Azione 04 del 24 gennaio 2022

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Anno LXXXV 24 gennaio 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A.  Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

04

MONDO MIGROS

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SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

La pipistrellina Delta e il suo amico Hypsi: una storia per riflettere su diversità e disuguaglianze

Una giornata ad Andermatt con Judith Wegmann, sciatrice ipovedente pluricampionessa

I nuovi «imperialismi» russo e cinese minacciano gli interessi vitali dell’Europa

Un ricordo del grande scrittore siciliano Giovanni Verga a cent’anni dalla morte

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Il richiamo della memoria

Martino, Parenzo, Montorfani

Enrico Martino

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Una spada di Damocle sulla testa del Dragone Peter Schiesser

Sarà un’inaugurazione sottotono, il  febbraio, per il presidente cinese Xi Jinping: le olimpiadi invernali si svolgeranno senza pubblico e diversi governi occidentali non invieranno rappresentanti, in segno di protesta per quello che sempre più Stati considerano un genocidio ai danni della popolazione uigura. Un momento di gloria mancato. Tuttavia, se sarà ancora vivo e al comando a  anni, Xi Jinping potrebbe rifarsi nel  con le celebrazioni per il centenario della nascita della Repubblica popolare cinese, la Cina comunista fondata da Mao Ze Dong, quando, secondo le ambizioni della sua dirigenza odierna, sarà la conclamata potenza mondiale numero uno. Nessuno di noi può immaginarsi come sarà il mondo fra  anni, ma siamo impressionati e intimoriti dalla volontà di ascesa della Cina al punto di crederla ineluttabile. Eppure qualcosa all’interno del neo Impero Celeste scricchiola, anche se quasi non si ode, subissato dalle roboanti affermazioni di potenza (economica, politica, militare): il problema demografico, con i conseguenti rivolgimenti nel-

la struttura sociale e famigliare. E questo mette una pesante ipoteca sul futuro della nuova superpotenza asiatica. I dati dell’Ufficio nazionale di statistica cinese indicano che il tasso di natalità è calato per il quinto anno consecutivo nel , e il rinomato sociologo Wang Feng, della California University Irvine, ha sentenziato che «il  potrebbe venire ricordato come l’ultimo anno in cui la popolazione della Cina è cresciuta, nella storia». Certo, tutte le economie evolute, lo vediamo in Occidente, hanno problemi demografici, la popolazione invecchia ed è solo attraverso l’immigrazione che si mantiene un equilibrio demografico. Ma per la Cina è diverso: immigrazione ce n’è pochissima, e anche se aprisse le frontiere non troverebbe i milioni di persone di cui abbisogna per invertire la tendenza. Come scrive in uno studio del  il ricercatore tedesco Stefan Eberstadt, il problema è che «la Cina è una società a bassa immigrazione, bassa fertilità, bassa mortalità». Un mix demografico esplosivo. Per capirne le origini bisogna riandare agli anni

Sessanta, quando Mao Ze Dong impose la politica del figlio unico e poi aggiungerci i - decenni di enorme sviluppo economico inaugurati da Deng Xiao Ping alla fine degli anni Settanta: questa combinazione ha generato una nuova struttura demografica, cui non hanno fatto seguito i necessari adeguamenti culturali e politici. La politica del figlio unico ha ridotto il tasso di natalità, la crescita economica e il maggiore benessere hanno allungato la vita media dei cinesi, risultato: sempre meno giovani in età di lavoro, sempre più anziani da mantenere – nel , stima Eberstadt, la Cina avrà una popolazione pari a quella odierna,  miliardo e  milioni di abitanti, ma rispetto al  si conteranno  milioni di persone «over » in più e altrettanti in meno sotto i  anni. Ma non è solo una questione di numeri, ci sono anche altri aspetti problematici. Per esempio, già oggi il tasso di fertilità nelle aree urbane è molto basso. Da un lato molte giovani coppie che vogliono affermarsi professionalmente non fanno figli, anche gli incentivi promessi dopo aver innalzato l’obiettivo

demografico a due e ora a tre figli per coppia non stanno invertendo la tendenza. Dall’altro esiste in Cina un sistema arcaico di controllo degli abitanti, chiamato hukou, che assegna ad ognuno una residenza, per cui chi viene dalla campagna in città a cercare lavoro vive in condizioni, anche legali, da cittadino di serie B, senza diritto a sussidi, assicurazione malattia, senza possibilità di ricongiungimento famigliare, ciò che impedisce loro di aver figli. Oggi risultano «residenti urbani temporanei» ben  milioni di persone. Tutto ciò, a partire dagli anni Sessanta, ha scardinato l’ordine tradizionale, confuciano della famiglia, in cui un numero consistente di figli si occupava degli anziani, mentre oggi un/a figlio/a si deve spesso occupare dei genitori e dei suoceri. Infine, Eberstadt solleva un quesito interessante: la Cina vuole essere una potenza militare, ma la sua società odierna, frutto della politica del «figlio unico», è disposta ad accettare la morte dei propri «figli unici» in guerra? La via cinese al potere mondiale potrebbe essere meno facile di quel che sogna Xi Jinping.


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Anno LXXXV 24 gennaio 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

MONDO MIGROS

Cifre in crescita e aumento dell’online Risultato 2021

Il gruppo Migros conferma il quadro positivo registrato lo scorso anno

Il Gruppo Migros nel  ha aumentato il fatturato, rettificato per effetti di cessione. I clienti beneficiano nei supermercati Migros di prezzi mediamente inferiori dell’,%. L’offerta di prodotti sostenibili è stata ampliata, registrando un’ulteriore crescita dei fatturati. Al contrario, i settori legati ai viaggi e al tempo libero, così come quello della gastronomia, hanno nuovamente subito delle perdite a causa della pandemia. Il fatturato consolidato al netto delle cessioni del Gruppo Migros è aumentato del ,%, attestandosi a , miliardi di franchi. Il fatturato derivante dal commercio al dettaglio online ha registrato nuovamente una crescita del ,%, superando per la prima volta la soglia dei  miliardi di franchi. L’ampia offerta online ha contribuito al fatturato complessivo del Gruppo Migros con una quota dell’,%. «Il Gruppo Migros vanta una solida posizione. L’obiettivo del superamento dell’elevata soglia dell’anno precedente nel settore del commercio al dettaglio è stato raggiunto. Si tratta di un successo che dobbiamo alla diligenza dei nostri collaboratori in Svizzera e all’estero, che anche lo scorso anno si sono distinti per la quotidiana dedizione e il grande impegno nei confronti dei clienti. Il risultato positivo è la riprova del fatto che la concentrazione sui settori di attività strategici si è rivelata valida», dichiara Fabrice Zumbrunnen, presidente della Dire-

zione generale della Federazione delle cooperative Migros. Il fatturato del gruppo, rettificato al netto delle vendite per partecipazione e immobili, è cresciuto del ,%, attestandosi a , miliardi di franchi. La rettifica interessa quote di fatturato e redditi derivanti dalle cessioni di Globus, del grossista gastronomico Saviva e del centro commerciale Glatt, risalenti al . Non rettificato, il fatturato del Gruppo Migros si attesta a , miliardi di franchi. Nel settore delle vendite online Migros ha nuovamente nettamente consolidato la sua posizione di mercato, confermandosi come leader sul mercato svizzero. Il fatturato derivante dal

commercio al dettaglio online di tutti i settori del Gruppo Migros è cresciuto del ,%, raggiungendo la quota dei , miliardi di franchi. Il supermercato Migros Online è aumentato del ,%, attestandosi sui  milioni di franchi. Digitec Galaxus, il più grande negozio online della Svizzera, ha superato per la prima volta la soglia di fatturato dei  miliardi di franchi (+,%). Le dieci cooperative Migros regionali hanno realizzato un fatturato interno di , miliardi di franchi, rimanendo leggermente al di sotto del risultato straordinariamente positivo dell’anno precedente (–,%), soprattutto a causa della riduzione dei fatturati nei settori della gastronomia e del

fitness. La gastronomia ha subito un recesso nel fatturato pari al ,%, registrando  milioni di franchi di cifra d’affari, soprattutto a causa delle chiusure e delle restrizioni imposte dalla pandemia. Parallelamente alla tendenza registrata dalle quantità di prodotti vendute, che hanno conosciuto uno sviluppo stabile, lo scorso anno Migros ha ridotto i prezzi nei supermercati dell’,% in media, in linea con la strategia di offerta del miglior rapporto qualità prezzo per i clienti. Migros ha potuto applicare queste vantaggiose offerte nel  a dispetto dell’aumento dei prezzi delle materie prime grazie alla progressiva riduzione dei propri costi. L’attività legata al settore dei viaggi ha subito ancora forti limitazioni a causa della pandemia di coronavirus, in particolare il semestre invernale ha registrato un numero estremamente ridotto di prenotazioni. La situazione si è alleggerita in estate e in autunno, con un numero di prenotazioni mediamente superiore a quello registrato nello stesso periodo dell’anno precedente. Hotelplan Suisse, Interhome Group e vtours hanno osservato per settimane un livello di prenotazioni addirittura superiore a quello del . Tale quota non è stata però sufficiente a compensare la perdita registrata nei mesi invernali, da novembre  ad aprile , pertanto il Gruppo del settore turistico ha registrato un fatturato netto di  milioni di franchi (–,%).

Grand Prix Migros 2022

Sulla neve ◆ In occasione della sua edizione del 20mo anniversario, il Grand Prix Migros fa tappa in undici località sciistiche svizzere e sarà ad Airolo il 19 febbraio Migros sostiene il Grand Prix Migros come sponsor principale da vent’ anni. Nell’anno segnato da questo anniversario, offre ancora una volta a tutti i giovani sciatori la possibilità di partecipare alla più grande gara di sci per bambini del mondo. Le gare di qualificazione si svolgono in undici destinazioni sciistiche svizzere. Con lo slogan «Molto più di una semplice gara di sci», tutti i bambini e i giovani nati dal  al  sono i benvenuti alle gare di qualificazione. Anche i più piccoli, nati nel  e nel , possono partecipare alla minirace senza limiti di tempo e provare per la prima volta l’esperienza di una gara. Questa stagione prevede la partecipazione di giovani sciatori a undici gare di qualificazione distribuite in tutta la Svizzera. E come d’abitudine il meglio verrà alla fine. Dal  al  marzo , infatti, in occasione della grande finale di stagione che si terrà a Obersaxen, saranno incoronati i più veloci di tutte le gare di qualificazione, ossia i primi quattro classificati di ogni categoria per ogni gara. Per quanto riguarda il Ticino, ricordiamo che il Grand Prix farà tappa

Le prossime gare Grand Prix Migros 2022

Una gara all’insegna dell’amicizia. (gpmigros.ch)

sulle piste di Airolo sabato  febbraio: i giovani appassionati del nostro cantone sono quindi invitati a cogliere l’occasione per partecipare alla sfida sulla neve. Segnaliamo tra l’altro alle famiglie che amano gli sport invernali che sempre ad Airolo avrà luogo il giorno seguente, domenica

 febbraio, il Migros Ski-Day . In linea con il motto a cui abbiamo accennato sopra, al Grand Prix Migros tutti avranno modo di divertirsi. Accanto alla gara, verrà offerta ai partecipanti ogni sorta di sorprese e intrattenimento nel villaggio degli sponsor. Inoltre, Migros produrrà

azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)

Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Telefono tel. + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89

Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch

Gennaio Sabato 29

Nendaz

Febbraio Sabato 5 Domenica 13 Sabato 19 Sabato 26

Hoch-Ybrig Lenzerheide Airolo Wildhaus

Marzo Sabato 5 Domenica 13 Sabato 19

Lenk Riederalp Les Diablerets

Finale Gio-Do 24-27

Obersaxen

Ricordando Patricia

Ava Eva ◆ Un invito a conoscere la celebre scrittrice inglese Il Movimento AvaEva organizza un ciclo di incontri alla scoperta di scrittrici che hanno legami con il Ticino. L’iniziativa vuol dare visibilità a quelle donne che hanno scelto il nostro territorio per la loro attività. Il primo appuntamento è il  febbraio  e ci farà conoscere meglio Patricia Highsmith, famosa scrittrice statunitense autrice di innumerevoli successi fra i quali Sconosciuti in treno (), Il talento di Mr. Ripley (), Il grido della civetta (). La scrittrice verrà presentata da Vivien de Bernardi, sua esecutrice testamentaria oltre che sua grande amica. Dove e quando Alla scoperta di Patricia Highsmith, giovedì 10 febbraio 2022, ore 14.00-16.00. Saletta del Patriziato di Aurigeno (sopra l’Alambicco). Evento gratuito aperto a tutte le interessate e a tutti gli interessati. Iscrizione richiesta scrivendo a info@avaeva.ch oppure telefonando al numero 076 679 07 78. Seguirà una merenda.

Carmen al LAC

Concorso ◆ In palio biglietti per la replica del 1. febbraio La sala principale del LAC di Lugano ospiterà il prossimo martedì . febbraio, ore ., una proposta dalla Compañía Nacional de Danza di Madrid, il balletto Carmen nella versione del coreografo svedese Johan Inger. Creata originariamente nel  questa Carmen ha ricevuto il prestigioso Prix Benois de la Danse . «Azione», in collaborazione con il Percento culturale di Migros Ticino, offre ai suoi lettori la possibilità di aggiudicarsi alcune coppie di biglietti omaggio per lo spettacolo. Per partecipare basta inviare una email con oggetto «Carmen al LAC» all’indirizzo giochi@azione.ch entro le . di mercoledì  gennaio, inserendo i propri dati (nome, cognome, indirizzo, numero di telefono). Importante: sul sito www.luganolac. ch sono indicate le norme in vigore per il contenimento della pandemia.

un video di gara esclusivo per tutti i partecipanti. Potranno così mostrare le proprie prodezze ad amici e parenti direttamente a casa o rivivere i ricordi della gara di sci fra un paio d’anni. Informazioni www.gp-migros.ch

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938

Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano

Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel. +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano Tiratura 101’177 copie

Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera Fr. 48.– Estero a partire da Fr. 70.–


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SOCIETÀ

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Il caffè delle mamme I genitori di oggi tendono ad intromettersi nelle questioni di didattica scolastica, un’ingerenza che può essere controproducente

Digitalizzazione, quo vadis? Intervista a Paolo Costa, esperto di digitalizzazione che coniuga la tecnologia con le scienze umane

Un anno per salvare la tigre Il calendario cinese celebra il felino vivente più grande della terra che, se non lo proteggeremo, si estinguerà

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Baptiste Cochard

Volare di traverso

Pubblicazioni ◆ Un’avventura nel paese delle pipistrelle, delle rondini e delle pantegane per riflettere sulla diversità e le disuguaglianze Valentina Grignoli

Delta è una pipistrellina di Chirotteropoli. È simpatica, curiosa e determinata, dolcissima. Assomiglia tanto a una bambina che sta per scoprire il mondo, si pone domande e imprime tutto quello che vede nella sua eccezionale memoria. Vive nei pressi di un salice piangente, ha un amico del cuore che si chiama Hypsi e che vola strano, e un grande senso di giustizia. Una serie di incomprensioni la rattristano e per questo partirà per un lungo viaggio, che sarà alla base di questo originale Bildungsroman per l’infanzia. Di traverso è un libro ad opera del collettivo DELTA e dell’illustratore Baptiste Cochard. Non è solo un volume, è un ideale, un sogno, trasformatosi in progetto, e oggi realizzato sottoforma di pubblicazione trilingue, progetto d’istituto per scuole dell’infanzia e elementari, e materiale di formazione continua. Tutto parte dall’intuizione di un’equipe friborghese di ricercatrici e ricercatori in ambito educativo: perché quando si parla di diversità lo si fa sempre con ottimismo sfacciato, come se questa arrecasse solo gioia e ricchezza d’animo? Di certo a noi piace dipingere così la realtà, ma attenzione, perché mostriamo un mondo tutto rose e fiori ai bambini negando loro la rabbia, l’incomprensione, la paura, e dando per scontata l’accettazione. Non è forse meglio insegnar-

gli a riconoscere emozioni e reazioni, provare ad accoglierle e vedere insieme che farne? Perché a volte, capita di pensare cose brutte, di arrabbiarsi senza ragione. A volte ci si comporta in maniera ingiusta con chi ci vuole bene. E così, ritrovandosi anche in un mondo un po’ più ombroso, aumenterà forse l’empatia, e insieme ai bambini sarà possibile immaginare alcune azioni per contrastare le ingiustizie. Il bello di questa avventura, è che come un’onda ha smosso anche gli animi di altri, e da Friborgo è approdata con entusiasmo in Ticino. Di traverso è diventato così parte del programma prima nell’istituto di Brissago e quest’anno a Biasca, grazie ai corsi di formazione continua al Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI. In occasione di una giornata proprio nell’istituto biaschese lo scorso dicembre, parte dell’equipe Delta (formata da Emeline Beckmann, Alexandre Duchêne, Daniel Hofstetter, Sophie Korol, Stefanie Meier, Tibère Schweizer e Mariana Steiner) insieme a Marina Bernasconi, Jone Galli e Lara Magrini (docenti-ricercatrici SUPSI-DFA) hanno presentato il mondo di Traverso alla Biblioteca Cantonale di Bellinzona. «Il termine diversità, nella scuola, si è imposto negli ultimi anni – dice Tibère Schweizer, ricercatore all’Università di Friborgo – La maggior parte delle volte però viene presenta-

to nei testi scolastici come qualcosa da celebrare. Ma la celebrazione non mostra in realtà il vero problema delle disuguaglianze sociali legate alla diversità. Per noi era quindi necessario proporre un approccio che mettesse l’accento sulle relazioni, i meccanismi sociali, i rapporti di potere che portano alle disuguaglianze». Problematizzare le relazioni, i rapporti tra classi sociali, razze, handicap, orientamento sessuale e di altri fattori insomma, ma come insegnarlo a scuola? Attraverso una storia…. Continua Tibère Schweizer: «Quattro anni fa siamo tornati su questa idea, nata già prima in un corso sulla diversità. Abbiamo proposto un testo, che con il tempo e le discussioni si è inizialemente trasformato in un dossier corredato da attività pedagogiche da fare in classe per poi concretizzarsi in una formazione e in un libro. Al progetto hanno partecipato anche molti amici e colleghi, che hanno detto la loro. Per questo abbiamo utilizzato il nome d’arte DELTA, con il quale rivendichiamo un lavoro collettivo che richiama lo sforzo di comprensione e apprendimento dei processi sociali che abbiamo fatto figurare nei personaggi della storia». Un prodotto editoriale corredato da una quantità di illustrazioni raffinate (ne trovate esempio in questa pagina) ad opera di Baptiste Cochard, che dialogano col testo senza mai es-

sere ridondanti, forniscono anche visivamente l’idea dei diversi punti di vista dei personaggi, e il tenero stupore dei più piccoli di fronte alla vastità e varietà di mondi. La pipistrellina Delta è poi volata in Ticino. Dopo la traduzione e l’adattamento ecco che Di traverso diventa anche «un progetto per rafforzare la collaborazione e gli scambi di un team di docenti». Come ci racconta Marina Bernasconi: «Il libro è pensato per allievi dalla scuola dell’infanzia alla quinta elementare. Il ruolo del docente è quello di calibrare come raccontare le avventure. Uscendo dalla logica “diverso è bello” vengono messi in luce sentimenti contrastanti». Abbiamo un bel dire siamo tolleranti, amiamo le differenze, stiamo bene in contesti diversi, ma in realtà noi tutti viviamo i tanti sentimenti che vive Delta. «Lei non è un’eroina classica che rimane sempre positiva. Incontra molte difficoltà, e questo aiuta le bambine e i bambini a riconoscere i diversi punti di vista». Non c’è un lieto fine, Delta non risolve la questione di Hypsi, non è l’obiettivo della storia. «Deve mantenersi aperta. Scopriamo che in ogni società ci sono norme diverse e che queste possono escludere o includere persone. Il libro dà molta fiducia ai bambini, alle loro proposte». Qualcosa stride nel racconto, sconcerta. È l’utilizzo del femmini-

le generico. Si parla di due amiche ma Hypsi è un maschio. Si parla delle pipistrelle, delle rondinelle e delle pantegane, ma ci sono anche molti maschi. Siamo abituati al maschile generico e ora questo testo ci fa riflettere sul collegamento tra norme linguistiche e norme sociali, in maniera esperienziale. «Queste sono solo alcune considerazioni sulla storia, molto si scopre in realtà lavorando con le classi. I due progetti, Brissago e Biasca, ci fanno capire che in ogni contesto succedono cose meravigliose. Si è creata una comunità per riflettere assieme». Di traverso è anche parte di un corso proposto agli studenti del DFA. Conclude Jone Galli: «L’idea di fondo che proponiamo è legata all’idea dell’accogliere ogni bambino con le sue caratteristiche e con la sua storia per permettergli un’esperienza scolastica all’insegna del benessere e della riuscita. Quest’anno abbiamo discusso con le studentesse e gli studenti dell’avventura di Delta e Hypsi, si sono confrontati su alcuni aspetti, e abbiamo avuto modo di iniziare a immaginare una progettualità per quando saranno maestre e maestri. E la nostra speranza è che ognuno di loro possa entrare un po’ di traverso nella propria classe». Informazioni www.delta-atled.org


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MONDO MIGROS

It’s hamburger time!

Attualità ◆ La pregiata carne di manzo Swiss Black Angus si trasforma in pietanze da leccarsi i baffi. Che ne dite per esempio di assaggiare un succoso hamburger?

Azione Hit Hamburger di manzo Swiss Black Angus per 100 g Fr. 3.70 dal 25.01 al 31.01.2022

Impossibile resistere: succoso hamburger preparato con aromatica carne di Swiss Black Angus.

Un tempo considerato un cibo veloce appannaggio solo dei fast-food, l’hamburger negli ultimi anni è diventato un piatto di tendenza, rivisitato anche dai più grandi chef e preparato con carni della migliore qualità. Gli amanti di questa pietanza simbolo della cucina americana che desiderano gustare qualcosa di esclusivo, alla Migros trovano gli hamburger freschi a base di prelibata carne di Angus svizzera. Preparati dagli esperti macellai dell’Angolo del Buongustaio Migros, sono pronti in poco tempo e vi conquisteranno per succosità e aroma. Una volta cotti per qualche minuto in padella o sulla griglia, si gustano sia da soli, per esempio accompagnati da una croccante insalata, oppure nel modo più classico: all’interno dei tipici panini al sesamo leggermente tostati e farciti con anelli di cipolla, cetrioli, lattuga, pomodori e salsine a piacere come ketchup, maionese o worcester. Swiss Black Angus

La razza bovina di origini scozzesi

Fare il pieno di proteine con gusto

Attualità ◆ I prodotti Oh! High Protein contribuiscono in modo gustoso a soddisfare il nostro fabbisogno proteico quotidiano

Le proteine forniscono energia e sono indispensabili per la formazione e il mantenimento dei muscoli. Con gli squisiti prodotti della linea Oh! High Protein è un vero piacere sostenere il nostro benessere quotidiano. Grazie al loro contenuto extra di preziose proteine e al loro basso tenore di grassi, sono perfetti gustati a colazione per iniziare bene la giornata, come spuntino rompi fame tra un pasto e l’altro oppure dopo l’attività sportiva. In aggiunta, rappresentano un’ottima

fonte di calcio e sono senza zuccheri aggiunti. La gamma, innovativa e variegata, saprà soddisfare ogni gusto ed esigenza. Dalla mozzarella al cottage cheese; dal latte ai drink e ai quark alla frutta; dagli yogurt fruttati ai pudding al cioccolato, caramello e vaniglia; senza dimenticare il formaggio di montagna, quello fresco o per insalate: ogni prodotto Oh! High Protein convince sin dal primo assaggio per bontà e qualità.

Azione 20% Tutto l’assortimento Oh! dal 25.01 al 31.01.2022

Angus è da sempre riconosciuta per l’eccellente qualità della sua carne. Grazie ad una fine marezzatura (distribuzione di grasso intramuscolare nella carne) risulta molto tenera e intensamente aromatica. Da alcuni decenni anche in Svizzera si è sempre più diffuso l’allevamento di questa razza, con risultati particolarmente soddisfacenti. Le aziende che allevano i manzi Swiss Black Angus devono soddisfare i criteri di sostenibilità di IP-Suisse, che garantiscono una produzione rispettosa dei bisogni della specie. Gli animali vivono in un sistema di stabulazione libera con accesso ad un cortile all’aperto e uscite regolari al pascolo. L’alimentazione è costituita da erba fresca, fieno e mais, prodotti perlopiù dall’azienda stessa. L’utilizzo di soia e altri additivi è vietato. Le macellerie Migros offrono un’ampia scelta di tagli di carne bovina Swiss Black Angus: oltre ai citati hamburger, la gamma comprende anche filetto, entrecôte, aletta, costa schiena, ossibuchi, bistecche e spezzatino.


