Dissimulatio

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Gennaio 1647, in una stazione di posta alle porte di Parigi

«Se mi permettete una domanda, monsire Nodeo…» Mentre arrischiavo quelle parole, mi sporsi col busto verso il mio interlocutore, per sussurrargli all’orecchio. Stava sonnecchiando, col mento e i gomiti appoggiati alla borsa di rigido cuoio che aveva in grembo, e non lo volevo svegliar di soprassalto. Stavano calando le ombre della sera. La sala della stazione di posta era a malapena rischiarata dalle candele e dal magro fuoco del caminetto, e attendevamo il cambio dei cavalli. Tutti erano stanchi e nervosi; eravamo ormai a un passo da Parigi, ma se i nuovi destrieri non arrivavano in tempo, avremmo dovuto trascorrere la notte in quella stamberga. «Prego, chiedete pure, signor secretario», mi rispose Nodeo, aprendo un occhio e tenendo l’altro ben serrato. «Ebbene monsire Nodeo, forse voi, che siete il bibliotecario del cardinal Mazzarino, sapete qualcosa di questa benedetta opera in musica, per la quale siamo stati tutti convocati, e che invece pare non sia stata ancora neanche scritta? Il mio signorino Atto si angustia perché non capisce come mai Sua Eminenza il cardinal Mazzarino abbia radunato a Parigi con tanta impazienza lui e molti altri musici. E inoltre…» Al suo solito, il bibliotecario del Cardinale m’interruppe con una citazione: «Vi risponderò con una frase che appresi quando studiavo all’università di Padova: Hai per le mani un lavoro pieno di pericoli, e avanzi sulla brace ardente nascosta sotto cenere insidiosa, come diceva Ovidio». «Non Ovidio. Orazio, nei Carmina», lo fermò una voce proveniente dalla penombra. «Come? Ah sì, Orazio, grazie caro Arduino», si rettificò il biblio-


tecario, il cui più vistoso talento stava nello sbagliare di continuo le citazioni, che pure distribuiva generosamente in tutti i suoi discorsi. A correggerlo era stato un altro nostro compagno di viaggio. Era il libraio Arduino, seduto a poca distanza da Nodeo. A Parigi Arduino, di origini bretoni, commerciava in libri. Anche questa volta, come spesse altre, aveva colto in fallo Nodeo. «Ad ogni modo», riprese quest’ultimo, «intendevo dire che ci muoviamo su un terreno malcerto e infido, mio caro secretario.» Aveva sottolineato la chiusa del discorso con un’espressione grave e allusiva, che poteva voler dire tutto e il suo contrario. Dopodiché si voltò, e riprese a sonnecchiare. Era chiaro: neppure Gabriello Nodeo, bibliotecario del cardinal Mazzarino, che aveva in mano le redini del Regno di Francia, aveva la più pallida idea di quanto stava succedendo. Cosa avrei raccontato al mio signore, il Granduca di Toscana, nella missiva che egli s’attendeva da me al più presto? Ero dolente e sfinito. Eppure in quella sala gelida e semioscura avrei dovuto sentirmi felice: il signorino Atto Melani e io stavamo finalmente per giungere, dopo lungo e periglioso itinere, alla Corte di Francia. Alla stazione di posta ci era venuto incontro un messo di Sua Eminenza, per certiorarsi della nostra buona salute e accompagnarci durante l’ultimo tratto di strada. Tutti gli altri musici e cantanti, aveva detto il messo, si trovavano già da molto tempo a Corte. La mia missione entrava dunque nel vivo. Ero stato comandato dal Granduca di Toscana nostro gran sire, Ferdinando de’ Medici, di sorvegliare a Parigi il ventenne castrato dall’ineguagliabile talento, la cui carriera era protetta e sostenuta dall’intera famiglia del Granduca, tra cui Mattias de’ Medici, governatore di Siena e fratello cadetto del Granduca. Eravamo partiti dal Granducato di Toscana in nutrito drappello. Con noi aveva viaggiato anche il maestro di Atto, Marc’Antonio Pasqualini detto il Malagigi, il cantore più celebre e celebrato d’Italia, anch’egli castrato e in servizio alla Cappella Pontificia di Roma. Con enorme ritardo eravamo giunti in vista di Parigi, provati da un’estenuante traversata per mare, durata il doppio del previsto, e


