PREFAZIONE
Le brutali leggi e usanze riportate in questo racconto sono fatti storici, così come gli episodi in cui esse vengono illustrate. Sebbene non si sappia con certezza se queste leggi e usanze esistessero davvero nell’Inghilterra del sesto secolo, si può con buona ragione affermare che, nella misura in cui esse sono documentate presso quella inglese come in altre civiltà di tempi assai più moderni, non rappresenti calunnia verso quei giorni antichi supporre che fossero in auge anche allora. Si può senz’altro desumere che al posto di qualunque legge o usanza non appartenente a quel secolo remoto, al suo posto ve ne fosse un’altra ancora più truce. La questione della discendenza divina dei re non è trattata in questo libro. È una cosa troppo complessa. Che il sovrano assoluto di una nazione dovesse possedere un nobile carattere e abilità straordinarie, invece, era fuori discussione; così come il fatto che nessuno all’infuori di un’infallibile Divinità potesse permettersi di designare quel sovrano, e che spettasse alla sola Divinità compiere quella scelta. Pertanto, che fosse proprio Egli a compierla non è che un’ovvia deduzione. Naturalmente, solo finché l’autore di questo libro non si è imbattuto in Madame de Pompadour e Lady Castlemaine e altri sovrani assoluti di quel tipo: figure talmente complesse che mi è sembrato più saggio muovermi in direzione opposta con questo libro (che andrà in stampa 5
in autunno), in modo da avere tempo di studiare e dirimere la questione in un altro volume. Si tratta di certo di cose che meritano di essere affrontate e risolte, e comunque il prossimo inverno non ho nulla da fare. Mark Twain Hartford, 21 luglio 1889
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UN AMERICANO ALLA CORTE DI RE ARTÙ
Un breve preambolo
Fu al castello di Warwick che incontrai il singolare sconosciuto di cui mi accingo a raccontare. Tre cose mi incuriosirono di lui: la sua schietta semplicità, l’incredibile familiarità con le antiche armature e la sua riposante compagnia – in quanto parlò sempre e soltanto lui. Ci ritrovammo, da persone modeste quali eravamo, uno accanto all’altro in coda alla fila di visitatori del castello, e da subito le sue parole catturarono la mia attenzione. Mentre parlava con quel suo tono pacato e fluente sembrava che andasse pian piano alla deriva, lontano dal nostro mondo e dal nostro tempo, verso un’epoca remota e un’antica terra dimenticata; un poco alla volta fui così imprigionato dal suo incantesimo che mi parve di trovarmi attorniato dai fantasmi e le ombre, la polvere e la muffa di quella plumbea antichità, quasi come se mi stessi intrattenendo con una reliquia in carne e ossa! Allo stesso modo in cui io parlerei dei miei amici più cari o degli acerrimi nemici, o delle persone a me più vicine, lui parlava di ser Bedivere, ser Bors de Ganis, ser Lancillotto del Lago, ser Galahad e tutti gli altri grandi nomi della Tavola Rotonda. E quanto vecchio, vecchio, indicibilmente vecchio e smunto e ammuffito e vetusto diventava man mano che procedeva nel racconto! Ma in quel momento si voltò verso di me e disse, come se stesse commentando il tempo o un’altra questione banale: 7
«Di certo conosce la trasmigrazione delle anime; ma cosa sa della trasposizione delle epoche e dei corpi?» Gli dissi che non ne avevo mai sentito parlare. Ma poco gli importava della mia risposta – proprio come quando si parla del tempo – che nemmeno si accorse della mia replica. Ci fu un mezzo istante di silenzio, subito interrotto dalla voce tediosa del nostro cicerone a cottimo: «Antica cotta di maglia datata sesto secolo, i tempi di Re Artù e la Tavola Rotonda; si dice essere appartenuta al cavaliere ser Sagramor le Desirous; osservate il foro circolare nella maglia alla sinistra del petto; non se ne conosce la causa. È possibile che essa sia un proiettile successivo all’invenzione delle armi da fuoco, forse opera dei maligni soldati di Cromwell». Il mio nuovo amico sorrise – ma