio fu rappresentato con circa 150 opere».
Furono anni di successi e riconoscimenti durante i quali i coniu-
gi Haas-Triverio vivevano, con la figlia Corinna, a Monteverde, frazione del quartiere romano Gianicolense. Qui, nel frattempo, si era trasferito anche Maurits Cornelis Escher. La prossimità geografica e il matrimonio dell’olandese con l’elvetica Giulia Umiker permisero ai due colleghi di entrare in contatto e diventare amici.
Negli anni a venire, i due artisti decisero di impegnarsi in annuali viaggi di studio in giro per l’Italia
formaggio. Sei o otto settimane dopo tornavamo a casa, un po’ emaciati e stanchi, ma con le cartelle piene di disegni». Sebbene le opere di Escher del periodo italiano siano ancora lontane dallo stile che lo rese famoso in tutto il mondo, in questi anni le vedute dell’olandese si discostavano parecchio dalla riproduzione più fedele e naturalistica di Haas-Triverio a causa di esagerazioni che restituivano spesso una visione surreale dei luoghi. A porre fine ai viaggi e all’amicizia tra i due artisti fu la situazione interna italiana caratterizzata da un fascismo strisciante che intanto aveva calato la maschera e mostrato la faccia peggiore di sé. Escher odiava il clima fascista che ormai permeava tutto e mal sopportava l’obbligo previsto per il figlio George di indossare a scuola l’uniforme dell’organizzazione giovanile del Partito Nazionale Fascista. Così, a malincuore, nel 1935 la famiglia Escher lasciò Roma. Prima andarono in Svizzera, poi in Belgio e infine nei Paesi Bassi dove Escher visse la fine dei suoi giorni. Escher abbandonò la penisola nel 1935 perché odiava il clima fascista, Haas-Triverio lo imitò quattro anni dopo: alla fine il primo rinnegò le opere eseguite in quel periodo
con l’obiettivo di catturare i motivi paesaggistici e architettonici in disegni realizzati sul posto per poi tradurli in xilografie e litografie nei loro studi di Roma. Dei cinque viaggi studio che i due compirono tra il 1929 e il 1935 (occasionalmente accompagnati da Jean Rousset, studioso di materie umanistiche, e dall’artista Roberto Schiess, il nostro suonatore di cetra nella storia calabrese) sappiamo molto grazie alle fotografie scattate da Escher e agli appunti presi da Hass-Triverio nei suoi diari di viaggio.
Erano anni in cui scorrazzare tra i monti abruzzesi e le campagne siciliane non era cosa da niente. Le cronache di quei giorni sono veri e propri racconti di viaggi avventurosi in aree remote. In un periodo storico, per di più, caratterizzato da una generale avversione allo straniero. Ma l’atmosfera sospettosa dell’Italia fascista non limitò i due amici che visitarono Malta, la Sicilia, la Calabria e l’Abruzzo, oltre che la Corsica. Scriverà l’artista obvaldese nei suoi diari: «Viaggiavamo in treno, a volte in barca. Ma per lo più eravamo a piedi e a volte avevamo con noi un mulo. È successo che Escher e io abbiamo lavorato sugli stessi motivi dallo stesso luogo. Vivevamo in alloggi semplici, vivevamo di pane duro, che ammorbidivamo nel latte di capra, e mangiavamo miele e
A Haas-Triverio, legato alla città anche per motivi famigliari, servì più tempo per prendere la decisione di andar via. Solo nel dicembre del 1939, a sei mesi dall’entrata in guerra dell’Italia, decise di trasferire la sua famiglia a Sachseln, dove nel frattempo aveva acquistato una casa. Fu col ritorno nelle rispettive patrie che le storie di Escher e Haas-Triverio presero due strade diverse. Lo svizzero, pur lontano, continuò a definire Roma come la propria casa. Continuò, altresì, a produrre arte con lo stesso stile e con le stesse modalità con cui lo aveva fatto fino a quel momento. Tanto che negli anni successivi la sua produzione fu definita vetusta e troppo legata al passato. Al contrario, il ritorno in patria di Escher significò un allontanamento totale dal periodo romano. In quegli anni l’artista olandese sminuì l’importanza della maggior parte della sua opera che era stata prodotta in Italia fino al 1935. È probabile che il disprezzo di Escher per le sue opere del periodo italiano abbiano contribuito anche alla marginalizzazione, negli anni avvenire, della figura di Haas-Triverio nei racconti e nella narrazione di sé presentata dallo stesso Escher.