dal duro gelo invernale. Dopo lo sbarco al porto militare di Tolone, ov’eravamo giunti grazie all’ausilio dell’armata navale francese, avevamo cercato di ricuperare il ritardo con una sfiancante marcia a tappe forzate verso la capitale. Già al momento dello sbarco a Tolone, Sua Eminenza ci aveva fatto trovare ogni sorta d’ausilio, acciocché potessimo raggiungerlo al più presto. A quel punto la nostra compagnia si era divisa in due. Una parte del gruppo, tra cui noi stessi, aveva approfittato dei mezzi messi a disposizione dal Cardinale per volare verso Parigi; chi invece non aveva la nostra stessa fretta, aveva preferito restare indietro e procedere a ritmi meno spossanti (così aveva fatto ad esempio l’anziano Caspare Scioppio, venerabile filologo todesco, sfiancato dalle fatiche del viaggio per mare). Tra coloro che avevano proseguito con noi c’era il libraio Arduino: era desideroso di rientrare a casa per vedere il suo figlioletto, la cui nascita, prevista attorno a Natale, doveva ormai essere avvenuta da un pezzo. Per dominare l’emozione, da qualche giorno Arduino teneva senza posa tra le labbra una pipa, i cui sbuffi odorosi quella notte avevano riempito d’una gradevole fragranza boschiva la sala della stazione di posta. Impaziente di ritrovare la famiglia che lo attendeva a Parigi, il libraio bretone era sveglio e arzillo e aveva già annunziato che, se non fossero giunti a tempo i nuovi cavalli da tiro, si sarebbe accontentato di una cavalcatura più modesta per galoppare verso i suoi cari nel gelo di gennaio. A lui si era associato Nodeo, il bibliotecario di Mazzarino, malgrado paresse allo stremo delle forze. Prima di salpare con il nostro gruppo dalla Toscana, aveva passato un lungo periodo a Firenze, dove aveva svolto per il Cardinale un incarico assai delicato: s’era fatto approntare una copia fedele della famosa Bibbia del Guttembergo, uno dei pezzi più pregiati della biblioteca di Sua Eminenza e sembrava ansioso di portare a compimento la sua missione senza ulteriori indugi. Nodeo s’era di nuovo appisolato. Provai dunque a pungolare Arduino: «Insomma», dissi un po’ abbattuto, «ci sarà stato pure un motivo, per farci venire fin qui». «Caro signor secretario», rispose il libraio, «anche se la cosa non


mi riguarda personalmente, mi sono interrogato quanto voi. Lo abbiamo detto e ripetuto già molte volte: il Cardinale ha fatto accorrere a Parigi una schiera numerosa di rinomati cantanti, castrati e non, convocati d’urgenza da ogni angolo d’Europa. Per averli, ha speso una fortuna. Ha scomodato le corti di Venezia, Firenze, Bologna e Modena, l’imperatore d’Austria, e perfino il Papa! Come se non bastasse, ha assoldato Rossi, Torelli e Buti, che da soli costano forse più di tutti gli altri musici messi insieme.» Era vero. Non solo Mazzarino aveva raccolto un’armata di ottimi cantanti, ma anche artisti di fama illustre: il maestro Luigi Rossi, che avrebbe dovuto comporre le musiche dell’opera; l’inventore di scene, celebre Jacopo Torelli da Fano, mago delle macchine teatrali; e infine l’abate Buti, incaricato di scrivere i testi. «Che dire?» concluse Arduino. «Se davvero l’opera in musica non si fa, e si organizza un balletto senza cantanti, con i duchi d’Anghino e d’Orléans com’avete udito voi, ebbene, allora io temo che Mazzarino sia impazzito, e questo vostro peregrinar in Francia, con tutti i suoi pericoli e le sue inaudite fatiche, è stato vano. Ma non chiedetemi altro, signor secretario, perché tutto ciò che so di questa bizzarra storia me lo avete riferito voi stesso e gli altri compagni, e io, che non ho padroni potenti come i vostri, e sono solo un povero libraio, da tutto ciò davvero non posso trarre conclusioni, né consiglio alcuno.» E si ritirò nella penombra, sbuffando abbondantemente dalla sua pipa. Arduino aveva ragione. Che ne poteva sapere lui delle imperscrutabili manovre di Sua Eminenza, concepite nell’oscura officina alchemica dell’alta politica? Ripercorrevo con la mente tutto l’itinerario, montavo con l’immaginazione su un uccello gigante che mi portava dal Granducato di Toscana alla Francia, per terra e per mare, e poi indietro a Firenze, e quindi nuovamente dalle coste toscane a Parigi, ripetendomi tutto ciò che sapevo, cercando inutilmente di trovarvi un senso; e appena finito, insoddisfatto, ricominciavo da capo.


Atto e io eravamo stati convocati in tutta fretta appena due mesi prima, a novembre. Da Parigi il maestro Luigi Rossi aveva scritto ad Atto, che in passato era stato suo allievo, per informarlo che il Cardinale lo reclamava a tutti i costi in Francia, e che aveva già da lunghi mesi avviato le trattative con i Medici, padroni e protettori di Atto, perché gli concedessero benigna licenza di partire. La chiamata di Mazzarino era rivolta anche all’altro maestro di Atto, il Malagigi, ch’era il castrato più in voga del momento. Ai primi di dicembre tuttavia, pochi giorni innanzi la nostra partenza, si erano avute segretissime missive dalla Francia, che portavano notizie di tutt’altro tenore. Luigi Rossi, in grand’allarme, informava Atto e il Malagigi che Sua Eminenza il cardinal Mazzarino stava tenendo lui stesso e il librettista Buti, nonché svariati altri musici, senza far nulla di nulla. Mai, sin dal loro arrivo a Corte, s’era fatta parola di metter in scena un’opera, ch’era invece la cagione, almeno apparente, per la quale tutt’i musici italiani eran stati fatti imbarcare dai loro signori con tanta fretta alla volta di Parigi. Rossi era giunto da Roma alla corte di Francia ben nove mesi addietro, nel marzo precedente, e l’abate Buti addirittura a gennaio. Da quel momento non avevano mosso un dito: delle preparazioni per un’opera in musica non si vedeva l’ombra. Per Buti la cosa assumeva contorni tragicomici: il miserello inizialmente era stato ingaggiato da Mazzarino quasi con la forza, strappandolo al suo incarico di segretario del cardinal Barberini, nipote di Sua Santità. Ma altro che opera in musica! In pentola bolliva qualcosa di ben diverso: tutti s’attendevano per Carnevale, e lo davano per assolutamente certo, un balletto. Un gran spettacolo di danze in onore del duca d’Anghino, l’eroe della gloriosa battaglia di Rocroi, in cui i francesi avevano inflitto agli spagnuoli la più cocente sconfitta della loro storia. Il balletto celebrativo, a quanto si diceva, era stato pianificato da un intero anno! E mentre Rossi e Buti facevano girare i pollici, lo scenografo Jacopo Torelli vi stava “travagliando gagliardamente”: così aveva scritto Torelli stesso ai suoi contatti in Italia. Le sue


