Azione 3 del 16 gennaio 2023

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«Mi scoppia il cuore»: i disagi emotivi possono trasformarsi in mali fisici

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SOCIETÀ ◆

Carlo Silini

Un incidente di motorino sotto casa e il conseguente ingorgo stradale o la bagarre di politichetta nostrana sui social attirano la nostra attenzione e scatenano il nostro malumore (o il nostro ludibrio) molto più di una strage di civili dall’altra parte del mondo. Nulla di bizzarro, purtroppo: siamo ombelico-centrici e su questa cinica verità si basa buona parte delle scelte editoriali di numerosi strumenti di informazione e quindi buona parte delle nostre conoscenze sui fatti salienti del pianeta.

Sarà per questo che tendiamo a credere, forse ad auto illuderci, che le crisi del momento siano sostanzialmente un paio o tre: la guerra tra Russia e Ucraina, la pandemia (in ribasso, ma

sempre temibile) e l’inflazione. Ce ne «accorgiamo» perché sono eventi che ci vengono sbattuti in faccia ad ogni tg. Ed è già quasi un sollievo pensare che suscitino in noi qualche preoccupazione in più rispetto al campionato di hockey o alle principesche baruffe tra Harry e William. Ma ce ne «accorgiamo» soprattutto per il loro «effetto domino» che si ripercuote fino alla nostra tranquilla periferia di mondo. E così capita che le scellerate decisioni di un governante russo che fino a un anno fa consideravamo – senza farci il sangue amaro – uno fra i tanti faccioni del potere mondiale, ci avvelenino l’anima soprattutto perché ci complicano la vita. Ad esempio, diminuendo il nostro potere di acquisto. Certo, proviamo pena anche per le vittime innocenti del conflitto ucraino-russo, ma come mai non succede lo stesso con quelle dei molti altri conflitti in corso? Siamo miopi, appunto: ecco il perché. I più avveduti spingono le proprie capacità percettive fino all’Iran, all’Afghanistan e magari –di questi giorni – al Brasile. Più in là di lì, però, cala la notte. Lo sapevate che in questo momen-

Il confronto tra gli assalti alle più alte istituzioni dello Stato in Brasile e negli Stati Uniti

ATTUALITÀ Pagina

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Non siamo l’ombelico del mondo

Ritratti straordinari dei grandi editori italiani, delle loro idee e del coraggio di realizzarle

Elia

to nel mondo ci sono almeno 28 conflitti «ad alta intensità» (potete consultare i dati aggiornati sul sito conflittidimenticati.it)? E che, se si calcolano anche le crisi croniche e le escalation violente, nel 2020 si arrivava a 359 conflitti (dati Caritas)? Come abbiamo fatto a distrarci al punto da ignorare, o più probabilmente dimenticare, che in Siria la guerra non è affatto finita? Eppure, del ginepraio di etnie combattenti, alleanze armate internazionali, teste mozzate, ospedali bombardati, corpi crocifissi abbiamo sentito parlare tutti i santi giorni per diversi anni. Ci siamo assuefatti al male? Peggio: alla fine tutte queste notizie un po’ splatter ci sono venute a noia? E lo Yemen, l’Etiopia, il Mozambico, il Mali, l’Iraq, la crisi permanente tra Israele e Palestina? O ancora il Myanmar, il Pakistan, il Sud del Sudan e tutte le altre guerre cadute nel cono d’ombra della nostra attenzione mediatica e personale? Lo stesso potremmo osservare ragionando su un’emergenza che invece pare non sfuggire alla maggior parte delle persone: quella climatica.

Anche qui – con tutta la solidarietà nei confronti di chi cerca di campare con gli impianti sciistici – siamo capaci di farci venire il mal di stomaco perché quest’inverno scarseggia la neve. Come se il culmine del problema fossero i nostri sci che languono in cantina e non le prospettive apocalittiche dell’innalzamento generale delle temperature nel pianeta. Insomma: abbiamo consapevolezza delle crisi mondiali solo quando ci rovinano la festa.

Questo non è un invito all’auto flagellazione morale, ma all’oggettività, a togliere il paraocchi, a capire che i nostri patemi personali, regionali o nazionali sono una piccolissima parte dei problemi del cosmo. Persone in difficoltà ce ne sono anche da noi, sia chiaro, ma ha senso per la maggioranza di noi perdere le staffe per quelle che, in confronto alle crisi che ci circondano, sono poco più che quisquilie? Da altruisti apriamoci al mondo per aiutare chi ha molto più bisogno d’aiuto di noi. Da egoisti, facciamolo anche solo per sentirsi più felici, perché non c’è alcun dubbio: siamo incredibilmente fortunati.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 16 gennaio 2023 Cooperativa Migros Ticino
03 ◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
edizione
MONDO MIGROS Pagine 4 – 5 CULTURA Pagina 27
TEMPO LIBERO Pagina
Errori accidentali o volontari, in fotografia, possono creare inaspettata bellezza e valore
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Stampanoni Pagina 7
I ruggiti preistorici del San Giorgio
© L.
Daulte / Ticino Turismo

MONDO MIGROS

Le sedi amministrative di Migros Ticino

Speciale 90esimo ◆ Nel corso della sua attività ormai quasi secolare, la Cooperativa ticinese ha traslocato a varie riprese e ha trovato nel 1971 la sua sistemazione definitiva a Sant’Antonino

Ricostruire, a 90 anni di distanza, la storia «degli inizi» di Migros Ticino è un’operazione di «archeologia commerciale» tutto sommato abbastanza complessa. In realtà, le fonti che ci permettono di affrontare questo lavoro sono i mezzi di informazione dell’epoca. Grazie agli archivi dei quotidiani e dei periodici pubblicati allora («Azione» inclusa, naturalmente) possiamo disegnare il percorso compiuto da Migros nel nostro cantone.

Alcune inserzioni pubblicitarie apparse sui giornali ticinesi ci permettono di individuare, ad esempio, la prima sede principale degli uffici e del magazzino aziendale. Nel 1933, Migros l’aveva aperta al no. 42 di via Besso, a Lugano. Ce lo conferma peraltro l’ex direttore ed ex presidente del Consiglio di amministrazione di Migros Ticino, Ulrico K. Hochstrasser, il cui padre Charles è stato lo storico iniziatore dell’«avventura Migros» in Ticino. Grazie alla sua testimonianza possiamo confermare che quella prima sede amministrativa si trovava in uno stabile ancora esistente, prospiciente all’attuale chiesa di San Nicolao. Vi si era insediata, dunque, la «Società cooperativa tra produttori e consumatori Migros Ticino». Per ciò che riguarda la ragione sociale dell’azienda, occorre ricordare che Migros sperimentava in Ticino un nuovo modello di gestione aziendale, la cooperativa.

Cercando di immaginare l’attività di quella prima sede centrale luganese, possiamo pensare che si occupasse di rifornire i tre negozi in quel momento gestiti dall’azienda nel nostro cantone: quello di Bellinzona in

Piazza Collegiata, quello di Locarno in Via Cittadella 8 e, naturalmente, quello di Lugano, inizialmente situato in via Concordia 3, a Cassarate. Oltre a ciò, c’è da ritenere che il magazzino centrale dovesse servire anche per l’approvvigionamento dei celebri camion di vendita, attività sui generis che aveva segnato l’esordio di Migros a Zurigo e poi in tutta la Svizzera.

è stato lo storico iniziatore dell’«avventura Migros» nel nostro Cantone

In Ticino, all’inizio, gli autocarri dovevano essere due.

Sempre grazie alla stampa ticinese dell’epoca si può ricostruire con precisione, poi, il primo trasloco di Migros Ticino da questa sede iniziale. Infatti, per rispondere al successo dell’attività di vendita, dal marzo 1934 altre inserzioni pubblicitarie sui quotidiani ticinesi ci informano che la sede amministrativa principale e il «magazzeno» di Migros si erano trasferiti al numero 5 di via Monte Boglia, a Lugano. L’azienda avrà trovato qui una sistemazione più ampia, considerando da un lato che il numero dei suoi negozi a Lugano era temporaneamente raddoppiato, e dall’altro che l’area, allora periferica e poco urbanizzata, avrà permesso una più comoda strutturazione degli spazi di lavoro.

La sede di Via Monte Boglia rimane in esercizio fino alla fine degli anni 40. In quel decennio l’aumento nella mole degli affari e l’apertura di altri

negozi nei principali centri del nostro cantone richiedevano un potenziamento nella gestione della logistica. «Azione», organo ufficiale della cooperativa che aveva iniziato le sue pubblicazioni nel 1938, si occupa dell’argomento. Nel numero del 12 marzo 1950 dà notizia dell’apertura, con una descrizione quasi poetica del suo redattore responsabile, Vinicio Salati: «La grande sede della Migros nel Ticino ha iniziato il suo respiro e dal suo grande cuore, tutti gli elementi vitali ad essa connessi, riprendono forza, vigore e bellezza». Salati tornerà a riferire della vita aziendale di Taverne su «Azione» del 25 maggio 1950, con un articolo che chiarisce alcuni degli elementi più specifici, innovativi, della gestione aziendale: «È stata pure aperta, la “Cantina” in un elegante locale apposito, anche qui chiaro, luminoso, sano. A mezzogiorno si servono i pasti tanto agli impiegati che agli operai che lo desiderano. Per la modi-

ca somma di 1 franco si riceve il menu completo composto da un primo piatto (minestra, pasta o riso) da carne con una verdura più insalata, pane e caffè. Ognuno poi, con 10 o 16 centesimi può avere mosto, acqua minerale o anche vino. Inoltre tutti possono usufruire gratuitamente della doccia con acqua corrente calda e fredda».

Il boom economico degli anni 60, l’ulteriore espansione della rete di vendita e l’arricchimento dell’assortimento di prodotti offerti da Migros portano nel giro di un ventennio alla necessità di trovare una nuova sede centrale più consona alle nuove esigenze di lavoro. È dunque nel 1971 che Migros Ticino porta la sua unità amministrativa e gestionale sul Piano di Magadino, a Sant’Antonino. La scelta della località è strategica, ed è legata in particolare a una visione commerciale più ampia, che vede in quell’area la possibilità per la nascita di un centro commerciale di

ampie dimensioni. Come ricordava un articolo pubblicato dal «CdT» il 13 marzo 1986: «L’insediamento della società cooperativa sul Piano di Magadino risale al 1966 quando vennero acquistati i terreni nei comuni di Sant’Antonino e di Cadenazzo per realizzare la centrale di smistamento con raccordo ferroviario e il panificio della Jowa».

«Con il trasferimento da Taverne a Sant’Antonino nel 1971 ci fu una razionalizzazione della logistica»

Grazie alla sua posizione centrale nel territorio cantonale e allo sviluppo turistico che si era registrato in quel periodo, già dai primi anni Settanta S. Antonino aveva evidenziato numerose caratteristiche che ne indicavano l’idoneità quale luogo per la creazione di un supermercato di maggiori dimensioni e con un assortimento più completo rispetto a quelli proposti nei centri cittadini. Nel 1978, infatti, alla sede amministrativa veniva affiancato il primo supermercato Migros a S. Antonino, con una superficie di vendita di 1200 mq che trovava spazio al pianterreno della sede centrale. In quest’ultima e ancora attuale sede centrale, apparato logistico/amministrativo e spazi commerciali convivono, ottimizzando da un certo punto di vista il loro rapporto. La posizione della centrale, connessa organicamente sia alla rete stradale sia a quella ferroviaria permette poi di rendere fluido lo smistamento delle merci verso le 27 filiali del cantone.

Da un punto di vista operativo di dettaglio, di nuovo Ulrico Hochstrasser, in un’intervista rilasciata al nostro settimanale nel 2012, ricordava i tratti salienti di quell’ultimo trasloco della sede centrale di Migros Ticino: «Taverne venne concepita per un volume d’affari di ca. 25-35 milioni di franchi. Nel 1950 il volume d’affari era di 10 milioni; nel 1971, al momento del passaggio alla centrale di Sant’Antonino, ammontava a 130 milioni. In particolare, vi erano le esigenze dei prodotti freschi e congelati e, soprattutto, a Taverne non si poteva creare un luogo per il trattamento della carne centralizzato. (…) Con il trasferimento da Taverne a Sant’Antonino, nel 1971, ci fu una razionalizzazione della logistica e si adottò l’impiego di mezzi tecnici come i sollevatori meccanici, oltre, complessivamente, a un enorme progresso per quanto riguarda il trattamento e la distribuzione dei prodotti freschi».

Per chiudere questa carrellata storica, ci sembrava interessante e anche curioso includere la descrizione della visita compiuta da Luciana Caglio, all’epoca caporedattrice di «Azione», nella appena inaugurata nuova sede centrale («Azione» del 18 novembre 1971): «L’edificio è sobrio, funzionale. La scelta dei colori delle pareti e della moquette, dei mobili, l’abbondanza di piante verdi, le decorazioni, la vastità degli ambienti contribuiscono a creare, anche nei locali destinati alle pause e alla distensione, un clima rassicurante, oseremmo dire allegro. Tuttavia la centrale di Migros Ticino non si è concessa lussi inopportuni. Tutto ciò, appunto, ci sembra coincidere chiaramente con lo spirito di un’impresa che, e l’ha sempre dimostrato sin dai suoi modesti e avventurosi inizi, vuole contribuire con la sua attività al benessere dei propri collaboratori e della collettività».

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 16 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 2
Alessandro Zanoli
In alto, le maestranze all’uscita della sede di Taverne, sulla cui parete si trovava un affresco di Samuel Wülser; qui sopra, ripresa dell’interno del magazzino.

Da Giuseppina a Giusi

Nel 2022 sono stati 140 i ticinesi che si sono rivolti all’Ufficio dello stato civile per cambiare nome o cognome, le motivazioni sono diverse

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Scopri Acquarossa

Curiosità, storie, personaggi, tradizioni: in Valle di Blenio è nato un nuovo portale online non istituzionale per valorizzare il territorio

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La ricchezza degli oceani da preservare Le nuove generazioni in visita all’acquario di Genova possono prendere consapevolezza della fragilità degli ecosistemi

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Cuore e cervello: un dialogo (in)sospettabile

Medicina ◆ I mali dell’anima sono invisibili ma non meno autentici di quelli del corpo, ai quali peraltro si collegano

Gioia, tristezza, passione, sorpresa, disgusto, amore, rabbia e paura: cosa sarebbe la nostra vita senza le emozioni? «Dal latino emovère (ex = fuori + movere = muovere), letteralmente portare fuori, mettere in movimento, le emozioni costituiscono una delle realtà più pervasive e complesse della nostra esistenza: condizionano pensieri e azioni, guidano i nostri comportamenti, influenzano il modo in cui ragioniamo, così come tutti gli ambiti della nostra vita», così esordisce lo psichiatra Antonio Malgaroli, responsabile, con la cardiologa Susanna Grego, dell’Ambulatorio dell’ansia e dello stress alla Clinica Sant’Anna di Sorengo.

Una collaborazione interdisciplinare che permette subito di comprendere come le emozioni leghino strettamente cervello e cuore, in un dialogo tanto forte quanto insospettabile perché autonomo. Di fatto, Ippocrate affermava che «gli uomini devono sapere che dal cervello, e solo dal cervello, derivano piacere, gioia, riso, così come tristezza, pena, dolore e paure». Quando, però, il nostro cervello prova emozioni forti, noi le verbalizziamo con alcune espressioni significative che coinvolgono anche il cuore: «Mi scoppia il cuore», «Mi spezzi il cuore», «Cuore infranto». Chiediamo allo psichiatra come si spiega: «In realtà, cervello e cuore sono legati in modo palindromo e, in questo dialogo, il grande ruolo delle emozioni è permettere loro di scambiarsi informazioni cruciali che interessano tutto l’organismo».

Se una quota naturale d’ansia fa parte della condizione umana, tutto si complica quando lo stress è eccessivo

Di solito non c’è ragione di preoccuparsi perché, spiega lo specialista: «Benché percepiti come disfunzionali, ansia e stress fanno parte di noi in modo più o meno percettibile: l’ansia è un’emozione che origina dal nostro normale e fondamentale “istinto di fuga”, attivato dal sistema nervoso simpatico e parasimpatico (ndr : autonomo perché non controllabile). La “non fuga”, il nostro non correre via da una situazione, ci pone nella condizione di avvertire gli effetti della messa in moto in una corsa che in realtà non avviene».

Tutto però si complica quando affiorano ansia e disturbi legati allo stress eccessivo, purtroppo oggi sempre più comuni: quel macigno sul petto che impedisce quasi di respirare, la paura di uscire di casa o di ritornarci sono solo due degli esempi di situazioni in cui le emozioni non hanno più una connotazione fisiolo-

gica e creano problemi sull’asse cuore-cervello, perché se una quota naturale d’ansia fa parte della condizione umana, ultimamente vi abbiamo aggiunto un carico ulteriore dovuto a diversi fattori, fra i quali la pandemia e la guerra, l’allentamento della dimensione comunitaria a favore dell’individualità sociale e le situazioni di competitività che ci fanno sentire spesso fuori posto o non all’altezza delle aspettative.

Marco (nome noto alla redazione) è un signore di mezz’età, conduce una vita senza particolari problemi e svolge una professione che richiede grande attenzione e concentrazione. Racconta la propria esperienza permeata da crescenti difficoltà con cui ha dovuto confrontarsi a un certo momento della sua vita: crisi d’ansia e di panico, insonnia e malessere: «Non so come tutto sia cominciato; ho un lavoro, non ho pensieri in famiglia, ho la ragazza, non abbiamo problemi economici… eppure da un po’ non mi sentivo bene: avevo tanta ansia, stress, non riuscivo a dormire di notte e tutto questo temevo si ripercuotesse anche sul lavoro. Mi sono rivolto a un medico, senza però vedere risultati. Anzi, tutto pareva peggiorare. A quel punto, ciò di cui ero certo è che non avrei

voluto vivere così e avevo bisogno di riappropriarmi della mia vita».

Il suo racconto si chiude con una riflessione: «Le persone spesso sottovalutano chi sta male perché sente ansia o stress, ma non ci si sente così per volontà e perciò mi sono messo alla ricerca di qualcuno che potesse davvero aiutarmi a uscire da questa situazione che comprendeva crisi di panico che mi stavano portando sempre più giù». Si informa e scrive all’Ambulatorio dell’ansia e dello stress della Clinica Sant’Anna di Sorengo: «La mia mail era come uno “sfogo” disperato, ma mi hanno convocato subito, sono stato visitato dalla cardiologa che mi ha sottoposto a una serie di esami, dopodiché mi ha consigliato il suo collega psicoterapeuta che incontro regolarmente da un paio di mesi. Vedo già i risultati e da un paio di settimane ho ripreso il lavoro, mi sento meglio e non ho più avuto crisi di panico».

Marco ha vissuto l’esperienza di questo tipo di presa a carico interdisciplinare: un procedere che ha permesso dapprima di escludere patologie fisiologiche, e in seguito di prendere seriamente in considerazione la modulazione dell’ambito psicologico. La cardiologa Susanna Grego fa un passo avanti: «Anche il cuore può risentire

dello stress. Sappiamo ad esempio che le forti emozioni positive, ma soprattutto negative, possono essere la causa della sindrome di Takotsubo (meglio nota come “sindrome del cuore infranto”) nella quale le catecolamine liberate durante una forte emozione bombardano il cuore paralizzandolo in modo transitorio. Il dolore toracico è intenso e le donne ne sono colpite più di frequente». Inoltre, la cardiologa sottolinea che «se una persona manifesta sintomi di ansia da stress, bisogna innanzitutto ricordarsi che questi sintomi sono molto simili a quelli provocati da un reale problema cardiaco. Quindi, prima di etichettare una persona come ansiosa, limitandone la credibilità nel riferire un sintomo, è necessario prenderla a carico innanzitutto per evidenziare un eventuale problema cardiologico la cui esclusione indurrà lo psichiatra ad accoglierlo privo di ogni pregiudizio. Quando la mente soffre, anche il cuore ne risente, ma vale anche il contrario e non si può attribuire un sintomo a una causa se prima non si controllano tutte le altre».

Da ciò consegue la collaborazione fra i due specialisti. «Troppo spesso arrivano pazienti che assumono tanti farmaci, con pesanti controindicazioni, senza mai aver fatto un elettro-

cardiogramma. La visita cardiologica assume importanza pure prima di somministrare qualsiasi medicamento: cuore e cervello sono tessuti elettrici e questi farmaci hanno un effetto sull’attività elettrica di entrambi», spiega lo psichiatra, sostenendo a sua volta la presa a carico coordinata del paziente che così si sente accolto, compreso e seguito.

«Il gioco di squadra è importante: siamo sempre in contatto e seguiamo i nostri pazienti in sintonia», gli fa eco la cardiologa. Un procedere che va a sfatare l’idea che si debba essere privi di zone d’ombra che invece esistono, vanno individuate e, se del caso, curate. D’altronde pure Gustav Jung affermò che «lo scopo della vita non è diventare perfetti, ma completi».

Conferenza

Martedì 24 gennaio, alle 18.30, avrà luogo la conferenza pubblica: «Ansia e stress: due facce di una stessa medaglia?» sotto l’egida della Clinica Sant’Anna di Sorengo. Relatori: Susanna Grego (specialista in cardiologia) e Antonio Malgaroli (specialista in psichiatria e psicoterapia). Per partecipare seguire il link https://bit.ly/3jPEFMf

SOCIETÀ ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 16 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
Il professor Antonio Malgaroli. (Vincenzo Cammarata)

Un superfood appena raccolto

Attualità ◆ La verza è un tipo di verdura ricco di preziose sostanze nutritive ideali per sostenere il nostro organismo durante la stagione fredda. Attualmente sugli scaffali di Migros Ticino è disponibile l’ortaggio di produzione ticinese

La ricetta Involtini di verza con ripieno di funghi

Piatto principale per 4 persone

• 1 kg di verza

• sale, pepe

• 5 00 g di champignon misti, bianchi e marroni

• 1 cipolla piccola

• 2 cucchiai d’olio di colza

• 2,5 dl di sidro di mele

• 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro

• 2 spicchi d’aglio

Come procedere

1. Staccate dal cespo di verza 2-3 foglie intere grosse per persona e sbollentatele in acqua salata bollente per ca. 3 minuti. Estraetele, passatele sotto l’acqua fredda e fatele sgocciolare bene.

2. Sminuzzate finemente la verza rimasta e tagliate i funghi a pezzettini. Tritate la cipolla. Stufate il tutto nell’olio a fuoco medio per 10 minuti. Bagnate con 0,5 dl di sidro di mele e fate ridurre. Condite con sale e pepe e mettete da parte.

3. Sciogliete il fondo di cottura del ripieno con il concentrato di pomodoro e unite l’aglio schiacciato. Aggiungete il sidro di mele rimasto e fate ridurre a fuoco forte per 2 minuti. Versate il fondo ottenuto in una pirofila ampia.