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MONDO MIGROS

Il pane rustichella Pane della settimana

Questa specialità a base di farina chiara di frumento è particolarmente apprezzata per la sua versatilità

Farina IP-Suisse

Ricetta riscaldante

Il pane rustichella è preparato con farina ottenuta da frumento svizzero coltivato secondo i criteri di IP-Suisse. I contadini IP-Suisse producono i loro cereali in modo ecologico rinunciando a insetticidi, regolatori della crescita e fungicidi - e promuovendo la biodiversità. L’impiego di sostanze ausiliarie sintetiche è consentito limitatamente e solo in caso di effettiva necessità.

Il pane rustichella è talmente versatile che si può utilizzare anche per preparare una fumante zuppa di pane: spezzettare - fette di pane e sobbollirle con  dl di brodo per una ventina di minuti. Frullare il tutto e unire alla zuppa qualche carota tagliata a julienne. Cuocere per altri  minuti e aggiungere qualche cucchiaio di latte, del burro e noce moscata. Servire la zuppa cosparsa con qualche ciuffo di prezzemolo o sedano tritati.

Lunga lievitazione

Una lievitazione dell’impasto di  ore a bassa temperatura permette al pane rustichella di mantenersi fresco e croccante più a lungo rispetto ad altri pani prodotti a partire da farina chiara. È inoltre un pane preparato con poco lievito ma con un alto tenore di acqua. L’alveolatura della mollica risulta ben sviluppata. Il suo sapore presenta note di tostatura e lievito. Un alimento sano

Da millenni il pane è uno degli alimenti base dell’uomo, capace di apportare sostanze nutritive vitali al nostro organismo. Contiene infatti carboidrati, fornitori di energia di lunga durata; proteine per la formazione di cellule e muscoli; importanti sali minerali per le ossa e i tessuti; vitamine per le difese immunitarie e fibre alimentari per regolare digestione e glicemia.

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azione – Cooperativa Migros Ticino

SOCIETÀ

Alla larga dalla didattica

Il caffè delle mamme ◆ Le ingerenze dei genitori nelle questioni di didattica scolastica non sono utili anzi a volte possono rivelarsi dannose Simona Ravizza

Nell’elenco di propositi per il Nuovo Anno Il caffè delle mamme pensa che da genitori ne dobbiamo inserire uno su tutti: «Teniamoci alla larga dalla didattica!». L’esigenza di riflettere sulla questione arriva più forte che mai dopo che a colazione compare sulla chat di classe il seguente Whats App: «Ciao a tutte, mi sono accorta che da un paio di settimane non vedo più compiti di matematica. Siete d’accordo se scriviamo all’insegnante di dare qualche esercizio?».

L’insegnante è il solo ad avere uno sguardo complessivo sulla classe. (Shutterstock)

Secondo Enrico Galliano i genitori di oggi vogliono essere protagonisti nella formazione dei propri figli I messaggi che seguono (per mio marito degni di un’opera surreale di Ionesco) fotografano due schieramenti. Il primo è quello delle mamme che, indefesse, amano sostituirsi ai prof dei propri figli: «Fare un paio di esercizi che impegnino anche solo  minuti non ritengo appesantisca i ragazzi». «Visto che in classe i ragazzi stanno lavorando a un video, io penso che qualche esercizio di matematica di compito non gli farebbe male». «Per me va bene chiedere di dare più compiti perché tanti dei nostri ragazzi non studiano a meno che non siano obbligati a farlo e se non hanno compiti non fanno nulla». «Mio figlio mi pare abbia un bel po’ di tempo libero, nonostante le varie attività extrascolastiche che ha giornalmente». Dunque, la categoria di chi crede di dovere istruire gli insegnanti su come portare avanti il programma scolastico è ben nutrita e spesso va a braccetto con le mamme che vogliono riempire fino all’orlo le giornate dei propri figli. Invece noi riunite al Caffè dopo avere accompagnato i bambini a scuola apparteniamo alla seconda categoria: tutte siamo convinte che sia meglio lasciar fare a ognuno il proprio mestiere senza intromissioni. «So che hanno compiti in classe di inglese e di

tedesco nei prossimi giorni, io aspetterei che li passino prima di chiedere di aggiungere altro, che dite?», scrive timidamente la prima. Io, che pur nei gruppi WhatsApp non intervengo mai, mi sento di darle man forte: «Io lascerei l’insegnante decidere liberamente quello che ritiene più opportuno senza intromettermi nella didattica». Seguono a ruota gli altri messaggi: «Personalmente mi fido dell’insegnante». «Io devo dire che trovo giusto aspettare le decisioni dell’insegnante di matematica. Hanno parecchio da studiare. Forse è stato anche il pensiero dell’insegnante. Mio figlio studia tutti i giorni parecchio». «Anche io sono sempre molto restia a interferire con le scelte didattiche degli insegnanti perché non essendo il mio lavoro mi affido a professionisti e ieri ho avuto anche modo di parlarne con mio figlio e confermo che hanno un programma ben definito, oltre che un carico di lavoro secondo me già adeguato». «A me sembra che abbiano già tanto da fare».

Ma, al di là delle singole opinioni, perché è importante tenere lontani i genitori da interferenze nel programma scolastico? Quel che emerge chiaramente dai WhatsApp è che ogni ragazzo reagisce diversamente ai carichi di lavoro: quel che per uno è poca cosa, può essere tanto per un altro, anche a seconda di come viene eseguito il compito a casa. I più diligenti studiano e approfondiscono, altri sono più approssimativi. Alcuni sono più dotati in una determinata materia, altri meno e hanno bisogno di più tempo per eseguire gli esercizi. Nessun genitore dal suo singolo osservatorio può avere una visione completa né del programma scolastico né di come la classe è in grado di portarlo avanti. Per essere convincenti chiamiamo a riflettere sull’argomento Enrico Galiano,  anni, insegnante di lettere, storia e geografia alle medie, considerato uno dei  prof migliori d’Italia dal sito Masterprof.it, scrittore, creatore della webserie Cose da prof con oltre venti milioni di vi-

sualizzazioni su Facebook e fondatore del movimento dei #poeteppisti, flashmob di studenti che imbrattano le città di poesie: «I genitori di oggi vogliono essere protagonisti nella formazione dei propri figli», ammette con «Azione» per poi sottolineare: «Ciò può andare bene in un rapporto a tu per tu con il professore in cui esprimere i dubbi e le perplessità sul suo apprendimento, ma non può trasformarsi in un’ingerenza di gruppo sullo svolgimento del programma. L’insegnante è il solo ad avere uno sguardo complessivo sulla classe, sul carico di compiti a casa da assegnare e in generale su aspetti che nulla c’entrano con il mestiere da genitore. Altrimenti, letta al contrario, è come se un prof dicesse alle mamme e ai papà quali scelte educative devono fare a casa e come devono comportarsi con i propri figli. Insomma, è anche una questione di fiducia nel ruolo dell’insegnante». Per Galiano il segreto è ascoltare i ragazzi: «Non ti ascoltano, se tu per primo non li ascolti». Ai ge-

nitori assegna un ruolo fondamentale di collaborazione per comprendere al meglio le abitudini, le inclinazioni e le passioni dei singoli ragazzi, così come per sapere se attraversano momenti difficili. Un compito, se eseguito bene, già abbastanza impegnativo e delicato. Da portare avanti – è bene ribadirlo – in un rapporto a tu per tu con il professore. Senza il bisogno di dargli suggerimenti su cosa deve fare. Le ingerenze, ci diciamo a Il Caffè delle mamme, sono inutili e dannose anche perché fanno entrare i ragazzi in un circuito schizofrenico dove saltano i ruoli. Creando solo confusione. Tempo qualche giorno, ed eccolo lì l’ennesimo messaggio malefico sulla chat: «Dovremmo vedere per i test della prossima settimana. Perché quattro mi sembrano esagerati! Matematica, arte, geografia e italiano». Risposta immediata delle altre mamme: «Corretto, non ci possono essere più di  compiti in classe a settimana. Segnaliamo!». Momento di sconforto.

Viale dei ciliegi Liz Hyder Boccadorso Giunti (Da 14 anni)

Quando cominci a leggerlo, resti stranito da quella scrittura arrancante, sgrammaticata. Ma già dopo un paio di pagine sei trascinato dentro, nella pulsante oscurità della miniera, e ne vieni fuori – dal romanzo e dalla miniera – solo alla fine, e quella scrittura straniante te la divori perché ti diventa familiare, ti avvolge come l’empatia che provi per Newt, la giovane voce narrante. Una voce, perché quella scrittura è più un linguaggio parlato che scritto, e dire solo che è sgrammaticata non rende l’idea, perché è proprio il suo essere «sbagliata» (grezza, ruvida, primitiva, senza la fluidità della correttezza linguistica) che la rende potente. E questo è davvero un romanzo potente, che non a caso ha avuto riconoscimenti prestigiosissimi (tra cui miglior libro del  per «The Times»; tra i migliori libri  per «The Financial Times»). Un romanzo di formazione, certo, perché Newt è entrato in miniera a quattro anni senza più uscirne, come

di Letizia Bolzani

tutti gli altri, uomini e bambini, e piano piano scopre il proprio linguaggio (anche letteralmente, in quanto analfabeta) e la propria identità. Ma è anche un romanzo di riscatto dallo sfruttamento, un’avventura profondamente etica di coraggio, di speranza e di amicizia, un percorso verso la libertà. Ed è una storia, potremmo dire, sulla ricerca della luce: quella letterale, fuggendo da quelle tenebre soffocanti, e quella simbolica, nell’interrogarsi su una dimensione spirituale che ci trascenda. E allora Dio, il Signore (anzi «il Sinniore») non può essere in quella sta-

tua che gli spietati oppressori obbligano a venerare durante le funzioni, per tenere gli schiavi incatenati alla paura del castigo divino e alla rassegnata sottomissione allo stato delle cose, ma è Altrove, nella luce interiore che risplende dentro i protagonisti. Non in tutti però risplende, il Male esiste, così come il Buio, e come la morte. Ma la speranza – come ci mostrano le ricorrenti immagini di candele e fiammelle, nei momenti più drammatici della storia – tiene accesa la luce, nei cuori di coloro che la accolgono. Una storia intensa, il primo romanzo ad essere pubblicato dell’autrice inglese Liz Hyder, nato dopo una visita a una miniera di ardesia del Galles. Un plauso va naturalmente anche al difficile e ottimo lavoro del traduttore Marco Astolfi. Luigi Ballerini-Paolo Domeniconi Fuori freddo Il Castoro (Da 4 anni)

Il tempo di un battito d’ali, quelle dell’uccello nei risguardi, che vola, nero, tra il bianco dei fiocchi di neve,

entra nel libro nei risguardi iniziali, esce in quelli di chiusura: il tempo di un battito d’ali, o di poco più, qualche ora di una giornata d’inverno. Un tempo fugace, effimero come un pupazzo di neve, ma che può racchiudere scintille di infinito, perché illuminato dall’amore di una mamma, creativo, giocoso, gratuito come dev’essere un amore. Una mamma che per il suo bambino costretto in casa dalla febbre si inventa di portargli la neve dentro – uscendo in strada con un piatto su cui raccogliere i fiocchi che scendono dal cielo – e

con quella neve sul piatto (vero cibo – dal cielo – per l’anima), messo poi in casa sul tavolo, costruire un pupazzetto. E l’ultima immagine racchiude suggestivamente i quattro personaggi di questa storia, la mamma e il bambino in primis, nel loro abbraccio in primo piano, ma anche il pupazzo di neve e l’uccellino nero, un merlo, sul davanzale. Due creature umane di questo mondo e due piccoli emissari di un Altrove, la creatura alata e l’omino freddo, che però tramuta questo freddo in qualcosa di caldo come l’amore. Il freddo può essere brutto (soprattutto quando è il «freddo dentro» del bimbo febbricitante che si sente solo e non può uscire) ma anche molto bello, così come il caldo, a dipendenza se è quello della febbre o dell’abbraccio della mamma. Le illustrazioni di Paolo Domeniconi sono incantevoli, e nei caldi e freddi cromatici ben esprimono tutto questo; e Luigi Ballerini riesce a dire tante cose profonde con le sue frasi brevissime, incisive, ritmate. Anche l’ansia per il distacco e la gioia del ritrovarsi.


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SOCIETÀ

Chi ha paura della digitalizzazione? Incontri

A colloquio con Paolo Costa, esperto che coniuga le tecnologie con le scienze umane

Simona Sala

Non a tutti la digitalizzazione piace. Forse perché non la si capisce fino in fondo e dunque le implicazioni del suo avvento sul lungo termine ci appaiono imponderabili. Ma vi è anche chi ne è affascinato, riconoscendone l’indispensabile opportunità, e chi desidera capirla, al fine di stimolare un’interazione umano-macchina sempre più proficua. Ne abbiamo parlato con Paolo Costa, docente universitario, amante di arte e letteratura, appassionato di tecnologia e fondatore di società di consulenza e di startup in ambito tecnologico che collaborano con il Dipartimento di Nuove tecnologie della SUPSI di Manno. Paolo Costa, parliamo dell’inarrestabile potenziamento della digitalizzazione in ogni ambito… ormai è coinvolto anche il mondo dell’arte. Chi non capisce rimarrà indietro? Credo sia doverosa una premessa… Neppure io capisco (scoppia a ridere), e forse ciò che rende questo processo affascinante è che è ancora tutto da capire. Spesso si approfitta della scarsa competenza della maggior parte dell’opinione pubblica per pretendere di spiegare come va il mondo del digitale, ma secondo me, in un’ottica di etica della comunicazione, bisognerebbe ammettere che non si sa come andrà a finire. Sarebbe giusto dire «staremo a vedere», e questo in fondo rende tutto meno noioso. In attesa di risposte si può tentare qualche ragionamento, ma soprattutto occorre farsi le domande giuste. Il discorso della tecnologia non dovrebbe essere lasciato in mano solo ai tecnologi, ma, al contrario, richiede un approccio umanistico. E ciò vale ancora di più quando ci occupiamo di intelligenza artificiale, fenomeno le cui implicazioni sulla vita sociale e su una dimensione estetica ed etica della nostra esistenza sono sotto gli occhi di tutti. Volendo parafrasare il famoso detto secondo cui il sonno della ragione genera dei mostri, potremmo affermare che il sonno della ragione umanistica genera mostri tecnologici. La ragione umanistica ha dormito a sufficienza e sarebbe bene che si svegliasse e cominciasse a occuparsi di certe cose, affinché non restino in mano ai tecnologi. Lei come guarda alla digitalizzazione? In ambito digitale vedo due movimenti che si manifestano in parallelo. Il primo movimento lo definirei riduzionistico, poiché si tratta del digitale che cerca di spiegare il mondo riducendone la complessità: i fenomeni complessi (le nostre vite, le nostre biografie) diventano set di dati. Questa è la «datizzazione del mondo», così come declinata dalle grandi piattaforme come Facebook e Google, che utilizzano sistemi di intelligenza artificiale, quindi, tecniche di classificazione basate su algoritmi più o meno complessi di machine learning che permettono di riconoscere le immagini, filtrare i contenuti, eccetera. Il mondo intero viene fagocitato da modelli di apprendimento automatico che necessitano di una prospettiva semplificata. Per quanto noi ci ostiniamo a chiamarla «intelligenza artificiale», questa non è né intelligente né tantomeno artificiale. Soprattutto non è intelligente, poiché non è in grado di recepire la complessità della vita, e

quindi per potere reagire ha bisogno della riduzione della complessità: solo così potrà classificare il me-utente, associarmi a un certo cluster e propormi determinati contenuti. La semplificazione porta però a una perdita di informazioni… e se fosse importante proprio quello che si perde? Vi è poi un secondo movimento, che non saprei bene come definire. Credo che esso rappresenti un percorso in cui la tecnologia, l’arte e i tentativi di descrivere il mondo finiscano per incontrarsi, senza contraddizione. Uno può chiedersi cosa c’entrino i modelli matematici o gli algoritmi di machine learning con l’arte, ma l’intelligenza artificiale pensa un mondo e dobbiamo chiederci quanto esso sia distante dalle espressioni della sensibilità artistica. Il digitale rappresenta dunque l’occasione per estendere le nostre possibilità espressive, mescolando immagini, parole, e suoni. A questo proposito prendiamo l’esempio delle scritture brevi ed estese, sempre più presenti su diverse piattaforme: milioni di persone trovano possibilità espressive che si traducono in manifestazioni in cui noi non riconosciamo più i tradizionali generi letterari. Lo stesso discorso vale per la crypto art: oltre alla speculazione vi sono anche espressioni di arte digitale di qualità e valore che possono trovare sbocco proprio nel circuito degli NFT (Non-Fungible Token, certificati di proprietà digitali creati su piattaforme blockchain). Poiché nell’arte vi sono degli attori che controllano i flussi e governano gli scambi, la crypto art permette la circolazione di opere interessanti di giovani artisti che altrimenti non conosceremmo. Ma come si riconoscono valore e creatività? Occorre fare uno sforzo di conoscenza. Siamo agli inizi di questo percorso che ci porta a identificare i tratti di nuove forme espressive e a capire quando queste si manifestino a un livello alto. Noi abbiamo una sorta di grammatica che oggi ci consente di dire chi è stato davvero grande in passato. Ora siamo alla ricerca di una grammatica nuova che ci aiuti a valutare nuove forme espressive e a riconoscerne la maggiore o minore qualità. Non è la prima volta che siamo alle prese con delle fratture simili nel campo dell’arte. Pensiamo a cosa ha prodotto l’avvento di media come la fotografia e il cinema… la reazione di Charles Baudelaire contro la fotografia e in difesa dell’arte tradizionale, della vera arte, fu molto veemente. La rapidità della fotografia (anche se ci volevano sei ore di esposizione!) destava sospetto. Qualche decennio più tardi Benjamin, che della fotografia era innamorato, rilesse gli scritti di Baudelaire sulla fotografia. Quindi, se Benjamin dice che l’aura è morta, allo stesso tempo dice che non è la fine del mondo. Sta a noi capire le nuove forme d’arte che nasceranno con i nuovi strumenti e le nuove tecnologie. Chi si occupa di cercare di capire la direzione in cui stiamo andando? Gli attori che se ne occupano sono diversi, penso a un filosofo come Pietro Montani, o a Lev Manovich, che da  anni esplora i caratteri della cultura digitale, o ancora Kenneth Goldsmith, che in qualche modo espande i generi letterari tradizionali. Quando parliamo di arte, infatti, parliamo anche di letteratu-

La chiamiamo «intelligenza artificiale» ma non è in grado di recepire la complessità della vita. (Shutterstock) Nella foto sotto: Paolo Costa.

ra, e non a caso Benjamin studiava anche la fine del romanzo. Anzi, fu addirittura fra coloro che ne conclamarono la morte, forse in questo caso un po’ frettolosamente… Il romanzo tradizionale forse è andato in crisi, ma mentre si consuma questa crisi, in rete si manifestano nuove forme di scrittura. Prima alludevo all’esperienza del social reading, uno dei fenomeni di cui mi occupo nei miei libri. Ovviamente c’è sempre di mezzo la tecnologia, ma essa è una manifestazione pratica e concreta. Dietro la tecnologia c’è la tecnica, che non è la stessa cosa: è un modo di conoscere il mondo e di stare nel mondo, e qui ci soccorre Martin Heidegger, che quando parla di tecnica, la identifica con la poiesis degli antichi greci, ossia la non presenza che diventa presenza. Poiesis è ciò che si deve fare per disvelare ciò che è nascosto, la tecnica dunque è un modo di svelare il mondo, prenderlo e renderlo conoscibile. In fondo è una forma di conoscenza.

Ma questa accezione di tecnica è da intendersi come valore universale? No, essa è tipicamente occidentale e deriva da una certa evoluzione del mito di Prometeo, così come esso è andato strutturandosi con Eschilo nel Prometeo incatenato. Cosa ci dice Eschilo? Che Prometeo ha donato ai mortali tutte le tecniche, che sono un nuovo modo di vedere il mondo. Prometeo dice, nella tragedia di Eschilo, che gli immortali non sono esseri sensibili, che vedono senza vedere, odono senza intendere. Potremmo discutere all’infinito sul modo migliore di tradurre la parola technae, potremmo dire «tecniche e arti», poiché per gli antichi greci i due ambiti non erano distinguibili. Nella visione cosmologica che ereditiamo dal mondo greco, all’origi-

ne di tutto c’è un furto per il quale Prometeo sarà punito. Vi è dunque la presunzione di noi mortali di impossessarci di prerogative che non ci appartengono. La visione cinese è molto più serena da questo punto di vista, perché secondo essa la tecnica è un dono che tre divinità fanno all’umanità mettendosi d’accordo; dunque, non c’è né senso di colpa né il rischio di una vendetta. In un bellissimo studio intitolato Cosmotechnics e tradotto anche in italiano lo scorso anno, Yuk Hui, filosofo cinese, si occupa del confronto tra la visione cosmologica tecnica occidentale e quella orientale. Dunque, se è inteso come un dono non ci si deve chinare sulle questioni etiche? Ma cosa succede con gli aspetti etico-morali? Questa è una questione interessante di cui proprio Yuk Hui si occupa. Ormai la Cina è diventata una potenza tecnologica, al pari del grande competitor americano, e davanti a un’Europa che arranca. Ma quali sono le premesse filosofiche che possono portarla a fare delle riflessioni anche di carattere etico? Secondo Hui questo è un momento importante per la Cina, che in qualche modo sembra avere abdicato a una propria chiave di lettura, affrontando il problema della tecnica con gli stessi strumenti e la stessa prospettiva dell’Occidente, con il rischio di infilarsi nello stesso vicolo cieco. Secondo Hui la Cina ha forse un’opportunità in più, ma a condizione che si costruisca una sua cosmotecnica, e per «cosmotecnica» egli intende proprio una visione della tecnica nel mondo, e del suo ruolo nel mondo. Oggi la Cina si è impossessata di strumenti tecnologici spaventosi e spaventosamente potenti, ma manca di una cornice concettuale perché non riesce a usare quella occidentale. Qual è la reazione naturale davanti alla tecnica? Ogni volta che noi ci dobbiamo confrontare con la tecnica, essa crea disagio, e qui cito Freud. Il disagio nasce dalla sensazione di avere a che fare con qualcosa che ci appartiene, ma che allo stesso tempo è staccato dal nostro corpo, dalla nostra biologia; è come se fosse una sorta di protesi. Quando dicevo che l’intelligenza artificiale oltre a non essere intelligente non è neppure artificiale, intendevo dire che non è artificiale nel senso che è il prodotto della nostra cultura, quindi, non dovremmo viverla come un corpo estraneo. Pensiamo a una banalissima gior-

nata e a tutte le volte che utilizziamo l’intelligenza artificiale: andiamo in macchina e avviamo il navigatore, facciamo una ricerca su Google, comunichiamo con dei dispositivi vocali come Alexa o Siri, ci affidiamo alle banche che tramite IA stabiliscono il tasso ipotecario. In ogni ambito siamo supportati da algoritmi di cui non abbiamo la più pallida idea di come funzionino. Diventiamo cioè familiari con qualcosa che continua a esserci estraneo, perciò la necessità non è tanto quella di salvarci o difenderci dall’intelligenza artificiale, quanto più di curare la relazione tra la strana coppia essere umano-algoritmo. Ma chi dovrebbe farsene carico? Noi utenti dobbiamo aumentare il livello di consapevolezza. E in questo senso il ruolo della scuola è fondamentale: quando si parla di cultura digitale, bisogna andare oltre alla formattazione di un testo Word. Lei fra le sue attività traduce in pratica i concetti fin qui esposti… Abbiamo ad esempio creato Ublique, una piattaforma di decision intelligence che integra una serie di modelli matematici, di tecniche di analisi predittiva e di sistemi di simulazione che permettono di supportare i manager nelle loro decisioni, aiutandoli a identificare di volta in volta le opzioni più opportune attraverso un’analisi dei dati. Il nostro prodotto analizza i dati e fornisce modelli decisionali. Quando siamo passati alla fase della comunicazione, invece di raccontare le caratteristiche dei prodotti sul solito sito web, abbiamo deciso di unire intelligenza artificiale e arte. Qual è il suo rapporto con l’arte? Non sono un artista, anche se ho avuto i miei innamoramenti. Quando a vent’anni andai per la prima volta negli Stati Uniti, vi rimasi un paio di mesi trascorrendo giornate intere nelle grandi gallerie di New York, Washington, LA, eccetera. Scoprii l’arte informale americana, artisti come Willem de Kooning. Ritornato a Milano, con l’ingenuità dei miei vent’anni e davanti agli occhi esterrefatti di mia madre montai una gigantesca tela e nel soggiorno di casa dipinsi – a colori acrilici e brillantissimi – la facciata della chiesa di Santo Stefano di Milano. Mia madre mi diede un ultimatum: o io o la tela! Sono un grande appassionato di letteratura, infatti sono laureato in filologia romanza e in letteratura moderna con indirizzo filologico linguistico.