lettere erano diventate di dominio pubblico, la voce si era sparsa e alla fine era arrivata fino a noi. Le Cancellerie di mezza Europa, soprattutto quelle dei Principati italiani, avevano chiesto ai loro ambasciatori a Parigi di chiarire il mistero: perché Sua Eminenza, dopo aver chiesto tutti quei cantanti per un’opera, spendendo cifre colossali, supplicando ministri e Principi di lasciare in libertà i loro artisti, organizzava invece un balletto, dove i cantanti non avevano alcun posto? Che ci andavano a fare torme di soprani e di castrati, per di più in pieno inverno, nella fredda e lontana capitale gallica? Si trattava forse di una trappola? Da Parigi, gli ambasciatori di tutti i Principati avevano dato alle domande delle rispettive cancellerie la medesima risposta: dell’opera in musica non sapevano un bel nulla. Da un anno alla Corte di Francia non si rumoreggiava d’altro che del superbo ballo, previsto per il prossimo Carnevale e locupletato dall’ingegnose macchine di Torelli. Nei rapporti degli ambasciatori spiccava poi un dettaglio: il ballo avrebbe avuto tra i protagonisti il Signor Duca d’Anghino in persona! Costui avrebbe danzato innanzi a tutta la nobiltà di Corte, insieme col Signor Duca d’Orléans, altro personaggio di primissimo rango nella Corte. Non si trattava d’una stravaganza di gusto effeminato, come invece l’avrebbero considerata, tra risolini di scherno, i Prencipi italiani. Il balletto di Corte era tenuto in Francia nella più alta considerazione ed era ambito dall’intiera aristocrazia gallica. Poter ballare al cospetto del Re significava, per l’aristocrazia d’Oltralpe, non una semplice affermazione mondana, bensì esser ammessi a partecipare al governo del Paese! E quanto più s’era al centro dell’attenzione, saltellando leggiadri a destra e a manca, agghindati di piume e di nastri colorati, rapiti in teatrali movenze, tanto più si saliva nella gerarchia dei potenti del Regno. Valli a capire i francesi; ma così era. Questa dunque la situazione come l’avevamo appresa già al momento della partenza dalla Toscana. E nemmeno il messo che Sua Eminenza ci aveva mandato incontro adesso, alla periferia di Parigi, aveva potuto aggiungere altro. Il giovane araldo aveva


subito dichiarato di non aver ragguagli, e se anche li avesse avuti, non avrebbe potuto rivelare alcunché: il suo compito era sincerarsi della nostra salute, e condurci sani e salvi a destinazione. Punto. Per dar mostra di urbanità, e non irritarci troppo con la sua reticenza, il messo aveva regalato una pipa ad Arduino, che da allora ben contento la fumava senza posa. Ma niuna rassicurazione o confidenza. Il messo aveva tenuto la bocca chiusa come la lastra in marmo d’una tomba, e tutto ciò che da lui s’era ottenuto era la pipa di Arduino. Atto, il Malagigi e io andavamo dunque incontro all’ignoto. «E comunque, voi e il giovane Atto dovreste saperne più di me», osservò Arduino, «siete venuti a Parigi già due anni fa, per la Finta pazza.» «Sì», risposi, «ma allora non c’era stato alcun impedimento, anzi! Il Cardinale desiderava un’opera in musica, e un’opera in musica fu fatta. E poi il piccolo Atto aveva già cantato la Finta pazza a Venezia, al Teatro Nuovissimo, e la conosceva a memoria. Povero ragazzo! Alla Serenissima lo avevano fatto cantare in due ruoli diversi, e aveva appena quindici anni! Venne giù il teatro per gli applausi. Allorché Mazzarino lo chiamò per replicare a Parigi, lo spettacolo era pronto e rodato al meglio. In più, Torelli fece delle macchine meravigliose che lasciarono tutti a bocca aperta. L’unica grana si ebbe quando Sua Eminenza pretese a tutti i costi che Giulio Strozzi, l’autore dei testi, facesse un bel po’ di cangiamenti. Una cosa piuttosto uggiosa e complicata, anche perché non si è mai capito bene per qual cagione il Cardinale ci tenesse tanto.» «La Regina fu contenta dello spettacolo?» chiese Arduino. «Contenta? Era commossa fino alle lacrime! Quando Atto cantava le arie malinconiche, Sua Maestà si scioglieva in singhiozzi. Ma anche Sua Eminenza era raggiante. Stava in prima fila con Particelli…» «Particelli? È il Controllore Generale delle Finanze di Francia», commentò Arduino. «Proprio lui. E a fianco c’erano Cantarini e Cenami.» «I banchieri della Corona! I due uomini più ricchi del Regno…» «Esatto. E indovinate da dove vengono?»


