100 Capolavori della comicità italiana

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Il Mereghetti 100 capolavori della comicitĂ italiana Selezionando i cento titoli che mi sono sembrati piĂš significativi ho cercato di trovare un equilibrio tra ambizioni satiriche, forza comica e risultati finali, privilegiando naturalmente quelli dove i momenti di ÂŤpuroÂť divertimento si stampano nella memoria dello spettatore.


Americano a Roma, Un (Italia 1954, b/n, 94’) Steno [Stefano Vanzina]. Con Alberto Sordi, Maria Pia Casilio, Anita Durante, Galeazzo Benti, Carlo Delle Piane, Giulio Calì, Carlo Mazzarella, Ursula Andress, Vincenzo Talarico, Ciccio Barbi, Ignazio Leone, Rocco D’Assunta, Pina Gallini, Tecla Scarano, Leopoldo Trieste, Salvo Libassi, Ughetto Bertucci, Toto Mignone. ◆ Moriconi Nando (Sordi) rimpiange continuamente di non essere nato in America, «nel Kansas City»: rinnega (senza riuscirvi) gli spaghetti per lo yogurt, vede solo film americani, parla con una (ridicola) cadenza americanizzante e combina un sacco di guai. Il personaggio nato per Un giorno in pretura diventa protagonista assoluto di una pellicola cucita addosso a Sordi, che dà vita a una galleria dei vari americanismi sviluppatisi in Italia dalla guerra in avanti e per questo il film è un po’ carente di unitarietà. Ma divertentissimo. Particina per l’allora sconosciuta Ursula Andress, nel ruolo dell’attrice svedese che fa il verso a Ingrid Bergman (mentre Ignazio Leone lo fa a Rossellini) durante la trasmissione televisiva rovinata dall’ingresso di Sordi nudo. Sceneggiatura di Sandro Continenza, Lucio Fulci, Ettore Scola, Alberto Sordi e del regista. Entrata per sempre nella memoria popolare la frase: «Maccarone, m’hai provocato e io te distruggo». Papà diventa mamma (Italia 1952, b/n, 84’) Aldo Fabrizi. Con

Aldo Fabrizi, Ave Ninchi, Virgilio Riento, Luigi Pavese, Paolo Stoppa, Carlo Delle Piane, Giovanna Ralli, Giancarlo Zarfati, Enrico Luzi, Mara Landi, Gianna Segale, Marco Tulli, Anna Maria Dori, Armando Annuale. ◆ Spinto dalla moglie (Ninchi) a offrirsi come volontario per uno spettacolo di ipnosi, il signor Peppe (Fabrizi) assume una personalità femminile. Ma siccome il mago Bhormah (Pavese) cade dal palcoscenico e finisce all’ospedale con la testa rotta (e gli occhi strabici), l’effetto dura nel tempo: Peppe manderà la moglie nel suo negozio di stoffe e lui si occuperà

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delle faccende domestiche. La trilogia cominciata con La famiglia Passaguai si conclude con il film più surreale e scatenato, sceneggiato da Fabrizi con Ruggero Maccari e Mario Amendola (da un soggetto di Piero Tellini): se il meccanismo narrativo è evidentemente ripetitivo – Fabrizi in pose femminili che scimmiotta i difetti delle donne – le invenzioni e soprattutto la straordinaria misura recitativa sono la prova del grande (e sottovalutato) talento dell’attoreregista, capace di utilizzare al meglio uno dei luoghi canonici della comicità d’avanspettacolo (il travestitismo) senza mai cadere nella volgarità o nel luogo comune. Assolutamente irresistibile la sua apparizione in camicia da notte e cuffietta o la scena del bucato, con Fabrizi in zoccoli che canta Non c’è trippa per gatti e naturalmente litiga con le altre donne del caseggiato. Perfetto l’uso di due grandi spalle comiche come Virgilio Riento (nel ruolo del commesso Ambrogio) e Paolo Stoppa, lo specialista di «psicoanalisi americana». Fotografia di Mario Bava. Totò a colori (Italia 1953, col, 104’) Steno [Stefano Vanzina].

Con Totò [Antonio de Curtis], Virgilio Riento, Luigi Pavese, Rocco D’Assunta, Franca Valeri, Isa Barzizza, Mario Castellani, Carlo Mazzarella, Galeazzo Benti, Fulvia Franco, Lili Cerasoli, Vittorio Caprioli, Alberto Bonucci, Guglielmo Inglese, Paolo Ferrari. ◆ Il musicista incompreso Antonio Scannagatti (Totò), autonominatosi «il cigno di Caianello», aspetta da anni la risposta dell’editore Tiscordi di Milano (Pavese) a cui ha inviato una sua composizione. Sperando in un’audizione ruba dei soldi al focoso cognato siciliano (D’Assunta) e parte per Milano: capiterà prima a Capri tra un gruppo di esistenzialisti, viaggerà poi in vagone letto esasperando l’onorevole Trombetta (Castellani) per introdursi infine, scambiato per infermiere, nello studio di Tiscordi. Tra i primissimi film italiani a colori (in Ferraniacolor) è antologia dei più bei brani del Totò teatrale e dei suoi sketch migliori sceneggiato da Steno, Monicelli, Age [Agenore Incrocci] e [Furio]Scarpelli. Accanto alla famosa scena dell’aggressione all’onorevole nel wagon-lit («Chi non conosce quel trombone di suo padre» che si conclude con il celeberrimo «ma mi faccia il piacere!» e dove ci sono battute entrate nel mito come «Io sono un uomo di mondo, ho fatto tre anni di militare a Cuneo» oppure «Ogni limite ha una pazienza»), alla scena degli esistenzialisti a Capri (con la gag dello sputo nell’occhio) ci sono due delle sue prestazioni marionettistiche più alte: «il Pinocchio disarticolato che s’affloscia infine, lasciate le corde, in mucchio an-

