Desert solitaire

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LA PRIMA MATTINA

È il posto più bello della Terra. Ce ne sono molti di posti così. Ogni uomo e ogni donna serba nel cuore e nella mente l’immagine del luogo ideale, perfetto, in cui si sente a casa, noto o ignoto che sia, reale o immaginario. Una casa galleggiante in Kashmir, una veduta di Atlantic Avenue a Brooklyn, una cascina grigia a due piani alla fine di una strada sterrata sui monti Allegheny, una capanna in riva a un lago azzurro in una foresta di abeti e pecci, un vicolo sudicio a pochi passi dal lungofiume di Hoboken, o persino, chissà, per chi possiede una sensibilità meno esigente, il mondo visto dall’alto di un confortevole appartamento immerso nella morbida e vellutata foschia di Manhattan, Chicago, Parigi, Tokyo, Rio o Roma. Non c’è limite alla capacità dell’uomo di sentirsi a casa. Teologi, piloti d’aereo e astronauti hanno sentito il richiamo addirittura da lassù, nelle buie e fredde profondità dello spazio interstellare. Io scelgo Moab, Utah. Non la cittadina in sé, ovviamente, ma la regione che la circonda: il territorio dei canyon. Il deserto di slickrock di arenaria. La polvere rossa, i dirupi bruciati, il cielo immenso. Ciò che si trova alla fine delle strade. Questa scelta mi è apparsa evidente stamattina, quando sono uscito dalla roulotte del Park Service – il mio caravan – e per la prima volta nella mia vita ho ammirato il sole sorgere sopra i camini delle fate dell’Arches National Monument. 13


Non ho visto molto del panorama ieri sera. Ho guidato tutto il giorno – ero partito da Albuquerque: 700 chilometri – e sono arrivato a Moab dopo il tramonto. Faceva freddo, tirava vento, il cielo era nuvoloso. Agli uffici del parco, a nord della cittadina, ho incontrato il guardiano e il ranger capo, gli unici due dipendenti fissi, a parte un addetto alla manutenzione, di questa particolare unità del sistema dei parchi nazionali. Dopo un caffè, mi hanno dato le chiavi della roulotte e le indicazioni su come raggiungerla. Mi è richiesto di vivere e lavorare non dove ci sono gli uffici, ma in questa one-man station a poco più di trenta chilometri nell’interno, da solo. Esattamente come volevo che fosse, altrimenti non avrei mai fatto domanda per il lavoro. Lasciati gli uffici e le luci di Moab, ho percorso circa venti chilometri in direzione nord finché non sono arrivato a una strada sterrata sulla mia destra, al cui ingresso c’era un piccolo cartello di legno: «Arches National Monument 8 miglia». Ho abbandonato la strada asfaltata diretto a est, nell’ululante landa selvaggia. Il vento soffiava da nordovest, nuvoloni scuri coprivano le stelle; riuscivo soltanto a vedere grovigli di sterpi e cespugli di ginepro sparsi qui e là sul ciglio. Poi un altro semplice cartello. ATTENZIONE: SABBIE MOBILI NON ATTRAVERSARE IL TORRENTE IN PRESENZA DI ACQUA

Ho illuminato il torrente con i fari: sembrava completamente secco. Sono entrato, l’ho attraversato, sono risalito dall’altra parte e via nella notte. Sui due lati della strada scorci di bizzarre collinette di roccia chiara simili a elefanti pietrificati, dinosauri, folletti dell’età della pietra. Di tanto 14


