INTRODUZIONE
In un’epoca di storytelling, ricordarsi da dove veniamo è più importante che mai. Il libro che state per leggere si occupa di personaggi non conosciutissimi che vengono dal passato perché più e prima che raccontare delle storie è importante raccontare la Storia, intesa come maestra di vita (in questo caso di basket). «Storia» è un termine che viene dal latino historia ma quest’ultimo deriva a sua volta dal greco ἱστορία (istoría), che significa ricerca e ha la stessa radice del verbo ὁράω (orao) cioè «vedere» o, in senso lato, «conoscere». Ok, ok, ammetto che sono partito un po’ lento, ma volevo fissare bene i termini della questione per convincermi che dalle storie alla Storia il passo è breve. Quelle che ho provato a raccontare sono storie di persone, non personaggi, che hanno profondamente cambiato il basket. Io, che di basket americano mi occupo tutti i giorni della mia vita da oltre trent’anni, non le conoscevo, almeno non a sufficienza. Non sapevo dell’esistenza di Bob Douglas e Kenny Sailors, e se avevo letto dei libri su Molinas, Strom e Newell li avevo dimenticati completamente, il che è quasi peggio dell’ignoranza. Eppure la ricerca, grazie ai nuovi strumenti messi a disposizione dalla tecnologia, è diventata una parte importante del mio lavoro. C’è voluto però del tempo perché diventasse
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anche una nuova passione, e un invito del solito editore perché diventasse un libro. Tornando al concetto iniziale, escludo che quanto andrete a leggere possa definirsi storytelling in senso proprio. Per lo storytelling ci vuole (ci vorrebbe) un grande narratore, un Buffa o un Velasco per rimanere in campo sportivo. Gente che sa cogliere il senso di una storia e trasmetterlo agli altri, con una capacità di narrazione che manca a un operaio della ricerca come il sottoscritto. Gente che starei a sentire per ore, e scommetto anche voi, per l’originalità dei contenuti. In questo caso, al contrario, si tratta di un servizio reso a chi non ha la fortuna di poter dedicare a questo affascinante processo di ricostruzione del passato il tempo che merita. Perché se la memoria è irrinunciabile, è giusto esercitarla con rigore certosino, senza fare sconti neppure al più insignificante dei fact-checking e senza negarsi una singola digressione o collegamento. Ecco, fact-checking sì che è una parola che sento mia, molto più di storytelling. Le cinque storie che state per leggere sono molto più una ricostruzione che un racconto. Si parla di persone che non ho conosciuto e di fatti cui non ho partecipato come testimone, con i conseguenti rischi di riportare qualche circostanza in maniera parziale se non erronea. Pazienza, studiare ciò che non si conosce val bene il rischio di un’inesattezza, perché capire vale qualsiasi rischio. Capire come da una fattoria del Wyoming si possa tracciare una linea che arriva dritta agli Splash Brothers e agli altri grandi tiratori di oggi. Come una sala da ballo di Harlem abbia aiutato un intero popolo a trovare dignità. Come giudicare gli arbitri sia infinitamente più facile che essere giudicati da loro.
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Come il male stesse dentro lo sport anche prima dello scandalo di cui avete, purtroppo, letto stamattina sul giornale. E come della parola «genio» si abusi in maniera oscena, ma qualche genio in panchina c’è pur stato, anche se non ha ricevuto il trattamento che avrebbe meritato. Perché provare a capire quello che non si conosce sia davvero importante lo ha spiegato in maniera straordinaria Kareem Abdul-Jabbar, che incontreremo spesso in queste pagine. «Tutti noi – ha scritto – tendiamo a rifiutare quello che non capiamo, siano cibi, culture o idee. Uno studio dell’Università di Yale ha dimostrato che quando ci viene dimostrato che una nostra opinione è infondata il cervello rilascia un additivo chimico per farci sentire meglio, come se volesse incoraggiare ignoranza e paura. Se volete diventare uomini, combattete quell’impulso. Diventare uomini significa crescere, imparare e capire, non nascondersi sotto una coltre di nozioni confortanti». Nello scrivere mi sono preso una bella soddisfazione personale: rendere giustizia alle centinaia di storie che in questi lunghi anni di telecronaca ho portato con me in cabina di commento, salvo poi sacrificarle invariabilmente sull’altare della partita. Storie di cui forse avete sentito qualche spezzone durante il garbage time e che qui, senza l’assillo dei valenti atleti che vanno avanti e indietro per il campo, posso raccontare per filo e per segno. Senza essere costretto ad acrobazie verbali per sintetizzare in pochi secondi vicende complicate, piene zeppe di aneddoti e di riferimenti storici. E poi il bello è la digressione, il collegamento, la chicca: quando mai ci sta tutta questa roba durante una partita? Un testo, al contrario, contiene senza sforzo tutto questo ben di Dio, vietato in
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onda a meno che non ci sia un noto avvocato al microfono. A voi, gentili lettori, chiedo solo un piccolo sforzo di contestualizzazione. Voglio dire, non fate come quelli che ascoltando i calembour e gli ammiccamenti del principe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio dicono che non fa ridere (eresia!). Per capire Totò dovete metterlo in relazione con l’Italia timida, omologata, retrograda e bacchettona di allora, altrimenti vi perdete il migliore di sempre. Lo so anche io che oggi andare a Zelig a dire «la serva serve» e «parli come badi» significherebbe farsi sommergere dai pomodori, ma se non ci fosse stato Totò Zelig forse non esisterebbe neppure. Perciò, leggete tenendo sempre a mente che a quei tempi di tiro da tre, di scouting e di statistiche avanzate non si parlava. Il che non significa, come sostengono in troppi, che tutto quello che succedeva allora fosse meglio di oggi, anzi. Proprio mentre il libro va in stampa si ingrossa il coro degli old-timers che ci spiegano che questo Curry è tutto sommato uno normale e i Warriors non avrebbero avuto una chance contro i Rens, i Toronto Huskies e i Chicago Stags, per non parlare delle inaffondabili corazzate anni Ottanta. Detto da uno che negli anni Ottanta ci è cresciuto e ha volentieri passato mesi a fare ricerche sui tempi che furono: ma davvero non ci rendiamo conto di quanto sia ridicolo questo reducismo a oltranza? Il basket, come ogni cosa della vita, progredisce senza eccezioni. Nel bene e nel male c’era già tutto prima, ma oggi è fatto complessivamente meglio. Se però non sappiamo da dove siamo partiti e come ci siamo arrivati, non possiamo parlare in senso proprio di «progresso». Quindi, viva le intuizioni dei pionieri e viva la loro conoscenza.
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Per sapere chi sono Stern, Bird e Magic, per non dire Steph, LeBron e Pop, non avete bisogno di nessuno, men che mai di me. In corso d’opera ho realizzato che sapevo troppo poco di troppe cose del passato, soprattutto quello meno celebrato. Durante le ricerche ho scoperto che se Abdul-Jabbar non fosse diventato un grande giocatore di basket avrebbe fatto l’insegnante di storia. L’entusiasmo con cui il professore mancato ha ricostruito la vicenda esaminata nel primo capitolo è stato un motivo di sprone a cercare altre storie del genere con cui confrontarsi, lasciando perdere i protagonisti dell’età moderna. Mi piacerebbe che il libro che state per cominciare abbia, anche solo in minima parte, lo stesso effetto che quello del numero 33 ha avuto su di me. E che, dopo averlo letto, anche a voi venga voglia di giocare con la ricerca, con le storie e con la Storia nel nome della memoria. Buona lettura!