Come altri tipi di cavoli, anche la verza contiene molti importanti sali minerali, quali per esempio fosforo, calcio e magnesio; come anche vitamine, in particolar modo vitamina C e acido folico, sostanza quest’ultima essenziale nello sviluppo delle cavità neurali del feto e nella produzione delle cellule del sangue. L’ortaggio è originario delle regioni nord-mediterranee ed è conosciuto fin dal 16esimo secolo. Si differenzia dagli altri cavoli per le sue foglie

arricciate. In Svizzera si distinguono le verze di primavera e d’estate, con foglie non troppo serrate, e le verze d’inverno dalle foglie più compatte. La domanda da parte dei consumatori aumenta con la stagione fredda, dal momento che la verza è particolarmente apprezzata sotto forma di zuppe, minestre, involtini o in umido accompagnata tradizionalmente da carni bollite (celeberrima è la «cassoeula» di origini lombarde servita con vari tagli di carne di maiale).

Delicatezza in tavola

Una verdura resistente Tra le verze invernali, si distinguono le varietà in grado di resistere fino a diversi gradi sotto zero senza che la qualità del prodotto venga compromessa. Queste robuste verdure invernali sono coltivate anche nella nostra regione da alcuni contadini e vengono raccolte tra i mesi di ottobre e marzo.

Le verze freschissime arrivano nei negozi Migros entro 48 ore dal momento della raccolta. Le varietà inverna-

Attualità ◆ Il filetto di tonno è un piatto che sorprende tutti gli ospiti

Raffinato, succulento e tenero: il filetto di tonno è sempre una gioia per gli amanti delle specialità ittiche. Nei reparti pesce delle maggiori filiali Migros potete trovare questo taglio fresco ottenuto da esemplari a pinne gialle pescati nei mari tropicali e subtropicali. Questi tonni possono raggiungere una lunghezza di oltre 2 metri e pesare fino a 200 kg. Il filetto è considerato una vera delicatezza dai buongustai. La sua carne rossa di consistenza soda non contiene lische e possiede un tenore di grassi medio. Dà il meglio di sé arrostito o grigliato brevemente: si consiglia una cottura di non oltre i due minuti per lato affinché mantenga la sua straordinaria morbidezza. L’interno dovrebbe rimanere di un bel colore rosato. Una cottura prolungata lo renderebbe duro e stopposo. Per esaltare al meglio il suo sapore non andrebbero utilizzati troppi condimenti, ideali sono per esempio pepe, limone e qualche erbetta fresca come aneto, sesamo, origano o timo. Il filetto viene anche uti-

lizzato per la preparazione di sushi e sashimi, tradizionali piatti della cucina giapponese a base di pesce crudo. In questo caso è importante che il pe-

sce venga prima «abbattuto», ovvero sottoposto ad un trattamento di congelamento rapido che permette di distruggere eventuali parassiti.

li hanno foglie di un verde più scuro rispetto a quelle precoci e posseggono un sapore più marcato. La verza si sposa a meraviglia con altri ingredienti quali carote, pancetta, pesce e spezie quali cumino e sedano. Per la gioia delle papille di chi segue una dieta vegetariana o più semplicemente desidera preparare qualcosa di diverso dal solito, in questa pagina vi proponiamo una prelibata ricetta a base di verza e funghi.

4. Scaldate il forno statico a 180 °C. Per foggiare gli involtini, accomodate ogni foglia di verza in una tazza. Farcite con il ripieno di funghi, premete leggermente e ripiegatevi sopra la foglia. Accomodate gli involtini a testa in giù nella pirofila e coprite con carta alu. Brasateli al centro del forno per ca. 20 minuti. Servite con patate al forno o con risotto.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 16 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
Azione 25% Verza, Ticino, al kg Fr. 2.80 invece di 3.75 dal 17.1 al 23.1.2023 Azione 20% Filetto di tonno pinne gialle, selvatico, Oceano Pacifico occidentale, per 100 g Fr. 5.–invece di 6.25 dal 17.1 al 23.1.2023 Una coltivazione di verze sul Piano di Magadino.

Una vincitrice ticinese

Attualità ◆ Il concorso legato al calendario dell’Avvento OBI ha premiato una cliente della nostra regione

Lo scorso mese di dicembre, come consuetudine da qualche anno a questa parte, il negozio specializzato del fai-da-te OBI ha lanciato in tutta la Svizzera un simpatico calendario dell’Avvento online, grazie al quale ogni giorno, dal 1. al 24 dicembre, si potevano vincere fantastici premi, oppure approfittare di imperdibili offerte e buoni sconto su diversi articoli del vasto assortimento. Ebbene, il premio contenuto nell’ultima porticina del calendario, uno scooter elettrico DE3 del valore di CHF 2’690.–, se l’è aggiudicato un’affezionata cliente OBI del nostro cantone, la signora Anita Panzeri di S. Antonino. «Sono davvero contenta di aver vinto questo magnifico premio. Non me lo sarei mai immaginato. Curiosamente, in famiglia stavamo proprio cercando un nuovo scooter per i nostri figli. Insomma, questa vincita è capitata proprio a fagiolo!», afferma sorridendo la vincitrice, la quale negli scorsi giorni ha potuto ritirare il premio direttamente nel negozio di S. Antonino. L’e-scooter DE3 è un modello particolarmente performante. Grazie a un’autonomia fino a 70 km, una batteria al litio da 48 V/24 Ah, un design esclusivo e accattivante combinato con potenti luci Led, motore da 400 W e una velocità fino a 25 km/h, rappresenta un modello molto richiesto per una mobilità più sostenibile.

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 16 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 5 Scansiona il codice QR e fissa un appuntamento:
Annuncio pubblicitario Il gerente del Centro OBI di S. Antonino, Christoph Löhrer, consegna l’ambito premio alla signora Anita Panzeri. (Giovanni Barberis)

Un

molte richieste di persone che vogliono cambiare qualcosa nei propri documenti di identità. Ce ne parla la capoufficio Dunja Valsesia

«Chiamatemi Ishmael…». Così chiede da subito ai suoi lettori il narratore di Moby Dick di Melville, l’unico sopravvissuto dell’epico racconto. Nientemeno che il nome appartenente al primo figlio del patriarca Abramo nel libro della Genesi

Nasciamo tutti con un nome che non abbiamo scelto. Un nome per sempre? Nient’affatto. Cambiarlo nel corso della vita è possibile. Basta che il motivo che induce a modificarlo non urti la legge. In Ticino nel 2022 sono stati complessivamente circa 140 coloro che hanno richiesto all’Ufficio dello stato civile a Bellinzona di mutare il nome di battesimo e/o persino entrambi i titoli identitari, sia il nome sia il cognome. Una richiesta che, salvo rare eccezioni, viene di norma accolta, a patto che «l’istante dimostri di potersi avvalere di motivi degni di rispetto, come indica l’articolo 30 del Codice civile». Molteplici sono le ragioni che inducono a questa scelta, in apparenza impensabile, eppure – viste le cifre – il fenomeno non sembra trascurabile. Affrontiamo la singolare tematica con Dunja Valsesia, capo dell’Ufficio dello stato civile.

Quali sono i motivi che spingono a cambiare il proprio nome?

Le richieste sono sempre alcune centinaia all’anno le richieste e le ragioni

sono diverse. Ad esempio molte persone vivono profondi conflitti familiari che le spingono a voler assumere il cognome della famiglia dell’altro genitore per il quale provano un maggior sentimento di appartenenza. Ci sono poi persone che si rivolgono a noi, anche solo per togliere dai documenti di identità i secondi e i terzi nomi; oppure, al contrario, per eleggere quale nome definitivo proprio il secondo o il terzo assegnatogli dai genitori. Capita inoltre che molti siano iscritti nei registri dello Stato con un determinato nome, ma che nella loro vita quotidiana, nella società, vengano di fatto regolarmente chiamati con un altro nome. Un esempio concreto: se Giuseppina nell’uso quotidiano si identifica regolarmente con il nome Giusi può decidere di inoltrare istanza di cambiamento del nome. Chiaramente il nome scelto non deve urtare la sensibilità altrui, non sono pertanto ammesse denominazioni riconducibili a ideologie estremiste, quali il nazismo o il fascismo o che inneggiano a manifestazioni negative, come il razzismo o ancora che si traducono in parolacce o in termini offensivi. In Ticino – per ragioni di protezione dei dati non posso rivelare casi specifici –abbiamo però avuto qualche richiesta particolare, di nomi comuni non gravi dal profilo etico ma decisamente

inopportuni da portare su una persona. Per il momento non siamo tuttavia mai dovuti ricorrere al respingimento formale di istanze, perché siamo sempre riusciti, grazie al dialogo, al colloquio con le persone stesse, a trovare soluzioni accettabili e condivise. Altra casistica che si presenta abbastanza regolarmente è quella legata al desiderio di commemorare una figura familiare venuta a mancare, in particolare uno dei nonni, attraverso l’apposizione del secondo nome della persona scomparsa a quello del nipote. Ogni situazione viene insomma valutata, caso per caso, secondo le diverse circostanze.

Appare piuttosto semplice ottenere un cambiamento all’anagrafe... Sì e no. Fino al 2013 la legislazione era più restrittiva: un cambiamento del nome poteva essere accordato soltanto per motivi gravi. Oggi è richiesto un interesse degno di rispetto. Secondo costante giurisprudenza e prassi «sussistono motivi degni di rispetto se il nome determina svantaggi o disagi a chi lo porta e limita il suo avanzamento. I motivi del cambiamento non possono essere irrilevanti, ma evidentemente comprensibili. È a discrezione dell’autorità decidere, sulla base dei principi di diritto ed equità, se nel caso concreto esista un motivo per la modifica» Il cambia-

mento formale del nome/cognome può essere motivato dalla necessità di semplificare l’ortografia oppure perché si tratta di terminologie ridicole, spiacevoli o indecenti particolarmente penalizzanti. Un nome non si può tuttavia cambiare così a piacimento. Occorre dimostrare che sussiste un interesse degno di rispetto e normalmente richiediamo che l’istanza sia attestata da un medico psicologo, che comprovi che la persona effettivamente si identifica nel nuovo nome scelto e che sia disposta a mantenerlo in modo definitivo.

Un’altra ragione valida per cambiare nome riguarda chi sceglie di cambiare sesso?

Questo è un altro ambito. Dal 1° gennaio 2022, grazie a una revisione legislativa, le persone che hanno la convinzione intima di non appartenere al sesso iscritto nel registro di stato civile hanno la possibilità di cambiare sesso in maniera snella tramite semplice dichiarazione di fronte all’Ufficiale dello stato civile. In passato questo avveniva unicamente in Pretura. In totale lo scorso anno si sono contati una trentina di casi. La pratica del cambiamento del sesso include implicitamente la facoltà della modifica del nome, pertanto non è necessario formulare un’istanza. Come non occorre nessuna pratica per i coniugi che, dopo il divorzio, scelgono di riottenere il cognome da nubile/celibe. Basta

infatti una dichiarazione all’ufficiale dello Stato civile.

L’Ufficio dello stato civile si occupa anche di matrimoni. Qual è la fotografia più aggiornata?

La raccolta dei dati statistici relativa ai numeri registrati a fine 2022 è in corso proprio in questi giorni. Dai primi riscontri – si tratta di un orientamento – si sono registrati in Ticino circa 1500 matrimoni, un dato in linea con gli anni passati. Va evidenziato che a partire dal 1. luglio 2022 sono entrate in vigore le norme che consentono alle coppie omosessuali di sposarsi. In Svizzera da quella data non è quindi più possibile costituire nuove unioni domestiche registrate. I partner in unione domestica registrata costituita prima del 1. luglio scorso possono continuare a vivere secondo questo statuto o richiedere la conversione in matrimonio. Nel 2022 indicativamente sono stati celebrati una ventina di matrimoni omosessuali e sono state registrate una sessantina di conversioni di unioni domestiche registrate in matrimoni. Una curiosità che abbiamo notato è che anche i mesi di agosto e dicembre, normalmente poco richiesti per i matrimoni, nell’anno appena concluso hanno registrato diverse celebrazioni. A influenzare questa scelta possono essere state da un lato la fine delle restrizioni pandemiche ancora in vigore fino a fine marzo e dall’altra l’entrata in vigore del matrimonio per tutti.

Uno spiritello troppo solo

Domovoi, uno spiritello di casa, si ritrova solo il giorno in cui la famiglia con cui vive parte. Per fortuna gli restano le vecchie cose della casa che, come i ricordi, hanno una vita propria e gli permettono di divertirsi, almeno per un po’. Domovoi infatti aspetta sempre che arrivi qualcuno a trovarlo, e per questo chiede di continuo «Kto Tam? Chi c’è?».

Concorso

«Azione» mette in palio 5x2 biglietti per Kto Tam, spettacolo di movimento e di teatro di figura della Domovoi Theatre Company pensato per bambini a partire dai 4 anni (andrà in scena il 29 gennaio 2023, ore 16.00, all’oratorio di Minusio). Per partecipare al concorso inviare una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Minispettacoli») entro sabato 21 gennaio 2023.

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non è
sempre Intervista ◆ All’Ufficio dello stato civile ogni anno giungono
Grilli pexels.com
nome
per
Guido
Teatro ◆ Per i più piccoli, appuntamento all’oratorio di Minusio con i Minispettacoli

Un tuffo nel mare triassico

Territorio ◆ Al Museo di Meride i fossili del Monte San Giorgio tornano a vivere

Si chiama e si chiamerà sempre museo, ma quello dei fossili del Monte San Giorgio ha molto di più da offrire. Per esempio una terrazza panoramica, un’aula didattica, filmati, oggetti da toccare, esperienze virtuali e tante emozioni. Un vero tuffo nel mare del Triassico medio, ossia un periodo compreso tra circa 247 e 237 milioni di anni fa, tra il Permiano e il Giurassico.

Un tuffo che si vive ancor più intensamente se si approfitta anche delle diverse possibilità per visitare l’esposizione di Meride che, nella sua forma attuale, ha da poco festeggiato i dieci anni. D’indubbio interesse sono gli occhiali di realtà virtuale, con i quali, seduti su una comoda poltrona, gli animali dell’ambiente marino prendono forma e movimento. Come per magia ci si ritrova immersi tra sauri, pesci e altri affascinanti esseri viventi. Un’esperienza appassionante: «Non si tratta di un filmato statico ma di una vera e propria ricostruzione digitale; si può interagire con gli animali, i quali si muovono a dipendenza delle scelte del visitatore seguendolo nei suoi movimenti», racconta Daniele Albisetti, responsabile del sito Patrimonio mondiale UNESCO per il lato svizzero, in cui è inserito anche il museo. La realtà virtuale, come ci spiega Albisetti, è d’altronde in grande espansione, anche a Meride: «Sì, il sistema è in funzione già dal 2019 e nel 2022 è stato affinato, mettendo l’ospite al centro dell’esperienza, mentre altri sviluppi sono in fase di studio. Anche per l’esposizione sono previste delle interessanti applicazioni, con l’animazione delle vetrine». Un prototipo di questo sistema è già in funzione e permette di far rivivere su uno schermo i fossili esposti, rendendoli interessanti per un pubblico ancor più ampio.

In ogni caso, l’esposizione è un concentrato di storia. Dal pianoterra ai livelli superiori sono esposti i ritrovamenti di un periodo di 4 milioni di anni. Orizzonti fossiliferi che sono ambienti di vita tra loro sovrapposti, ricostruiti grazie agli oltre 20mila fossili ritrovati, di cui solo una minima parte, chiaramente, è però presentata. Ogni stratificazione è contraddistinta dalla presenza di invertebrati, pesci e rettili (i sauri), la cui evoluzione si può seguire salendo di livello, grazie ai fossili, ma anche alle spiegazioni e alle ricostruzioni. Come quelle che accolgono i visitatori all’ingresso: si tratta per esempio di un grosso esemplare di Ticinosuchus ferox, uno dei rettili terrestri più famosi del giacimento, un ar-

cosauro, antenato dei dinosauri. Oltre ai modelli, il museo è anche ricco di calchi, ossia di copie dei fossili originali che, proprio perché si tratta di duplicati, si possono toccare. «Abbiamo contrassegnato esplicitamente i calchi che si possono (si devono) toccare con un simbolo di una mano, così che tutti siano invogliati a tastare, per poter vivere più intensamente la loro visita al museo», spiega Albisetti.

Una visita è chiaramente possibile anche con le guide o le audioguide, ma per chi preferisce essere indipendente il percorso è comunque disseminato di altri strumenti didattici, come le postazioni multimediali del Paleorama e il rilievo interattivo. Si tratta in sostanza di filmati coinvolgenti dove si cerca d’illustrare la storia del triassico, ma anche come i paleontologi siano riusciti e riescano tuttora a ricavare tante informazioni da apparenti semplici strati di roccia. Si apprende per esempio che una campagna di scavo è molto più complessa di quanto si possa immaginare: «Si fa solitamente solo uno scavo all’anno che dura alcune settimane, mentre il resto del tempo è necessario per la fase di preparazione (condotta dal Museo cantonale di storia naturale a Lugano) che significa liberare, ricomporre, identificare e descrivere i fossili», spiega brevemente Daniele Albisetti. Una volta riportati alla luce, i fossili sono oggetto di ulteriori studi che forniscono importanti indicazioni e informazioni sulla loro

vita, sull’ambiente circostante e sull’evoluzione. Un lavoro che oggi si svolge sempre più appoggiandosi anche alle nuove tecniche, compresi i modelli ricostruiti in tre dimensioni, che sono poi alla base dell’affascinante realtà virtuale e che arricchiscono le sale del Museo dei fossili.

Nel 2019 è stata inoltre inaugurata la terrazza panoramica della Val Mara, una postazione esterna a circa dieci minuti di cammino dal paese e dal museo di Meride (lungo il sentiero geo-paleontologico in direzione Serpiano). La parete rocciosa, alta circa 20 metri, permette di ammirare all’istante un profilo sedimentario di 60’000 anni del Triassico medio (in ogni metro ci sono circa 3000 anni), osservandone la successione dei molteplici strati che affiorano dalla fiancata, dove sono pure stati estratti alcuni dei fossili esposti. Un territorio d’indubbio valore, suggellato dall’entrata del Monte San Giorgio nella lista del Patrimonio mondiale UNESCO nel 2003 (nel 2010 anche la parte italiana). I primi fossili furono invece portati alla luce, e poi studiati da paleontologi, già nel 1850 e subito rivelarono la loro varietà e l’eccezionale stato di conservazione. «Il Monte San Giorgio – sottolinea in conclusione Albisetti – è d’altronde il miglior esempio al mondo di vita marina del Triassico medio».

Informazioni www.museodeifossili.ch

Con gli occhi dei ragazzi

Il museo nel corso degli anni ha implementato una serie di contenuti e di attività indirizzate ai ragazzi e ai bambini, in modo che una giornata a Meride diventi un’esperienza affascinante per tutta la famiglia o per le scolaresche. Questo senza escludere chi a Meride o nei dintorni abita, cercando dunque di avvicinare anche la popolazione al proprio territorio, tanto ricco e pregiato.

Ne sono un esempio, oltre alla terrazza panoramica della Val Mara, alle conferenze, alle visite e alle giornate di porte aperte, anche la nuova aula didattica nel bosco. Uno spazio pensato per le scolaresche ma agibile in qualsiasi momento dal turista e da tutti i visitatori.

A circa 40 minuti a piedi da Meride si scoprono di fatto «il mare di Ac-

qua del Ghiffo» e «l’Aula di Carpanee». Qui vengono organizzate attività in una zona fossilifera di grande valore, dove una volta c’era il mare triassico della Tetide.

Per i ragazzi, il museo offre inoltre una serie di percorsi o spunti a loro indirizzati, anche all’interno dell’esposizione di Meride. Per i bambini in età di scuola dell’infanzia si propongono attività pratiche, mentre per i più grandi (scuole elementari e medie) è stata pensata una visita in formato ridotto, con una dozzina di tappe da seguire con l'audioguida multimediale accompagnati dall'amico Fred, un simpatico Ticinosuchus che racconta ai piccoli visitatori l’affascinante mondo dei fossili, supportato da disegni, giochi e qualche domanda.

Il nuovo portale di Acquarossa

Online ◆ Il Comune ha sostenuto la creazione di un sito non istituzionale che valorizzi la regione

Qual è la storia della Chiesa Matta di Dongio? Chi conosce la vicenda del Mulino di Castro? E i segreti di Negrentino li sapete davvero tutti?

Queste sono alcune domande a cui dà risposta il nuovissimo sito web (che viene messo online proprio oggi 16 gennaio) Scopri-Acquarossa. ch. Un portale unico nel suo genere perché – seppur commissionato dal Municipio – offre una varietà di contenuti che va oltre quelli istituzionali. Un nuovo organo informativo che con un occhio guarda al passato e con l’altro si dedica, invece, al presente e al futuro.

Il progetto – oltre alla coordinatrice Sara Rossi Guidicelli – lo hanno ideato e costruito tre giovani della regione: Andrea Bonfanti (graphic designer) e Vito Guidicelli (webdesigner), con il supporto del video maker Andrea Guidicelli. I tre membri dello studio Inside of a dog hanno creato un sito agile, molto chiaro e comprensibile anche per chi con gli strumenti elettronici non ha molta dimestichezza: è infatti pensato per tutte le generazioni. Con loro abbiamo quindi voluto capire in che modo è nato e si è sviluppato il progetto.

to all’Organizzazione turistica regionale (OTR). «Nessuna concorrenza a questi due portali a disposizione del cittadino. La nostra è una piattaforma diversa che si basa sulle curiosità, sulle piccole storie e gli aneddoti passati e presenti, magari poco conosciuti. Inoltre, vuole anche essere un aggregatore di contenuti della due riviste: “La Voce di Blenio” e “La Rivista 3Valli”, senza scordarci delle altre e numerose realtà presenti sul territorio». Realtà che possono essere di vario tipo: associazioni, società di tutti i generi ma anche semplici cittadini che hanno – magari in cantina o in solaio – vecchi video, file audio o fotografie di ieri e di oggi che desiderano far conoscere.

Venendo alle storie pubblicate, il nuovo sito valorizzerà le curiosità ancora poco note come appunto la storia della Chiesa Matta di cui si accennava all’inizio o proponendo, per esempio, alcune registrazioni inedite della Vox Blenii. E questo grazie anche a personaggi della regione che sono la memoria storica dei fatti locali, il tutto offrendo anche i link esterni per approfondire i vari temi. Inoltre, sono stati creati i profili social legati al portale: una pagina Facebook e Instagram attive e aggiornate frequentemente.

