Altro tiro altro giro altro regalo

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PALLA A DUE

Basket, istruzioni per l’uso

Non sono mai stato un giocatore molto bravo, ma il basket mi ha dato modo di intravvedere il tipo di uomo che sarei stato capace di diventare. Esultavo nella pura fisicità di questo sport in continuo movimento e, quando andavo in penetrazione sotto le roventi luci, nell’elettrica eccitazione della folla che urlava, che incitava, quasi fosse la voce della mia stessa passione, del mio sport prediletto, dell’amore di tutta la mia vita, ero il ragazzo più felice del mondo. Pat Conroy Quando tutto sembra perduto, vado a guardare un tagliapietre che colpisce il masso cento volte senza neppure riuscire a scalfirlo. Eppure al centunesimo colpo la pietra si spacca in due, e io so che non è stato quel colpo, ma tutti quelli che sono venuti prima. Jacob Riis

Fissare i motivi per cui questo Gioco ci fa girare la testa (e quando perdiamo qualcos’altro…) è facile e difficile allo stesso tempo. Facile perché è talmente bello che non bisognerebbe aggiungere altro. Difficile perché siamo di fronte a un fenomeno complesso, nel senso che al risultato concorrono molteplici fattori. Iniziando dalla parte «facile», basta usare i cinque sensi e godere 15


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di quel che trasuda da quei 28 metri x 15 di parquet (ma anche asfalto o sintetico). Armonia, velocità ed eleganza sono valori oggettivamente associabili alla felice intuizione di Mister Naismith. Erving dietro al tabellone, Bird al volo contro i Rockets, lo sky hook di Kareem, il baby hook di Magic, il finger roll di Gervin, i palleggi di D’Antoni nel traffico, il tiro di Morse, Oscar o Dalipagic, Danilovic senza palla, MJ che fa inversione a U, Andrea Meneghin contro la Russia, Ginobili a Vitoria, LeBron da 45-15-5, la bambina dalle bionde trecce che lascia le mani di KD35… sono solo alcune istantanee di questa Grande Bellezza Cestistica. L’espressione che meglio dà conto della più intima natura di questo meraviglioso sport è «atletica giocata». Definizione mille volte citata da Aldo Giordani e dovuta a un ammirato Marcel Hansenne, bronzo olimpico a Londra 1948 sugli 800 metri. Ma certo che è atletica, con tanto di velocità, forza e destrezza fuse in un monolite. In più, con il dovuto rispetto per la Regina dei Giochi Olimpici, questa è giocata. Dipendendo quindi non già dalla superiorità di un singolo su un singolo, come tale difficilmente arginabile, bensì da quella di un gruppo su un gruppo, al lordo di quegli aspetti strategici e psicologici che permettono di sovvertire i pronostici. Il Brasile dei Pan-Americani, il «Survive and Advance» di coach Valvano, Grecia, Germania e Russia campioni d’Europa, il Maccabi dei miracoli ci dicono che l’unico vero reality show si chiama pallacanestro. Un altro asso nella manica lo dobbiamo al clima. La provvidenziale rigidità degli inverni del Massachussetts spinse infatti i pionieri dentro la palestra dello Springfield YMCA con grande beneficio di chi sarebbe venuto dopo, perché stare indoor vicino 16


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all’azione trasmette un’incomparabile sensazione di intimità e comodità. Potremmo andare avanti a lungo, ma il concetto è chiaro: basket è bello, stop. Per quel che attiene al «difficile», che poi tale non è, abbiamo parlato di fenomeno complesso. Non nell’accezione di «complicato da intendere» bensì in quella di «costituito da più elementi formanti un’unità funzionale». Già che ci siamo, leviamo subito di mezzo questa balla che la gente non capisce la pallacanestro perché è complicata. Per me, maschio mediterraneo viziato da impagabile madre, è ancora oggi complicatissimo piegare una camicia (non parliamo di stirarla, lì si entra nella fantascienza). Questo non significa che non potrei mai imparare a farlo, ma solo che non ne ho mai avuto alcuna voglia e ho sempre trovato qualcuno che lo faceva per me. Ci viene molto più comodo pensare che quanto non ci attira sia complicato, e che sia questo a impedirci la comprensione. Per quel che invece ci piace, non riteniamo che esista un ostacolo invalicabile. Nel caso del basket, a differenza della biancheria, la difficoltà mi spinge ad approfondire, non ad allontanarmi. Il mio interesse verso baseball, cricket e lacrosse è rispettosamente pari a zero, e non perché mi sia oscura la tattica o trovi le regole incomprensibili. Se fosse scattata nei loro confronti la scintilla del PalaLido, avrei provato a capire il senso di mazze, legnetti e retini, e mi piace pensare che ci sarei anche riuscito. 25 gennaio 1981: la neonata Canale 5, ex Tele Milano 58, trasmette il XV Superbowl NFL tra gli Oakland Raiders e i Phila17