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gosciante di legni senz’anima, capolavoro di un Totò robot folle e metafisico, e il gran finale del direttore d’orchestra fuoco d’artificio, furia pluriorgiastica di esplosioni a girandola, a schizzo e a vonbraun, e di continue interne metamorfosi» [Fofi]. Assolutamente geniale. Il direttore d’orchestra fuoco d’artificio si era già visto in Fermo con le mani! e I pompieri di Viggiù. Totò, Peppino e la… malafemmina (Italia 1956, b/n, 118’) Camillo Mastrocinque. Con Totò [Antonio de Curtis], Peppino De Filippo, Vittoria Crispo, Teddy Reno [Ferruccio Ricordi], Dorian Gray, Nino Manfredi, Mario Castellani, Corrado Annicelli, Linda Sini. ◆ Decisi a stroncare la relazione tra il loro nipote Gianni (Reno) e una soubrette (Gray), i fratelli Capone Antonio, Peppino e Lucia (Totò, De Filippo e Crispo) vanno a Milano per corrompere la donna e naturalmente finiscono in un ristorante di lusso in compagnia di alcune donnine allegre. L’amore tra i due giovani, invece, è sincero e ai fratelli Capone non resterà che insegnare al nipotino a tirare i sassi contro le finestre dell’odiato vicino Mezzacapa (Castellani). Ispirato alla canzone Malafemmina scritta da Totò dopo l’infelice amore per Silvana Pampanini e qui cantata da Teddy Reno (la sceneggiatura è di Sandro Continenza, Nicola Manzari, Edoardo Anton e Francesco Thellung), è il primo film dove i nomi di Totò e Peppino sono associati nel titolo ed è il loro capolavoro, un gioiello di comicità surreale con l’esilarante scena della dettatura della lettera («Veniamo noi con questa mia addirvi, una parola. Addirvi» […] «Punto! Due punti! Ma sì, fai vedere che abbondiamo. Abbondantis in abbondandum» […] «Punto. Punto e virgola. Punto e un punto e virgola». «Troppa roba». «Lascia fare. Che non dica che noi siamo provinciali, siamo tirati… Salutandovi indistintamente, i fratelli Caponi, che siamo noi»). Indimenticabile anche l’arrivo dei tre a Milano, intabarrati come cosacchi, con le provviste per la sopravvivenza e una lanterna a olio per orientarsi nella nebbia, perché «a Milano quando c’è la nebbia non si vede». Dorian Gray è doppiata da Andreina Pagnani. Vedovo, Il (Italia 1959, b/n, 100’) Dino Risi. Con Alberto Sor-

di, Franca Valeri, Livio Lorenzon, Nando Bruno, Ruggero Marchi, Leonora Ruffo, Mario Passante, Nanda Primavera, Rosita Pisano, Alberto Rabagliati, Ignazio Leone, Angela Luce, Luigi [poi Gigi] Reder, Gastone Bettanini, Ciccio Barbi. ◆ Il treno ca-

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duto nel lago su cui viaggiava la ricca moglie Elvira (Valeri) risolverebbe i problemi finanziari di Alberto (Sordi), industriale velleitario e sull’orlo del fallimento. Ma la donna ha perso il treno della tragedia, e al coniuge non resta che progettare un «delitto perfetto». Sceneggiata da Rodolfo Sonego, Fabio Carpi, Luciano Continenza, Dino Verde e dal regista, una delle commedie più nere di quegli anni (vagamente ispirata al caso Fenaroli), con punte di cinismo davvero inusitato: sia che mostri il disprezzo di Elvira per Alberto, al quale si rivolge abitualmente con «cos’hai, cretinètti?»; sia che ironizzi sui commendatori lombardi (la lezione di vita di Fenoglio [Marchi] all’ex amante di Alberto, Gioia [Ruffo], è tanto esplicita quanto ipocrita); sia che descriva la metodica pedanteria con cui Alberto e i suoi complici (Bruno e Lorenzon) preparano l’assassinio. Tanto da stridere con la parte più dichiaratamente comica. I duetti tra i due protagonisti, comunque, sono irresistibili (Lui: «Guarda che faccio una follia. Io apro il gas». Lei: «Tanto a te cosa costa? Lo pago io»), così come il tentativo di Alberto – romano trapiantato alla Torre Velasca di Milano – di parlare in meneghino («Ma cosa fa, chì a Milàn cun stu cald?»). Dimenticabile remake nel 2013: Aspirante vedovo.

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