Un prete qualunque

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FRANCESCO ROSSI UN PRETE QUALUNQUE (Romanzo)

Alla “simpatica” memoria di Don Tarquinio: un prete “vero”, per niente “qualunque”, al quale questa storia, molto “liberamente”, è ispirata!

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Ogni possibile riferimento ad eventi o a personaggi storici o a situazioni di fatto va considerato come ricompreso all’interno di un contesto fondamentalmente letterario, frutto della fantasia dell’autore.

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Capitolo terzo

Confermazione Il ritorno alla “vita normale” dopo la fine della guerra per Don Libertino era stato scandito dal rientro a casa. Alla gioia per aver riabbracciato i propri cari sopravvissuti allo “sconquasso” del conflitto era presto subentrato l’impegno per il suo primo incarico da sacerdote diocesano in un paese poco lontano da quello di origine: non avrebbe infatti potuto esercitare un mandato pastorale nella comunità in cui era nato ed era vissuto fino all’ordinazione prima di cinque anni. All’inizio della sua “carriera ecclesiastica” non avrebbe certo potuto aspirare a nulla di più di una collaborazione con il parroco in carica in qualche paese di provincia, dove, magari, l’avrebbe confortato la prospettiva di subentrargli una volta che l’anziano prete, titolare della parrocchia, non fosse stato più in grado di svolgere da solo tutti i compiti connessi con il mandato pastorale. Così infatti era accaduto: Don Libertino fu assegnato a fare da vice al parroco di un paese vicino a quello d’origine come primo incarico quale sacerdote. Rispetto alle miserie che aveva avvertito indirettamente nella Grande Città in periodo di guerra, in un ambiente più “dimesso” quale quello che lo accolse a partire dal 15 settembre del 1944, giorno della Beata Vergine Maria Addolorata, avrebbe avuto modo di immergersi direttamente nel vissuto di una piccola comunità, non certo rimasta immune dalle sofferenze lasciate dal conflitto. Borgo rurale come all’epoca tutti quelli della Valle che attorno alla Città che le dà il nome si spinge quasi fino alla costa, uno dei tanti Castelli che da secoli ne formavano il territorio di campagna nel “cuore” della Marca Anconetana, all’apparenza gli era sembrato un paese qualunque, tra quelli nei quali si sarebbe sentito alla stregua di un umile esecutore di un mandato con ben poche aspettative di gratificazione personale. La situazione storica, del resto, non consentiva che si fantasticasse di progetti pastorali ambiziosi, con l’intento di evangelizzare più di quanto la tradizione non avesse già operato in questo senso. In un borgo un po’ isolato in collina dell’entroterra della Marca Anconetana, come quello in cui avrebbe intrapreso la sua prima “missione apostolica”, al ruolo del prete veniva assegnata una funzione fondamentalmente di rappresentanza, a parte l’autorevolezza di cui era “spontaneamente” considerato depositario dalla popolazione, per lo più composta, ovviamente, da contadini mezzo analfabeti, se non appena scolarizzati. 3


I figli di questa povera gente non potevano di sicuro aspirare a ben più di un’istruzione elementare, garantita da quel “presidio” che esercitava la funzione di “scuola rurale”: benemerita iniziativa del Regime appena eclissatosi, che però, almeno, aveva consentito una rigida alfabetizzazione primaria a generazioni di alunni “di campagna”. Il prete in generale, parroco o “attendente” che fosse, veniva ritenuto, come in realtà era, una delle poche, se non l’unica, persona dotata dell’istruzione sufficiente per informare e “fare opinione” rispetto alla comunità formata dalla “gente semplice” del luogo. Nel “clima” di accese contrapposizioni degli anni immediatamente successivi alla fine della guerra anche in un piccolo paese la figura che rappresentava in loco l’Istituzione ecclesiastica godeva, poi, di quel rispetto che ad essa proveniva dalla considerazione presso il “gregge” dei fedeli di impersonare una missione di rilevanza superiore a quella della pura e semplice curatela di anime. Anche nelle occasioni del vivere più quotidiano al prete si ricorreva per ottenere quasi una “sanzione di ufficialità” alle circostanze più rimarchevoli della vicenda collettiva e familiare, in cui i singoli erano in vario modo ed a diverso titolo inseriti. “Rituali” di aggregazione tra i più comuni, del genere di cerimonie organizzate per

celebrare ricorrenze della vita “di casa” come di paese, non potevano non prevedere la presenza “qualificata” del parroco. Appunto quest’ultimo si era in lunghi anni di mandato pastorale conquistato la stima e, quasi, la venerazione del popolo cristiano affidatogli, ma un “avventizio della tonaca” sicuramente avrebbe, almeno in avvio, trovato non poche difficoltà nel conseguire nell’animo dei fedeli uno spazio corrispondente a quello che il più anziano “collega” da tempo si era riservato. Il “pretino fresco fresco” di studi romani in un contesto quale quello della miseria postbellica, per giunta in un paese di campagna dell’entroterra di Marca, appariva un “lusso” persino immeritato per il rude “gregge” d’anime di una piccola parrocchia rurale. Del resto, l’impeccabile “cera” che Don Libertino aveva da subito sfoggiato lo faceva apparire agli occhi della gente non tanto un “vanesio” confortato dal ruolo di rispetto che la funzione sacerdotale gli comportava, quanto piuttosto un privilegio in più per i fedeli sottoposti in qualche modo alla sua “cura”, da “esibire” con orgoglio a confronto con le comunità vicine, piccole e rurali alla pari di quella che aveva avuto l’onore di accoglierlo. Certo di “apprendistato” si sarebbe trattato per lui, alle prese con il primo servizio da “ecclesiastico confermato” nelle sue prerogative per “investitura seminariale”, ma pur sempre di una “militanza” dalla quale avrebbe dovuto attingere le motivazioni più profonde, per poi “spiccare il volo” verso altro più prestigioso e “maturo” incarico.