«Questo a Parigi lo sanno tutti. Sono italiani, come Particelli.» «Esatto. Ma quello che molti ignorano è che Cantarini, Cenami e Particelli, oltre a essere imparentati tra di loro, sono originari di Lucca, in Toscana. Quindi i due maggiori banchieri di Francia e il Controllore Generale delle Finanze sono toscani, come Atto e il sottoscritto. Potete immaginare: mentre cantava, il mio ragazzo si sentiva quasi a casa sua.» «Intuisco dunque che sia contento assai d’esibirsi nuovamente a Parigi», concluse Arduino. «È in gran forma, e non vede l’ora di cantare», risposi. Mentivo. Il mio protetto, da quando aveva appreso della seconda convocazione a Parigi, era come in preda alla febbre. Atto, che non amava distoglier un solo minuto e un’unica nota della sua preziosissima ugola dalla ricerca della Fortuna, avrebbe preferito restarsene a casa in Toscana piuttosto che veleggiare verso l’ignoto. Tanto più che troppi, a suo gusto, eran i musici che il Cardinale aveva convocato presso di sé. Ci sarebbe stato posto per tutti sul proscenio? Oppure qualcuno avrebbe dovuto abdicare a un ruolo di primo piano, e contentarsi d’una particina, regalando alla gloria di Mazzarino il prestigio che accompagnava il proprio nome? Per la prima volta, inoltre, Atto avrebbe cantato innanzi alla Corona francese insieme al suo caro maestro, il grande Malagigi: cosa sublime e infernale al contempo. Il Malagigi era il castrato più bravamente laudato d’Italia, e dunque nulla e nessuno al mondo lo poteva superare, giacché l’Italia è la patria dei castrati, i castrati sono l’essenza del canto, e il canto è l’essenza della musica. Se dunque la misteriosa opera parigina si fosse alfine fatta, il regale pubblico francese avrebbe inevitabilmente raffrontato il talento di Atto con quello del Malagigi. L’allievo avrebbe superato il maestro? Oppure sarebbe stato marchiato per sempre come gregario? Per il giovane Atto Melani, orgoglioso come un leoncino e secreto come un rapace, covare questi dilemmi era come tenersi un ferro rovente infitto nel petto. In quei giorni avevo sovente scrutato di nascosto il mio protetto,


e intravedevo tra le pieghe del suo volto, in trasparenza, l’ombra livida di gravi cogitationi. Il Malagigi, il suo affezionato maestro, era lì con lui, ed egli tuttavia non si poteva confidare. Con quali parole, del resto? Signor maestro, promettetemi di non cantare troppo bene! Fate che la vostra parte non oscuri la mia! Al solo pensarci, un sorriso amaro mi torceva la bocca. Atto e Malagigi, entrambi castrati, dovevano esibirsi insieme per la più splendida Corte d’Europa, e non si scambiavano neppure una sillaba. A chi, come Arduino, mi chiedeva dei pensieri di Atto, rispondevo con la menzogna. Nessuno doveva sapere cosa s’agitava nel suo tenero petto, privo di crini ma folto di secrete tempeste. Il mio compito era proteggerlo; e non solo dai pericoli, ma anche dalla lingua affilata dei maliziosi. Gettai uno sguardo verso il centro della sala, dov’era piazzato un vecchio tavolo di noce. L’uno di fronte all’altro al lume d’un candeliere sedevano il mio Atto e il Malagigi. Si stavano ristorando con un po’ di vino cotto, ma senza rivolgersi sguardo. Atto infatti confabulava fittamente con qualcuno al suo fianco: una donna. Era l’unica dama che avessimo al seguito, la bella Barbara Strozzi. Compositrice e canterina da Venezia, anch’ella era attesa alla Corte di Francia in occasione dell’opera da allestirsi. Era la figlia di Giulio Strozzi, l’autore della Finta pazza che Atto anni prima aveva cantato a Venezia, e poi replicato a Parigi. Barbara era figlia d’arte: dal padre Giulio Strozzi aveva ereditato l’estro di scriver musiche, al quale però aggiungeva la splendida voce, il talento scenico, e forse anche altre doti. Ci si era presentata durante lo sbarco al porto militare di Tolone, ove si era unita a noi. Discorreva adesso fittamente con il mio giovine protetto, che pareva aver occhi solo per i di lei capelli crespi, il bell’ovale del volto, le spalle tornite, le forme abbondanti dei fianchi e dei seni, queste ultime attraversate e sottolineate dalla cinghia a tracolla della sua inseparabile sacca di tela cerata. Non arrivavo a udire le loro parole. Immaginai che l’argomento