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delphia Eagles. All’epoca le mie nozioni sul football erano pari allo zero assoluto, ma feci lo stesso le 4 del mattino ipnotizzato davanti allo schermo per seguire febbrilmente un fenomeno di cui mi sfuggivano le regole più elementari. Rimasi sveglio perché quel gioco mi attirava inconsciamente e perché il prodotto televisivo era di qualità superiore rispetto agli standard dell’epoca. Non ebbe invece impatto alcuno il pre-partita, in cui Mike Bongiorno trattava gli spettatori come il maestro Manzi faceva con gli analfabeti. E nemmeno la didascalica telecronaca di Marco Lucchini, costretto dai continui suggerimenti in cuffia dell’executive producer della trasmissione a esibirsi a colpi di «registi», «mediani» e «terzini» per non disorientare l’italiano medio con termini eversivi quali quarterback, runningback e cornerback. Quell’executive producer che suggeriva con una certa forza i paralleli calcistici, inducendo la spalla tecnica ad abbandonare la trasmissione in corso d’opera, altri non era che il proprietario della baracca. Vale a dire un noto imprenditore edile che negli anni a venire avrebbe avuto un buon successo nel calcio, in editoria e in politica nonostante annose vicende giudiziarie. Dobbiamo smetterla di svendere il basket banalizzandolo. È immotivato provincialismo e non, come vorrebbe qualcuno che lo conosce e lo ama poco, divulgazione. Si possono e si devono spiegare le cose a livello basic, non c’è nulla di male a esplorare il lato nazional-popolare e fare qualche incursione nel gossip. Sperare però che questo sia sufficiente di per sé a fare innamorare la Penisola è un assunto falso, prima che ignorantello. Il Gioco va presentato nella sua inesauribile ricchezza, con 18


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semplicità ma non semplicisticamente. Qualcuno penserà che si tratti di un’excusatio non petita da parte di chi viene a volte dipinto come un pasdaran respingi-folle. Per ora basti accennare che la telecronaca è solo il racconto di uno specifico avvenimento, non l’occasione di erudire presunti minus habentes. Amo perdutamente la divulgazione, e mi piacerebbe farne di più in televisione. Peccato che le telecronache non siano la sede adatta, e io, purtroppo o per fortuna, quelle faccio al momento. Oggetto del racconto deve però essere sempre e solo il Gioco, non la sua caricatura da rotocalco. La banalizzazione è sconveniente nelle due accezioni dell’aggettivo («contrario al decoro» e «che non dà un vantaggio adeguato»). Non so voi, ma io non vedo per le pubbliche vie folle di italiani che vagano come novelli Diogene alla ricerca dell’oscuro significato di un termine misterioso come pick-and-roll. Ragionare anche di tecnica e tattica non ha sul pubblico l’effetto che il paletto di frassino esercita nei confronti dei vampiri, garantito. Milioni di persone non distinguono la diagonale dal 4-4-2, ma seguono il calcio per vedere chi fa più gol e prendere in giro i colleghi al bar il giorno dopo. La mattina del 28 agosto 2004, dopo che Basile e soci avevano impallinato la Lituania a suon di triple più o meno ignoranti, nei bar della penisola si parlava solo di basket. Perfino io capisco che i 6 milioni e 429.000 spettatori incollati al video la sera prima e quelli dei bar non erano stati conquistati dalla difesa contro le uscite di Macijauskas o dai pop di Galanda, ma non puoi vincere un argento olimpico alla settimana. Per dare 19