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Negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, una volta superata l’“emergenza” della Ricostruzione, materiale e morale, dopo le divisioni fratricide dell’ultimo periodo di ostilità, si stavano schiudendo all’azione della Chiesa, per la “conquista delle coscienze”, spazi di autonomia insospettabilmente vasti, sempre che si fosse vinta la “concorrenza” nella medesima direzione dell’Antagonista più temibile in fatto di formazione di una coscienza civile e di educazione ai valori di una morale, pubblica ed individuale, condivisa. Al senso di fratellanza, da cui veniva a priori esclusa qualunque connotazione di parte, che aveva sostenuto il fronte antifascista nelle ultime fasi della guerra si era infatti gradualmente sostituita una divisione, persino “manichea”, tra opposte visioni del mondo, quasi due Chiese di segno radicalmente contrario. Certo, nei piccoli paesi la crudezza di una contrapposizione, anche violenta, tra schieramenti “avversari” lasciava il posto ad un ardore polemico che, pur nei casi di più acceso dispiegamento, non oltrepassava “regolarmente” i limiti di una contesa più retorica che di effettiva “concorrenza”, a scopo di “proselitismo” ideologico. Anche “animati” scontri verbali finivano ordinariamente in una “divaricazione” quasi per “appartenenza indotta”, per emulazione, magari perché si veniva trascinati da una parte più che dall’altra semplicemente per il rispetto o l’ammirazione che legava i singoli a qualche figura ritenuta più autorevole all’interno della “fazione” più “accessibile”. Il parroco in questa più “mimata”, che realmente “combattuta”, contesa di “spiriti” e di umori sull’attualità poteva “giocare” un “ruolo strategico”, nel senso che godeva del prestigio ideale per spostare nel proprio “campo”, più affine per valori alla prospettiva della visione cristiana della Storia e della vita associata, un numero consistente di “neutri spettatori”, quella “maggioranza silenziosa” di attendenti che durante il fascismo ed a guerra ancora in corso si era rivelata determinante per orientare l’“epopea” della Resistenza verso un ancoraggio moderato rispetto a quello che si riconosceva nell’attuazione della rivoluzione del proletariato. Del resto, il parroco poteva contare su un’“arma segreta” al servizio della Causa della “restaurazione borghese” in seno agli equilibri della ricostruenda società italiana postbellica: gli era concesso, cioè, di avvalersi della voce che avrebbe ricondotto alla “ragionevolezza” “teste calde” infatuate dalla prospettiva della rivincita delle masse lavoratrici per il futuro assetto da conquistare alla vita nazionale, “depurata” dalla “purulenta infiltrazione” del fascismo. Al parroco era attingibile, con la facilità della predica e del “sussurro confidente” alle “orecchie discrete” delle madri e delle spose, la “sepolta nel silenzio”, per antica tradizione, “spiritualità domestica” femminile. Quando c’era da intervenire per riportare sulla “retta via” qualche caro “traviato” dalla militanza giovanile nel fronte dell’intransigenza “iconoclasta” rispetto agli inveterati “rapporti di forza” nella società e della irreligione, professata con disprezzo per le forme 5


secolari di un mortificante “servaggio” delle coscienze, era infatti al prete che le “donne di casa” si rivolgevano, per “espiare” l’infamante sciagura di un “sovversivo” in seno alla famiglia. Il “pretino piovuto” di bel nuovo da Roma faceva in questo senso più paura del parroco di lunga data e di provato valore nel “campo avversario”. Il fatto che ancora non si conoscesse a fondo da parte dei più in loco rappresentava un’incognita incontrollabile, tanto più inquietante nel senso che sarebbe risultato meno ricattabile del vecchio parroco, per eventuali “trascorsi ideali” nell’area della Conservazione. Del resto Don Libertino, almeno fino a quel momento, non aveva pensato ad altro che a studiare, avendo incontrato come riferimenti ideali, anche tra i più “aperti” alle “novità” del pensiero e del mondo moderno, soltanto figure di prelati, quelli che avevano contribuito alla propria “vocazione” come quelli che ne avevano istruito il bagaglio di esperienze conoscitive e spirituali negli anni del Seminario e, quindi, in quelli della più avanzata formazione teologica. Non si poteva pertanto nemmeno speculare su trascorsi che sarebbe stato difficile persino ricostruire, dato che la fama di quel sacerdote “misterioso”, immediatamente prima e dopo l’arrivo in paese, non aveva portato con sé notizie di “gesta eroiche” o di “discorsi memorabili” dichiaratamente “schierati” pro o contro l’impegno per una Causa appena un po’ “indipendente” dai rigidi dettami della dottrina e del magistero ecclesiastici. Un “prete qualunque”, quindi, era stato affiancato al parroco ormai in procinto di ritirarsi a “vita privata”, perché forse con le “armi” della parola e dell’esempio il popolo di Dio si sarebbe preparato a “passare dalla parte giusta” nell’imminenza del “riposizionamento” della società italiana al momento opportuno nell’ottica dei cattolici, per farsi trovare pronti all’atto di “dettare” le norme che avrebbero regolato le sorti collettive ed individuali nella rinata vita italiana, una volta rinnegata la dittatura nazionalista e corporativa. Certo, elaborare queste prospettive in un contesto angusto come quello di un piccolo paese di campagna non avrebbe sminuito in nulla una “deriva” che, si avvertiva, si sarebbe estesa con ben più ampio “respiro”. Era proprio dal “piccolo mondo antico” dell’immutabile, almeno all’apparenza, esistenza “da cortile” che gradualmente si sarebbero propagati a tutta una Nazione, in attesa del proprio orientamento ideale da imporre come maggioritario, una mentalità, un modo di sentire, una cultura nel senso più “ordinario” del termine, funzionali all’affermazione di un’egemonia ideologica radicata e tale da penetrare nei più vasti strati della popolazione civile.