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Il ruggito della Tigre Mondoanimale

Le ultime tigri possono salvarsi se combattiamo bracconaggio e deforestazione

Maria Grazia Buletti

Il  è l’anno della Tigre. Così è nel calendario cinese in cui a ogni anno corrisponde uno dei dodici segni animali, sebbene in Asia questo maestoso felino abbia sempre occupato il trono del regno animale. Conosciuta pure come regina della giungla, la tigre ha davanti a sé un futuro però incerto. Perentorio è l’allarme del WWF che punta il dito sulla distruzione delle foreste e sul bracconaggio: «I problemi ambientali sono in aumento in tutto il mondo; parallelamente continua anche la distruzione delle foreste e l’esempio della tigre è drammaticamente significativo perché ad oggi è stato annientato il  per cento dei suoi habitat originali».

Dei 100mila esemplari stimati a inizio del Novecento oggi ne restano tra 3000 e 4000, un’enorme perdita È appurato che il rischio di estinzione di questo felino risiede in molteplici motivi che vengono illustrati senza mezzi termini: «La deforestazione è perpetrata al fine di produrre carta e olio di palma, mentre la pelliccia e le ossa delle tigri sono oggetto di un commercio illegale che fa del bracconaggio un’attività estremamente redditizia». Sono impressionanti i numeri più volte portati a suffragio di

questo dramma: «Nel giro di un secolo il numero delle tigri viventi allo stato libero si è ridotto del  per cento: non restano che  esemplari di questa specie, e vanno assolutamente protetti!». Bisogna ricordare che la tigre è il più grande felino vivente, può raggiungere anche i quattro metri di lunghezza, coda compresa, e ha un peso variabile dai  chili nei maschi della tigre di Sumatra, ai  della tigre siberiana, mentre le femmine sono più piccole. Possiamo trovare questo felino in una grande varietà di habitat: «Nei bacini di drenaggio di fiumi e laghi, nelle foreste montane, nei boschetti erbosi, nelle foreste miste di pioppi e querce, nelle pianure alluvionali e nelle foreste tropicali». Qualche curiosità è evidenziata da alcuni studi di tracciamento radio che hanno appurato come le abitudini della tigre siano principalmente crepuscolari e notturne; essa può consumare fino a  chili di carne per ogni singolo pasto. Desta altrettanto interesse anche il momento della creazione, della nascita, che nel caso delle tigri mostra peculiarità atipiche, in quanto la femmina può partorire durante tutto l’anno nelle aree tropicali, mentre in quelle temperate partorisce solo a primavera. Non ci sono dubbi sul fatto che la tigre sia sinonimo di potenza e agilità: «Cattura e uccide le sue prede con

La tigre siberiana. (www.pixnio. com) Sotto: Una tigre di Sumatra. (www.pxhere. com)

un colpo solo e si situa all’apice della catena alimentare». Ciò significa e dimostra che non è minacciata da nessun’altra specie tranne che da quella umana. Sempre secondo le statistiche si è passati dai centomila esemplari di tigri nell’inizio del Novecento a circa tremila nel : una riduzione che preoccupa parecchio la comunità scientifica, considerando che l’unica

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causa della sua estinzione siamo per l’appunto noi umani. Inoltre, dal  al  si sono già estinte tre sottospecie: la tigre di Bali, di Java e del Caspio. «Le tigri vengono cacciate per sport, perché possono aggredire il bestiame domestico o per superstizione», spiega il WWF che racconta come secondo alcune culture le loro ossa tritate renderebbero l’uomo più forte, gli organi genitali aumenterebbero la virilità e gli occhi (sempre della povera e inconsapevole tigre) curerebbero malattie della vista. Senza dimenticare che la pelliccia dell’animale è considerata un bene di lusso e i suoi cuccioli sono venduti come animali da compagnia (ndr: ricordiamo a questo proposito, oltre all’opinabilità individuale, che la legislazione elvetica regola in modo perentorio la detenzione di animali selvatici esotici, dei quali è possibile occuparsi solo e soltanto previa autorizzazione). Per sottolineare la drammatica situazione, e accendere i riflettori sulla richiesta di aiuto che ha lo scopo di sensibilizzare la popolazione e infine recuperare questa specie, il  luglio dello scorso anno era già stata indetta la «Giornata mondiale della Tigre». In quel frangente era pure stato presentato il progetto del WWF con l’ambizione di «raddoppiare gli esemplari di tigri selvatiche entro il ». In realtà, l’impegno per la conservazione delle tigri è iniziato parecchi decenni fa con l’«Operazione Tigre» del : la prima campagna in assoluto di WWF per la difesa di una specie. Il progetto «Tigre in In-

dia» ebbe un importante successo in quanto diede il via a un piano nazionale di conservazione durante sei anni e l’istituzione di quindici nuove riserve che portarono all’aumento del  per cento della popolazione. Tuttavia, questi sforzi non furono in grado di invertire la rotta e le tigri hanno continuato ad essere una delle specie più minacciate. Perciò, nel  i Governi dei tredici Paesi che ospitano tigri si sono adoperati per celebrare il primo Summit mondiale sulla tigre: un importante convegno nel quale si è deciso di portare avanti un piano per la loro conservazione. Oggi, i promotori del Progetto TX lo definiscono «un impegno globale per raddoppiare le tigri selvatiche nel mondo entro il , l’anno cinese della tigre». Un intento molto ambizioso che innesca uno slancio politico ai massimi livelli votato a garantire il futuro della specie. A tal proposito un barlume di speranza viene dalle statistiche dello scorso anno che mostrano come la tendenza di declino sia stata lievemente invertita. Ma anche su questo il WWF mette in guardia: «Si tratta di una tendenza positiva di breve periodo, molto fragile e non uniforme in tutti i paesi». C’è dunque ancora molto da fare perché le tigri siano al sicuro e bisogna accelerare gli sforzi in vista del tanto atteso secondo Tiger Summit a Vladivostok nel settembre , anno della Tigre nell’oroscopo cinese, come detto. A questo punto, possiamo solo auspicare porti fortuna in primo luogo alla tigre stessa.


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Anno LXXXV 24 gennaio 2022

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SOCIETÀ / RUBRICHE

L’altropologo

di Cesare Poppi

Minoranze e mignoranze ◆

L’Altropologo si era ripromesso di non parlarne mai. Si sarebbe cucito piuttosto la bocca per nascondersi in un mutismo sdegnoso pur di non essere trascinato a battersi in quell’arena del tutti contro tutti nella quale – almeno al di qua dello spartiacque – sembra non esista ormai altra regola del gioco che non sia darsele di santa ragione, laddove la prima vittima sembra essere, appunto, la ratio ovvero la Ragione di Rousseau. E invece ahimè, mano sulla coscienza, gli tocca. Da scolaro non proprio modello ma nemmeno dei peggiori ricordo le giornate di vaccinazione come eventi speciali. Si annusava nell’aria: l’arrivo a scuola del team di infermiere, le classi riunite e riorganizzate – maschi da una parte, femmine dall’altra (per una volta non si sarebbe litigato) – i carrelli coi contenitori delle si-

ringhe sterilizzate (allora erano come bomboloni da gas), qualche singhiozzo preventivo da parte dei più codardi – subito zittiti dagli stessi compagni pena l’inevitabile gogna e poi avanti senza paura. E sì che gli aghi di allora erano pali della luce. Prevaleva però in tutti la fiducia nelle parole solenni della Maestra che così nessuno sarebbe stato sciancato dalla poliomielite come il Toni o costretto a passare le estati in sanatorio col «mal sottile» (il solo nome, ricordo, non mi faceva dormire di notte) come l’Adele che ricordo ancora confinata nel banco là in fondo fino a quando, un certo ottobre, non tornò più a scuola. E la Maestra allora ci raccontava di Pasteur e Madame Curie – e poi anche, per contro, della Peste e degli Untori, degli Ebrei ingiustamente accusati di diffondere il morbo… E chi di noi, col magone, ad occhi spalancati, non

La stanza del dialogo

sognava allora che sarebbe diventato un medico, un ricercatore… foss’anche per quanto bastasse a scoprire una pillola che permettesse al Toni di venire a giocare a pallone? Ricordo che il giorno che mi tolsero le tonsille – a tradimento perché quella sì che senza anestesia non era una passeggiata – e cominciarono a farmi mangiare gelati a go-go per aiutare, credo, il processo di cicatrizzazione: mia madre mi esortò a non piangere perché così non mi sarei mai ammalato di un morbo mortale. E io che pensavo che se invece avessi pianto mi sarei mortalmente ammalato stoicamente divorai un gelato dietro l’altro anche se faceva un male boia. Insomma, ci si fidava. Si sopportava perché – ci dicevano quando i Missionari ci chiedevano di rinunciare ad un soldino per far vaccinare anche i bambini in Africa – un giorno la poliomielite e la tubercolo-

si sarebbero state sconfitte, finite. Insomma: ci si credeva. Poi è difficile capire cosa sia successo. E qui un’archeologia del sapere collettivo aiuti lo sguardo altropologico. Nel  quel personaggio controverso che fu Ivan Illich col suo Nemesi Medica catalizzava la sempiterna diffidenza nei confronti del sapere medico che è l’universale, bertoldesco medice, cura te ipse per sdoganare poi a livello dell’industria culturale paramedica ogni sorta di alternativa alla medicina «ufficiale» (oggi diventata agli occhi di alcuni medicina di regime) coniugata con l’altrettanto variegato sistema di credenze che fiorisce oggi nell’interfaccia fra «psiche» e «soma» (il corpo), spazio culturale e immaginario nel quale ciascuno si sente intitolato per inalienabile diritto individuale a mettere dentro quel che (crede) di aver compreso. Strana e

paradossale vicenda storica – quella sì una nemesi – quella dei «diritti». Da che storicamente nacquero per definizione sociali ed universali proprio in quanto sociali – i Nostri diritti – diventano oggi individuali nel senso di «privati» anche all’interesse generale: i Miei diritti di pensarla come voglio. O tendono comunque a farlo. Fra una scienza medica (ancora? Per ragioni di ordine pubblico? Per incompetenza o malafede politica?) trincerata dietro un’anacronistica «verità assoluta» (quella medica è un’arte ancora più in/non-finita della matematica) e le autoproclamatesi «minoranze» che si appellano al diritto di non contribuire a quello che è intrinsecamente provvisorio, falsificabile, perfettibile, ma sempre e comunque, il meglio possibile, scorgo oggi ancora dai banchi là in fondo lo sguardo acquoso del Toni e le occhiaie profonde di Adele.

di Silvia Vegetti Finzi

Non chiamiamoli «Generazione Covid» ◆

Cara Silvia, vorrei tanto che lei, che studia da anni l’adolescenza, spezzasse una lancia a favore di questi poveri ragazzi e ragazze, la «Generazione Covid», che crescono deprivati delle esperienze più importanti per la loro età: frequentare i coetanei, condividere nuove emozioni, conoscere persone estranee, scambiarsi confidenze, innamorarsi, viaggiare, intrattenere scambi culturali con l’estero e così via. Il loro mondo si è ristretto a casa e scuola ma non sono più bambini e non so se potranno recuperare il tempo perduto. Quando confronto come crescono i miei figli con la vita che, alla loro età facevamo io e i miei fratelli, mi cadono le braccia. La scuola era il centro della nostra vita, ora è diventata un’appendice, non perché sostituita da un altro centro, ma perché siamo tutti spaesati. Si dice «dopo questa pandemia nulla sarà più come prima», temo che si tratti del peggio, non del me-

glio. Ma, come lei insegna, non bisogna mai perdere la speranza. Grazie delle sue riflessioni su cui spesso riflettiamo in famiglia. Buon Anno a lei e a tutti gli inquilini della «Stanza del dialogo». Anna Pia Effettivamente la speranza è «l’ultima Dea» e non ci deve mai abbandonare. Ma, se vogliamo aiutare questi ragazzi e ragazze, non dobbiamo compiangerli troppo. Non chiamiamoli «poveri» e tanto meno «Generazione Covid», una denominazione che li fissa, come sostiene Massimo Recalcati, nella posizione passiva della vittima. È vero che la pandemia ha aggravato le loro difficoltà provocando nuove forme di malessere, come insonnia, inappetenza, fobie e stati d’ansia ma, senza identificarli con le loro ferite, cerchiamo di valutare le loro risorse, le potenzialità dell’età. L’etica della Psicoanalisi inse-

Mode e modi

gna che il soggetto è sempre responsabile. Non di quello che gli accade – la diffusione della pandemia non dipende dai ragazzi – ma di ciò che facciamo di quanto ci accade. La storia insegna che al mondo vi sono stati periodi peggiori di questo e che anche oggi, basta leggere i giornali o ascoltare i notiziari, per renderci conto che, comunque vada, siamo dei privilegiati. Inoltre, nel secolo scorso, le persecuzioni hanno provocato milioni di vittime ma non tutte hanno reagito allo stesso modo. Vi è stato chi, come la senatrice a vita, l’italiana Liliana Segre, ha trasformato il dolore in responsabilità, solidarietà, impegno politico e altre, come il direttore d’orchestra Daniel Oren, in creatività artistica. Importante in questi frangenti il compito della famiglia e della scuola che possono, attraverso l’educazione, ren-

dere formative anche le esperienze più dolorose. In questo periodo i ragazzi hanno avuto difficoltà a ritrovarsi. L’invito al distanziamento, all’isolamento ha favorito la tentazione dei più fragili e sensibili di evitare la competizione e i conflitti chiudendosi in se stessi. Ma in questo modo non hanno potuto fruire, come lei osserva, dell’interazione, del rispecchiamento reciproco, indispensabili per delineare la propria identità. Anche l’incontro tra ragazzi e ragazze è stato ostacolato dalle mascherine e dalla chiusura dei tradizionali luoghi d’incontro: la discoteca, le mense scolastiche, i bar, le palestre. Pochi si sono messi in coppia, tanti si sono lasciati, molti non hanno ancora avuto un approccio con l’altro sesso. Le statistiche segnalano il calo progressivo dei matrimoni ma il problema è a monte e dovremmo aiutare gli adolescenti e le adolescenti ad af-

frontarlo senza rinviarlo a data da destinarsi perché ogni esperienza ha il suo periodo critico. Le difficoltà, se riconosciute, aiutano a riflettere, a trasformare l’Io narcisistico dell’infanzia nel Noi della maturità. È evidente che da questa catastrofe non ci si salva da soli: un problema di tutti richiede l’impegno di tutti. Quando diciamo «Dopo questa emergenza nulla sarà più come prima» non formuliamo una constatazione ma un augurio. Non è automatico, come lei sostiene, uscirne migliori o peggiori, dipende da noi. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

di Luciana Caglio

L’altrove: tentazione necessaria ◆

Fece scalpore, suscitando risentimenti e indignazione, il titolo del saggio del sociologo francese Jean-Didier Urbain L’idiot du voyage, pubblicato nel : tanto che l’autore si vide costretto a chiarire l’equivoco. Precisando che, se oggi, nel linguaggio comune, è sinomino di scemo, «idiotes» in greco antico definisce un ingenuo e, in latino, un tipo singolare. Divagazioni linguistiche a parte, Urbain intendeva lanciare un allarme nei confronti del turismo di massa che stava trasformando una conquista sociale, viaggi e vacanze accessibili a tutti, in un fenomeno di massa, che aveva creato un nuovo consumatore vittima. Qual è il turista manipolato da un’industria che produce servizi di bassa qualità: itinerari standard, soggiorni in resort pseudovillaggio, e niente contatti con la realtà autentica di un paese esotico. Ora, a questo turista umiliato, che spende male soldi e tempo libero, Urbain intendeva aprire gli occhi per promuoverlo a viaggiato-

re, vocabolo qualificante. Si riallaccia alla tradizione che, spettava ai rampolli della nobiltà inglese, ancora nel XIX secolo: era il «grand tour», itinerario sulle tracce delle antichità classiche. Mentre, a mobilitare i giovani tedeschi fu soprattutto l’archeologia: leggendaria la figura di Schliemann, che identificò i resti di Troia. Ma con quale esito il discusso sociologo francese è riuscito a far passare il suo messaggio, modificando le scelte dei turisti promossi a viaggiatori attenti, in grado di penetrare negli «interstizi» delle città e dei paesaggi visitati? In effetti, qualcosa si è mosso. Urbain, del resto, ha trovato compagni di strada fra i colleghi, come Duccio Canestrini, autore di Andare a quel paese, vademecum del turista responsabile, sottinteso nei confronti dell’ambiente: siamo nel  e l’ondata ecologista preme sulle coscienze e sulle abitudini. Va di moda la bicicletta, non soltanto a uso sportivo, ma mezzo di trasporto per affrontare distanze con-

tinentali. In Ticino, c’è un precursore: Werner Kropik, viennese d’origine e luganese d’adozione: nella primavera del  si congeda da un gruppo di amici (ed ero fra quelli) riuniti in via Pessina, inforca la bicicletta, munita di un piccolo bagaglio. E parte per una passeggiata insolita: destinazione l’est Europa, la Turchia e l’Estremo Oriente. Attraverso lettere, scritte a mano, che ribatto a macchina per il «Corriere del Ticino», Werner ci fa partecipi di un’avventura straordinaria, raccontata senz’enfasi, com’era nel suo stile e com’è rimasto, lungo una carriera di viaggiatore autentico: che va oltre le apparenze del folclore per scovare valori umani, sofferenze, soprusi, speranze. Ne ha ricavato un materiale prezioso, consegnato a fotografie, diapositive, filmati: «Più di ’ pezzi che sono diventati materiale di studio e in pari tempo di lavoro». Kropick, già orafo estroso, è regista e commentatore di documentari apprezzati dal pubblico ticinese. Come spiega que-

sto successo? «Conferma il bisogno di emozioni collegate proprio con l’altrove, luogo che racchiude le incognite della diversità. Per noi occidentali, si identifica con l’Oriente». Una passione culturale e affettiva diffusa, di cui si hanno spesso testimonianze letterarie. Recente quella di Marco Horat che in Amici (Edizioni Ulivo) racconta l’incontro di due anziani, uniti da un legame che intreccia amore per la natura e spiritualità orientale. Questione d’età e questione di prudenza sanitaria, Werner ha rinunciato agli spostamenti lontani, su mezzi sovraffollati, per concentrarsi sull’ambiente quotidiano, in un Ticino da considerare territorio di scoperte, a volte persino macabre, in grado di rivelare analogie insospettate, con il Tibet per esempio. Ha imparato a muoversi nella «Wilderness», movimento scientifico che gestisce zone protette. Senza diventarne un adepto rigoroso, figurarsi. Tuttavia, il rischio di subire i condizionamenti del mo-

mento è sempre dietro l’angolo. Persino Urbain, in nome di un frainteso ambientalismo, propone la sua ricetta di vita: ha lasciato Parigi, si è comprato una villa-fattoria dando un addio ai viaggi, ormai fuori moda: «idioti» quelli che partono. Con ciò, rimandando le partenze verso lidi lontani, il fascino dell’altrove resiste e anzi dà adito a derive. Infatti, dato che del mare noi svizzeri abbiamo un inguaribile nostalgia (è nel nostro DNA, come disse Parmelin), c’è chi ha pensato di ricrearlo, in formato casalingo. È nata così la Lugano Marittima, alla foce del Cassarate, che a quanto pare funziona, a parte eccessi notturni. Ma il progetto, accarezzato da Alessio Petralli, linguista in veste di urbanista, va ben oltre: il quai, ormai invecchiato, sarà sostituito da una distesa di sabbia dorata. Una Croisette nostrana, destinata ai cultori dei piaceri mediterranei, sole, brezza (da noi si chiama breva). Insomma, c’è tutto. Salvo l’altrove.


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TEMPO LIBERO

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Specialità vegetariana A base di polenta, erbe, uova e formaggio, è un piatto saporito come contorno o anche come portata principale

La memoria di Sefaràd Un viaggio a ritroso nella Spagna di cinquecento anni or sono quando ebrei e cristiani convivevano

Videogiochi Halo Infinite è il nuovo interessante capitolo della fortunata serie sparatutto che racconta le avventure di Master Chief

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Sciando alla cieca

Altri campioni ◆ La ticinese pluricampionessa svizzera e monitrice di sci Judith Wegmann racconta la sua esperienza di sportiva «non vedente» Davide Bogiani

Casco e pantaloni verdi, giacca blu e giubbotto arancio per ciechi. Sono questi i colori che sulla neve contraddistinguono Judith Wegmann, campionessa svizzera di sci in slalom speciale, gigante e super-G. L’abbiamo recentemente incontrata sui pendii del Gemsstock, ad Andermatt, durante uno dei suoi allenamenti. Oggi Judith ha scelto di sciare davanti alla sua guida, facendosi accompagnare con la radiolina e indossando le cuffiette. «Questa è la tecnica che preferisco e che mi stanca relativamente poco – ci dice Judith». Non è invece la stessa cosa per la guida, la quale infatti oltre a rimanere concentrata sulla propria sciata per tenere una distanza costante con la sciatrice cieca, deve continuamente focalizzare l’attenzione sulla pista davanti a quest’ultima, per leggere al meglio il terreno, prevedere eventuali pericoli, e adattare quindi costantemente i comandi in base alla situazione. Non da ultimo, la guida funge da scudo dagli altri sciatori che sopraggiungono da dietro. A volte è invece la guida che scia davanti, indossando un altoparlante come uno zaino. Lo sciatore cieco segue la guida prestando attenzione ai comandi. In questo caso si tratta di un accompagnamento meno preciso rispetto al primo descritto. «Il grosso vantaggio – aggiunge ridendo Judith – è che quando ci sentono arrivare, in molti si fermano incuriositi a guardarci. E la pista è improvvisamente libera, tutta per noi». E allora, giù, lungo il pendio: «Destraaaa, sinistraaa» per affrontare delle curve larghe. «Destra, sinistra» per il cortoraggio. «Dadadadadada» per continuare diritto. «Alt» per fermarsi e «Stop» per la fermata di emergenza. Ci troviamo sulla Sonnenpiste, un terreno ideale per esercitare il carving (tecnica di virata). Judith si lancia lungo la linea di massima pendenza e inizia le danze a velocità elevata, con inclinazioni del corpo molto pronunciate a ogni curva. «Questa forma di sciata rappresenta per me una grande sfida» spiega Judith. «Quando lo sci scorre sulle lamine perdo infatti l’orientamento. Qualsiasi riferimento svanisce. Altra grande difficoltà sta nel percepire la ripidità della pista. Questo elemento, assieme alla componente della velocità, sono indispensabili per capire quanto il mio corpo si deve inclinare nelle curve. In questi casi, un’utile strategia per raccogliere il più possibile informazioni da un punto di vista propriocettivo, è quello di tenere i bastoni costantemente a contatto con la neve, come due antenne». Riprendiamo la teleferica. E questa volta scendiamo dalla Bernhard Russi Run, una pista molto più ripida e impegnativa. Judith mantiene

come sempre un’eleganza degna dei numerosi ori messi in bacheca. Ma fa fatica ad accettare i complimenti di chi la sta guardando. «Sento che la mia sciata a volte è poco fluida; in ogni istante devo essere pronta a reagire alle imperfezioni della pista, come ad esempio a delle piccole buche, placche di ghiaccio improvvise e altro ancora che potrebbero presentarsi lungo i pendii. E quindi scio con un tono muscolare “ridotto”, poco estetico ma che mi permette di reagire immediatamente e di adattarmi con maggiore facilità al terreno». Queste le parole di Judith, campionessa e monitrice di sci. Sì, monitrice, in quanto nel  ha partecipato al corso di formazione Gioventù e Sport organizzato dall’Ufficio dello Sport del Canton Uri per l’ottenimento del Brevetto GS . Tutte le forme sono state esercitate assieme alla sua guida. Dalla curva spazzaneve alla parallela, dal cortoraggio al carving, per passare alle forme giocate e allo switch (sciata all’indietro). Tutte le forme sono state portate con successo all’esame finale. Interessante è stata la modalità in

Come diventare Guida? Chi fosse interessato ai corsi per diventare Guida per sciatori ciechi può rivolgersi a Plusport – sport andicap svizzera – che si è incaricato di organizzarne tutti gli anni nel mese di dicembre presso la stazione sciistica di Fiesch, in Vallese. Maggiori informazioni si possono trovare consultando il loro sito all’indirizzo: www. plusport.ch

cui Judith ha saputo proporre la lezione d’esame metodologico ai suoi allievi. In molti si chiedevano come sarebbe stato possibile. Le spiegazioni tecniche Judith le ha fornite senza particolari problemi. Ma come correggere poi gli allievi? «Prima di esercitare una determinata forma, come ad esempio il cortoraggio, davo agli allievi un ulteriore compito, ovvero quello di focalizzare l’attenzione su un preciso movimento. Alla fine della discesa ponevo loro delle domande mirate per ricevere un feedback preciso che mi permettesse di capire se avessero svolto correttamente i movimenti e quali fossero invece i punti da migliorare. Si è trattato di un’esperienza utile sia per me, ma anche per i compagni di classe, i quali attraverso questo esercizio hanno scoperto un altro modo per leggere e correggere i movimenti del proprio corpo». Il tempo per chiacchierare sulla

Judith Wegmann (a sinistra e sotto) con la guida Kurt Fedier.

seggiovia è terminato. Siamo pronti per una nuova discesa, che ci porta alla partenza dello slalom gigante, sulla Rennpiste Mändli. Judith scatta dal cancelletto di

partenza. Dietro di lei la sua guida. Una sciata fluida, sicura, sugli spigoli, con una neve che presenta a tratti delle lastre di ghiaccio. «Mi sto allenando per i Campionati svizzeri che

andranno in scena dal  al  aprile a Lenzerheide» ci spiega al traguardo la enne. Più volte contattata dalla nazionale paralimpica svizzera, interessata a spingere Judith nelle competizioni di Coppa Europa, la ticinese ha sempre declinato gli inviti. «L’impegno sarebbe eccessivo. Inoltre, in futuro vorrò concentrarmi soprattutto sull’insegnamento. Il mio scopo è quello di utilizzare il mio nome e la mia storia per aprire una nuova porta nel mondo dell’inclusione». Nel frattempo, la giornata continua. Pantaloni e casco verdi, giacca blu e gilet arancione. Quel gilet arancio, che le permette di distinguersi dagli altri sciatori e che le garantisce una maggiore sicurezza sugli sci. Un gilet che evidenzia quindi l’andicap sulle piste e separa dagli altri sciatori, ma che allo stesso tempo ha aperto nuove porte per un insegnamento inclusivo nel mondo dello sci.


