IL THAILANDESE
‘A ma’, me devi da preparà ‘a carne, nun la voglio ‘sta zuppa de merda de ‘e parti tua. Ma come cazzo to’o devo dì? Nun me va de magnà ‘sta merda, me devi cucinà ‘a pasta. Te sei venuta qua, hai preso er cazzo, t’è piaciuto, ma se me volevi magnazuppa me dovevi fa’ cresce a Bangkok, no a Roma: ora sto qua, ce so’ cresciuto e me piaceno artre cose, quindi vedi de nun famme sentì più st’odore de merda, ché nun è che pecché c’ho l’occhi a mandorla me devo da accollà pure er resto. Daje, su, ora levate dar cazzo che c’ho gente, vatte a fa’ un giro che me stanno pe’ arrivà i russi e c’ho da parlà de affari, mica de zuppe de merda. Certo che poi fa’ quello che cazzo te pare, basta che te ne vai, su, scenni, tiè, vatte a comprà quarcosa e quanno torni porta du pizze, così magnamo da esseri umani, anzi: da romani veri. Ma tu guarda se me devo mette a fa’ ‘ste storie tutti i giorni, con la marea di cazzi che c’ho. Dovevo anna’ via quando s’era liberato quer posto a Fregene, porcoddue, e invece me so’ fatto fregà dar core, e so’
finito qua a far er benzinaro dei tossici, ma se me va bene er piano: svorto, e me sa che me tocca annà a Bangkok a cercà er resto da’ famiglia, così pe’ un pochetto pure mamma è contenta, annamo a trovà i parenti thailandesi, se famo un viaggetto che mamma saranno anni che nun esce da Roma. S’è ‘mprigionata come ‘na fregnona, s’è fatta ‘ngannà da quer marcantonio de mi padre, uno che faceva la comparsa a Cinecittà, le marchette in palestra e lo scemo co’ le straniere, e lei c’è rimasta, poi lui co’na striscia de troppo c’è cascato al gabbio, e dopo, quann’è ‘scito, nun s’è ripreso, pure quanno veniva agli incontri che facevo nun c’aveva più er quid, pe’ llui ssi vincevo o perdevo era uguale, è annato avanti un paro de anni e dopo s’è buttato dar tetto, porcoddue. Io ce so’ rimasto sotto de brutto, mi madre l’ha presa mejo, e dopo semo finiti che c’era bisogno de dasse da fa, che m’è toccato smette de combatte e de metteme a trafficà coi negri prima e coi russi dopo. Er problema principale mio era de volè combatte senza avecce la volontà. M’ero illuso che la vita aspettasse come la gente ar tram, e invece nun solo er tram passa e nun te vede, no, te ce mette pure sotto er padre. E te ritrovi co’ na madre orientale che nun s’è mai ambientata, nun c’ha voglia de magnà romano e nemmeno de fattelo magnà, quasi che fosse ‘na punizione pe’ quello che j’è successo. Io je dico le cose sur grugno ma poi cerco de daje tutto, ora che c’ho ‘na piazza mia e
che lavoro da casa, che c’ho clienti de’ncerto tipo e che me sto a lascià dietro quegli artri, quelli che c’avevo prima, certi morti de fame che scansate. Adesso coi russi sta a cambià tutto, Roma sta veramente a passà a ‘nantro livello de droga e de criminali, detto con rispetto: i russi coi negri nun se mettono, è come avecce Totti in squadra, quando te sembra che stai a perde ce pensano loro. Ridono poco, però se te ce metti e loro se fidano, s’arriva ad avecce tanto. Questo è er terzo mese de prova, se fila liscio passo ar livello successivo. Come ai videogiochi de quando ero regazzino. Quello che nun so’ è se dopo alla fine ce sta er mostro che me far er culo, ma nun me va de pensacce, me va de godemme er lavoro, dopo anni de spaccio coi negri, che tutte le volte che c’annavo me veniva voglia de darje ‘na cortellata, no, non perché nun se fidaveno, anzi, quelli me consideraveno come un cugggino pe’ via der fatto che so’ mezzo asiatico, e quinni italiano de seconda, quello che a loro se glie’ va bene nun capita prima de ‘ntrentennio, era un fatto de adesività, ché stavamo quasi seduti de fianco. E mica l’hanno presa bene quanno gli ho detto che me ne annavo, c’hanno provato a convincerme, ma due l’ho sderenati e gli ho ricordato che comunque me so’ difenne, e gli altri c’hanno pensato i russi. Certo, il capo, Tokunbo, un animale che in confronto Balotelli sembra mi’ cugggina, me l’ha giurata, con un proverbio nigeriano che nun me ricordo, una cosa di