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Sotto la tonaca di un prete appena “fatto” poteva quindi nascondersi tutto un mondo di finzione, da smascherare con la più vigile attenzione. La fervida fantasia di qualche politicante “malato di spionaggio” avrebbe magari speculato sul fatto che l’abito talare celasse la “controfigura” di un emissario di organizzazioni “vocate” per “missione statutaria” ad infiltrare propri “uomini di fiducia”, assolutamente insospettabili, nel “campo avverso”. Un “prete qualunque” avrebbe più di altri potuto generare sospetti inquietanti attorno alla propria persona: perché inviato da Roma in un piccolo paese di provincia, una sorta di “guardia bianca” messa a proposito in una posizione “defilata”, dalla quale “anticipare” meglio, con indisturbata “quiete”, da un’angolazione assai “riservata”, l’evoluzione degli eventi in un contesto come quello derivante dalla fine della guerra, tanto più singolare in quanto era stato preso “a pretesto” quale luogo privilegiato di osservazione proprio un’insignificante, minuscola comunità “di periferia”…? Troppo “libera” era infatti apparsa fin dalla sua prima comparsa la condotta del nuovo prete. Non che avesse destato il dubbio che non si trattasse di un sacerdote vero e proprio, dotato di tutti i crismi per operare in “autentica” legittimità di mandato; nessuno avrebbe infatti seriamente eccepito che tale non potesse essere ritenuto a pieno titolo. C’era però qualcosa nel suo modo di fare abituale, a giudizio degli animi più accorti nello scrutare tra le “pieghe della tonaca”, più d’un segno inquietante il quale destasse qualche sospetto in merito alla rispondenza al “rigore dogmatico” che, all’epoca specialmente, si associava alla figura di un prete qualunque. L’aspetto fisico stesso ne rivelava dei tratti per cui si sarebbe pensato che alla giovinezza si fosse, quasi artificialmente, sovrapposta la cera di un’incipiente maturità, al limite di una senescenza precoce. Non troppo slanciato nel profilo, Don Libertino assommava infatti in sé taluni aspetti che sembravano dichiararne esplicitamente l’età giovanile, ma non dava l’idea, ad un’attenta osservazione, che la propria figura tradisse completamente, senza possibilità di equivoco, i suoi anni. Una certa avvenenza avvertibile nei tratti del viso si presentava come “attutita” da una, per così dire, ottusità di fondo, se la bellezza del viso veniva accostata alla modesta, nel complesso, estensione dei lineamenti nel resto della figura. Non alto si poteva certo definire, forse perché la particolare conformazione del capo ne “atterrava” quasi la tensione del corpo ad un ben diverso slancio, che in realtà si aveva l’impressione che fosse stato come rattenuto dalla “zavorra” della testa, sagomata in modo da rendersi alla vista un blocco geometrico irregolare, a metà tra il parallelepipedo “incavato” ai lati e la sfera alquanto schiacciata “sui fianchi”. 7


Si sarebbe ipotizzato che una simile difformità di alcuni tratti fisici, tra i più appariscenti quelli che culminavano in una “calotta” del genere, derivasse da una tensione allo studio ed alla riflessione, che ne aveva quasi modificato i lineamenti originari. Allo stesso modo si sarebbe potuto legare questo “lato” poco “edificante” della personalità di Don Libertino ad un’infanzia comunque stentata che, se non proprio “attanagliata” dalla miseria, tuttavia era stata messa a dura prova dalle privazioni conseguenti al regime di vita “austero” del primo dopoguerra. Entrambe le analisi avrebbero, magari, trovato un accordo nella combinazione reciproca di circostanze che non ne avevano favorito particolarmente, ad età ormai adulta, la prestanza dell’aspetto fisico. In fondo, l’abito talare costantemente indossato si sarebbe osservato che, in qualche modo, contribuisse, anche se, per lo più, in virtù di un’“illusione ottica”, ad elevarne la statura, come “compressa” dall’“imposizione” di quel masso di pietra levigata calato pesantemente su un corpo a far da piedistallo raccorciato ad una simile “ogiva scintillante”. Non che cominciasse a mostrare i segni di una calvizie incipiente, ma si aveva l’impressione che la peluria diffusa sul capo, ancora nel “vigore cromatico” degli anni andati, tendesse a diradarsi, lasciando spazio alle prime, localizzate ai margini, formazioni di incanutita “cespugliatura”. Il cappello nero ad ampia tesa che indossava quando era impegnato in “occasioni di rappresentanza”, al di fuori dell’ordinario servizio parrocchiale, pareva poi che ne ingigantisse quell’attitudine, già marcatamente visibile nel suo portamento abituale, a dissimulare il proprio recondito pensiero. Uno “sgrondo” troppo pronunciato quel copricapo sembrava offrire ad una mente predisposta all’“ombreggiatura” della discrezione, connaturata nella personalità dell’ecclesiastico, ma probabilmente dell’uomo in sé, al di là della particolare “missione” che gli era stata affidata. La tesa che si sporgeva ampiamente attorno al “cocuzzolo tornito” della sommità del cappello pareva simulare un risvolto commisurato all’insondabile profondità dell’universo che vi si premeva in interiore convessità di rilievo. Lucida, infatti, la “cupola”, come più opaca, infeltrita, risultava la “corona” piatta che gravitava attorno alla “protuberanza metafisica” della “lievitata mezza tiara” da una “palude” di fosca ambiguità di tessuto “armato” in prospettiva. Impressioni del genere avrebbero potuto facilmente dare adito, specialmente in un occhio sperimentato alla malizia dell’“osservazione speculativa”, alla “filatura” di una “trama” di mistero applicata alla figura, per l’ordinario alquanto “anonima”, di un prete “di campagna”. 8