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continuità alla diffusione serve il marketing, non qualche favoletta o un singolo risultato. Sfiga vuole che per fare quel marketing servano soldi, competenze e tempo. Ai tempi di Tomba, anche chi non si appassionava alla conduzione di curva del bolognese ascoltava con giustificato piacere il commento intenso e tecnico del mio amico Gattai. Bruno oggi fa l’avvocato di successo, ma se tornasse a commentare lo sci alpino non otterrebbe gli ascolti di allora. Non per eccessivo tecnicismo, ma perché Innerhofer non è La Bomba e il panorama televisivo è appena più variegato di allora. Con tutto il genio di Mike Bongiorno e il successo commerciale/politico/culturale di quell’executive producer, il football americano che adoro è rimasto sport di assoluta nicchia. Già, dice quello, ma con il calcio funziona: deve funzionare anche per noi, poche palle. Dobbiamo fare la stessa cosa, altrimenti non sfonderemo mai. Breaking news 1: il calcio non prospera perché è raccontato in maniera semplice, ma viene spesso raccontato così per abitudini e limiti di chi lo fa. Breaking news 2: noi non saremo mai il calcio, purtroppo o per fortuna (barrare «B» se chiedete a me). Non abbiamo alcun motivo di sparare in basso prendendo come riferimento le storture della non sempre nobile arte pedatoria. Oppure, provocazione, facciamo uno sforzo di coerenza e leviamo tempo effettivo, falli personali e playoff: se dobbiamo imitarli, facciamolo fino in fondo… Non si tratta di fare gli snob, ma una semplice botta di conti. Il pallone ha enorme presa nonostante i suoi limiti, non grazie a 20


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questi. A noi basterebbe comunicare l’atletica giocata per ciò che è, comprensiva di tattica e strategia come elementi fondanti ma non esclusivi. Si può pescare anche nel glamour, nel lifestyle e in altre parole inglesi a casaccio, ma identificarsi con il cheap non conviene. Tutte le ricerche di mercato dipingono il consumatore di basket come più acculturato, tecnologico e sofisticato della media nazionale. Se gli offrissimo il prodotto nella sua versione migliore, senza provare a rifilargli una patacca, scopriremmo che abbiamo in mano una killer application. Mi risulta che quei buzzurri di americani abbiano fatto così, e il risultato è che Mr. Ballmer ha sganciato un paio di miliardozzi di svalutati dollari per rilevare i Clippers. Saranno poi scemi loro e furbi noi, cosa vi devo dire? La verità è che per costruire quel prodotto dovremmo pescare risorse e professionalità dall’esterno, darci obiettivi realistici e verificare il loro raggiungimento con pazienza e rigore. Ipotesi difficilmente praticabili per un ambiente che soffre di una tremenda auto-referenzialità e che non utilizza mai un approccio serio e realistico, preferendo la chiacchiera velleitaria. Preso dalla digressione e dagli inglesismi però mi sono perso, e ora mi tocca ripartire dall’inizio, ovverosia da quel mai abbastanza celebrato 1891. Non immaginatevi il dottor James Naismith come un ricco intellettuale che passava il tempo a inventare sport meravigliosi. Rimasto orfano di entrambi i genitori a 9 anni, il canadese perse anche l’adorata nonna due anni più tardi. Il risultato di queste disgrazie in serie fu l’abbandono del liceo in corso d’opera. Poteva 21


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essere il capolinea ma, sotto di venti a dieci minuti dalla sirena, il nostro si rimise in piedi con una furiosa rimonta. Laureatosi in educazione fisica presso il Montreal’s Presbyterian Theological College, Naismith aveva davanti due strade: il pulpito del Ministro Presbiteriano oppure, parole sue, «Cercare in palestra uomini da consegnare al Signore». Avesse preso la prima, ora saremmo qui a parlare d’altro. Il miracolo che chiamiamo pallacanestro non è stato studiato per mesi da un’équipe di scienziati e quindi messo in una teca per essere protetto dagli agenti esterni, ma è figlio della casualità. Anche se il suo inventore era tutt’altro che un fesso, al punto da conseguire anche una laurea in filosofia. La prima partita di Basket Ball (staccato e senza trattino) viene così descritta dal primo Doctor del Gioco in una nota autografa dal titolo The First Game. Eravamo pronti per cominciare, ma ci mancavano le porte. Chiesi perciò a Mr. Stubbins, il sovrintendente dell’edificio, se avesse un paio di scatole attorno ai 18 pollici quadrati (circa 46 centimetri). «No», mi disse, «ma ho un paio di cestini di pesche di simile misura».