Chissà come visse Haas-Triverio l’allontanamento e la nuova vita del compagno di avventure. Chissà quanto spesso Escher pensava ai viaggi giovanili con l’amico svizzero. E chissà che qualche segno di quel passato avventuroso, movimentato ed esotico e di quell’amicizia tra i due non sia presente, magari ben nascosto, in qualche angolo delle tassellature, dei riflessi e delle metamorfosi di Escher.
Dove e quando Gemeinsam unterwegs. Giuseppe Hass-Triverio und Maurits C. Escher, Museum Bruder Klaus Sachseln, fino al 18 agosto. www.museumbruderklaus.ch
M. C. Escher e Giuseppe Haas-Triverio durante l'escursione da Scanno a Villetta Barrea, Abruzzo, il 21 maggio del 1929.
(Foto: M. C. Escher)
Nel disagio giovanile della Generazione Z
Narrativa ◆ Nell’ultimo romanzo della scrittrice californiana Emma Cline la feroce e superficiale confusione dei «giovani d’oggi»
Laura Marzi
Il disagio giovanile è un tema sempre alla ribalta, ma i cambiamenti con l’avvento dei social lo hanno reso una questione urgente ed estremamente difficile da analizzare senza incorrere nella nostalgia del passato: «Ai miei tempi, non sarebbe stato possibile» è il leitmotiv che risuona quando si affrontano argomenti quali la minore severità di adulti e insegnanti e la maggiore libertà di giovani e giovanissimi. La letteratura riesce ad arrivare al cuore delle questioni sociali più complesse, superando gli ostacoli dei luoghi comuni. Emma Cline, scrittrice californiana classe 1989, talento indiscusso della narrativa contemporanea occidentale, riesce, nel suo ultimo romanzo L’ospite, a raccontare i comportamenti della ormai famigerata Generazione Z senza mai nominarla.
Alex, protagonista di questa storia raccontata in terza persona, è una ragazza di ventidue anni che si trova immersa nell’oceano pacifico, dove l’acqua, come viene ripetuto più volte, è più calda che mai: sta facendo il morto. Deve trovare un modo per trascorrere il pomeriggio in attesa che Simon, l’uomo molto più vecchio di lei con cui ha una relazione, finisca di lavorare e i due possano andare insieme a una cena di amici di lui.
Si sono conosciuti in un bar, Alex fa la squillo, anche se tale conclusione non sembra del tutto adeguata, per-
ché Cline non definisce mai la sua personaggia in questo modo: è una ventiduenne che ogni tanto abborda degli uomini, li sfrutta per avere un posto in cui stare, delle cene pagate, rubacchia loro qualche soldo, mai troppi per evitare che non vogliano più vederla: «Non spennarlo mai al punto di fargli chiudere la relazione in modo definitivo. La gente, a quanto pareva, accettava quasi sempre di essere la vittima di qualcuno, a piccole dosi». Di Simon pensa di essere innamorata, specialmente quando la manda via di casa e Alex inizia a girovagare nei dintorni di quella parte di costa, in attesa di tornare da lui che secondo la sua visione distorta della realtà sarà pentito e la accoglierà a braccia aperte.
L’ospite è allora un road novel: come i protagonisti dei romanzi di questo genere scritti per lo più negli anni 70, Alex non vive senza fissa dimora a causa di un dramma o di un trauma, bensì spinta dal desiderio di un’indefinita libertà: «Fai sempre quello che vuoi? – le chiede un diciassettenne con cui sta occupando illegalmente un appartamento – in linea di massima, sì» risponde lei. Cline svela poco a poco la sua protagonista, le ragioni del suo comportamento. All’inizio, nei suoi confronti, domina la preoccupazione, perché Alex è immersa nei casini fino al collo: c’è un uomo violento, che lei ha derubato, che la per-
seguita e la cerca ovunque, non può tornare nel suo appartamento a New York perché deve troppo ai suoi coinquilini. Poi diventa chiaro che quella di Alex è una scelta: «Si aspettava un’equazione logica: le era successo x, qualcosa di terribile, perciò adesso la sua vita era y, e tutto questo aveva un senso. Ma come avrebbe potuto spiegargli che non c’era nessuna ragione, che non le era mai accaduto niente di terribile?». Alex incorre in una ragazza poco più giovane di lei che vorrebbe darle ospitalità, ma Margaret secondo Alex ha sul viso i segni della tristezza, per questo se ne va, come se il contatto con quel sentimento fosse
L’immagine di copertina del romanzo L’ospite nell’edizione italiana pubblicata da Einaudi.