non fu un sorriso moderno, fu piuttosto una smorfia che doveva essere in uso chissà quanti secoli fa – e poi mugugnò qualcosa: «Mi stia a sentire, io c’ero quando è successo». E, dopo una breve pausa, aggiunse: «È opera mia». Appena mi fui ripreso dal fremito di sorpresa seguito alle sue parole, mi accorsi che era sparito. Trascorsi la serata immerso in fantasticherie sui tempi antichi accanto al caminetto della locanda Warwick Arms, con la pioggia battente alle finestre e il rombo del vento tra angoli e grondaie. Di tanto in tanto mi rituffavo nella lettura dell’incantevole libro di ser Thomas Malory, servendomi al suo ricco banchetto di prodigi e avventure, inalando la sublime fragranza di quei nomi obsoleti, e riprendendo a fantasticare. Essendo passata da un po’ la mezzanotte, decisi di leggere un altro racconto, quello della staffa. Lo riporto qui:
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Come ser Lancillotto uccise due giganti, e liberò un castello E come se non bastasse gli si pararono davanti due imponenti giganti, armati di tutto punto, fuorché sul capo, e con due clave spaventose in mano. Ser Lancillotto si protesse con lo scudo, deviando il colpo di uno dei due giganti, e poi ne mozzò la testa di netto con la spada. Non appena il suo compagno se ne avvide, fuggì via come un forsennato per timore di altri fendenti letali, al che ser Lancillotto prese a inseguirlo con baldanza e lo infilzò nella spalla, e poi in mezzo alla schiena. Allora ser Lancillotto tornò verso l’ingresso del castello, dove fu accolto da sessanta signore e damigelle, e tutte gli si inginocchiarono davanti per ringraziare Dio e lui di averle liberate. Sapete, signore, gli dissero, quasi tutte noi siamo state prigioniere dei giganti per sette lunghi anni, e abbiamo intessuto ogni sorta di manufatto di seta per guadagnarci da mangiare, pur avendo tutt’altro che umili natali, e che sia benedetto il giorno, o cavaliere, che voi siete venuto al mondo, perché avete compiuto l’impresa più eroica che cavaliere abbia mai compiuto nel mondo intero, di cui noi serberemo per sempre ricordo, e vi preghiamo di dirci il vostro nome affinché possiamo riferire ai nostri amici chi ci ha liberate dalla nostra schiavitù. Mie belle damigelle, disse egli, il mio nome è ser Lancillotto del Lago. Quindi si congedò da loro raccomandandole a Dio. Tornò infine in sella al suo cavallo e partì, attraversando molte terre selvagge, valli e corsi d’acqua, dormendo all’addiaccio in misere condizioni. Finché, per sua fortuna, una notte non capitò nei pressi di un bel cortile, ove trovò un’anziana nobildonna che lo accolse con grande gentilezza, e presso di lei poté rifocillarsi, e con lui il suo cavallo. Quando fu l’ora di 9
coricarsi, la sua ospite lo condusse attraverso il solaio al suo letto per la notte. Ser Lancillotto si liberò dall’armatura e ripose i finimenti accanto a sé, poi si coricò e in breve tempo si addormentò. Non passò molto che qualcuno arrivò a cavallo e prese a bussare alla porta di casa in modo concitato. Appena l’ebbe udito, Lancillotto balzò in piedi e si affacciò alla finestra. Il chiarore della luna illuminava tre cavalieri all’inseguimento di un uomo, e quando questi lo ebbero raggiunto cominciarono a dargli staffilate con le spade mentre lui, con coraggio, si difendeva come poteva. È necessario, disse ser Lancillotto, che accorra ad aiutare quell’uomo laggiù, perché sarebbe un disonore per me vedere tre cavalieri contro uno e non intervenire, ché se egli dovesse perire ne sarei complice io stesso. Fu così che indossò l’armatura e calandosi dalla finestra con un lenzuolo raggiunse i quattro cavalieri. Allora ser Lancillotto disse, stentoreo, vedetevela con me, cavalieri, e cessate la lotta contro quest’uomo. Al che i tre lasciarono in pace ser Kay e si volsero contro ser Lancillotto, ingaggiando una feroce battaglia, perché si scagliarono tutti insieme e assestarono gran colpi contro di lui, assalendolo da ogni