Se si fossero trovate due scatole, si sarebbe giocata una triste sottospecie di hockey con pallone da calcio, probabilmente per la prima e unica volta. Senza quella provvidenziale carenza di cartone, non potremmo neppure costruire arditi paralleli tra l’anelito verso l’alto della specie umana e quello del cestista: grazie Mr. Stubbins! Nella testa del suo inventore, il passatempo studiato per i turbolenti studenti di Springfield doveva essere un cocktail formato 22


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da un terzo di calcio (…), uno di lacrosse e uno di duck on a rock, una specie di lippa giocata con le pietre che il Dottore aveva praticato in gioventù. Quest’ultima specialità premiava i tiri a parabola rispetto a quelli piatti, e se la circostanza vi fa venire in mente qualcosa, siamo in due. Gli studenti erano 18 e la palestra piccolina, 16 metri x 11. Il 9 contro 9 rese migliorabili le spaziature, con nefaste conseguenze sulla produttività degli attacchi. Il gol dell’1-0, punteggio finale, fu realizzato da William Chase con un folgorante siluro da 8 metri, cioè da centrocampo. Giacché nessuno aveva provveduto a togliere il fondo ligneo ai cestini, per recuperare la pallonessa in cuoio dopo il miracolo di Chase si dovette cercare una scala. Se fosse finita anche solo 20-18, con il tempo effettivo si sarebbero sbrigati in tre ore o giù di lì… Chi conosce poco il Gioco si immagina che vincano sempre i più alti e grossi, quelli che fanno più canestro da lontano e quelli che hanno il fenomeno che schiaccia e stoppa. Invece a prevalere è il gruppo allargato che riesce a sintetizzare meglio nelle due metà campo tutte le variabili tecniche, tattiche, fisiche, atletiche, emotive e psicologiche che concorrono al risultato finale. Per l’amor di Dio, questa è la scoperta dell’acqua calda in qualsiasi sport di squadra, ma qui i 5 che attaccano difendono anche. In più, i 24 secondi abbinati ai 48 minuti ci regalano partite da 180 se non 200 possessi, in cui i tempi morti sono inesistenti. All’occhio si presentano solo due tipi di pallacanestro: quella buona e quella cattiva. Esse coesistono a qualsiasi livello, senza che si possa tracciare una linea dividendole nettamente secondo criteri 23


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geografici, anagrafici o quant’altro. Nel mio piccolo, mi limito a guardare un’azione, la classifico e poi passo a quella successiva. A bocce ferme posso fare ragionamenti sui massimi sistemi, durante la partita meno. Di solito generalizza e semplifica chi: a) lo ha sentito dire da un «tennico»; b) apprezza aprioristicamente un solo brand di basket e denigra gli altri per dimostrare la superiorità del «suo»; c) ragiona in astratto. Non esiste un basket NBA, ne esistono almeno 30, alcuni belli e altri meno. Il triangolo laterale può piacerti più del motion offense, ma preferisci vedere il secondo giocato bene che il primo giocato male. Ieri, oggi e domani, in cinque continenti, ci sono azioni buone e azione cattive, che si alternano nella stessa partita. Trovare linee di tendenza è affascinante, ma bisogna fare ragionamenti accurati, non un tanto al chilo. I 200 possessi ci garantiscono che il verdetto del campo non può essere frutto di un accidente. Altro che golletto in contropiede e poi in undici sulla linea di porta, altro che il 19-18 con cui i Fort Wayne Pistons superarono i Minneapolis Lakers nel 1950, inducendo l’NBA a introdurre i benedetti 24 secondi. A parità di talento, vince sempre chi lavora meglio e di più (in quest’ordine). Nel suo essere sport esatto e logico, ma nient’affatto noioso e prevedibile, il basket ha un rapporto strettissimo con la Giustizia. Diritto e pallacanestro, per quanto ambedue oggetto di dotte codifiche, rimangono discipline altamente argomentabili. Ci sono mille modi di difendere contro una certa azione, e altrettanti di qualificare giuridicamente un certo fatto. Leggi e codici mutano 24