più pericoloso che stare in strada in balia di uomini e ragazzi sconosciuti. Fino a qualche decennio fa a innescare la decisione di vivere on the road, fuori dagli schemi sociali imposti, era una visione politica o una filosofia di vita. Alex è guidata dalla ricerca di uno stile di vita, che è diverso. Lo stile, l’estetica, il fashion hanno sostituito ciò che fino a non molto tempo fa era la fede in un partito, in un modo di concepire il mondo. Alex cerca la comodità, la possibilità di fare ogni giorno un bagno in piscina, non tanto perché vuole diventare ricca, ma perché guidata da un’inconsapevole pigrizia, come se la
vita in generale fosse sopravvivenza e tanto vale trascorrerla a mollo, narcotizzata da qualche antidolorifico e una buona quantità di alcol.
Mentre si trova in auto con il cameriere di un club esclusivo, per ringraziarlo di averle dato da bere tutto il pomeriggio pur sapendo che lei gli aveva fornito un numero di tessera non suo, si domanda: «Come si faceva a trascorrere decenni così? A servire quella gente? Il pensiero era troppo angosciante».
L’idea del lavoro inteso come servizio o sforzo non è sostenibile, non è da prendere in considerazione la fatica di studiare e cercare di garantirsi un mestiere non manuale.
In questa confusione superficiale e feroce ecco tanti tratti dei «giovani d’oggi»: senso del denaro distorto, mancanza di sogni e ideali, abuso di sostanze, sessualità precoce e disillusa. Alex combina sempre guai, senza volerlo, anche se passa quasi tutto il tempo a cercare di evitarlo. Sa di essere una pasticciona, un’auto sabotatrice e di fronte a questi errori ripetuti, la rabbia si disinnesca: sono piccoli, sono figli e figlie del nostro tempo e «stare immersi nell’oceano ha il potere di farti sentire una brava persona».
Bibliografia
Emma Cline, L’ospite, trad. di Monica Pareschi, Einaudi Stile Libero, Torino, 2023
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La libertà di scegliere ha un’unica via: il dialogo
Incontri ◆ Questa volta Björn Larsson passa dal romanzo al saggio e con Essere o non essere umani ci porta a ripensare l’uomo tra scienza e altri saperi
Matilde Casasopra
Provate a immaginare un uomo che, sopra ogni cosa, ama il mare. Lo ama per moltissimi motivi, ma sopra a tutti ci sono quel senso e quella consapevolezza di libertà che solo il mare sa dare. Lo ama così tanto il mare che, a un certo punto della vita, ne fa la sua terra che poi inizia a percorrere – e per anni percorrerà – a bordo di un veliero, il Rustica. Bene, adesso che vi siete fatti un’idea – seppur parziale – di quest’uomo, immaginatevelo sorpreso dalla pandemia di Covid-19 sulla terra ferma, per la precisione a Helsingborg, dove vive ancora adesso quando si trova in Svezia, Paese nel quale è nato e dove fino a pochi anni prima, all’università di Lund, insegnava letteratura francese. A Helsingborg ci è arrivato in aereo (e non per mare) dall’Italia e in pochi giorni la sua vita – come quella della quasi totalità degli umani del pianeta – è mutata. I confini nazionali vengono chiusi, i contatti tra persone si azzerano e la segregazione diventa la vita nuova. Il mare? Dista solo 500 metri da casa. Qualche volta diventa l’unica possibile – e breve – via di fuga da un presente che parla di libertà limitata. E per il resto del tempo che fare? Si chiede allora l’uomo, il professore, lo scrittore 68enne che ama il mare. Abbiamo chiesto direttamente a lui, a Björn Larsson, quale fu la risposta che si diede in quella primavera inoltrata del 2020.