in tanto qualcosa di vivo mi passava davanti: topi canguro, lepri e quell’animale che sembra un incrocio tra un procione e uno scoiattolo: il bassarisco. Più oltre, una coppia di cervi mulo è uscita dalla boscaglia e ha attraversato la luce dei fari, sollevando degli sbuffi di polvere che il vento, muovendosi più veloce del mio pick-up, ha raccolto e portato lontano dalla mia vista, nell’oscurità. La strada, stretta e sassosa, svoltava bruscamente a destra e a sinistra, si inabissava in anguste forre e risaliva gradualmente verso una cima che avrei visto solo alla luce del giorno. La neve mulinava nell’aria quando ho oltrepassato la linea non recintata del parco e ne ho superato il confine. Quattrocento metri dopo ho trovato la stazione del ranger: uno slargo sulla strada, un pannello informativo sotto una tettoia, e dopo altri cinquanta metri la minuscola roulotte di stagno fornita dal governo dove vivrò per i prossimi sei mesi. Una notte fredda, un vento freddo, i fiocchi di neve che cadono come coriandoli. Alla luce dei fari ho aperto la roulotte, ho preso sacco a pelo e bagagli e sono entrato. Grazie alla torcia ho trovato il letto, ho srotolato il sacco a pelo, mi sono tolto gli scarponi, mi sono infilato dentro e mi sono addormentato subito. L’ultima cosa che ricordo è la roulotte scossa dal vento, e il rumore, proveniente dall’interno, dei topi affamati che scorrazzavano in giro, felici per la buona notizia che avevano appena ricevuto: il loro lungo inverno solitario di stenti era finito. Era finalmente arrivato un amico, qualcuno che avrebbe portato a casa il pane. Stamattina mi sveglio prima dell’alba, tiro fuori la testa dal sacco a pelo e fuori dalla finestra ghiacciata vedo una scena confusa e indistinta: una nebbiolina che sale e, dietro, 15


il profilarsi minaccioso di ombre scure e fantasmatiche. Un panorama incredibile. Mi alzo, vado avanti e indietro per la roulotte in calzini e mutandoni, piegandomi con attenzione sotto il soffitto basso e le porte ancora più basse; la roulotte è un congegno abitabile costruito in modo così efficiente e compatto che si ha a malapena lo spazio per respirare. Un polmone d’acciaio con finestre e veneziane. I topi sono in silenzio, mi guardano dai loro nascondigli, ma il vento soffia ancora e fuori il terreno è tutto coperto di neve. Freddo come una tomba, una prigione, una caverna. Mi sdraio sul pavimento impolverato, sul linoleum freddo cosparso di cacche di topo, e accendo la fiamma pilota della stufa a butano. La roulotte si scalda in fretta, ma è un caldo denso e malsano, con una concentrazione di calore proprio sotto il soffitto all’altezza della testa e aria ghiacciata dalle ginocchia in giù. Non manca nessuna delle indispensabili comodità: fornello a gas, frigorifero a gas, scaldabagno, lavello con acqua corrente (se non gelano i tubi), armadietti e scaffali, tutte cose lontane l’una dall’altra non più di un braccio. Il gas proviene da due bombole d’acciaio sistemate in un capanno esterno; l’acqua scende grazie alla forza di gravità da una cisterna sepolta in una collina poco distante. Che abbondanza per essere in mezzo alla natura. Ci sono persino una cabina della doccia e un water dotato di sciacquone con un topo morto nella tazza. Molto tenero. La mia povera mamma ha tirato su cinque figli senza nessuno di questi lussi e forse, se non fosse stato per Hitler, la guerra e la prosperità generale, dovrebbe farne ancora a meno. Tempo di vestirmi e uscire a dare un’occhiata a come si presenta il territorio, preparare la colazione. Provo a mettermi gli scarponi ma con il freddo sono diventati due pezzi di 16


