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di Claudia Chieppa
Berlino, un giornale per la classe lavoratrice
STAMPA Arts of the
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working class è un periodico d’arte berlinese distribuito per le strade dai senzatetto. Abbiamo parlato con Dalia Maini, assistente online editor del giornale
di Claudia Chieppa Mentre si aspetta la U-Bahn a Berlino non è insolito imbattersi in qualche senzatetto che, ai pendolari e ai turisti distratti, sottratti per qualche momento ai propri cellulari, porge gentilmente un giornale colorato, con un titolo in caratteri vagamenti neogotici che recita “Arts of the working class”. «Per la prima volta materiali e contenuti artistici forniscono dei mezzi di sussistenza a chi non ha neanche il privilegio di sopravvivere». Dalia Maini, assistente online editor di Arts of the working class, racconta a Zeta la missione e l’idea da cui nasce questo Straßenmagazine (giornale di strada) berlinese d’arte contemporanea.
«È un progetto semplice ma allo stesso tempo complesso» spiega. «Nato nell’aprile 2018 e giunto alla 15esima edizione, Arts of the working class è un bimensile fondato dall’artista Paul Sochacki, che ha chiamato a collaborare come editor María Inés Plaza Lazo e Alina Kolar. È un giornale anti-capitalista e anti-imperialista che tratta di arte, società, cultura, povertà e ricchezza».
Il nome della testata deriva dalla convinzione che vi sia oggigiorno una progressiva erosione del concetto e del senso di appartenenza a una classe, anche nel mondo dell’arte. L’idea dietro il giornale è che l’arte debba connettersi con la società per toccare posti e persone che normalmente sarebbero escluse dai tradizionali circoli elitari.
Da qui, la particolare maniera di distribuzione del giornale che avviene attraverso i senzatetto. Arts of the working class infatti si inserisce nel filone dei cosiddetti “giornali di strada”, distribuiti per le strade o nelle metropolitane delle grandi città dalle persone senza fissa dimora che tengono poi il ricavato delle vendite, traendone un mezzo di sostentamento.
«È un modo per creare una fonte di reddito per coloro che vivono per strada» spiega Maini. «La nostra redazione non trae alcuna fonte di profitto da questo giornale. Ci finanziamo attraverso la vendita di pubblicità di istituzioni artistiche che seguono il nostro stesso principio socialista oppure facciamo richiesta di fondi. Non riceviamo fondi statali e ultimamente abbiamo aperto agli abbonamenti con dei prezzi molto equi e tutto il ricavato è devoluto alle stampe successive».
Oltre che per le idee che veicola AWC è particolare anche per il suo aspetto e i tipi di contenuti che propone. La prima caratteristica che salta agli occhi è la varietà linguistica. Ogni edizione ha una lingua specifica che emerge anche dal formato del titolo, il cui font viene piegato di volta in volta ai caratteri merlettati del cirillico o alle linee dritte dell’italiano o del tedesco o – come nel caso dell’ultimo numero dedicato alla decolonizzazione – alle grazie delicate del coreano. Ogni edizione presenta articoli scritti in diverse lingue così può capitare che nell’editoriale che non ti aspetti dedicato al concetto di cura (come nel caso della nona edizione del giornale) si passi repentinamente dall’inglese al rumeno più o meno verso la metà del testo. «Così come ci piace creare una valuta di scambio economica, vorremmo crearne anche una conoscitiva, poiché magari chiedere a qualcuno che conosce il rumeno di tradurre un articolo in quella lingua porta le persone ad abbassare le barriere, a confrontarsi e a imparare». ■
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