Era però, in fondo, proprio da questa “vantata” normalità che nascevano le fantasie più astruse attorno ad una figura del genere, tanto più se si considera che ci si stava incamminando verso quella che veniva presentata come la “resa dei conti” epocale, per determinare il futuro assetto della società italiana. Don Libertino stesso, nel “grigio” esercizio delle sue funzioni sacerdotali, pur vicarie ancora rispetto al parroco in carica, si stava dirigendo a passi spediti verso la soglia dei trent’anni. Non che il prossimo “traguardo” ne avesse accelerato un incanutimento “di facciata”, il quale ne avrebbe anticipato l’“aura” di austerità che la maturità avanzata inevitabilmente comporta, ma stava sempre più decisamente sviluppando dei tratti peculiari di quello che sarebbe diventato, negli anni avvenire, il suo carattere distintivo. Anche per stemperare quel “clima” di “plumbea ombrosità” che si era creato, piuttosto peraltro involontariamente, attorno a sé, aveva infatti cominciato a distribuire a destra ed a manca “santini di fraternità”, che nel suo caso non coincidevano propriamente con le immaginette che si usava ancora donare ai piccoli all’uscita dal catechismo, al fine di rafforzarne lo spirito di emulazione rispetto a Santi per i quali si raccomandava particolarmente la loro devozione, perché onomastici o perché “adatti” a temprare, con l’esempio sperimentato, qualche lato del carattere dei singoli “discepoli”, come del resto il suo parroco aveva fatto regolarmente con lui. Le “perle più preziose” nascoste nell’animo di Don Libertino presero a manifestarsi in pubblico attraverso un’attitudine alla facezia ed alla battuta di spirito, un aspetto della personalità del prete che non era emerso con la nettezza del “poi” all’esperienza “interessata” dei propri fedeli. Non che questo lato del carattere non avesse albergato in “costanza di affermazione” fin da epoche più remote nella sua, in fondo, disincantata personalità, ma forse nelle circostanze della vita comune presso la parrocchia a cui era stato assegnato non aveva trovato adeguate occasioni per rendersi noto ai più. Ancor di più si sarebbe, magari, fantasticato sull’enigmatica “levità” di quel prete, che aveva – sembrava quasi programmaticamente – assunto il ruolo combinato di disincantato “maestro delle coscienze” e di amabile “intrattenitore d’anime”, impegnato ad inventarsi “genuini” svaghi paesani per gente di fatica meritevole del riposo festivo. Era tale la confidenza che Don Libertino si stava gradualmente acquistando presso la popolazione del luogo, specialmente quella composta anche da “rudi” lavoratori con la prospettiva di cadere “in braccio” a Baffone, che pareva, per così dire, che il “palcoscenico della rivista” di paese fosse stato ormai occupato stabilmente da quell’attore di fila, barzellettiere per “vocazione” innata, se non per studio di una già troppo affinata, nonostante l’età comunque ancora giovanile, sagacia da evangelizzatore dalle ampie “risorse dello spirito”. 9


Che avesse sviluppato in sé fin dall’infanzia una tendenza spiccata all’esilarante comunicativa non era certo una novità; poteva presentarsi in questa inattesa connotazione a chi non lo conoscesse a fondo nei suoi trascorsi pre-ordinazione. In fondo Don Libertino si mostrava allora quello che da sempre era “genuinamente” stato. L’attitudine allo scherzo, alla sdrammatizzazione “fulminea”, pur dopo una lunga e dotta disquisizione in merito a casi dolorosi o ad argomenti elevati, non era mai venuta meno in lui, nemmeno negli anni, “lugubri” per vari aspetti, dell’“esperienza romana”. Non aveva dovuto neppure fare uno sforzo interiore per scoprirsi quello che nelle circostanze “storiche” presenti i suoi fedeli avrebbero imparato a valorizzare quale un lato insospettabile a prima vista, ma intrinsecamente distintivo, della personalità di Don Libertino Migliori. Una certa ironia, che si appuntava persino sul Padre Eterno, si era affermata come un mezzo di penetrazione, più che di dissacrante demitizzazione, della stessa profondità del mistero divino. “Immaginarsi” l’Onnipotente non era poi un’operazione che di per sé attirasse su chi la

attuasse la taccia di irriverente profanatore della maestà dell’Altissimo.

Don Libertino, a questo proposito, aveva sempre ripetuto a se stesso, esattamente come da ultimo aveva assunto l’abitudine di fare regolarmente con i propri fedeli, che a Dio – ne era pressoché sicuro – non difettasse il senso dell’umorismo, sia perché, ovviamente, per tradizione lo si rappresentava quale l’incarnazione di una Virtù prettamente maschile – e le donne, si sa, risultano per esperienza meno dotate degli uomini dell’attitudine a prendersi “amabilmente” in giro…! – sia perché uno del “rango” del Padre Eterno, usava scherzosamente “sofisticare” Don Libertino, non avrebbe tollerato che qualcuno degli “umani” avesse sviluppato quella capacità di ridere di se stesso che a Lui venisse a mancare, come se all’Altissimo ed Onnipotente Creatore del Cielo e della Terra potesse ragionevolmente essere precluso, per sua deliberata “preventiva rinuncia”, il privilegio di proporsi in un’“angolazione” tale da meritarGli la compiaciuta “compartecipazione” ad una prerogativa “squisitamente” in capo agli uomini. Nella campagna elettorale per le elezioni del 18 aprile 1948 aveva iniziato a manifestarsi in lui quella vena d’ironia che l’avrebbe accompagnato per tutta la sua vita futura, contrassegnandone come tratto distintivo la propria “missione” sacerdotale. Un “prete della gioia” si sarebbe quindi definito, se non, anzi, dell’allegria più arguta, al limite tra la scanzonata ilarità di uno spirito “portato” per la battuta e l’irriverente pungente giovialità da parroco, o aspirante tale, di campagna.