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TEMPO LIBERO

Ricetta della settimana - Fette di polenta grigliata con salsa alle erbe ●

Ingredienti

Preparazione

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Per 4 persone per uno stampo di 20x28 cm

1. Fate bollire l’acqua con il brodo. Unite la farina bramata e fatela sobbollire per circa 5 minuti. Aggiungete la farina macinata fine e fate sobbollire a fuoco basso per circa 12 minuti, finché la massa si consolida. Allontanate la polenta dal fuoco e lasciatela intiepidire.

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3 cc di brodo di verdura granuloso di 5 g 8 dl d’acqua 100 g di polenta bramata 150 g di semola di mais fine 1 uovo 50 g di gruyère grattugiato pepe dal macinapepe 6 c d’olio d’oliva 1 mazzetto di prezzemolo 1 cipolla rossa piccola 1 cc di brodo di verdura granuloso di 5 g 1 mazzetto di ravanelli

2. Incorporate l’uovo e il formaggio. Condite con pepe. 3. Ungete lo stampo con un po’ d’olio. Versatevi la polenta e formate uno strato spesso circa 2 cm. Coprite con la pellicola trasparente e mettete in frigo per circa 1 ora. 4. Tagliate la polenta in rettangoli di 8×5 cm. 5. Tritate il prezzemolo e la cipolla. Mescolateli con il brodo granulare, l’olio rimasto e pepe. 6. Grigliate la polenta da ambo i lati sulla bistecchiera o sul grill a fuoco medio per circa 5 minuti. Irroratela con la salsa e servitela con i ravanelli. Preparazione: circa 30 minuti; refrigerazione: circa un’ora; cottura alla griglia: circa 5 minuti. Totale: 1 ora e 35 minuti. Per persona: circa 10 g di proteine, 20 g di grassi, 49 g di carboidrati, 430 kcal/1800 kJ.

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La città vecchia di Avila, circondata da imponenti mura. (Sotto, da sn.) Toledo, Arquillo del Judio, l’arco moresco era una delle porte principali della Juderia (quartiere ebraico); Segovia, la cattedrale e l’area della città vecchia che un tempo era la Juderia; L’antica Juderia dentro le mura medievali di Avila.

Attraverso le storie di Sefaràd

Reportage ◆ La Spagna medioevale di sapienti rabbini, brillanti studiosi e consiglieri dei re, spezzata dall’espulsione delle comunità ebraiche nel 1492

Enrico Martino, testo e foto

In una geometrica foresta di colonne la luce radente del tramonto accende decorazioni dorate e archi orientaleggianti. Per un attimo, prima che il sole si spenga, un silenzio che rimanda solo l’eco dei propri passi trasporta la chiesa di Santa Maria la Blanca di Toledo al tempo in cui era la sinagoga Ibn Shushan. Vive di queste atmosfere spesso impalpabili Sefaràd, una parola esotica e un po’ misteriosa con cui il mondo ebraico chiama ancora oggi la Spagna e il suo passato sefardita che, soprattutto in Castiglia, riaffiora tra le pieghe della storia e del tessuto urbano di città come Avila, Toledo, Salamanca o Segovia, ma anche tra le case sghembe di sperduti villaggi. Una Spagna medioevale di sapienti rabbini, brillanti studiosi e consiglieri dei re, spezzata dall’espulsione delle comunità ebraiche decretata da Isabella di Castiglia e Fernando d’Aragona nel , subito dopo la conquista di Granada. I loro beni vennero confiscati o svenduti, le sinagoghe trasformate in chiese o lasciate andare in rovina e sui cimiteri spesso spianati vennero costruiti conventi e chiese, mentre gli ebrei convertiti più o meno volontariamente, i conversos, vennero confinati a un ruolo marginale nella società. Basta seguire silenzi e ombre di un vicolo scolpito dal sole per scoprire una sinagoga nascosta dietro le mura di un austero convento, simbolo di radici che hanno impregnato per secoli arte, cultura, e persino la gastronomia. Un’eredità riscoperta da Caminos de Sefarad, una rete di diciotto località spagnole che sta valorizzando le principali juderias, i quartieri ebraici nel cuore di città dove cristiani ed ebrei erano vissuti per secoli fianco a fianco. Il loro era un rapporto quasi simbiotico con cattedrali spesso ampliate abbattendo parte di questi quartieri da cui ricevevano tributi incrementati dopo ogni sollevazione contro i «perfidi ebrei». Stesse architetture, al massimo case più piccole e qualche differenza nelle decorazioni, a prima vista non si nota nulla di particolare, ma è qui che rivivono personaggi come Samuel Ha-Leví, raffinato intellettuale, astrologo e tesoriere del re Pedro I il Crudele, che sempre a Toledo fece costruire la Sinagoga del Transito, un capolavoro gotico-mudejar del quattordicesimo secolo. Neanche una sobria architettura esterna bastò però a

proteggerlo dalla suscettibilità della chiesa e del re, che per tener fede a un nome che era tutto un programma lo fece incarcerare e torturare, forse per rispondere alle accuse di essere troppo permissivo nei confronti della comunità ebraica, o per punire Samuel della sua ostentazione. Santa Maria la Blanca non è lontana, nel cuore di Madinat al-yahud la juderia che occupava un decimo di Toledo, la Città delle tre culture e delle tre religioni dove ebrei e cristiani si incrociavano in un labirinto di piazze, stradine e cortili comunicanti, diretti verso i rispettivi luoghi di culto. Nei mikveh, i bagni rituali ebraici, il tempo passava in dotte dissertazioni o in più prosaici colloqui di affari, mentre i sapienti traducevano dall’arabo testi di astronomia o di matematica. Oggi so-

lo squarci di architettura medioevale come l’Arquillo del Judio, o le leggende legate a Isaac Abravanel che avrebbe prestato i soldi per finanziare la spedizione di Colombo in cambio dei gioielli della regina Isabella, sono sopravvissuti all’imponente Monasterio de San Juan de los Reyes Catolicos eretto sul sito del vicino mercato ebreo. A Segovia, la prima luce del mattino scivola sull’acquedotto romano, tra le torri aguzze dell’Alcàzar, e sulle case di Calle de la Juderia Vieja dove il passato rivive nel Centro Didactico de la Juderia, nella residenza di Abraham Senneor, consigliere dei Re Cattolici. A pochi passi, le colonne arabeggianti della chiesa del Corpus Christi rivelano l’antica Sinagoga Mayor mentre una stradina scende verso la Porta di San Andrés dove passavano Toledo, l’antica Juderia ebraica.

i cortei funebri diretti verso il cimitero ebraico. Tracce di Sefaràd uniscono persino l’imponente bellezza di Salamanca, dove solo qualche casa della juderia è sopravvissuta agli ampliamenti della cattedrale e di un’università famosissima, a Hervas un villaggio dimenticato tra le montagne dell’Estremadura dove l’eredità ebraica ha creato una nuova identità e la nostalgia di un passato ormai quasi immaginifico annidato tra case di mattoni e legno aggrappate le une alle altre di una juderia dove si nascosero molti ebrei in fuga verso il vicino Portogallo. Alcuni rimasero per sempre fondando una confraternita dove praticare in segreto la religione dei padri, regolarmente puniti con autodafè dagli inquisitori che arrivavano a dorso di mulo per controllare l’ortodossia locale. Un contrasto vertiginoso con la geometria delle mura che incoronano Avila, rappresentazione di una simbolica struttura celeste per i rabbini delle numerose scuole talmudiche. La «Gerusalemme di Castiglia» è impossibile da comprendere senza il suo passato in cui il misticismo ebraico si fondeva con quello cristiano interpretato da una mistica come Santa Teresa non a caso discendente di conversos, come l’implacabile Tomàs de Torquemada indiscusso protagonista della leyenda negra dell’Inquisizione, morto ad Avila. Non lontano morì anche Moshe de Leòn che scrisse nello Zohar, il Libro dello Splendore, il quale con la Bibbia e il Talmud rappresenta la trilogia del misticismo della Qabbalah, «Ci sono momenti in cui le anime che

sono nel Giardino salgono e raggiungono la porta del cielo…». L’unico monumento sopravvissuto dell’Avila ebraica però è la cappella di Mosén Rubì trasformata in chiesa nel  ma nata come sinagoga nel , l’ultima costruita in Spagna prima dell’espulsione da una delle juderias più importanti di Spagna che ha lasciato solo frammenti di storia, una raffinata decorazione in alabastro nascosta dietro la porta di un piccolo hotel dove viveva il rabbino della sinagoga scomparsa di Belforad, o l’insolito arco di un portone che un tempo era l’ingresso della sinagoga di Don Samuel. Gli ebrei se ne andarono per sempre nel  dalla Puerta de la Malaventura, l’ultimo capitolo di una presenza documentata dal  e rievocata nella Basilica di San Vicente da un ebreo pentito che costruisce una chiesa, scolpito sul cenotafio di tre martiri. Nell’atrio della chiesa romanica di San Pedro nel , l’Inquisizione invece condannò a morte senza prove alcuni ebrei «accusati» di avere mescolato ostie consacrate al sangue di un bambino crocifisso. Delle chiavi delle case perdute che molte famiglie ebree hanno conservato per secoli si dice che basta infilarle nella porta giusta perché la casa si apra ancora a chi la sta cercando. Anche le juderias, in silenzio da secoli, aspettano di aprirsi a chiunque voglia ascoltarle. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica


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Master Chief è tornato in gran forma Videogiochi

Halo Infinite segna un nuovo inizio per la popolare serie sparatutto

Sono poche le serie che possono dire di aver rivoluzionato un genere e una di queste è Halo. Sicuramente non il primo ma il miglior gioco d’azione sparatutto in prima persona ad arrivare su console da salotto in grado di catturare l’essenza di un genere e trasporla brillantemente tramite un controller invece di mouse e tastiera. Halo è stato anche il titolo faro di Xbox, il gioco che più di tutti gli altri ha contribuito ad un cambiamento epocale nel panorama videoludico nei primi anni  e che continua a farsi sentire vent’anni dopo. Le avventure di Master Chief, il solitario eroe dell’umanità, sono evolute con gli anni, adattandosi alle nuove tecnologie, accompagnando prima il lancio della piattaforma online Xbox Live e poi sopravvivendo ad un cambio di studio di sviluppo. Gli ultimi capitoli delle sue avventure, specialmente l’ultimo Halo , sembravano segnare una progressiva disaffezione per la saga. Per questo motivo il nuovo gioco uscito nel  doveva riportare la saga agli albori, proporre una storia appassionante e riguadagnare la fiducia dei fan. Uscito con un anno di ritardo rispetto a quanto annunciato, Halo Infinite racchiude due giochi in uno. Da un lato abbiamo la modalità multiplayer online, gratuita e già disponibile dallo scorso novembre. Dall’altro la campagna principale, che vedrà Master Chief collaborare con una

nuova IA di nome Arma e un recalcitrante pilota spaziale. Tradizionalmente Halo è sempre stata una serie molto lineare: i livelli si susseguivano uno dopo l’altro, collegati da scene narrative che avevano il compito di portare avanti la trama principale. Infinite è un gioco diverso. Dopo un inizio ancora piuttosto lineare saremo finalmente lasciati liberi di scorrazzare su un nuovo anello, Zeta Halo. La storia, che non vogliamo rivelare troppo, riprenderà esattamente da dove l’avevamo lasciata con Halo . Master Chief, sopravvissuto al tradimento della sua precedente compagna IA Cortana, dovrà fare i conti con le conseguenze di quanto accaduto nel precedente gioco. Schiantatosi sullo Zeta Halo si ritroverà a dover combattere contro una nuova fazione delle forze aliene conosciute come Covenant mentre tenterà di scoprire gli oscuri segreti celati sul nuovo pianeta ad anello. La storia è piuttosto interessante anche se non si tratta di un capolavoro narrativo. Halo Infinite segna un nuovo inizio per la serie e l’impressione è quella che si accontenti di introdurre nuovi personaggi e meccaniche di gioco in attesa di costruire qualcosa di più grande con l’ipotetico (eppure praticamente certo) Halo . Per ora, siamo di fronte ad un nuovo approccio assai intrigante. Infinite propone una struttura a mondo aperto, esplorabile e disponibile.

Al posto di lunghi corridoi ora abbiamo pianure e montagne da esplorare, sia perseguendo gli obiettivi principali della storia sia facendo deviazioni dove preferiamo. Anche l’approccio agli obiettivi primari può essere fatto in diversi modi. Potremo allora decidere di prendere il cammino più ovvio, scontrarci con pattuglie e nemici a difesa delle postazioni militari. Oppure tentare un approccio più discreto, aggirando le forze ostili per combattere solo quando strettamente necessario. Durante le nostre scorribande potremo migliorare le abilità del protagonista, sbloccando nuovi poteri e guadagnando versioni alternative delle armi. Infinite fornisce, per la prima volta, diversi approcci tattici, non ci obbliga a seguire un percorso predestinato. Il gioco saprà premiare la nostra voglia di esplorazione, fornendo sempre qualche oggettino interessante, come ad esempio i Nuclei Spartan che servono a potenziare le nostre abilità. È anche intelligente nella presentazione del suo mondo aperto: non sarà infatti tutto accessibile immediatamente e le nuove zone si presenteranno a noi con un nuovo grado di sfida in modo da tenere alto sia l’interesse che la percezione della nostra progressione nella storia. Snaturare una saga come quella di Halo può essere un esercizio molto difficile e pericoloso. A  Industries, lo studio statuniten-

Giochi e passatempi Cruciverba

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«Sai che hanno arrestato il meccanico qui all’angolo per spaccio di droga?» «Sono cliente da tanti anni…». Completa la frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 3, 6, 7, 2, 9) ORIZZONTALI 1. In un’azienda ha poteri decisionali 7. Esistono anche gelati... 11. Una persona... come un’altra 12. Fiume della Tessaglia 13. Colei che tace 14. Soggette a flebiti 15. Cuor di eroina 16. Centro d’affari 17. Lago dell’Asia 19. All’inizio della cerimonia 21. Tentare arditamente 24. Consapevolezza di sé, della propria identità 25. Club Alpino Italiano 27. Valutazioni di beni 29. Il disegno meno degno 30. Le ghirbe del cammelliere 32. La fine del combattimento 33. Le iniziali del patriota Manara 35. Un inganno mimetizzato

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lo Infinite, disponibile su Xbox One, PC e Xbox Series tecnicamente non è straordinario. Visivamente piacevole spicca in modo particolare, oltre che per il game play, per il design audio. Il gioco supporta infatti lo standard Dolby Atmos che, con un sistema compatibile, ci avvolge a  gradi in effetti sonori e musiche.  Industries è riuscita a cambiare una formula vincente ma ormai sempre meno di moda in qualcosa di nuovo. Gusti ed aspettative dei giocatori sono cambiati molto dal  al  e tale rischiosa manovra era praticamente necessaria. Il risultato è una interessante miscela di elementi da gioco sparatutto classico a sezioni a più ampio respiro. Consigliato ai fan vecchi e nuovi!

Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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6 13. Dolci semifreddi 14. Composto di elementi diversi 16. Creata, compiuta 18. Se li concedono i ricchi 20. Il mangiare degli inglesi 22. Sua Santità 23. Ente Morale 26. Il nome della cantante Grandi 28. Cerchia di persone raffinate 31. Comune e lago della Lombardia 34. Granturco 36. Cure senza pari 37. Si ripete in un ballo francese 38. Né in latino 40. Fine di giugno e inizio di luglio 41. Ci... seguono in cucina

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37. Fiordaliso 39. Inchiostro per stampanti 41. Venute alla luce in quei luoghi 42. Un tratto dell’intestino 43. Va alle mani... VERTICALI 2. Gli dei figli di Odino 3. Vento caldo ed umido 4. Avversione mista a rancore 5. Per l’appunto! 6. Le vocali in festa 7. Si consuma la sera 8. Responsabilità 9. Particella negativa 10. Muscolo tra l’osso ioide e la lingua 12. Coda di antilope

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se di sviluppo, sembra riuscito bene. Dall’introduzione di nuove meccaniche di movimento, come l’utilissimo rampino, ad un combattimento con le armi da fuoco molto divertente e soddisfacente, Halo Infinite sa accontentare tutti, sia i giocatori che sono cresciuti con la saga sia il neofita che deve ancora apprenderne le sfaccettature. La cosa in assoluto più godibile è la presenza sul campo. Dopo qualche ora, cominceremo ad essere davvero efficaci, in grado non solo di scegliere quale arma usare ma anche di valutarne l’impatto in battaglia. Potremo approcciare gli scontri in modo tattico, alternando fasi a distanza o più ravvicinate, sfruttando veicoli sia di terra che volanti. Semplicemente detto: è un gioco divertente. Ha-

Vinci una delle 2 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta delle 2 regalo carte da regalo 50 franchi da 50 franchi con il sudoku con il sudoku

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Davide Canavesi

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Soluzione della settimana precedente INVITO A CORTE – Alla cena di stato di Buckingham Palace, i piatti dei commensali sono posizionati a… Resto della frase: …DICIOTTO CENTIMETRI DI DISTANZA. D I O R A C E T R E I S N O O

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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Olimpiadi tra Covid e censura Si avvicina la data di inizio dei Giochi invernali di Pechino mentre aumentano le perplessità e fallisce la politica cinese del «Covid zero»

L’Africa sempre contesa Quasi due secoli dopo la prima ondata coloniale nel Continente nero assistiamo a una sua ripetizione in grande stile, con modalità diverse

Una tassa in meno per le imprese? Il 13 febbraio al voto il referendum lanciato da sinistra contro l’abolizione della tassa di bollo sulle emissioni di capitale proprio delle imprese

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L’Europa nella morsa di Mosca e Pechino L’analisi

La Russia insegue l’antica grandezza imperiale e la Cina sfida l’Occidente sul piano dell’economia e della finanza

Federico Rampini

Mentre Joe Biden lancia avvertimenti a Vladimir Putin per scongiurare un attacco russo all’Ucraina, è l’Europa che dovrebbe aprire gli occhi sulla manovra a tenaglia con cui gli imperialismi altrui minacciano i suoi interessi vitali. Il pericolo più immediato e visibile è quello russo; quello più insidioso nel lungo periodo viene dalla Cina. Mosca ha nostalgia della sfera d’influenza che ebbe all’epoca degli Zar e dell’Unione sovietica. «Gigante paranoico», da secoli la Russia è afflitta da una sindrome legata alla sua storia e geografia. Ha la superficie più vasta del pianeta. Non ha però barriere naturali, come lo sono per esempio i due oceani che proteggono l’America. La Russia è stata invasa da tutti: mongoli e svedesi, francesi e tedeschi. Ha reagito annettendo Paesi vicini, per allontanare le frontiere esterne da Mosca e San Pietroburgo. Oggi questa logica detta le due azioni più recenti di Putin: la minaccia d’invadere l’Ucraina; l’intervento «di ordine pubblico» in Kazakistan.

La Russia ha reagito annettendo Paesi vicini, per allontanare le frontiere esterne da Mosca e San Pietroburgo Sull’Ucraina Putin alterna due narrazioni, una nazionalpopolare e romantica sulla comune identità ancestrale russo-ucraina; l’altra vittimistica sul presunto tradimento delle promesse americane dopo la caduta del Muro di Berlino (la Nato non si sarebbe mai allargata ad est; in realtà l’esistenza di quell’impegno è controversa, comunque non fu mai sancito in modo formale). In Kazakistan le truppe russe sono intervenute a puntellare il regime contro le proteste popolari e riaffermare l’egemonia di Mosca sulle ex-repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. La debolezza dell’Occidente è evidente. In Ucraina gli Stati uniti non hanno interessi vitali da difendere, tanto più da quando hanno l’autosufficienza energetica. Biden esclude un intervento militare per contrastare l’eventuale invasione russa. Prepara sanzioni economiche, che su Putin hanno un effetto minimo. L’Europa è la vittima predestinata. Si è messa in una debolezza estrema con la sua dipendenza dal gas russo. I tedeschi ci hanno aggiunto sordidi conflitti d’interessi da quando il loro ex cancelliere Gerhard Schröder entrò nel consiglio d’amministrazione di un gigante energetico russo. Se cade l’Ucraina è l’Europa che vede avvicinarsi le truppe russe ai suoi confini. Le chiacchiere sulla nuova Difesa europea restano tali. Le bollette salgono; per lo shock

energetico soffrono cittadini e imprese dell’Unione europea. Il Vecchio continente deve fronteggiare almeno quattro sfide altrettanto insidiose da parte della Cina. La prima: per i suoi rapporti con Taiwan la piccola Lituania è incappata in durissime sanzioni economiche decise da Pechino. Ma l’Ue è un blocco commerciale unico, non può ammettere che un singolo membro sia separato e punito da solo. Difendere la Lituania varando contro-sanzioni sul made in China può costare caro agli altri Paesi, non difenderla significa cedere su un principio irrinunciabile. Secondo. L’Europarlamento ha lanciato un allarme per la penetrazione sempre più forte della Cina nei Balcani, di fatto una manovra parallela a quella russa in Ucraina; è con l’economia e la finanza che Xi Jinping indebolisce il fianco più scoperto dell’Ue. Terzo. La crisi del gas ha una concausa cinese: l’America che è ricca di gas potrebbe aiutare gli europei a emanciparsi dall’eccessiva dipendenza dalla Russia (ogni presidente da Barack Obama in poi ha promesso di farlo); invece tante esportazioni di gas liquefatto americano sono dirottate verso la Cina che le strapaga. La Casa Bianca può fare poco, la logica di mercato riorienta le navi cisterna cariche di gas verso il cliente più redditizio. Quarto. Il problema più inquietante nel lungo periodo: per accelerare la transizione verso zero emissioni, e anche per ridurre la dipendenza dal gas russo, l’Europa rischia di finire nelle braccia della Cina che ha un semi-monopolio su materie prime e componentistica dei veicoli elettrici. Le cellule di litio necessarie per le batterie delle auto elettriche vengono prodotte per il % in Cina, solo per il % in Europa e altrettanto negli Stati uniti. Inoltre la Cina controlla l’% dei prodotti chimici usati nelle batterie al litio.