che li impegnava fosse il medesimo con cui io m’intrattenevo con Nodeo: opera o non opera, Parigi o non Parigi. Il Malagigi li osservava di tanto in tanto, tacendo, al lume gracile delle candele mezzo consumate. Nodeo s’era nuovamente destato dal suo torpore. Aperse un occhio, lo richiuse, lo riaperse. Staccò il mento dalla borsa di rigido cuoio su cui era appoggiato, ruminò con le fauci, facendo schioccare la lingua, per sciogliersi la voce. Poi ricominciò a chiacchierare con un monotono borbottìo, riprendendo esattamente dal punto in cui s’era arrestato, come se non avesse mai interrotto il discorso. «E se ci troviamo su un terreno malcerto e infido, come dicevo prima, mio caro secretario», disse, «è perché i tempi sono difficili! Lo dicevo già sei anni fa, nel 1641, quand’ero ancora a Roma, al servizio del cardinal di Bagni, e nessuno mi prestava attenzione. La Francia è in guerra contro la Spagna e altre potenze europee da quasi trent’anni. Sua Maestà il Re è solo un fantolino di otto anni d’età. In sua vece, da tre anni regnano insieme la Regina madre Anna d’Austria e il cardinal Mazzarino, che è detestato dai francesi e soprattutto dall’alta nobiltà. Prima o poi, caro secretario, si arriverà al regolamento dei conti, questo lo sanno tutti. Per fortuna Sua Eminenza è uomo saggio e buono!» L’attesa si faceva quasi insopportabile; uscii all’aperto. Attorno alla stazione di posta, la campagna era coperta da un’umida coltre di nebbia. Nel silenzio della strada deserta si udivano solo il gracchiare dei corvi e il rumore ovattato di bauli da viaggio, trascinati da qualche servitorello. L’ultimo barlume diurno s’inabissava all’orizzonte. Santo Cielo, pensai, ma quando arrivano i cavalli freschi e strigliati che ci hanno promesso? Scrutai pensoso il cielo, lattiginoso e indecifrabile come il futuro che ci attendeva. Il mio cuore puntava verso Parigi, i piedi invece verso Firenze, verso la Toscana, per proteggere il giovane Atto dall’ignoto. Diamine, quando sarebbero arrivati i cavalli?


Quando tornai all’interno, nulla era cambiato. Atto conversava fitto con Barbara Strozzi, Malagigi rimaneva in disparte studiandoli di tanto in tanto, Arduino se ne stava seduto in silenzio, nell’ombra, avvolto nelle spire della sua pipa. Nodeo invece, appena si accorse ch’ero tornato a sedermi accanto a lui, riprese con disinvoltura il suo borbottìo sommesso: «Ed è una fortuna che il cardinal Mazzarino sia prudentissimo e buono. Sua Eminenza, infatti, gode presso la Regina madre di una predilezione personale. È questo che gli ha permesso non solo di diventare l’uomo più potente di Francia, ma anche il più saggio e avvertito. Dallo scranno che occupa, ha imparato a perfezione l’arte di sventare gl’intrighi e le cabale dell’aristocrazia. La nobiltà francese lo odia perché Mazzarino è scaltro, è amato dalla Regina madre e ha tutti i numeri per guidare le sorti della Francia fino a quando il piccolo re Luigi, quattordicesimo di questo nome, non sarà maggiorenne. Se non accadrà qualcosa prima d’allora, ovviamente». «E che cosa dovrebbe succedere?» «Non leggete le gazzette? La vita di Sua Eminenza procede su fil di lama! Appena la Regina lo ha nominato primo ministro era già pronto un complotto per assassinarlo. A Corte si aggirava un vero esercito di traditori: i duchi di Beaufort e di Guisa, il marchese di Châteauneuf, la duchessa di Chevreuse, il conte di Montrésor… criminali che vedrei bene nel Consiglio dei Dieci di Venezia, che spia, ricatta e uccide come io bevo un bicchier d’acqua. Avevano già cercato d’assassinar il cardinale di Richelieu, predecessore di Sua Eminenza. Alcuni di loro sono fuggiti all’estero, altri sono finiti per un po’ in carcere, altri ancora hanno subìto confische, questo è vero. Nondimeno, alla fin fine tutti hanno conservato la vita: Mazzarino li ha risparmiati. Tutti quanti, senza eccezioni. E quindi non hanno mai abbandonato l’idea di farlo fuori. Richelieu, al contrario di Sua Eminenza, non aveva esitato a far giustiziare il marchese di Cinq-Mars e il conte di Chalais, che avevan tentato d’assassinarlo. Sua Eminenza invece perdona tutti, il suo cuore è troppo magnanimo! All’università di Padova, dove ho studiato da giovane, tutti sapevano a memoria la famosa frase: Sia il principe lento a punire, veloce a premiare e