«L’idea è nata nel 2019 ma su altre basi. All’inizio – ci dicono i tre curatori – il Comune aveva pensato di mandare alle stampe un libro sulla regione da poter mettere a disposizione dei cittadini e dei turisti. Ma ben presto si accorse che sarebbe stato più interessante elaborare un sito dinamico, aperto al pubblico, in continuo aggiornamento e soprattutto diverso da quello istituzionale. Per questa ragione il Municipio ha creato un gruppo di lavoro che ha dato delle indicazioni generiche e poi, con Sara, lo abbiamo sviluppato, definito e alla fine concretizzato». Come aggiungono Andrea e Vito l’obiettivo, sin da subito, è stato quello di elaborare un portale che coprisse il più ampio ventaglio di temi legati al Comune di Acquarossa. Su indicazione del gruppo di lavoro, sono quindi stati sviluppati diversi contenuti storici, ai quali sono stati aggiunti molti spunti legati all’attualità allo scopo di evidenziare i pregi di un Comune vivo, vivibile e adatto alle famiglie.

È uno strumento che si aggiunge al sito del Comune e a quello lega-

Il portale è stato voluto fortemente dal Municipio. In proposito abbiamo sentito la vicesindaco Michela Gardenghi che ha seguito da vicino l’affinamento del progetto: «È un sito innovativo e che sin da subito mi è piaciuto come abitante del Comune di Acquarossa. Siamo un paese di soli 1800 abitanti, ma frutto di un’aggregazione che ha coinvolto nove Comuni e le rispettive frazioni. E ogni frazione ha le sue particolarità, le sue vicende. Devo dire che personalmente ho scoperto aspetti che non conoscevo o che mi hanno ricordato eventi di quando ero bambina». Ecco perché Michela Gardenghi vede anzitutto nel nuovo sito uno strumento per l’abitante. Ma, ovviamente, è anche a disposizione di turisti, villeggianti e per chi desidera approfondire i diversi aspetti di questa regione molto ricca o, magari, anche andare ad abitarci.

«La costruzione del sito è stata interamente finanziata dal Comune, il quale si è pure avvalso – per alcuni contenuti – di personalità che si sono messe a disposizione a titolo volontario. Il sostegno, anche se con un budget più limitato, continuerà in futuro per il suo aggiornamento costante. L’idea è appunto quella di tenerlo vivo e illustrare le novità e i cambiamenti legati ad Acquarossa, magari dando voce alle nuove generazioni», conclude Michela Gardenghi.

Il lavoro per i tre progettisti e la coordinatrice non è mancato e molto altro seguirà. Ma l’attaccamento al territorio e la consapevolezza di aver creato un portale per promuoverlo al meglio è una ricompensa che va oltre la mera questione professionale; lo abbiamo avvertito sentendoli parlare di questo loro nuovo «figlio» che in poco tempo potrà diventare «figlio» di una valle intera. Informazioni www.scopri-acquarossa.ch info@scopri-acquarossa.ch

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 16 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ
(@ J. Perler / FMSG)
Elia
Il
museo
propone
un acquario virtuale grazie alla realtà aumentata. Nicola Mazzi La Chiesa di Negrentino. (www.scopri-acquarossa.ch)

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Immenso e fragile mondo sommerso

Ambiente ◆ Le specie marine dell’acquario di Genova nuotano in vasche con acque controllate e pulite, mentre il 40 per cento degli oceani del mondo soffre a causa delle attività umane

Conta 27mila metri quadri ed è il più grande in Europa. Stiamo parlando dell’Acquario di Genova, luogo straordinario che permette di ammirare da vicino, anche se con un vetro in mezzo, oltre quattrocento specie marine; contesto eccellente in cui porsi le principali questioni legate alla tutela della biodiversità e alla conservazione della variegata fauna marina che abita gli oceani, messa a rischio dallo sfruttamento dei mari, dall’inquinamento e dai cambiamenti climatici.

L’interno dell’acquario è invaso da bambini e ragazzi che guardano a bocca aperta a pochi centimetri dal loro naso lo spettacolo offerto dai maestosi squali, dagli eleganti delfini e dai simpatici pinguini che danzano dentro le enormi vasche. Ed è proprio questa bellezza – che in natura è messa a rischio dalla sofferta fragilità dell’ambiente marino – a poter sensibilizzare le giovani generazioni, ma anche quelle meno giovani, sull’importanza che rivestono i progetti volti a salvaguardare il mare, a partire da quello collettivo, ovvero da ciò che possiamo fare tutti, rendendoci più responsabili verso la fauna acquatica. Giova ricordare che nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile stilata dalle Nazioni Unite, il punto numero 14 riguarda proprio la vita sott’acqua. Gli obiettivi principali sono: ridurre in modo significativo ogni forma di inquinamento marino, sostenere la protezione dell’ecosistema marino, e diminuire la pressione di pesca eccessiva combattendo contemporaneamente quella illegale.

Le specie marine dell’acquario di Genova nuotano in vasche con acque assolutamente controllate e pulite, mentre il 40 per cento degli oceani del mondo è condizionato dalle attività umane, con ricadute devastanti che, per l’appunto, inquinano e distruggono interi habitat naturali.

Camminando nei corridoi dell’acquario, dove le luci sono soffuse, si rimane affascinati davanti alla grande vasca dei delfini: sembra che danzino quando li si vede nuotare sott’acqua, illuminati dalla luce solare che filtra dall’alto dalla grande piscina all’aperto. Si immergono e poi risalgono verso la luce. I bambini sono incantati, forse ricordano i personaggi di una favola. Sembra tutto tanto bello a guardarlo da qui. Se non fosse che un terzo della popolazione marina è a rischio estinzione a causa della pesca estensiva, mentre almeno un terzo degli habitat marini è già andato distrutto.

Bisognerebbe sempre ricordare che i mari e gli oceani del mondo ricoprono tre quarti della superficie terrestre e la loro temperatura, le loro correnti, così come la loro vita, influenzano in maniera determinante la vita dell’uomo sulla terra. È quindi fondamentale preservarli gestendo in modo ottimale «i contaminanti» perché gli oceani sono una risorsa e stanno alla base di un futuro sostenibile. Mari e oceani sono stati sfruttati dall’uomo in maniera

indiscriminata, sia direttamente, con la pesca, sia indirettamente, con l’inquinamento, per troppo tempo. E ciò sebbene siano i nostri più grandi alleati: mari e oceani sono sempre stati fonte di cibo e di lavoro per migliaia di persone, e sono vitali per il commercio e il trasporto. Non solo. Oggi risultano essere più che mai un’importantissima risorsa anche per contrastare una delle principali cause del riscaldamento globale, in quanto assorbono il 30 per cento dell’anidride carbonica.

Da una parte dunque non possiamo fare a meno dei mari, dall’altra se non li proteggiamo dai nostri stessi bisogni perderanno la loro forza di soddisfarli. Da ciò nasce la necessità di trovare in alcuni casi il giusto equilibrio; ad esempio vanno tenute in considerazione le esigenze delle popolazioni, molto spesso povere, che vivono o sopravvivono lungo le coste degli oceani grazie alla pesca – molto spesso illegale o distruttiva come quella a

strascico – apportando migliorie e intervenendo per avviare trattative utili a gestire la situazione in modo diverso. Dall’altra bisogna invece aumentare controlli, prevenzione e tecnologie per diminuire le cause inquinanti, soprattutto le materie plastiche, che aumentano ogni anno. Tale contenimento migliorerebbe di certo la qualità dell’acqua, che a sua volta contrasterebbe il cambiamento climatico, che pure incide in maniera sostanziosa sugli oceani e sulle specie marine che li abitano.

I problemi che affliggono i mari sono stati individuati e messi bene a fuoco dai vari governi e organizzazioni ma le soluzioni non sono per nulla semplici e immediate. Anzi, sarà sicuramente un percorso lungo, dove diversi attori (governi, società civili, industrie, aziende e chi sfrutta le risorse marine) dovranno remare nella stessa direzione, sottoscrivendo anche scelte non popolari, per raggiungere l’im-

portante obiettivo di riportare in salute gli oceani e la loro fauna.

Per queste ragioni la visita dell’acquario di Genova non dovrebbe rimanere un’esperienza solo di svago o curiosità, ma dovrebbe venir affrontata con la consapevolezza che la biodiversità marina è un sistema di fragili equilibri, dove dalla sopravvivenza di una singola specie può dipendere la vita di un intero ecosistema. Come ci è stato spiegato da un biologo: la biodiversità marina non è uguale in tutti i mari della Terra, ma varia al variare della latitudine: più si va verso l’equatore, (che equivale a più sole e calore), più aumentano le diverse specie biologiche. Quindi la biodiversità (e di conseguenza tutti i fattori che la minacciano) non è distribuita in maniera uniforme.

Alcune specie e alcune aree sono più a rischio di altre, e soffrono maggiormente i mali che affliggono le immense distese di acqua sala-

ta. Intraprendere la strada per salvare il pianeta, i suoi oceani e le sue specie marine è una sfida fondamentale per l’uomo, una sfida non semplice ma che si può vincere e che può portare solo benefici a livello globale per un futuro più sostenibile.

In fondo, guardando tutti questi bambini e ragazzi che visitano l’Aquario di Genova, immortalandosi in selfie davanti alle varie vasche con alle spalle meduse o pesci dai mille colori, viene subito da pensare che il futuro sono loro e dovranno essere loro a combattere ancora di più per la salvaguardia del pianeta ed evitare che, in un futuro prossimo, non ci resti altro che vedere le specie marine solo dentro delle vasche e sentire racconti di quando una volta popolavano i mari della terra.

Informazioni

Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch

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I vicoli della Praga ebraica

Tra ghetti ormai deserti, così belli da diventare Patrimonio UNESCO, sinagoghe tornate al loro antico splendore e malinconici cimiteri

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I mille suoli dei vigneti «neuchâtelois»

Da Vaumarcus al lago di Bienne sino a Le Landeron, si contano in tutto circa 40 chilometri di terreni vitati

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Al di là di regole e canoni estetici

Un tuffo nell’arcipelago maltese Hotelplan, in collaborazione con «Azione», organizza un viaggio nel Mediterraneo per i nostri lettori

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Fotografia ◆ Sono a volte proprio gli «errori» – anche quelli volontari – a dar voce a uno scatto, in barba a tutti i canoni

Per come abbiamo avuto finora modo di vedere, la pratica fotografica sembrerebbe sorretta da una somma poderosa di regole tecniche, leggi ottiche e chimiche, procedure operative eccetera. Insomma, da una collezione di indicazioni prescrittive che, a modo loro – seguendole pedissequamente – determineranno, restringendolo, il nostro campo d’azione. Aggiungiamo, a questo insieme di norme, anche i canoni estetici che danno forma al nostro immaginario collettivo, e che hanno un peso nel farci scegliere cosa e soprattutto come fotografare: dopo lo scatto, sulla base di tutti questi dettami, decideremo cosa ci è riuscito e cos’altro no, quali sono le foto utili o interessanti e quali quelle da scartare. L’atto fotografico, in realtà, offre prospettive d’azione che oltrepassano di gran lunga quanto solitamente tendiamo a prestargli

In realtà, il campo del fotografico – per nostra fortuna – non si limita a quanto realizzato seguendo quei criteri. Di sicuro ci è già capitato più volte di riscontrare come, nel corso della nostra pratica, s’insinuino con una certa frequenza errori, grandi o piccoli che siano e di varia natura – dettati da vari fattori. Il digitale ci permette di verificare sul momento quanto stiamo facendo, di modo che facilmente andremo a porre rimedio. Ed è probabile che non staremo a valutare troppo attentamente, lo scatto «sbagliato» in base alle regole di cui dicevamo all’inizio. Irrimediabilmente sovraesposto o sottoesposto, mosso, sfuocato, mal inquadrato o che altro, quello scatto lo posteggeremo in fretta nel limbo dell’inutilizzabile per poi inabissarlo nelle profondità senza ritorno del cestino digitale.

Errori d’ordine accidentale, dovuti a una mancanza d’attenzione, a troppa fretta, al dispositivo di ripresa difettoso o mal sfruttato, o a una semplice insufficienza tecnica possono invece rivelarci, quando attentamente osservate, immagini d’inaspettata bellezza e valore. Non dimentichiamo che da sempre l’errore ha avuto una funzione importante nel disegnare i percorsi conoscitivi nei vari ambiti d’azione dell’uomo. Grazie all’errore abbiamo potuto scoprire cose altrimenti inimmaginabili e pertanto inaccessibili se ci fossimo mossi solo in ordine al risultato cercato. Da ciò, la fotografia non è sfuggita. Nel corso della sua storia, si è inevitabilmente piegata a quella medesima logica: che fosse per i materiali come pure per le tecniche, tante innovazioni si sono concretizzate proprio grazie al prezioso intervento dell’errore e del caso.

Vi è però un’altra categoria di errori, che a noi qui interessa più particolarmente, ed è quella che possiamo definire degli errori a carattere volontario. Non sempre o necessariamente distinguibili da quelli accidentali, gli «errori» causati o ricercati dal fotografo stesso incarnano una strategia che mira a una messa in questione, quando non al sovvertimento, dei princìpi estetici che guidano la nostra pratica. Pur essendo frutto di percorsi creativi individuali, queste strategie acquistano maggior senso inscrivendole e osservandole in una prospettiva storica di più ampio raggio, che coinvolge tanto la storia del nostro media quanto pure quella dell’arte e della cultura più in generale.

La fotografia, che per tutto l’Ottocento è stata fortemente condizionata dalla pittura, riesce da quella a emanciparsi con l’emergere delle avanguardie storiche d’inizio Novecento. Il Surrealismo, in particolare, ebbe il merito di rivelarci con quale efficacia la fotografia fosse in grado di mettere in luce quelle faglie celate nell’ordine razionale della realtà. E ciò, proprio in gran parte sfruttando gli aspetti fortuiti o considerati errati dalla scienza fotografica più ortodossa.

Esposizioni multiple, errori in fase di sviluppo e di stampa, scatti accidentali, immagini mosse, distorte, capovolte, con aberrazioni ottiche, attraversate da riflessi, da elementi estranei, vennero accolti a braccia aperte dall’estetica del Surrealismo per la loro facoltà di stimolare nello spettatore uno sguardo capace di andare oltre la stretta realtà registrata. L’immagine fotografica diveniva una porta d’accesso alla libera esplorazione di spazi densi di stimoli d’ordine psichico, onirico e poetico, oltrepassando così il suo ruolo funzionale e descrittivo fino ad allora preminentemente incarnato. Stava al fotografo trovare e adottare le strategie operative che facilitassero l’insinuarsi del fortunato caso nel suo agire.

Sempre nel contesto delle avanguardie storiche – le cui ricerche e scoperte, come è pure il caso dell’approccio appena sopra descritto, continuano a riverberarsi nella produzione della fotografia contemporanea – vi è stata un’indagine più sperimentale dell’errore, portata a evidenziare gli elementi costitutivi del media fotografico. In quest’ottica, l’errore – o meglio, ciò che generalmente viene identificato come tale – ci indica le zone più periferiche dello spazio fotografico.

Il lavoro di decostruzione effettuato con l’esplorazione di queste zone permette di evidenziare il fatto che la fotografia non sia di per sé un oggetto neutro, volto ad accogliere passivamente il reale, ma che semmai costituisca un complesso appara-

to semantico: dietro a ogni immagine stanno dei materiali, con le loro peculiarità, dei dispositivi tecnici e linguistici, una storia del media e soprattutto qualcuno che su tutto questo scientemente agisce e qualcun altro che in seguito, in base ai suoi personali criteri, ne interpreterà gli esiti. Senza voler dimenticare che la pertinenza di questo discorso dipen-

de anche dall’ambito in cui si opera e dalle esigenze di accuratezza che questi richiede, possiamo cominciare a capire perché, da un punto di vista generale, ciò che interpretavamo come «errore», alla fin dei conti, non è altro che il frutto di una delimitazione storica, e di conseguenza in continua evoluzione, del campo del plausibile. E che dunque, l’atto fotografico

in realtà offre prospettive d’azione che oltrepassano di gran lunga quanto solitamente tendiamo a prestargli. Restando nello stretto ambito del fotografico, l’esplorazione programmatica di quegli spazi al di là della norma, rappresenta una sfida non meno importante e fruttuosa, e soprattutto plausibile, di quelle offerte dai percorsi più canonici.

TEMPO
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 16 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 11
LIBERO
La rottura dell’apparecchio fotografico durante una corrida de toros nella Camargue ha forzato la selezione dell’inquadratura che in sequenza ci pare ne aumenti la drammaticità. (Manuela Mazzi)

La capitale della Repubblica Ceca e le sue radici ebraiche

Reportage ◆ Dietro le sconvolgenti liste degli scomparsi scolpite sui muri della sinagoga Pinkas di Praga ci sono generazioni di rabbini, sapienti e mercanti

Ufficialmente la storia dice che Altneu – nome tedesco della sinagoga «Vecchio-Nuova» – si riferisce a un edificio precedente, ma gli ebrei di Praga hanno sempre saputo che il suo significato autentico è «A meno che», perché se un giorno a Gerusalemme decidessero di ricostruire il Tempio di Salomone, loro dovrebbero restituire i mattoni della più antica sinagoga ancora attiva d’Europa, mattoni arrivati fin qui per imperscrutabili vie divine direttamente da Gerusalemme.

Dietro la facciata scura e mangiata dal tempo, quasi inquietante tra le eteree architetture Art Nouveau del quartiere di Josefov, il silenzio ovatta un universo parallelo di volte gotiche e anfratti misteriosi dove sarebbero nascosti i resti del Golem, il gigante d’argilla dalla forza mostruosa. Lo aveva creato un rabbino così famoso da essere chiamato alla corte dell’imperatore Rodolfo II, Judah Loew ben Bezalel, utilizzando una formula segreta della kabbalah per proteggere gli ebrei di Praga da angherie e persecuzioni. Era finita male, però, perché il Golem, inferocito per essere costretto a lavorare il Sabbath, mise a soqquadro il quartiere ebraico, così che il rabbino fu costretto a ridurlo nuovamente a un ammasso di fango secco cambiando la parola emet, «verità», scritta sulla sua fronte, in met, «morte». Leggenda che ha ispirato il Frankenstein di Mary Shelley.

Un filo rosso di uomini e storie si srotola fino alla Moravia sotto un cielo che ha solo grigi infiniti come confine

Judah Loew ben Bezalel è invece sepolto nel vicino cimitero ebraico, una città dei morti nel cuore della città dei vivi dove secoli di mancanza di spazio hanno compresso oltre dodicimila lastre tombali gotiche, rinascimentali e barocche in una surreale stratificazione a cipolla. Dalle pagine di Praga Magica di Angelo Maria Ripellino – un must per chi cerca le atmosfere inquietanti di una Praga ormai perduta –, al Cimitero di Praga di Umberto Eco che ambienta tra quelle tombe un immaginario raduno notturno di rabbini intenti a scrivere i Protocolli dei Savi di Sion per conquistare il mondo. Una storia immaginaria come il documento, che però è stata alla base di una perversa Bibbia dell’antisemitismo del Novecento.

Tutto intorno, insegne di negozi e locali rievocano la tormentata esi-

stenza di Kafka trasformata in un’attrazione per anime belle in cerca di introversioni all included, mentre alle spalle del suo monumento trionfa l’eclettica architettura romanico-moresca della Sinagoga Spagnola, simbolo di una nuova borghesia ebraica, elemento fondamentale della Praga asburgica e della Cecoslovacchia nata dopo la Prima guerra mondiale.

Molti di loro, di questi ebrei borghesi, prima di salire sui treni della morte passarono da Terezìn, la Theresienstadt asburgica, una città-fortezza dove i nazisti avevano stipato sessantamila persone mettendo in scena un ghetto-modello, in senso letterale perché in occasione di una visita della Croce Rossa avevano persino costruito falsi negozi, docce, e utilizzato i prigionieri in condizioni migliori come attori per realizzare un documentario di propaganda, Il Führer dona un villaggio agli ebrei, reclutando un regista ebreo in cambio della salvezza, salvo deportarlo subito dopo ad Auschwitz con la moglie, per nascondere un backstage di violenza, fame e dolore sopravvissuto nelle centinaia di disegni dei bambini deportati, miracolosamente ritrovati dopo la guerra in una valigia abbandonata alla stazione di Praga.

Sono tanti i modi per raccontare una storia come questa, che riguarda tutti noi perché questo è il cuore profondo di radici che fanno dell’Europa un territorio comune. Certo le persone che lo abitavano non ci sono più, ma dietro le sconvolgenti liste degli scomparsi scolpite sui muri della sinagoga Pinkas di Praga ci sono generazioni di rabbini e sapienti, mercanti che univano il Baltico al Mediterraneo lungo la Via dell’Ambra, banchieri che finanziavano guerre e lussi di nobili e sovrani, artigiani e gente comune.

Un filo rosso di uomini e storie che si srotola fino alla Moravia sotto un cielo che ha solo grigi infiniti come confine, dove gli immaginifici rabbini svolazzanti dipinti da Chagall sono sostituiti da stormi di uccelli che sfiorano sinagoghe tornate al loro antico splendore in ghetti ormai deserti, mentre il vento d’autunno scivola sulle lapidi ricoperte di muschio di malinconici cimiteri.

Třebíč, un aggrovigliato labirinto di stradine che ricorda il villaggio ebraico del film Train de Vie, nasconde Zamosti, il primo sito ebraico Patrimonio UNESCO fuori da Israele, grazie al vertiginoso eclettismo di stili delle sue case, oltre un centinaio. In cima alla collina, oltre tremila tombe

scivolano lungo il fianco di una collina boscosa, con le loro incrostazioni che raccontano una storia spezzata bruscamente dalla Seconda guerra mondiale. Una simbolica specularità all’ordinata razionalità del cimitero ebraico di Židenice a Brno dove tombe simili a templi classici parlano di una borghesia industriale e intellettuale che, anche attraverso il simbolismo architettonico, esprimeva un desiderio di

integrazione, un drammatico ultimo lampo di luce prima del buio della Seconda guerra mondiale.

Contrapposizione che ritorna tra la colorata esplosione di decorazioni baroccheggianti della sinagoga di Boskovice e lo scarno funzionalismo di Villa Tugendhat progettata dal famoso architetto Ludwig Mies van der Rohe a Brno. Espressione di un mondo ebraico ormai integrato che proba-

bilmente avrebbe fatto inorridire il venerato rabbino Shmuel Horowitz, un mistico hassidim polacco del diciottesimo secolo sepolto sulla Collina dei Rabbini di Mikulov dove, ancora oggi, fedeli di tutto il mondo lasciano fogli slavati dalla pioggia fitta di preghiere e richieste.

Per secoli Nikolsburg, il nome yiddish di Mikulov, è stata il cuore della Moravia ebraica, la «Stella di Israele» lungo la Via dell’Ambra con le sue dodici sinagoghe e le celebri yeshiva, le scuole religiose dove i futuri rabbini apprendevano il Talmud ai piedi di una cascata di case e palazzotti barocchi sotto l’imponente castello, «un pezzo d’Italia spostato in Moravia dalle mani di Dio» secondo il poeta Jan Skácel. Vienna dista poco più di ottanta chilometri, una vicinanza non solo geografica perché dalla corte imperiale sono arrivate per secoli le buone e le cattive notizie per gli ebrei della Boemia e della Moravia. Ma questa è un’altra storia.

Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 16 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 12
Trebic. Il quartiere ebraico qui è uno dei meglio conservati e il più grande d’Europa. Sopra, il grande cimitero ebraico di Mikulov è uno dei più significativi del Paese; la più antica pietra tombale risale al 1605. Enrico Martino, testo e foto La Sinagoga «VecchioNuova» fu costruita in stile gotico intorno alla metà del XIII secolo. Di fianco, edifici Art Nouveau del quartiere Josefov.

Culla del vero Oeil-de-Perdrix

Bacco giramondo ◆ Continua il viaggio elvetico tra i vigneti di Neuchâtel

Il vigneto «neuchâtelois» si estende da Vaumarcus al lago di Bienne sino a Le Landeron. I suoi terreni coltivati a viti e orientati verso mezzogiorno o verso sud-ovest restano protetti – dai freddi venti provenienti dal nord e dalle fredde piogge che arrivano da ovest – grazie ai contrafforti del Giura. Una condizione ottimale che però non permette loro di sfuggire alle gelate primaverili e alla grandine. In compenso il benefico calore proveniente dal lago garantisce la maturazione delle uve, quasi fosse un tampone termico.

È certo che la vigna qui esisteva prima dell’arrivo delle legioni di Roma (molti toponimi in zona ne confermano l’antica presenza), ma si potrebbe anche supporre che le popolazioni celtiche (III e II sec. a.C.) conoscessero già il suo frutto, visto che negli scavi del locale sito archeologico La Tène sono stati ritrovati dei vinaccioli negli agglomerati palafitticoli del lago. Quel che è certo è che l’avventura dei vini di questa zona incomincia nel 998 d.C., quando il «Signore» Rodolfo I di Neuchâtel dona delle vigne ai monaci dell’abbazia di Beauvais.

Oggi un’incredibile quantità di suoli diversi forma il vigneto cantonale, sebbene si noti in tutti i terreni un’importante presenza di calcare: rocce sedimentarie e calcaree tra Boudry, Cortaillod e Auvernier; terreni

sabbiosi di origine glaciale a Bevaix; e terreni ghiaiosi a Le Landeron. In tutto sono circa 40 km di vigna situati tra il lago e il Giura e interrotti solo per qualche chilometro dalla città di Neuchâtel prima di continuare sui pendii coltivati tra i 430 e i 600 metri d’altitudine. Con i suoi circa 600 ettari vitati, Neuchâtel è il sesto cantone viticolo svizzero.

Ben inquadrato in un sistema di viticoltura di qualità, Neuchâtel limita il rendimento dei suoi vitigni a 900 g/mq per il Pinot Nero e 1,1 kg/ mq per lo Chasselas. Da notare pure come Neuchâtel sia stato il pioniere e la figura modello che ha aperto la strada all’agricoltura Bio in Svizzera agli inizi degli anni Novanta; oggi più del 25% del vigneto del Cantone porta ufficialmente il marchio Bio.

I circa 40 km di vigneti, che affondano le radici su suoli poveri di humus, ma ricchi di sali minerali, sono allevati per il 61% da vitigni rossi, mentre il 39% è destinato a vitigni bianchi. I vini prodotti nei suoi diciotto comuni viticoli – tra cui Auvernier, Boudry, Colombier, Saint-Blaise o Ville de Neuchâtel – portano tutti in etichetta (grazie a un decreto del 2007) il nome Neuchâtel.

Il Pinot Nero è senza dubbio il vitigno più coltivato ed è quello ufficialmente autorizzato; la sua produzione è incoraggiata grazie al terreno e al clima molto simile ad alcune zone

della Borgogna. In pochi anni si ottengono vini di razza e molto eleganti: lasciati in cantina per qualche anno, eccitano la curiosità come quello da noi provato a Cortaillod.

A base di Pinot Nero troviamo pure degli Spumanti, ma certamente il vino più conosciuto è l’avvolgente Oeil-de-Perdrix, un rosato del quale i produttori di Neuchâtel, vittime di un eccesso di fiducia, non hanno saputo proteggere il nome; chi ama questo genere di vino sa però che il caratteristico Oeil-de-Perdrix è quello di Neuchâtel che, grazie alla morbidezza, ha fatto del suo colore un’arte. Prodotto da molto tempo, ma poco conosciuto è il Perdrix Blanchem, un blanc de noir, che abbiamo provato ad Auvernier: pieno di charme, oseremmo dire quasi sensuale, è l’ottimo compagno durante una merenda a base di formaggi della zona. Tra i rossi troviamo pure qualche ceppo di Gamaret, di Garanoir e di Merlot. I vini prodotti da vitigni a bacca bianca offrono una paletta di profumi e sapori molto particolari, grazie alla loro mineralità, dovuta al terreno calcareo onnipresente, e la mordente caratteristica per la presenza di gas carbonio.

Abbiamo trovato i vini di Neuchâtel sparsi per il mondo (forse perché resistono bene al trasporto) nei migliori hotels.

Il dominatore assoluto tra queste tipologie è lo Chasselas che copre cir-

ca il 36% del territorio; ne abbiamo provati alcuni all’enoteca Château de Boudry, dove si trova pure un museo del vino e della vigna. Curioso il Non Filtré, un Chasselas che viene presentato torbido alla terza settimana di gennaio, messo in bottiglia con le sue fecce: ricco di profumi, è molto amato e ad oggi più del 10% della produzione è usato per il commercio; incomincia a piacere anche in altri cantoni.

Sei sono i vitigni autorizzati ad avere l’A.O.C. (Appellation d'Origine Contrôlée), solo il Pinot Nero tra i rossi; tra i bianchi: lo Chasselas 216 ha; il Pinot Grigio 22 ha, che dona un vino fruttato e avvolgente; lo Chardonnay 19 ha, ampio e rotondo con note di frutta esotica; il Gewürztraminer 3,4 ha, fresco e aromatico; il

Müller-Thurgau 3,5 ha, che è un po’ il bianco emblematico della Svizzera del nord; il Sauvignon 4,8 ha, dai notevoli profumi e freschezza. Troviamo pure qualche ettaro vitato a Doral e Pinot Bianco

Istituito nel 1985 dalla Federazione dei vignerons di Neuchâtel, l’etichetta «La Gerle», marchio di qualità, ricompensa gli Chasselas e Oeil-de-Perdrix che hanno ottenuto 18/20 nel punteggio di degustazione.

Un Müller-Thurgau molto aromatico con note erbacee fa da accompagnamento sia come aperitivo, sia a un’«insalata campagnola»; il rosa salmonato e le incredibili nuances di un Oeil-de-Perdrix creano invece il perfetto connubio con una «omble chevalier» (salmerino alpino) profumata con timo e prezzemolo.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 16 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 13
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Vista su Cortaillod, con i suoi vigneti e il suo porto sul Lago di Neuchâtel. (Cortaillodvigne) Annuncio pubblicitario

Viaggio ◆ Per i lettori di «Azione», Hotelplan organizza dal 29 aprile al 6 maggio 2023 un tour a Malta

Settemila anni di storia circondati dal profondo blu del Mediterraneo. Può essere così riassunto il fascino di Malta, isola che alcuni lettori di «Azione» avranno la possibilità di visitare questa primavera, dal 29 aprile al 6 maggio 2023, in gruppo, accom-

Il programma di viaggio

1. Ticino – Linate – Malta

In pullman fino a Linate, e partenza per Malta. Trasferimento in hotel****.

2. La Valletta & Malta Experience

Visita de La Valletta, con i giardini chiamati «Il Belvedere d’Italia» e la Cattedrale di San Giovanni. Spettacolo in multivisione The Malta Experience. Visita al Museo Nazionale di Archeologia e al Forte di Sant’Elmo.

3. Mdina

L’antica cittadella di Mdina e la Cattedrale, con panoramica dell’isola. Da Mdina alle catacombe di Rabat, fino alle scogliere di Dingli. Visita ai giardini botanici di San Anton e alla Chiesa Rotonda di Mosta. Sosta al villaggio dell’artigianato di Ta’ Qali.

pagnati da una guida di lingua italiana, con partenza dal Ticino e un soggiorno di 8 giorni (7 notti). Questo viaggio, organizzato in collaborazione con «Azione» prevede un itinerario ben preciso che svelerà la natura dell’isola, paragonabile a un museo

all’aperto ricco di riferimenti storici di tutti i tempi, ma che pure vanta una vibrante vita notturna e un’ottima gastronomia: sebbene l’arcipelago maltese abbia dimensioni modeste, moltissimi sono i motivi per visitarlo!

4. Le Tre Città

La zona storica conosciuta come «Le Tre Città» (Vittoriosa, Cospicua e Senglea). Da Cospicua fino all’antica Birgu. A bordo di un’imbarcazione tipica, giro delle calette che formano il Grande Porto. A Senglea è prevista una sosta alla «vedetta» da dove si può ammirare il porto e la Valletta dall’alto. Attività individuali.

5. Gozo

Escursione a Gozo. Visita alla «Inland Sea» a Dwejra, la Cittadella di Victoria, la baia di Xlendi e i Templi di Ggantija. Uno spettacolo culturale mostrerà la storia di Gozo attraverso i secoli. Rientro a Malta con il traghetto.

Locarno-Muralto

Piazza Stazione 8 6600 Muralto T 091 910 37 00

locarno@hotelplan.ch

Cruciverba

Bellinzona

6. Hagar Qim – Grotta Azzurra –Marsaxlokk – Grotta dell’Oscurità Visita del sud dell’isola. Dal villaggio di Qrendi, al complesso dei Templi di Hagar Qim. E poi ancora: Wied iz-Zurrieq fino, meteo permettendo, alla Grotta Azzurra. Il villaggio di pescatori di Marsaxlokk. E la visita della Grotta dell’Oscurità, una delle prime abitazioni dell’arcipelago.

7. Malta Giornata libera per approfittare della spiaggia e dei servizi dell’hotel, attività individuali, relax o shopping.

8. Malta – Linate – Ticino Trasferimento in aeroporto in tempo utile per il volo verso Linate. All’arrivo, rientro in Ticino con pullman privato.

Viale Stazione 8a 6501 Bellinzona T 091 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch

Lugano Via Ferruccio Pelli 7 6900 Lugano T 091 910 47 27 lugano@hotelplan.ch

Prezzo per persona

L’itinerario può subire variazioni, anche durante il viaggio, per ragioni tecniche operative pur mantenendo le visite del tour. Il viaggio viene effettuato con un minimo di 15 partecipanti. Il prezzo che segue è soggetto ad adeguamenti per fluttuazioni dei cambi valutari o supplementi carburante e/o tasse aeroportuali.

Prezzo per persona in camera doppia standard 1830.– CHF. Supplemento camera singola standard 380.– CHF.

La quota comprende

Trasferimento dal Ticino a Milano Linate e rientro; volo andata e ritorno in classe economica; trasferimenti aeroporto-hotel-aeroporto con assistente italofono; sistemazione in camera doppia standard presso l’Hotel Dolmen**** (o similare); pasti come da programma; pullman privato e guida locale parlante italiano;

Tagliando di prenotazione

Desidero iscrivermi al tour di Malta dal 29 aprile al 6 maggio 2023

Nome Cognome Via NAP Località Telefono

e-mail

Sarò accompagnato da ........... adulti.

Sistemazione desiderata (cerchiare ciò che fa al caso).

Variante singola: SI NO

escursioni e ingressi come da programma; tasse aeroportuali e di sicurezza; accompagnatore Hotelplan dal Ticino.

La quota non comprende

Supplemento camera singola standard; spese dossier Hotelplan 100.– CHF; bevande; pasti non menzionati; mance per autista e guida; facchinaggio; spese di carattere personale; assicurazione contro le spese d’annullamento; tutto quanto non indicato alla voce «la quota comprende».

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 16 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 14 Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito
valore
franchi,
sorteggiati tra
che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione
nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale:
cartolina
nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano».
si intratterrà
concorsi.
vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera. ORIZZONTALI 1. Canti religiosi 4. Trasparenti, limpidi 9. Borsa a Parigi 10. Leggero, debole 11. Sillaba sacra ai buddisti 12. Alto come quello di cacio... 13. Posta alla fine 14. Amanti del legno... 15. Preposizione articolata 16. Dispensato da un obbligo 18. Uno strato di tinteggiatura 19. Più versa più guadagna 21. Consacrate a Dio 22. Pronome personale 23. Il dei tali... 24. Un Marco imperatore VERTICALI 1. Formano gli arcipelaghi 2. Infatti in latino 3. Iniziali di Copernico 4. Una preposizione 5. Perciò in poesia 6. Possessivo 7. In piedi dopo la prima 8. Il nome dell’autore de «Il Barone rampante» 10. Piegate, curve 12. Pie, buone 13. Un ufficiale abbreviato 14. Misura le tensioni elettriche 15. Le iniziali dell’attore Abatantuono 17. Sono senza fine 20. La minore delle isole Cicladi 21. La tredicesima ora 22. È peggio che tardi 23. Sono pari nello stile
web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del
di 50
saranno
i partecipanti
del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku
la lettera o la
postale che riporti la soluzione, corredata da
Non
corrispondenza sui
Le
5) Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate. Soluzione della settimana precedente Miglior marcatore di calcio della nazionale italiana: GIGI RIVA e si è aggiudicato il primato con: TRENTACINQUE GOL 1 23 4567 8 9 10 11 12 13 14 15 1617 18 19 20 21 22 23 24 G I GANT I I R IDE V AS TA PA RU E CA N A T CAR APA CE ICO NE Q UEL I ARNI E REI SONDE MI E T ASIA GI OE LE 2 1 57 8 39 6 4 8 4 2 1 2 7 9 3 7 6 1 2 95 7185 432 96 6391 725 48 4259 681 73 2 9 4 6 5 1 3 8 7 5874 396 12 1638 279 54 8 4 1 2 9 6 7 3 5 9723 854 61 3567 148 29
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Viaggiatori d’Occidente

Oroscopi itineranti

Dove andremo nel 2023? All’inizio dell’anno ogni giornale di viaggio prova a dire la sua, proponendo una sorta di oroscopo itinerante, spesso non più attendibile di quelli dei maghi. Nel 2020 (e seguente) la pandemia vanificò ogni previsione; nel 2022 ci pensò la guerra. E tuttavia inevitabilmente si ricomincia sempre da capo.

Per esempio l’autorevole quotidiano inglese «The Guardian» mi consiglia di venire a… Lugano, per imbarcarmi sul battello elettrico «Ceresio» e visitare il sentiero degli olivi di Gandria. In alternativa suggerisce l’isola di Cefalonia, nell’arcipelago delle Ionie, dove ho passato quasi più tempo che a casa mia. Suggerimenti che mi lusingano e confermano le mie scelte, ma non aprono proprio nuove prospettive.

Al di là di questa falsa partenza, questo gioco delle liste d’inizio anno è

sempre uguale e al tempo stesso diverso («Same same but different », come dicono in Thailandia). Di solito qualche evento mette in luce una destinazione. Difficilmente andreste a Eleusi (Grecia), Timișoara (Romania) e Veszprém (Ungheria) se non fossero state nominate capitali europee della cultura 2023. E nel 2024 toccherà a Tartu (Estonia), Bodø (Norvegia) e Bad Ischl (Austria). Per lo stesso ruolo l’Italia punta su Bergamo e Brescia, che peraltro si detestano cordialmente, ma hanno condiviso la tragedia del Covid.

«Lonely Planet», la principale guida internazionale, propone invece trenta destinazioni particolarmente interessanti in tutto il mondo, per la prima volta dando spazio a motivazioni diverse: mangiare, viaggiare, connettersi, rilassarsi, imparare. Tra le varie proposte, ho scoperto Accra, affacciata sull’Atlantico nel Golfo di Guinea.

Passeggiate svizzere

Il Café de Paudex

Alle dieci e quarantanove, un mattino verso la metà di gennaio, due vecchietti bevono un bianco seduti a un tavolino del Café de Paudex (380 m), piccolo comune che costeggia il Lemano per cinquecento metri, tra Pully e Lutry, e trae il nome dal riale Paudèze. Il lambris di legno, fino all’altezza degli occhi, percorre tutto il locale ed è forse il tratto distintivo più importante di questo tipo di vecchi bistrò vodesi quasi del tutto estinti, il cui termine giusto sarebbe pinte. In origine unità di misura, variabile da Parigi al Québec, utilizzato da queste parti perlopiù per il vino bianco, è finito, non si sa bene come, per definire, nel Vaud, questi caffè rustici. «Un patrimonio in pericolo» come metteva in guardia il sottotitolo di Pintes vaudoises (2005) a cura di Gilbert Salem e Dominique Gilliard, repertorio di cinquantacinque pintes meritevoli, alcune nel frattem-

po scomparse o stravolte, tra le quali, non poteva mancare questo luogo a misura d’uomo dove bevo un espresso e leggo i giornali.

Le général et les Gashi veillent sur Paudex titolava un articolo apparso sul «24 heures» un paio di anni fa, a proposito proprio del Café di Paudex che alcuni vecchi frequentatori chiamano amichevolmente Chez Germaine per via di Germaine Genoud, indimenticata patronne di un tempo. Il generale è il generale Henri Guisan (1874-1960), il cui ritratto appeso, svanito ormai quasi dappertutto, è anche uno dei tratti distintivi della bistrografia vodese. I Gashi sono i fratelli Dani e Masar Gashi, i salvatori kosovari di questo posto ultrasecolare, preservato grazie alla loro sensibilità di capire l’anima di questo caffè paesano risalente al 1894. Dani Gashi, ex cameriere qui tra il 2002 e il 2008 – all’epoca della gestione di

Sport in Azione

Da tempo penso che l’Africa sarà la nuova frontiera dei viaggiatori indipendenti, che negli ultimi decenni, per ragioni diverse, hanno privilegiato invece l’America centrale, il sud-est asiatico o le Stan Countries (Kazakhstan, Tajikistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Turkmenistan eccetera). Per molti aspetti l’Africa resta sconosciuta, se appena si va al di là delle questioni migratorie. Sapevate per esempio che la capitale del Ghana, Accra appunto, offre mercati pieni di vita, skate park e spazi creativi per gli artisti, oltre a una vivace scena musicale notturna?

Ogni tanto insomma anche queste liste d’inizio anno permettono di fare qualche scoperta interessante. In altre circostanze tuttavia fanno più male che bene, soprattutto nel caso dei Millennial (o Generazione Y). Nati negli ultimi due decenni del secolo scorso, questi giovani adulti sono

cresciuti con Internet e con le liste di viaggi: «Trenta prima dei trenta» (ovvero trenta Paesi da vedere prima di compiere trent’anni) o ancora «i sette continenti prima di avere figli» eccetera. E un safari non viene nemmeno considerato se non prevede l’incontro con tutti i grandi animali della savana, i big five (leone, leopardo, rinoceronte, elefante e bufalo).

Gli esperti parlano di viaggi performativi. Quando gli amici pubblicano sui social foto di anelli di fidanzamento e neonati, le proprie storie di viaggio in Paesi lontani ed esotici possono sembrare un’alternativa efficace. Nella prospettiva dei Millennial, il viaggio deve corrispondere alla nostra immagine pubblica, deve aumentare il nostro prestigio, piuttosto che rispondere a motivazioni più profonde e personali. In questa prospettiva il rapporto con Instagram e la ricerca del selfie perfetto possono diventare il

centro dell’esperienza. Quasi la metà dei Milllennial sceglie le vacanze in base all’effetto su Instagram perché, come ha scritto un giovane viaggiatore inglese, «penso al selfie che mi farò quando arriverò là e mi fa sentire come se stessi realizzando qualcosa nella mia vita».

Le conseguenze però sono spesso negative. Per cominciare, la qualità del viaggio peggiora quando si riduce a una voce da spuntare in una lista pensata da qualcun altro. Inoltre le destinazioni tendono a essere sempre le stesse, con poche varianti; e dunque affollamento, aumento dei costi, impatto sull’ambiente e sulla qualità di vita dei residenti. Inevitabilmente cresce anche l’insoddisfazione per un’esperienza che nella realtà raramente corrisponde alle foto viste in rete.

Ecco perché il primo punto della nostra lista per il 2023 potrebbe essere: viaggiate senza una lista.

Bernard Bovey che gli ha rivelato i segreti della fondue – e da più di dieci anni il patron, mi dice che è lui stesso ad aver rimesso al suo posto il generale. Era già stato messo alla porta ma lui, per rispetto alla tradizione, l’ha riappeso. Non è il solito ritrattino a mezzo busto con il cappello tipo képi, qui in questa saletta di otto tavoli, il général Guisan, veglia a figura intera. Sempre in uniforme ma con il copricapo in mano e l’altra appoggiata alla spada, con scioltezza, come se fosse un bastone. Un général Guisan più colloquiale forse, alla mano, vigila alla mie spalle, sopra il banc des syndics. La panca dei sindaci come è stata soprannominata la panca all’angolo. Un’usanza a Paudex vuole che i sindaci, da centoventinove anni, ogni tanto si siedano lì a discutere. Lì dunque si sedeva Henri Delamuraz, garagista e sindaco di Paudex per ventanni nonché papà di

Jean-Pascal Delamuraz (1936-1998), ex consigliere federale che per me è sempre stato uno dei pochi politici dall’aria simpatica. Aspettando l’ora di pranzo sorseggio un Virgin Mary. Succo di pomodoro che condisco ora con gocce di tabasco, limone, e una macinata di pepe bianco (versione spensierata del Bloody Mary, stesso cocktail ma con la vodka). Un aiuto cuoco apre la porta delle scale verso la cantina, accanto al bancone subito all’entrata, sopra il quale è sospesa una light-box insegna della birra Cardinal (1788) con il logo dei due compari in costumi settecenteschi che brindano con un boccale sopra il barilotto. Sprazzo sorpresa, per le scale. Per un attimo, mi stupisce un affresco mezzo cancellato. Vado a indagare. È un diavolo dipinto che coglie alle spalle un oste senza fiato. A fatica decifro la scritta, traducibile come il diavolo cerca il

Quella strana e spiacevole sensazione di stare sulla graticola

Chissà come vivono i due Luca più famosi del Cantone? Uno, Cereda, viene ciclicamente messo in discussione da una parte dei tifosi dell’Ambrì-Piotta. L’altro, Gianinazzi, a soli 29 anni, si è ritrovato a dirigere un progetto che da 16 anni fa fatica a decollare. Quest’ultimo, forse, è meno bersagliato di Cereda. Probabilmente perché guida l’HCL da poco tempo, e la tifoseria è portata a riconoscergli il beneficio del noviziato.

