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«Netflix, abbiamo un problema»

La piattaforma perde un milione di abbonati e deve aprirsi alla pubblicità. Troppa offerta, poche visualizzazioni, pochi profitti

«Houston, abbiamo un problema» è quello che probabilmente stanno pensando i dirigenti delle grandi piattaforme streaming.

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È il 1997 e Reed Hastings, un ingegnere informatico laureato a Standford, è costretto a pagare 40 dollari di penale per aver restituito in ritardo il dvd di Apollo 13 a Blockbuster. Gli viene un’idea. Creare un sito in cui si possano prenotare dvd tramite un abbonamento mensile. Quel sito, che si chiama Netflix, nel 2007 arriva a spedire un miliardo di dvd. Hastings decide di aprire una piattaforma streaming e ottiene una cosa che tutte le emittenti via cavo del mondo avevano sempre sognato: i dati sugli spettatori. Non generici, ma specifici. Quanti episodi in media guarda un utente, quali sono gli attori preferiti e a che minuto si interrompe la visualizzazione.

Con questi dati, chiunque è in grado di decodificare gli spettacoli di successo. Netflix inizia a produrre contenuti originali: Orange is the New Black, Stranger Things e House of Cards di David Fincher.

Attrae grandi autori con una premessa: conceder loro libertà creativa che nessun’altra rete avrebbe consentito.

L’immediatezza dell’accesso a centinaia di contenuti crea nuove abitudini. Netflix non si preoccupa delle valutazioni, ma solo della crescita degli abbonati e più aumentano più c’è bisogno di stagioni complete, tante e subito. Il risultato è una grande quantità a cui corrisponde spesso una scarsa qualità per mancanza di tempo. Le serie originali vengono cancellate dopo l’uscita. È l’analisi costi-benefici che lo suggerisce.

Nel 2020, complici anche le restrizioni dovute al lockdown in molti Paesi, Netflix raggiunge i 221 milioni di utenti iscritti. Pochi mesi dopo però perde più di un milione di abbonati e il dato è in continua crescita. Secondo i dirigenti dell’azienda i fattori principali sono la decisione di estromettere dal mercato la Russia, la Cina e la Corea del Nord e la concorrenza delle nuove piattaforme streaming. «Disney+ si inserisce qua», spiega Emiliana De Blasio, esperta di Cultural Studies e Teorie dell’Audence. «Ha creato un portfolio per tutta la famiglia grazie a serie iconiche come Marvel e Star Wars.»

C’è maggiore concorrenza e la strategia di creare tanti contenuti abbassando la qualità nel lungo periodo corrisponde a un inevitabile calo degli abbonati. Le esclusive sono deboli, bisogna pagare per vedere molti contenuti, bisogna attendere il giorno prefissato per guardare la nuova puntata e gli utenti si iscrivono a una piattaforma in base alla serie del momento. Per finirla e poi disdire. Questo non aiuta il business.

Un altro problema iniziano a essere i dati. Quello che era un punto di forza dell’azienda. Se i dati sono specifici non esiste una terza parte che li certifica. Ogni piattaforma li raccoglie e li rende pubblici a proprio piacimento. Non esistono metriche affidabili, terze e accessibili che supportino le eventuali scelte di business pubblicitario.

A questo si aggiungono due concorrenti accolte con scetticismo. Rai e Mediaset cercano di copiare il modello dei grandi streamer, ma integrandolo con un servizio che pochi broadcaster hanno: la diretta. In maniera molto diversa: «Mediaset mi sembra ferma. Fino a dieci anni fa attraverso Medusa produceva tantissimo. Oggi la produzione autonoma di Mediaset è molto specifica e riguarda sopratutto reality e contenitori», spiega De Blasio che continua: «probabilmente pensano che il loro posizionamento sia legato a fasce d’età adulte e quindi hanno investito poco. Ma sono i giovani che con- ducono il mercato. Quello che è dedicato ai giovani può espandersi alle altre fasce d’età, non viceversa. Una volta Italia Uno era tutta dedicata ai giovani, adesso non è più così.»

Tutt’altro discorso per Raiplay, che nel settembre del 2016 sembrava essere nata solo per rivedere i contenuti, mentre oggi si è evoluta e dalla visione è passata alla creazione. «La Rai ha investito tanto denaro e tempo sulla piattaforma che per la prima volta si rivolge a tutte le fasce d’età anche a quelle più giovani», spiega De Blasio. All’interno di questo scenario ci sono le sale cinematografiche. Le piattaforme cercano di ostacolare l’uscita in sala, perché non hanno nessun interesse nel fatto che gli spettatori vedano prima il film al cinema. Allo stesso tempo una produzione non può accedere ai contributi statali se non proietta il film nelle sale. Questo grazie a una legge che cerca di tutelare il cinema, come luogo fisico. La conseguenza è che le produzioni proiettano i film in poche sale di provincia, senza alcuna promozione, in modo da poter usufruire dei contributi statali senza togliere gli spettatori alle piattaforme. È ovvio che è un cortocircuito.

Secondo la professoressa De Blasio, «il cinema ha senso se rimane un evento. Come ad esempio Avatar o gli Avengers. Il problema però è che nelle cinematografie nazionali non ci sono eventi. Allo stesso tempo non si possono abbandonare i contributi statali perché la cinematografia nazionale di qualità sarebbe morta», continua De Blasio. «È anche normale che tutte le produzioni cerchino le uscite nelle piattaforme per avere un ritorno economico, se il ritorno non può essere più in termini di biglietti venduti». Urge una soluzione, ma intanto il mercato è a un punto di svolta.

L’abbonamento non basta più e allora le piattaforme si aprono alla pubblicità, che le aveva sempre distinte dalle tv via cavo. Cinque milioni di utenti hanno già provato il piano base di Netflix che prevede la pubblicità all’interno dei suoi programmi. In un momento in cui l’offerta supera la domanda la visualizzazione sarà più costosa per gli utenti e molte serie saranno proposte con un costo aggiuntivo. Questo sta già succedendo. È una svolta, ancora una volta, che risolve il problema nel breve periodo, ma non sappiamo per quanto potrebbe durare prima di cambiare ancora strategia. E chissà se le piattaforme streaming, per come le conosciamo oggi, tra qualche anno saranno definite come l’Apollo 13: «un fallimento di grande successo». ■

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