L’Europa non ha le risorse militari per dissuadere Putin in Ucraina ed è impreparata al riemergere di logiche imperiali Vista dagli Stati uniti, l’Europa non ha le risorse militari per dissuadere Putin in Ucraina. Non ha quelle economiche, energetiche, tecnologiche, né soprattutto la coesione politica, per divincolarsi dalla manovra a tenaglia russo-cinese. È anche un’Europa culturalmente impreparata di fronte al riemergere di antiche logiche imperiali. Una parte dell’opinione pubblica si è illusa di poter condurre la politica estera in base a principi morali e valori nobili; ha dimenticato che invece essa avviene sul terreno degli interessi

Oggi alcuni fautori della realpolitik rimproverano a Washington di aver spinto Vladimir Putin (a sinistra) nelle braccia di Xi Jinping. (Keystone)

nazionali e dei rapporti di forze, con un peso determinante per la componente militare. Oggi c’è una scuola del «realismo politico» che preme per una revisione della strategia verso Mosca. A Berlino e in altre capitali europee l’argomento è questo: la Russia è un gigante di cui abbiamo bisogno sia come fornitore di energia (finché il gas sarà necessario, cioè a lungo) sia come sbocco per le nostre merci. L’escalation delle sanzioni ha inflitto forse più danni alle imprese dell’Europa occidentale che non allo stesso Putin. I regimi autoritari hanno una notevole capacità di resistenza alle sanzioni: basti vedere Cuba, la Corea del Nord, l’Iran. Infine la potenza militare russa impone delle concessioni, visto che le opinioni pubbliche dell’Europa occi-

dentale sono pacifiste e restìe a forti aumenti di spese per la Difesa. A questi argomenti del Vecchio continente si affianca un pensiero che viene dalla tradizione della realpolitik americana, quella che ispirò Richard Nixon ed Henry Kissinger a compiere la svolta strategica del -: l’apertura alla Cina di Mao. Quella mossa geniale consentì all’America di legarsi all’avversario allora più debole (Pechino) per indebolire quello che all’apice della guerra fredda era il nemico più forte (Mosca). Oggi alcuni fautori della realpolitik rimproverano a Washington di aver spinto Putin nelle braccia di Xi Jinping, rendendo ancora più forte una Cina che è l’unica vera minaccia per la sicurezza degli Stati uniti nel lungo periodo. Il limite del realismo politico è che

non fa i conti con gli obiettivi di Putin. Le richieste che avanza sono rivelatrici: vuole tornare allo status quo ante , ricacciare la Nato entro i suoi confini della guerra fredda, ricostituire una sfera d’influenza russa che riproduca quella sovietica. In nome della sicurezza di Mosca, l’Occidente dovrebbe impegnarsi non solo a non allargare mai più la Nato, ma a ritirarne le forze effettive dai Paesi dell’est che ne sono già membri, abbandonando a un’insicurezza permanente gli alleati baltici o polacchi. Putin non ha nostalgie di comunismo – si circonda di oligarchi miliardari ed è alleato con la chiesa ortodossa – però la sua politica estera rivela una continuità geopolitica che va dagli Zar a Stalin: la coerenza ancestrale dell’imperialismo russo.


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ATTUALITÀ

Nate sotto una cattiva stella

Forze di sicurezza a Colleyville, vicino a Dallas, nei pressi della sinagoga dov’è avvenuta la presa di ostaggi. (Shutterstock)

Il punto ◆ Il 4 febbraio è prevista l’apertura ufficiale delle Olimpiadi invernali di Pechino, intanto aumentano le infezioni da Covid e i dubbi Giulia Pompili

Niente tifosi. A seguire i Giochi olimpici invernali di Pechino, che si apriranno il prossimo  febbraio, non ci sarà il pubblico pagante. Lo ha deciso il Comitato olimpico cinese: con un breve comunicato ha annunciato che i biglietti per le gare non saranno più messi in vendita, ma gli organizzatori potranno comunque invitare «gruppi di persone che rispetteranno rigorosamente le misure anti-Covid». È un primo fallimento per l’organizzazione di Pechino , che qualche mese fa aveva annunciato la vendita dei biglietti per le competizioni solo ai cittadini cinesi o residenti in Cina, nel rispetto delle regole sanitarie. Dopo due anni di politica cosiddetta «zero Covid», che punta cioè non alla convivenza con il virus ma alla sua eliminazione dal territorio, Pechino non è riuscito nel suo intento, e cioè quello di trasformare il Paese in una bolla senza infezioni. La variante Omicron è arrivata anche in Cina. Un mese fa il Paese è tornato in uno stato emergenza. Il  dicembre scorso è iniziato un lockdown totale della città di Xi’an,  milioni di abitanti, dopo che era stato individuato un focolaio di Covid-. È stato dato il via alla procedura di contenimento cinese, che prevede test di massa e divieto di uscire dalle proprie abitazioni. Il lockdown a Xi’an ha cominciato a essere alleggerito solo di recente. Nel frattempo, però, altre megalopoli cinesi hanno individuato nuovi casi di Coronavirus, da Tianjin a Dalian, da Shanghai a Shenzhen, e il protocollo applicato dalle autorità per tentare di tenere sotto controllo i contagi è stato lo stesso: chiusure, test di massa, blocco della circolazione. È un danno d’immagine potente per il Partito comunista guidato da Xi Jinping, soprattutto perché i funzionari cinesi propongono il loro modello di lotta al virus come migliore rispetto a quello occidentale. La propaganda interna, quella rivolta al pubblico cinese, inizia a mostrare le sue contraddizioni in vista degli eventi, particolarmente importanti per la vita pubblica del Paese, che ci saranno nel corso del . A ottobre è previsto il Congresso del Partito comunista, durante il quale Xi Jinping dovrebbe iniziare uno storico terzo mandato. Ma ora la prova del

nove sono le Olimpiadi invernali, l’evento con cui la Cina di Xi – dopo aver ospitato i Giochi olimpici estivi del  – voleva mostrarsi al mondo come una potenza ormai influente, responsabile e apprezzata. Le Olimpiadi, specie nei Paesi dell’Asia orientale, hanno ancora questo significato: al di là della competizione sportiva e del giro d’affari che si muove attorno a sponsor, diritti tv e turismo, si tratta soprattutto di un messaggio al pubblico internazionale. L’immagine di un intero Paese che cerca di intensificare il suo soft power. La Cina del  era una potenza in costruzione che voleva dimostrare di essere pronta a tornare sulla scena mondiale riducendo la povertà, l’inquinamento ecc. Con la scommessa di Pechino  la Cina voleva lanciare un messaggio ulteriore: quello di essere diventata una potenza ormai pronta a superare l’America in termini di influenza ed efficienza. Il virus e la politica hanno scombinato i piani della leadership. Quando il presidente americano Joe Biden ha annunciato il «boicottaggio diplomatico» delle Olimpiadi cinesi, i funzionari di Pechino hanno replicato che nessuno, ancora, aveva in realtà invitato i rappresentanti istituzionali americani. Ma alla decisione di Washington di inviare solo gli atleti e nessun funzionario pubblico alle cerimonie d’apertura e chiusura hanno aderito anche altri Paesi, tra cui il Canada e il Regno unito, il Giappone e l’Australia: un bel danno d’immagine per la Cina. Sul palco di Pechino ci sarà il presidente russo Vladimir Putin e quello del Kazakistan Kassym-Jomart Tokayev: gli alleati di ferro di Pechino. Ma oltre al problema d’immagine c’è un problema politico. È facile il paragone con le Olimpiadi estive che erano previste a Tokyo nel  e poi sono state rimandate al : lo scorso anno il Governo giapponese ha dovuto affrontare un’opinione pubblica quasi totalmente contraria alla celebrazione del mega evento sportivo, e il primo ministro Yoshihide Suga ha fatto in tempo a traghettare il Paese fuori dalle Olimpiadi prima di dimettersi. Durante i giorni delle gare, molti – tra atleti e membri dello staff internazionale – hanno lamen-

tato spesso l’eccessiva burocrazia della «bolla olimpica» e la difficoltà di disputare certe gare in un rigido regime sanitario. A leggere i media ufficiali cinesi sembra che invece, nella Repubblica popolare, nessuno si lamenti. È un’impressione, perché sui social cinesi ogni tanto riesce a filtrare l’insoddisfazione, subito repressa e silenziata. E nel frattempo le autorità di Pechino pubblicano continuamente aggiornamenti al già rigoroso protocollo per evitare i contagi. Non solo non ci saranno più i tifosi cinesi sugli spalti delle competizioni, ma tutti i partecipanti saranno blindati dentro a un «circuito chiuso» dal quale non potranno mai uscire, saranno costantemente monitorati e verranno testati ogni giorno, per tutti i giorni di permanenza. Il Comitato olimpico ha annunciato che la «grande muraglia» della censura di internet verrà sollevata parzialmente per il periodo delle Olimpiadi, e saranno messe a disposizione a pagamento delle schede telefoniche per atleti e staff con Rete libera. Ma diversi analisti hanno segnalato che il Governo cinese potrebbe usare quelle schede per sorvegliare i visitatori e di conseguenza sarà molto difficile che un atleta straniero scriva sui suoi social – normalmente bloccati in Cina – qualcosa che possa infastidire Pechino. Diverse nazionali, da quella americana a quelle olandese e tedesca, hanno chiesto ai loro atleti di evitare di portare con loro in Cina il proprio smartphone personale. E c’è un’altra questione a complicare il quadro: la cerimonia d’apertura dei Giochi olimpici invernali si terrà a Pechino nei giorni del Capodanno cinese, nel bel mezzo di una pandemia. Il Governo cinese aveva promesso che quest’anno il Capodanno lunare, il periodo di festività in cui milioni di persone si muovono all’interno della Cina per andare a trovare le famiglie nelle città d’origine, sarebbe stato libero dalle restrizioni, ma già da settimane le autorità locali chiedono ai cittadini di non spostarsi. Il pericolo è che per rispondere a questi fallimenti Xi Jinping, come molti si aspettano, aumenti il controllo e la repressione, soffocando sempre più le libertà. Lo stadio nazionale di Pechino si prepara. (Shutterstock)

Chi è Lady Al Qaida Aafia Siddiqui ◆ Detenuta in un carcere texano, in Pakistan è considerata una martire della jihad Francesca Marino

Tutte le strade portano in Pakistan, quando si tratta di terrorismo. Era di origini pakistane, pur essendo cittadino britannico, l’attentatore della sinagoga in Texas Malik Faisal Akram (una decina di giorni fa ha preso in ostaggio  persone, poi è stato ucciso). Dal  al  aveva compiuto una decina di viaggi in Pakistan e, negli ultimi anni, si era unito alla Tablighi Jamaat: organizzazione pseudo-religiosa bandita di recente perfino dai sauditi per costituire «un pericolo per la società e l’anticamera del terrorismo». L’organizzazione, di cui esiste per inciso una forte rappresentanza a Brescia, è monitorata da tempo dall’intelligence, italiana e non solo, per i legami più volte provati con Al Qaida. Dal «centro culturale» Tablighi di Brescia sono passati un certo numero di terroristi o ideologi del terrorismo. Sia in Francia che in Inghilterra sia negli Stati uniti si sono trovati legami dell’organizzazione con vari gruppi terroristici, ma fino a questo momento in Occidente soltanto la Russia l’ha dichiarata fuorilegge.

In Texas Akram, dopo aver preso quattro ostaggi, ha chiesto la liberazione del prigioniero 650 di Bagram: un altro pakistano. Anzi, una pakistana La sede centrale dei Tablighi in Europa si trova, guarda caso, in Inghilterra: a Dewsbury, dove è stata costruita nel  grazie alle donazioni della Lega musulmana mondiale. E da dove diffonde da allora il suo «messaggio di pace». Lo stesso messaggio a base di odio razziale e religioso diffuso da Akram che, dopo aver preso gli ostaggi, domandava la liberazione del «prigioniero » di Bagram (l’ex carcere afghano nella base militare Usa di Bagram): un altro pakistano. Anzi, una pakistana. Perché il «prigioniero » non è altro che la famosa, o più correttamente famigerata, Aafia Siddiqui. Nota alle cronache di mezzo mondo come «Lady Al Qaida», «la grigia signora di Bagram», «la Mata Hari di Al Qaida» e, in Pakistan, definita «figlia della Nazione» per cui il Governo di Islamabad ha provveduto assistenza legale e per la cui liberazione si è speso in ogni modo, arrivando a proporre più di una volta scambi di prigionieri di alto profilo in cambio di Aafia. La donna, laureata al Mit di Boston e con un master in neuroscienze cognitive ottenuto alla Brandeis University, si trova attualmente nella prigione di Fort Worth in Texas a scontare una pena detentiva di  anni comminatale per il tentato omici-

dio di un militare americano: mentre veniva interrogata in Afghanistan, difatti, pare che la «figlia della Nazione» abbia afferrato il fucile del militare e gli abbia sparato a sangue freddo. Trasferitasi da adolescente da Karachi, dove è nata, agli Stati uniti, pare che la giovane Aafia abbia dimostrato fin da subito una spiccata predilezione per le tesi fondamentaliste e per l’integralismo religioso. Subito dopo l’ settembre il suo attivismo ha attirato l’attenzione del Federal bureau of investigation (Fbi), e nel  Siddiqui e suo marito sono stati interrogati sull’acquisto di circa ’ dollari di occhiali per la visione notturna, giubbotti antiproiettile e libri di autoistruzione militare. La coppia è tornata in Pakistan subito dopo, ma ha divorziato nell’agosto . Nel dicembre  Aafia Siddiqui tornava negli Stati uniti, ufficialmente per candidarsi a un posto da ricercatrice. In realtà, avrebbero poi scoperto gli investigatori, per aprire e gestire una casella postale a nome di Majid Khan, un agente di Al Qaida con sede a Baltimora che avrebbe raccolto cinquantamila dollari: per bombardare un hotel in Indonesia e per far saltare in aria un certo numero di stazioni di servizio negli Stati uniti. A un certo punto, nel , dopo essere tornata a Karachi per sposare il nipote di quel Khalid Sheikh Mohammed che aveva progettato gli attentati dell’ settembre, Aafia scompare. Nascosta con la famiglia di Mohammed, dicono alcuni, mentre altri sostengono che sia nelle mani dell’Isi pakistana. Circolano voci di questa donna misteriosa prigioniera a Bagram, in sostegno della quale i detenuti avrebbero organizzato, nel , perfino uno sciopero della fame. Cinque anni dopo la sua scomparsa, nel , Aafia riappare a Ghazni, in Afghanistan, dove viene arrestata dalla polizia afghana e dove appunto, nel corso dell’interrogatorio, prende il fucile e fa fuoco contro il militare che la stava interrogando. Per il Pakistan le accuse contro Aafia, che definisce gli ebrei «traditori, crudeli e ingrati», che ha licenziato un paio di legali perché di origine ebraica e che rifiuta di essere considerata incapace di intendere e di volere come vorrebbero i suoi avvocati, sono fasulle e fabbricate. E tutti i maggiori politici, Imran Khan in testa, hanno più volte promesso di riportarla a casa. Per le organizzazioni jihadiste la liberazione di sorella Aafia è una causa di primaria importanza. Nel corso degli anni,  persone sono state ammazzate nel nome di «Lady Al Qaida», la «martire vivente» simbolo della jihad. E il numero, a quanto pare, è destinato ad aumentare.


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MONDO MIGROS

UNA CIOTOLA PIENA DI VITAMINE Alla Migros, a gennaio, la verdura e la frutta sono in vendita ogni settimana a solo un franco - come ultima proposta, 250 grammi di pomodori datterini e un mango. I due fornitori di vitamine sono perfetti in una colorata ciotola asiatica di riso

Insalata di riso asiatico con pomodori e mango Uno spuntino per  persone Ingredienti • • • • • •

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Il principio dell’arcobaleno recita: se si mangiano cibi di diversi colori, si consumano anche molti nutrienti diversi. Con mango, pomodori datterini e edamame, ciò è possibile anche in inverno.

 1 Un mango Fr. 1.– 2 Pomodori datterini, 250 g Fr. 1.– Le offerte sono valide dal 25 al 31 gennaio

300 g di edamame surgelati 2 manghi 500 g di pomodori datterini 2 scalogni 20 g di zenzero 6 cucchiai di olio (per es. olio d’oliva) 4 cucchiai di salsa di soia 1 cucchiaio di zucchero grezzo 2 limette 500 g di riso cotto (per es. a chicco lungo) ½ mazzetto di coriandolo

Preparazione 1. Cuoci gli edamame in acqua bollente per circa  minuti, scolali e mettili da parte. Pela il mango e ricavane la polpa, quindi tagliala a fettine. Dimezza o dividi in quarti i pomodori. Taglia a fette lo scalogno. 2. Grattugia finemente lo zenzero e mescolalo con l’olio, la salsa di soia e lo zucchero. Taglia una limetta a spicchi. Spremi le limette rimanenti. Mescola il succo alla salsa. Scalda brevemente il riso nella padella con - cucchiai d’acqua. Servilo con edamame, mango, pomodori e scalogno. Guarnisci il piatto con il coriandolo e irrora il tutto con la salsa. Decora poi il piatto con gli spicchi di limetta.


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L’Europa che puoi tenere in tasca Prospettive

Vent’anni fa cominciava a circolare l’euro, la moneta unica dell’Ue che non ha sempre avuto vita facile. Ecco perché

Sembrava di avere l’Europa in tasca. Sono passati ormai  anni e non ci si fa più caso, ma fu proprio questa la sensazione dei primi tempi di vita dell’euro, quando divenne possibile valicare tante frontiere senza ricorrere ai cambiavalute. La circolazione multinazionale della nuova moneta aveva rapidamente mescolato, a partire dal gennaio , quei dischetti provenienti da Paesi diversi, e fino a quel momento gelosi custodi delle rispettive divise nazionali. Mentre i  tagli delle banconote erano e sono identici in ogni dettaglio, le  monete metalliche avevano e hanno una faccia comune, l’altra affidata all’estro dei singoli Stati. E così eravamo di fronte a richiami simbolici di varia natura come i volti dei regnanti per i Paesi monarchici, la Marianne francese, la Porta di Brandeburgo tedesca, il leonardesco uomo vitruviano per l’Italia, persino l’antica sacra civetta che la Grecia aveva riproposto ispirandosi al tetradramma ateniese di venticinque secoli prima. Erano , allora, i Paesi che avevano deciso di rinunciare alle valute nazionali per dare una spinta decisiva al processo dell’integrazione europea. L’euro si era affacciato sui mercati finanziari tre anni prima di diventare effettiva moneta di scambio prendendo il posto di marchi, corone, lire, franchi, fiorini. Negli anni successivi l’Eurozona si è gradualmente allargata e altri simboli hanno cominciato a circolare, come la croce maltese a otto punte. Oggi sono  i Paesi dell’euro, nello spirito dei trattati dell’Ue l’adesione rimane aperta: basta rispettare certi parametri relativi al debito e al deficit di bilancio, impegnarsi dunque a una politica di rigoroso controllo dei conti pubblici. In realtà si è fatto un largo ricorso alle deroghe, altrimenti l’Eurozona sarebbe decisamente più ristretta.

Al di là della visione europeista, le motivazioni che hanno portato alla nascita dell’euro sono state piuttosto disparate. Mentre molti Paesi tradizionalmente afflitti da scompensi inflazionistici, come l’Italia o la Grecia, hanno individuato nella valuta comune un’ancora di stabilità, altri come gli Stati dell’Europa settentrionale hanno inseguito la finalità di una valuta continentale che affrontasse il mercato con una forte massa critica. Atipico il caso della Germania, dove l’innovazione valutaria innescò aspre polemiche. Il Governo federale aveva sacrificato la sua fortissima valuta, il marco, sull’altare dell’euro perché sentiva il bisogno, dopo la riunificazione nazionale e i serpeggianti timori determinati dalla nascita di uno Stato tedesco di ottanta milioni di abitanti che qualcuno già chiamava Quarto Reich, di rassicurare l’Europa e il mondo. Siamo economicamente potenti, questo il messaggio, ma come parte integrante di un Continente sempre più unito. Del resto l’avventura dell’euro è stata accompagnata da proteste e polemiche in molti Stati. Per esempio i valori di scambio con le precedenti valute nazionali, decisi sulla base dei dati disponibili al momento, furono più volte contestati. Poi il dibattito prese di mira la mancata o insufficiente vigilanza sull’andamento dei prezzi che aveva portato a una strisciante inflazione di fatto. Più tardi, e fino ai nostri giorni, si è sviluppata in molti Paesi una forte corrente polemica da parte di euroscettici e sovranisti, nostalgici di quella autonomia monetaria che permetteva ai Governi di agire senza remore, per esempio stampando moneta in tempi di crisi senza dover dipendere da un organismo sovranazionale come la Banca centrale europea. Altre critiche hanno investito proprio la Bce, accusata

Shutterstock

Alfredo Venturi

per difetto di legittimità democratica. Navigando fra tutti questi scogli la nuova moneta si è gradualmente affermata nel mondo, fino a insidiare il quasi solitario primato del dollaro e a diventare la seconda valuta di riserva, con una presenza media nei caveau delle banche centrali compresa fra un quinto e un quarto del totale. Oltre che nell’attuale Eurozona, un blocco di quasi  milioni di abitanti, la valuta unica circola anche in alcuni Stati, come Andorra, Monaco, San Marino o la Città del Vaticano, che già erano legati dal punto di vista valutario a membri della comunità monetaria come la Francia o l’Italia. Inoltre ci sono state adesioni unilaterali, come quelle del Kossovo e del Montenegro, dove la moneta circola senza che quei Paesi facciano parte dell’Eurogruppo. Di fatto, considerando i dipartimenti francesi d’oltremare come Martinica e Guadalupa, le regioni au-

tonome spagnole e portoghesi come le Canarie, Ceuta, Melilla, le Azzorre e Madera, la valuta comune circola anche al di fuori del Continente europeo. E del resto è accettata quasi dappertutto come mezzo di pagamento. L’euro non ha avuto sempre vita facile. Dieci anni dopo la sua introduzione come moneta circolante, in seguito alla crisi finanziaria internazionale che si trascinava ormai dal  alcuni Paesi dell’eurozona, praticamente tutto il fianco sud più l’Irlanda, si trovarono in una situazione di gravissima difficoltà a causa di esorbitanti debiti pubblici. Chiesero dunque alla Bce di emettere nuova moneta, ma il parere delle «formiche del nord», i Paesi virtuosi cioè, Germania in testa, che avevano i conti in ordine, era diverso da quello delle «cicale del sud». La speculazione cercò di approfittarne, si profilava una rottura forse irreparabile che poteva se-

gnare la fine della moneta comune. A questo punto il presidente della Bce Mario Draghi tenne un discorso a Londra in cui sostenne che in realtà l’euro era molto più forte di come poteva apparire. Lo paragonò a un bombo, quel grosso insetto che secondo le leggi della natura non potrebbe volare e invece se ne va tranquillo di fiore in fiore. In ogni caso, aggiunse, la Banca centrale farà tutto quello che serve (whatever it takes) per arginare la speculazione contro la moneta europea. E così, grazie al massiccio intervento della Bce, la burrasca passò e l’euro riprese la sua navigazione fra le grandi valute internazionali, diffondendo con le sue banconote illustrate dagli archi e dai ponti della tradizione architettonica europea un messaggio di apertura, di comunicazione, di dialogo. Insomma il bombo vola, eccome se vola, nonostante gli assalti speculativi e i mugugni sovranisti.