Quando leggo cosa viene pubblicato sui blog, mi chiedo se i contenuti giungano sul tavolo dei due Luca. Mi auguro di no. Spero che pure loro, come Lara Gut-Behrami, si siano sganciati dai social media. Sarebbe la miglior terapia per tentare di lavorare serenamente. Spesso partono bordate, missili terra-aria, offese verbali che possono aprire ferite a volte difficili da ricucire. Luca e Luca lo sanno. Se le cose vanno male, saranno loro a

pagare. È la legge dello sport. Ma è soprattutto la legge del mercato. Costa meno cacciare un capro espiatorio, che sbattere fuori dallo spogliatoio cinque o sei leader negativi. Gianinazzi si è ritrovato fra le mani un importante capitale sportivo, storico, finanziario. Il Lugano ha una tradizione vincente. Sette titoli nazionali inanellati in soli 20 anni, tra il 1986 e il 2006. Sono risultati che hanno ingolosito il palato del pubblico bianconero, che anno dopo anno, attende la resurrezione. La società, dal canto suo – dopo aver bruciato un numero considerevole di allenatori, ivi compresi alcuni gioielli di famiglia come Sandro Bertaggia, Jörg Eberle, Kent Johansson, Mats Waltin – ha deciso di separarsi da Chris McSorley e di affidarsi, con un po’ di anticipo sulla tabella di marcia prevista, a colui che è stato definito come «l’uomo del progetto». Tuttavia non c’è stata la svolta.

Si è visto qualche miglioramento qua e là, certamente, ma non al punto da riportare il Lugano in zone della classifica più consone al suo blasone, e al suo organico attuale. Un altro allenatore, russo, nordamericano scandinavo che sia, probabilmente avrebbe già pagato pegno. Ma non Luca. Ed è un bene. Se «progetto» deve essere, che «progetto» sia. Dopo 16 anni di digiuno si tratterà di pazientare, per poter rivedere di nuovo i bianconeri nelle parti alte della classifica. L’ottavo titolo non è una chimera, anche se è fuori di dubbio che l’attuale forza finanziaria dell’HCL è lontana da quella dei club faro della Lega. Nello sport – e l’hockey su ghiaccio non fa eccezione – «c’est l’argent qui fait la guerre» Diverso il discorso per l’AmbrìPiotta. Anzitutto perché il suo pubblico non ha ragione di essere viziato, nonostante in passato i leventinesi

abbiano saputo accendere l’interruttore della fierezza. Tuttavia la Coppa Svizzera vinta nel 1962 appartiene alla preistoria. E i tre trofei continentali conquistati sul finire dello scorso millennio, sono stati offuscati dalla finale persa nel 1999 contro il Lugano. In Valle manca un titolo nazionale. Il popolo biancoblù ne è cosciente: vederselo recapitare sarebbe una sorta di miracolo cosmico. E questa consapevolezza lo rende, da un lato, ammantato da un’allegra e commovente rassegnazione, dall’altro, più affezionato alla squadra.

Prima di Natale, la sconfitta contro l’Ajoie, ultimo della classifica, ha scatenato le ire dei leoni da tastiera che volevano lo scalpo di Cereda. Salvo poi ricredersi 24 ore più tardi, quando i biancoblù, sul ghiaccio di casa, hanno pietrificato lo Zurigo vice campione nazionale. «È l’Ambrì, lo sappiamo, è fatto così». Questo il ritornello

bertoldo che mescola il vino con l’acqua Il signor Gashi accende il fornellino d’epoca, in rame, sotto al classico caquelon rosso con dentro la fondue moitié-moitié. Man mano la saletta si è riempita, ora chi entra prosegue nella seconda saletta, una volta era l’épicerie tenuta da Nelly Krending, altra nota ex patronne alla quale si deve la ricetta del mélange speciale di fondue, una moitié-moitié con l’aggiunta di Tilsiter e Appenzeller. Io però nella vita tendo a togliere, e la moitié-moitié (si sa, ma non si sa mai: metà Gruyère metà Vacherin) è già imbattibile così, nella sua semplicità. Come il commovente portagiornali di legno, a scomparsa, all’entrata, con sette spazi rettangolari dove trovano posto i bastoni, purtroppo inutilizzati, per affrancare i giornali. Il pane è soffice, la fondue impeccabile, la boiserie lemanica a fianco scalda il cuore di continuo.

che rimbalzava di bocca in bocca in una Gottardo Arena quella sera gremita come sempre. E se la squadra leventinese avesse perso anche contro i Lions? Sarebbe stato un problema di breve durata. Il percorso trionfale alla Coppa Spengler ha illuminato gli animi e saziato gli appetiti della tifoseria. Parimenti ha risollevato le quotazioni del Mister.

Fino a quando? Il tradizionale panettone, Luca Cereda se lo è gustato da condottiero. Il brindisi di San Silvestro, da autentico eroe. Lui sa tuttavia che la gloria e la gratitudine possono essere effimeri. Intuisce che alla prossima sequenza negativa potrebbe trovarsi di nuovo sulla graticola, a mo’ di costina o di bratwurst. Che vita, che stress!

Cari Luca e Luca, auguro che le circostanze, chiamiamole così, vi permettano di lavorare serenamente. Nel 2023 e oltre.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 16 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 15 TEMPO LIBERO / RUBRICHE ◆ ●
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Una guerra di logoramento

Il punto sul conflitto tra Kiev e Mosca che ha valore esistenziale. Chi perde rischia di sparire dalla faccia della Terra, o quasi

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Quelle fughe sui «barchini fantasma»

La crisi spinge sempre più tunisini a migrare attraverso la rotta del Mediterraneo. Aumentano così morti e dispersi in mare

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Tassi d’inflazione in calo

La tendenza si spiega con la diminuzione dei prezzi dell’energia ma il futuro resta incerto. La Svizzera può contare sul franco forte

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L’impeto antidemocratico, dagli USA al Brasile

Comincerò con il sottolineare una differenza fondamentale tra l’8 gennaio 2023 e il 6 febbraio 2021: la prima cosa che distingue i due assalti alle istituzioni democratiche, la versione brasiliana e quella statunitense. L’ex presidente Jair Bolsonaro, a differenza di Donald Trump, quel giorno non si trovava a Brasilia né teneva comizi per incitare i suoi a negare il risultato delle elezioni. Dal suo esilio temporaneo in Florida Bolsonaro ha condannato i facinorosi che lo volevano riportare al potere con la violenza. All’interno del suo partito, inoltre, pochi parlamentari si erano dimostrati disposti a seguire l’esempio trumpiano contestando il responso delle urne. Bolsonaro è arrivato a spiegare la sua accettazione della sconfitta con una frase – «questa è la democrazia» – che Trump non si è mai sognato di pronunciare.

Trump – che ha incitato i suoi a negare il risultato delle elezioni – è in declino negli USA però esporta il suo cattivo esempio

Però, la relativa moderazione di Bolsonaro non è bastata. Imitando l’assalto dei trumpiani al Congresso degli Stati Uniti, un pezzo della destra populista brasiliana ha invaso la sede del Parlamento, e si è lanciata anche all’attacco del palazzo del Governo e della sede della Corte suprema nella capitale federale Brasilia. Il comune denominatore è l’atteggiamento eversivo di chi non accetta il responso delle urne: il 30 ottobre il socialista Lula da Silva vinse senza ombra di dubbio, ancorché di stretta misura. Questi comportamenti criminali puntano a distruggere un fondamento della democrazia, che è il riconoscimento della legittimità dell’avversario. La liberaldemocrazia funziona finché gli sconfitti accettano di farsi da parte, sapendo che grazie alla libera competizione elettorale la prossima volta potranno vincere e tornare a governare. Se invece il partito rivale viene considerato come il male assoluto, allora il fine giustifica i mezzi e perfino la violenza diventa accettabile.

Non è solo un vizio della destra quello di demonizzare l’avversario; in questa congiuntura storica è la destra che sdogana l’assalto più plateale alle istituzioni. Tuttavia la sinistra sudamericana ha perpetrato altrettanti assalti contro la democrazia. Il caso del Venezuela è noto. In Perù di recente un presidente di sinistra, Pedro Castillo, avendo perso le elezioni ha tentato un golpe con lo scioglimento del Parlamento: ora è agli arresti ma i suoi sostenitori continuano ad as-

saltare le istituzioni con una violenza estrema che ha già fatto molti morti.

Il Brasile per la sua mole (217 milioni di abitanti) è di gran lunga il Paese più importante del Sudamerica. È quindi cruciale che non esporti instabilità nell’area. La sindrome dell’imitazione trumpiana è tanto più pericolosa in quanto il Brasile non ha una liberaldemocrazia antica come la Repubblica statunitense, la quale è sopravvissuta a tante crisi dalla sua fondazione nel 1787. La transizione dalla dittatura militare a Brasilia avvenne ben più di recente, tra il 1985 e il 1988. Quella base popolare bolsonarista, che dal 30 ottobre cova il sogno di una rivincita illegale affidata alla piazza, ha sperato di trascinare dalla sua parte le forze armate. Ma nonostante qualche incertezza e ambiguità iniziale tra le forze dell’ordine, non c’è segnale che i militari vogliano giocare al golpe.

Il Governo Lula ha potuto prendere provvedimenti duri e immediati, compresa la rimozione e l’arresto di alte autorità di Brasilia. Il Governo è anche andato subito a caccia dei finanziatori delle manifestazioni violente. Lula ha avuto il vantaggio dei suoi pieni poteri. A differenza del 6 gennaio 2021 a Washington, quando senatori e deputati dovevano ancora ratificare l’elezione di Biden

(lo avrebbero fatto nelle ore successive all’assalto a Capitol Hill), quello di Brasilia non era in sessione al momento dell’assalto e Lula era già presidente da una settimana. Senza un rovesciamento improvviso nell’atteggiamento dei militari, la vicenda non sembra destinata ad avere conseguenze sugli assetti di Governo. Un altro attore importante è la Corte costituzionale, che ha poteri notevoli (perfino eccessivi, secondo osservatori indipendenti) ed è in mano alla sinistra.

Lula alla sua terza presidenza è diverso da quello che governò il Brasile nei primi due mandati, prima dell’arresto e della condanna per corruzione (poi annullata per un vizio di forma). La sua agenda socialista è annacquata per forza: alle elezioni ha vinto, ma non ha conquistato una maggioranza parlamentare. Lula deve cucire una coalizione con elementi centristi e perfino bolsonaristi. Al di là dei proclami che gli attirano simpatie internazionali – come la difesa ambientalista dell’Amazzonia – avrà un programma di Governo abbastanza moderato.

Ora Lula dovrà stare attento a colpire solo i veri protagonisti delle violenze, senza infierire in modo indiscriminato sul bolsonarismo. Il rischio che lui e la Corte suprema vo-

gliano criminalizzare tutti i settori legati all’ex presidente – come l’agrobusiness – è reale. Non bisogna perdere di vista una delle cause della protesta: la legittima convinzione che l’attuale presidente è un leader corrotto, e che la sua disonestà non è stata «ripulita» da un’investitura popolare. L’assalto resta gravissimo e chiama in causa tante responsabilità. Incluse quelle nordamericane. Trump è in declino negli Stati Uniti però esporta il suo cattivo esempio.

Il Brasile è un Paese importante anche perché è la B dell’acronimo Brics, quel club di potenze emergenti che include anche Russia, India, Cina, Sudafrica e qualche volta viene descritto come l’antagonista del «nostro» G7 in cui siedono vecchie potenze industriali.

Sotto i primi mandati presidenziali del leader della sinistra, Lula, il boom economico brasiliano fu trainato in modo dominante dalla domanda cinese di materie prime. La crisi finanziaria del 2008-2009 aveva interrotto e indebolito quel ciclo di forsennato aumento dei consumi cinesi di commodities brasiliane (dallo zucchero alla soia, dal petrolio al ferro al legname). Da Bolsonaro a Lula almeno una continuità in politica estera c’è: il rifiuto di applicare le sanzioni economiche decise dall’Occidente contro

la Russia. Il Brasile è parte dell’emisfero occidentale in senso geografico, ma non si riconosce necessariamente nell’Occidente geopolitico. Come molti Paesi emergenti continua a covare una cultura del risentimento anticolonialista verso il Nord del pianeta. Si riconosce nel nuovo assembramento di Paesi «non allineati», che non è un vero movimento politico come il Terzo mondo lo fu nella prima guerra fredda (a partire dal vertice di Bandung nel 1955), però è una realtà di fatto. Sono quella maggioranza di Paesi asiatici africani e latinoamericani, che magari condannano l’aggressione russa in Ucraina, ma non per questo vogliono partecipare alle nostre sanzioni. Più ancora della Russia, li trattiene la volontà di avere buoni rapporti con la Cina.

La Repubblica Popolare Cinese è di gran lunga il primo partner commerciale del Brasile, da tempo ha superato gli Stati Uniti. La crescita brasiliana dipende molto da ciò che Pechino vuole comprargli, dall’energia ai minerali alle derrate agricole. L’Unione Europea non è abbastanza presente per poter sfidare con successo le due tendenze che influenzano la politica estera di Brasilia: da una parte un riflesso condizionato anti-USA, dall’altra il condizionamento economico cinese.

ATTUALITÀ ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 16 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 17
Sostenitori di Bolsonaro sul tetto dell’edificio del Congresso nazionale, a Brasilia, l’8 gennaio scorso. (Keystone)
◆ Cosa distingue,
due contesti, gli assalti alle più
Prospettive
nei
alte istituzioni e quali scenari si aprono nel Paese sudamericano
Federico Rampini
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Venti di guerra sul Pacifico

L’analisi ◆ La crisi ucraina ha stravolto gli equilibri pure in Estremo Oriente. Giappone, Taiwan e Corea del Sud si preparano al peggio

Il Giappone si riarma. Taiwan prolunga la leva obbligatoria e trasforma la sua Difesa. In Corea del Sud si parla sempre più insistentemente di dotare le Forze armate di armi nucleari. La guerra d’invasione della Russia contro l’Ucraina non ha cambiato soltanto l’Europa ma ha stravolto gli equilibri della regione dell’Indo-Pacifico. La destabilizzazione globale è funzionale alla trasformazione dell’ordine internazionale, che è l’obiettivo ultimo del leader cinese Xi Jinping e del presidente russo Vladimir Putin, uniti dalla partnership «senza limiti» sancita poco meno di un anno fa, il 4 febbraio.

Il Giappone ha presentato una strategia di sicurezza nazionale che prevede un aumento della spesa militare al 2% del PIL

Ogni anno il tempio shintoista Kiyomizu di Kyoto annuncia il kanji – cioè il carattere della scrittura giapponese – più rappresentativo del periodo appena trascorso. Per il 2022 è stato scelto il carattere sen che significa «guerra», e non solo la guerra in Ucraina, ma i conflitti che in un modo o nell’altro potranno accendersi in un’area lontana dall’Europa ma strategica per gli approvvigionamenti e gli equilibri globali. La presidenza di turno del G7 quest’anno spetta al Giappone, unico Paese membro delle grandi economie ad appartenere alla regione dell’Indo-Pacifico, e unico Paese ad affrontare contemporaneamente tre minacce, diplomatiche ma anche militari: quella della Russia, quella della Cina e quella della Corea del Nord, che nel 2022 ha effettuato un numero mai raggiunto di test missilistici e si prepara al suo settimo test nucleare. Mentre l’Europa e l’Alleanza atlantica erano concentrati sulla guerra di Putin, Tokyo ha cambiato la sua postura internazionale dopo aver subìto numerose provocazioni nel corso dello scorso anno: ad agosto, quando durante le esercitazioni militari cinesi attorno all’isola di Taiwan uno dei missili di Pechino è caduto vicino alle acque territo-

riali nipponiche; a ottobre, quando uno dei missili balistici nordcoreani ha sorvolato l’arcipelago giapponese; e poi in autunno, quando le navi da guerra russe e cinesi, in formazione congiunta, hanno attraversato alcuni dei suoi stretti più strategici. Il messaggio che il Giappone porterà al G7 di maggio, che si terrà nella città di Hiroshima, sarà proprio questo: ciò che è oggi l’Ucraina, un Paese aggredito e in guerra, potrebbe essere l’Asia di domani.

A fine dicembre il Governo di Tokyo ha pubblicato tre documenti che rappresentano la trasformazione del Giappone in un Paese che può difendersi dalle minacce esterne, tra cui la strategia di sicurezza nazionale, che contiene impegni e novità importanti, come l’aumento della spesa militare al 2% del PIL e la possibilità di dispiegare sistemi d’arma antiaerei a lungo raggio. Per capire il livello d’importanza di questa trasformazione basti pensare che ogni volta che si tocca il tema della Difesa in Giappone, Cina e Corea del Sud protestano formalmente. Perché sin dalla fine della Seconda guerra mondiale e dalla resa incondizionata giapponese, Tokyo ha adottato una Costituzione che – nell’articolo 9 – le impedisce di avere un esercito regolare, ma solo «Forze di autodifesa». In pratica le Forze armate giapponesi sono utilizzabili esclusivamente in caso di attacco diretto e chiunque abbia provato a modificare quell’articolo costituzionale (ci hanno provato in molti, soprattutto i conservatori) si è scontrato con l’opinione pubblica giapponese da sempre ostile al riarmo. L’anno scorso però qualcosa è cambiato. Secondo i sondaggi del Governo, la maggioranza della popolazione oggi approva un budget maggiore per la Difesa, e il primo ministro Fumio Kishida – abile diplomatico – lavora da tempo per avere il supporto degli alleati tradizionali, come quelli del G7, e diventare il rappresentante di una difesa dell’ordine mondiale nel Pacifico.

Se per ora Tokyo, come dicono spesso i funzionari del Governo, si muove soltanto per aumentare la sua capacità di deterrenza, e non per pre-

pararsi a un attacco vero e proprio, a 700 chilometri dall’isola giapponese di Okinawa, tra il Mar cinese orientale e il Mar cinese meridionale, c’è chi si prepara davvero a un’invasione. La presidente Tsai Ing-wen, sull’isola di Taiwan, ha annunciato a fine dicembre che il servizio militare per tutti gli uomini taiwanesi non durerà più soltanto quattro mesi, ma a partire dal 2024 verrà prolungato a un anno. Inoltre sarà ristrutturato il sistema della Difesa per dare spazio all’addestramento in settori ancora poco potenziati, come quello della cybersicurezza. «È una decisione difficile – ha detto – ma necessaria per la sopravvivenza di Taiwan». La Cina di Xi Jinping, che rivendica il territorio di Taiwan pur non avendolo mai governato, ripete più volte che la riunificazione «sarà inevitabile». Secondo gli esperti, un’invasione su larga scala è un’opzione remota: per Pechino sarebbe troppo costosa, troppo complicata da portare avanti. Ma dopo il 24 febbraio del 2022, con l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, niente può essere più escluso a priori. E per il Governo di Taipei, che ha imparato la lezione da Kiev, la necessità di prepararsi a un eventuale attacco è ancora più urgente.

Così la pensa anche Yoon Suk-yeol, il presidente conservatore e populista della Corea del Sud, che si trova ad affrontare una Corea del Nord sempre più bellicosa e aggressiva, non solo nella retorica e nella propaganda. Ma non ci sono soltanto i missili e le esercitazioni di artiglieria sul confine a far paura. All’inizio di gennaio alcuni droni nordcoreani sono entrati nello spazio aereo sudcoreano e sono riusciti ad arrivare fino all’area dell’ufficio presidenziale, che teoricamente è uno spazio aereo chiuso ai voli commerciali. Il regime di Pyongyang, guidato dal leader Kim Jongun, ha fatto sapere di essere pronto a usare le sue armi nucleari contro il Sud, e da settimane ci sono colloqui tra funzionari della Difesa sudcoreani e americani per cercare di aumentare la pressione di deterrenza nei confronti del regime, anche a costo di dislocare alcuni armamenti atomici nella penisola.

Chi resisterà?

Il punto ◆ Kiev e Mosca continuano a combattere. Obiettivo: non sparire dalla faccia della Terra

La guerra in Ucraina continua a infuriare. Il famoso «Generale Inverno» quest’anno è stato declassato a sergente: le temperature, relativamente miti per la stagione, hanno finora avuto un impatto modesto sull’intensità dei combattimenti. Certo, il fronte è più o meno in stallo, ma il fuoco di artiglieria e gli attacchi di missili e droni si sono intensificati. Con l’obiettivo evidente, da parte russa, di fiaccare il morale della popolazione ucraina distruggendo infrastrutture civili, a cominciare da quelle energetiche. E con l’avvertimento, da parte ucraina e occidentale, che Mosca sta preparando una grande offensiva per febbraio, destinata a ridurre Kiev alla resa. L’invio al fronte del capo supremo delle Forze armate russe, generale Valerij Gerasimov, responsabile secondo Putin del fallimentare andamento della «operazione militare speciale», sarebbe simbolico di questo imminente colpo di maglio. O più semplicemente rappresenterebbe il classico sacrificio del capro espiatorio.

Finora questa guerra è stata militarmente una guerra civile sovietica. Da entrambe le parti si è attinto ad armi e munizioni di età bolscevica, conservati per decenni nei magazzini.

Ma gli ucraini hanno quasi esaurito le scorte di venerabile età sovietica, sicché dipendono quasi totalmente dalle armi occidentali. Certamente più moderne e performanti, ma non disponibili in numeri illimitati. Gli europei hanno profondamente intaccato i propri magazzini, chi più chi meno. Non sono tanto i sistemi d’arma a scarseggiare, quanto le munizioni.

E soprattutto le nostre armi non sono immediatamente impiegabili dagli ucraini. I quali hanno bisogno di addestramento. Diversi militari ucraini sono per esempio in America, a imparare come si impiegano i missili Patriot. La difesa antiaerea e antimissile è fondamentale per limitare i danni prodotti da droni, aerei e razzi russi. La protezione del territorio ucraino con sistemi terra-aria riguarda sempre di più anche gli europei.

Per esempio, Italia e Francia si apprestano a dare via libera all’invio del sistema SAMP-T (Sole, Aria, Media Portata, Terra) alle Forze armate ucraine. Si tratta di un’arma coprodotta infatti dai due Paesi, molto gelosi della loro tecnologia. Questo, oltre alle considerazioni politiche, ha finora impedito il sì definitivo al loro spostamento sul fronte anti-russo. Tutte le cessioni di armamenti italiani all’Ucraina sono state coperte dal segreto di Stato, mentre questa volta si parla apertamente dei SAMP-T, segno di quanto il Governo Meloni si

consideri impegnato, insieme al capocordata a stelle e strisce, nel supporto alla resistenza ucraina.

