Le ciccione lo fanno sempre meglio

Da capo. Grassa, con le prime rughe che arricciano lo sguardo. Senza un lavoro e senza sapere far quasi nulla.

Certo, so fare all’amore e bere, non in quest’ordine. Ma sono attività che non pratico professionalmente. Almeno per ora.

Io mi chiamo Alice, sono alta centottantacinque centimetri e peso molti chili, non so nemmeno quanti. Sono decisamente brutta. Ho passato la vita a Guazza del Re, un borgo selvaggio perso nell’umidità della bassa padana.

Specchi d’acqua affacciati al cielo, strade piene di erba e melma, spianate infinite di spighe secche, alberi solitari, improvvise e alte ciminiere. I miei genitori, completamente fulminati, mi avevano chiamata Alice in onore della favola. Mia madre, nel sonno perenne di una vita drogata da ansiolitici e psicofarmaci, rare liriche veglie, sperava di regalarmi così un mondo pieno di meraviglie, candidi conigli e lord inglesi.

Nomen omen per altri, ma non per me. Di favole ne ho viste poche.

Sono un mostro che alcuni nella stanchezza dell’alcova hanno definito meraviglia. Un incanto, un gioco. Sono stata oggetto di ammirazioni sghembe, splendori fatti di nulla e non destinati a durare a lungo. L’eiaculazione sentimentale precoce, per me, è sempre dietro l’angolo.

A Guazza del Re ho anche una sorella bellissima, Giorgia, e forse anche lei aveva bisogno di fuggire. Ha infatti avuto in sorte più o meno gli stessi uomini che ho avuto io, ma soprattutto le stesse sbronze.

Quando scappiamo lasciamo sempre dietro fantasmi.

Nel mio caso ho lasciato un morto vero. Non l’ho ammazzato io, sia inteso. Si chiamava Spartaco detto Bietola, in vita era lo scopatore del villaggio, noto per aver incrociato le carni con donne di intere famiglie, come la mia per esempio, dalla vegliarda all’adolescente.

Lo professava ieratica dal bancone del suo bar mia zia Elide, anche lei amata da Bietola brevemente sulle assi di una cavedagna. L’amore non si impara se non passa prima per uno stronzo, quando va di lusso; una serie di stronzi, nella norma; miriade di stronzi, quando proprio non si è capita la lezione. Nel caso di Guazza del Re, noi ne avevamo uno solo di stronzo a disposizione che faceva il suo dovere con tutta la popolazione femminile.

Non successe solo a me. Capita spesso, ancor oggi, di salire sull’unica corriera che attraversa la sola strada albina che taglia in due il paese, guidata da mio cugino Elvis, il mio promesso sposo lasciato all’altare, e trovarsi di fronte

a uno stuolo di occhi azzurri e riccioli biondo scuro, gli stessi colori del caro estinto. Quell’uomo, un saltafossi per la lunga marcito ancora prima di maturare, se l’è regalata così l’eternità. A suon di figli illegittimi, come i nobili del passato. Lo vedo ancora, ogni tanto, mi appare nitido come una visione e parla pure, in lingua corrente non dialetto, si preoccupa e mi dà consigli. Forse è loquace come una donna perché non ha più le pudenda lascive in mezzo alle gambe a cui badare. Il pene infatti è l’unica parte mancante nel fantasma. Forse è finito in paradiso.

Almeno spero. Lì gli angeli non hanno sesso, ben gli sta.

Sono fuggita dal mio paesello su una Mercedes regalatami da Giorgia, ascoltando una canzone di Madonna.

Scappata il giorno del mio matrimonio. Ho lasciato il mio bellissimo cugino di primo grado, Elvis, sul sagrato.

Sfortunatamente, mi aveva sempre amata, ma l’amore regalato ai mostri è di quelli bastardi, duri a morire, perché inspiegabili, dannati e dannosi. Non il solito crogiuolo di bisogni infantili, schifezze da adulti, passioni inespresse, che in genere porta diritto alla follia oppure, come capita spesso, a figliare entro i quarant’anni almeno due pargoli, comprare una casa di proprietà, accettare una sfilza di compromessi e accorgersi in genere troppo tardi che si è vissuti con un estraneo accanto, forse si ama un altro ma per una fottutissima paura che ci attanaglia dal primo vagito preferiamo comodissime vite scomode dotate di vacanze low cost, delle quali lagnarsi con l’amante di

turno. Esistenze dove si è sussultato poco, mangiato male, sbadigliato spesso ma, alla fine, stati comodi. È sempre una patta. Con la cerniera arrugginita.