si dolga ogni qual volta è costretto ad essere duro. Così dettava la saggezza di Claudiano.» «Ovidio, non Claudiano.» Era la voce del libraio Arduino, nascosto dalla semioscurità della sala e dalla nuvola di fumo della sua pipa. «Ah be’, certo, volevo dire Ovidio», incassò Nodeo come nulla fosse. Arduino lo incalzò: «Monsire Nodeo, proprio non riesco a seguirvi. Ci assicurate che Sua Eminenza è uomo saggio. Ma nessun uomo saggio dormirebbe sonni tranquilli, sapendo in vita un’intera squadra di cospiratori che lo vuole veder morto. Non avete detto voi stesso che prima o poi si arriverà, tra Mazzarino e i nobili francesi, a un regolamento di conti?» La contestazione era assai pertinente; già durante il nostro lungo e periglioso viaggio per mare il libraio parigino aveva mostrato sagacia e chiarezza d’intelletto. «Capisco l’obiezione, amico mio», rispose Nodeo. «Ma conoscendo bene il Cardinale, posso testimoniare che dormirebbe peggio se avesse mandato a morte qualcuno. Sua Eminenza è eccessivamente buono e mite! Lo si vede dal suo motto preferito: Chi possiede il cuore, possiede tutto. Farsi amare, ecco l’unica aspirazione di Sua Eminenza!» «In Inghilterra c’è da sei anni una rivoluzione», obiettò nuovamente Arduino, «e in Europa da trent’anni la guerra. Il cardinal Mazzarino può ben far rotolare qualche testa in casa sua! Se poi non si sente amato e dorme male, si prenda un bel decotto di valeriana.» «Sua Eminenza sostituisce la spietatezza con una particolare prudenza, secondo l’uso della Corte Pontificia di Roma», ribatté Nodeo inarcando le sopracciglia con pretigna seraficità. «E comunque, egli ama la circospezione e il tatto. Ecco perché tiene riservati i propri disegni, anche quando questi riguardano cose apparentemente futili come l’allestimento d’un opera. Dovrebbe anzi usarne di più, di circospezione. E anche di tatto.» «Che intendete dire?» chiesi io. «Mi riferisco al balletto in onore del duca d’Anghino», si spiegò il bibliotecario, «del quale si parla da un anno, e non è ben chiaro


perché venga rimandato di continuo. Ora è previsto per il prossimo Carnevale.» «Lo so. Ma anche l’opera!» esclamai. «Infatti. Che accadrà? Non voglio neppure pensarci. I musici italiani non riceveranno di certo dai loro padroni il permesso di restare oltre la data fissata. È stato già così difficile per Sua Eminenza convincere i Prencipi italiani, compreso il Pontefice, a separarsi dai loro artisti!» «Forse a Carnevale verranno eseguiti entrambi gli spettacoli?» «È da escludersi», troncò Nodeo. «Troppo poco tempo per adattare il proscenio del Teatro Reale. Il vostro Torelli impiega mesi, e a buon diritto, per allestire le sue strabilianti macchine di scena.» «Non avete torto», dovetti convenire. «Il Cardinale mio padrone», disse ancora Nodeo, «pur essendo italiano, molto ha appreso sulle abitudini de’ francesi. Ma deve ancora convincersi che in Francia certe cose a tutta prima futili, come appunto un balletto, possono essere più importanti d’una seduta del Consiglio dei Ministri. E il balletto in preparazione è un’occasione che tutti attendono con ansia. Il duca d’Anghino è l’eroe del momento! Dopo aver trionfato contro gli spagnoli a Rocroi, ha scacciato l’esercito bavarese dal Reno, e appena un anno e mezzo or sono ha sconfitto bavaresi e imperiali ad Alerheim. Qualche mese fa ha conquistato Dunkerque. E poi è il Prencipe più cospicuo dopo Sua Maestà: egli è duca di Borbone, di Montmorency, di Châteauroux, di Bellegarde, di Fronsac, governatore del Berry, conte di Sancerre e di Charolais, Signore di Chantilly, Pari di Francia e Primo Principe del Sangue. Sapete cosa vuol dire questo? Egli è un Condé! E in effetti dovrei chiamarlo piuttosto principe di Condé, e non più duca d’Anghino, ora che suo padre è morto ed egli ne ha ereditato il titolo.» «Conosco il nome dei Condé. Sono Principi di sangue reale», commentai dopo aver udito l’impressionante lista di titoli. «Di più, di più! Come vi ho appena detto, i Condé sono i Primi Principi del Sangue! Questo significa che se la famiglia reale si dovesse estinguere, Dio non voglia, salirebbe al trono il principe di Condé. E il duca d’Anghino, pardon, il principe di Condé non solo


è il massimo Principe di Francia, tanto che per diritto di sangue siede nel Consiglio di Stato, ma è anche il più ricco. Insomma, per farla breve, non v’è nessuno a Corte e in tutta la Francia che sia più temibile del principe di Condé.» «Allora non capisco perché il Cardinale gli faccia l’affronto di rimandare continuamente il balletto in suo onore», ribattei pensieroso. «Non vi do torto, non lo capisco neppur io», concesse Nodeo, scuotendo il capo. «Tanto più che il Condé dovrà danzare da protagonista, al centro dell’attenzione di tutti, a sua maggior gloria! L’errore di Sua Eminenza il cardinal Mazzarino, se mai errore si può addebitare a un uomo del suo ingegno, è separare troppo nettamente gli affari di Stato dagli spettacoli di Corte. Io ne sono convinto: da italiano qual egli è, il Cardinale non s’avvede ancora che opere e balletti non sono affatto così futili come sembrano a prima vista. Qui da noi, in Francia, nei ballets de court vengono ammessi a ballare i Principi più potenti del Regno, come suggello della loro partecipazione al governo. Per un Principe della Corte, rimanere tra gli spettatori significa esser privato del potere che gli spetta di diritto. Vuol dire, insomma, cadere in disgrazia.» «Invece, in un’opera italiana, come quella per cui ci hanno convocati, non ci sarebbe alcun posto né per il Condé né per alcun altro de’ Principi francesi», osservai. «Esatto. La sola idea che i grandi del Regno debbano restare tutti nei palchi a guardare mi fa venire i brividi. Si rischierebbe l’incidente politico, capite?» ammiccò Nodeo. Mentre snocciolava le sue considerazioni politiche, il bibliotecario di Sua Eminenza aveva un’espressione per metà serissima, e per l’altra metà piuttosto divertita, quasi stesse parlando d’una gara di combattimento tra galletti, e non del braccio di ferro tra i nobili francesi e il primo ministro della Corona di Francia. La discussione pareva avergli restituito le forze; ora non aveva più un solo occhio aperto, bensì entrambi, e anche il suo eloquio s’era trasformato da borbottìo in sciolta parlantina. Stavo quasi per replicargli, quando improvvisamente la porta della sala d’attesa si aprì.