Ma la partita dipende ormai dalla capacità di resistenza dei due contendenti in quella che è ormai una sanguinosa guerra di attrito. Una guerra che per Kiev e Mosca ha valore esistenziale: chi perde, rischia di sparire dalla faccia della Terra. Immaginare una vera pace in questo contesto è impossibile, salvo la capitolazione di uno dei duellanti. O l’esaurimento di entrambi. Molto difficile, anche se non esclusa, è l’ipotesi di arrivare a una sequenza di cessate-il-fuoco capaci di «congelare» il conflitto. Qui sarà decisiva la scelta americana: continuare ad appoggiare fino in fondo Kiev o costringerla a una tregua. In vista, poi, di una eventuale «soluzione», meglio: maschera-diplomatica. Ma Washington è divisa. Nell’amministrazione si scontrano i «falchi» del National Security Council e le «colombe» del Dipartimento di Stato, con Pentagono e CIA a loro volta solcati da profonde diversità di opinione. Vista dall’America, comunque, questa guerra non è di vitale importanza, almeno fin quando in campo non dovesse scendere anche la Cina. In una prospettiva di medio periodo, molti fra gli strateghi americani pensano che continuare a tenere impegnati i russi in una campagna sotto tutti i profili costosa e devastante sia un buon affare. Purché la situazione non sfugga di mano.

Il deragliamento verso uno scontro diretto Nato-Russia è dietro l’angolo, e qualcuno a Kiev mira a suscitarlo. Sotto questo aspetto, interessante l’atteggiamento polacco. Varsavia è capofila dello schieramento più marcatamente anti-russo interno alla Nato. Squadra che comprende anche scandinavi, baltici e romeni, con il forte sostegno dei britannici. L’idea è che questa sia l’occasione non solo per vincere la guerra ma per rovesciare il regime di Putin. Ma quando a Mosca cambia il regime cambia di norma anche lo Stato. Per informazioni rivolgersi a Nicola II e Mikhail Gorbačëv. Nel caso, molto probabilmente assisteremmo alla decomposizione della Federazione Russa in mille coriandoli. Disintegrazione certo non pacifica. Qualcuno spera che la Cina possa esercitare pressioni moderatrici nei confronti della Russia. Certamente sì. Ma non fino al punto di abbandonare i russi al loro destino. Mosca è una risorsa indispensabile per Pechino nella fase dello scontro acuto con Washington. Prepariamoci a una guerra ancora più sanguinosa. Tanto che il vincitore ne uscirebbe quasi altrettanto perdente dello sconfitto.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 16 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 19
La presidenza di turno del G7 quest’anno spetta al Giappone. Sopra: il premier nipponico Fumio Kishida. (Keystone)
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Ali Zarroug cammina sul lungomare di Zarzis, in Tunisia, si guarda intorno e sospira. «Fino a qualche anno fa – dice – la città, di venerdì, appena dopo la preghiera del pomeriggio sarebbe stata piena di gente, piena soprattutto di giovani come me». Invece ora non c’è quasi più nessuno. Ci sono le donne, ci sono i bambini, ci sono gli anziani. Ma i giovani se ne vanno, scappano dalla crisi economica, scappano anche da quella politica. Così Ali cammina, si guarda intorno e guarda il mare: «Niente potrà fermare i miei sogni e il mio sogno è andare via, raggiungere l’Europa, come stanno facendo i miei coetanei». Lui ha provato due volte a chiedere un visto per andare in Francia e non ha ottenuto risposta. Ha tentato anche di partire con un gommone ed è stato riportato indietro dalla guardia costiera tunisina e processato. Quando è arrivato davanti alla giudice le ha detto: «Sono così intenzionato a partire che se potessi farlo sull’ombrello che ha lì, accanto alla sua scrivania, lo farei. Proverei ad attraversare il Mediterraneo su un ombrello rovesciato, pur di lasciare il Paese». Poi è stato sanzionato con una multa che ha pagato, è uscito dal tribunale e ha ricominciato a cercare lavoro, nella sua città, Zarzis, dove il tasso di disoccupazione giovanile raggiunge il 30%.

Sarebbero 30mila gli ingegneri che hanno lasciato la Tunisia per non farvi ritorno negli ultimi otto anni e 4mila medici

Nel Paese, secondo l’Istituto nazionale di statistica tunisino (INS), il tasso di disoccupazione per gli under 25 è superiore al 37% e la soluzione non sembra avere un orizzonte di miglioramento, secondo Anis Morai, giornalista economico e presentatore del programma «El Business» sull’emittente Diwan FM, una delle più grandi stazioni radio tunisine. «Il settore privato ha la capacità di assorbire tra gli 80mila e i 100mila dipendenti, per lo più occupati nell’industria tessile, nell’industria della pelle e nella produzione di scarpe. Al contrario, abbiamo circa 280mila studenti con un diploma di istruzione superiore che proprio non riescono a trovare un lavoro». Uno scenario in via di peggioramento da cui non scappa solo chi è disoccupato; cominciano a migrare anche migliaia di professionisti. Sarebbero 30mila gli ingegneri che hanno lasciato la Tunisia per non farvi ritorno negli ultimi otto anni e 4mila medici.

Quando Ali Zarroug lavora viene pagato 600/700 dinari al mese, più o meno 200/250 franchi, ne dà 400 alla sua famiglia per le spese di tutti i giorni, e per le necessità mediche di sua madre e gliene restano poco più

di 200, circa 80 franchi. Troppo poco per vivere e per programmare un futuro. A 28 anni si sente così demotivato che ha lasciato anche la giovane ragazza con cui aveva stretto un fidanzamento, era diventato per lui troppo umiliante non poter immaginare di sposarla. Così il progetto è tornato ad essere quello della fuga, nel solo modo concesso a chi di fronte alla richiesta di vie legali per migrare continua a trovare le porte chiuse. La storia di Ali è una storia di ordinaria migrazione e la storia di Zarzis è una storia di drammi quotidiani. È da città come questa della Tunisia, quasi al confine con la Libia, che parte la maggior parte delle imbarcazioni che raggiunge le coste italiane, nello specifico Lampedusa. Sono quelli che le istituzio-

ni descrivono come «barchini fantasma», piccole barche o gommoni che trasportano dalle venti alle cinquanta persone, sempre più auto-organizzate. Significa che nei quartieri si muove un gruppo di persone che autonomamente mette da parte i risparmi per acquistare un «barchino», un satellitare e del carburante, fa riferimento a un trafficante noto in zona che indirizza il gruppo – dietro pagamento – verso le spiagge dove è più conveniente partire senza rischiare di essere catturati dalle guardie costiere. Così si parte in quella che è ormai una migrazione come «progetto familiare».

Si investe su un membro del nucleo affinché cerchi fortuna altrove, perché in Tunisia – pensano tutti qui – non c’è più niente da fare. A

fronte di un peggioramento costante della situazione economico-politica, i numeri delle partenze aumentano di circa il 20% ogni anno da tempo, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e, secondo i dati del Ministero dell’interno italiano, la nazionalità tunisina è la seconda nel conteggio complessivo degli arrivi, dopo gli egiziani. E purtroppo, quanto più aumentano le partenze dai Paesi nordafricani, tanto più crescono morti e dispersi in quella che è da tempo la rotta migratoria più pericolosa del mondo.

Secondo il Forum dei diritti sociali tunisini, un’organizzazione che si occupa di monitorare il rispetto dei diritti civili nel Paese, nel 2022 sarebbero stati più di 500 i cittadini tunisini

I confini e il valore dato alla vita umana

Le organizzazioni che si occupano di monitorare le politiche migratorie europee in Nordafrica, come l’italiana ASGI, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, sono vicini

alle famiglie delle vittime del mare e hanno scritto un comunicato per sottolineare che la tragedia di Zarzis del 2022 non è solo un caso. «In questa geografia razzializzata dell’Europa contemporanea – scrivono – sempre più persone perdono la vita. Il numero di vittime e persone scomparse sulle coste tunisine nel 2022 è di 544. Recentemente sono stati recuperati altri corpi in mare, in seguito al naufragio di Teboulba. Queste tragedie mettono in evidenza la matrice securitaria dei meccanismi di controllo delle frontiere, del regime dei visti e il valore subordinato che viene dato alle vite umane».

La parola «securitario» fa riferimento alle strategie messe in atto dall’Europa negli ultimi anni, cioè una protezione militarizzata dei confini sud del Mediterraneo. L’Unione Europea, infatti, ha progressivamente aumentato il proprio impegno economico e diplomatico per l’esternalizza-

zione dei confini, è quello che continua ad emergenze anche nel piano d’azione per il Mediterraneo centrale pubblicato a novembre scorso dalla Commissione europea con lo scopo di «porre rimedio ai problemi attuali immediati riguardanti la rotta migratoria del Mediterraneo centrale».

Il documento conferma le strategie che dal 2015 – anno dell’Agenda europea su migrazione e asilo, rafforzate dal Patto migrazione e asilo del 2020 – modulano i rapporti tra Europa e Nordafrica: il rafforzamento delle frontiere dentro e fuori l’Europa, le espulsioni e i rimpatri; viene cioè di fatto confermato un regime di controllo della mobilità che però, anziché diminuire il pericolo di morte, lo aumenta, perché bloccare i confini e controllare la possibilità di spostarsi in maniera legale e dunque sicura, significa spingere le persone a imbarcarsi in viaggi sempre più pericolosi e dominati da catene di traffico spesso

partiti e mai arrivati a destinazione. Tante sono vittime che escono da ogni statistica, spesso senza nome. I dispersi del mare. Il 21 settembre è la data dell’ultima strage da queste coste, un’imbarcazione con 18 persone ha lasciato Zarzis senza mai arrivare a destinazione. Da allora sono stati recuperati 8 corpi e 10 mancano ancora all’appello. Tra i corpi recuperati quello di una giovane madre, manca però quello di sua figlia di un anno e mezzo. Di fronte alle richieste di aiuto delle famiglie dei dispersi, le istituzioni hanno dimostrato scarso sostegno; a mostrare solidarietà e iniziare vere ricerche è stata l’Associazione dei pescatori che ha effettuato quattro operazioni autonome in mare.

Dopo settimane le famiglie hanno scoperto che i corpi che erano stati portati a riva dalle onde erano stati destinati, senza che nessuno effettuasse un test del DNA e li identificasse, al cimitero degli ignoti, un pezzo di terra dove da dieci anni a Zarzis vengono seppelliti giovani uomini, donne e bambini soprattutto di origine subsahariana, vittime del mare. Dopo averlo scoperto, le famiglie dei giovani tunisini hanno portato in piazza la loro rabbia. Vogliono risposte, vogliono i corpi dei loro figli e delle loro figlie, vogliono un posto dove poterli piangere e vogliono, soprattutto, capire se qualcosa è andato storto. Per questo da settimane scendono in strada chiedendo verità e giustizia, e per questo da tre mesi nella piazza di Zarzis, di fronte alla sede del municipio, c’è un presidio permanente con le foto di chi è partito senza mai arrivare e senza mai fare ritorno a casa.

in mano a gruppi senza scrupoli che detengono arbitrariamente, sfruttano e torturano, chi vuole lasciare il proprio Paese diretto in Europa. Come Ali Zarroug che ha già provato, è già stato respinto e vuole ritentare perché non ha più niente, dice, che lo leghi alla Tunisia. «La rivoluzione del 2011 ha tradito le nostre promesse, ho dato i miei sogni al Paese e ora me li porto via in mare». È la frase malinconica che questo giovane affida al rumore delle onde, una frase simile a tutti quelli che ogni giorno organizzano come lui lo stesso progetto di vita. Lasciare tutto, cercare fortuna in Europa. Ci aveva provato anche suo fratello subito dopo la rivoluzione. Ali aveva 18 anni ed era stato lui ad accompagnarlo verso la barca che non è mai arrivata né ha mai fatto ritorno. Era partito proprio da lì, dal punto esatto in cui questo giovane uomo sogna l’Europa, suo fratello disperso tra le onde del Mediterraneo.

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anche su un ombrello
Tunisia ◆ La crisi spinge sempre più persone a migrare attraverso la rotta del Mediterraneo. Aumentano morti e dispersi in mare
«Partirei
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Ali Zarroug sul lungomare di Zarzis, in Tunisia. Sotto: chi piange i propri cari. (Mannocchi) Annuncio pubblicitario

L’inflazione si attenua ma il futuro resta incerto

Economia ◆ La tendenza si spiega soprattutto con la diminuzione dei prezzi dell’energia, in ogni caso vi saranno aumenti dei costi in altri settori. La Svizzera si trova in una posizione privilegiata grazie alla forza del franco sui mercati valutari

Con i dati di fine anno pubblicati in Europa si può vedere che il tasso d’inflazione (dopo quello degli Stati Uniti) sta leggermente scendendo. Questo permette ai maggiori interessati (banche centrali e Governi compresi) di prevedere tassi d’inflazione per il 2023 perlomeno inferiori a quelli del 2022. Così come per le recenti fiammate dei prezzi, anche i cali attuali e prevedibili sono dovuti essenzialmente ai costi dell’energia. Costi che, nel calcolo del rincaro, erano saliti al 41,5% in ottobre, ma che sono ora scesi al 25,7%.

Intanto in Europa la Banca Centrale resta fedele al suo obiettivo di ridurre il tasso d’inflazione al 2,3% nel 2024, ma probabilmente il tempo necessario sarà più lungo

All’inizio del nuovo anno il gas e il petrolio hanno visto i prezzi scendere ulteriormente di un 10% circa. La notizia ha rallegrato molti esperti del settore che però guardano con una certa prudenza ai nuovi dati. Infatti, mentre la situazione continua a rimanere molto tesa a causa del conflitto russo-ucraino, il calo dei prezzi è dato essenzialmente da una diminuzione della domanda, a sua volta dovuta a un inverno fin qui molto mite e alla costituzione d’importanti riserve da parte dei maggiori consumatori, nonché alla decisione europea di fissare un prezzo massimo per il gas importato dalla Russia e ai numerosi contratti conclusi con importanti produttori di energie fossili.

I motivi per un tasso d’inflazione che non potrà scendere oltre certi limiti possono essere visti nel fatto che alcuni settori dell’economia, come i trasporti e il turismo, utilizzano ancora molta di questa energia. Anche i costi delle materie prime rimangono alti, per cui tante imprese sono costrette ad aumentare i prezzi dei beni e servizi prodotti. Questo in un momento in cui la fine delle restrizioni, dovute alla pandemia da Covid, ha provocato un notevole incremento della domanda. Fattori che hanno favorito un aumento dei salari, che a loro volta contribuiranno a un aumento dei costi in tutti i settori dell’economia.

Fattori che rendono difficile una previsione per l’inflazione che ci accompagnerà nel 2023. In Europa la Banca Centrale (BCE) resta fedele al suo obiettivo di ridurre il tasso d’inflazione al 2,3% nel 2024, ma probabilmente il tempo necessario sarà più lungo. Infatti i responsabili della BCE prevedono, accanto all’influsso del calo dei prezzi dell’energia, anche quello di un eventuale secondo round dell’inflazione. I motivi citati sopra potrebbero infatti spingere i prezzi al consumo verso l’alto e limitare così l’impatto positivo del calo dei prezzi dell’energia. Vi sono però anche Paesi che non riusciranno a scendere molto sotto i livelli registrati a fine anno. L’Italia, per esempio, deve contare su un rincaro dell’11,6%, la Germania del 12,3%, mentre Francia e Spagna potranno ridurre la media europea grazie al 6,7% e rispettivamente il 5,6%.

Più vicina all’obiettivo europeo è invece la Svizzera che, con il 2,8% per l’anno 2022, può contare su un invidiabile primato, perfino con l’indice dei prezzi al consumo che, nell’ultimo mese dell’anno, è diminuito dello 0,2%. È senz’altro un buon segno, ma è un anticipo di quanto potrebbe avvenire nel 2023? La maggior parte delle previsioni sono positive, almeno per quanto concerne la media annuale dei rincari mensili. È infatti probabile che nei primi mesi si possa assistere a qualche rialzo dei prezzi al consumo in alcuni Paesi. La BCE prevede per l’Unione Europea un rallentamento dell’inflazione, in modo da raggiungere un rincaro medio per il 2023 che potrebbe essere ancora del 9,2%. Vi saranno comunque Paesi con tassi superiori (Italia e Germania per esempio) e altri con tassi più bassi.

L’ottimismo delle ultime previsioni in materia è dovuto ai prezzi del gas combustibile che sono scesi a livelli inferiori a quelli di prima dell’attacco russo all’Ucraina. Tuttavia il mercato del gas e anche quello del petrolio sono molto volatili e non si possono escludere nuove impennate dei prezzi, almeno fino al «tetto» fissato dall’UE. In prospettiva più lunga si deve notare che tutti i Paesi stanno cercando (e trovando) fonti alternative, i cui prezzi saranno però superiori a quelli di questo inizio d’anno. Una valutazione non può però prescindere

da almeno due altri fattori: l’eventuale recessione dell’economia europea e le politiche monetarie delle banche centrali. Un sostegno diretto o indiretto alla congiuntura provocherà inevitabilmente spinte inflazionistiche. Qui si ripresenta il dilemma se continuare la politica di rialzo dei tassi guida o se mettere in atto almeno una pausa, in modo da non restringere troppo la domanda, ma – come detto – correndo il

rischio di un sostegno all’inflazione. Anche la Svizzera si trova confrontata con problemi analoghi, ma con una situazione di partenza molto migliore di quella di altri Paesi. La Banca Nazionale Svizzera ha dato avvio, come le altre banche nazionali, a una politica del rincaro del denaro, che finora non sembra aver avuto effetti negativi sulla congiuntura. Come noto la Svizzera dipende molto dalle sue

La BNS ha perso 132 miliardi nel 2022

Settimana scorsa la Banca Nazionale Svizzera (BNS) ha annunciato un risultato negativo di circa 132 miliardi di franchi nel 2022. Secondo dati provvisori – si legge sul comunicato dell’istituto di emissione – la perdita sulle posizioni in valuta estera ammonta a circa 131 miliardi di franchi e quella sulle posizioni in franchi a 1 miliardo circa. Sulle disponibilità in oro risulta una plusvalenza da valutazione di 0,4 miliardi di franchi.

«L’importo attribuito agli accantonamenti per le riserve monetarie –spiega il documento – ammonterà a 9,6 miliardi di franchi. Tenuto conto dell’attuale riserva per future riparti -

zioni, pari a 102,5 miliardi, risulta una perdita di bilancio di circa 39 miliardi di franchi. (…) tale perdita rende impossibile procedere a una distribuzione per l’esercizio 2022. Ciò concerne sia il versamento di un dividendo alle azioniste e agli azionisti della BNS sia la distribuzione dell’utile alla Confederazione e ai Cantoni».

Il presidente della direzione della BNS Thomas Jordan aveva già escluso nel dicembre scorso la distribuzione di utili. Il rapporto dettagliato sul risultato di esercizio con i dati definitivi sarà pubblicato il 6 marzo 2023, mentre il Rapporto di gestione sarà disponibile il 22 marzo 2023. / Red.

esportazioni e anche dalle sue importazioni. L’apparato produttivo si trova pure confrontato con problemi di scarsità di materie prime e di semilavorati, e quindi di aumenti dei prezzi. Ancora una volta la barriera migliore contro il pericolo di importare l’inflazione è la forza del franco svizzero sui mercati valutari.

Finora – e contrariamente ai molti timori – il livello di cambio del franco svizzero non sembra aver danneggiato né la produzione industriale, né il turismo. La BNS potrà quindi proseguire nella politica di aumento dei tassi di base, ovviamente tenendo conto anche di quanto faranno le altre banche centrali. La situazione d’inizio anno apre quindi buone prospettive per quanto concerne l’inflazione. Il tasso attuale è molto vicino a quello che potrebbe riportare un po’ di ordine nei mercati del denaro e dei capitali, con tassi di interesse in rialzo e non più vicini allo zero, come avvenuto negli ultimi tempi. La BNS deve comunque tenere un occhio vigile sui prezzi interni. Cresciuti dell’1,7% in novembre, sono aumentati del 2% in dicembre. Questo significa – e lo si vede bene nei generi alimentari – che i prezzi svizzeri risentono comunque dell’inflazione che accompagna i beni importati.

Devo rinnovare il mutuo ipotecario: a cosa devo prestare attenzione?

Quest’anno scade l’ipoteca fissa sul mio appartamento di proprietà e, visto l’aumento dei tassi ipotecari, sono un po’ preoccupato. Come posso continuare a finanziare il mio appartamento a condizioni il più possibile vantaggiose?

Nel 2022 il finanziamento degli immobili residenziali è diventato molto più costoso in seguito all’aumento dell’inflazione e alla guerra in Ucraina. Se all’inizio dell’anno, in Svizzera, il tasso di interesse su un mutuo ipotecario decennale a tasso fisso si aggirava in media sull’1,35%, alla fine di dicembre è arrivato a quota 3,04%. Alla luce di questi dati è opportu-

no chiarire per prima cosa quanto rischio si è disposti e in grado di correre al momento del rinnovo del mutuo ipotecario. Per esempio, se l’inclinazione personale e le condizioni economiche lo consentono, si può tentare di convertire una parte o la totalità del mutuo a tasso fisso in un’ipoteca SARON. SARON è l’acronimo di Swiss Average Rate Overnight, ovvero un tasso d’interesse medio dei prestiti a breve termine effettuati dagli istituti finanziari in Svizzera e basato su transazioni effettive nel mercato monetario svizzero.

L’ipoteca SARON è tuttora più conveniente, anche se di poco, ri-

spetto a un mutuo a tasso fisso, ma dato il recente aumento all’1,0% del tasso di riferimento, è probabile che anche i tassi SARON siano destinati a salire. Chi accarezza l’idea di passare a un mutuo di questo tipo, ovvero legato al mercato monetario, dovrebbe quindi essere in grado di sostenere eventuali aumenti del tasso d’interesse. Solo in questo caso la speculazione è consigliabile. Ai più prudenti o a chi non dispone di flessibilità economica conviene invece puntare sul mutuo a tasso fisso, che garantisce sicurezza di pianificazione. A proposito: molti, con l’avanzare dell’età, desiderano

ridurre le rate del mutuo. Se si dispone di capitale libero sufficiente si può sfruttare il rinnovo dell’ipoteca per rimborsare una parte dell’importo dovuto e risparmiare così sugli interessi.

Suggerimento

Per mettersi al riparo da eventuali ulteriori aumenti dei tassi d’interesse ipotecari si può approfittare dell’ipoteca forward (alias ipoteca a termine) proposta dalla Banca Migros, che consente di stipulare già con 24 mesi d’anticipo un mutuo a tasso fisso al tasso d’interesse del momento.