Scappando sono finita di fronte al mare, un lido deserto e scalcinato, una spiaggia sonnolenta, lunga, piena di alghe. Sono stanca, la benzina è esaurita, la macchina ha tirato gli ultimi colpi. Sempre sola, ecco il sunto della mia vita. Della vita che ho voluto, alla fine. Mia zia Elide diceva «Meglio male accompagnate che sole»: non ho mai dato retta a quella saggia donna.

Avevo ancora addosso il mio abito da sposa. Pure il velo. Entrai così in un bar di periferia.

I bar ai margini delle città sono uguali in tutto il mondo. Ci sono vecchietti, extracomunitari, poche scalcinate donne, bicchieri e bottiglie, sguardi stanchi, parole rabbiose, zanzare che pungono, slot machine piene di disperazione e spiccioli. Una volta bisognava almeno andare in un casinò per farsi fottere alla grande, ora basta entrare in un bar.

Mi guardarono sconvolti. La gente mi ha sempre fissata strano da quando sono nata. Non è solo paranoia da sovrappeso. In genere chi è grasso o portatore di un qualsiasi difetto fisico chiede scusa per ogni respiro. Ci vogliono tempo, una buona dose di autocoscienza e cavolate assortite per smettere di farlo. Poi sono cazzi amari per tutti. Presi un superalcolico lasciato incustodito sul bancone, brancicai la bottiglia, la scolai davanti agli av-

ventori stupiti. Avrei detto una delle mie frasi: «Ha una dolcezza da froci, però fa il suo lavoro», ma indossavo l’abito da sposa, senza anello al dito, e un certo contegno lo dovevo mantenere.

Caracollai fino alla macchina. Lo vidi. Bietola. Sempre in versione angelo senza pisello. «Ma guarda dove sei finita. Quel vestito, orribile.»

«Dimmi Spartaco.»

«No, scusa, ma tra tutti i posti dove dovevi finire, dopo quello che hai passato, proprio questa strada ti sei scelta?

Non hai pensato a me?»

«A te?»

«Certo a me. Non lo sai che sono costretto a seguirti fino a che non troverai il Vero Amore?»

«Ti è andata male con l’eternità.»

Non è possibile. Ma ha un senso. Chi poteva essere il mio angelo custode o Fata Madrina se non un vecchio alcolizzato, morto ubriaco mentre saltava una pira di bancali durante una festa, scopatore indefesso, uno che l’unica cosa buona fatta nella vita era quella di lanciare ami nell’acqua per cercare di acchiappare pesci?

«Proprio qua dovevi finire? E poi che facciamo?»

«Colpa della benzina.»

«Già. La benzina finisce sempre.»

«Non sapevo dove andare.»

«Spesso non si sa dove andare, ma si cerca una direzione, anche qualsiasi.»

«Non sono capace di tenere la rotta.»

Da vero marinaio mi avvolsi in un cumulo di reti da pesca lasciate a marcire sulla spiaggia. Sentivo l’odore delle alghe secche nelle narici. Il sale mi stava già corrodendo la pelle. L’alcol fece davvero il suo dovere e cominciai a cadere nell’oblio. E se fossi stata la sirenetta?

Proprio quella della favola, mi risvegliavo sulla spiaggia con le gambe dopo aver dato la mia voce alla strega per incontrare il principe.

Sera. Era buio persino il mare. Sentivo solo le onde, il mio respiro e l’odore marcio delle alghe. La mia macchina ormai era arenata nella sabbia. Mi misi sulla strada. Non sapevo perché. Qualcuno arrivava sempre. Camionisti.

Gente di passaggio. Una grassona con i capelli rosso rubino vestita da sposa attirava. Una cosa che avevo capito troppo tardi era che gli uomini sono sessualmente curiosi, di tutte.

Noi donne abbiamo un ideale di bellezza troppo complesso, volutamente irraggiungibile, artefatto. Per forza, dobbiamo farci concorrenza. L’uomo ha essenzialmente un solo canone: «Sarà una grandissima scopata».

Imparato a trasmettere questo raffinato messaggio, e non per forza vestite da troie, in genere si diventa belle per qualcuno. Le mie orecchie avevano sentito complimenti che nemmeno la pubblicità di una crema di bellezza potrebbe ripetere. Ero stata paragonata a dee, principesse, streghe, fate. Darla rende sempre più belle agli occhi altrui.