Grazie alla pandemia, a un certo punto mi sono detto che forse era giunto il momento di mettere in ordine i miei pensieri raccolti in quarant’anni di riflessioni
Non fu una risposta immediata. Tenga presente che la mia casa, a Helsinborg, è un piccolo monolocale pieno di libri, sostanzialmente un pied-àterre… Quando ho capito che non potevo raggiungere mia figlia in Danimarca, che non potevo visitare mia madre che viveva in una struttura, che non avrei nemmeno potuto tornare in Italia (dove vivo con la mia compagna) perché non c’erano voli, mi sono detto che forse era giunto il momento di mettere ordine nei miei pensieri raccontandoli in un libro attraverso una storia che non fosse solo un’interpretazione letteraria dell’umanità e del suo significato. È in un certo senso grazie alla pandemia se è nato questo mio Essere o non essere umani – Ripensare l’uomo tra scienza e altri saperi, che è un saggio filosofico-scientifico e non l’ennesimo romanzo.
Mi permetto di osservare che già i personaggi dei suoi romanzi favoriscono – tutti e ciascuno a modo suo – la riflessione sull’essere umano dell’umano…
Grazie, ma… questo mio libro non è nato nei sei-sette mesi di clausura
«Questo libro – spiega Larsson – è il frutto, il condensato, oserei dire la summa di oltre quarant’anni di riflessioni, ricerche, letture e scelte che mi hanno portato, finalmente, ad accettare che sì, la libertà assoluta non esiste, ma ciascun essere umano dispone di un margine di scelta». Nella foto, una copia della statua Il pensatore di Rodin, nel contesto della natura selvaggia ticinese.
Björn Larsson scrittore
da pandemia. Questo libro è il frutto, il condensato, oserei dire la summa di oltre quarant’anni di riflessioni, ricerche, letture e scelte che mi hanno portato, finalmente, ad accettare che sì, la libertà assoluta non esiste, ma ciascun essere umano dispone di un margine di scelta che gli consente di concorrere alla realizzazione di un mondo migliore, più umano.
Insisto: mi pareva di aver già trovato nelle parole del papà di Marcel (Il porto dei sogni incrociati, Iperborea 2001) la via da seguire per essere o non essere umani.
Mi fa piacere perché… sì, nel discorso del papà di Marcel c’è molto del senso di quest’ultimo libro. Quando afferma che «l’uomo è diventato umano nel momento stesso in cui ha imparato a servirsi delle parole o delle immagini per parlare con i suoi simili di qualcosa che non avevano sotto gli occhi» propone, nel romanzo, uno dei punti centrali di questo saggio. E non è un caso perché la semantica, la scienza del significato, è una delle questioni che mi appassiona e sulla quale mi interrogo sin dagli anni giovanili. È gra-
Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)
Simona Sala
Barbara Manzoni
Manuela Mazzi
Romina Borla
Natascha Fioretti Ivan Leoni
zie alla teoria del significato – che avevo elaborato quindici anni prima nel saggio Le bon sens commun: remarques le rôle de la (re)cognition intersubjective dans l’épistémologie et l’ontologie du sens – se sono riuscito a individuare le implicazioni importanti che concorrono nel definire ciò che è umano nell’essere umano.
Restiamo ai significati. Quanta parte di natura, e quanta di cultura, ci sono, a suo parere, in un essere umano?
Penso che in ogni persona esistano entrambe (natura e cultura), ma la parte, la percentuale di ciascuna di esse, varia a dipendenza delle persone. Non si può dire: 30% natura e 70% cultura (o viceversa). Sarebbe in ogni caso sbagliato. Esemplificando: fare figli e prendersi cura dei bimbi fa chiaramente parte della «natura» e non è una specificità dell’essere umano. Se invece una donna decide di non avere figli, questa decisione appartiene di fatto alla nostra specificità, dunque alla «cultura». Quel che però è certo è che in ogni essere umano sono presenti sia la natura sia la cultura e che un’unica scienza –che questa sia l’antropologia, la fisica quantistica, la filologia oppure ancora la biologia, ma nemmeno la filosofia e men che meno l’astronomia – non può spiegare questa complessità. Non esiste un’unica scienza che abbia sufficienti parole, immagini e significati in grado di descriverla.