tempo e pure de elefanti, che i russi manco c’hanno riso, e nun so pecché nun gl’hanno sparato. Sur finale s’è dovuto tené tutto, e magnasse er proverbio e pure le minacce. C’è voluto meno tempo pe’ levasse dar cazzo i negri che i tossici, che ancora me chiameno pe’ quarcosa che nun c’hanno, pecché ‘a roba dei russi, è de n’artro livello, semo saliti de brutto in classifica. Loro la chiameno Koba, non Coca, e anfatti tutti quelli che c’ho ora e che vado a servì casa pe’ casa come ‘n postino, so ggente seria, je porto er cofanetto, co’ la scritta in russo, e quelli nun c’hanno che da ride come pischelli, e io me sento Babbo Natale, che se nun me sbaglio era proprio de quelle parti o no?
A CASA DEL THAILANDESE
Il primo russo è in verità albanese. Ex pugile, bronzo alle Olimpiadi di Pechino, al posto del professionismo ha scelto le vacanze romane, più casini ma una carriera sicura: se gli va bene tornerà a casa con una città da gestire, e per adesso fa la scorta al portavalori. Accompagna il secondo russo, che è ucraino, niente a che vedere con la boxe, ha un passato con un lavoro in fabbrica a Kiev, poi anche lui ha scelto il sole dell’Avvenire, che ha scoperto stare a Roma non a Mosca. Visti da dietro sembrano Pippo e Topolino. Uno copre i passi dell’altro. Sorvegliano i traffici e scongiurano gli assalti, fanno il giro degli spacciatori, consegnano la merce e ritirano i soldi del carico precedente. Hanno una moto perché il traffico non deve influenzare le consegne, loro vanno sempre, potete giurarci, piova o ci sia il sole, se han detto che arriveranno, lo faranno. Hanno appena lasciato Romeo Mallardo, un vigile che fa gli straordinari, un cavallo sicuro sul quale hanno puntato da un anno e che arriva sem-
pre primo. Hanno persino bevuto con lui perché ha appena chiesto di raddoppiare le dosi, gli affari vanno alla grande, ma loro prima di mollare il doppio della merce devono riferire al capo, a Koba, e poi gli diranno. Prima di ottenere questo regalo, Mallardo sarà tenuto d’occhio, perché il doppio delle dosi significa il doppio del rischio, e quando allarghi il giro puoi sempre inciampare, può capitare di rifornire quello sbagliato o, peggio, può capitare di darla a quello giusto ma con le idee sbagliate, e le conseguenze sono facili da immaginare. I due russi sono usciti con questi pensieri, mentre Romeo è rimasto a provare la merce, a ridurne le dosi, e ha chiamato Nina Pontani, una cassiera del supermercato ESSESSE, a duecento metri dalla sua finestra, che scoperà sulle balle di zucchero semolato del Cavaliere Benetti nel grande deposito, mentre i russi supereranno a destra le auto nel lungo viale prima di arrivare a casa del Thailandese e, arrivati lì, saliranno sul marciapiede, parcheggeranno a destra dell’ingresso, il primo russo si toglierà il casco mentre il secondo citofonerà con una pressione spropositata, il suono del citofono dirà in modo inequivocabile al Thailandese che la merce è arrivata e se ha problemi dovrà risolverli nell’arco di tempo che corre tra l’apertura del portone principale e il loro salire le scale fino al terzo piano, se non ha problemi è sempre meglio, se non ha sua
madre lo è ancora di più, se poi ha già anche i soldi pronti la visita diventa un lampo: i suoi punti da concorso per spacciatore ufficiale saliranno, e la sua posizione in classifica lo porterà nel gruppo degli affidabili, di quelli che si guadagnano la stella di ghiaccio dello spaccio.