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La consulenza della Banca Migros ◆ Il finanziamento degli immobili è diventato più costoso: quanto rischio si è disposti a correre?
Marcel Müller, consulente alla clientela della Banca Migros ed esperto in ipoteche. I prezzi del gas sono scesi a livelli inferiori a quelli di prima dell’attacco russo all’Ucraina. (Keystone)

Il Mercato e la Piazza

I ricchi e l’intervento redistributore dello Stato

Uno dei prodotti più seguiti della pubblicistica economica elvetica è l’annuale classifica dei ricconi che viene pubblicata da «Bilanz». Ci devono essere degli argomenti ideologici dietro questo continuo sbandierare la ricchezza in un Paese nel quale, di solito, non si fa caso alcuno a coloro che si situano sopra i valori medi. Lo svizzero non ama molto chi si distingue, soprattutto mostrando di essere ricco. Siamo portati ad apprezzare la media. Il che però non deve essere visto come una reverenza alla mediocrità. Nel caso in esame, ossia la distribuzione del reddito, questa preferenza deve essere piuttosto considerata come una prova dell’attaccamento dello svizzero al principio della giustizia distributiva. Solo i dati della realtà distributiva e di quella redistributiva di ogni Paese possono confermare o confutare questa affermazione. Qui finora, almeno per quel che riguarda la Svizzera,

In&Outlet

è cascato l’asino. Perché la statistica non offriva una serie di lungo termine per l’evoluzione della distribuzione del reddito. Ora, per merito di un istituto dell’università di Lucerna, l’ISS, questa lacuna ha potuto essere eliminata. Da questi dati, che risalgono al periodo della Prima guerra mondiale si deriva che la distribuzione del reddito è ingiusta nel senso che una fetta molto grande della torta del reddito nazionale è detenuta da una quota molto bassa di cittadini.

Si può però anche osservare, contrariamente a quanto dimostravano i dati di cui si disponeva in precedenza, che la quota di reddito in mano al 10% delle persone più ricche oscilla col passare del tempo. Di conseguenza anche la quota del totale delle imposte, pagate da queste persone, varia. Vi sono periodi in cui essa tende a crescere e periodi in cui tende a diminuire. Interessante è poi costatare

che, almeno nei decenni più recenti, l’andamento congiunturale non sembra influire sull’evoluzione della quota di reddito imponibile in mano alle persone ricche. Sembra invece che siano fattori che manifestano la loro influenza nei tempi lunghi a dettare le tendenze di sviluppo di questa quota. Senza aver eseguito nessuna ricerca a questo riguardo pensiamo di poter affermare che l’evoluzione della quota di reddito di cui dispone il 10% delle persone più ricche del Paese, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, è stata largamente influenzata dai cambiamenti introdotti nel sistema fiscale e dai loro risvolti di natura redistributiva. Nel 1945, a livello nazionale, le imposte pagate dal 10% delle persone più ricche rappresentavano i 2/3 del gettito fiscale complessivo. La quota d’imposte dei più ricchi ha dapprima conosciuto un aumento fino a toccare, nel 1963, il 73,3% del

Il vero banco di prova per Giorgia Meloni

All’apparenza sono giorni sereni per Giorgia Meloni. Settimana scorsa ha ricevuto a Roma la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e i Lancieri di Montebello, lo storico corpo militare legato al cerimoniale di Palazzo Chigi, per la prima volta nella storia hanno reso gli onori a due donne. La presidente del Consiglio è anche andata in visita da Papa Francesco portando con sé il compagno, la figlia e alcuni collaboratori. Un incontro cordiale, senz’altro importante. Meloni gli ha dedicato un tweet: «Oggi in udienza da Sua Santità in Vaticano. Un onore e una forte emozione avere l’opportunità di dialogare con il Santo Padre sulle grandi questioni del nostro tempo». Pare che Francesco abbia una certa simpatia personale per la giovane premier italiana, qualcuno ha anche evocato la sua gioventù peronista. Eppure la situazione per il Governo di Roma non è facile. I prezzi continuano

a salire, in particolare quelli della benzina e del diesel, dopo che l’Esecutivo ha dovuto rinunciare al taglio alle accise imposto da Mario Draghi. Motivo: costava troppo, quasi un miliardo di euro al mese, e il bilancio dello Stato non lo permette. Ma le accise – cioè le imposte – sulla benzina sono un testatico che grava all’apparenza allo stesso modo su ricchi e poveri, ma danneggia soprattutto i ceti popolari, gli artigiani, le partite Iva, i piccoli e piccolissimi imprenditori che sono poi lo zoccolo duro, la riserva elettorale del centrodestra italiano. Una reazione negativa potrebbe non farsi attendere.

Per il momento il consenso di Giorgia Meloni è intatto, anzi tende a crescere. Nei sondaggi Fratelli d’Italia ha superato il 30%, mentre il Partito democratico, impegnato a discutere di sé stesso e delle primarie, è precipitato sotto il 15%, superato dai Cinque Stelle. Il 12 febbraio si vota nelle due Regioni più impor-

Il presente come storia

Negli ultimi mesi del 2022 sono arrivati sugli scaffali delle librerie parecchi volumi sui dittatori che hanno determinato tragicamente le sorti del vecchio Continente, e non solo, nella prima metà del Novecento. Saggi su Mussolini, anzi semplicemente M, firmati da Antonio Scurati, e poi centinaia di pagine confluite nell’opera di Emilio Gentile, davvero imponente (Storia del fascismo, Laterza). L’elenco è veramente lungo. Il centenario della marcia su Roma ha ridestato un filone di ricerca sul ventennio nero: una ripresa che molti osservatori hanno collegato alla vittoria elettorale della destra lo scorso 25 settembre. Tracciare parallelismi, come ben sa ogni studioso avveduto e non accecato da pregiudizi, è sempre azzardato. Tuttavia non è malevolenza ritenere che taluni geni presenti nell’attuale maggioranza provengano da quel passato, mai del tutto ripudiato (il che vale an-

che per gli antagonisti storici, ovvero per i comunisti o ex-comunisti).

Via un anniversario pesante (la marcia), eccone un altro, non meno significativo: l’ascesa al potere di Hitler, il 30 gennaio del 1933, dunque novant’anni fa. Anche nel caso del Führer, come per il Duce, le occasioni per ricordare quella Machtergreifung, come la chiamano in Germania, non mancheranno, come pure i consueti tributi postumi di gruppi neonazisti. L’anniversario cade a pochi giorni di distanza dalla Giornata della memoria, in ricordo della liberazione del campo di Auschwitz per opera dell’Armata rossa il 27 gennaio 1945. Il materiale per una riflessione seria è dunque abbondante. Uno dei tarli che da anni tormentano gli storici è come sia stato possibile per Adolf Hitler liquidare in così poco tempo le istituzioni della Repubblica di Weimar, per instaurare mese dopo me-

tanti del Paese, la Lombardia e il Lazio, e Fratelli d’Italia si confermerà in entrambe il primo partito. Ma mentre il governatore leghista della Lombardia Attilio Fontana è pressoché certo di essere rieletto, a meno di clamorose sorprese, nel Lazio il candidato di Fratelli d’Italia Francesco Rocca ha qualche difficoltà in più, compreso un fratello che lo critica in pubblico, rinfacciandogli una condanna giovanile per droga. Tuttavia non è dal fronte elettorale che vengono le preoccupazioni per il Governo, bensì da quello europeo. La Banca centrale di Francoforte sta alzando i tassi, la governatrice Christine Lagarde ha annunciato che ridurrà l’acquisto dei titolo di Stato dei Paesi membri, a cominciare dal più indebitato: l’Italia. Questo per Meloni è un grosso guaio perché significa che lo Stato dovrà pagare di più per finanziarsi e che i cittadini con un mutuo a tasso variabile subiranno un salasso. Insomma le prospettive econo-

totale. In seguito la quota del gettito del 10% dei contribuenti più ricchi è scesa, fino al 1991, al 47,5%. Infine, nel corso degli ultimi 30 anni, la stessa è risalita al 54,8%. L’evidenza statistica dimostra che, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ci fu quindi una tendenza all’aumento dell’impatto redistributivo del sistema fiscale e questo fino all’inizio degli anni Sessanta. In seguito, per 30 anni, l’impatto dell’imposta sui redditi più elevati conobbe una significativa diminuzione. Gli ultimi 30 anni hanno visto di nuovo un leggero aumento di questa quota. Interessante è seguire l’evoluzione nei Cantoni. La quota dei ricchi contribuenti ticinesi ha, per esempio, conosciuto un’evoluzione diversa da quella media nazionale. All’uscita della Seconda guerra mondiale la quota del gettito pagata dai ricchi ticinesi era inferiore alla media nazionale.

A partire dall’inizio degli anni Sessanta, invece, la stessa ha cominciato a superare i valori medi nazionali. In Ticino il 10% dei contribuenti più ricchi ha assicurato, dal 1945 ad oggi, più della metà del gettito delle imposte. Grazie al meccanismo della progressione a freddo la quota del gettito fiscale pagata dai più ricchi è salita, nel secondo dopoguerra, fino a superare i 3/4 del totale, nel 1963. Dopo di che è discesa fino a quasi il 50% per poi risalire ai 2/3 di oggi: un livello a metà strada tra il massimo e il minimo conosciuto da questa quota nel corso degli ultimi tre quarti di secolo. Difficile dire se questa evoluzione abbia o no una valenza politica. Si constata in ogni modo che i periodi in cui la pressione sul reddito imponibile dei ricchi è aumentata sono stati in Ticino il periodo dell’alleanza di sinistra e quello nel quale la Lega è diventato il partito di maggioranza relativa in Governo.

se un regime prima autoritario e poi totalitario. Un’accelerazione che impressionò anche la nostra stampa locale. Già il 12 febbraio il «Giornale del Popolo» scrisse che «la dittatura Hitler-von Papen va consolidandosi progressivamente in Germania. Dopo le misure limitanti considerevolmente la libertà di stampa e di riunione, il Governo del Reich non ha tardato molto ad attuare il meditato colpo di forza contro la Dieta ed il Gabinetto della Prussia». Un allarme su un Paese finito sotto il «tallone di Hitler» che «Libera Stampa» riprende e sottolinea quotidianamente. Dalla marcia su Roma erano trascorsi meno di undici anni, ma già erano cambiati gli strumenti e i modi del comunicare; era apparsa la radiofonia, di cui il fascismo comprese subito le potenzialità come veicolo di indottrinamento, promuovendo la diffusione degli apparecchi riceventi nelle famiglie. Ora

miche non sono affatto esaltanti. Non è in discussione la popolarità personale della premier. È il futuro del Paese a destare preoccupazioni. Troppi dossier scottanti: la compagnia di bandiera Ita Airways potrebbe finire a Lufthansa; la battaglia di Tim e quindi delle telecomunicazioni è aperta; i francesi ormai comandano in Generali; i tavoli di crisi industriali si moltiplicano. L’Italia ha bisogno dell’Europa su ogni fronte, ad esempio per la gestione degli sbarchi dei migranti a Lampedusa. Si comincia a capire che il sovranismo è un lusso che l’Italia non si può permettere; anche perché troverà sempre Paesi più sovranisti di lei. Come la Svezia, dove ha vinto la destra nazionalista. Se l’economia non è messa bene, qualche tensione c’è anche sul fronte politico. Silvio Berlusconi comincia finalmente a porsi la questione della propria eredità politica. Dal canto suo, il leader della Lega Matteo Salvini è in grande

difficoltà. Non a caso i due hanno proposto un partito unico del centrodestra, proprio per dissimulare la loro debolezza. Meloni però non ci pensa, almeno per il momento; prima vuole capitalizzare la propria popolarità nelle elezioni europee del 2024, dove conta di cogliere un risultato storico. Al voto per l’Europarlamento però mancano 17 mesi, un tempo in cui può ancora succedere di tutto. Nel frattempo la pessima figura rimediata in Brasile dall’ex presidente Jair Bolsonaro – sostenuto da Steve Bannon, già accolto in passato con tutti gli onori alla festa di Fratelli d’Italia – fa il pari con le difficoltà di Trump. Insomma, i punti di riferimento stranieri della destra radicale vengono meno. Tutto induce Meloni a un comportamento prudente, al dialogo con i partner europei, alla presa di distanza dall’Ungheria di Orban, alla fedeltà atlantica, a cominciare dal banco di prova più importante: la guerra in Ucraina.

le notizie viaggiavano più rapidamente, ma per il pubblico risultava difficile, se non impossibile, verificarne la veridicità e l’imparzialità.

Tra le due guerre violenza, propaganda ed esaltazione delle razze cosiddette superiori camminarono assieme scavando la fossa a quel che restava della Repubblica di Weimar, nata all’indomani della grande guerra del 1914-18 dalla quale la Germania era uscita non solo sconfitta, ma umiliata. Le riparazioni di guerra imposte dalla Conferenza di Versailles rinfocolarono i propositi di rivalsa, un sentimento che l’economista inglese John Maynard Keynes intravide lucidamente in un volume nato a ridosso delle trattative: Le conseguenze economiche della pace. I fatti non tardarono a dargli ragione: nel giro di pochi anni il Paese precipitò nel caos, alimentando la ricerca compulsiva di una guida (Führer) che mettesse fine al disordi-

ne e ai veleni sparsi da una inflazione galoppante.

Accanto alla riflessione del «come sia stato possibile» che la democrazia liberale morisse in così poco tempo, gli studiosi s’interrogano sul ritorno dell’uomo (e in certi casi della donna) forte nella politica odierna, sulla seduzione che esercita sulle folle la personalità carismatica. Tema che il maggior biografo di Hitler, Ian Kershaw, ha recentemente posto al centro di un ampio volume appena tradotto in italiano, e intitolato appunto L’uomo forte (Laterza). Un libro da tener presente, soprattutto per evitare che gli ordinamenti liberal-democratici meno saldi cadano nelle mani di oligarchie (Governo di pochi) o monocrazie (Governo di uno solo). Come si è tentato di fare perfino negli Stati Uniti (dove per la verità gli anticorpi avrebbero dovuto funzionare) e, di recente, in Brasile.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 16 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 23 ATTUALITÀ / RUBRICHE ◆ ●
Angelo Rossi
di
◆ ●
di Aldo Cazzullo
◆ ●
Conoscere, ricordare, prevenire
di Orazio Martinetti
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Lampo all’alba

Il prof. Giddon Ticotsky racconta la raccolta di poesie di Lea Goldberg, intellettuale ebraica di Königsberg che merita di essere riscoperta

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Al via le Giornate cinematografiche Intervista a Niccolò Castelli, primo ticinese alla guida delle Giornate di Soletta che aprono mercoledì e giungono alla loro 58esima edizione

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Donne e moda nelle foto di Peter Knapp Fu Art director per «Elle», con la quale contribuì a tradurre un insieme di tensioni verso il nuovo. La Fotostiftung Schweiz gli dedica una mostra

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La grande stagione dell’editoria italiana

C’è aria di bilanci nell’editoria italiana. Voglia di storicizzare quel che fino a qualche anno fa era vita (culturale) vissuta. Non sarà una coincidenza se nelle ultime settimane sono usciti numerosi libri che rievocano, ciascuno a suo modo, gli attori del lavoro editoriale del dopoguerra. E in genere lo fanno con accenti quasi epici. Come se il mondo narrato appartenesse a una leggenda remota abitata da eroi antichi. Non è difficile capire le ragioni di questo afflato rievocativo, una volta chiusa la stagione dei cosiddetti editori-protagonisti (Giulio Einaudi è morto nel 1999, Paolo Boringhieri nel 2006, Elvira Sellerio nel 2010, Livio Garzanti nel 2015, Inge Feltrinelli nel 2018, Roberto Calasso l’anno scorso) e ormai sperimentata (e forse usurata) la stagione pluridecennale del marketing al potere. Sono soprattutto i «sopravvissuti» a riflettere su quel che è stato. E tra questi due figure di notevole rilievo per prestigio e carriera come Ernesto Ferrero, che è stato direttore einaudiano di lungo corso, e Gian Arturo Ferrari, traghettatore della Mondadori berlusconiana per un paio di decenni. Il primo con Album di famiglia (Einaudi), il secondo con Storia confidenziale dell’editoria italiana (Marsilio). Due libri di diversa fattura e di diversissimo stile, quasi complementari. A cui si aggiunge un romanzo biografico su Alberto Mondadori, scritto dal nipote Sebastiano, figlio della figlia Nicoletta (Verità di famiglia, La nave di Teseo). A cui ancora si aggiunge, Bazleniana (Acquario editrice), una raccolta di materiali, ritratti, riflessioni su Roberto Bazlen, detto Bobi, che fu il maestro di Calasso e il fondatore della casa editrice Adelphi. Insomma, non mancano i motivi buoni per parlare di una summa memoriale e culturale a tutto tondo.

«Ogni casa editrice, piccola o grande, bella o brutta, sta in piedi, quando sta in piedi, su tre cose. L’idea, i soldi e le scoperte»

Da queste pubblicazioni, che compongono idealmente un solo libro, tanti e tali sono i fili che si incrociano dall’una all’altra, possiamo trarre qualche considerazione generale su come sono andate le cose e soprattutto una galleria di ritratti straordinari. Cominciando dalla fine del libro di Ferrari: «Ogni casa editrice, piccola o grande, bella o brutta, sta in piedi, quando sta in piedi, su tre cose. L’idea, i soldi e le scoperte». Verissimo, ma fra le tre cose non si vede oggi alcun equilibrio. L’idea, quando c’è, è nettamente subalterna al risultato economico e le eventuali scoper-

te non sono apprezzate se non in funzione delle risposte del mercato: che cosa ne sarebbe di Saviano se il suo Gomorra non avesse stravenduto subito? Non conta che l’idea sia in sé convincente o nuova, conta che riesca a produrre consenso (e guadagno) immediato, ignorando che l’editoria è un investimento da declinare al futuro: «L’editoria è come l’agricoltura – ama ripetere Ferrero – semini oggi per produrre non fra tre mesi ma fra 5 o 10 anni». E così la sorpresa viene perseguita solo se trova un pubblico ampio. Se non lo trova, diventa subito deludente e stucchevole, dunque viene abbandonata a sé stessa. Si punta sul già noto (il giallo impazza) e si sta sul sicuro, evitando le sperimentazioni che spaventano il lettore.

Questa, salvo eccezioni, è una delle differenze maggiori tra l’editoria attuale e quella del passato, quando il gusto dell’azzardo o la programmazione ideale (e magari poco realistica) superava pericolosamente ogni calcolo mercantile. Il desiderio di bestseller è oggi furioso e cieco, ma la ricerca ossessiva del bestseller non fa i conti con il dio dell’imprevedibilità, che in editoria comanda ancora rendendola una delle imprese più affascinanti e più rischiose: persino i successi di Camilleri o di Elena Ferrante non erano prevedibili. Neppure quello di

Gomorra (la vicenda editoriale è raccontata da Ferrari). Sugli equilibri e gli squilibri tra progetto e risultati si concentra l’indagine storico-economica che Bruno Pischedda ha consegnato a La competizione editoriale (Carocci), uno studio degli assetti aziendali e delle strategie in rapporto ai numeri di vendita nell’ultimo secolo e mezzo.

Chi non abbandonò mai l’idea fu Alberto Mondadori, che si ostinò a combattere contro suo padre Arnoldo nel proporre un’alternativa di qualità alla casa editrice «commerciale»: riunendo intorno a sé le migliori menti della filosofia, della critica e della letteratura, fondò il Saggiatore nel 1958 con il grande Giacomo Debenedetti, il critico di Saba, di Svevo e di Proust, con il contributo del filosofo Remo Cantoni e con l’aiuto del poeta Vittorio Sereni, direttore letterario della casa madre, la Mondadori. Questi e altri erano i suoi amici, con i quali alla lunga non riuscì tuttavia a evitare la rottura. La casa editrice eccelsa che Alberto stava costruendo entrò ben presto in crisi per imprudenza e con la casa editrice entrò in crisi (per l’ennesima volta) anche il suo fondatore e proprietario. Così come lo racconta il nipote Sebastiano, suo nonno non era certo un carattere facile, amava la mondanità, in

gioventù aveva frequentato l’ambiente romano del cinema (era cugino di Mario Monicelli), è stato una sorta di megalomane e di genio che ospitava a Milano Hemingway Faulkner e Thomas Mann: il suo guaio fu che, volendo prendere le distanze dal padre, finiva regolarmente per ricorrere a lui quando aveva bisogno di rimediare ai buchi finanziari, e dunque il legame più che allentarsi si complicava. Detto ciò, nonostante le difficoltà psicologiche ed economiche, il catalogo del Saggiatore dimostra una ammirevole apertura disciplinare, grazie anche ad autori di prestigio internazionale destinati a segnare il catalogo con titoli di lunga durata: si chiamavano Sartre, Lévi-Strauss, Simone de Beauvoir, Husserl…

Certo, ci vogliono visione e coraggio. Quel che avevano figure come Alberto Mondadori, Giulio Einaudi, Valentino Bompiani, Livio Garzanti, Paolo Boringhieri, Giangiacomo Feltrinelli… Personalità dai mille difetti sulla cui intelligenza si è costruita la cultura italiana e anche europea del dopoguerra. Spregiudicati? Quasi tutti. Megalomani? Quasi tutti, tranne il grigionese Boringhieri, che Ferrero descrive come il più schivo e riservato degli editori, «il silenzioso gentiluomo svizzero che ha portato la grande scienza in Italia», prudente e

Ce ne sono di personaggi da raccontare. Ferrari lo fa con più malizia e con una conoscenza formidabile dei meccanismi interni (culturali, grafici, strategici). Ma l’evidenza è che il grande editore è sì un protagonista, persino un mattoide come Livio Garzanti, ma il suo protagonismo è animato da un fuoco che comprende anche la sensibilità di accogliere, nella propria corte di sovrano illuminato (dagli altri), i migliori collaboratori. Einaudi seppe scegliere Italo Calvino, Massimo Mila, Elio Vittorini, Giulio Bollati e un gruppo di consulenti straordinario. Garzanti si affidò a gente come Attilio Bertolucci, Giovanni Raboni, Oreste Del Buono. Bompiani a Umberto Eco, Paolo Debenedetti, Enrico Filippini. Feltrinelli allo stesso Filippini, a Mario Spagnol, a Valerio Riva, a Giorgio Bassani… L’editoria di libri è sempre un lavoro collettivo che si alimenta di discussioni e confronti. Un lavoro che nasce da una grande o piccola ambizione culturale: dopo, solo dopo, viene la necessaria copertura del denaro.