È per questo che lei, in Essere o non essere umani, le passa in rassegna – e le smonta – praticamente tutte (le scienze)?
Vede, da tempo penso che uno dei
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problemi della società contemporanea sia la frammentazione e l’iper-specializzazione del sapere. Io, personalmente, sono un eclettico – me ne accorsi quando dovetti scegliere all’università quale via seguire e mi trovai a passare dalle scienze naturali alla filosofia per approdare poi a linguistica e letteratura – e, proprio per questo, cerco da sempre di trovare le parole che uniscono le varie scienze piuttosto che quelle che le rendono esclusivo territorio degli adepti. Diciamo che nel mondo contemporaneo mi manca quell’enciclopedismo che permetteva una visione sferica degli umani e dei loro saperi e che in questo libro, passo dopo passo, cerco di dimostrare che quella libertà, quel margine di scelta del quale ciascuno dispone, è ciò che può garantire la sopravvivenza del pianeta e dell’umanità che del pianeta co-
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stituisce la coscienza della sua stessa esistenza.
È vero, non ho letto tutti i suoi libri, ma so che come molti ho apprezzato i suoi romanzi: dal primo tradotto in italiano (La vera storia del pirata Long John Silver) a Il Cerchio Celtico, a I poeti morti non scrivono gialli, al già citato Il porto dei sogni incrociati. Forse per questo le chiedo: perché scrivere un saggio?
Perché nei romanzi ho detto quello che dovevo – e volevo – dire a quelli che sono già d’accordo con la mia visione del mondo umano. Il romanzo parla il linguaggio delle emozioni. Il saggio, invece, segue le regole della ratio, del dubbio motore del ragionamento, della logica. Bref: ho sentito il bisogno di scrivere questo saggio per raggiungere e avvicinare anche quelli che non leggono romanzi e, come preciso nelle prime pagine citando Robert Graves, «devo avvertire i lettori che questo resta pur sempre un libro molto difficile e molto singolare», ma, a differenza di quanto asserisce Graves, «mi auguro (ardentemente) di venire letto anche da chi ha una mente rigorosamente scientifica». Tutto ciò con l’obiettivo di raggiungere, attraverso la parola e il dialogo, la comprensione reciproca.
Björn Larsson, nella super bibliografia che correda il suo Essere o non essere umani ci sono anche tre suoi saggi. Gli altri 221 libri li ha proprio letti tutti? «Certo che li ho letti tutti. Come le dicevo, questo libro non nasce in sei-sette mesi di clausura forzata, ma è il prodotto dei pensieri, delle riflessioni e delle conclusioni di una vita, della mia vita».
Mi consenta di tornare al mio libro del cuore e al suo protagonista, Marcel. Confesso di aver pensato fosse il suo alter ego… «No, Marcel non è il mio alter ego perché io non posso essere Marcel. Marcel vive nel presente e nel presente c’è realtà, non fantasia e quindi Marcel non può scrivere romanzi. E, badi bene, non è detto che io non voglia essere Marcel, ma… se fossi Marcel cesserei di scrivere romanzi».
… e sarebbe un vero peccato… «Non è la prima donna che me lo dice e mi sono spesso interrogato sul motivo per cui le donne sappiano cogliere, nei romanzi, i messaggi che ne costituiscono l’essenza. Ho scoperto che il motivo è semplice: le donne applicano la filosofia alla vita reale. Le donne portano la letteratura di finzione sulle loro spalle, la vivono quotidianamente: nel bene e nel male. Certo possono leggere un saggio, ma è il romanzo il loro genius loci ed è bello che sia così».
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8.80 invece di 12.60 Pomodori pelati triturati Longobardi 6 x 800 g, (100 g = 0.18)
A base di colza svizzera
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Tutto l'assortimento Fiesta del Sol per es. tortillas alle barbabietole, 6 pezzi, 370 g, 3.40 invece di 4.30, (100 g = 0.92) 20%
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