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All’inizio di questa “carriera” uno dei primi più eclatanti “saggi” si sarebbe annoverato proprio in corrispondenza della “prova suprema” che avrebbe atteso la società italiana, in bilico tra due prospettive “violentemente” contrastanti. Certo che Don Libertino non aveva trovato difficile dare fondo, in forma quasi poetica, a quell’ispirazione persino satirica che sentiva di avere dentro di sé per “vocazione naturale”. Del resto si trattava di metterla al servizio di una causa sommamente rispettabile, quella di una democrazia che non avrebbe annullato la propria, a sua volta, ispirazione di massima di matrice cristiana, intorno alla quale, per tradizione storica ed affinità di valori pur nella dimensione più secolarizzata, la società italiana in maggioranza avrebbe potuto ancora riconoscersi. Da tempo immemorabile, forse fin dall’istituzione della rigida precettistica gesuitica, si era ripetuto che, “per sconfiggere il Nemico, bisogna innanzi tutto conoscerlo a fondo”. In quelle circostanze storiche, poi, il Nemico sembrava assai più sprovveduto di quanto comunemente lo si rappresentasse. Non che non mostrasse in assoluto inesperienza dei meccanismi attraverso i quali le coscienze si sarebbero conquistate, ma onestà voleva che si riconoscesse all’Antagonista una ben più esercitata perizia nella disamina e nella sperimentazione delle dinamiche mediante le quali si sarebbe arrivati diritti a colpire l’immaginario dei “potenziali adepti”. Quanti secoli erano passati in cui la voce del popolo romano si era fatta sentire, in maniera sicuramente impotente, ma genuinamente irriverente, attraverso battute di spirito che sono passate alla storia come “pasquinate”…? Forse si può pensare che alle gerarchie ecclesiastiche delle varie epoche quelle espressioni “colorite” indirizzate dall’anonimo estensore verso il Potere dominante a Roma in regime di “governo dei preti” non avranno destato la compiaciuta curiosità di qualche spirito più “tollerante” all’interno della struttura di vertice della Chiesa…? Di vere e proprie poesie argutamente composte in innumerevoli casi si era trattato, tanto che l’“esempio letterario” aveva affascinato, per emulazione, più d’un affermato uomo di cultura e scrittore raffinato. Perché, in fondo, non considerare le famigerate “pasquinate” più che quali sfoghi sordi del risentimento del popolo romano, impotente a sovvertire il potere pontificio, delle vere e proprie manifestazioni di un animo improntato alla schiettezza dei propri moventi anche più reconditi, ma per questo stesso motivo, forse, tanto più autentici ed irrefrenabili…?

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Don Libertino non avrebbe certo trovato difficoltà a riconoscere nei motti di spirito anche più irriverenti, se diretti al segno di una “paludata” seriosità da “crociata ideologica”, le espressioni più veraci di un “sano” umorismo da osteria di campagna, quando non avessero raggiunto – beninteso – le “vette” della pregevolezza letteraria. In un “clima” storico di sempre più acuta tensione, al pari di quello che si stava vivendo nell’imminenza della prima contesa elettorale dopo la fine dell’ultima guerra, non ci si sarebbe nemmeno stupiti che ad “imbastire” delle vere e proprie campagne pubblicitarie per screditare “scherzosamente” il Nemico da battere fosse, magari, proprio qualcuno che “frequentasse” dall’interno gli ambienti ecclesiastici. Del resto non era un mistero che fino ai più alti vertici della Gerarchia si fosse speso un intervento diretto in questo senso, cioè al fine di favorire il più possibile l’impegno dei cattolici al servizio della causa della vittoria della Conservazione. I “Comitati Civici” rappresentavano, appunto, il tentativo di fronteggiare l’opposto “schieramento” con le “armi” di un’organizzazione capillare, ordinata secondo lo schema “invasivo” di penetrazione più radicato che esistesse nella società italiana dell’epoca, quello cioè fornito dalla presenza diffusa sul territorio delle parrocchie. Una possente “macchina di propaganda” si era quindi “messa in moto” per raccogliere e dare concreta attuazione ad un imperativo che era “scoccato” dall’Alto con la perentorietà di una mobilitazione, nelle forme, quasi, di una “crociata laica”, per l’affermazione definitiva della civiltà cattolica sulla barbarie di una prospettiva che minacciosamente si profilava all’orizzonte della società italiana, gravida di incognite, se non, propriamente, di un’oscura dominazione che si sarebbe avvalsa delle suggestioni di una tirannica volontà di potenza, nutrita dal miraggio di un incontrollato “espansionismo asiatico” nelle plaghe ancora “incontaminate” dell’Occidente cristiano e democratico. Del resto anche nel “campo avverso” lo scontro che si preparava nelle urne dell’appena nata democrazia italiana era avvertito come una “tenzone militare”, che avrebbe contrapposto eserciti veri e propri, schierati non solo alla difesa del proprio rispettivo “campo d’azione”, ma anzi, soprattutto, impegnati nell’allargamento dello “spazio vitale” che si sarebbero conquistati ben al di là dello “schieramento” di partenza: questo era almeno l’auspicio della “cordata” social-comunista, che avrebbe sfruttato anche un’eredità ideale condivisa come quella garibaldina, allo scopo di propagandare nell’opinione pubblica la prospettiva che chi avesse aderito a quel “Fronte” avrebbe contribuito al compimento dell’effettiva giustizia sociale, che non solo la dittatura fascista, ma anche, per la “morsa” vieppiù stringente sull’attualità politica che la Conservazione stava esercitando, il regime repubblicano aveva disatteso, animato, secondo una sempre più chiara ed “aggiornata” tendenza, dall’“invadenza” democristiana. Non si risparmiavano, quindi, da una parte e dall’altra “saporosi” riferimenti ai disvalori della “fazione” da combattere. 12


