8 minute read
In fin della fiera
Da sessanta anni a questa parte i Papi viaggiano. Gennaio 1964. Il primo papa a viaggiare in aereo fuori dai confini dell’Italia è Paolo VI. Faccio parte della squadra Rai incaricata delle riprese. Il 26 dicembre 1963 sbarchiamo in Giordania. La città di Gerusalemme era ancora divisa e i luoghi santi erano in gran parte nel lato giordano. La nostra non sarebbe stata una diretta ma una «diretta differita»: non giravano ancora i satelliti. Un’auto della polizia portava di corsa le bobine di nastro magnetico con la registrazione delle riprese all’aeroporto di Amman. Imbarcate su un jet dell’aeronautica italiana andavano a Ciampino. Un’ultima tappa portava le bobine alla sede Rai di via Teulada. E da lì finalmente erano mandate in onda. Come ultimo arrivato ero assegnato ai compiti meno impegnativi. Stando in cima ad un’altissima torre di tubi Innocenti, dovevo riprendere dall’alto l’arrivo di Paolo VI alla porta di Damasco;
Voti d’aria
sceso dall’auto il papa avrebbe dovuto iniziare a piedi il percorso della Via Crucis. Ai primi segnali dell’arrivo del papa, una gran massa di giovani si arrampicò sulla mia torre, grappoli umani sbilanciati in avanti. L’auto di Sua Santità all’ingresso della Porta era così pressata dalla folla che Paolo VI non riusciva a uscirne. C’era gente sdraiata sul cofano. Dopo molti sforzi gli addetti alla sicurezza riuscirono ad aprire lo sportello e a farne uscire il papa che si incamminò mentre dietro di lui il cardinale armeno Grigorij -Peter Aghajanyan, piccolo di statura, veniva gettato a terra. Rientrato a Torino ho letto i servizi su «Stampa» e «Corriere della Sera». Non raccontavano il caos, la confusione, gli ordini dati e subito revocati. I nostri grandi inviati erano partiti dall’Italia con i compiti fatti e trattandosi di un evento che non aveva precedenti, avevano impostato le loro sviolinate sui racconti dei Vangeli. Il primo servizio di Dino
I tre talismani di Calvino
Lezioni per il prossimo millennio. Sì, lezioni per gli anni Tremila. Potrebbe essere un nuovo libro di Italo Calvino a cent’anni dalla sua nascita. Provate ad andare su YouTube, digitate «Calvino Sinigaglia intervista» e troverete una sorpresa (6+++). Siamo nel maggio 1981, immagino nel salotto della casa romana di Calvino. A intervistarlo per la Rai è il giornalista Alberto Sinigaglia: Calvino lo vediamo tentennante, bofonchiante, è un uomo dalle lunghe pause, anti-televisivo, persino un po’ imbarazzante nei suoi impacciati silenzi (6), risponde sbattendo le ciglia di continuo, con tono incerto e però pacato. Immaginarlo oggi in un talk show sarebbe impossibile. Fatto sta che all’ultima domanda di Sinigaglia su quali sono i tre talismani per il Duemila, sapete cosa risponde Calvino? Sbattendo le ciglia, muovendo gli occhi per qualche interminabile secon- do, facendosi molto serio dopo aver accennato a un sorriso, risponde: «Mah! Imparare delle poesie a memoria, molte poesie a memoria, da bambini, da giovani, anche… anche da vecchi, perché le poesie fanno compagnia e uno se le ripete mentalmente, e poi lo sviluppo della memoria è molto importante». E qui il 6+++ si innalza fino al cielo di un 10 memorabile. Perché se la memoria è importante, bisognerà memorizzare anche questo primo consiglio di Calvino per affrontare il futuro: imparare molte poesie a memoria. E poi? «Anche fare dei calcoli a mano, delle divisioni, delle estrazioni di radice quadrata, fare delle cose anche molto complicate». Terzo? Terzo: combattere l’astrattezza del linguaggio che ci viene imposta ormai da tutte le parti. Infine, dopo tanti «ehm…» e tentennamenti, c’è un quarto punto: «Sapere che tutto quello che abbiamo ci può
A video spento
Buzzati è dedicato all’affannosa ricerca di una cabina telefonica dalla quale dettare l’articolo. Non c’erano né satelliti né cellulari: il primo impegno di un inviato consisteva nel trovare un telefono.