ferro. Accendo il fornello e li passo sopra la fiamma finché non si ammorbidiscono quel tanto da riuscire a incastrarci dentro i piedi. Infilo il giubbotto ed esco. Nel centro del mondo, l’ombelico di Dio, il Paese di Abbey, la rossa terra desolata. Il sole non è ancora sorto, ma ci sono evidenti segnali del suo prossimo avvento. Nuvole color lavanda veleggiano come una flotta di navi nell’alba verdolina. Ogni nuvola, appiattita dal vento, ha una base d’oro fiammeggiante. A sudest, a poco più di trenta chilometri in linea d’aria, si stagliano le vette della Sierra La Sal, fra i tremilacinquecento e i quattromila metri sul livello del mare, coperte di neve e rosate nella luce del mattino. L’aria è secca e limpida tanto quanto è fredda; gli ultimi banchi di nebbia rimasti dall’ultimo temporale della notte solcano il cielo come fantasmi e svaniscono nel nulla di fronte al vento e al sorgere del sole. Con lo sguardo posso spaziare senza ostacoli in ogni direzione, eccetto a ovest, dove il terreno sale e l’orizzonte è lontano solo poche centinaia di metri. Guardando in direzione delle montagne vedo la buia gola del fiume Colorado scavata nella mesa di arenaria e distante non più di sei o sette chilometri, anche se non riesco a scorgere il fiume. In direzione sud, sulla sponda più lontana del fiume, tra pareti di roccia alte centinaia di metri, c’è la valle di Moab, e da qualche parte nella piana anche l’omonima cittadina, troppo piccola per riuscire a vederla da qui. Oltre la valle di Moab ci sono altri canyon e un altopiano che si estende fino alle Blue Mountains quasi ottanta chilometri verso sud. A nord e a nordovest vedo i Roan Cliffs e i Book Cliffs, che formano lo Uinta Plateau. Alle loro pendici, a una cinquantina di chilometri circa, invisibile da dove sono ora, corrono in direzione est-ovest la U.S. 6-50, una grossa arteria commerciale, di traf17


fico e spazzatura, e il tratto principale della linea ferroviaria Denver-Rio Grande. Verso est, nella luce del sole che poco alla volta si diffonde, ci sono altre mesa, altri canyon, altre pareti rocciose e aridi altopiani che si estendono nella foschia violacea sopra la curva sporgente del pianeta fino alle catene montuose dello Stato del Colorado. Un mare di deserto. All’interno di questo vasto perimetro, in primo e in secondo piano nel quadro, il mio dominio personale, ci sono i 13.000 ettari dell’Arches National Monument, di cui sono l’unico abitante, usufruttuario, osservatore e custode. Che cosa sono gli Arches? Dalla mia posizione di fronte alla roulotte vedo buona parte del centinaio – o forse più – che sono stati censiti nel parco. Sono archi naturali, fori nella roccia, finestre nella pietra; non ce n’è uno uguale all’altro, sono diversi per forma e dimensioni. Possono essere buchi abbastanza ampi da permettere a una persona di passarci in mezzo, oppure aperture che potrebbero contenere la cupola del Campidoglio. Alcuni assomigliano al manico di una caraffa, altri a un arco rampante e altri ancora a ponti naturali, ma con questa distinzione tecnica: un ponte naturale attraversa un corso d’acqua, un arco naturale no. Gli archi si sono formati nel corso di centinaia di migliaia di anni in seguito all’erosione delle enormi pareti di arenaria, o pinne, in cui si trovano. Non sono l’opera di una mano cosmica, e nemmeno sono stati scolpiti da venti carichi di sabbia – come a molti piace credere – ma si sono originati e continuano a originarsi attraverso la modesta azione di cuneo della pioggia, dello scioglimento della neve, della brina e del ghiaccio, e con l’aiuto indispensabile della gravità. Il loro colore va dal bianco sporco al rosso, passando per il camoscio, il rosa e il marrone, tonalità che cambiano anche in base al momento della giornata e agli umori della luce, del tempo, del cielo. 18