Un quartetto di facchini entrò nel locale sbuffando e imprecando; portavano a spalle due enormi bauli di legno nerastro. Li poggiarono a terra con una certa malagrazia e se ne andarono. Fuori si udì il rumore d’una carrozza, forse un tiro a quattro, il vocìo del postiglione in un breve alterco con i facchini, poi tornò la calma. Arduino uscì a chiedere se i cavalli freschi destinati a noi fossero arrivati. Rientrò deluso e imbronciato: nessuno ne sapeva nulla. «Alla luce delle vostre spiegazioni, monsire Nodeo», commentai con tono sconsolato, «non credo proprio che ci sarà alcuna opera.» Lanciai un’occhiata preoccupata al mio giovine pupillo e al suo maestro Pasqualini, riflettendo sul carattere pepato de’ castrati. Se l’opera saltava, Atto e il Malagigi avrebbero fatto fuoco e fiamme. «Aspettiamo d’apprendere le ultime nuove quando saremo arrivati a Corte», replicò il bibliotecario di Mazzarino. «Io stesso sono stato assente a lungo a causa di questo viaggio in Toscana, per ritirar la Bibbia del Guttembergo di cui avevo ordinato copia. Non affrettatevi a trarre conclusioni, mon ami! Sua Eminenza non parla con nessuno, ha sospeso le udienze. Egli è un novello Annibale: i pensieri che cova nel petto non li conoscono neppure gli abiti che ha indosso, come scriveva Sallustio.» «Tito Livio, non Sallustio», rettificò laconicamente Arduino dall’ombra. «Appunto, sì, Livio», si corresse imperturbabile il bibliotecario; poi abbassò il tono della voce, come per confidarmi qualche goloso segreto, e mi si accostò all’orecchio: «Con voi, mon cher, che siete suddito del Granduca di Toscana, posso essere sincero. Sua Eminenza è odiato dai francesi non tanto a causa del suo governo, ma perché è italiano. E di tale animosità non c’è da stupirsi, perché voi italiani, amico mio, siete abilissimi a carpire la fiducia dei regnanti, e a sfruttarla. Siete rapidi, scaltri, imprevedibili. Sapete anche esser feroci, ma solo quando agite da soli: per questo siete sempre in guerra l’uno con l’altro. I francesi invece sanno esser feroci solo quando si coalizzano. Allora sono implacabili. Ricordate la storia di Concino Concini?» Nodeo concluse con un risolino, e udii che Arduino gli faceva


eco, sogghignando a sua volta, con la pipa in bocca: evidentemente, il bibliotecario di Mazzarino non aveva parlato abbastanza sommessamente e il libraio aveva potuto udire le sue sibilate considerazioni. Constatata in tal guisa l’inadeguatezza della sua precauzione, Nodeo si staccò dal mio orecchio e riprese: «Il popolo francese, che all’occorrenza sa essere di straordinaria crudeltà, va aggiogato con grandissima prudenza. Ricordo a questo riguardo le mie prime letture di San Tommaso, quando studiavo all’università di Padova. Nei suoi commenti alla Politica di Aristotele, San Tommaso condanna la tirannide, epperò illustra anche i modi per conservarla il più a lungo possibile». «Pietro d’Alvernia», corresse Arduino. «Eh?» «Non era San Tommaso, ma Pietro d’Alvernia.» «Che sciocco, è vero», rettificò Nodeo, «Pietro d’Alvernia. Il quale però, ora che ci penso, era francese. Quindi conosceva bene il suo popolo! Egli insegnava giustamente che per conservare la tirannide è anzitutto opportuno uccidere quelli ch’eccellono in potenza o ricchezza, perché uomini di tal genere hanno i mezzi per insorgere contro il tiranno. In secondo luogo è opportuno uccidere i sapienti, perché grazie alla loro sapienza possono trovare le vie per scacciare la tirannide. Inoltre non si deve permettere che il popolo abbia buone scuole, perché in esse si attende alla vera sapienza e i sapienti sono magnanimi, hanno inclinazione a cose elevate, e tali uomini generosi facilmente insorgono contro il potere. Il tiranno deve poi indurre i sudditi a incriminarsi a vicenda e a creare scompiglio da loro stessi, cosicché l’amico sia discorde con l’amico, il popolo contro i ricchi, i ricchi tra di loro, e tutti contro i forastieri. Così divisi, i sudditi non avranno forza e neppure pensiero d’insorger contro il tiranno, troppo occupati a odiarsi tra essi. Bisogna poi imporre pesanti e numerosi tributi ai sudditi, onde renderli poveri con celerità, e indebolirli. Il tiranno però non deve rendersi abietto, ma simulare d’aver qualche eccelsa virtù che lo ponga al di sopra dei sudditi, così che i sudditi lo credano superiore a essi. I provvedimenti più odiosi, come i tributi, non rechino mai la sua firma, ma faccia parere che siano altri a farlo, o ch’egli vi sia