Il 5 gennaio era in programma l’incontro fra il papa e Atenagora I, patriarca di Costantinopoli, presso la Legazione apostolica situata accanto all’orto del Getsemani. L’accumulo dei ritardi nel corso della giornata fa slittare l’evento di tre ore, creando un grande nervosismo nei nostri capi. Terminate le riprese dobbiamo smontare l’impianto, spostarci di trenta chilometri per andarlo a montare a Betlemme dove, all’alba del 6 gennaio, il papa deve officiare la Santa Messa nel santuario della Natività prima di rientrare a Roma. Mi piazzano su un piccolo trabattello eretto sulla porta esterna della Legazione per riprendere l’arrivo dei due protagonisti. All’interno, in una sala affol-
di Bruno Gambarotta
lata all’inverosimile di inviati e di fotografi, si svolge l’incontro pubblico. Poi fuori tutti: l’incontro deve proseguire senza testimoni. Senonché, nella generale concitazione, il microfono servito a diffondere i reciproci saluti è rimasto aperto. Così io, l’ultimo in ordine gerarchico della squadra, avendo ancora le cuffie in testa, ho modo di sentire le frasi scambiate in un francese scolastico dai due santi uomini. È impensabile che qualcuno entri nella sala a spegnere il microfono. L’ingegnere a capo della nostra spedizione non solo mi ordina di togliermi le cuffie, mi fa giurare che non avrei mai rivelato cosa si erano detti i due. Ma il destino aveva in serbo per me ancora un incontro con il Santo Padre. Terminata la registrazione dell’evento abbiamo dimenticato nella sala dell’incontro un piccolo baule contenente l’obbiettivo zoom di una telecamera. Tocca a me recuperarlo. Entro e sto per scostare una tenda quando intravvedo che in quella stessa sala le suore hanno allestito un tavolo da pranzo e stanno servendo a Sua Santità un risotto alla milanese. Da fuori arriva concitata la voce del caposquadra: «Dove si è cacciato Gambarotta? Se fra dieci minuti non si fa vivo noi andiamo». Vogliamo scherzare? Mi faccio coraggio, scosto la tenda ed entro. Il papa è lì, a tre metri, alza il viso e smette di mangiare. Gli dico, indicando la scatola rettangolare posata sul pavimento: «Santità, lo zoom!». Lui non replica, in quella missione deve averne viste di tutti i colori, c’è mancato poco che la folla si spingesse fin dentro le acque del Giordano. Mi chino, afferro per il manico la cassetta, tento una sorta di genuflessione ed esco camminando all’indietro per non voltargli le spalle. Ancora adesso, dopo tanti anni, mi domando cosa avrei fatto se sua Santità mi avesse rivolto la domanda: «Vuol favorire?». essere tolto da un momento all’altro… naturalmente goderlo, non dico mica di rinunciare a niente… anzi… però sapendo che da un momento all’altro tutto quello che abbiamo può sparire in una nuvola di fumo».
In un documentario girato a Parigi nel febbraio 1974, Calvino diceva di aver sempre sognato l’anonimato di chi scompare nella folla della metropolitana parigina. E anzi aggiungeva che l’invisibilità era il suo ideale: «Io quando mi trovo in un ambiente in cui mi posso illudere di essere invisibile mi trovo bene, proprio tutto il contrario di come mi sento in questo momento con la telepresa che mi inquadra, inchiodato alla mia fisicità, alla mia faccia. Credo che agli scrittori essere visti di persona non giova affatto (…). Del resto, di Shakespeare non abbiamo neanche un ritratto che ci faccia capire bene che faccia avesse e anche
L’atomica e il compito dello scrittore
La paura di un’escalation della guerra in Ucraina, la dichiarazione di Putin di aver messo in stato di allerta l’arsenale nucleare e l’attacco alla centrale di Zaporizhzhia sono tutti eventi che hanno riportato in Occidente la paura di un conflitto nucleare. Ed è probabilmente dalla crisi di Cuba che non si respirava un clima così teso a livello mondiale.
Per la prima volta, dalla fine della guerra fredda, le persone si stanno confrontando con una delle minacce più angoscianti e terribili. Anche le giovani generazioni si trovano a far fronte, dopo la pandemia, a un nuovo problema globale. Questo spiega anche il numero alto di serie televisive che raccontano un mondo distopico, un mondo di sopravvivenza successivo a un’immane catastrofe: un conflitto nucleare su larga scala rappresenterebbe la fine completa della civiltà e l’assenza di una continuità verso il futuro.
Si ricomincia a parlare di paura della «bomba atomica», un argomento su cui in passato esisteva una ricca bibliografia, a partire da Elsa Morante: il saggio Pro o contro la bomba atomica risale a un ciclo di conferenze che Morante tenne nel 1965, edite da Adelphi nel 1987 con una prefazione a cura di Cesare Garboli.