La nuova corsa coloniale all’Africa L’analisi

Cina, Turchia, Russia e non solo estendono la loro influenza su un Continente ricco di materie prime e potenzialità

Lucio Caracciolo

alta delle decolonizzazioni, era e si è confermata piuttosto fantasiosa. Risultato: chiunque voglia occuparsi di Africa deve scartare le delimitazioni confinarie cartografate negli atlanti e dedicarsi allo studio del radicamento territoriale dei poteri effettivi, quasi mai coincidenti con quelli ufficiali. Inoltre occorre guardarsi dal considerare il Continente un tutto, perché se ne perderebbero di vista le numerose, decisive faglie. Su questo sfondo è in corso da trent’anni almeno un nuovo scramble for Africa, di cui fino a poco tempo fa la Cina era protagonista quasi assoluta. Una volta evaporata o limitata l’influenza delle potenze europee, e considerando lo scarso interesse americano per le terre da cui pure origina una quota consistente della popolazione statunitense, la Repubblica popolare ne ha profittato per stabilirsi in gran parte degli spazi africani. Rivolgendosi alle élite, comprese quelle più o meno criminali. I cantieri cinesi nelle città e soprattutto nei porti africani, le ardite ma spesso arronzate infrastrutture di marca sinica erano e restano impressionanti. Le correlative capacità di incidenza nelle realtà locali e di strumentalizzazione dei soggetti africani ai fini della propria ge-

opolitica, della espansione dei propri mercati e della disponibilità di materie prime sono fattori propulsivi della potenza cinese nel mondo. Solo di recente, con strumenti e stili differenti, altri coprotagonisti sono penetrati in quegli spazi, spesso in concorrenza con la Cina. Fra tutti, Turchia e Russia, ma anche Giappone, India, Paesi arabi del Golfo. Senza considerare gli attori europei, su tutti

Keystone

Quasi due secoli dopo la prima ondata coloniale in Africa, assistiamo a una sua ripetizione in grande stile. In contesti, con mezzi e attori diversi, l’obiettivo permane lo stesso: acquisire spazi di influenza in un Continente immenso, percepito privo di storia quindi inferiore, possibilmente da «civilizzare»; accedere a formidabili risorse materiali, specie minerarie; disporre di forza lavoro a bassissimo costo. Il tutto per la maggior gloria della potenza di origine. Un tempo europea, oggi soprattutto asiatica e non solo. Perché l’Africa? Si considerino solo le sue enormi dimensioni fisiche, ma soprattutto umane. Oggi si contano (si fa per dire) circa  miliardo e  milioni di umani nel Continente nero. Di qui a trent’anni se ne prevedono  miliardi e mezzo. Solo l’Asia possiede un numero superiore di abitanti. E si valuti soprattutto la fragilità (eufemismo) delle istituzioni, ovvero il dominio di istituzioni informali, basate su identità etniche, talvolta tribali, che travalicano o incidono dall’interno quelle «nazionali». L’idea di poter trasformare in Stati nazionali all’europea gli ex possedimenti coloniali, di moda negli anni Sessanta del secolo scorso, nell’ora

la Francia, che considera l’Africa settentrionale e quella occidentale parte del proprio residuo impero informale (Françafrique). Ecco quindi la spartizione della Libia fra Ankara e Mosca, o la penetrazione russa in Mali, Sudan, Repubblica centrafricana. Di speciale interesse per noi europei l’ingresso o il ritorno di potenze esterne in Nordafrica e nella fascia saheliana, lungo la direttrice est-ovest che lega Mar Rosso e Golfo di Guinea. La novità di maggior momento è qui la divisione della ormai ex Libia fra Turchia, titolare della Tripolitania, e Russia, sempre più radicata in Cirenaica. Con il «vallo di Sirte» a separare i due territori. La valenza di questa manovra, in parte concordata o comunque accettata da turchi e russi, è triplice. Sotto il profilo globale, l’insediamento a ridosso dello Stretto di Sicilia di una potenza neoimperiale, per quanto formalmente inquadrata nell’Alleanza atlantica, e del nemico numero uno bis degli Stati uniti, sconvolge gli equilibri in quello che a tutti gli effetti è il Medioceano. Ovvero il Mare Mediterraneo inteso come connettore fra gli Oceani Indo-Pacifico, epicentro della sfida Usa-Cina, e Atlantico, simbolo della talasso-

crazia americana nella sua proiezione europea. Nel quadro euro-mediterraneo, perché di fronte al ventre molle italiano si stagliano due potenze certo non affidabili, se non esplicitamente avverse. In particolare, la Turchia è oggi considerata il nemico principale dalla Francia. E non solo per la sua intrusione nel pré carré africano caro a Parigi ma soprattutto perché considerata riferimento dell’islamismo radicale nell’Esagono. Infine, sotto l’aspetto dei flussi migratori. La Tripolitania è sbocco preferenziale della rotta migratoria centrale, che dall’Africa profonda via Mediterraneo e Italia porta nel cuore dell’Europa. Ankara è tentata di ripetere la manovra riuscita sul versante turco-greco: ergersi a sentinella di frontiera in cambio di lauta remunerazione. L’avvertimento è specialmente rivolto all’Italia, Paese di primo arrivo in Europa. Comunque la si voglia vedere, la convergenza di grandi potenze esterne in Africa induce a rivalutare il peso strategico di un Continente spesso considerato ai margini della storia. Non lo è mai stato del tutto, e certamente non lo è adesso. La gerarchia del potere mondiale si stabilisce includendo l’Africa nell’equazione.


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Una tassa di bollo in meno

Votazione federale 13 febbraio ◆ Fra i quattro oggetti al vaglio popolare, il referendum contro la soppressione della tassa di bollo sulle emissioni di capitale proprio delle aziende Ignazio Bonoli

Non è forse il momento migliore per proporre sgravi fiscali, vista l’incidenza della spesa per gli effetti dell’epidemia sui bilanci della Confederazione. Lo ha detto lo stesso ministro delle finanze Ueli Maurer, presentando il tema in votazione il prossimo  febbraio: la prevista abolizione della tassa di bollo sulle emissioni di capitale proprio delle aziende. Ma i tempi della politica non tengono conto delle circostanze particolari e il voto sul referendum proposto dalla sinistra (PS, Verdi e sindacati) giunge proprio di questi tempi. Che cosa viene rimproverato alla proposta del Consiglio federale accettata dal Consiglio Nazionale ( sì,  no) e dal Consiglio degli Stati ( sì,  no)? L’obiezione principale è quella di favorire in pratica soltanto le grandi imprese, il settore finanziario e i proprietari di capitali, provocando minori entrate alle casse federali. Secondo i referendisti, il «capitale», a partire dalla metà degli anni Novanta, ha beneficiato di sgravi fiscali dell’ordine di parecchi miliardi di franchi, mentre il «lavoro» ha visto aumentare le proprie imposte. Inoltre, si prevedono altri sgravi con la prevista soppressione dell’imposta preventiva e di altre tasse di bollo. Effettivamente quella su cui si vota è solo una parte delle revi-

sioni fiscali chiesta con un’iniziativa del . In realtà, la posta in gioco questa volta non è di grande portata. Per la Confederazione si prevedono minori entrate fra i  e i  milioni di franchi all’anno. Lo stesso consigliere federale Ueli Maurer ha precisato che sgravi fiscali non significano necessariamente minori entrate per il fisco. Anzi, negli ultimi - anni, proprio a seguito di alcuni sgravi, il gettito delle imposte pagate dalle imprese è aumentato più delle entrate dovute ad altre imposte. In ogni caso, le previste minori entrate per la Confederazione costituiscono soltanto dal  al  per mille del bilancio, che è di circa  miliardi di franchi all’anno. Visto il risultato concreto dell’operazione, val la pena di guardare un po’ oltre il tema in votazione. In realtà, considerata anche la forte concorrenzialità oggi in atto a livello mondiale nella tassazione delle imprese, una tassa sulle emissioni di capitale è quanto di più illogico si possa immaginare. Si tassa, infatti, un’azienda per un’operazione che le permette di vivere e prima ancora che la stessa le abbia procurato un qualche guadagno. Non a caso la Svizzera è uno dei pochi paesi al mondo che praticano questo tipo di fiscalità. La tassa colpisce, infatti, in misu-

Il Consiglio nazionale aveva accolto la soppressione di questa tassa di bollo con 120 voti favorevoli e 70 contrari. (Keystone)

ra maggiore le imprese meno redditizie. Le imprese più redditizie possono, infatti, finanziarsi mediante gli utili e non sono costrette a raccogliere nuovo capitale proprio per crescere. La tassa colpisce in particolare le nuove aziende che devono ricorrere a una seconda o terza emissione di capitale proprio. In sostanza si tratta di un’imposta speciale sul capitale proprio e gli investimenti che frena la crescita eco-

nomica, la destabilizza, favorendo l’indebitamento. Infatti, l’assunzione di capitali presso terzi non è soggetta a tassa. Sono colpite da questa tassa le società anonime e simili e anche le società cooperative. La legge prevede alcune eccezioni. Intanto è prevista una franchigia di un milione di franchi (al di sotto della quale non si paga la tassa di bollo). Le imprese di pubblica uti-

lità o il cui capitale è in mano pubblica non sono soggette alla tassa. Se è vero che la tassa colpisce soprattutto le grandi imprese, è anche vero che sono molte di più le piccole e medie aziende che la pagano. Secondo una statistica recente sono ben  imprese che hanno versato al fisco meno di ’ franchi, per un totale di , milioni. Sono invece solo  le imprese che hanno pagato oltre  milione di franchi, per un totale di , milioni. Data la portata limitata della tassa – che però è importante per le grandi aziende svizzere – il tema va affrontato tenendo conto degli aspetti generali della fiscalità. Da tempo la Svizzera sta perdendo di attrattività anche nel campo fiscale. Ne soffre tutto il settore economico e in particolare quello finanziario. Anche Berna ha deciso – nell’ambito dell’OCSE – di applicare a livello internazionale la tassa minima del % sugli utili delle imprese. In molti casi questo significa un aumento delle imposte sugli utili delle aziende, che in parte potrebbe essere attenuato dalla abolizione della tassa di bollo sulle acquisizioni di capitale proprio. Tassa che, inoltre, ha il grosso difetto di essere applicata indipendentemente dalla redditività degli investimenti. Per questo la tendenza generale è quella di abolire progressivamente le tasse di bollo. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ / RUBRICHE ●

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Mamma mia, che fracasso! ◆

Qualche mese fa aveva destato un certo stupore la notizia stando alla quale Lugano nella classifica delle città svizzere più rumorose occupava il secondo posto. L’informazione aveva sollevato qualche commento preoccupato, soprattutto da parte dei rappresentanti del turismo. In generale però le reazioni sono state sin qui moderate. Il rumore è da considerare come un’esternalità negativa. È abbastanza facile considerarlo come un costo sociale nel caso di una singola costruzione. La vicinanza di un asse stradale frequentato o di una linea ferroviaria, per non parlare, nei casi delle città maggiori, del rumore provocato dai voli aerei, hanno sicuramente un impatto negativo sull’attrattiva residenziale di una determinata localizzazione. Più difficile, invece, è farsi un’idea di che cosa significa il rumore per la qualità residenziale di una città che, come Lugano, si estende dal lago alle montagne.

Certamente vi sono, a Lugano come in altre città, forti differenze tra una localizzazione e l’altra per quel che riguarda la media dei decibel che devono sopportare gli abitanti. È evidente che gli abitanti del piano di Scairolo devono sopportare più rumore, determinato dai flussi di traffico, che gli abitanti dei villaggi della Valcolla che pure fanno parte del territorio cittadino. I progressi della statistica e, soprattutto, delle tecniche di stima consentono però oggi di stabilire – tenendo conto del rumore non solo a livello del pianterreno, ma anche di quello che devono sopportare gli inquilini dei piani superiori – a quanti decibel in media sono esposte le diverse quote di popolazione. Una volta conosciute queste quote è poi facile redarre la classifica del rumore facendo la somma delle stesse. Nello studio che sta alla base della classifica in questione è stata stimata per le maggiori città svizzere, Lugano

inclusa, la proporzione della popolazione esposta almeno a - decibel. A Ginevra questa proporzione supera il %. In altre parole, nella città di Calvino non vi è modo di vivere in un posto tranquillo. Viene poi Lugano con un totale di popolazione esposta al rumore pari a quasi l’%. Al terzo posto della classifica si trova Losanna con una proporzione di popolazione esposta al rumore di poco superiore al %. In seguito la proporzione diminuisce fino ad arrivare a Berna. Nella capitale federale solo la metà della popolazione vive in case o appartamenti esposti a un rumore superiore ai  decibel. Ovviamente maggiore è il livello del fracasso e maggiore è il costo sociale che devono sopportare gli abitanti di queste città. Stando allo studio della Banca cantonale di Zurigo, l’ordine in classifica delle città però non cambia quando invece di considerare la quota totale di popolazione esposta al rumore, ci concentriamo

solo sulla quota di popolazione esposta a un rumore superiore ai  decibel. In testa viene sempre Ginevra, al secondo posto troviamo sempre Lugano e al terzo Losanna. Sembra quindi che anche in materia di rumore urbano esista un Röstigraben. La popolazione delle città latine è esposta a maggior rumore di quella delle città svizzero-tedesche. Di conseguenza si potrebbe pensare che le perdite determinate dal rumore siano maggiori in Romandia e in Ticino che non nella Svizzera tedesca. Invece non è così. Nello studio citato, la riduzione del potenziale affitto che i proprietari di case e appartamenti di una data città possono incassare dipende infatti non solo dal grado di rumore che deve sopportare la popolazione, ma anche dalla dimensione demografica della città in questione. Così mentre i proprietari di appartamenti e case di Ginevra perdono, per via del rumore, circa  milioni all’anno di affitto po-

tenziale, quelli di Lugano perdono solo , milioni. Nella classifica dei costi sociali dovuti al rumore dopo Ginevra viene Zurigo e, al terzo posto, segue Losanna. Anche le altre città trovano posto nella classifica in funzione della loro dimensione demografica. Così Lugano, pur essendo al secondo posto come città più rumorosa, si trova solo al nono posto della classifica delle perdite potenziali di affitto dovuto al rumore. Forse è per questa ragione che il venire a sapere che la città si trova al secondo posto della classifica delle maggiori città per il rumore che deve sopportare la popolazione non ha sollevato forti reazioni in quel di Lugano. Come dire che il costo del rumore a Lugano è, per il momento, ancora entro limiti che i portafogli dei proprietari di casa riescono a sopportare. E non è detto, tra l’altro, che gli inquilini di Lugano non abbiano una preferenza culturale per il rumore.

Affari Esteri

di Paola Peduzzi

Screzi tra Trump e il suo «delfino» ◆

Ron DeSantis è il governatore della Florida trumpianissimo, uno di quelli cui nessuno aveva dato granché credito fino a che Donald Trump in persona lo aveva notato e aveva deciso di farne una star del proprio movimento. Quarantatré anni, studi a Yale e ad Harvard, carriera militare (era tenente), una moglie cui è appena stato diagnosticato un cancro al seno (e quante brutture sui social contro il governatore scettico nei confronti del vaccino che ora deve affidarsi alla scienza affinché salvi sua moglie), tre bambini piccoli. DeSantis, che ha origini italiane, è diventato deputato del Partito repubblicano nel  e governatore nel  e in questo ruolo ha fatto da megafono locale, in uno Stato cruciale com’è la Florida, delle idee e dell’approccio trumpiano. In particolare, durante la pandemia, DeSantis è stato il più restio ad applicare le restrizioni anti-Covid, guidando an-

zi il fronte degli scettici nei confronti delle mascherine, delle chiusure, dei vaccini, figurarsi degli obblighi vaccinali. Anche nelle tante contese che ci sono state tra il Governo centrale e gli Stati quando Trump era presidente – Trump aiutava con più solerzia e generosità gli Stati repubblicani e non quelli democratici – la Florida è sempre stata tra i preferiti del «re». A molti repubblicani DeSantis è sembrato quindi un delfino di Trump: stesse idee, metà degli anni e soprattutto un altro cognome. Ci sono parecchi conservatori che stanno cercando un equilibrio nuovo con il trumpismo attraverso politici che sanno intercettare lo stesso elettorato senza le follie e le brutalità di Trump: DeSantis è il paradigma di questa trasformazione. O forse lo era. Nelle ultime settimane i rapporti tra Trump e DeSantis si sono raffreddati e, per quanto possa sembrare sur-

reale, questo deterioramento è stato determinato dalle divergenze sulla gestione della pandemia: Trump è il più moderato. DeSantis ha detto che avrebbe voluto essere molto più duro nel contrastare le politiche di lockdown avviate dall’Amministrazione Trump e che, guardando indietro, questo è il suo rimpianto maggiore. Che oggi combatte contrastando in ogni modo le politiche federali sugli obblighi vaccinali e mostrando come, nel mondo conservatore, oggi il radicalismo no vax e no obblighi è ancora più forte rispetto a un anno fa. Dal canto suo invece l’ex presidente dice che è bene vaccinarsi e che è bene farlo in fretta e in tanti. Lo fa in senso autoelogiativo, per ricordare agli americani che è stato lui a pianificare la campagna di vaccinazione e che il suo successore, Joe Biden, ha soltanto beneficiato della sua lungimiranza. C’è molto Trump in questo approc-

cio ai vaccini dunque, ma poiché quel che conta è che gli americani si vaccinino, cosa che fanno a rilento rispetto a molti altri Paesi occidentali, le sfumature si lasciano da parte. O almeno così fanno in molti, ma DeSantis no, lui non dice se si è vaccinato o no e continua a sostenere che la pandemia è più un’ossessione dei democratici che una realtà. Ma tutto starebbe nel gioco delle parti se non fosse che il governatore della Florida è uno dei repubblicani più accreditati a candidarsi alle elezioni del , quelle a cui vorrebbe partecipare invece Donald Trump, per riprendersi quel secondo mandato che, dice, i democratici gli hanno negato con l’imbroglio. Ora, da qui al novembre del  tutto può accadere e accadrà. Tanto per cominciare DeSantis deve vincere le elezioni per essere riconfermato governatore della Florida (si vota nel novembre di quest’anno, alle elezioni

di metà mandato). Anche l’eventuale equilibrio con Trump – personale ed elettorale – è tutto da costruire, ma in fondo, quando si tratta di trumpismo, la questione è sempre e soltanto una: la fedeltà. Finché DeSantis è stato il traghettatore del movimento fuori dalla Casa bianca, un alleato ambizioso e leale, Trump lo ha magnificato, dicendo che sarebbe stato un suo compagno di ticket, quindi un vicepresidente, perfetto. Ma ora che l’ex presidente lascia intendere di voler essere lui il prossimo candidato del Partito repubblicano e DeSantis non si fa da parte, Trump se la prende. I suoi consiglieri in realtà cercano di tenere nascosta la polemica, sanno che il governatore può essere utile, ma Trump no, non ci sta. Per lui conta solo la propria affermazione assieme a fedeltà e gratitudine, così a DeSantis dice: come ti ho creato, così ti distruggo.

Zig-Zag

di Ovidio Biffi

Pubblicità in cerca di leggende ◆

Qualche lettore troverà strano che, parlando di televisione, la mia attenzione sia rivolta agli spot pubblicitari e non ai programmi che vengono offerti. A dirla da incorreggibile brontolone il motivo è molto semplice: gli stacchi pubblicitari risultano spesso più coinvolgenti e professionalmente migliori rispetto a quanto proposto sugli schermi, soprattutto quando ci si riferisce al sempre più presunto intrattenimento. Stavolta mi riferisco a una pubblicità a cui di sicuro anche voi non avrete potuto sfuggire: quella di Swisscom che parla dei propri colori aziendali (blu e rosso, senza dimenticare il bianco). Tramontati i tempi in cui sorprendeva mostrando come clienti un Roger Moore gigione o una Dominique Gisin piagnucolosa, Swisscom in questo avvio di  ha optato per una leggenda, quella dei suoi colori aziendali. E co-

me «testimonial» principale ha scelto un tracciatore di piste sciistiche che spiega come nelle gare di sci – e probabilmente anche nei tracciati aperti al pubblico – la demarcazione dei tracciati e dei passaggi obbligati (per schivare paletti e porte di discese e slalom o per evitare piste non battute e pericolose) alla fine la scelta sia caduta su un blu che viene indicato con tanto di codice Pantone. Sia in tv che sui social, la narrazione della leggenda, cioè la base della «torta pubblicitaria», rimane sempre quella: i colori del marchio Swisscom che praticamente riescono a sfruttare migliaia di chilometri quadrati di piste. Le conferme sono affidate a testimonianze (quindi a una miriade di micro-spot) di grandi atleti, mitici allenatori, commentatori sportivi e altri personaggi del circo bianco. Il messaggio pubblicitario regge be-

ne e lascia credere che qualcosa di vero possa essere intervenuto a forzare i tracciatori di piste nel sostituire i rametti di pino con i diffusori di colori. L’ironia spalmata sui filmati rende perfetto lo spot pubblicitario e fa dimenticare che l’idea di sfruttare quanto accaduto sulle piste di sci fosse scontata: Swisscom è uno dei partner principali dello sci agonistico elvetico, quindi i contenuti dello spot pubblicitario li ha reperiti quasi in casa, «a km zero» come oggi si usa dire. Strano invece che a colpire i telespettatori svizzero-tedeschi non siano tanto i personaggi famosi legati all’agonismo sportivo coinvolti nello spot, ma il tracciatore di piste: perché parla un indigesto dialetto dell’Alto Vallese (un argomento che scompare con le traduzioni dei testi). Leggenda digitale, insomma. Ma nemmeno poi tanto, visto che la tro-

vata pubblicitaria di Swisscom si aggiunge ad altre leggende che i due colori blu e rosso continuano ad alimentare in tutta la Svizzera a livelli assai più alti di quelli dello sport. Questi tributi, come si insegnava un tempo nelle lezioni di storia, risalgono a un certo Napoleone Bonaparte e più precisamente ai nostri avi che due secoli fa ritenevano giusto e appropriato onorare la Francia e il suo imperatore, per un lascito di cui ancora oggi anche le nostre costituzioni conservano importanti orientamenti e passaggi. Non potendo «copiare» il tricolore francese (nello spot Swisscom lo si fa, evocando anche il bianco della neve) ci si limitava ai colori dominanti del vessillo della capitale francese. Per questo l’origine dei colori di alcune bandiere, anche quella del nostro Cantone, è facilmente collegabile con quell’omaggio; e qual-

che città (come Soletta) si spingeva oltre, addirittura orientando le sue statue in modo che i volti fossero rivolti verso nord-ovest. L’abbinamento del rosso con il blu lo si ritrova poi anche in altri ambiti, ad esempio tra i club sportivi. E a pensarci bene anche alla Rsi, se non proprio un amore, perdura perlomeno una predilezione per rosso e blu (facile riandare alla scenografia di InfoNotte come esempio), forse in omaggio alla regola non scritta che suggerisce colori forti per l’informazione e il contrario, colori neutri o sbiaditi (stavo per scrivere vegani...) per l’intrattenimento. Ultima confessione: seguendo in tv un marcatissimo slalom in notturna mi è sorto il sospetto che (marketing dettando) fra qualche anno potremo avere piste tutte blu da cima a fondo, con in bianco solo il tracciato per gli atleti.