costretto da altri, magari da qualche nemico straniero. Infine la regola più importante: governare senza tentennamenti, se si vuol tenere soggiogato il popolo senza farsene sbranare. Altrimenti, mon ami, si fa la fine di Concino Concini.» Nodeo ridacchiò nuovamente, citando quel nome. Anche Arduino si lasciò sfuggire per la seconda volta un risolino sarcastico. Ero avvezzo a conservare il sangue freddo, ma la doppia allusione di Nodeo a Concino Concini, per le orecchie d’un toscano, era un colpo di sferza. Atto aveva udito? Mi girai verso il tavolo al centro della sala. Il mio giovane protetto sedeva ancora vicino a Barbara Strozzi, che in quel momento si stava aggiustando meglio sulle spalle la tracolla della sua sacca di tela. Ora però i loro conversari si erano fatti assai più intimi. I due volti s’eran vieppiù appropinquati, le mani erano sparite per intrecciarsi sotto al tavolo. No, Atto non aveva udito il nome di Concino Concini, per la Deo Gratia pensava a ben altro. Durante il viaggio aveva avuto già ampiamente modo e maniera d’usufruire, diciamo così, delle grazie di monna Barbara, a conferma delle dicerie di popolo secondo cui i castrati sono amatissimi dalle donne pratiche di piacere. «Comunque non temete, mon cher», mi consolò Nodeo ponendomi una mano sulla spalla, dopo aver notato il mio volto un po’ spaesato. «Sua Eminenza sa il fatto suo.» In quell’istante Arduino si alzò di scatto: eran venuti ad avvisare ch’erano disponibili cavalli da sella e dunque, chi lo desiderasse, avrebbe potuto raggiungere Parigi da solo senz’aspettare l’arrivo dei cavalli da tiro. «Attendetemi, vengo anch’io!» esclamò Nodeo e insieme infilarono l’uscita per andare a ispezionare i destrieri. Avviatisi in breve Nodeo e Arduino, restai a osservarli allontanarsi nella notte, indi mi avvolsi nel mantello e inspirai forte l’aria fredda che sapeva d’inverno, di fango e legna bruciata. Dei freschi cavalli da tiro neppure l’ombra. Ormai era chiaro, avremmo dovuto trascorrere la notte alla stazione di posta. Concino Concini: era italiano come Mazzarino, come me e Atto.


Trent’anni prima, l’allora sovrana di Francia (Caterina de’ Medici, anche lei italiana di nascita) aveva concesso a Concini tale ricchezza e influenza che gl’invidiosi nobili francesi avevano deciso di eliminarlo. Dopo averlo ammazzato a spingardate avevano consegnato la salma al basso popolo, mandato al rogo la moglie di Concini ed esiliato il figlio, dopo avergli confiscato tutti i beni. La plebaglia parigina aveva appeso il cadavere nudo di Concini alla campana d’una chiesa e s’era posta in massa a suonare allegramente, lasciando così dilaniare il corpo di Concini dall’enorme batacchio della campana. Poi avevano tirato giù la carogna e l’avevano squartata con asce e mannaie. Infine avevano incendiato i resti sanguinolenti e distribuito le ceneri a pagamento ai più fanatici. Il resto era stato buttato nella Senna. Mazzarino rischiava di fare la stessa fine. E noi andavamo metter il dito proprio nella lotta mortale tra il Cardinale e gli spietati francesi. Cos’aveva detto Nodeo? Gli italiani sono feroci quando agiscono da soli. I francesi, quando sono in gruppo. E i francesi esecravano gli italiani. Due anni addietro, quando eravamo andati a Parigi per la Finta pazza, nel pubblico insieme a Mazzarino sedeva il gruppo dei finanzieri e banchieri più ricchi di Francia, zeppo d’italiani: Particelli, Cenami, Cantarini… Potevo immaginare con quale astio i francesi avessero visto i nostri connazionali assumere il controllo delle loro finanze. Col nostro arrivo a Parigi, nel bel mezzo della mischia, ci stavamo ficcando in trappola da soli. Come non averci pensato prima? Ah, tragica incoscienza! Nei nostri bagagli, prima di partire per un Regno straniero, avevamo infilato di tutto, eppure ci era scivolata via la cosa più importante: la prudenza politica. Essa infatti è simile a un Proteo, di cui è impossibile aver conoscenza certa se non dopo essere scesi in secreta senis, nei recessi del vecchio, e aver contemplato, con occhio fisso e sicuro, tutt’i suoi diversi movimenti, figure e metamorfosi in mezzo alle quali si trasforma all’improvviso in ispido cinghiale e atra tigre e drago squamoso e leonessa dalla fulva criniera, come dice Omero. Anzi no, pensai, è Virgilio.


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