IL COMMISSARIO AVEMARIA
Mia madre diceva sempre che solo due servitori dello Stato andavano tutte le mattine a messa prima di cominciare il loro lavoro: Andreotti e io. Solo che io non faccio il presidente del Consiglio, né il ministro degli Esteri, no, molto più semplicemente sono una commissaria di Polizia, nemmeno in un commissariato importante di Roma, tanto che non ha un nome ma una sigla, e io non ho gloria e spesso neanche molto da fare. Sono Rosa Salieri e, sì, credo in Dio prima che nello Stato, nelle sue leggi prima che nel codice penale. Sono fuori tempo? Può darsi. Ma avere Fede mi consente di avere pazienza e forza quando lavoro, di essere corretta e persino – quando mi lasciano condurre qualche inchiesta – arrivare ad arrestare i colpevoli. Mai avrei creduto che il mio essere così osservante potesse causarmi tanti problemi con i superiori e persino con i colleghi, quasi che la Polizia fosse una religione a parte e non il braccio dei sani principi cristiani che la nostra Chiesa ha concepito e ribadito. Sono entrata in Polizia quando
ho sentito il Santo Padre, Giovanni Paolo II, pronunciare un discorso contro la mafia nella mia città, Agrigento, e in quel momento ho capito che servivo a Dio più come poliziotta che come suora, perché prima sì, non mi vergogno a dirlo, volevo andare in Africa, e prima ancora avevo pensato a Madre Teresa di Calcutta al suo ospedale in India, poi mio padre mi portò ad ascoltare Wojtyla e io ebbi la rivelazione. Non ne parlai con nessuno, come prima non avevo fatto parola di voler prendere i voti, nemmeno al mio prete, sono sempre stata una persona responsabile fin da bambina. Il resto è venuto da solo, sono cresciuta tra l’Azione cattolica e lo studio, ho preso la laurea in legge e poi ho fatto il concorso, mi sono fatta i miei anni a Ventimiglia a guardar passare camion, e dopo una brillante azione di recupero di due quadri di de Chirico ho avuto la promozione e la possibilità di scegliere tra Roma e Castel Volturno, quindi mi son detta: «Meglio la città di Pietro», ed eccomi qua. Ho un monolocale con i mobili Ikea a farmi compagnia, un vecchio confessore che ha letto troppe volte, anzi forse solo Sant’Ignazio di Loyola, qualche amica e un cane, Rocco, un Akita, bianchissimo che sopporta i miei ritmi, mi aspetta e soprattutto non si lamenta mai, che ci crediate o no. Eppure l’ho preso grande, era a casa di un nero che aveva un giro di combattimenti tra cani. Non combatteva era il cane del capo, ed è rimasto di fianco a lui anche quando
è morto – per una scommessa sbagliata. Sono stata colpita dalla sua compostezza e visto che nessuno lo voleva l’ho preso io. Da allora, e sono passati due anni, sta con me. Mia madre è morta, mio padre è rimasto solo ad Agrigento, e qua non vuole mai venire, e così ogni tanto cerco di andare giù in Sicilia a trovarlo. Il risultato sono giorni di pochi sorrisi, troppo cibo e recriminazioni per aver scelto questo lavoro. Io comprendo che la sua diffidenza è la prova alla quale il Signore mi sottopone per aver scelto questa missione e quindi rispondo allo stesso modo, sempre con la stessa frase che non riesce mai a consolarlo, perché lo chiama in causa, quando gli dico: «È colpa tua, mi portasti tu quel giorno dal Santo Padre». Lui fa una smorfia di disgusto ma leggera perché in fondo lo sa che è così, come sa che non ho sbagliato a seguire quello che ho sentito quel giorno. E questo è il nostro segreto, perché prima di adesso non lo avevo mai detto a nessuno di quando tutto era cominciato, di quando ho capito che questa era la mia strada, come un San Paolo donna e di Agrigento, non di Damasco, così improbabile se non fosse vero, se io non fossi la prova vivente che non mento, come se la mia vita stessa non dicesse: «Eccomi, serva tua».