Il campionario delle suggestioni a sfondo culinario, tali da ingigantire la voracità della parte avversa, aveva cominciato ad infoltirsi, per virtù anche di grafici pubblicitari e di caricaturisti che avevano dato fondo a tutte le risorse del loro ingegno per tappezzare, con manifesti dalle dimensioni imponenti, i muri non solo delle città più popolate, ma anche dei borghi più “desolati” della provincia italiana più profonda. Lo stile, per la verità, finiva “pericolosamente” per innestarsi in una tradizione che il fascismo aveva costruito ad arte e rinverdito, finanche nell’appendice più truce della Repubblica Sociale. Le gigantografie di Boccasìle ancora campeggiavano, pur se meticolosamente piegate a quaderno in un angolo nascosto di qualche cassetto, come “residuato” di una passione per l’espressionistica deformazione della realtà che aveva sostenuto lo sforzo del Regime di impressionare, al solo sguardo, l’immaginario di un’opinione pubblica che rischiava di ripiegarsi su stessa, nell’apatia di un “quieto vivere” senza accensioni ideali di particolare fervore collettivo. Alle stesse risorse, in fondo, si era fatto ricorso da parte dei due maggiori Partiti attesi alla prova decisiva delle prime elezioni libere dopo il crollo del fascismo. La fantasia popolare era tenuta sempre desta da continue provocazioni che impegnavano la coscienza dei singoli elettori, ponendoli di fronte ad un’alternativa che veniva presentata come foriera di prospettive irreversibili per il futuro di intere generazioni di Italiani negli anni avvenire. La “passione nazionale”, notoriamente, perché tradizionalmente, “trasversale”, per i piaceri della tavola era stata pertanto individuata quale particolarmente propizia per la costruzione di un articolato “armamentario” di espressioni “colorite”, tali da suscitare riprovazione o condivisione nel corpo elettorale, a seconda, ovviamente, della diversa prospettiva dalla quale insinuazioni più o meno grevi venivano riversate per screditare il “fronte avversario”. Nulla di più facile quindi, in questa “tenzone” orchestrata attorno a “sapide suggestioni” da cucina, che da parte comunista definire quello instaurato dalla Democrazia Cristiana il “regime della forchetta”, a cui, naturalmente, si sarebbe dovuto porre fine attraverso il voto assegnato massicciamente al Fronte Popolare. Negli anni successivi, inoltre, si sarebbe ancor più ampliato il vocabolario degli “eccessi gastronomici” da riferire agli “epigoni della Conservazione”: si sarebbe fatto ricorso, oltre che, ad esempio, all’equivoco “erpìvori”, nel senso di “voraci e viscidi” insieme al pari di serpi, all’epiteto “magnacucchi”, che sarebbe stato coniato a partire dalla vicenda di due esponenti del P.C.I., Aldo Cucchi e Valdo Magnani, che nel 1951 avevano lasciato il Partito, con l’allusione che la loro “inversione di rotta” avesse comportato il transito verso altre più “lusinghiere destinazioni”, sempre però con riferimento all’ambito “godereccio” di una politica concepita come affare di “crassa e sordida speculazione” personale. 13


Dalla parte opposta non si era certo lesinato sulla vis polemica, proverbialmente poco diffusa negli animi e sulle bocche degli aderenti al “fronte moderato”. Non era però, forse, stato difficile “scendere sullo stesso terreno” dell’Avversario quanto a provocazioni retoriche di immediato impatto sull’immaginario collettivo. Lo spauracchio del radicamento, specie nelle Amministrazioni locali, di una “ideologia comune” di ispirazione social-comunista, omogenea quindi a quella di cui si paventava l’affermazione elettorale nelle “urne nazionali”, portò infatti a coniare un motto come questo, di indubbia efficacia per il proprio effetto di provocazione rispetto alla “coscienza moderata” di quella che si riteneva, comunque, la “maggioranza silenziosa” degli Italiani: “Se non voti, Gatto Baffone del Comun farà un boccone!”. Anche per scongiurare, con toni da guerra civile non ancora definitivamente accantonata, l’eventualità di una “dittatura” comunista, ci si era rivolti all’evocazione di un pericolo che si immaginava “incarnato” non solo in una sostanziale “concorrenza ideologica” rispetto alla mentalità che, in ogni caso, si poteva prevedere al presente diffusa nella maggioranza della popolazione “civile”. “Salva i tuoi figli!” il monito che veniva esibito in un manifesto di propaganda elettorale