CULTURA ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 16 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 27
parsimonioso amico di Pavese, entrato in Einaudi come redattore e dal ’56 editore in proprio, regista della traduzione di tutto Freud in italiano, un’opera imponente che affidò a Cesare Musatti e soprattutto alle cure amorevoli di Renata Colorni. Dal centro verso destra, Valentino Bompiani, Arnoldo e Alberto Mondadori in uno scatto del 1950. (Keystone) Pubblicazioni ◆ Quattro volumi raccontano storie e protagonisti del mondo del libro tra idee visionarie e il coraggio di realizzarle

Lea Goldberg, poliglotta e ambasciatrice di culture

Lea Goldberg (1911-1970) nacque a Königsberg nella Prussia orientale (ora Kaliningrad, Russia) e iniziò a scrivere poesie in ebraico quando era una studentessa a Kovno. Ottenne un dottorato in lingue semitiche all’Università di Bonn e nel 1935 immigrò in Israele, allora sotto mandato britannico. Goldberg fu una nota poetessa che apparteneva al gruppo di Shlonsky; fu anche autrice di libri per bambini, critica teatrale, traduttrice e redattrice. Iniziò a insegnare all’Università Ebraica di Gerusalemme nel 1952 e in seguito vi fondò il Dipartimento di letteratura comparata che guidò per tutto il resto della sua vita. In italiano è uscita la sua raccolta Lampo all’alba (nella traduzione di Paola Messori per Giuntina), curata da Giddon Ticotsky, professore di letteratura all’Università Ebraica di Gerusalemme e autore del saggio La speranza dell’armonia, nonostante tutto, scritto appositamente per questa edizione. Lo abbiamo incontrato.

Chi è Lea Goldberg e perché il lettore di lingua italiana non la conosce?

Goldberg è stata davvero un’intellettuale di primo livello, ma la scrittura in lingua ebraica l’ha limitata dal punto di vista della ricezione internazionale. Penso che se avesse scritto in italiano, inglese o tedesco si sarebbe potuta collocare a livello di una poetessa come Marina Tsvetaeva o di una pensatrice e saggista come Hanna Arendt.

Goldberg era originaria della Lituania e aveva vissuto la sua giovinezza tra l’Impero russo e la Germania. Eppure la scelta di scrivere in ebraico precede di molto la sua emigrazione in Palestina nel 1935. Come si spiega?

Quella di trasformare l’ebraico nel centro della sua vita già all’età di nove o dieci anni era una scelta molto inconsueta nell’ambiente in cui è cresciuta che non attribuiva all’ebraico nessuna importanza particolare, benché tra le due guerre la Lituania fosse stata un polo sionista. Nella traduzione è presente un atto di sublimazione e riscrivere l’infanzia in una lingua diversa da quella materna e dal russo seconda lingua, consente a Goldberg di mettere in atto una sorta di ribellione acquisendo contemporaneamente controllo

sulla narrativa e le emozioni rispetto alla casa di origine. Del resto, se nelle altre lingue sono rari i casi in cui un poeta compone versi in una lingua diversa dalla propria lingua madre, nella cultura ebraica fino a pochi decenni fa era la norma sostituire la lingua dell’anima. Successivamente si è trattato di una scelta ideologica e culturale ben precisa, ispirata al modernismo. Benché non fossero mancati dei tentativi ad opera delle generazioni precedenti, penso a Chaim Nachman Bialik e Micah Joseph Berdichevsky, Goldberg si riteneva tra i primi a operare una trasformazione della cultura ebraica da periferica, religiosa e relegata agli studi biblici archeologici e filologici, a laica, moderna ed europea, con l’ambizione di colmare il divario.

Nel panorama della ricezione della letteratura ebraica in lingua italiana l’opera della Goldberg giunge con un certo ritardo e la maggior parte della sua opera non è ancora stata tradotta. C’è una spiegazione?

Fino all’ultimo decennio anche qui in Israele Goldberg era relegata ai margini. Da un lato era adombrata da colleghi di sesso maschile come Nathan Alterman e Avraham Shlonsky, rappresentanti della poesia nazionale ed esponenti della voce collettiva, nulla a che vedere con l’esperienza del singolo e i cliché di delusioni e amori non corrisposti presenti nella sua opera. Inoltre, anche il suo successo come scrittrice per bambini per anni le ha impedito di rivestire il ruolo centrale e dominante che oggi le viene finalmente attribuito.

Lea Goldberg frequentava i caffè letterari di Tel Aviv e nella sua casa di Gerusalemme si raccoglievano giovani poeti e scrittori. Che influenze ha esercitato sulla letteratura ebraica?

L’influenza di Lea Goldberg sulla letteratura ebraica è riscontrabile su diversi piani. Innanzitutto ha trasmesso alle giovani generazioni (Dahlia Ravikovitch, Yehuda Amichai ecc.) l’eredità della cultura europea umanistica da Petrarca in poi, offrendo loro un’alternativa alla tradizione anglosassone che li orientava. In secondo luogo, in un’epoca che tendeva a sovvertire gli schemi dal punto di vista della forma, Goldberg si impose come una «rivoluzionaria

tradizionalista», rispettando le consuetudini in particolare per quel che riguarda la struttura del sonetto.

Nel suo saggio descrive Lea Goldberg come una che procede sempre sul bordo del precipizio senza tuttavia permettersi di cadere. Nonostante le esperienze traumatiche, come la separazione dal padre affetto da una grave patologia mentale, Goldberg sembra sempre lottare per la vita.

Assolutamente, e utilizza consapevolmente l’arte per salvarsi dalle circostanze storico-biografiche. Rispetto al trauma la scelta artistica riveste anche una valenza simbolica che consente di soffermarsi su un’astrazione anziché sui dettagli specifici della realtà. Non si tratta solo di nascondere la ferita, bensì di «abbottonarla» come ha sapientemente suggerito la scrittrice e studiosa israeliana Hamutal Bar-Yosef. Nel preferire la sublimazione in risposta agli orrori e traumi della realtà Lea Goldberg compie dunque una scelta consapevole dalla valenza non solo estetica, ma anche etica: scrivere una cosa bella significa introdurre armonia per contrastare il caos disarmonico. Naturalmente ciò non elimina il senso di colpa per il fatto che mentre l’Europa andava a fuoco qui in Palestina la vita si svolgeva quasi normalmente e la gente cresceva figli. In un’epoca di crisi la sua è una prospettiva molto ottimistica, ma non dettata da ingenuità: pur consapevole della gravità della situazione sceglie «la luce al margine della nuvola».

All’università ebraica negli anni ’50 Lea Goldberg insegna Dante e Petrarca a studenti come lo scrittore Abraham Yehoshua. Cosa ci dice del legame di Lea Goldberg con l’Italia e come contribuisce il suo pensiero ad ampliare una prospettiva sugli autori italiani?

Poco dopo aver studiato l’italiano a Gerusalemme alla fine degli anni ’40 con la professoressa Raanana Meridor, Goldberg cominciò subito a tradurre e, ispirandosi all’esperienza italiana, propose un parallelismo tra il corso della letteratura ebraica e il passaggio dalla lingua sacra a quella vernacolare. In particolare interpretò Dante come migrante proiettandovi la sua esperienza della Prima guerra

mondiale e, così facendo, rese l’opera cristiana cosmopolita, moderna e in un certo senso esistenzialista. Un altro aspetto peculiare è costituito dalla sua capacità di affrontare temi come la Seconda guerra mondiale, che pure l’aveva toccata personalmente, ponendosi allo stesso tempo nella posizione di insider e outsider, utilizzando tanto motivi tipicamente ebraici come le domande dei figli alla cena pasquale quanto metafore cristiane del figlio che lavora. Con tali operazioni Goldberg creò collegamenti tra mondi apparentemente lontani.

Perché leggere oggi Lea Goldberg in traduzione italiana?

La traduzione di Paola Messori chiude il cerchio restituendo Lea Goldberg, poliglotta e traduttrice, alla sua dimensione di modernista internazionale che va ben oltre i confini del territorio e del nazionalismo culturale. Figlia di una generazione di uomini dalle grandi certezze Goldberg, che invece non si astiene dal mostrare la propria «debolezza», instaura più facilmente un dialogo con la nostra epoca che contempla più verità contemporaneamente.

In questo volume lo squarcio per la sua ricezione passa attraverso la poesia, tuttavia sappiamo che Goldberg ha scritto di tutto e in svariate forme. Quale pensa dovrebbe essere la prossima opera da tradurre?

Senz’altro le prime opere di prosa, pubblicate tra il 1936 e il 1946, dove Goldberg affronta la separazione dall’Europa, nella doppia prospettiva di prima e dopo la Guerra. In salvo da derive nazionaliste o nazionalistiche Goldberg propone una repubblica letteraria ebraica che vanta filiali anche in Europa, uno spazio pluralista e modernista slegato da un luogo preciso ma accomunato dall’amore per la lingua ebraica. Come in Israele Lea Goldberg si è fatta ambasciatrice dell’Europa, in Italia potrebbe affermarsi quale ambasciatrice di una cultura ebraica moderna e israeliana, offrendo un’alternativa non battuta, svincolata dal territorio e dalla sovranità.

Bibliografia

Lea Goldberg, Lampo all’alba Giuntina, Firenze, 2022.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 16 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 28
L’intervista ◆ In occasione dell’edizione italiana di Lampo all’alba il professore Giddon Ticotsky ci racconta la grande poetessa Dettaglio di copertina dell’edizione tedesca del romanzo di Lea Goldberg Briefe von einer imaginären Reise. (Jüdischer Verlag, 2003) Annuncio pubblicitario

«Il cinema svizzero? È come la nazionale di calcio: più aperto di quel che si pensa»

Festival ◆ Niccolò Castelli racconta le sue prime Giornate del cinema di Soletta da direttore

Regista di film come Tutti giù e Atlas (in onda domani sera su LA2 alle 21:05) che hanno contribuito all’affermazione del cinema svizzero italiano, direttore della Ticino Film Commission e ora alla guida delle Giornate cinematografiche di Soletta, Niccolò Castelli è il primo ticinese chiamato a dirigere la storica rassegna nazionale che inaugura mercoledì la 58esima edizione (tutto il programma della manifestazione in calendario fino al 25 gennaio è disponibile sul sito www.solothurnerfilmtage.ch).

Non è frequente che un regista passi a dirigere un festival anche se ci sono precedenti illustri, da Lizzani e Pontecorvo a Venezia o Moretti, Amelio e Virzì a Torino. Abbiamo dunque colto l’occasione per chiedere a Niccolò Castelli (nella foto) di raccontarci le sue emozioni e presentare la settimana di visioni.

Due anni fa inaugurava le Giornate con Atlas e ora si appresta a inaugurarle da direttore. Come si sente? È stato un grande onore e lo è anche questa volta. Presentare, allora, un film in italiano che rappresentasse il cinema svizzero è stata una grande opportunità e una responsabilità per tutti quelli che ai tempi ci hanno lavorato. Ora mi sento un regista prestato a fare un film di una settimana con i film degli altri.

Avete ricevuto più di 600 lavori, come li avete selezionati? Nel programma si notano molti nomi nuovi.

Tra i 600 ci sono anche videoclip e corti e 150 lungometraggi. Chi non era riuscito a finirli per la pandemia li ha mandati ora. I giorni a disposizione e le sale sono quelli, abbiamo dovuto dire tanti no. Soletta è

una vetrina, ma una vetrina curata, abbiamo fatto scelte, selezionato un cinema svizzero che mette le dita nelle ferite, tocca cose attuali, come guerra, gender o clima. Ci sono tanti film di giovani autori molto forti a livello stilistico, anche nella finzione.

Oltre alle tradizionali tre aree linguistiche, si notano sempre più registi di origine straniera.

Il cinema svizzero è come la nazionale di calcio, con tanti registi e registe originari di altri Paesi, gente che ha già il mondo in casa. Abbiamo sempre più immigrati di seconda generazione che vanno alla ricerca delle loro origini e della loro identità, dei loro parenti, delle persone scomparse nelle fosse comuni nei Balcani. L’identità svizzera non è più fatta di tre o quattro culture, ma è molto più complessa.

Passando da regista a direttore di festival ha scoperto qualcosa di nuovo?

Ho visto un cinema più giovane di me, che mi ha sorpreso, gente con meno anni e prospettive diverse. Il cinema svizzero è più aperto sul mondo di quel che si pensa, ha piede in Europa e altrove. Ho vissuto il piacere della scoperta e della ricerca di un certo tipo di narrazione che parla della vita e mi sono reso conto delle tante sensibilità presenti. E anche la varietà di coproduzioni, non solo con la Francia, la Germania o l’Italia, ma anche con la Polonia, il Belgio, i Balcani. Conoscevo meno gli attori del resto della Svizzera, di lingua tedesca o francese, e sono stati una bella scoperta.

Soprattutto alla guida della Film Commission si era impegnato per

trovare spazio e visibilità per il cinema ticinese. Ora che è dall’altra parte cosa ne pensa?

Il Ticino ha i mezzi per giocare un ruolo e fare la sua parte. Negli ultimi anni ha compiuto tanti passi avanti. È una minoranza, ma deve farsi vedere, alzare il livello e non avere complessi di inferiorità. A Soletta rappresento anche la Svizzera italiana, ricordo che esiste. Ci siamo accorti che rispetto ad anni passati ci sono curiosamente meno film in italiano, però la produzione ticinese è varia, con ben 14 lungometraggi legati al Ticino, comprese coproduzioni con il Canada o il documentario su Douglas Sirk del tedesco Roman Hüben. Ci hanno molto impressionato i tanti corti di giovanissimi autori ticinesi, film sperimentali o di ricerca, anche indipendenti: ne abbiamo selezionati dieci.

E poi c’è Giacometti di Susanna Fanzun.

Mi ha fatto molto piacere vedere il documentario sui Giacometti, non nascondo il mio amore per la Bregaglia e Maloja. Parla di Bregaglia come un luogo che in modo misterioso ha dato i natali a tanta arte con la sua luce unica. Seguo Susanna dai suoi primi lavori, ha raccontato tre generazioni di artisti con immagini spettacolari e anche parti di finzione.

C’è un film che sorprenderà durante le Giornate o che catturerà il pubblico?

Sicuramente a un certo tipo di pubblico piacerà Giacometti, come già Giovanni Segantini – Magie des Lichts di Labhart. Credo che siamo stati coraggiosi a mettere in competizione The Curse di Maria Kaur Bedi, un documentario quasi sperimentale che parla di dipendenza dall’alcol.

La Tour Vagabonde in Ticino

Concorso ◆ Con «Azione» al concerto di Camilla Sparksss

Come vi avevamo annunciato nell’articolo di Giorgio Thoeni pubblicato sul numero 49 di «Azione» dal titolo Alla scoperta della Torre vagabonda, la struttura itinerante creata nel 1993 a Friborgo e ispirata all’architettura del celebre teatro shakesperiano The Globe, ha «messo radici» anche in Ticino. Fino al prossimo 28 marzo, infatti, Tour Vagabonde, l’edificio in legno installato sul sedime della Gerra di Lugano, offrirà concerti, spettacoli, performances, proiezioni cinematografiche, ma anche semplici momenti

aggregativi in un contesto insolito e straordinario.

Alla Tour Vagabonde il prossimo 20 gennaio alle ore 23.00 andrà in scena il concerto di Camilla Sparksss, musicista elettropunk e artista visiva svizzero-canadese. Un’occasione imperdibile per ammirare e ascoltare un’artista che negli anni è riuscita a farsi un nome anche a livello internazionale.

Concorso

È stato un anno di scomparse eccellenti per

«Azione» mette in palio 7x2 biglietti per il concerto di Camilla Sparksss alla Tour Vagabonde (ore 23.0001.00, sedime della Gerra, Lugano). Per partecipare al concorso inviare una mail a giochi@azione.ch, oggetto «Sparkss» con i vostri dati (nome, cognome, indirizzo) entro mercoledì 18 gennaio 2022 ore 12.00. Roger Weiss

7 notti con mezza pensione

Sì, il ruolo dei

è cambiato. Una

andavi a vedere film che non avresti più recuperato, ora si possono recuperare sulle piattaforme. E diventano importanti gli scambi tra gli spettatori, chi fa cinema e le istituzioni.

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E poi due film legati ai Balcani, The Land Within e The Deny of Dignity il cinema svizzero. Infatti, non si potevamo non omaggiare Alain Tanner e Jean-Luc Godard, che hanno avuto un ruolo fondamentale, e Michael Sauter, sceneggiatore del cinema popolare degli anni 2000. La principale novità sembra il maggiore spazio dedicato agli incontri.
Keystone
festival volta

A TUTTA VITAMINA!

È il momento delle vitamine a basso prezzo: 150 grammi di frutto della passione o 400 grammi di broccoli bio costano solo un franco. Il frutto della passione è ideale per arricchire i condimenti esotici per insalata, con i broccoli si preparano gustose zuppe. Ricette e informazioni su www.migusto.ch/franco-vitaminico

Insalata di pollo al curry

Ingredienti per 4 persone

• 4 petti di pollo da 120 g

• Sale

• Pepe

• 1 cucchiaino di curry

• 4 cucchiai di olio d’oliva

• 1 cipolla rossa

• 1 dl di aceto

• 1 papaya da 400 g

• 4 frutti della passione

• 2 cucchiai di zucchero

• 2 cucchiai di senape

• 200 g di insalata invernale mista, ad esempio trevisana, indivia belga e radicchio

Preparazione

1. Insaporire i petti di pollo con sale, pepe e curry. Cuocerli in forno con metà dell’olio per circa 10 minuti, fino a quando sono dorati da entrambi i lati. Tenere in caldo. Tritare finemente la cipolla e portarla brevemente a ebollizione con l’aceto. Lasciar raffreddare. Pelare la papaya e tagliarla a metà nel senso della lunghezza. Togliere i semi con un cucchiaio. Tagliare la polpa a fette.

2. Per il condimento, dimezzare il frutto della passione. Prelevare la polpa con un cucchiaio e portarla a ebollizione insieme allo zucchero. Lasciar raffreddare. Mescolare la senape con l’olio rimanente fino a ottenere una salsa densa. Aggiungere alla salsa il frutto della passione e un po’ dell’aceto in cui è cotta la cipolla e mescolare bene il tutto. Disporre l’insalata su un piatto da portata e distribuirvi sopra la papaya e la cipolla. Irrorare con il dressing. Tagliare il pollo a tranci e disporlo sopra l’insalata.

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Immagine: Migusto

Libertà dei corpi e diritti delle donne

Fotografia ◆ Art director per «Elle», attento interprete della società, Peter Knapp e i suoi scatti sono al centro di una mostra Gian

L’esposizione attuale alla Fondazione Svizzera della Fotografia presenta più di un tocco di originalità: non è dedicata strettamente a un fotografo, bensì a quello che oggi chiameremmo art director, tra l’altro quasi sconosciuto tra i non addetti ai lavori.

Si tratta di Peter Knapp, classe 1931, nato a Bäretswil, nell’Oberland zurighese, formatosi alla celebre Kunstgewerbeschule di Zurigo, abile nel riconoscere e sfornare tanti talenti svizzeri nella comunicazione visiva per poi trasferirsi a Parigi negli anni Cinquanta e dare inizio alla sua carriera. Nella capitale parigina si fece immediatamente notare per la sua grande capacità creativa nel campo della grafica, segnatamente per la sua facilità nel coniugare testo e immagine in modo innovativo. Nel 1959 fu assunto come art director al settimanale «Elle» e contribuì a fare della rivista un punto di riferimento culturale per le lettrici francesi del tempo. È utile contestualizzare ciò di cui stiamo parlando, in quanto il confronto con le riviste attuali non deve trarre in inganno. Nei casi più illuminati, i settimanali e mensili femminili nel secondo dopoguerra, per almeno due decenni, furono degli straordinari terreni di sperimentazione visiva e aggiornamento culturale. La pubblicità era meno invasiva e presente rispetto a quelle attuali – non c’era ancora la concorrenza della televisione e le stesse tirature

raggiungevano, come i magazine più politici, risultati straordinari in termini di milioni di copie. «Elle», sotto la condirezione di Hélène Lazareff, regina dei salotti parigini, si contraddistingueva per una redazione quasi tutta al femminile e per il contributo di firme prestigiose (Françoise Sagan, Simone de Beauvoir e Marguerite Duras), oltre che per il fatto che non si sottraesse a trattare temi d’attualità spinosi come aborto e rivendicazioni dei diritti delle donne.

Potremmo dire che Knapp contribuì a tradurre un insieme di tensioni verso il nuovo – che sfociarono pochi anni dopo nel Sessantotto – in una sorta di inedito universo visivo. Negli anni che precedettero questi eventi, «Elle» interpretò lo spirito del tempo e divenne un’«istituzione» in fatto di moda ma anche in fatto di emancipazione femminile, offrendo un immaginario inedito alle moltissime lettrici – più di due milioni nei momenti di massimo successo. Le novità di contenuto rispetto al passato furono molte. A partire dalle protagoniste, le donne riprese: non erano più dive del cinema o figure statuarie in abito da sera, tutt’altro. Spesso furono scelte sapientemente tra studentesse e giovani lavoratrici, intercettate presso parrucchieri di grido. Il loro mondo non era più confinato alla cucina e alla cura della casa: le riprese, contestualizzate in città, le ritraggono co-

me donne lavoratrici spesso in movimento nelle strade cittadine, con capi fluttuanti, riprese istantanee, effetti flou e riprese con grandangolo. Non a caso alcune delle pose preferite sono quelle che ritraggono la modella nel momento in cui scende o sale le

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scale, mentre attraversa le strisce pedonali, o compie un leggero salto per salire sul marciapiede: il maestro di questo stile, cui guardavano i giovani fotografi francesi, era l’americano Richard Avedon (1923-2004), esponente di punta dell’americana «Harper’s

Bazaar». Le immagini, in seguito, venivano impaginate scardinando le regole della composizione tipografica in uso fino ad allora: il testo fluttuava libero accanto alle figure e, soprattutto nel caso della doppia pagina, le composizioni diventavano particolarmente innovative e ardite. Come se il corpo si sciogliesse, liberandosi da tensioni e legami, in vasti campi senza prospettiva.

Di questo ricco, colorato ed eterogeneo concerto visivo, come detto, Peter Knapp è stato per alcuni anni il brillante direttore d’orchestra; ma non solo, come testimonia l’esposizione a Winterthur, egli ritornava con piacere dietro la macchina da presa, producendo servizi senza fissarsi su un tipo di approccio artistico. Non mancano i riferimenti, le strizzate d’occhio, a ciò che succedeva nell’ambito dell’arte d’avanguardia contemporanea, dalla pop art alla op art.

Dopo il 1966, ritiratasi Lazareff per motivi di salute, Knapp preferì sciogliere il suo contratto, e operò prevalentemente come libero professionista per diverse testate europee («Vogue», «Stern» e «Sunday Times Magazine»), con incursioni anche in ambito cinematografico e televisivo.

Dove e quando Peter Knapp, Mon temps, Fotostiftung Schweiz, Winterthur. Fino al 12 febbraio 2023.

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RETTIFICA

Nel 2 o numero della stampa Migros 2023 le «spugne detergenti per la cucina e i lavori domestici» M-Budget sono state erroneamente contrassegnate con il sigillo K-Tipp. In realtà sono le «spugne soft» M-Budget in confezione da 6 a –.90 ad aver ottenuto il voto «buono» da K-Tipp. I prodotti testati non sono stati pubblicati nell’edizione 10/22 di K-Tipp/Saldo, bensì nell’edizione 17/22.

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