lato. Allora ser Kay affiancò ser Lancillotto allo scopo di prestargli aiuto. No ser, disse, non desidero il vostro aiuto, pertanto se voi desiderate il mio, lasciate che li affronti da solo. Per compiacere il cavaliere, ser Kay si fece da parte. Bastarono sei colpi di Lancillotto a che i suoi avversari finissero a terra. A quel punto i tre si misero a gridare disperati: o grande Cavaliere, ci inchiniamo di fronte alla vostra abilità senza eguali. Non voglio che vi inchiniate a me, disse ser Lancillotto, bensì a ser Kay il siniscalco, solo in questo caso vi risparmierò la vita. O giusto Cavaliere, risposero quelli, ci fa orrore prestarci a questo. Il motivo è che l’abbiamo inseguito fin qui e l’avremmo sopraffatto se voi non vi foste frappo10
sto; pertanto non vediamo ragione di inchinarci a lui. Se è così, rispose ser Lancillotto, pensateci bene, in quanto state scegliendo tra la vita e la morte, e se vi inchinerete davanti a qualcuno, questi sarà ser Kay. O equo Cavaliere, dissero allora quelli, allo scopo di avere salve le nostre vite faremo come ci comandate. Allora, disse ser Lancillotto, il prossimo giorno di Pentecoste vi recherete alla corte di Re Artù, e lì vi inchinerete di fronte alla regina Ginevra, affidandovi alla di lei grazia e misericordia, dicendo che siete stati inviati lì da ser Kay affinché diveniste suoi prigionieri. La mattina seguente ser Lancillotto si alzò presto, e lasciando che ser Kay continuasse a dormire indossò la di lui bardatura e si armò del di lui scudo, quindi andò alla stalla e prese il di lui cavallo. Dopo essersi congedato dai suoi ospiti, partì. Quando ser Kay si destò si accorse subito che ser Lancillotto era partito, e che aveva preso con sé la sua armatura e il cavallo. Quanto è vera la mia fede, so che la corte di Re Artù ne sarà addolorata, in quanto credendo che si tratti di me gli si faranno contro i cavalieri più arditi, ingannati dalla sua apparenza; mentre io, grazie alla sua armatura e allo scudo, di certo potrò cavalcare in pace. Poco dopo aver ringraziato a sua volta per l’ospitalità, anche ser Kay partì.
Appena ebbi posato il libro, qualcuno bussò alla porta ed entrò il forestiero di prima. Gli offrii la pipa e una poltrona e gli diedi un caloroso benvenuto. Per metterlo a suo agio gli porsi del whisky scozzese caldo. Poi un altro. Poi un altro ancora – sempre nella speranza che riprendesse il suo racconto. Al quarto tentativo di persuasione, fu lui stesso a lasciarsi andare alla deriva e prese a parlare in modo semplice e con grande naturalezza:
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La storia del forestiero Sono americano. Nato e cresciuto a Hartford, nello Stato del Connecticut – comunque sia, appena passato il fiume, in piena campagna. Perciò sono un vero e proprio Yankee – molto pragmatico; e sì, immagino che i sentimenti non siano proprio il mio forte – né la poesia, a dirla tutta. Mio padre era un fabbro, mio zio un medico dei cavalli, e almeno all’inizio io ero entrambe le cose. Poi finii alla grande fabbrica di armi dove appresi il mio vero mestiere. Imparai tutto ciò che c’era da sapere. Appresi come costruire di tutto: fucili, revolver, cannoni, caldaie, motori, ogni sorta di macchinario che permettesse di risparmiare fatica. Ragion per cui ero in grado di costruire qualunque cosa uno desiderasse – davvero qualunque cosa si potesse concepire. Se non esisteva ancora una maniera tecnologica di costruirla, me la inventavo – con la stessa facilità con cui si fa rotolare un tronco, per giunta. Divenni soprintendente capo. Sotto di me avevo circa duemila uomini. Insomma, va da sé che un uomo come me è sempre pronto alla battaglia. Quando si hanno due migliaia di rudi omaccioni ai propri ordini, costruire diventa davvero divertente. Almeno per me. Finché non mi imbattei in qualcuno alla mia altezza che mi diede filo da torcere. Successe durante un malinteso condotto a colpi di spranga con un tale che avevamo soprannominato Ercole. Mi mise fuori gioco con un colpo di pressa sulla testa che mi fece schioccare tutto, sembrò che ogni singola giuntura del cranio fosse andata ad accavallarsi a quella adiacente. Poi il mondo intero sprofondò nell’oscurità e io non sentii più nulla, persi conoscenza – almeno per un po’. Quando mi riebbi, ero seduto sull’erba sotto a una quer12