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alla stessa vorticosa velocità con cui si evolvono la tecnica e la tattica del Gioco. In Tribunale come in Campo però, alla fine chi ha ragione vince, e non saranno 2 eventuali eccezioni a contraddire 98 regole. Quel rettangolo di parquet è una grande Corte di Giustizia, quando sento parlare di fortuna mi viene l’orticaria. Chiaro, se perdi all’ultimo secondo dopo quattro supplementari e il centro aveva appena scoperto il play dentro l’armadio della sua camera da letto, qualche dubbio può venirti. È umano pensare che sarebbe bastato cambiare uno di quei fattori, magari la fedeltà della fedifraga, per vincere di uno. Questo non significa però che allora sia Tiche, la Dea Bendata, a distribuire a proprio uzzolo i referti rosa. Gli Dei del Basket sono razionali e premiano chi li ha rispettati di più, anche se magari di un’inezia. Perché sapete che gli Dei del Basket esistono, vero? Sono divinità laiche a forte componente etica, che prediligono chi si allena bene e tanto, gioca di squadra, si sforza di capire il Gioco e antepone la prestazione al risultato. Per tornare alla mitologia, la Dea sotto canestro è Diche (la Giustizia, raffigurata con la sua bilancia), non Niche (la Vittoria) o Ares (la Guerra). Cosa può esserci di più affascinante di un Gioco bello e complesso che appaga la vista, stimola la mente ed è sempre crudelmente giusto? Nulla. E infatti nulla c’è. Ai lov dis gheim anche perché ci vedo dentro una spiccata spiritualità. Non è lo snobismo del sognante baskettaro medio ma una solida realtà, modello Immobildream di Roberto Carlino. Papà Charles e mamma Elizabeth erano membri della Chiesa 25


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Pentecostale, che nello splendido Maverick (la prima e meno adulterata biografia dell’uomo) Philip Douglas Jackson descrive come «un movimento che trasformava normali frequentatori di Chiesa in fanatici» e «una religione tesa al proselitismo che insegnava come il mondo fosse giunto vicinissimo alla sua fine». Al futuro guru cestistico i pasti erano serviti alle 8, alle 12 e alle 18, e un minuto di ritardo bastava per rimanere digiuno senza appello. Di accesso a TV, sale da ballo o cinema (primo film visto a 17 anni) neppure a parlarne. L’unico svago concesso era fare sport la domenica, ma spiritualità il piccolo Phil ne ha respirata a pacchi, 24/7/365. Papà gli raccontava ogni giorno di guarigioni miracolose e discorsi in glossalia, un gramelot ispirato dallo Spirito Santo che le persone cominciavano a parlare quando venivano illuminate dal Signore. Con un background del genere, non poteva che essere l’ex hippie a sostenere che c’è una forte componente spirituale all’interno di un gruppo che gioca a basket. Un sentimento non religioso che pervade i giocatori ma contagia anche gli spettatori. Sostiene Jackson che quando vediamo una bella azione aspettiamo con ansia il replay (a palla morta, please) perché è il frutto del lavoro di un gruppo e non la prodezza di un singolo. Il ben remunerato plenipotenziario dei Knicks non mente, anche se con queste cose ci marcia. Dipingerlo come un alternativo che ha vinto a suon di metodi Zen e tradizioni dei Nativi è divertente ma fuorviante. Basti vedere quanta meticolosa attenzione dedichi alla prosaica manipolazione degli altri tramite il rivedibile meccanismo chiamato comunicazione. Vi è passata la poesia? Niente paura, la componente spirituale nel basket c’è davvero. 26


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