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Le riflessioni della Memoria Intervista alla storica Anna Foa e alcune considerazioni su Vasilij Grossman aspettando il Giorno della Memoria

Al cinema con Soldini A colloquio con il regista Silvio Soldini che ritorna nelle sale del Cantone con il film 3/19

Pagina 31

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Verga, voce dei vinti rimasti per via Letteratura

Il 27 gennaio di cento anni or sono moriva il grande prosatore siciliano

Federica Alziati

È probabile che Giovanni Verga non apprezzerebbe molto gli omaggi di rito nel centenario della sua scomparsa; lui che all’amico fraterno e collega scrittore Luigi Capuana confidò di auspicare per l’avvenire dell’arte una «suprema noncuranza per l’artista»: «si deve arrivare a sopprimere il nome dell’artista dal piedistallo della sua opera, quando questa vive da sé», gli scriveva nel febbraio del . Era l’anno de I Malavoglia, il suo capolavoro, che nella medesima lettera affidava idealmente alle attenzioni di quel lettore privilegiato e di ogni altro lettore, con il turbamento di un autore consapevole di aver esaurito il proprio compito e disposto a ritrarsi, come un padre di fronte ai figli quando è tempo che divengano autonomi: «Non ti nascondo», concludeva, «che sono inquieto pel come saranno presi, questi disgraziati Malavoglia; e si ha un bel fare il bravo, ma non si possono abbandonare in mezzo alla strada questi benedetti figliuoli, senza sentirsi commuovere le viscere paterne». Da principio avrebbero «fatto fiasco, fiasco pieno e completo», quei disgraziati Malavoglia: toccava ammetterlo, di lì ad appena due mesi, col solito Capuana. Eppure, Verga difendeva il proprio romanzo e si mostrava non più disposto a guadagnare la ribalta assecondando le mode letterarie del momento, o a garantirsi il favore collettivo coll’«ammannire i manicaretti che piacciono al pubblico per poter poi ridergli in faccia»: «Il peggio è che io non sono convinto del fiasco, e che se dovessi tornare a scrivere quel libro lo farei come l’ho fatto». La sicurezza (non immune da alterigia) gli derivava forse dalla nascita aristocratica, tra i latifondi del catanese, sul finire dell’estate del . Con la stessa caparbietà aveva da sempre perseguito la propria vocazione letteraria, fin dagli esperimenti di scrittura giovanili, in una Sicilia che andava d’un tratto scoprendosi provincia del novello Regno d’Italia: romanzi storici o sentimentali, i primi di una nutrita serie, che riecheggiavano già nel titolo le tendenze dominanti dell’epoca (Amore e patria, del , poi I carbonari della montagna, edito a spese dell’autore tra  e ). La «smania di scrivere» lo aveva quindi condotto, nella seconda metà degli anni Sessanta, a Firenze, allora capitale linguistica e politica, a scrollare a propria volta dai panni di romanziere un po’ della polvere della periferia. Al concludersi del decennio, gli esiti principali sarebbero stati la lacrimevole Storia di una capinera (pubblicata a puntate da un editore di prim’ordine come Treves) e lo slancio necessario al trasferimento a Milano. Soltanto nella grande città, nel magma delle sperimentazioni d’a-

Giovanni Verga (in primo piano) e Luigi Capuana nel 1887, dal libro Giovanni Verga Scrittore Fotografo, Ed. De Agostini, 2004.

vanguardia, accanto ai giovani Scapigliati e tra gli ingranaggi dell’editoria più coraggiosa ed esigente, aveva infine scoperto la potenza singolare della propria arte. «Tutto quello che senti ribollire dentro di te irromperà improvviso, vigoroso, fecondo appena sarai in mezzo ai combattenti di tutte le passioni e di tutti i partiti», assicurava a Capuana nella primavera del , spronandolo a raggiungerlo; sebbene, paradossalmente, la maggior novità comunicata all’amico rimasto a godere «la quiete tranquilla della nostra Sicilia» fosse la recente composizione di «una novella, uno schizzo di costumi siciliani». La rivoluzione si compiva nella misura breve del bozzetto di Nedda, che introduceva nell’orizzonte desolato, umile e fiero di lì a poco popolato dai personaggi dei racconti di Vita dei campi e del primitivo abbozzo romanzesco intitolato a Padron ’Ntoni. Entro la svolta degli anni Ottanta

si era ormai definito anche il progetto ambizioso del Ciclo dei vinti, vagheggiato come una successione di ben cinque romanzi. Nel turbine montante della cultura idealista-positivista, foriera di sorti magnifiche o almeno progressive, Verga aveva scelto di ripartire dalla lezione delle «gente meccaniche» manzoniane e di guardare alle propaggini naturaliste del realismo europeo, votandosi a ritrarre il destino miserando dei «deboli che restano per via», sacrificati alle dinamiche implacabili del progresso collettivo (secondo la prefazione-manifesto ai Malavoglia): la nidiata della casa del Nespolo e i popolani di Aci Trezza, il manovale arricchito e offeso mastro-don Gesualdo, ma anche i più altolocati protagonisti de La Duchessa de Leyra, L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso. L’ispirazione più vivace gli venne dal mare e da chi in esso trovava sostentamento e morte (non a caso Ma-

rea fu il nome carezzato in origine per l’intero ciclo), stimolandolo a mettere in scena «quei pescatori e coglierli vivi come Dio li ha fatti» (così in un appunto di lavoro trasmesso a Capuana). La volontà di dar corpo e voce alla comunità umana dei Malavoglia, «un tempo […] numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza», non si espresse tuttavia in una nuova immersione sentimentale o in un ingenuo tentativo di restituzione in presa diretta. Ben sapeva, Verga, che, per quanto un autore voglia celarsi e lasciar agire le proprie creature, la sua visione continua a dominare la scena; che l’impressione di immediatezza presuppone uno sforzo di mediazione ancor maggiore da parte del narratore, una più intensa ricerca attorno ai personaggi, un lavorìo più minuto sulle loro cadenze espressive e linguistiche: «forse non sarà male […] che io li consideri con una certa distanza in mezzo all’attività di una città co-

me Milano» – proseguiva ad annotare il romanziere, a proposito dei suoi pescatori – «Non ti pare che per noi l’aspetto di certe cose non ha risalto che visto sotto un dato angolo visuale? e che mai riusciremo ad essere tanto schiettamente ed efficacemente veri che allorquando facciamo un lavoro di ricostruzione intellettuale e sostituiamo la nostra mente ai nostri occhi?». Forse anche per questo avrebbe incontrato maggior difficoltà a trovare la giusta lontananza prospettica rispetto alla società più composita e stratificata entro cui compie la propria ascesa Gesualdo Motta: l’uomo di fatica divenuto padrone, assurto al rango della borghesia e imparentato per matrimonio con la nobiltà feudale, pure rimasto per tutti nella condizione ambigua di mastro-don Gesualdo. Ne conseguì in ogni caso una grande opera (edita a puntate nel , e l’anno successivo in volume, in versione riveduta e corretta), ma meno originale e nelle scene corali ancora significativamente debitrice del modello manzoniano. Forse per le stesse ragioni non gli riuscì di compiere gli altri romanzi del Ciclo dei vinti, che non gli avrebbero consentito alcun distacco dai circoli influenti delle realtà cittadine in cui si trovava invischiato. Alla lacuna avrebbe in qualche modo sopperito l’affresco sociale e politico de I Viceré () di Federico De Roberto, prezioso sodale degli ultimi anni, che Verga tornò a trascorrere in Sicilia, ripiegato in una solitudine poco operosa. La sera del  settembre , al Teatro Bellini di Catania, toccò a Luigi Pirandello pronunciare il discorso celebrativo per l’ottantesimo compleanno di Verga. E in quella circostanza di festa, lo scrittore agrigentino non esitò a lamentare l’ormai «mediocre risonanza» dell’anziano maestro. L’«asciutta magrezza d’ossatura» e la «povertà nuda di parole e di cose» della prosa verghiana parevano aver perso attrattiva in una stagione abbagliata dal miraggio dell’arte consacrata ad immortalare se stessa e le avventure edonistiche dei propri cantori: lo «stile di parole» aveva trionfato sullo «stile di cose». Ma Pirandello era lì a cogliere l’occasione di ribadire il valore intatto dell’opera di Giovanni Verga, quella sua «primitività quasi omerica, ma su cui incombe quasi un senso della fatalità dell’antica tragedia, se la rovina di uno è la rovina di tutti». «Oggi più che mai è nostra questa concezione dei vinti», vantava con coraggio, in un contesto ben poco incline alle ammissioni di debolezza o sconfitta. L’anniversario presente potrebbe essere una buona opportunità per chiederci quanto ancora sia nostra.


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CULTURA

La Memoria come opportunità Il primo campanello Giorno della Memoria / 1 La storica Anna Foa lancia un appello d’allarme ai colleghi israeliani: tocca a voi prendere la palla, mandate un messaggio ◆

di libertà agli intellettuali europei (Prima parte)

Giorno della Memoria / 2 ◆ La lezione del grande romanziere russo Vasilij Grossman

Sarah Parenzo

Pietro Montorfani

Nata nel 1944, è figlia di Vittorio Foa, storico e politico italiano, e di Lisa Giua, intellettuale. Ha raccontato la sua storia in La famiglia F., pubblicato da Laterza. (Youtube)

Figlia di Vittorio Foa e Lisetta Giua, Anna Foa si è laureata nel  alla Sapienza, dove successivamente ha insegnato storia moderna. Membro tra le altre cose del comitato scientifico del Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah, nei suoi libri ha trattato prevalentemente temi legati alla storia dell’ebraismo e dell’inquisizione. Alla vigilia del  gennaio si percepisce una sorta di stanchezza della memoria. Come trovare una chiave per cambiare le caratteristiche di una liturgia che rischia di esaurire il suo messaggio? Innanzitutto inserirei più storia e meno memoria. Più storia, perché non se ne fa abbastanza, e meno memoria, perché quest’ultima sta diventando troppo fumosa. Dobbiamo raccontare i fatti, ancora troppo ignorati, ricostruire vite cancellate, anche narrandole sotto forma di storie, soprattutto quando si parla ai più giovani. Ma più di tutto dobbiamo trasmettere il messaggio che non si tratta di una storia a sé, bensì che la storia ebraica, anche quella relativa al capitolo della Shoah, fa parte della grande storia e come tale appartiene a tutti. Di conseguenza anche la memoria non è esclusivamente ebraica, anzi, serve soprattutto ai non ebrei. Non a caso la Giornata della memoria è l’unica commemorazione civile comune a tutti i paesi dell’Unione Europea. Prende spunto dalla Shoah, ma per affermare che un evento simile non deve mai più ripetersi e che l’Europa deve fondarsi sul rifiuto di razzismo e antisemitismo, sull’accoglienza, sulla libertà. Che questi sono i nostri valori. D’altra parte quest’accezione più universalistica della Shoah sembra non star bene a tanta gente e gli ebrei sono i primi a reclamare la particolarità e la specificità della storia ebraica. Io sono impressionata dalla veemenza con cui viene recepita questa questione, che ho affrontato come storica. Ebrei, per il resto progressisti e aperti al mondo, che gridano di voler difendere fino alla morte l’«unicità» della Shoah. Ma perché devi

difendere fino alla morte un criterio storiografico? Semmai discutilo! Pare di essere tornati indietro di un secolo, quando la storia del «popolo eletto» sembrava richiedere criteri interpretativi differenti da quella degli altri! Credo si tratti di un modo di riprendersi la Shoah da parte degli ebrei, soprattutto italiani. Non deve essere un criterio interpretativo del mondo, né un monito per quest’ultimo, ma solo una vicenda ebraica. È come se più o meno consapevolmente gli ebrei dicessero: rendendola universale ci state scippando la Shoah. Ed ecco di nuovo il contrasto tra la vecchia anima universalistica e quella particolaristica che emerge pericolosamente. Se parliamo di universalismo non posso fare a meno di pensare al ruolo degli intellettuali, e in particolare a tuo padre Vittorio, politico, sindacalista, giornalista, storico e saggista. Perché siamo orfani di personalità di quello spessore, che cambiamento pensi sia intervenuto? In una recente intervista hai parlato con angoscia di quella che hai definito una mutazione antropologica. Sì, mi riferivo al fatto che oggi la gente è diversa e considera normali cose che sino a poco tempo fa non si consideravano tali. Cioè per mio padre l’universalismo era un dato di fatto, non aveva nemmeno bisogno di pensarci sopra, mentre adesso devi discuterlo, e anche così… Allo stesso modo per la sua generazione era ovvio che gli ebrei si occupassero del mondo anche, e proprio, a fronte di quello che avevano passato, della loro esperienza. Se vuoi era una cosa che faceva parte dell’etica: ecco è il rapporto con l’etica che non c’è più. È questo forse uno dei modi di mutare antropologicamente, avallando come condotte accettabili e ovvie condotte prive di etica. Anni fa, una volta accompagnai mio padre a parlare in una scuola di Roma. Dopo che ebbe finito di raccontare di sé, dell’esperienza partigiana e degli anni trascorsi in prigione, un bambino si alzò e disse: «Ma scusi, lei era già ebreo, chi gliel’ha fatto fare di essere pure partigiano?» Questo però è il clima oggi, capisci.

Enzo Traverso attribuisce la crisi dell’intellettuale ebreo europeo alle due grandi «religioni laiche» della Shoah e dello Stato d’Israele. Perché gli accademici ebrei italiani fanno sentire così poco la loro voce? Il fallimento, se così vogliamo chiamarlo, risale agli ultimi trenta-quarant’anni, sarà stato il terrorismo, il sovranismo o la prevalenza di nuovo di criteri identitari e religiosi. Se guardi al passato ti accorgi che c’erano molta più libertà e complessità di interpretazione del reale, un reale che non è solo ebraico, ma si intreccia in maniera molto complessa con l’ebraismo. Adesso è tutto molto semplificato. Per esempio, tranne poche eccezioni, penso a JCall, oggi nel mondo ebraico non si può più dire di non essere sionisti, o di essere critici della politica di Israele, senza essere accusati di antisemitismo. Per non parlare del fatto che l’unico parametro di valutazione è diventato il rapporto con Israele. Lentamente si è creato un clima di paura che ha fatto tacere anche gli accademici ebrei e ancor di più gli altri. Tornando alla didattica della Shoah, su cosa vi vengono poste le domande? Come vengono preparati i ragazzi? Le domande sono quasi tutte su Israele, e anche questo è significativo. Ma si lavora bene solo quando i professori hanno svolto una vera preparazione. Il problema è che anche gli insegnanti si muovono in un clima di condizionamento. Guardano al sapere comune storiografico, non vanno oltre. Alcuni hanno rapporti con Yad Vashem, il Memoriale Israeliano della Shoah, senza che questo però li porti a una maggiore apertura. Io invece credo che questa apertura sia necessaria. Innanzitutto va stabilito un rapporto con gli altri genocidi del Novecento, che ovviamente sono tutti diversi e rispetto ai quali la Shoah ha delle peculiarità enormi. Il mondo ebraico teme che in questo modo si rischi la banalizzazione della Shoah, ma questo discorso va affrontato, perché se tu parli solo degli ebrei e della Shoah, è un problema. (Continua)

Nella terribile classifica dei principali luoghi di sterminio del Novecento il campo di detenzione di Treblinka, sessanta chilometri a est di Varsavia nella Polonia occupata dai nazisti, si situa al secondo posto subito dopo Auschwitz-Birkenau. Liberato alcuni mesi prima di quest’ultimo, nell’estate del , dall’avanzare delle truppe sovietiche, dell’Inferno di Treblinka si conserva un eccezionale resoconto steso da Vasilij Grossman, celebre corrispondente di guerra che vi entrò tra i primi assieme all’Armata Rossa. «Mai l’Universo aveva visto qualcosa di così spaventoso», scrisse Grossman nel suo reportage per la rivista «Znamja» (oggi in italiano da Adelphi), in poche e strazianti pagine redatte grazie alle testimonianze di alcuni sopravvissuti, tanto dettagliate e veritiere da essere accolte tra gli atti del Processo di Norimberga. Ancora saldamente allineato alla fierezza ideologica sovietica (il comunismo in un solo Paese), Grossman non mancava in quel testo di elogiare lo sforzo, anche simbolico, dei suoi compatrioti: «Il mondo tace, schiacciato, asservito dai banditi in camicia bruna che lo hanno in pugno. Eppure a molte migliaia di chilometri, sulle rive lontane del Volga, l’artiglieria sovietica tuona ancora, proclamando ostinatamente la volontà del popolo russo di lottare fino alla morte per la libertà, e risvegliando, chiamando alla lotta i popoli del mondo». La discesa in campo delle truppe di Stalin nel giugno del , con la quale si era inaugurata la «Grande Guerra Patriottica» (per la storiografia non russa il più semplice «Fronte orientale»), aveva in qualche modo aiutato a dimenticare i crimini del -, le cosiddette «purghe» e gli scellerati accordi segreti del patto Molotov-Ribbentrop attorno alla spartizione della Polonia. L’afflato bellico, proiettato su un palcoscenico mondiale e incarnato dalla coraggiosa battaglia di Stalingrado, era riuscito a scaldare il cuore di intellettuali altrimenti acuti e guardinghi come Grossman. La lotta contro il male assoluto del nazifascismo li aveva di nuovo illusi, in fondo, sulla missione benefica dello stalinismo. È sorprendente, a tale proposito, il confronto tra il reportage di Treblinka e l’opera più celebre di Grossman, il romanzo-fiume Vita e destino, scritto negli anni Cinquanta e subito confiscato dal KGB. Al termine di peripezie simili a quelle del Dottor Živago, avrebbe visto la luce postumo e incompleto soltanto nel , presso la casa editrice svizzera L’Âge Vasilij Grossman (1905-1964).

d’Homme, fondata a Losanna dall’esule serbo Vladimir Dimitrijevic – da cui dipese la prima edizione francese, e da lì quella italiana pubblicata nel  da Jaca Book, oggi finalmente completa grazie alla traduzione di Claudia Zonghetti per Adelphi. Alla brusca virata dell’autore, che in pochi anni era diventato un severo osservatore delle derive del comunismo, aveva contribuito certo la sua identità ebraica, nei confronti della quale il suo Paese si era mostrato criminalmente prossimo all’esempio nazista. «Non abbiamo mai capito cosa fosse la libertà», ammette uno degli innumerevoli personaggi del romanzo, l’anziano rivoluzionario Magar, «L’abbiamo soffocata. Neanche Marx la teneva in gran conto, mentre invece è la base, il senso, il fondamento di ogni fondamento. Senza libertà, la rivoluzione proletaria non esiste». Parole di estrema lucidità si rincorrono, per bocca di personaggi sempre nuovi e sempre diversi, lungo tutte le  pagine del libro, che non risparmiano riflessioni sulla concezione stessa della società sovietica: «Se non gli servi, lo Stato ti consuma, strapazza te, le tue idee, i tuoi programmi e le tue opere. […] Stalin costruisce quel che serve allo Stato, non all’uomo. […] Non c’è posto per Dostoevskij nella nostra ideologia. […] Majakovskij è lo Stato fatto carne, fatto emozioni. Dostoevskij, invece, è l’uomo e basta, anche quando è dentro a uno Stato». Nel Giorno della Memoria, creato per impedire che genocidi come l’Olocausto si ripropongano in futuro in qualche parte del mondo, non può fare che bene ritornare al primo «campanello d’allarme» lanciato da Grossman con il suo romanzo: un memento affinché gli uomini di buona volontà, quelli che eleggono la libertà, l’accoglienza e il rispetto dell’altro tra i valori più alti del vivere civile, non abbassino la soglia d’allerta, illudendosi di avere chiuso per sempre quella partita con il male. E a cento anni dalla nascita di un altro testimone di quegli anni terribili, gli si potrebbe accostare la voce di un Rigoni Stern, che dal fronte opposto a quello di Grossman lanciava un appello in tutto simile, scritto soltanto in una lingua diversa: «Non esiste nemico; il nemico lo crea chi ha interesse che ci sia il nemico. Ma io non ho mai incontrato nemici, io ho incontrato il prossimo, anche in guerra, anche se ho sparato, anche se ho forse ucciso. Però non ho incontrato nemici; forse nemici erano quelli che ci hanno mandato in guerra».


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CULTURA

Piani alti e piani bassi

La parentesi umana

Nicola Falcinella

Marco Züblin

Cinema ◆ A colloquio con Silvio Soldini, regista di 3/19 con Kasia Smutniak

Il successo internazionale con la commedia romantica Pane e tulipani del , con Licia Maglietta e Bruno Ganz in una Venezia magica. E, cominciando da fine anni , film come L’aria serena dell’ovest, Un’anima divisa in due, Le acrobate, Agata e la tempesta, Brucio nel vento, Cosa voglio di più, fino a Il colore nascosto delle cose del . Silvio Soldini, milanese di famiglia ticinese, è da oltre trent’anni protagonista del cinema italiano, fautore di un cinema d’autore che cambia vari generi e toni ma cerca il dialogo con il pubblico. Il suo nuovo lavoro, /, dopo essere passato alle Giornate di Soletta, da giovedì e nelle sale ticinesi. Siamo a Milano: l’esistenza di Camilla (Kasia Smutniak), avvocato d’affari in carriera, va in crisi dopo che, in una notte di pioggia, un giovane immigrato senza nome muore cadendo in moto per evitarla mentre attraversa la strada. Domani (ore ) è prevista un’anteprima al Cinema Lux di Massagno alla presenza dell’autore. La pellicola è coprodotta da Ventura film e da Rsi e distribuita da Filmcoopi. Silvio Soldini, / è il numero del fascicolo dedicato al ragazzo ignoto, perché l’avete usato come titolo? È un numero, ma diventa anche il nome del morto. E potrebbe essere anche una data. Il numero si svela durante il film e mi sembrava potesse incuriosire. Il titolo nasconde il mistero che Camilla cerca di svelare con la sua indagine. È necessario un trauma, come nel caso di Camilla, per accorgersi delle cose importanti e cambiare vita? Spesso è necessario un trauma per mettere in discussione le cose, se no si rischia di procedere per inerzia. All’inizio della scrittura parlavamo di un piccolo grande trauma per obbligare la protagonista a fermarsi: Camilla è una persona dinamica costretta dall’incidente a capire dov’è. Sono i momenti in cui può nascere un germoglio o, anzi, in cui si possono piantare dei semi. Camilla si ritrova sull’asfalto di notte e da quel momento c’è un prima e un dopo. Cercherà di andare avanti e ricominciare, ma con la morte del ragazzo diventa tutto più difficile.

Smart TV ◆ Il ritorno di Marco Paolini con La Fabbrica del mondo

Il regista Silvio Soldini è nato a Milano nel 1958.

Nel film colpisce che Camilla viva e lavori ai piani alti, mentre l’incidente avviene in strada, e l’obitorio e la mensa dei poveri sono al piano terra. Il rapporto tra alto e basso era già in sceneggiatura. Lavorando con la scenografa, l’idea si è accentuata. Abbiamo trovato un vero studio legale in un grattacielo e anche il bar in cui si vede con l’amica è in alto, in centro a Milano. Volevo che da casa vedesse le cose dall’alto, come se vivesse lontana dalla strada e dalla vita reale. Scrivendo il film abbiamo approfondito il concetto, non a caso in cantina ci sono le memorie del suo passato. Ci sono tanti simboli e metafore, per esempio l’acqua della pioggia, dell’incubo, del Po e del mare. Il film è uscito in Italia a novembre in un periodo difficile. Cosa si aspetta dall’uscita ticinese? Uscirà anche nella Svizzera interna? Per ora esce solo in Ticino. In Italia è uscito in un momento pessimo. Speravamo che la gente tornasse al cinema, invece non lo ha fatto. Il mio pubblico è dai  anni in su, ma sono proprio quelli che non stanno andando molto al cinema. Spero che in Ticino vengano a vederlo. La pandemia e la crescita delle piattaforme stanno cambiando tutto. Sì, il pubblico è diminuito del %. Funzionano solo i grandi film o gli eventi. De Il potere del cane di Jane Campion si è parlato pochissi-

mo, l’ho visto su piattaforma, ma credo che al cinema sarebbe ancora più bello. Negli ultimi anni i film hanno incassato molto meno, persino Tre piani di Nanni Moretti. E se incassano meno, devono costare meno ed è più difficile realizzarli e bisogna farli in poco tempo. / è su Sky e Prime, ma vederlo in sala è un’altra cosa. Sono due modi diversi di guardare un film. Io sono cresciuto vedendo i film al cinema e sono a favore dei cinema. Vi è la ritualità nell’uscire, dedicarci tempo, vedere le luci che si spengono, essere con gli altri al buio e non fare altro che guardare il film. Il peso che gli dai è molto più grande, oltre alla diversa qualità del suono e alla dimensione delle immagini. A casa metti in pausa, mangi, rispondi al telefono, sei distratto, il film è solo un elemento. Chi ha visto È stata la mano di Dio di Sorrentino su uno smartphone non ha visto lo stesso film di chi l’ha visto in sala. C’è un film a cui è più legato e uno che le sembra non sia stato capito? Ogni mio film ha un motivo per cui gli sono legato. Pane e tulipani mi ha fatto conoscere nel mondo. Oggi non credo avrei la possibilità di farlo, mi direbbero che Maglietta e Ganz non sono attori da commedia. L’aria serena dell’ovest, il mio primo, fu fatto con il sudore della fronte. È un mestiere strano, artistico e industriale insieme, e ogni pellicola è un prototipo.