cia, davanti ai miei occhi un vasto panorama di campagna, splendido e tutto per me – o quasi. Non era proprio così, infatti c’era un tale a cavallo che mi guardava dall’alto in basso – un tale che pareva appena uscito da un libro di illustrazioni. Indossava un’armatura di ferro antica che lo copriva da capo a piedi, e in testa aveva un elmo a forma di barile con le fenditure per gli occhi; e portava uno scudo, e una spada, e una lancia di lunghezza prodigiosa; e per giunta il cavallo portava un’armatura, oltre a un corno d’acciaio che gli spuntava dalla testa e magnifiche bardature di seta verde e rossa appese tutto intorno come una trapunta che quasi toccavano terra. «Messere, volete giostrare?» disse quel tale. «Voglio che?» «Volete sfidarmi a duello per una terra o una dama o altro?» «Ma di cosa vai farneticando?» dissi. «Tornatene al circo o chiamo la polizia.» E allora cosa fa questo tale? Si allontana di cento, duecento metri e poi si precipita contro di me a tutta forza, con la testa a barilotto poggiata sul collo del cavallo e la sua lunghissima lancia puntata in avanti. Avendo capito che faceva sul serio mi arrampicai subito sull’albero. Mi dichiarò sua proprietà, asservito alla sua lancia. E come contraddirlo – aveva anche un innegabile vantaggio. Mi sembrò saggio assecondarlo. Trovammo un accordo per cui io mi impegnavo a seguirlo e lui a non farmi del male. Scesi dall’albero e ci mettemmo subito in cammino, io lo seguivo a piedi accanto al cavallo. Marciammo e marciammo tra radure e ruscelli di cui non avevo memoria alcuna – e la cosa mi sembrava quantomeno insolita – ma non ci imbattemmo in nulla di simile a un circo. 13
A quel punto abbandonai l’idea del circo e conclusi che doveva essere fuggito da un manicomio. Ma di manicomi neanche l’ombra – insomma, ero alquanto scombussolato, per così dire. Gli chiesi quanto distante fosse Hartford, e lui replicò che non l’aveva mai sentita nominare. Ovvio che sta mentendo, pensai, ma lasciai perdere. Un’ora dopo scorgemmo una cittadina adagiata in una valle percorsa dalle pieghe di un fiume; e in cima a una collina, sovrastava la valle un’immensa fortezza grigia, con tanto di torri e torrette, la prima che mi fosse capitato di vedere che non fosse un’illustrazione. «È Bridgeport?» domandai indicando col dito. «Camelot», rispose il tale. Il forestiero cominciava a dare segni di stanchezza. Con la testa ciondolante per il sonno, mi fece uno dei suoi penosi sorrisi d’altri tempi e disse: «Per stasera non riesco più a proseguire col racconto. Ma venga con me, ho scritto l’intera storia e se ne ha voglia può leggerla». Nella sua stanza, mi disse: «Sulle prime tenni un diario. Poi, con gli anni, ho trasformato il diario in un libro. Ah, ne è passato di tempo!» Mi porse il manoscritto e indicò da dove avrei dovuto cominciare a leggere: «Cominci da qui – le ho già raccontato cosa succede prima». Ormai stava per cedere alla sonnolenza. Quando fui alla porta per uscire, mormorò semiaddormentato: «Buon riposo a voi, messere». Tornato al caminetto mi diedi a esaminare il mio tesoro. Tutta la prima parte – che poi era la gran parte – era composta da pergamena ingiallita dagli anni. Una pagina in particolare mi dava l’idea di essere un palinsesto. Sotto alla scrittura vecchia e incerta del mio yankee studioso di 14
storia, scorsi tracce di una calligrafia ancor piÚ vecchia e incerta – parole latine, ma anche intere frasi: frammenti di antiche leggende di monaci, era evidente. Saltai al punto che mi aveva indicato il forestiero e cominciai a leggere quanto segue.
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