dai toni cromatici lugubri e dalla drammatica “atmosfera” di guerra che suscitava nell’osservatore; il voto alla Democrazia Cristiana, che avrebbe dovuto garantire un avvenire di pace e di prosperità specialmente alle giovani generazioni, si imponeva nella sua categorica opportunità attraverso l’avanzare della fosca minaccia di un carro armato in assetto da combattimento contro l’indifesa remissività di un fanciullo riccioluto, apparentemente ignaro del pericolo incombente sulla propria “immacolata” minuta figura, anche per l’abitino bianco “illustrato” in primo piano, a contrasto con la lugubre corazza del mezzo militare, e contro la sua spensierata condotta da infante. Le varianti sul tema della crudeltà filosovietica, che si sarebbe inoculata, alla stregua di un virus malefico, nell’organismo “sano” della Nazione italiana uscita “emendata” ed immunizzata dal conflitto, si appuntavano anche su altri motivi iconografici di particolare rilievo visivo e simbolico. Il pericolo rappresentato dall’intransigenza comunista nell’introdurre anche in Italia un regime di intollerante “asfissia” sulle forze libere, tanto dell’economia quanto della società in genere, veniva evocato con straordinaria efficacia di impatto emotivo tramite il contrasto, in un’unica scena, instaurato da una colomba e dalla sua “sagoma” impiccata ad una corda appesa a falce e martello. L’allegoria della contrapposizione tra valori di ispirazione religiosa, come quelli “impersonati” dal candido pennuto, e princìpi di ben più rude, barbarica quasi, evidenza collettiva si ammantava, quindi, di una simbologia che traeva ispirazione dalla letteratura sacra, da una parte, e da quella “sinistra iconografia” del “sangue fraterno”, dall’altra, che si era tristemente affermata negli eccessi dell’ultima guerra, specie nella fase del 14


conflitto civile, durante la quale impiccagioni erano seguite ad impiccagioni da entrambi i fronti “l’un contro l’altro armati”. Nel caso della propaganda elettorale di questo tenore non si rinunciava a qualche tratto di persino “civettuola” concessione al gusto incipiente per la réclame pubblicitaria: il “Gancio Rosso” al quale la colomba avrebbe rischiato di rimanere impiccata veniva contrassegnato, infatti, con i caratteri di stampa che avevano reso celebre la pubblicità di un noto liquore digestivo, il “Vermouth Gancia”. Quel riferimento, forse, suggeriva implicitamente che i comunisti avrebbero saputo fin troppo bene come far passare i “mal di pancia” dei più recenti profittatori mascherati sotto i toni concilianti da “colombe della pace”, ma che in realtà rivelavano la loro vera natura e la loro intima inclinazione, pur “attutite” dalle apparenze: il carrierismo e la speculazione parassitaria, attuati a spese fondamentalmente della classe lavoratrice. In questo modo si sarebbe compiuta quella rivalsa storica che ci si attendeva dalla coscienza politica del proletariato italiano: che cioè l’adesione massiccia al Fronte Popolare facesse giustizia di tutta una vicenda che era descritta, nella sua continuità sostanziale, quale un itinerario che dal militarismo “straccione” fascista aveva trascinato l’intera società in un baratro di miseria e di fame, una situazione che ironicamente veniva presentata come la “ricompensa” con la quale De Gasperi aveva cercato di far dimenticare agli Italiani l’umiliazione in cui il Regime li aveva sprofondati. Tutto questo “fervore” di fantasia pubblicitaria a scopo propagandistico non sarebbe poi certo andato smarrito nei decenni a seguire, ché anzi si sarebbe vieppiù ravvivato in corrispondenza sistematicamente di scadenze elettorali le quali, se non della “drammaticità” di quella del 1948, singolarmente tuttavia rivestivano un ruolo di volta in volta di “strategica” rilevanza per gli assetti e gli equilibri del momento. Da quella “rutilante” tradizione, consolidata in occasione della prima consultazione elettorale compiutamente democratica dalla fine della guerra, ad esclusione del referendum istituzionale e dell’elezione dell’Assemblea Costituente, la “fantasmagoria” dei manifesti e degli slogan di propaganda politica avrebbe tratto costante ispirazione, per reinventarsi periodicamente nel più suggestivo “confezionamento” e nella più invasiva diffusione di essi. Addirittura si sarebbe giunti a rimodulare il gingle stesso della Democrazia Cristiana, che dalla sua “impronta originaria” – sembra per “ispirazione” di Fanfani – avrebbe trovato un’“occasione storica” irripetibile per “aggiornarsi”, assecondando il “ritornello sanremese” di un successo canoro. Dall’“impostazione” retorica, di matrice in qualche modo letteraria, che ne aveva accompagnato l’originaria elaborazione il ritmo si era, per così dire, “melodizzato” sulla scorta della travolgente cantabilità dell’“adagio festivaliero”, portato al successo nel 1958 da Domenico Modugno con “Nel blu dipinto di blu”. 15


“O biancofiore / simbol d’amore, / tu sei la gloria / della vittoria” recitava il testo

“ufficiale” dell’inno del Partito di maggioranza di ispirazione cattolica al potere ininterrottamente dall’immediato dopoguerra in Italia.

“Lo scudo dipinto nel blu / lo devi votare anche tu / DC”: il successo sanremese di

Modugno, dal titolo citato in corpo di slogan, avrebbe modificato, in contemporanea con il trionfo canoro dell’“antenato degli urlatori” nel Festival di Sanremo del 1958, in questo modo, indubbiamente più “sbarazzino” rispetto al vagamente letterario adagio in voga dalla cerimonia fondativa del Partito, il riferimento ideale ad una prospettiva di incontrastata affermazione della Democrazia Cristiana.