Partiamo dall’incipit: «Allora non c’è dubbio che il fatto più importante che oggi accade, e che nessuno può ignorare, è questo: noi, abitanti delle nazioni civili nel Secolo Ventesimo, viviamo nell’èra atomica. E veramente, nessuno lo ignora: tanto che l’aggettivo atomico viene ripetuto in ogni occasione, perfino nelle barzellette e sui rotocalchi. Ma, riguardo al significato pieno e sostanziale dell’aggettivo, la gente, come succede, se ne difende, per lo più, con una (del resto, perdonabile) rimozione. E anche quei pochi che riconoscono l’effettiva minaccia che esso significa, e se ne angosciano (e per questo, magari, vengono considerati dagli altri dei nevrotici, se non dei matti) anche quei pochi, però si preoccupano piuttosto delle conseguenze del fenomeno, che non delle sue origini, diciamo biografiche, e dei suoi riposti motivi».
Il punto nevralgico, ieri come oggi, è la coscienza. È necessario interrogarla di continuo, è necessario che la seduzione immaginativa non sia sopraffatta da quella scientifica, considerando inevitabile il concetto di «disgregazione». Alla forza distruttiva della bomba la scrittrice oppone la potenza creatrice dell’arte e quindi si vanta, con una consapevolezza tenace, di appartenere alla categoria degli «scrittori».
Fa una netta distinzione tra scrittori e scriventi, rivendicando la categoria dei primi come degli unici che davvero si occupino della realtà.Gli scritto- i dati biografici che abbiamo su di lui dicono ben poco. Invece ora lo scrittore ha occupato il campo e il mondo rappresentato si svuota». Ho ascoltato più volte, Calvino dice proprio «telepresa», una parola che non avevo mai sentito per «cinepresa». E rinuncia a usare il congiuntivo con il verbo credere («credo che… non giova affatto»).
L’incertezza apparente del suo parlare contrasta con la limpidezza delle sue idee esattamente come l’assertività di tanti ospiti dei talk show nasconde la mancanza di idee.
«Tutto può sparire in una nuvola di fumo»… Pensate che prezioso talismano da portarsi nel prossimo millennio: «Tutto può sparire…». Chissà se un genio come Elon Musk (1 di stima) conosce questa semplice e abbagliante verità. La Tesla può sparire in una nuvola di fumo. Twitter può sparire in una nuvola di fumo. Persino un patri- monio, come il suo, di 184,9 miliardi di dollari, può sparire in una nuvola di fumo. Anche i 122,7 miliardi di Jeff Bezos, i 106,6 di Bill Gates, i 64,4 di Mark Zuckerberg possono sparire in una nuvola di fumo. E anche questi miliardari in t-shirt possono sparire in una nuvola di fumo, anzi spariranno di sicuro in una nuvola di fumo del valore finanziario equivalente ai loro stratosferici patrimoni. Sempre che il genio di Elon Musk non inventi un marchingegno tecnologico che garantisca ai suoi compagni di classe (sociale) l’immortalità (4– all’immortalità), anche i tycoon pufff… spariranno in una nuvola di fumo (6+++ al pufff… e anche alle nuvole di fumo). Più difficile che sparisca un famoso verso di Eugenio Montale che dice: «Svanire è dunque la ventura delle venture». Da mandare a memoria per il prossimo millennio. ri, ribadisce Morante, sono gli unici che possono impedire la disintegrazione della coscienza umana. Nella confusione frammentaria, sempre più alienata del presente, la scrittrice sostiene che è compito degli intellettuali e degli artisti restituire l’integrità del reale attraverso «quell’integrità unica e segreta di tutte le cose», che è rappresentata dall’arte. Curiosamente, anche Alberto Moravia si è occupato di «bomba atomica». Su invito della Japan Foundation nell’ottobre 1982 Moravia compie con Dacia Maraini un viaggio in Giappone. La visita a Hiroshima, dove peraltro era già stato, lascia su di lui una traccia profonda. La lapide dei martiri della bomba, che reca la scritta «Riposate in pace perché non ripeteremo l’errore», gli fa prendere coscienza del nesso, fino ad allora ignorato, tra la propria opera letteraria e «la tentazione del suicidio della specie».
La questione nucleare diventa così l’epicentro del suo impegno politico e civile degli ultimi anni. Scrive contro la guerra e contro la bomba atomica in una serie di interviste, articoli e inchieste, apparsi, tra il novembre 1982 e il dicembre 1985, sui maggiori quotidiani e settimanali italiani. Scritti raccolti nel volume postumo, curato da Renzo Paris, L’inverno nucleare (1986): «Sono uno scrittore e mi è sembrato naturale servirmi della scrittura per combattere una guerra di liberazione dalla guerra».
Moravia considerava il problema nucleare una questione di carattere metafisico perché comporta l’idea di convivenza con il suicidio dell’umanità. Per questo c’è un solo modo per frenare la «disgregazione»: considerare l’atomica come un tabù, al pari dell’incesto. Purtroppo, non era e non è un tabù.