Per coloro che hanno vissuto la performance televisiva () di Marco Paolini sul Vajont, La fabbrica del mondo (Rai, episodi recuperabili) potrebbe avere il retrogusto della nostalgia canaglia. Ma anche qui, come là, si parla della realtà attraverso «un linguaggio che è finzione dichiarata». Il tema è di quelli forti e stimolanti: l’interazione tra noi e l’ambiente naturale, la dinamica della costruzione e della trasformazione del pianeta attraverso la dialettica feroce tra l’uomo e l’ambiente. Si parla di virus e di relazioni tra i viventi, di plastiche, del peso delle cose, del rapporto tra tecnologia ed evoluzione del genere umano, e di tanto altro. Sullo sfondo dell’Agenda  e della Cop, La fabbrica del mondo muove da una domanda fondamentale, cioè se vi sia spazio per una rigenerazione del pianeta attraverso l’uomo, ossia proprio attraverso chi tanto sta facendo per distruggerlo. Quindi, si dà corpo a una forte istanza in favore di una rivoluzione culturale tramite l’immersione nell’oggi e nelle sue emergenze; c’è in filigrana una commovente fiducia nella possibilità di una palingenesi umana nata dalla capacità di un onesto confronto con il presente, ma anche da un soprassalto etico retto dal rifiuto della rassegnazione. Il programma ci ricorda che l’agire umano ha un impatto sul pianeta, che l’uomo plasma a misura delle sue capacità ma anche delle sue debolezze: «Siamo – dice ancora Paolini – in un luogo che noi consideriamo casa: noi lo chiamiamo fabbrica perché è il risultato di tutte le azioni che facciamo. Gli esseri umani hanno raggiunto grazie alla tecnologia, dei livelli di azione che ci fanno associare ad una delle forze naturali, il vento, l’acqua, la grandine o ai mega disastri climatici. Noi siamo un’alluvione, siccità, tifone, ma al tempo siamo anche l’arca». Condanna e redenzione, rompi e ripara, più o meno. La nostalgia di cui sopra deriva dall’aspetto tutto sommato poco teatrale dello storytelling, in cui non sempre si ritrova quella dinamica emozionante del «teatro della narrazione» che tanto ci piacque all’epoca. E questo nonostante alcuni colpi d’ala, quali la dinamica tra Paolini e Gaia, o il coro greco-brechtiano di corvi metallici in controluce. La bella scenografia da archeologia industriale è il corre-

lativo oggettivo dell’emozione un po’ triste che si prova di fronte all’accatastarsi di oggetti che testimoniano la rapida perdita di significato delle cose in cui l’uomo trasforma durevolmente la materia; trovarobato della memoria. La fabbrica del mondo è una suite narrativa sontuosa nel suo minimalismo, che ibrida vari linguaggi in maniera inedita, ben costruita nonostante l’apparente casualità; difficile uscire indenni da parecchi degli stimoli che essa semina sul suo percorso. Ancora maggiori se pensiamo alla presenza (pur poco attoriale) di un divulgatore scientifico eccellente come l’evoluzionista Telmo Pievani e agli interventi di specialisti, in una bella trasversalità culturale che unisce scienziati, epistemologi, scrittori, saggisti, economisti, esploratori; e ricordi di dimenticati eroi del quotidiano, come il medico Carlo Urbani. Tutti a raccontarci questo nostro modo un po’ rozzo di appropriarci delle cose, e di trasformarle, come se il pianeta esistesse sono per il nostro uso, abuso e consumo.

Marco Paolini. (Wikipedia)

È giusto che sia l’uomo a innescare il circolo virtuoso che porti a riparare i torti che sono stati inflitti, per sua mano, al pianeta; non solo per ovvio riflesso di autoconservazione ma anche come necessario imperativo etico. Può comunque consolare la convinzione che il pianeta ci sopravviverà: la presenza umana su Gaia resterà, nella grande dinamica del tempo, una piccola e inessenziale parentesi, un accidente, forse un inciampo e un intoppo. Annuncio pubblicitario

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 24 gennaio 2022

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CULTURA / RUBRICHE

In fin della fiera

di Bruno Gambarotta

Perditempo e perdicose ◆

Quelli che hanno sempre una scusa pronta, ovvero quelli che si auto assolvono. Si dividono in due grandi categorie: i ritardatari cronici e gli smemorati, quelli che perdono gli oggetti o meglio non ricordano più dove li hanno messi. Noi ritardatari siamo i più creativi, poiché è da molto tempo ormai che la scusa del traffico non serve più: perché non hai controllato il navigatore? Una volta, ad agosto, ero in ritardo di due ore buone; solo in casa, a causa del caldo, mi ero addormentato verso l’alba e non avevo sentito la sveglia. In una Torino deserta non era proprio il caso di parlare di traffico. Mi sono inventato che, quando stavo già parcheggiando l’auto, mi ero accorto che avevo perso sangue dal naso, macchiando il vestito. Ero stato costretto a ritornare a casa per ripulirmi. Il mio direttore, ascoltate le mie scuse, esclamò, con un sorriso di trionfo: «Epistassi!». Padroneggiava quel termine, era uno dei

pochi che ne conoscessero il significato, mi era grato perché gli avevo offerto l’occasione di esibirlo. Era fatta. A partire da quel giorno, arrivando trafelato in ritardo, era sufficiente che mi toccassi il naso con un dito per farlo prorompere nel grido: «Epistassi!». A volte basta poco per far felice un uomo. Ho smesso solo quando il direttore voleva a tutti i costi fissarmi un appuntamento da uno specialista. In quella squadra non ero il solo ad arrivare in ritardo. Ho ascoltato colleghi raccontare con voce ancora emozionata che un piccolo aereo in avaria era stato costretto ad atterrare sull’autostrada, bloccando il traffico. Il motto di coloro che si scordano dove hanno messo gli oggetti è: «La casa non ruba, nasconde. Ce l’avevo in mano fino a un attimo fa, non può essere sparito. Stavo rimettendolo al suo posto quando è squillato il cellulare nell’altra stanza». Variante: «Hanno suonato al citofono,

mai nessuno che vada a rispondere. L’ho posato da qualche parte e adesso non mi ricordo più dove». È il momento di umiliarsi e chiedere aiuto: «Se mi date una mano a cercarlo lo troviamo subito». I bambini, con il noto altruismo che li contraddistingue, rilanciano: «Cosa mi dai se te lo trovo?». Per quanto riguarda gli adulti, bisogna distinguere se l’oggetto scomparso interessa in quel momento solo il famigliare che l’ha perso oppure è qualcosa che in quel momento servirebbe a tutta la famiglia. Nel primo caso i grandi hanno tutti qualcosa di più urgente da fare. Nel secondo caso inizia una caccia al tesoro collettiva, guidata dall’esperto in ritrovamenti. «Dunque, vediamo un po’», dice, rivolto all’autore dello smarrimento: «Devi rifare tutti i gesti e tutti gli spostamenti che hai fatto dal momento che hai preso in mano l’oggetto». «Ricordo di averlo notato sul tavolo di cucina e di aver pensato

che quello non era il suo posto. Se in questa casa fossimo tutti un po’ più ordinati queste cose non succederebbero. L’ho preso in mano e mi sono diretto verso il ripostiglio in fondo al corridoio per riporlo nell’armadietto metallico, perché quello è il suo posto». In queste ricostruzioni affiora sempre una vena polemica, quasi a voler scaricare su altri la colpa dello smarrimento. «Andiamo avanti», incita lo specialista in ritrovamenti. «Ricordo che ce l’avevo ancora in mano quando sono passato accanto al ritratto dei nonni e ho notato l’appunto infilato nella cornice: telefonare al dentista per spostare l’appuntamento. Mi sono detto: se non lo faccio subito va a finire che me lo dimentico. Non potevo telefonare con quell’affare in mano. L’ho posato da qualche parte. La segretaria del dentista mi ha proposto un’altra data. Dovevo segnarmela sull’agenda, mi sono ricordato che erano due giorni che non

la trovavo, mi sono messo a cercarla». «Non potevi cercarla dopo?» «No, perché quella mi aspettava al telefono». «L’hai trovata almeno?». «No, ma tanto la segretaria aveva già messo giù. È a questo punto che non mi ricordo più cosa ne ho fatto della cosa che stavo rimettendo al suo posto». «Forse l’hai lasciata nel posto dove stavi cercando l’agenda. Dove la cercavi?». «Non potete pretendere che mi ricordi tutto io». Parliamo invece degli oggetti non di uso quotidiano la cui scomparsa viene segnalata parecchio tempo dopo che qualcuno li ha utilizzati. Il termometro per la febbre o le chiavi della cantina. Una ventata inquisitoria si abbatte sulla famiglia: chi è stato l’ultimo a usare il termometro? Quelli che perdono gli oggetti hanno però un grande merito: il loro ritrovamento scatena una generale felicità. Conosco gente che tiene sempre in frigo una bottiglia di moscato per festeggiare.

Xenia

di Melania Mazzucco

Non siamo ancora pronti ◆

In un taxi, a Toronto. È il , sono venuta per la promozione della traduzione inglese del mio romanzo Vita. Il mio editore canadese mi ha invitato a partecipare al festival Waterfront. Mi fermo alcuni giorni, faccio la solita vita degli scrittori in tour. Una sera prendo un taxi per andare a cena da J.F., giornalista del «Morning Star» e scrittore (figlio di immigrati italiani, ne ha raccontato l’epopea). Fornisco al taxista l’indirizzo, e lui mi risponde in italiano. Anzi, in fiorentino. Salendo, gli avevo lanciato un’occhiata distratta: un africano o un canadese di origine africana. Lo guardo meglio. È un giovane sulla trentina, prestante. Gli chiedo come mai parli così bene l’italiano. Ci ho vissuto sei anni, in Italia, dice, scrutandomi nello specchietto retrovisore, quando capita qualcuno che viene da lì gli chiedo di parlare, così posso sentire la lingua. Qui non la parla nessuno. Nemmeno gli italiani,

che parlano solo il dialetto del loro paese. E io quello non lo capisco. Lo chiamerò Issa. Arrivato in Italia dal Senegal a diciotto anni, in aereo, con un visto turistico (allora ancora ottenibile: la tragica rotta del deserto con passaggio in barcone o gommone nel Mediterraneo era in via di sperimentazione), ci era rimasto. Vendeva oggettini di artigianato forniti da grossisti. Elefanti, leoni, parei colorati, borsette, cappelli. Batteva le spiagge della Romagna, trascinando il suo borsone. La mattina prelevavano lui e i suoi compagni con un furgone, la sera tornavano a prenderli. D’estate dormivano in case malconce ma dignitose sperdute nella periferia di località balneari, d’inverno si trasferivano nelle città, dove esponevano la merce sui marciapiedi. Aveva girato le città d’arte. Era stato a Venezia, Milano, Bologna, Torino, Roma. Ma l’aveva conquistato Firenze. Elegante,

A video spento

signorile, riservata. Aveva deciso di fermarsi. Sempre «clandestino», sempre invisibile. Il suo visto turistico era scaduto. Non aveva avuto possibilità di rinnovarlo o di chiedere un permesso di soggiorno. Né più avrebbe potuto visto che una volta, durante un controllo, scappando era inciampato e l’avevano identificato. Lo avevano espulso. Gli avevano consegnato un pezzo di carta, con su scritto che doveva lasciare l’Italia. Ma uscito dalla questura si era ritrovato libero e solo. Ed era rimasto. Andava tutto bene. Guadagnava abbastanza da poter mandare soldi in Senegal alla famiglia, aveva amici e presto trovò anche una ragazza fiorentina. Doveva a lei l’accento e la padronanza della lingua di Dante. All’inizio del XXI secolo non aveva nemmeno conosciuto il razzismo feroce che si sarebbe risvegliato nel secondo decennio. Essere nero era ancora

un’anomalia, non una colpa. Sognava una casa oltrarno, a Santo Spirito, tra i fiorentini veri. Ma gli anni passavano e lui continuava a vendere elefanti sui marciapiedi, a fuggire alla vista delle divise, a non esistere. Con la ragazza si era lasciato, e non poteva progettare una vita, un futuro. Lo accettavano, sì, ma solo finché fosse rimasto un simpatico venditore ambulante. Invece lui voleva progredire. E più si italianizzava, più accettava le regole di un mondo richiedente e strutturato, più si rendeva conto di restare fermo. L’Italia intera gli pareva ferma, bella, ma pietrificata come i marmi di Santa Croce. Per questo un giorno, quando aveva saputo che il Canada metteva a disposizione un certo numero di visti per l’ingresso legale, aveva fatto richiesta. Con un semplice application form. La domanda era stata accolta. Era in Canada da tre anni. Aveva un lavoro regolare, una casa regolare, documenti

regolari. Si era sposato e aveva un bimbo. La moglie era del Ghana, l’aveva conosciuta qui. Lavorava in banca, allo sportello, perché era arrivata dieci anni prima e si era diplomata. Qui lui era solo Issa. In Italia un ambulante sulla strada – per sempre. Mi manca, l’Italia. Ma ci tornerò solo per le vacanze. Capisci? Conoscevo bene la sua delusione. Anche io a vent’anni volevo andarmene dal «paese del sonno». Però ero rimasta, e avevo lottato ogni giorno per risvegliarmi, e risvegliare. J.F. mi aspettava sulla soglia della villetta. Dalle finestre aperte proveniva un odore familiare di sugo. Ho salutato Issa, e mentre lui prendeva dal radio taxi una nuova corsa, mi sono detta che io sono riuscita a restare perché in Italia ci sono nata. L’Italia non era pronta ancora a capire l’energia del sogno di Issa. Sono passati sedici anni dal nostro incontro. E l’Italia non è pronta ancora.

di Aldo Grasso

Fantascienza o futuro reale? ◆

Che cos’è il metaverso? È un mondo virtuale intimamente connesso con quello reale. È la nuova frontiera del futuro tecnologico, dove le esperienze del web si calano perfettamente nel vissuto reale e completano le vite delle persone. Il metaverso (da non confondersi con il multiverso, l’immaginario degli eroi Marvel) è anche l’obiettivo di numerosi giganti tech, tra cui l’azienda di Mark Zuckerberg, Facebook. La presenza umana nel metaverso, in questa versione avanzata del web, avverrà tramite la generazione di avatar personali. In questo modo l’esperienza sulla rete si avvicinerà sempre di più a quella del mondo reale, a partire dalle interazioni tra i soggetti umani, che potranno accedere a nuove opportunità creative, sociali ed economiche. È fantascienza o il nostro prossimo futuro? Un sogno o un fallimento annunciato? Il termine «metaverso» è un neologismo, formato dalla fusio-

ne di «meta», nel significato di «al di là», e «verso», derivato da universo. Lo ha coniato lo scrittore di fantascienza Neal Stephenson nel romanzo Snow Crash del  per descrivere una dimensione virtuale in cui il protagonista, Hiro Protagonist, tramite il suo avatar socializza, fa acquisti e sconfigge nemici del mondo reale. Stephenson descrive il metaverso come un’immensa sfera nera di ’ km di circonferenza, tagliata in due all’altezza dell’equatore da una strada percorribile anche su una monorotaia con  stazioni, ognuna a  km di distanza. Su questa sfera ogni persona può realizzare in D ciò che desidera, il tutto potenzialmente visitabile dagli utenti. Una realtà virtuale e parallela, un mondo nuovo. Una sorta di Matrix, ma consapevole. In realtà, il concetto di metaverso risale allo scrittore William Gibson, che nel romanzo Neuromancer del  lo popolarizzò

col nome di cyberspazio. «La qualità distintiva del metaverso sarà una sensazione di presenza, come se fossi proprio lì con un’altra persona», ha scritto Zuckerberg in una lettera pubblicata sul sito della società. «Meta» (il nuovo nome della media company) sarà uno dei tanti distributori di piattaforme, software e servizi utili a vivere esperienze completamente virtuali. In futuro, ha aggiunto Zuckerberg, «sarai in grado di teletrasportarti istantaneamente come un ologramma per essere in ufficio senza doverti spostare, a un concerto con gli amici o nel soggiorno dei tuoi genitori a chiacchierare. Non si tratta di passare più tempo davanti allo schermo ma di migliorare la qualità di quel tempo». Come spesso succede, la riflessione più corretta su questi argomenti è possibile trovarla sul «il Post», il sito online diretto da Luca Sofri, che riporta il parere di Matthew Ball, autorevole anali-

sta e venture capitalist statunitense: «È importante capire che il metaverso non è un gioco, né un pezzo di hardware, né un’esperienza online. Sarebbe come dire che World of Warcraft, l’iPhone o Google sono Internet. Sono mondi digitali, dispositivi, servizi, siti Web, eccetera. Internet è un ampio insieme di protocolli, tecnologia, canali e linguaggi, oltre che dispositivi di accesso, contenuti ed esperienze di comunicazione al di sopra di quell’insieme. Anche il metaverso lo sarà». Ancora: «Il Metaverso altererà il modo in cui distribuiamo e monetizziamo le risorse moderne», sostiene Ball, e aggiunge che non accadrà in modo dirompente bensì lentamente nel tempo. Se i social network hanno contribuito al declino di Second Life (il mondo virtuale e online dove le persone, rappresentate da un avatar digitale, potevano esplorare vari ambienti), oggi il multiverso promette invece di superare proprio i limiti dei

social: «Se la protagonista della scorsa generazione è stata la condivisione, per la prossima generazione sarà la partecipazione», ha spiegato Sima Sistani, fondatore di Houseparty, app di videochat acquistata da Epic Games nel . Le interazioni, in questa visione, non saranno più sotto forma di like, commenti e condivisioni, ma vere e proprie esperienze partecipate, vissute in una modalità il più possibile simile al mondo reale, con l’aggiunta delle potenzialità del digitale. Invece di osservare Internet tramite uno schermo, vivremo direttamente al suo interno, sfruttando i visori per la realtà virtuale e utilizzando braccialetti dotati di sensori (come quelli che sta sviluppando Facebook) per interagire fisicamente con l’ambiente virtuale e gli oggetti che si trovano al suo interno. È fantascienza o il nostro prossimo futuro?


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Offerte valide solo dal 25.1 al 31.1.2022, fino a esaurimento dello stock.


Formaggi e latticini

La crème de la crème

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20% Yogurt LC1 Probiotic

Tutto l'assortimento Oh!

disponibile in diverse varietà, per es. arancia sanguigna/ zenzero, 4 x 150 g

per es. pudding High Protein alla vaniglia, 200 g, 1.55 invece di 1.95

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Emmi Aktifit alla banana senza zucchero 6 pezzi, 390 ml

Appenzeller dolce ca. 350 g, per 100 g, confezionato

Tutti gli iogurt Nostrani per es. castégna (alla castagna), 180 g, –.95 invece di 1.05

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Formaggella Blenio «Ra Crénga dra Vâll da Brégn» per 100 g

Sbrinz, AOP per 100 g, confezionato


Pesce e frutti di mare

Dal regno di Nettuno

CONSIGLIO DEGLI ESPERTI conf. da 12

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Latte Drink Valflora UHT, IP-SUISSE cartone, 12 x 1 l

La fondue più amata dalla clie nte la Mig ros

Con il merluzzo non si sbaglia mai: la sua carne delicata e compatta si presta bene per vari metodi di cottura, ad esempio al vapore o a fuoco lento. Altri consigli e maggiori informazioni sono disponibili presso i nostri professionisti al bancone del pesce. Qui i pesci vengono sfilettati, marinati e messi sotto vuoto, a seconda dei desideri della clientela.

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Gamberetti tail-on cotti bio d'allevamento, Ecuador, in conf. speciale, 240 g

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Fondue Moitié-Moitié Vacherin Fribourgeois e Le Gruyère, AOP, 2 x 600 g

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Migros Ticino

Filetti dorsali di merluzzo, MSC in vendita in self-service e al bancone, per es. M-Classic, pesca, Atlantico nordorientale, in self-service, per 100 g

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Dolce e salato

Prodotti tradizionali e molto amati

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LO SAPEVI? Il nome dei biscotti prussiani si riferisce probabilmente alla loro origine geografica. In Germania si chiamano orecchie di maiale, in Francia cuori di Francia e in Italia girelle o ventagli.

Leckerli finissimi in conf. speciale, 1,5 kg

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Choc Midor Carré o Rondo, per es. Carré, 3 x 100 g

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Baby Kisss M-Classic milk o dark, per es. milk, 2 x 15 pezzi, 240 g

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Biscotti prussiani alla spelta bio 300 g, confezionati

Tutti i biscotti Tradition per es. cuoricini al limone, 200 g, 2.70 invece di 3.30


Bevande

20% Tutte le bevande Biotta non refrigerate per es. mirtilli rossi Plus, 500 ml, 3.80 invece di 4.80

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Tavolette di cioccolato Frey al latte finissimo o al latte con nocciole, per es. al latte finissimo, 12 x 100 g, 11.70 invece di 23.40

Tavolette Lindt Les Grandes Noir, Lait o Blanc, per es. Lait, 150 g, 3.40 invece di 4.25

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Pe r se r par t ic olarm at e T V e nt e lung he

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Peanut M&M's in conf. speciale, 1 kg

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Maltesers in conf. speciale, 400 g

Succo d'arancia Anna's Best 2 litri

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30% Tutto l'assortimento di acqua minerale Valais per es. senza anidride carbonica, 6 x 750 ml, 4.– invece di 5.80

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Tutte le Grether’s Pastilles

Pastiglie per la gola

per es. Blackcurrant senza zucchero, 4.45 invece di 5.90

220 g e 110 g, per es. cassis, sacchetto, 220 g, 4.50 invece di 5.60

Migros Ticino

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Coca-Cola Classic o Zero, 24 x 330 ml, per es. Classic

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Scorta

Fai la scorta di alimenti ed energia

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Gnocchi di patate Di Lella 500 g

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20% Fettine di verdure e patate o macinato vegano bio per es. fettine, 2 x 3 pezzi, 360 g, 5.70 invece di 7.20

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Menu ai tortellini Anna’s Best spinaci o cinque pi, per es. spinaci, 365 g

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Dressing Anna's Best

Tutti i tipi di aceto e i condimenti Ponti

Caesar, Vinaigrette o Thousand Island, per es. Caesar, 500 ml, 4.75

per es. aceto balsamico di Modena, 250 ml, 3.60 invece di 5.20

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Lasagne Buon Gusto

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surgelate, alla bolognese o alle verdure, per es. alla bolognese, 2 x 600 g, 6.60 invece di 9.90

surgelati, con pollo o verdure, per es. con pollo, 2 x 6 pezzi, 2 x 370 g, 9.80 invece di 14.–

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Delizia ve gana , con se mi, cioccolato fondnoci , ente e guaranà conf. da 3

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Tutte le capsule Café Royal

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disponibili in diverse varietà, per es. Lungo, 10 capsule, 2.80 invece di 3.95

Noci miste o Cranberries, per es. Noci miste, 3 x 200 g, 8.60 invece di 12.90

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Barrette Schock's Bio Guarana Boost, Matcha Boost o Goji Power, per es. Guarana Boost, 35 g, in vendita nelle maggiori filiali

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30% Miscela per brownies Homemade

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Tutte le gallette di riso e di mais per es. gallette di riso M-Classic, 130 g, –.60 invece di –.80

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e cacao Pasta di nocciolerote ine da mag ro ricc a di pl pane spalmare su

Tutto l'assortimento Mister Rice bio per es. Basmati, 1 kg, 4.30 invece di 5.40

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Barrette proteiche Barebells disponibili in diverse varietà, per es. Salty Peanut, 55 g, in vendita nelle maggiori filiali

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High Protein Creme Oh! nocciola 270 g

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Barretta proteica Rxbar Chocolate Sea Salt, Coconut Chocolate o Peanut Butter, per es. Chocolate Sea Salt, 52 g, in vendita nelle maggiori filiali

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Tutto l'assortimento di alimenti per lo sport Sponser per es. High Energy Bar Salty+Nuts, 45 g, 1.75 invece di 2.30

Granola o barrette Raw Press vegane, disponibili in diverse varietà, per es. Pronut Cacao Crunch, 50 g, 2.95, in vendita nelle maggiori filiali

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Bellezza e cura del corpo

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Tutti gli shampoo o i balsami Elseve per es. shampoo Color-Vive, 2 x 250 ml

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per es. compresse orosolubili contro il mal di gola, 20 compresse, 3.– invece di 3.95

per es. balsamo del cavallo Medic, 350 ml, 6.70 invece di 8.90

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