Si sarebbero poi raggiunti vertici, a quell’epoca insospettabili, di “trucido” senso comune a distanza di appena cinque anni, ancora nell’imminenza di una scadenza elettorale, che questa volta si collocava in coerenza con il ventennale della costituzione della DC. L’ironia dissacrante degli oppositori politici, in tal caso, avrebbe attinto all’esperienza più “scontata” in ambito di “libertà personali”, “affondando” nella “melma” delle “compromissioni” sessuali. Lo slogan ad effetto elaborato per la commemorazione del ventesimo anniversario di fondazione del Partito, in corrispondenza della scadenza elettorale del 1963, sarebbe stato individuato nell’espressione “La DC ha vent’anni”. Ad un’affermazione apparentemente così poco “impegnativa” da parte dei “polemisti” di ispirazione marxista si sarebbe risposto con la ben più “provocante” prosecuzione “Ed è già così puttana”. Con caratteri appositamente giustapposti alla “verità storica” dichiarata nella presentazione della ventennale fondazione della Democrazia Cristiana qualche “buontempone” comunista, agit-prop secondo terminologia “aggiornata”, cioè agitatore e propagandista, tale “apodittica acquisizione sperimentale” si sarebbe divertito a scrivere a fianco del “proclama”, quale monito per un’implicita “radiosa” stagione politica almeno di equivalente durata. Del resto non si sarebbe potuto negare che l’immediatezza della “posticcia chiarificazione” non avesse ricalcato mirabilmente l’“evidenza evocativa” dell’originale constatazione. Quest’ultima, peraltro, avrebbe sfruttato la più consolidata tradizione dell’iconografia simbolica politica, dato che l’“inviolata integrità” della “giovane aggregazione ideale” sarebbe stata “impersonata” da una bella ragazza vestita di bianco, la cui sagoma sarebbe stata disegnata su uno sfondo azzurro intenso; la didascalia avrebbe riportato l’intestazione “di rito”: “Ventesimo anniversario delle idee ricostruttive della Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi (Demòfilo)”. 16


La “tradizione iconografica”, che avrebbe continuato a “fecondare” le esperienze di propaganda politica dei decenni a seguire, aveva prodotto i suoi frutti anche nei più sperduti borghi di provincia, in quanto la capacità di penetrazione della pubblicità pur negli anni immediatamente successivi rispetto alla fine della guerra aveva già cominciato ad esercitare la sua azione più “virtuosa”. I manifesti “spiegati” come gigantografie a decorare gli angoli più in vista persino dei paesi di campagna avevano scatenato la fantasia di “pubblicisti caserecci”, spinti all’emulazione anche più improvvisata dalla fortuna che simili mezzi di propaganda avevano già conquistato in occasione di manifestazioni dall’ampio “respiro” popolare, come appunto era accaduto per le elezioni del 18 aprile 1948. Don Libertino stesso non aveva potuto sottrarsi al “fascino” di mezzi di comunicazione al pari di quelli sperimentati, per la prima volta “in grande stile”, nella circostanza storica di riferimento. A parte condannare certi “eccessi espressivi”, per il resto non si era certo dichiarato “insofferente” rispetto alle potenzialità di penetrazione nelle coscienze che “ritrovati” del genere non avrebbero mancato di esercitare nell’opinione pubblica anche meno acculturata. Sentiva che, in fondo, la pubblicistica dell’immagine ad effetto e del “motto di spirito”, pur concepito con una qualche “licenza” di eloquio, avrebbe dato compiuta attuazione ad una tradizione consolidata nella aneddotica più “spicciola” di ascendenza persino cattolica, anzi papalina, per essere più precisi. Pasquino era “risorto” nelle “sboccate intemperanze” verbali di epigoni di una “casistica dello sberleffo” che si era alimentata già ampiamente per virtù della spontanea sguaiatezza della plebe romana in regime di dominazione temporale dei Papi. Perdonare, quindi, con “regolare”, “lieve” equanimità di confessore si sarebbe dovuto, a suo giudizio, il vigore polemico del popolo di Dio che avesse dato sfogo alle manifestazioni più “sovversive” di un incomprimibile, nelle circostanze storiche del momento, fervore di protagonismo, esibito con provocazioni verbali degne della disincantata irriverenza di un Pasquino redivivo. Quei quattro versi che appena tre giorni prima del 18 aprile 1948 furono ritrovati appesi fuori dalla chiesa del paese, proprio come avveniva sul busto mezzo consumato della “voce anonima” del popolo romano in regime papalino, non avrebbero certo dato adito al sospetto che a scriverli fosse stato Don Libertino in persona, ma più di un dubbio alimentarono circa la loro ispirazione. “Tutto copre la tonaca d’un prete,

pur la rogna di chi a Dio non crede, 17


ché è nero solo quel che da fuori si vede, ma bianche le prospettive concrete!” Un doppio epigramma perfettamente costruito nei limiti dei versi accoppiati, la vivida immediatezza di immagini “scolpite” nell’esperienza collettiva quanto al proprio potere di significazione simbolica, delineate nella loro immediatamente evidente connotazione di proverbiale incisività, la sineddoche antonomastica della “tonaca”, proiettata verso l’acme espressiva della giustapposizione cromatica “di repertorio” tra “nero” e “bianco”, rispettivamente dell’associazione ideale dei princìpi della Conservazione all’aneddotica ecclesiastica e della “moderata neutralità” distintiva della prospettiva politica e sociale in capo al Partito della “maggioranza silenziosa” della Nazione, erano tutti elementi che “congiuravano” a favore, almeno, della rivendicazione dei “diritti d’autore” per una trovata del genere alla dissacrante demistificazione della propria “austera cera di censore” da parte di un prete che non si riconosceva, in fondo, appieno “imprigionato” nella “paludata uniforme” di un “novizio della tonaca”, ma non certo di un “avventizio della battuta pronta” nei confronti dell’immobilità di una tradizione ammantata di rispettabile sussiego, seppur non proprio nobilitata dalla convenienza di volta in volta “adocchiata” nelle forme di un’alleanza autoritaria per affinità di “cromatica indifferenza”…!

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