Mentre fisso questo spettacolo mostruoso e disumano di roccia e nuvole, cielo e spazio, mi sento pervadere da un assurdo senso di avidità e possesso. Voglio possedere questo paesaggio, abbracciarlo intimamente, profondamente, totalmente, come un uomo desidera una donna bellissima. Un desiderio folle? Forse no. Almeno non c’è nessun altro – nessun essere umano – a contendersi il possesso con me. Il terreno coperto di neve riflette il cielo e l’alba incipiente e brilla di una lieve luce azzurrina. La stretta strada sterrata, un seducente sentiero primitivo nel nulla, si allontana da me e scende zigzagando lungo il pendio verso il cuore del labirinto di pietra nuda. Vicino al primo gruppo di archi si profila minacciosa sopra una curva nella strada una roccia in equilibrio alta circa quindici metri e montata su un piedistallo di eguale altezza. Assomiglia alle teste dell’Isola di Pasqua, a un dio di pietra, a un orco pietrificato. Un dio? Un orco? Se c’è una cosa che desidero sopprimere in me, evitare completamente, è proprio la tendenza a personificare la natura. Non sono qui soltanto per evadere dal chiasso, dall’oscenità e dalla confusione dell’apparato culturale, ma anche per confrontarmi, se possibile in modo diretto e immediato, con la carne viva dell’esistenza, con il primitivo e il basilare, con il fondamento che ci sostiene. Voglio essere in grado di osservare un albero di ginepro, un pezzo di quarzo, un avvoltoio, un ragno, e guardare loro dentro, vederli per come sono in se stessi, liberi da tutte le qualità attribuite dall’uomo, anti-kantiano, liberi anche dalle categorie della descrizione scientifica. Voglio guardare in faccia Dio o la Medusa, anche se dovessi mettere a repentaglio quanto di umano c’è in me. Sogno un misticismo spietato e brutale in cui il sé, nudo, si fonde con il mondo non-umano eppure riesce a sopravvivere: intatto, individuale, separato. Paradosso e fondamento. 19


Tra pochi minuti il sole sarà alto nel cielo e non ho ancora cominciato a preparare il caffè. Prendo il resto dei bagagli dal pick-up, la scatola con i viveri e il pentolame, torno alla roulotte e faccio colazione. In un posto come questo basta respirare perché aumenti l’appetito. Il succo d’arancia è ghiacciato, il latte una specie di granita. Nella roulotte è ancora così freddo che il mio fiato si trasforma in vapore. Proprio mentre i primi raggi del sole colpiscono le pareti di roccia, con una tazza di caffè fumante tra le mani mi siedo sull’ingresso di fronte al sole, affamato di calore. Il globo fiammeggiante arriva all’improvviso, risplende sui pinnacoli, i minareti e le rocce in equilibrio, sulle pareti dei canyon e tra le finestre nelle pinne di arenaria. Io e il sole ci salutiamo, io da una parte e lui dall’altra dei 145 milioni di chilometri di nero vuoto che ci separano. Tra noi luccica la neve, milioni di diamanti che quasi feriscono gli occhi. Tra un’ora la neve esposta al sole si scioglierà e resterà la roccia umida e fumante di vapore. Nel giro di pochi minuti – anzi, la vedo – la neve comincerà a gocciolare dai rami del ginepro qui vicino, gocce d’acqua già scendono strisciando lentamente lungo i fianchi della roulotte. Non sono solo, dopotutto. Tre corvi volano in cerchio vicino alla roccia in equilibrio, gracchiano l’uno contro l’altro e in direzione dell’alba. Sono sicuro che gioiscono del ritorno del sole quanto me e vorrei conoscere il loro linguaggio. Preferirei scambiare qualche idea con gli uccelli sulla Terra prima di stabilire una comunicazione intergalattica con qualche oscura razza di umanoidi su un pianeta satellite del mondo di Betelgeuse. Le cose importanti innanzitutto. I corvi strillano con voci rauche, sbattono le ali neroblu contro il cielo dorato. Alle mie spalle sento arrivare lo sfrigolio e il profumo del bacon in padella. Ecco com’è stata questa prima mattina. 20


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